Futuro - Marc Auge

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Presentazione Nel mondo che conosciamo l’idea di futuro è ipotecata dalle carenze e dalle paure del presente. Sul futuro proiettiamo speranze di riscatto e attese di progresso; dal futuro temiamo qualche apocalisse. Forse, però, esiste un modo meno pregiudicato di guardare al tempo che verrà, liberandolo dai tanti chiaroscuri che finora si sono rivelati solo dei gravami, senza propiziare o sventare alcunché. Dopo tutto, il mito del futuro è speculare a quello delle origini. Da antropologo, Marc Augé ha dimestichezza con una pluralità di luoghi e di tempi, e proprio per questo sa riconoscere i nonluoghi e il nontempo che ogni giorno attraversiamo. Chi, come lui, è abituato a confrontarsi sia con la pienezza sia con la bassa intensità di senso, ragiona sul futuro da una prospettiva diversa: è l’eccesso di visione, di rappresentazioni precostituite che impedisce di concepire il cambiamento a partire dall’esperienza storica concreta. Con un vero colpo d’ala, Augé coniuga scienza e futuro, ossia rimette in onore l’aspetto della scienza che più si discosta dalla tracotanza e dalla dismisura, e dai loro guasti planetari. Solo la sistematica messa in dubbio delle nozioni di certezza, verità e totalità permette infatti di rompere il cerchio magico che appiattisce l’avvenire su un eterno, allucinato presente. Marc Augé, tra i maggiori africanisti dei nostri tempi, negli ultimi vent’anni è diventato una figura di riferimento anche per un’antropologia della tarda modernità. Tra i libri tradotti in italiano: Un etnologo nel metrò (1992), Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (1993), Il dio oggetto (2002), Poteri di vita, poteri di morte. Introduzione a un’antropologia della repressione (2003), Il metrò rivisitato (2009), Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo (2009), Per un’antropologia della mobilità (2010) e Diario di un senza fissa dimora. Etnofiction (2011). Presso Bollati Boringhieri ha pubblicato: Disneyland e altri nonluoghi (1999), Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia (2000), Finzioni di fine secolo, seguito da Che cosa succede? (2001), Genio del paganesimo (2002), Diario di guerra (2002), Rovine e macerie. Il senso del tempo (2004), La madre di Arthur (2005), Il mestiere dell’antropologo (2007), Casablanca (2008), Il bello della bicicletta (2009) e Straniero a me stesso. Tutte le mie vite di etnologo (2011).

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«Bisogna rivolgerci al futuro senza proiettarvi le nostre illusioni, dar vita a ipotesi per testarne la validità, imparare a spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto: è questo che ci insegna la scienza, è questo che ogni programma educativo dovrebbe promuovere e che dovrebbe ispirare qualsiasi riflessione politica».

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«Il futuro è il tempo di una coniugazione, il tempo più concreto della coniugazione, se è vero che il presente è inafferrabile, sempre travolto dal tempo che passa, e il passato sempre oltrepassato, irrimediabilmente compiuto o dimenticato. Il futuro è la vita che si vive individualmente».

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«Rispetto al futuro ci collochiamo come individui mortali, affettivi, con legami personali, come ricercatori o militanti, ma sono anche concepibili molte altre posizioni e ogni individuo può occuparne diverse simultaneamente. Ci collochiamo anche, e ciò non ha minore importanza, come esseri già implicati nel tempo, cioè in modo diverso a seconda che siamo giovani o vecchi: l’attesa, la speranza, l’impazienza, il desiderio o il timore non rimangono gli stessi nelle differenti età della vita».

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© 2012 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86

Gruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-339-7122-3

Schema grafico della copertina: Bosio.Associati

www.bollatiboringhieri.it

Prima edizione digitale marzo 2012

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1. Futuro individuale e futuro collettivo Questo libro parla del futuro. Il futuro non è l’avvenire. L’avvenire è un concetto abbastanza miope che tendiamo a proiettare su collettività indifferenziate («quale avvenire lasceremo noi ai nostri figli?»), quando parliamo, ancora una volta in maniera indifferenziata, delle nostre presunte mancanze («siamo noi i responsabili dell’avvenire dei nostri figli») o delle nostre speranze («l’avvenire è la scienza»). Il futuro è il tempo di una coniugazione, il tempo più concreto della coniugazione, se è vero che il presente è inafferrabile, sempre travolto dal tempo che passa, e il passato sempre oltrepassato, irrimediabilmente compiuto o dimenticato. Il futuro è la vita che si vive individualmente. Il futuro ha a che fare con l’evidenza ma noi continuiamo a dubitare dell’avvenire. Infatti, ciò che definisce etimologicamente l’avvenire è l’«avvenimento». È ciò che dà un contenuto al futuro, ciò che avviene. Per questo può suscitare tutte le speranze e tutte le paure. Esistono società in cui l’avvenimento, come pura contingenza, è insopportabile: lo si interpreta per ripiegarlo sulla struttura, per farne un’espressione normale e prevista dell’ordine delle cose. L’infelicità in generale e la malattia in particolare sono oggetto di indagini che mirano a scoprire i colpevoli, ma soprattutto a riaffermare l’esistenza di una norma immutabile: ecco perché le loro antropologie (se con questa parola intendiamo un insieme coerente di rappresentazioni elaborate nel tempo e trasmesse di generazione in generazione) integrano in anticipo nella definizione della persona, del corpo, della filiazione e del matrimonio, quegli elementi di interpretazione che, eventualmente, permetteranno di spiegarne le apparenti perturbazioni come altrettante espressioni indirette della norma. L’insieme costituisce un «libretto di istruzioni» che l’etnologo raccoglie pezzo dopo pezzo, ad esempio nei capitoli dedicati alla parentela, al concetto di persona o alle credenze nella stregoneria. Ma la concezione «persecutoria» del male connessa a questo tipo di interpretazione (se qualcuno soffre o muore, qualcun altro deve per forza esserne la causa), anche se si attesta in maniera più spettacolare nei gruppi umani in cui l’individuo è strettamente, sostanzialmente e strutturalmente incorporato alla collettività, è solo una delle modalità attraverso cui le società umane nel loro complesso tentano di rendere conto dell’avvenimento, inserendolo in un ordine logico e cronologico. Del passato non si fa mai tabula rasa, né sul piano individuale né su quello collettivo. Anche se riguarda l’individuo, l’avvenire ha sempre una dimensione sociale: dipende dagli altri. Tutti gli episodi che costituiscono le diverse «tappe» della vita di un individuo (un esame, un concorso, un’assunzione o un matrimonio) dipendono in larga misura dagli altri e inseriscono questo stesso individuo, in maniera più stringente, nella rete dei doveri collettivi. Talvolta diciamo che qualcuno «costruisce» il proprio avvenire ma, in realtà, anche altri partecipano a questa impresa, che è primariamente una manifestazione della vita sociale. Al contrario, oggi parliamo di «esclusione» sociale a proposito di quegli uomini e quelle donne che, almeno in apparenza, non hanno nessun «avvenire», che se ne indignano e protestano, perché vivono il fatto di essere confinati in un presente così misero e senza fine come l’equivalente di una condanna a morte. «Futuro» e «avvenire» sono dunque due espressioni della solidarietà essenziale che unisce individuo e società. Un individuo totalmente solo è inimmaginabile, così come è insopportabile un futuro senza avvenire. Inversamente, però, il fatto di subordinare un individuo alle norme collettive e la sua vita futura all’avvenire di un gruppo è tipico del totalitarismo. Il radioso avvenire che un tempo veniva promesso alle masse popolari era un’idea contraddittoria e irrealizzabile: implicava, infatti, che il tempo si fermasse e dunque che il futuro – e l’individuo – scomparissero. In fondo, ciò che vale per l’avvenire vale anche per la felicità. La democrazia non ha come fine la felicità di tutti ma ha quello di crearne per tutti le condizioni di possibilità, eliminando le più evidenti cause di infelicità. Un avvenire auspicabile per tutti è quello in cui ognuno possa gestire liberamente il suo tempo e dare senso al futuro

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individualizzando il proprio avvenire. Al giorno d’oggi, le vere difficoltà della vita democratica dipendono dal fatto che le innovazioni tecnologiche di cui si serve il capitalismo finanziario hanno sostituito i miti di ieri nella definizione di felicità per tutti, e diffondono un’ideologia del presente, una definizione dell’avvenire avvenuto che, a sua volta, paralizza il pensiero del futuro. Ho scritto i paragrafi precedenti avendo in mente il vocabolario francese. In italiano, il termine «futuro» viene utilizzato là dove il francese parla piuttosto di avenir; ha un’estensione un po’ più ampia, mi sembra. «Avvenire», in italiano, è di uso più limitato. In entrambe le lingue, però, dobbiamo distinguere tra il futuro individuale e quotidiano, il futuro come evidenza intima, e il futuro collettivo e a più lungo termine, che è essenzialmente problematico. Ma questa distinzione implica anche una differenza di prospettiva: più puramente temporale nel caso di futur e di «futuro», più storica nel caso di avenir e di «avvenire» («avvenimento» = événement). Procederò qui, con un doppio approccio, a una doppia indagine. Innanzi tutto, mi interrogherò sulle due grandi modalità di rapportarsi con il futuro nelle diverse società umane – l’una che fa del futuro una conseguenza del passato: l’intrigo, l’altra che ne fa una nascita: l’inaugurazione –, che trovano le loro espressioni istituzionali e culturali. Mi interrogherò anche su come si siano trasformate queste modalità nell’epoca contemporanea. Singolare o collettivo, individuale o sociale, puramente temporale o storico (del resto, questi aspetti sono inscindibili), il futuro assume oggi una nuova dimensione e diverse forme. Suscita molte paure ma, visto che l’uomo, come creatura simbolica, non può vivere senza una certa coscienza degli altri e dell’avvenire, suscita anche attese ricorrenti, speranze e utopie. Ormai la nostra relazione con il futuro è caratterizzata dall’accelerazione dei «cambiamenti di umore» e dall’accentuazione di questo carattere bipolare, comune alle mentalità collettive così come alle sensibilità individuali. Come collegamento tra questi due momenti, cercheremo, sull’esempio di Flaubert e Madame Bovary, di esplorare la nozione di creazione, domandandoci più precisamente in quale misura un’opera letteraria possa anticipare il futuro o inaugurarlo.

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2. La messa in intrigo I legami tra la vita e lo spettacolo sono talmente stretti che qualche volta è difficile capire in quale direzione avvengano i prestiti di vocabolario. In origine, la parola «intrigo» si riferisce a una situazione complicata e imbarazzante; perciò è stata utilizzata a proposito delle relazioni amorose, degli affari politici e del teatro. Ci interessiamo all’intrigo di un’opera teatrale o di un film perché esso mette in scena un problema di cui attendiamo la soluzione: attendiamo che l’intrigo si sciolga. Fin tanto che non si è sciolto (e, in linea di massima, ciò avviene solo alla fine), viviamo in un tempo «sospeso», la suspense, che raggiunge l’apice nei film o nei romanzi polizieschi. Questa attesa provoca un piacere specifico, collegato a un particolare rapporto con il tempo: tempo reale della lettura o dello spettacolo, tempo fittizio dell’intrigo stesso. Lo scioglimento può riservare delle sorprese, e nell’attesa generalmente il lettore, o lo spettatore, non è in grado di anticipare l’interpretazione retrospettiva che, alla fine, gli verrà proposta dall’eroe dell’indagine. Il suo piacere nasce, innanzi tutto, da una attesa pura; sa che tutto si spiegherà, non vede l’ora di conoscere la fine della storia di cui ha introiettato il ritmo, ma sa che questo piacere è tributario del suo desiderio, e quest’ultimo della sua attesa; apprezza che l’autore sia capace, come si usa dire, di «prolungare il piacere». Il paradosso del romanzo poliziesco è che, molto spesso, è scritto al passato, evoca un avvenimento anteriore al presente dell’indagine che ha per obiettivo la sua spiegazione e, ciononostante, suscita nel lettore una acuta coscienza del futuro immediato. In fondo, è il paradosso di ogni opera letteraria o cinematografica, che propone al lettore e allo spettatore qualche istante di attesa e desiderio ma esiste già materialmente in forma compiuta (un libro, una pellicola o un DVD): i giochi sono già fatti dall’inizio e qualcuno, particolarmente impaziente, spezza l’incantesimo e l’illusione cominciando dalla fine, iniziando la lettura dalle ultime pagine o entrando al cinema durante gli ultimi minuti del film (questa possibilità, che si presentava spesso all’epoca degli spettacoli permanenti, oggi è più rara, anche se il video e il passaggio dallo spettacolo pubblico alla rappresentazione privata autorizzano qualsiasi manipolazione cronologica). Si condannano dunque a considerare l’avventura come qualcosa che si inserisce in una fatalità dallo svolgimento inesorabile e dalla fine ineluttabile. L’attesa dell’ineluttabile esercita un fascino specifico (i poeti tragici lo avevano capito bene), ma nasce da una lettura retrospettiva della storia che nega l’esistenza del futuro come apertura sul radicalmente nuovo. In maniera più sottile rispetto ai curiosi troppo voraci, ci capita di provare piacere nel rileggere un romanzo di cui non abbiamo completamente dimenticato la fine, o nel rivedere un vecchio film, magari poliziesco, che ricordiamo ancora un po’. Forse, in questo caso, al di là di tutto ciò che è legato alla bellezza espressiva o alle emozioni estetiche, il nostro piacere dipende dalla rara esperienza che ci viene proposta: quella di poter mescolare il ricordo e l’attesa. Al cinema ritroviamo una storia, volti e paesaggi assolutamente identici a quelli che avevamo scoperto un tempo (certezza che la memoria normalmente ci nega), ma siamo catturati anche dal ritmo della narrazione e dall’attesa dello scioglimento, che pure conosciamo già. Di certo – e questa constatazione si applica ancor meglio alla rilettura di un libro – ritroviamo dettagli dimenticati o che, al tempo, non avevamo percepito. Non abbiamo per forza lo stesso sguardo. L’esperienza ci parla dunque anche di noi, ed è ciò che le conferisce una particolare intensità: l’intimo manifestarsi di un futuro che ci era restato dietro le spalle. Ancora tre osservazioni a proposito del termine «intrigo». Esso ha connotazioni chiaramente peggiorative quando si applica alle manovre occulte di cui sospettiamo l’esistenza nella vita sociale o politica: gli «intriganti» sono persone che, «mettendo in moto le loro conoscenze», si preoccupano soltanto di raggiungere i propri scopi; obbediscono a una concezione della vita distorta, falsata e menzognera, ma sociale. Come aggettivo, invece, la parola assume un’accezione nettamente più positiva: non rimanda all’idea di mistero, suggerito dall’inconoscibile, ma a quella di curiosità, nel suo

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doppio aspetto passivo e attivo: ciò che risveglia la nostra curiosità è «curioso». Così, il fenomeno intrigante eccita la curiosità del «curioso» e il suo desiderio di osservarlo più da vicino. In ogni caso, l’intrigo si scioglie solo dipanando un groviglio complesso di relazioni interindividuali, di relazioni sociali; nel bene e nel male, l’intrigo mette in gioco le relazioni che costituiscono la società. Nel teatro vengono rappresentate, in un romanzo vengono descritte e, se si tratta di un romanzo poliziesco, cerchiamo di scoprirle nella loro cruda realtà dietro la maschera che le dissimula. In ogni caso, la messa in intrigo stabilisce un rapporto duplice con il reale. Pone una domanda alla quale bisogna rispondere e, in questa misura, pesa sul futuro. Una volta costituito, però, l’intrigo chiede di essere sciolto: detto altrimenti, la soluzione dell’enigma si orienta prima di tutto verso il passato, anche se pretende di liberare l’avvenire. Presuppone che la chiave del futuro dipenda sempre dal passato. La logica rituale evocata all’inizio di questo libro deriva proprio da una messa in intrigo. Indipendentemente dalla sua finalità (spiegare una disgrazia, avere la meglio su un evento o assicurare una transizione), ne fa dipendere la realizzazione da un’esplicitazione del passato. Torniamo per un istante alle concezioni della disgrazia presenti nelle accuse di stregoneria. Per esempio, l’idea che ogni disgrazia o ogni malattia abbia origine, direttamente o indirettamente, dalla volontà di un altro (e quindi dipenda da ciò che l’antropologia medica ha definito «eziologia sociale») è molto presente nella tradizione dei lignaggi africani; a ogni decesso, vengono intraprese varie procedure per stabilire l’identità dell’altro, che, letteralmente, viene messo sotto processo. Alcuni schemi esplicativi preesistono all’indagine. Possono riguardare tanto la filiazione quanto l’alleanza matrimoniale, tanto la parentela paterna quanto quella materna; in alcune società, ad esempio, si sostiene che le stregonerie abbiano luogo più spesso all’interno del lignaggio (patri- o matrilignaggio) ma si ammette anche che sia sempre possibile un incantesimo da parte del padre, in una società matrilineare, o da parte dello zio materno, in una società patrilineare; sono ipotizzabili anche altri scenari, in riferimento alla stregoneria (scambio di delitti all’interno di una società di stregoni, presentata come il doppio malefico delle classi di età) o fuori da essa (una divinità vudù può prendersela con chi trascura il suo altare). Ma tutti gli scenari immaginabili hanno in comune due caratteristiche complementari: il rifiuto della contingenza (la diagnosi mira a operare un ritorno all’ordine naturale, simbolico e sociale) e un incessante rinvio al passato come sola fonte possibile del senso. In occasione del mio primo viaggio in Costa d’Avorio, sono rimasto stupito nel constatare che la vita quotidiana del villaggio, pervasa dalle dicerie sui malati e sui morti, somigliava a una sorta di perpetua indagine di polizia. Il rito, come sappiamo, tratta due tipi di eventi: gli eventi puntuali, che insorgono in un momento magari inatteso, e gli eventi ricorrenti, come i cambi di stagione, che non bisogna scongiurare ma assicurarsi che avvengano. Ancora una volta, si desidera agire sul futuro, ma su un futuro immaginato e che si vuole identico al passato. Il desiderio di questa regolarità, essenziale in quelle regioni del mondo in cui qualsiasi mutamento climatico può avere conseguenze catastrofiche, non ci è estraneo. Fin da piccolo sentivo dire che non c’erano più le stagioni, e conosciamo bene l’inquieta perplessità che oggi comporta la prospettiva di un riscaldamento del pianeta. Le collettività umane hanno bisogno di punti di riferimento temporali e spaziali; così il tema delle stagioni viene utilizzato metaforicamente negli ambiti più diversi: sport, politica, letteratura, scuola o università. Così l’anno risulta costellato di tante «riprese» [rentrées], che scandiscono la vita sociale e canalizzano la nostra visione del futuro imminente. In francese si parla anche di rentrée sociale, per designare quei movimenti di protesta che frequentemente, dopo le vacanze estive, accompagnano le rivendicazioni sindacali e la ripresa del lavoro. In questa messa in ordine interviene la messa in intrigo. In alcune regioni del mondo, la meteorologia può assumere un carattere drammatico se, per caso, il cambiamento di stagione si fa attendere. Nel sistema attuale, vediamo come i media si prodighino per drammatizzare gli episodi più attesi e più ricorrenti della vita politica o presentare con un’enfasi sorprendente i fatti più insignificanti della riapertura della stagione sportiva. Ciò avviene perché la metafora meteorologica, più nel profondo, rappresenta un sostituto dell’azione rituale che vuole dominare il futuro e che, a tal titolo, indipendentemente dai suoi oggetti

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ufficiali o dalle poste in gioco che vengono esibite, contribuisce alla messa in ordine simbolica del mondo, e tenta di scongiurare le paure legate alla percezione dell’inesorabile scorrere del tempo. I profeti che ho frequentato in Africa rivendicavano questo titolo che avevano preso in prestito dalla Bibbia ma, proprio come i profeti biblici, si accontentavano di profezie a breve termine, a misura della vita di un uomo. Nel 1913, Harris, il primo che ho incontrato in Costa d’Avorio, annunciava che, nel giro di sette anni, i Neri sarebbero stati come i Bianchi. Negli anni sessanta e settanta, alla fine della colonizzazione, i suoi successori vedevano nella figura di Houphouët-Boigny, primo presidente della Costa d’Avorio indipendente, il simbolo e la promessa di un rapido accesso allo sviluppo. Nel frattempo, investivano tutte le loro energie, come guaritori, nella cura delle malattie individuali che interpretavano secondo la vecchia logica: non mettevano in discussione l’esistenza degli stregoni, che sostenevano di combattere, ma, guarendo o credendo di guarire, pensavano, non senza qualche contraddizione, di illustrare l’apparizione dei tempi nuovi. L’irruzione coloniale non era un fenomeno paragonabile a quelli che l’attività rituale era tradizionalmente abituata a gestire. Era l’evento per eccellenza, l’avvento, il segno e la prova di un cambiamento radicale rispetto al quale era indispensabile trovare la propria collocazione. Era qualcosa di «intrigante» di per sé, qualcosa di sorprendente, che spingeva a interrogarsi al tempo stesso sul passato che l’aveva reso possibile e sul futuro che esso annunciava e, persino, prefigurava. In Costa d’Avorio, così come in altre regioni dell’Africa, soprattutto in Congo e in Sudafrica, i profeti hanno associato alle procedure tradizionali di messa in intrigo un riferimento personale forte: si credevano, anche loro, contemporaneamente segno e annuncio, la prima manifestazione della novella che annunciavano e, da questo punto di vista, il loro successo materiale e sociale doveva esserne la riprova. Molti hanno fallito, e quelli che hanno conquistato una certa fama ci sono riusciti creando un luogo, un luogo d’eccellenza della loro attività, edificando chiese «in muratura» e stabilendo relazioni più o meno durevoli con le autorità politiche, sia durante il periodo coloniale sia dopo l’indipendenza. Aderire alla persona del profeta significava aderire al mondo nuovo: sotto sotto il loro messaggio era questo. È così diverso dal messaggio dei nostri politici? La messa in intrigo non è una prerogativa delle società basate sui lignaggi e rappresenta una tappa inevitabile nel presentimento del futuro. Reinterpretare il passato per immaginare il futuro è ciò che, nel breve termine, fanno tutti i politici. Per esempio, ci viene spiegato che la congiuntura economica è la causa delle nostre difficoltà del momento. Le circostanze impongono dei sacrifici, necessari per evitare una situazione ancora più catastrofica. Ma con una politica del rigore risaneremo le nostre finanze, incoraggeremo gli investimenti, rilanceremo la macchina dell’economia e miglioreremo la situazione occupazionale. Grosso modo questo discorso è sempre uguale; lo sentiamo ogni giorno. Ormai ci infastidisce per la sua monotonia, è sempre la stessa solfa e talvolta ci piacerebbe almeno sentirlo interpretare da un’altra voce. È quella che in politica si definisce «alternanza». La stessa parola presuppone una continuità di fondo, una sorta di basso continuo, per dirla in termini musicali, e cambiamenti superficiali, di pura forma. Il presupposto che sottintende la relativa passività di cittadini ed elettori, anche quando essi la negano, è che la «situazione», cioè lo stato delle cose esistenti, sia insormontabile, irremovibile. È quella che è, dipende dal passato, dal passato solidificato che grava sulle parole con cui si esprime, nei linguaggi specialistici o nel linguaggio comune, tutto ciò che possiamo dire del futuro. Se escludiamo le fazioni estremiste, da cui si levano solamente discorsi incantatori, l’evocazione del passato precede quasi sempre l’invocazione del futuro, perché la

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seconda, in un certo qual modo, è concepita come semplice appendice della prima. Eppure, nonostante lo sconforto e la stanchezza, nella vita politica democratica c’è sempre passione e desiderio, come se, contro l’evidenza delle delusioni quotidiane, una maggioranza, ovviamente variabile e fluttuante, si ostinasse a partecipare e a esprimersi, votando, scioperando, manifestando. «Sì, lo so, ma comunque…»: il rifiuto del dubbio è molto tenace. Se è vero che l’ambivalenza si definisce attraverso la coesistenza di due affermazioni (sono questo e quello) e l’ambiguità attraverso due negazioni (non sono né questo né quello), dinanzi al futuro politico ci troviamo spesso ad essere più ambigui che ambivalenti; non siamo né ottimisti né pessimisti, ma ci mostriamo già in anticipo sensibili a ogni messa in intrigo che sembri promettere un superamento di questa doppia negazione. L’ambiguità è il movente di una concezione dialettica del reale e della storia che mette in risalto la contraddizione. Perciò è responsabile dell’importanza che, in ogni settore, accordiamo al ruolo del passato. È un ruolo innegabile, e sarebbe assurdo e pericoloso ignorarlo, tanto nella vita delle collettività, quanto in quella degli individui. Ma ridurre a esso ogni spiegazione, farne un attore unico, rischia di non farci tenere conto di tutto ciò che, nel rapporto con il tempo, sfugge alla storia o, più esattamente, alla determinazione storica: l’intuizione, la creazione, l’inizio, la volontà o l’incontro. A tal proposito, dobbiamo comunque considerare che la messa in intrigo può effettuarsi da due punti di vista: rispetto al passato, nel corso del quale l’intrigo si è prodotto, e rispetto al futuro, nel corso del quale si scioglierà. Nella logica del romanzo poliziesco, i due punti di vista si confondono: per trovare la soluzione bisogna risalire al passato, e solo allora le diverse peripezie che possono sopraggiungere nel corso dell’indagine (altri delitti, false piste, sospetti) troveranno la loro spiegazione. Il romanzo poliziesco non si scrive né al passato, né al presente, né al futuro, ma coniuga tutti e tre i tempi. È un genere legato all’ambiguità. Nel romanzo d’avventura, invece, la messa in intrigo è aperta; a dire il vero, può anche costituirsi o complicarsi progressivamente, a seconda delle vicende o degli incontri. Robinson Crusoe comincia con il naufragio a cui il suo eroe riesce a scampare. La questione è: sopravviverà? Robinson ha un passato ma progressivamente è costretto a sbarazzarsene e a vivere nel presente, sorvegliando l’orizzonte da cui potrà apparire quel futuro che gli permetterà di ritrovare il suo passato. Il romanzo d’avventura si scrive sia al presente, sia al futuro, sia al passato. È un genere legato all’ambivalenza. Nella Condizione postmoderna, Lyotard, applicando la definizione di «grandi narrazioni» ai miti della modernità, privilegiava la dimensione narrativa delle utopie e delle ideologie nate nel XX secolo. Riteneva che, a prima vista, queste nuove visioni si distinguessero dai miti in senso tradizionale per due aspetti: parlavano degli uomini in generale, dell’umanità, non di un gruppo particolare, e riguardavano l’avvenire, non l’origine. Perciò queste visioni del futuro hanno ispirato anche i programmi dei movimenti progressisti, in particolare nella loro versione marxista. Quest’ultima mette in scena degli attori, i differenti attori della lotta di classe, e propone un copione dallo sviluppo ineluttabile, il cui motore è alimentato dall’emergere delle contraddizioni che intervengono nel gioco dei rapporti di produzione. Questo copione, questa messa in racconto e in intrigo, cerca di coniugare storia e impegno, necessità storica e dovere della lotta. Uno dei personaggi di Malraux, nella Condizione umana, se ne preoccupa poco prima di morire: perché dover lottare e sacrificare la propria vita se la vittoria è garantita in ogni caso dal movimento dialettico della storia? La storia del XX secolo sarebbe dunque quella dei fallimenti di queste grandi narrazioni, non solo per il crollo del comunismo (almeno nella sua versione occidentale), ma ancor più per le mostruosità totalitarie e omicide alle quali sono giunte. Per il momento, ci basti ricordare che la rivoluzione operata dai miti della modernità grazie all’influenza del darwinismo privilegia il ricorso al passato per la comprensione del presente, il che diventa problematico solo quando, a partire da ciò, pretende di indurne il futuro.

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Il grande racconto psicoanalitico è ambizioso quanto quello marxista, e ha la pretesa di essere altrettanto universalistico. Preso in prestito dalla mitologia greca, il personaggio principale del suo copione – un copione indefinitamente riproducibile e, in teoria, proponibile alla diversità degli esseri umani – compare soltanto sulla scena individuale e fuori dal contesto storico. L’inconscio, tuttavia, benché non abbia storia, ha un passato, un passato che ostacola l’individuo in mille modi e obbliga a interpretare i suoi lapsus e i suoi sogni, le sue fobie e i suoi desideri, e, nel complesso, il suo rapporto con gli altri, con la vita e con la morte. Il grande racconto psicoanalitico ha impregnato di sé molte attività umane, soprattutto nel campo dell’arte e della creazione, ma ormai, nelle sue versioni integrali o integraliste, che rinviano l’individuo al suo passato e al suo «incubo mitico» personale, chiamandolo a produrre il proprio racconto interpretativo, si impone soltanto in qualche paese latino. Eppure siamo in un’epoca di chiacchiere. Fin qui si era raramente assistito a una tale confessione pubblica di opinioni, reazioni, dichiarazioni e coming out di vario genere. Il bisogno di raccontarsi, di trasformare in narrazione le vicende della propria vita personale, è comune a tutti; a dire il vero, è semplicemente l’espressione della dimensione simbolica dell’individuo, che ha bisogno della presenza degli altri e della parola per esistere davvero. Lo scambio di informazioni, per strada, al bar, in ufficio, è una manifestazione essenziale della dimensione sociale dell’esistenza, ma è un genere di scambio che si preoccupa ben poco dell’esattezza, che generalmente si limita a considerare le banalità della vita comune, che passa per discorsi prevedibili e non ha la pretesa di rivelare la personalità profonda di chi li fa. Ci fa piacere proprio per la sua superficialità e la sua ridondanza. In compenso, sui palcoscenici televisivi o su Internet, possiamo essere testimoni di confessioni nuova maniera, che riguardano tutti gli aspetti della vita privata e hanno in comune due caratteristiche: sono pubbliche e suggeriscono che solo la rivelazione del passato può rendere vivibile il futuro. I reality show si spingono oltre e hanno addirittura la pretesa di creare in diretta, con metodi per così dire sperimentali, un intrigo in forma di gioco, in cui passato recente e futuro immediato si affrontano e si compenetrano. Più che la confessione cristiana, al centro dell’attenzione stanno la «psicologizzazione» dei pensieri e un riferimento debole alla psicoanalisi. Del resto, dopo un dramma qualsiasi della vita moderna – un incidente stradale, un incidente aereo, un incendio, un’inondazione, il delitto di un folle – vengono messi in campo interventi «di sostegno psicologico» (in Europa, non in Somalia o in Siria). Si moltiplicano i filtri e gli eufemismi suscettibili di proteggere le «persone sensibili». Ma proteggerle da che cosa? Dal passato prossimo. Se gli esibizionisti della vita privata incontrano una certa audience, e l’assistenza ai parenti o agli amici delle vittime di incidenti collettivi è necessaria, non è tanto perché le crudeltà della storia abbiano reso più debole e dipendente da altri lo psichismo individuale, ma perché, quando il passato si dissimula o crolla, fa sì che le solitudini si trovino di fronte all’immagine vuota di un futuro terrificante. Quando il passato scompare, il senso si cancella: perlomeno, è quanto ci ha voluto insegnare la maggior parte delle religioni e delle filosofie e che, da più di un secolo, il marxismo e la psicoanalisi hanno orchestrato con una forza particolare, nella linea di continuità del cristianesimo e dell’ideologia del peccato originale.

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3. L’inaugurazione Per prima cosa dobbiamo interrogarci sulla categoria di «nuovo», sulla «novità» stessa, visto che queste parole sono ormai logorate dall’uso che ne viene fatto nella moda e nell’attualità. Scendiamo «nell’ignoto alla ricerca di qualcosa di nuovo!», esclamava Baudelaire nei Fiori del male. Ma era un’invocazione alla morte: «Su, andiamo, Morte, vecchio capitano!» E un’alternativa antica: «Inferno o Cielo, che importa?» L’aspetto più interessante di questo appello all’ignoto e al «nuovo» non è tanto il fatto che si rivolga alla morte ma che, in questo modo, sia costretto a utilizzare nozioni che appartengono al passato: quelle di inferno e di cielo. È difficile liberarsi delle parole che si affollano nella memoria, anche quando non attribuiamo più loro un contenuto preciso. Per quanto vaghe, esistono, con tutta la pregnanza delle immagini a esse associate. Ogni riflessione sul nuovo è tributaria di un interrogativo sulla libertà. Se torniamo per un istante alle nostre riflessioni sulla logica del lignaggio, sarà facile riconoscere che, nella misura in cui imprigiona gli individui in una totalità intellettualmente vincolante, che condiziona ogni eventuale iniziativa, essa limita notevolmente la possibilità di apparizione del radicalmente nuovo e ogni pretesa di libertà individuale. Ma il problema si presenta anche per la scienza, visto che possiamo chiederci se la nozione di libertà sia conciliabile con quella di verità. Sartre lo dimostra nella Liberté cartésienne. Per prima cosa, Sartre ammette che, nell’ambito dell’azione e della creazione e in quello della scoperta e della comprensione, la libertà si manifesta in maniera diversa: «Se fossero stati dei metafisici, un Richelieu, un Vincent de Paul, un Corneille ci avrebbero detto determinate cose sulla libertà, poiché essi l’hanno presa per un verso specifico, nel momento, cioè, in cui essa si manifesta in un evento assoluto, nell’apparizione del nuovo – sia esso un poema o un’istituzione – in un mondo che né lo chiama né lo rifiuta». Dopodiché, individua e analizza le due definizioni di libertà presenti nel pensiero di Cartesio. La prima lascia spazio all’autonomia e alla volontà: è la libertà come possibilità di accettare o rifiutare le idee concepite attraverso l’intelletto (in questo caso, i giochi non sono mai fatti e il futuro non è mai prevedibile). La seconda, vicina a Spinoza, è più limitativa, è la libertà come capacità di riconoscere il vero e di volerlo: la chiarezza che appare nell’intelletto determina la volontà. Infine, Sartre suggerisce che Cartesio esprima appieno la sua concezione di libertà umana solo quando, a proposito della libertà divina, scrive: «si conosce senza prova, per la sola esperienza che ne abbiamo». La libertà assicura comunque la possibilità del nuovo nella storia? E l’arte è davvero una manifestazione di tale possibilità? Sartre ne è convinto e rimprovera sostanzialmente alla psicoanalisi di non essere dialettica o, detto altrimenti, di essere riduttiva, di parteggiare per il passato a scapito del futuro. Così sappiamo che Flaubert, «l’idiota della famiglia», ritardato, «si è impadronito del linguaggio perché esso gli era negato», e per farsi riconoscere da suo padre. Ma perché ridurre un’opera al passato da cui deriva e al quale reagisce? «Madame Bovary non è solo una sequenza di compensazioni ma anche un oggetto positivo, un certo rapporto di comunicazione con ognuno di noi». Ogni fuga è un progetto e «Flaubert, fuggendo da sé, si descrive». Nella categoria del progetto esiste qualcosa che non è riconducibile alla somma delle predeterminazioni che gravano su di lui. Aggiungiamo che, forse, una concezione ottimistica del futuro non passa solo attraverso diverse ipotesi sulla possibilità del nuovo. L’idea di novità, così come quella di libertà, ha senso solo in rapporto all’esistenza umana. Quando pensiamo al futuro, entrano in funzione alcuni atteggiamenti mentali, a seconda dei differenti punti di vista. Rispetto al futuro ci collochiamo come individui mortali, affettivi, con legami personali, come ricercatori o militanti, ma sono anche concepibili molte altre posizioni e ogni individuo può occuparne diverse simultaneamente. Ci collochiamo anche, e ciò non ha minore importanza, come esseri già implicati nel tempo, cioè in modo diverso a seconda che siamo giovani o

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vecchi: l’attesa, la speranza, l’impazienza, il desiderio o il timore non rimangono gli stessi nelle differenti età della vita. È vero che, in questo caso, intervengono diverse concezioni del futuro: esse non oppongono la continuità alla novità, ma il nuovo come conseguenza, compiutezza, compimento, al nuovo come rottura, inaugurazione, inizio. È una distinzione che conviene all’etnologo. Non perché egli consegni i gruppi che rappresentavano per tradizione il suo oggetto di studio – le società tribali, fondate sul lignaggio, che precedono le società industriali – a una concezione necessariamente stagnante o ripetitiva della storia. Ma perché – lo dico per esperienza personale – spesso ha potuto constatare fino a che punto le attività rituali, consacrate da queste società alla gestione degli affari privati o pubblici, aspirassero a mettere in scena e a far esistere la possibilità di un inizio. È importante essere i più precisi possibile e definire le parole che utilizziamo. Per prima cosa, non dobbiamo confondere l’evento e la storia. Siamo stati tentati di parlare di queste società come di «società senza storia» perché abbiamo prestato troppa attenzione alle procedure attraverso cui si sforzano di ridurre la parte contingente dell’evento per farne un’espressione della struttura. I gruppi lagunari presso cui ho lavorato negli anni sessanta e settanta conservavano il ricordo delle migrazioni che li avevano condotti ai bordi della laguna di Ebrié. I miei informatori alladiani ricordavano le circostanze che avevano circondato la nascita dei diversi insediamenti attuali, il ruolo giocato dal commercio del sale marino con i paesi dell’entroterra e poi, in particolare nella seconda metà del XIX secolo, dalla tratta con le navi europee e dal boom del commercio dell’olio di palma. A loro non sfuggivano i mutamenti sociali prodotti da queste rotture storiche; compivano un’analisi lucida delle strategie matrimoniali o dell’acquisto massivo di schiavi, che aveva permesso ai grandi agenti della costa di organizzare una forza lavoro interamente sottomessa alla loro autorità, e così, pur preservando l’essenziale della struttura in matrilignaggio, avevano modificato da cima a fondo i rapporti sociali tradizionali. La storia li aveva fatti e, in larga misura, essi avevano fatto la loro storia. O almeno, a farla erano stati, coscientemente e sistematicamente, i capi dei maggiori lignaggi. La schiavitù interna si presentava da lunga data come una forma di immigrazione provocata e controllata. Ma questa impresa non era affatto in contraddizione con le pratiche rituali che miravano a gestire l’evento, concepito come espressione della struttura. Il rito, quando è un rito di successo, presenta due dimensioni; ha le sue regole. Per un verso, si radica nel passato: la sua esecuzione passa attraverso una rigorosa fedeltà al rituale, così come era stato stabilito dagli anziani. Ma, per un altro verso, si rivolge al futuro: l’emozione legata alla sua celebrazione deriva dalla sensazione che esso sia riuscito a far nascere qualcosa, che abbia prodotto un inizio. Le cerimonie di accoglienza e integrazione dei prigionieri o delle prigioniere nei matrilignaggi alladiani nel XIX secolo (me ne sono state fatte descrizioni dettagliate) significavano, in primo luogo, che questi prigionieri dovevano dimenticare la loro origine e, con uno sfarzo e un’abbondanza rituali che testimoniavano l’importanza del momento, mettevano in scena una nuova nascita. Attraverso questo esempio limite, poiché è espressione di una trasformazione sociale radicale, possiamo comprendere l’essenza della forma rituale: il fatto cioè che essa miri a creare la sensazione e la realtà di un inizio. L’inizio, più che la novità, è il vero obiettivo del rito. Viceversa, se il rito rappresenta essenzialmente una nascita, ogni nascita fa appello al rito. Qualsiasi nascita umana è oggetto di procedure rituali in cui è possibile leggere in filigrana le due ossessioni contraddittorie che dominano la vita in società: l’ossessione del senso, che rimanda al passato, e l’ossessione della libertà, che rimanda al futuro. Ogni nascita apre un futuro, particolarmente fragile nelle società a elevata mortalità infantile. Per restare agli esempi africani, ricordo che nell’Africa occidentale il corpo del neonato veniva esaminato, scrutato attentamente per scoprirvi il segno di un antenato – un’eredità parziale che, una volta riconosciuta, ancorava al passato la sua identità. Le regole sull’attribuzione del nome rispondevano alla stessa preoccupazione. È stato a lungo così anche in Europa e spesso il nome proprio, per quanto non gli fosse necessariamente associata nessuna teoria del ritorno parziale, si trasmetteva di generazione in generazione, quanto meno per i maschi. Quanto al resto,

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funzionava una concezione «selvaggia» dell’eredità e, evidentemente, era sospetto che un bambino o una bambina non fosse, almeno in maniera allusiva, il ritratto del padre. La «legittimità» di una nascita corrispondeva a una «assicurazione sulla vita», al sostegno del passato socialmente organizzato nei confronti dell’avventura di una vita individuale. Nella tradizione cristiana, il padrino e la madrina aggiungevano agli apporti della filiazione un sostegno supplementare, simboleggiato dall’assegnazione di un altro nome. È interessante che oggi alcuni bambini portino il nome di eroi del cinema o delle serie televisive. In Francia, fino a qualche anno fa, Kevin è stato un nome molto di moda. Questo fenomeno corrisponde evidentemente a un indebolimento delle strutture di parentela come principio di senso. Si allontana dal senso (sociale) per tendere alla libertà (individuale). Ma anche in questo caso si tratta soltanto della libertà dai genitori. Per un individuo, la vera libertà consisterebbe nello scegliere da sé il proprio nome. Forse l’anonimato che presiede a certi scambi su Internet e il ricorso agli pseudonimi offrono agli «attori della Rete» una sensazione più o meno ludica di impunità, ma anche la convinzione illusoria, ed eventualmente pericolosa, di circolare in un altro mondo, in cui la necessità di senso (tramite i social networks) si concilierebbe con quella di libertà (attraverso la costituzione di avatar della persona). D’altra parte, alcuni attori o alcune star del mondo dello spettacolo che si sono lanciati nella «carriera» hanno cambiato nome: ai loro occhi ha rappresentato l’equivalente di una nuova vita, con i suoi rischi e le sue occasioni, che, in teoria, non dipendevano più dal passato familiare. Al contrario, vediamo anche costituirsi delle piccole dinastie di attori che, di generazione in generazione, si passano il testimone, come per combinare talento individuale ed eredità familiare, principio di libertà e principio di senso. L’inizio è la finalità del rito. L’inizio non è la ripetizione. Qualche volta diciamo: «Ecco che ricomincia», per lasciar intendere che niente cambia. Ma in questo caso utilizziamo il verbo in accezione debole. Nel termine «ri-cominciare», quello che ha importanza è il «cominciare». «Ri-cominciare» significa vivere un nuovo inizio, una nascita. Quando il Don Giovanni di Molière si dichiara sensibile al fascino delle «inclinazioni nascenti», cioè al nascere di una simpatia, si situa, fuori da ogni calcolo e strategia, nella verità di quell’istante tradotto dall’espressione francese tomber amoureux, letteralmente «cadere innamorato», innamorarsi. La ripetizione interviene nel momento del disamore, quando lo scenario, in realtà comune, appare nella banale verità del suo epilogo ricorrente. Ma in quel momento, in quel preciso istante, si percepiva soltanto la poesia tipica di ogni inizio, che sta agli antipodi della ripetizione e della reiterazione. Don Giovanni è insaziabile, non si stanca mai di inseguire l’emozione come se ogni volta fosse la prima volta. Per il resto taglia corto, incapace di vivere una storia d’amore nella sua durata. Il narratore proustiano si inscrive nella stessa vena anche se, rispetto a Don Giovanni, occupa una posizione simmetrica e opposta: dichiara di non volere o di non poter più innamorarsi perché egli, visto che ogni amore è destinato a finire, vivrebbe questo nuovo inizio come una specie di morte. In tutti gli episodi della vita individuale e collettiva, nella vita sentimentale così come in quella politica, siamo sensibili ai fenomeni di usura che possiamo imputare ai tradimenti dell’uno o dell’altro ma che, a una certa distanza, ci appaiono – e questo forse è ancora più grave – come irrimediabilmente legati alla semplice azione del tempo, a una forma di erosione storica o di invecchiamento quasi biologico che, di rimando, suscita enormi nostalgie. Il 1789, la Comune di Parigi, il 1936, la Liberazione, il Maggio ’68, il verde paradiso degli amori infantili o il tempo delle ciliegie vengono celebrati e osannati una volta che hanno perduto la loro forza inaugurale e portato a termine la loro risalita verso il mito. Almeno nella vita moderna, i miti nascono quando i riti muoiono e perdono la loro potenza creatrice. Significa forse che l’inizio non sopravvive mai all’istante e che il rito porta sempre con sé l’ombra della delusione? Per fortuna, le cose non sono così semplici. Certo, siamo mortali e tutto in noi è mortale. Nessun volontarismo potrà impedire che, anche nelle vite più riuscite, l’amore si trasformi in affetto, la passione in saggezza o la collera in rassegnazione. È riguardo alla relazione, al senso sociale, che la fragilità si tradisce; con il tempo, non solo i vecchi legami si allentano o si sciolgono, a causa dell’oblio o della

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morte, ma sono i nuovi legami che mancano. Sempre nella migliore delle ipotesi bisogna dunque che, per evitare una solitudine irrimediabile, chi «invecchia», uomo o donna che sia, trovi la forza di ridefinire le proprie relazioni con le nuove generazioni, accettando che l’età sia l’inizio di un’altra avventura. Tutti possono essere ascoltati da tutti; tutti possono parlare con tutti; in caso contrario, ci troveremmo davanti all’esclusione simbolica, a una morte prima della morte, all’arresto del tempo. In tutto ciò l’arte, la cultura e l’educazione hanno un ruolo fondamentale ed è per questo che la vecchiaia è, prima di tutto, una questione politica. Statisticamente, il benessere materiale e il capitale intellettuale sono un’assicurazione sulla vita più lunga e più interessante. Ed è proprio la facoltà di evocare il futuro, immediato o remoto, che definisce l’interesse della vita. In caso contrario, la consapevolezza che un giorno dovremo morire annienterebbe ogni velleità di vivere. Baudelaire, ancora una volta, nella sua poesia I fari nei Fiori del male, si esprime così a proposito dei grandi pittori come Leonardo da Vinci, Rembrandt o Goya, i cui nomi hanno scandito la storia dell’arte: «È un grido ripetuto da mille sentinelle … è un faro che arde su mille cittadelle». Una poesia meravigliosa, perché si rivolge a quella parte di umanità generica che ognuno di noi ha dentro di sé – il che spiega l’utilizzo del pronome e dell’aggettivo possessivi alla prima persona plurale, «noi», «nostra»: «Perché, Signore, la prova migliore / che noi possiamo offrire della nostra dignità / è questo ardente singulto che si propaga da un secolo all’altro / per poi spegnersi alla riva della vostra eternità». Ciò che la poesia di Baudelaire non dice, ma che è illustrato da ogni strofa dedicata all’universo originale di ciascun grande pittore, è che questo grido e questo appello sono ogni volta simili e diversi, ogni volta ri-cominciati, come un’eco o un fiotto. L’arte propone a tutti, e a ciascuno di noi singolarmente, l’occasione di vivere un inizio. Ciò che sta al principio di ogni creazione si trova anche al principio di ogni percezione o ricezione (evito l’utilizzo del termine economico di «consumo»): leggere un libro, ascoltare musica o guardare un dipinto significa appropriarsene e, dunque, ricrearli. Gli autori lo sanno bene: si augurano proprio di incontrare un pubblico, e nessun incontro è mai a senso unico. L’incontro, contrariamente all’ereditarietà, all’eredità e al destino, è la prova dell’alterità (perciò il termine esprime sia l’empatia sia lo scontro) e dell’apertura del tempo, dell’avventura, della libertà. Ecco perché i miti hanno cercato di conquistare terreno in anticipo: il crocevia, che è lo spazio ideale dell’incontro, è circoscritto, simbolizzato, protetto perché non sia il luogo di «brutti incontri». La mitologia greca, con Edipo e Laio, ne ha fatto lo spazio in cui si compiva la profezia dell’oracolo di Delfi, mentre la mitologia psicoanalitica ne ha fatto il simbolo dell’originaria maledizione che peserebbe su ogni uomo. Così la creazione letteraria e artistica definisce il luogo problematico dell’avventura individuale e collettiva. Inizio assoluto e occasione di incontri inediti, o suprema illusione di un’umanità alienata alla fatalità dell’origine? Qui la tensione tra senso e libertà raggiunge l’apice, si esprime, nella maniera più banale e comune possibile, nel nostro rapporto con le cosiddette «arti minori», che sono anche le più quotidiane e diffuse, come la canzone. Ritornelli, motivetti, melodie ascoltate mille volte, storpiate da un fisarmonicista d’occasione che strimpella in un vagone di metropolitana per scucire qualche spicciolo al suo pubblico prigioniero? O improvvisa folgorazione, emozione istantanea, effimera ma reale, che si impadronisce di noi non appena udiamo quelle prime tre note, che un tempo ci hanno già commossi ma che, più che risvegliare il passato, fanno sorgere fugacemente la vaga e tenace intuizione che, indipendentemente dalla nostra età o dai nostri problemi, qualcosa è ancora possibile, che la vita si coniuga al futuro? Abbiamo bisogno di questa intuizione. E questo bisogno è un segno. Un segno di vita in mancanza del quale l’uomo, animale simbolico, languisce o precorre la scadenza biologica attraverso il suicidio. Il rapporto con l’altro, anche sotto forma di ricordo, promessa o progetto, gli è consustanziale; egli lo rianima incessantemente nei suoi comportamenti quotidiani, ne cerca le tracce o le prove nel

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mondo e nell’attualità che lo circondano, anche in forme alterate come la «personalizzazione della vita politica» o la competizione sportiva. Bisogna poter pensare il tempo come messa in intrigo ma anche, in modo complementare, come inaugurazione. In questo modo, il rito continua ancora a interessarci, talvolta ci manca e lo ricerchiamo. Perché la nostra società, quella della trasparenza e dell’eterno presente, è caratterizzata da un deficit rituale. Se conquista la nostra sensibilità, la bellezza di un dipinto, di una poesia o di una partitura musicale non si ripete mai e, ogni volta che invoca la nostra testimonianza, suscita in noi una reazione nuova, al punto che, prima della lettura, dell’ascolto o della contemplazione, sapendo per esperienza ciò che sta per accadere, procediamo per quanto è possibile a piccoli rituali privati – piccole organizzazioni di diverso genere che, pur variabili in funzione del luogo e delle circostanze, ci assicurano la calma, il silenzio e il raccoglimento auspicabili. In quest’ambito, il ruolo degli interpreti sottolinea e al contempo maschera questa dimensione. La sottolinea perché il fatto che un testo drammatico o musicale permettano diverse interpretazioni dimostra la sovrabbondanza di virtualità che voci, gesti e corpi diversi riescono a realizzare. Ma rischia anche di mascherarla, perché potremmo essere spinti a credere che questa faccenda riguardi soltanto la conduzione del direttore d’orchestra, l’interpretazione del solista e dell’orchestra, l’originalità del regista e degli attori, o la finezza del narratore – anche se, nel segreto della nostra vita privata, come unici interpreti dell’opera che riascoltiamo o rileggiamo, ne sperimentiamo spesso, nel nostro intimo, la forza inaugurale. È naturale, poi, che questa forza si moltiplichi in pubblico e con il rinnovamento degli attori, perché l’aspetto rituale ne viene rinforzato e la dimensione sociale dell’arte viene messa sensibilmente in evidenza. Ai giorni nostri, la dimensione sociale, sotto forma di incontro, si manifesta al suo massimo grado nei grandi raduni di giovani attorno ai gruppi musicali alla moda. Ci accorgiamo (e per convincercene basterà guardarli in televisione) che la loro gestualità corporea, per quanto esuberante (le braccia alzate e dimenate al ritmo dell’orchestra o della voce), resta quella classica: il pubblico riprende le frasi musicali che conosce e in cui si ritrova. La ripresa non è una ripetizione ma il momento di comunione in cui tutto riparte, in cui il significato delle parole conta meno della percezione, intesa qui come certezza, di un movimento di adesione che ha se stesso come unico oggetto. Come se alla catarsi aristotelica si aggiungesse o si sostituisse l’evidenza immediata di un puro slancio dell’anima, confortato dalla doppia presenza di colui o colei verso cui, sulla scena, convergono tutti gli sguardi, e di coloro che, nella folla, da questa convergenza sensibile traggono la certezza di esistere.

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4. Rinuncia o creazione: Flaubert Il paradosso di Flaubert è esemplare della tensione tra senso e libertà che qui ci interessa. I suoi personaggi, alienati – diremmo in un linguaggio che non era il suo – alle loro letture, alle loro fantasticherie e ad ambizioni inappropriate, sono innanzi tutto espressione di un’epoca. Eppure, Flaubert lavora e scrive per promuoverli all’esistenza, come se non ci fosse nulla di più importante che mettere in forma un disincanto che, non solo vieta loro qualsiasi visione poetica del futuro ma, nei più lucidi tra loro, provoca una visione pessimista e senza appello del passato stesso. Al termine dell’Educazione sentimentale, Frédéric Moreau, sopravvissuto alla passione amorosa, e il suo amico Deslauriers, sopravvissuto all’ambizione politica, si scambiano ricordi d’adolescenza, in particolare quello di una squallida visita al bordello della città: «è la cosa migliore che ci sia toccata», conclude Frédéric Moreau. Nonostante gli elementi autobiografici presenti nel romanzo, nonostante le risonanze che non possono far escludere che un autore finisca per somigliare al suo personaggio, resta il fatto che l’uno è la creazione dell’altro e che non per forza il principio stesso dell’opera si trova nella narrazione o nella personalità dei personaggi di fantasia, i quali, talvolta, si fanno portavoce del loro creatore ma più spesso (ed è questa l’essenza del romanzo) illustrano il suo proposito. Questa dissociazione trova la sua espressione più tangibile in Madame Bovary. Madame Bovary è stato pubblicato per la prima volta poco più di centocinquanta anni fa, nel 1856, sulla «Revue de Paris». Tuttavia, a rileggerlo oggi, proviamo una sensazione di familiarità e al contempo di sorpresa. La sensazione di familiarità deriva, ovviamente, dalle tante letture che, nel corso degli anni, abbiamo avuto occasione di fare di questo romanzo o dei commenti di cui è stato oggetto, ma si tratta di una «perturbante» familiarità, per riprendere l’espressione di Freud: non si riduce a un fenomeno di abitudine, di cultura o di memoria. È immediata, ha qualcosa di attuale ed è proprio questa attualità a creare la sorpresa e, persino, il fastidio. Spesso diciamo che Flaubert ha inventato il romanzo moderno, interessandosi alla banalità del quotidiano e ad ambienti piccolo-borghesi che, fino a quel momento, nella letteratura romanzesca erano soltanto delle comparse, degli elementi della scenografia. In Flaubert, a differenza di Balzac o Stendhal, non troviamo nessuna evocazione dell’alta società, né del percorso di ascesa sociale che alcuni eroi di altri scrittori intraprendono o sognano di intraprendere. Flaubert è il pittore dell’immobilità e delle velleità, di un ambiente in cui l’inerzia è così forte che qualsiasi tentativo di sfuggirvi può nascere solo dall’illusione. In questo senso, lo potremmo definire il primo romanziere postrivoluzionario, colui che prende le distanze sia dal linguaggio dei Lumi sia dalle effusioni del Romanticismo. Nessuno gli contesta di avere prodotto una rottura rispetto ai suoi predecessori, di aver inaugurato un’altra prospettiva e inventato un linguaggio. Ma resta da capire perché questa antica rottura ci appaia oggi così vicina. Rileggere Madame Bovary può aiutarci. Madame Bovary è una storia banale, che ha fatto scandalo proprio per la sua banalità: due adulteri e un suicidio, la storia, insomma, di una donna insoddisfatta in tutti sensi che, dopo aver cercato intense emozioni nella letteratura, nelle immagini della religione e nella relazione amorosa, riesce a sfuggire al suo ambiente solo attraverso la morte. Per Flaubert, questa triste storia è l’occasione per prendersela con tutto quanto detesta: la morale pubblica, la morale religiosa, i buoni costumi. Capiamo dunque per quale motivo, nella Francia del Secondo Impero, gli sia valsa un processo per oltraggio ai valori ufficiali e tradizionali. Ma non è necessario essere un vecchio lettore di Flaubert per accorgersi che egli non dimostra neppure una particolare simpatia per le vittime di questi stessi valori, né per quei suoi

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personaggi che hanno la presunzione di opporvisi mediante azioni o parole. Con Madame Bovary, quindi, siamo di fronte a un romanzo paradossale, come lo sarà tredici anni più tardi L’educazione sentimentale: non solo non troviamo nessun eroe «positivo», con il quale ci possiamo più o meno identificare, ma il racconto stesso non è realmente incentrato su un solo personaggio. D’altronde, si apre con una breve evocazione dell’infanzia e della giovinezza di Charles Bovary e termina, in maniera ancor più rapida, con quella della sua morte. Per essere precisi, va anche detto che la battuta finale è riservata al farmacista, Homais, un chiacchierone impenitente, un simbolo della beata stupidità che l’opinione pubblica protegge, di cui veniamo a sapere, nell’ultima riga, che «recentemente è stato insignito della Legion d’Onore». Certo, Emma Bovary è l’«eroina» principale del romanzo; se ne affrancherà talmente da diventare, agli occhi di molti, l’incarnazione della condizione femminile borghese e di un rapporto «inautentico» con la vita e la storia, il «bovarismo», definito come una fuga nell’immaginario a causa dell’insoddisfazione. Ma Flaubert non si limita a descrivere la vita di una donna, e neppure a evocare un certo ambiente e una determinata epoca. Se Madame Bovary resta un evento romanzesco di primaria importanza, se i filosofi continuano tornarci sopra e a interrogarlo, forse è perché, usando le parole dello stesso Flaubert, è un romanzo «su niente». Vorrei concentrarmi proprio su questa espressione, che aveva colpito l’attenzione di Sartre nell’Idiota della famiglia e che mi pare esprimere, al contempo, l’ambivalenza e l’ambizione di Flaubert. Questo «niente» che Flaubert tenta di descrivere è anche un «tutto», tutto quanto c’è da dire su qualsiasi cosa, tutto ciò sul quale on revient, come diciamo in francese, cioè sul quale «si torna»: Flaubert, infatti, è «tornato da tutto», dall’ebbrezza dei viaggi, dalle infatuazioni amorose e dalle illusioni politiche. Qualche volta diciamo «tutto o niente» per indicare un’alternativa decisa («o è tutto o è niente»): nella visione di Flaubert, non si tratta di un’alternativa ma di una sinonimia. In fin dei conti, descriviamo sempre e solo il «niente». Ma questo «niente» non è il nulla; non a caso, la parola francese rien, «niente», deriva dal latino res, «cosa». Il «niente» ha delle forme, si manifesta, ed è per questo che, attraverso la scrittura, è possibile stanarlo, individuarlo e rivelarlo per ciò che è: l’insignificante, quello che c’è già e si ripete, che insiste, ma dice soltanto quello che gli facciamo dire, indifferentemente chiacchiera o silenzio, progetto o ricordo, essere o apparire. Flaubert intraprende questa caccia al niente mettendo in scena, innanzi tutto, gli effetti di ripetizione. Una generazione ripete l’altra, per esempio. All’inizio del romanzo, viene evocata l’infanzia di Charles Bovary e, a tal proposito, la figura evanescente di Madame Bovary madre, che sembra anticipare quella della sua seconda nuora, che detesterà e di cui peraltro sarà gelosa: «Nell’isolamento della sua vita, scaricò su quella testa infantile tutte le sue vanità disperse e infrante. Sognava grandi fortune, se lo vedeva già adulto, bello, brillante, sistemato nel genio civile o in magistratura». Si ripete così ciò che comunemente chiamiamo «destino» e che ha molto a che vedere con la posizione sociale, familiare ed economica. La prima moglie di Charles Bovary (un brav’uomo che ha tutte le caratteristiche di un serial killer involontario) era la vedova abbiente di un ufficiale giudiziario, scelta da sua madre per questa doppia ragione di rispettabilità e solvibilità. Non poteva sopravvivere alla rivelazione della sua rovina e alla vergogna della povertà: «Aveva dunque mentito, la cara signora! … Otto giorni dopo, mentre stendeva della biancheria in cortile, ebbe uno sbocco di sangue e l’indomani, nel momento in cui Charles le voltava le spalle per chiudere le tende della finestra, disse “Ah! mio Dio!”, diede un sospiro e svenne. Era morta! Che sbalordimento!» Infine, si colloca sotto il segno della ripetizione anche la delusione che segue fatalmente, spesso in maniera assai brusca, qualche volta in maniera più lenta e insidiosa, il minimo slancio d’immaginazione, il minimo sforzo di vivere qualcosa di diverso dalla routine quotidiana – il matrimonio, certo, ma anche l’adulterio. La precarietà del sentimento (e della relazione) è una prova da cui si esce annichiliti o disincantati. In Flaubert, le donne sono più esposte alle crudeltà e alle delusioni rispetto agli uomini. Gli uomini si lasciano più facilmente cullare e ingannare dal benessere materiale o dalla vanità piccolo-borghese. Anch’essi ripetono i loro comportamenti, ma non ne

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soffrono, o ne soffrono meno, e, se si tratta di relazioni amorose, ne traggono persino una specie di soddisfazione narcisistica, velata di fatuità e prossima alla fatica o all’indifferenza. «Indifferenza»: forse è questa la parola che, assieme a «ripetizione», permette di avvicinarsi meglio alla natura di questo «niente» che affascina Flaubert e ossessiona la sua scrittura. In Madame Bovary il soggetto è così poco caratterizzato che spesso ci troviamo in difficoltà nel capire chi parli o provi qualcosa. Il romanzo comincia con l’evocazione di un «noi» che non rinvia a nessuno, se non, a prima vista, a un narratore che sarebbe stato un compagno di scuola di Charles Bovary («Eravamo nell’aula di studio quando fece il suo ingresso il Preside, seguito da un nuovo senza divisa … Avevamo l’abitudine, entrando in classe, di buttare a terra i berretti per avere poi più libere le mani … Lo vedemmo che lavorava con coscienza». Ben presto, però, questo «noi» anonimo scompare; il testimone si fa da parte e cede il passo all’autore o, più esattamente, alla descrizione obiettiva e impersonale di ciò che fanno e dicono gli uni e gli altri. Ma, di tanto in tanto, questi uni e questi altri sono così indifferenziati, anche se hanno un nome, da essere evocati solo attraverso il pronome impersonale on, «si», che li assimila quasi a una sorta di evanescente totalità organica, a malapena capace di obbedire a riflessi condizionati o programmati. Questo on può indicare gli altri, la gente che osserva ed eventualmente calunnia: «Poi, ripensandoci, trovò che la sua amante stava assumendo un contegno ben strano, e che non aveva tutti i torti quella gente [qu’on n’avait pas tort] che stava cercando di dividerlo da lei». Può anche indicare un piccolo gruppo di persone che si dedica nello stesso momento alla stessa attività: «Da due ore e mezzo erano [on était] a tavola … Quando con l’altra mano ebbe preso l’ombrello del parroco, il gruppetto si mise [l’on se mit] in marcia». C’è l’on della macchina sociale («si usciva [on sortait] dalla chiesa») e l’on, quasi fusionale, della percezione e della sensazione condivise, come nell’episodio della prima passeggiata a cavallo di Emma e Rodolphe («Erano [On était aux] i primi giorni d’ottobre … si scorgevano [on apercevait] in lontananza i tetti di Yonville»). Insomma, l’on indica un soggetto impersonale, a cui partecipano tutti gli altri, che occupa il posto dell’autore e descrive quanto si presume che i protagonisti del racconto vedano e ascoltino. («A tutte le finestre si vedevano [on voyait] persone affacciate … ci si sentiva [on entendait] erompere di colpo dietro alle spalle un lungo muggito di bue»). Questo on, dunque, indica alternativamente l’identità senza soggetto e il soggetto senza identità, questo niente e questo tutto di cui parla il romanzo. Perché la sensazione, la sensazione immediata e fugace, o quella che per un po’ scatena le vertigini più folli, è nel cuore di ciò che Flaubert descrive. Ma la sensazione, per quanto intensa, è insieme fragile e confusa. È esposta al disinganno perché non è mai così forte come quando ha ancora la forma di un presentimento: «Le felicità future, come le rive dei tropici, proiettano sull’immensità che le precede le loro mollezze native, una brezza profumata, e inebriati scivoliamo nel torpore senza nemmeno preoccuparci dell’orizzonte che non si vede». La sensualità combina le lusinghe della reminiscenza e i sortilegi dell’attesa. In un istante, le vecchie sensazioni e i volti del passato invadono il presente, come in uno dei primi incontri di Emma e Rodolphe: «Quante volte Léon era ritornato verso di lei con quella carrozza gialla; ed era proprio su quella strada che se n’era andato per sempre. Le parve di vederlo di fronte, alla finestra, poi tutto si confuse, passarono delle nubi, le sembrò di volteggiare ancora nel valzer, sotto il brillio dei lampadari, al braccio del visconte, e che Léon non fosse lontano, stesse per arrivare … ma insieme si sentiva sempre vicino il capo di Rodolphe. E così la dolcezza di questa sensazione penetrava i suoi desideri d’un tempo». Tra il presentimento e la confusione non c’è più alcuna distanza. La distanza è la causa dell’infelicità di Emma Bovary perché, presto o tardi, ella la vede sempre instaurarsi di nuovo tra sé e coloro che ha voluto amare, o ha creduto di amare. La confusione, però, è ancora peggio. Se l’una evoca l’altra, se le immagini di Léon e di Rodolphe si sovrappongono, è perché l’uno vale l’altro. Quando il tempo non è creatore, si abolisce sia il passato sia il futuro: niente passa, niente avviene [rien ne passe, rien ne se passe]. Emma si è posta definitivamente sotto il segno della

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ripetizione, è incapace di vivere un vero e proprio inizio. La confusione può anche riconciliare. Curiosamente, una volta morta Emma, Charles Bovary, folle di dolore e gelosia, si rasserena dopo avere incontrato Rodolphe, l’ex amante della moglie: «Charles si smarriva in fantasticherie di fronte a quel viso che lei aveva amato. Gli pareva di rivedere qualcosa di lei. Era come rapito. Avrebbe voluto essere quell’uomo». Ma la confusione è pericolosa; attiva un principio di equivalenza generalizzata che, passando per la voluttà del dolore, elimina la distinzione tra vita e morte. Charles Bovary va a sedersi sulla panchina del suo giardino e muore senza accorgersene, nel voluttuoso splendore di una giornata d’estate: «le foglie di vite disegnavano le loro ombre sulla sabbia, il gelsomino profumava, il cielo era azzurro, le cantaridi ronzavano attorno ai gigli in fiore, e lui ansimava come un adolescente sotto i vaghi effluvi amorosi che gli gonfiavano il cuore angosciato ... Alle sette la piccola Berthe, che non l’aveva visto per tutto il pomeriggio, venne a chiamarlo per la cena ... credendo che scherzasse, gli diede una piccola spinta. Lui cadde a terra. Era morto». Jacques Rancière ha sottolineato in diversi articoli la visione «democratica» che Flaubert aveva del reale. Per il Flaubert di Madame Bovary, la descrizione di un elemento vegetale del paesaggio ha la stessa importanza di quella di un episodio della vita dei personaggi. Altri, al proposito, hanno parlato del «panteismo» di Flaubert. Va detto che, nelle sue opere, la descrizione è al contempo così dettagliata e vivace da valere come evocazione. La Normandia di Flaubert non esiste solo nel dettaglio della sua realtà sociologica (i mercati, la strada, la fattoria, la città, la lingua) ma per la forza dei suoi paesaggi, dei suoi rumori e dei suoi odori. Ma esiste di per sé. A differenza di Balzac, dove la descrizione equivale sempre a una spiegazione, in Flaubert non viene postulato alcun legame tra i personaggi e il loro ambiente. Anzi, egli ha ribadito spesso che Madame Bovary avrebbe potuto vivere altrove, in un altro villaggio, in un altro paese. Dovremmo dunque pensare che gli interessasse soltanto la psicologia di una donna frustrata? Che abbia deliberatamente cercato di tracciare il ritratto tipo di una donna che, spinta dall’infelicità, affronta le deludenti seduzioni del mondo moderno? Che, in fondo, sia il primo romanziere a superare il colore locale per affrontare ciò che, pur non essendo ancora il mondo globale, è già la società degli stereotipi, quella in cui le immagini lenitive di una felicità prefabbricata si scontrano con le violenze e le volgarità della realtà sociale ed economica? Insomma, che abbia descritto più la verità di un momento che quella di un luogo? In effetti, possiamo tenere in considerazione questa ipotesi e, per di più, constatare che in Flaubert c’è qualcosa di simile a un movimento di ordine etnologico e antropologico, poiché, a partire da una esperienza singolare, anche se fittizia, egli ha tracciato il suo ritratto modello. L’autore di Madame Bovary ha la sensibilità di un etnologo combattuto tra distacco e partecipazione. Sappiamo che in Oriente amava abbigliarsi e vivere come gli indigeni. Ma ciò che il viaggio gli ha insegnato più di tutto è l’esperienza della distanza e, attraverso di essa, qualcosa di se stesso: fedele e infedele, quando è in Francia sogna l’Oriente e quando è in Oriente sogna di tornare in Francia. È una persona instabile, diremmo oggi. Il merito di questa instabilità è quello di permettergli di rivolgere uno sguardo privo di indulgenza sulla sua società. Ne detesta soprattutto la stupidità e l’ipocrisia. Ma non ha lo spirito di un rivoluzionario (e nell’Educazione sentimentale traccerà un ritratto ugualmente privo di indulgenza di quanti ambiscono a questo titolo). Per di più è misogino, ma consapevole (lo attesta il suo epistolario) dello svilimento imposto alle donne da questa società che detesta. Nella mente di Flaubert, la duplice esemplarità di Emma è palese: la sua eroina parla al tempo stesso delle donne e della società che le educa. Il pessimismo di Flaubert, ammesso che si tratti proprio di pessimismo e non di nichilismo, si spinge oltre. Il principio di equivalenza e di indifferenza che egli mette in opera, letteralmente, vale per gli esseri e per le cose, ma anche per il tempo (progetti e ricordi travolti nella stessa tormenta) e per i sentimenti. Il suo materialismo assoluto non è compensato da nessuna illusione di ordine sociale o politico. Non crede nell’avvenire, così come non crede nel futuro. In questo senso, resisterà sempre alle

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decodifiche sociologiche o filosofiche di cui continua a essere oggetto. Tuttavia, ha una debolezza, che è anche la sua forza: la scrittura, l’ambizione di scrivere questo niente che è la verità di tutto. Perché la scrittura sfuggirebbe al niente, come se ne distinguerebbe? Qui le conclusioni possono essere divergenti. Alcuni diranno che la scrittura è l’ultima illusione, addirittura una doppia illusione, nella misura in cui pretende di analizzare un fenomeno di cui è soltanto uno dei sintomi. Ma la rilettura di Madame Bovary mi ispira una sensazione molto diversa. Se oggi Emma rimane una figura così attuale e conturbante, se possiamo perfino credere di comprenderla meglio dei suoi contemporanei, significa che la scrittura di Flaubert è servita a qualcosa. Attraverso l’economia che le è propria, non si rivela soltanto in grado di captare il minimo dettaglio materiale, la minima esitazione del linguaggio e il minimo fremito dell’anima: si rivela anche capace di cogliere, nelle armoniche e nelle risonanze di un’epoca, un effetto di stereoscopia, i cui echi saranno realmente percepibili solo più tardi e più lontano. Come ha fatto notare Michel Leiris, bisogna appartenere pienamente al proprio tempo per potergli sopravvivere. Essere contemporanei significa porre l’accento su quanto, nel presente, delinea qualcosa del futuro. Solo a distanza, insomma, a partire dalla constatazione della sua costante presenza, possiamo giudicare la totale pertinenza di un autore rispetto alla sua epoca, e ritrovarci in ciò che egli ha saputo estrarre dal caos informe della sua attualità. Leiris, nel Ruban au cou d’Olympia, si interrogava anche su come individuare i tratti tipici di una determinata epoca. E, prendendo ad esempio Manet, suggeriva che in pittura il dettaglio (nel caso specifico, il semplice nastro nero e il gioiello di paccottiglia che gli è agganciato) costituisca questo indizio di contemporaneità. Peraltro, vi scorgeva un incoraggiamento per l’autore che invecchia e, mentre gran parte di ciò che lo circonda gli sfugge, si chiede se sia ancora «al passo coi tempi». Così può sempre sperare di avere fatto pervenire, a chi verrà dopo di lui, alcuni segni, sulle prime incompresi, ma che più tardi, in maniera retrospettiva, verranno considerati come caratteristiche del suo tempo. La contemporaneità non si limita all’attualità e si coniuga al futuro anteriore. Il futuro anteriore è l’estrema traccia di ottimismo dei creatori: Flaubert sarà stato colui che, creando Emma Bovary, anticiperà le illusioni, le alienazioni e le tragedie a venire; probabilmente, identificandosi con la sua eroina, Flaubert sapeva di proiettarsi ben oltre, e doppiamente: perché, se a partire dallo sguardo sul presente non doveva essere così incoraggiante figurarsi le mediocrità imminenti, il fatto di sapere che un giorno qualcuno ne avrebbe preso coscienza e avrebbe potuto trovarne un’eco anticipata nella fredda e appassionata spietatezza di un romanzo del XIX secolo, doveva risvegliare in lui un’empatia prospettica con i suoi lettori a venire, con i suoi lettori ideali. Penso ancora una volta a Baudelaire e all’inizio dei Fiori del male: «Ipocrita lettore, – mio simile, – fratello». Forse Flaubert era consapevole di scrivere anche per quelli che, più tardi, avrebbero capito fino a che punto egli era stato contemporaneo alla sua epoca e alla loro, e ciò spiega il paradosso di un uomo che non credeva a niente, tranne che alla scrittura, e perciò, malgrado tutto, al futuro. Tuttavia, a dispetto della sua formula rimasta nella storia («Madame Bovary sono io»), Flaubert è Flaubert ed Emma Bovary è Emma Bovary. Gli eroi del romanzo sfuggono in fretta al loro creatore; hanno un’esistenza propria che supera la sua immaginazione. Ben presto non gli appartengono più. Saranno i lettori ad appropriarsene, e forse ci sono tanti eroi quanti lettori. A volte l’eroe epico era un semidio. E, come semidio, esprimeva il passaggio dal caos all’intrigo, dal mito al racconto, il progressivo affrancamento, mediante la letteratura, dall’«incubo mitico» di cui parla Benjamin, e la progressiva sostituzione del mondo degli uomini a quello degli dèi, analizzata da autori come Jean-Pierre Vernant o Cornelius Castoriadis, soprattutto a proposito della tragedia. Alla fine

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di questo percorso, l’uomo scopre la sua solitudine. È a questo punto che appare il volto del vero eroe, quello che non crede più né al paradiso né al divenire storico, ma accetta ugualmente di vivere – o di morire – per una causa persa; è l’eroe di Camus o di Malraux. Flaubert, però, era agli antipodi di questa mistica senza Dio. I suoi eroi sono personaggi senza eroismo. Tranne Emma, appunto, che ha anticipato la conclusione cui, un secolo più tardi, i suoi successori in eroismo romanzesco non oseranno giungere: di fronte al nonsenso resta soltanto la morte. Emma è l’eroina del passaggio all’azione, l’antieroe per eccellenza, ma l’antieroe è una figura estrema dell’eroismo, mentre Frédéric Moreau è semplicemente un non eroe. La rinuncia al futuro, il suicidio, non indica necessariamente una rinuncia all’avvenire. La morte eroica, in generale, si crede testimonianza: il martire, nel momento stesso in cui rinuncia al futuro immediato, scommette sull’avvenire. Una scommessa che, tuttavia, non è priva di poste in gioco più personali. Così come quella dello scrittore, si coniuga al futuro anteriore; pretende di trasformare una vita in destino. In Emma non troviamo nulla di questo movimento estremo, di questa suprema magniloquenza: il suo suicidio, pura rinuncia alla vita, resta una questione privata, spogliata di ogni illusione e di ogni presunzione di esemplarità. Emma ha un’esistenza e un avvenire soltanto letterari. È in questo senso che Flaubert ha potuto esclamare «Madame Bovary sono io». Il vero eroe è lui. Non crede a niente, ma scrive comunque. Nella nostra società dei consumi siamo più o meno coscientemente sensibili alla dissoluzione dell’essere nell’apparire operata dai media, alle forme di solitudine che accompagnano i progressi della comunicazione e al principio di equivalenza o di indifferenza da cui, ogni giorno, sembrano dipendere la storia e l’informazione. La vita affettiva è sempre più orientata dagli stereotipi diffusi a livello planetario. La vita intellettuale è sempre più influenzata dai codici della correttezza più convenzionale. Precauzione, correttezza, rispetto: queste parole d’ordine generiche e indifferenziate esercitano una tirannia costante, come luoghi comuni mascherati da stereotipi morali che faticano a nascondere lo smarrimento, la collera o l’angoscia degli individui. Le superstizioni più deliranti, le tirannie dell’insensatezza e della follia religiosa cercano di imporsi, non senza successo, in nome della libertà, e noi ignoriamo chi siano i responsabili di questa deriva incontrollabile. Temiamo tutto. Abbiamo paura della nostra ombra. Chiediamo perdono per i peccati dei nostri antenati. Ci abituiamo all’idea o all’immagine di un mondo senza storia e senza avvenire, di un mondo compiuto, arrivato alla fine, il cui spazio si richiude definitivamente su se stesso. Quali argomenti ironici o vendicatori, quali folgorazioni ispirerebbero all’autore del Dizionario dei luoghi comuni, se potesse tornare tra noi e ascoltarle, queste sciocchezze sparate tutto il giorno, con il tono di beata evidenza, di pedante perizia o di proselitismo illuminato, dai divi di ogni risma del piccolo schermo globale, e poi emulate da un pubblico che ne è schiavo? Se l’eroina di Flaubert ci colpisce ancora, e oggi più che mai, è perché preannunciava queste nuove vertigini. Inoltre, l’ambiente piccolo-borghese in cui gradualmente evolveva, con la sua soddisfatta banalità, appare più familiare al lettore di oggi che non l’aristocrazia tormentata e romantica dei romanzi di Tolstoj. In questo senso, benché abbia vent’anni di più, Emma Bovary è più vicina a noi rispetto ad Anna Karenina, altra figura tragica e grandiosa della modernità femminile. A quali aberrazioni tragiche si abbandonerebbe Emma Bovary ai giorni nostri per sfuggire all’insostenibile mediocrità della sua condizione? La immagino per un istante seduta, sognante, davanti al televisore o allo schermo del computer. Si lascerà sedurre, su un sito di incontri, da un esperto di marketing o di risorse umane? Proverà a raggiungerlo a un mega-aperitivo o su una nave da crociera all inclusive? Sarà tentata di emulare quelle giovani donne, spinte da un folle desiderio di riconoscimento,

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che vede prendere parte alle trasmissioni televisive, cantare o raccontarsi con una passione e una disinvoltura così deliberate da far arrossire i più consumati «animatori»? Spinta dalla sua intolleranza, si esporrà al rischio di quelle tremende delusioni amorose da cui ci si riprende soltanto, e dopo alcuni episodi, nelle fiction del piccolo schermo? Resterà vittima di un’overdose o di un folle che, una sera, all’ora di punta, la scaraventerà sotto un treno della metropolitana? E se si fosse buttata di proposito e, dando la colpa a qualcun altro, le si volesse rubare anche la morte? Emma Bovary ci parla della fuga impossibile, del sogno irrealizzabile, dell’indifferenza, dei sentimenti che muoiono, della cupidigia degli uni e della debolezza degli altri, dell’individuo che è tutto e niente. Ci suggerisce che, nel tempo dell’ubiquità, dell’eterno presente, dell’immagine e della finzione generalizzata, il bovarismo non è più solo il destino delle provinciali nevrotiche: trascende le frontiere del sesso e della patologia; o, più esattamente, ci aiuta a capire che le donne, da sempre, hanno incarnato la condizione umana in ciò che essa ha di più tragico. Grandezza e miseria dell’Uomo: Pascal faceva di questa grandezza l’oggetto di una scommessa, ma che ne pensava sua sorella? Che ne pensava la sorella di Chateaubriand? E la sorella di Claudel? Grazie alla sufficienza e all’egocentrismo maschili, la condizione femminile può apparirci come la forma acuta della miseria umana. «La donna è l’avvenire dell’uomo», scriveva Aragon. E aveva più ragione di quanto potesse credere. Ma dietro la sua promessa riusciamo a percepire un avvertimento. Nei cosiddetti paesi sviluppati, il consumo di tranquillanti e antidepressivi è in aumento. Ci si suicida dentro le aziende. Continuiamo a scontrarci con pareti di vetro che riflettono soltanto la nostra immagine appannata, fantasmatica. Dietro ai suoi schermi televisivi e alle sue grandi facciate di vetro, il pianeta si trasforma in un acquario. In questo mondo chiuso, opaco e assieme trasparente, in questo mondo da cui non si sfugge, possiamo essere portati a pensare che la disperata lucidità del bovarismo sia forse l’unica via d’uscita possibile, la sola follia sensata in questo mondo di folli. Prima di provare a vivere o a sopravvivere, dobbiamo prendere in considerazione questa ipotesi, accantonare le finzioni dell’evidenza, identificare la minaccia e chiederci se sia o meno necessario resisterle. Bisogna proprio giungere al culmine della disperazione perché si è giunti al culmine dell’illusione, rinunciare a sé come agli altri, al futuro come all’avvenire? Oppure, al contrario, dobbiamo rinunciare anche all’illusione della disperazione, all’orgoglio della sofferenza, accettare la mediocrità del quotidiano e ripiegare su una saggezza senza eroismo, su un futuro senza avvenire? In ogni caso, è in questi termini che il bovarismo continua a interrogarci. Oggi la crisi planetaria che stiamo vivendo ha una dimensione profonda che trascende l’economia. Non è solo una crisi finanziaria. Non è semplicemente una crisi politica o sociale, e non è una novità. Il Duemila è arrivato con le sue grandi paure e non è escluso che gli storici del futuro un giorno parleranno di «Crisi dei cent’anni» per riferirsi al periodo nel quale siamo entrati già da un po’. D’altronde, la percezione di cui è oggetto è parte integrante della crisi. Chi ne è vittima diretta, ma anche, più ampiamente, tutti coloro che la subiscono in mancanza di alternative, all’improvviso prendono coscienza che qualcosa non funziona più, che qualcosa a loro insaputa è cambiato. Crisi, crisi di coscienza e presa di coscienza si intrecciano e si rinforzano l’un l’altra, ma senza che sia possibile classificarle in termini di cause ed effetti. La morte o «niente» è la sola alternativa?

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5. Le nuove paure Non abbiamo ancora finito di tirare le somme sul cambiamento di scala che incide sulla vita a livello planetario. Questo cambiamento è soprattutto economico e, di conseguenza, tecnologico (le innovazioni tecnologiche creano nuovi beni di consumo che, a loro volta, esigono nuove forme di organizzazione del lavoro). Il capitalismo è riuscito a creare un mercato che ha la stessa estensione della Terra. Le grandi aziende sfuggono alla logica dell’interesse nazionale. La logica finanziaria impone agli Stati le sue regole. E, all’improvviso, questa dominazione è diventata così evidente da essere inappellabile – salvo i clamori delle manifestazioni di protesta che la accompagnano senza produrre il minimo cambiamento. La lotta di classe c’è stata, ma la classe operaia l’ha persa. L’Internazionale trionfa, ma è capitalista. Certo, il sistema conosce le sue crisi, ma nessuno si azzarderebbe a sostenere che esse siano il segno di contraddizioni foriere di avvenire. Il pianeta si urbanizza, si attrezza, si riorganizza e, parallelamente, il paesaggio urbano si trasforma in maniera radicale. In tutto il mondo, le grandiose architetture delle downtowns americane e dei quartieri d’affari europei simboleggiano, nel modo più diretto possibile, il potere di quelle aziende che innalzano nel cielo diurno sfavillanti grattacieli e, da lassù, guardano il mondo, prima di proiettare nel cielo notturno le luccicanti trasparenze dei loro uffici perennemente illuminati. Gli stessi contestatori, quando fanno sentire la loro voce, sono prigionieri del mondo delle immagini creato dalla prodigiosa espansione dei media e della comunicazione elettronica. In pochi decenni, il nostro ambiente più familiare è stato trasformato. Le categorie di sensazione, percezione e immaginazione sono state sconvolte dalle innovazioni tecnologiche e dalla potenza dell’apparato industriale che le diffonde. Il corpo si attrezza: lo si droga, lo si dopa in maniera sempre più efficace. Presto inizieremo ad aumentare le nostre performance, grazie alle nanotecnologie, e i microprocessori diventeranno l’espressione suprema del trapianto elettronico. Le serie televisive che deliziavano i telespettatori degli anni settanta o ottanta (l’uomo e la donna «bionici», capaci, come nelle fiabe di Perrault o dei fratelli Grimm, di vedere più lontano, di sentire meglio e di correre con falcate di sette leghe) stanno per trasformarsi in realtà. Il paradosso di questo corpo trionfante, però, è che esso non appartiene più a nessuno, che sfugge a colui o colei che credeva di esserne padrone, che è prigioniero delle tecniche o delle sostanze che lo proiettano oltre ogni performance credibile – proprio come resta prigioniero del suo braccialetto magico l’individuo costretto a sorveglianza elettronica. Quando le seduzioni della fiction penetrano il reale, per prima cosa provocano lo stupore, poi il dubbio e infine il timore di uno spossessamento dell’uomo da parte delle tecniche che egli stesso ha creato. La paura dell’apprendista stregone è sempre presente, ancor più per il fatto che le applicazioni tecnologiche capaci di confezionare corpi invulnerabili e dalle prestazioni elevatissime sono prioritariamente di ordine militare. Nel momento stesso in cui le macchine da guerra cominciano a sostituire gli uomini (pensiamo ai droni), il corpo umano aspira all’invulnerabilità e alla potenza delle macchine. Probabilmente, non è sensato immaginare che un giorno dei robot possano trasformarsi in uomini, ma lo è molto di più immaginare il percorso inverso e temere che gli uomini si trasformino in robot: nella storia ci sono dei precedenti, anche senza l’intervento della tecnologia. L’antropologo tradizionale studiava le relazioni sociali all’interno di gruppi dalle dimensioni sufficientemente modeste perché egli vi potesse lavorare da solo; si sforzava di studiare le relazioni sociali collocandole nel loro contesto. Oggi, però, il contesto è sempre un contesto mondiale, persino nell’Amazzonia e nel Sahara più profondi. Come ho ricordato in Straniero a me stesso, innanzi tutto la

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nozione di nonluogo si applica a tutti gli elementi costitutivi del contesto globale, al cui interno, d’ora in avanti, ogni osservazione locale dovrà inscriversi. L’estensione dei nonluoghi empirici ci fornisce un’idea di ciò che sarà il mondo di domani e rappresenta un cambiamento di scala che, tanto per gli individui quanto per i gruppi, modifica la definizione del contesto, che in definitiva è sempre planetario. Quanto agli strumenti e agli spazi di comunicazione, essi fanno parte sia del contesto sia della relazione e, di qui a breve, il loro sviluppo potrà anche mettere in discussione questa distinzione. Gli etnologi che si sforzano di analizzare quale sarà il funzionamento dei social networks nel futuro faranno molta fatica a separare il tipo di relazioni che vi si creano dall’ambiente a cui appartengono, e che essi contribuiscono a definire. Siamo di fronte a un cambiamento politico. Parliamo di potenze in ascesa, di paesi «emergenti» e ascoltiamo le loro esigenze di rappresentatività negli organismi internazionali. Ma, a tal riguardo, assistiamo all’utilizzo di due linguaggi potenzialmente contraddittori. Il vecchio linguaggio si attiene alle nazioni come tali e tratta le loro competizioni a venire nei termini dei secoli precedenti. Alcuni indicatori, come il tasso di crescita, la bilancia commerciale, il tasso di indebitamento, forniscono i punti di riferimento in base a cui misurare la posizione degli uni e degli altri in una competizione planetaria, che immaginiamo analoga a quella che contrapponeva le nazioni europee nel corso dei secoli passati. Alcune nazioni un tempo colonizzate o sottomesse si sono appena «unite al gruppo» e hanno deciso di «giocare con i grandi», mettendoci un tale ardore che presto supereranno i vecchi leader. L’ONU e i diversi organismi internazionali si conformano a questo linguaggio e discutono, ad esempio, per capire chi saranno i prossimi a entrare a far parte del Consiglio di Sicurezza. Ma ha fatto la sua apparizione anche un altro linguaggio, transnazionale più che internazionale. Viene utilizzato per rendere conto di conflitti locali. «Locali» perché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la conversione della Cina all’economia di mercato, una guerra «mondiale» tra grandi potenze è ormai impensabile. Le guerre, nel vecchio senso del termine, sono oggi riservate ai piccoli paesi e sono essenzialmente guerre civili o conflitti di frontiera. Molti fattori ne complicano la soluzione, ma possiamo credere che, di qui a poco, questi tipi di scontri saranno sottoposti al diritto di ingerenza o all’arbitrato e, eventualmente, alle sanzioni di organismi come il tribunale penale internazionale. Ciò non vuol dire che il pianeta sia più pacifico, né che le grandi potenze non giochino un ruolo nell’innesco delle violenze, né che non facciano la loro comparsa nuove forme di guerra (guerra economica, spionaggio industriale, attacchi informatici, terrorismo); significa solo che le modalità sono altre e gli attori sono meno facilmente identificabili. Anche la paura cambia volto. In Europa nessuno teme più un conflitto di tipo classico. La paura diventa diffusa; ogni attentato la riaccende. Datare la nascita delle parole e ripercorrere la loro diffusione sarebbe un esercizio eminentemente sociologico, nel senso più giustificato del termine. Nell’ambito che qui ci interessa sarebbero coinvolti due tipi di parole. Nel vocabolario istituzionale, l’ONU – che il generale De Gaulle chiamava machin, il «coso» – è ormai una realtà sotto gli occhi di tutti; si possono denunciare gli errori di Bruxelles, la politica del FMI, l’azione della NATO o le decisioni dell’OPEC, ma sappiamo, dalla lettura dei giornali o dalle notizie dei telegiornali, che queste sigle indicano degli attori regionali o transnazionali le cui iniziative ci riguardano molto direttamente. Nel vocabolario concettuale, la parola governance, nel senso di «arte di gestire», è un neologismo sul quale, ormai da qualche anno, si sono lanciati i politici del mondo globale: nei fatti, sottintende che sia tutta una faccenda di competenze e di buona gestione. Così, avremmo definitivamente abbandonato il campo dei sogni e delle rivoluzioni. Il concetto di governance proclama la fine della storia. È la parola d’ordine politica di una società dei consumi e dei servizi che, di qui a poco, dovrebbe portare a termine la

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sua estensione all’intero pianeta. Di una società che si preoccuperebbe ancora del suo futuro immediato, ma non avrebbe più bisogno di avvenire. È un cambiamento ecologico e sociale. Le paure suscitate dalla globalizzazione, intesa come fine della storia, fanno coppia con i timori ecologici. In nome degli imperativi dello sviluppo e della crescita, trattiamo male il pianeta e lo strato di ozono. Ma non è tutto: in questa logica dello sviluppo, ciò che aumenta è lo scarto tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, tra i più istruiti e i più analfabeti. In questa direzione, si delinea fin da ora l’apparizione di un’oligarchia globale transnazionale e di una società planetaria non egualitaria, il cui motore sarà il consumo degli strati intermedi; lascerà da parte una massa di esclusi (anche «esclusione» è una parola che, in questi ultimi anni, ha conosciuto una nuova fortuna), assistiti e gestiti alla meno peggio da istituzioni specializzate che, ben che vada, li conserveranno in una posizione prossima alla soglia di povertà. Oggi, la paura di cadere dalla parte degli esclusi è molto diffusa e alimenta l’angoscia nei confronti del futuro immediato. È un cambiamento di scala demografico. All’inizio del XX secolo, la popolazione del mondo corrispondeva grosso modo a quella della sola Cina di oggi. Questa espansione demografica varia a seconda dei paesi; il più delle volte, i paesi sviluppati hanno un tasso di natalità in diminuzione. È facile immaginare – e spesso ne siamo testimoni – quanti timori susciti questa disparità. Due tipi di panico di natura contraria si rinforzano a vicenda. Si intensifica l’emigrazione da quei paesi in cui la vita è ogni giorno più difficile; i migranti, per fuggire, rischiano spesso la vita. Questi movimenti di popolazione provocano timori nei paesi o nelle regioni di accoglienza, in Europa, certo, ma anche in Africa, in America o in Asia. La migrazione preoccupa anche perché è una delle manifestazioni più evidenti delle trasformazioni del pianeta e fa capire a tutti il carattere artificiale di qualsiasi rivendicazione strettamente locale; tuttavia, il luogo ha a che fare con l’identità e, per esempio, se la disoccupazione viene messa direttamente in relazione alla presenza di immigrati, il fantasma della perdita di sé si espande, combinando rappresentazioni individuali e collettive. Dietro a queste inquietudini aleggia un timore più profondo: che sulla Terra siamo troppo numerosi, troppo numerosi perché essa possa nutrirci senza esaurire le sue risorse vitali di base. Al giorno d’oggi, il tema dell’esaurimento delle risorse è esplicito e si cominciano a utilizzare nuove tecnologie che dovrebbero attenuarne gli effetti. Evidentemente, anche se non viene detto in maniera esplicita, la demografia è al centro delle preoccupazioni dell’ecologia. E le catastrofi naturali, i cui effetti sono ovunque amplificati sia dalla miseria e dall’affollamento degli uomini, sia dalla presenza di impianti pericolosi, come nel caso delle centrali atomiche, possono sembrare capaci di far scomparire intere comunità umane. In queste condizioni, la prospettiva di un pianeta sul quale presto si accalcheranno dieci miliardi di uomini alla ricerca del loro posto al sole accentua i timori e le preoccupazioni già espresse oggi. È un cambiamento di scala estetico e culturale. Nel XVI secolo il Rinascimento, prima italiano e poi francese, è stato reso possibile grazie a un ritorno all’antichità greco-latina, che ha ravvivato la tradizione cristiana, e ad apporti di paesi lontani (America, Africa, Cina), nei quali Lévi-Strauss ha individuato l’origine della vitalità e del dinamismo europei dell’epoca. Chiaramente, in questa prospettiva il «qui» era l’Europa e l’«altrove» il resto del

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mondo. Le cose sono davvero cambiate? Sì, nel senso che un centro del mondo c’è sempre, ma si è allargato e, in qualche misura, deterritorializzato. La «metacittà virtuale» di cui parla Paul Virilio si riferisce sia alle megalopoli del mondo (le più influenti delle quali si trovano, principalmente ma non esclusivamente, in America, in Giappone, in Cina e in Europa), sia alle reti di scambio, di comunicazione e di informazione che le collegano. Oggi d’altra parte, in molti settori, si è più propensi a parlare delle città che non dei paesi in cui si trovano. Le grandi città cercano di costruirsi una «immagine di marca». Aspirano a figurare in buona posizione negli elenchi delle investiture elaborati da istituzioni transnazionali (iscrizione al patrimonio dell’umanità, elezione, più modesta ed effimera, a capitale culturale europea, designazione a sede delle Olimpiadi o di un determinato campionato del mondo). E il più delle volte tutte queste onorificenze danno avvio a nuove costruzioni, prestigiose ed emblematiche. I nomi dei grandi architetti sono conosciuti in tutto il mondo, quasi come quelli dei grandi calciatori. L’architettura gode ormai di uno status sociale assolutamente particolare. Qualcuno minaccia di ridurre di qualche metro il grattacielo che Nouvel costruisce a Manhattan? La stampa si mette in agitazione. Un grande produttore vinicolo di Bordeaux vuole accrescere il prestigio dei suoi vigneti? Affida al costruttore della cattedrale di Evry, Mario Botta, il compito di progettare una nuova cantina. Un nuovo museo apre le porte a Bilbao o a Chicago? Folle di persone si precipitano a vederlo, più attratte dall’edificio che non da ciò che contiene. Gli architetti più in vista sono celebrati in tutto il mondo, e alcune città di media importanza cercano di assicurarsi il fatto che uno di essi collochi almeno una delle sue opere sul loro territorio, così da farlo accedere a dignità planetaria e turistica. Le grandi aziende che si installano nei grattacieli più recenti lo fanno prima di tutto per la loro immagine. «Immagine» e «marca» sono parole magiche e ammalianti, che riassumono, agli occhi di molti, tutto ciò che è possibile sapere del mondo in cui viviamo. Le aziende pretendono così di offrire buone condizioni di lavoro ai loro dipendenti. Ma spesso anche queste condizioni si limitano all’immagine. Gli spazi senza pareti (gli open space) sono luoghi in cui ognuno è prigioniero dello sguardo degli altri, più che luoghi di libertà, dove lo sguardo può raggiungere l’orizzonte attraverso immense vetrate. L’ambiente aziendale è rigorosamente gerarchico: lo dimostra la scelta delle postazioni all’interno dello spazio «aperto» e il fatto che i responsabili più importanti dispongono di uffici separati. Dunque, è importante distinguere le situazioni. In un certo senso, tutto circola e si trova ovunque. In Brasile, per esempio, alcune etnie che credevamo scomparse sono riapparse dopo che il governo brasiliano ha condotto una politica di assegnazione delle terre ai gruppi etnici socialmente costituiti. Dei «meticci» isolati e disseminati qua e là si sono riuniti e, sulla base di ricordi e improvvisazioni, hanno reinventato i loro rituali e le loro regole comuni. Spesso, per le loro cerimonie – molto apprezzate dai turisti stranieri – hanno fatto ricorso a oggetti che circolano sul mercato, il più delle volte di origine asiatica: in questo caso siamo di fronte a una diffusione di «tratti» materiali a servizio di una reinvenzione culturale. Il ritorno alle origini attinge a fonti esterne. D’altra parte, probabilmente non vi è nulla di così inedito: possiamo immaginare, infatti, che i gruppi e i culti si siano sempre costituiti sulla base di un bricolage di questo tipo. Quel che è nuovo, forse, è il fatto di attingere a fonti molto distanti e la diversificazione del pubblico: è la prova di una nuova organizzazione del pianeta. Nel settore dell’arte o del design (settori che tendono sempre più a coincidere e a sovrapporsi parzialmente), il gioco con le forme o con gli oggetti di origine lontana non nasce dalle stesse esigenze. È il risultato di una scelta deliberata e ha senso in ambienti privilegiati e coscienti delle immense possibilità che, teoricamente e idealmente, l’apertura del pianeta offre a tutti gli sguardi. Nasce da un eclettismo ispirato a vocazione umanistica, contrapposto ai monopoli culturali e all’etnocentrismo. La difficoltà con cui oggi si scontrano i fautori di questo eclettismo, così come tutti gli artisti, è

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l’estrema elasticità del sistema globale, straordinariamente capace di appropriarsi di qualsiasi dichiarazione di indipendenza e ricerca di originalità. Non appena formulate, le rivendicazioni di pluralismo, di diversità, di ricomposizione, di ridefinizione dei criteri, di apertura alle culture diverse, vengono accettate, proclamate, banalizzate e messe in scena dal sistema – cioè, concretamente, dai media, dall’immagine, dalle organizzazioni politiche e così via. Da ciò deriva la sensazione che può avere il grande pubblico, forse scorretta da un punto di vista tecnico ma significativa da quello sociologico, che in arte così come in architettura tutto si assomigli. La difficoltà dell’arte, nel senso più ampio del termine, è sempre stata quella di prendere le distanze da uno stato di società che essa, tuttavia, se vuole essere compresa dagli uomini e dalle donne a cui si rivolge, deve esprimere. L’arte deve esprimere la società (cioè, al giorno d’oggi, il mondo), ma deve farlo intenzionalmente. Non può essere soltanto un’espressione passiva, un aspetto della situazione. Se vuole mostrarci qualcosa di diverso rispetto a ciò che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, per esempio al supermercato o in televisione, deve essere espressiva e riflessiva. L’arte è inquietante per vocazione. Le forme dell’arte contemporanea, proponendoci ciò che vediamo ogni giorno, ci disturbano: trasformano gli oggetti comuni e familiari in oggetti di riflessione e, di conseguenza, non sublimano il reale ma lo sovvertono. La loro ambizione si contrappone agli sforzi dispiegati dalla società dei consumi per persuaderci che tutto vada da sé, da cui la tentazione, alimentata dai messaggi rassicuranti dei media, di ridurle a semplici variazioni sull’esistente, a semplici ridondanze. È un cambiamento di scala fisico e metafisico. Le preoccupazioni dell’ecologia, le questioni del cambiamento climatico, fanno brutalmente scoprire ai comuni mortali quanto sia minuscolo il pianeta in un universo infinito. L’universo, scriveva Pascal, «è una sfera infinita, il cui centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte». La scienza è un po’ più precisa: per quanto ne sappiamo, ci sono miliardi di sistemi solari nella nostra galassia, e ci sono migliaia di galassie nell’universo, sempre che la parola abbia un senso. Certo, queste dimensioni eccedono le nostre capacità di immaginazione e, fortunatamente per la nostra salute mentale, non cerchiamo di interrogarci ogni giorno sui misteri della materia, sui buchi neri o sull’espansione dell’universo. Ma, in maniera impercettibile, per capillarità, anche i più incolti possono convincersi dell’idea, ancora più terrificante quando non nasce da un sapere ma solo da vaghe rappresentazioni, che niente sia meno evidente del naturale. Anche i terremoti che scuotono il buon senso e i luoghi comuni sono terremoti devastanti. Dunque, ciò che talvolta definiamo «individualizzazione delle credenze» somiglia piuttosto a un’interiorizzazione dei dubbi e delle paure. Le antiche cosmologie, che circondavano la miseria umana di un alone di senso, erano proiezioni di società che si definivano attraverso la loro inscrizione nello spazio e nel tempo. Ora, mentre sulla Terra compaiono nuove mobilità, si diffonde agli occhi di molti l’immagine più o meno confusa di un universo materiale dalle dimensioni infinite e in perpetua espansione che, incontestabilmente, eccede le nostre capacità di immaginazione.

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6. L’innovazione Se analizziamo l’idea di «modello», riusciamo a capire più chiaramente la differenza tra le scienze, da un lato, e le discipline dell’azione, dall’altro. I modelli nati dalle utopie del XIX secolo avevano per oggetto gli uomini ed erano concepiti da cervelli umani. Una volta elaborato, il modello non era più un’ipotesi, per definizione passibile di revisione, ma una guida per l’azione. Detto altrimenti, perdeva qualsiasi dimensione problematica, aspirava ad essere una sorta di «libretto di istruzioni» fondato su una certezza: è proprio questa la difficoltà che, con un buon senso tardivo e tragico, ha dovuto affrontare l’eroe della Condizione umana ricordato sopra. Pur apparentemente private di qualsiasi dimensione ideologica, le cosiddette «scienze» sociali o umane non sono scientifiche allo stesso modo delle cosiddette scienze «dure», perché hanno per oggetto gli uomini, non le componenti biologiche e materiali dell’uomo, ma il comportamento umano nel suo aspetto simbolico, nella relazione di un individuo con se stesso e con gli altri. Gli strumenti di misurazione e, per esempio, la matematizzazione dei risultati non cambiano le cose, ed è evidente che anche la ricerca economica si colloca dalla parte delle scienze sociali, non da quella delle scienze della natura, per quanto «duri» e formalizzati possano essere i loro protocolli di indagine. Dunque, visto che nelle scienze sociali la ricerca viene svolta da uomini, queste scienze non possono escludere dal loro campo di osservazione una dimensione riflessiva. Non significa che, tendenzialmente e idealmente, non esista un’unità di tutti i saperi, e neppure che le scienze sociali siano in grado di produrre solo risultati qualitativi e relativi; significa soltanto che esse, rispetto alle scienze della vita o della materia (nonostante queste ultime non ne siano completamente esenti), sono più esposte al rischio di essere integrate da quelle forze di cui studiano il ruolo nel campo sociale: ne fanno parte e, rispetto alle scienze della natura, hanno più difficoltà nel definire un punto di vista totalmente esterno al loro oggetto. Oggi però, con la globalizzazione e l’estensione a tutto il pianeta del mercato capitalistico, assistiamo all’emergere di una serie di convergenze inedite al-l’origine di una situazione radicalmente nuova, che il pubblico, data la rapidità della sua comparsa e la potenza degli effetti di linguaggio che la presentano come qualcosa che va da sé, naturale e indiscutibile, percepisce solo in maniera frammentaria. Per descriverla brevemente, potremmo dire che ormai siamo capaci di definire il nostro rapporto con lo spazio e il tempo, cioè l’elemento essenziale dell’attività simbolica che definisce l’essenza dell’uomo e dell’umanità, solo attraverso artefatti messi a punto dall’industria e fatti circolare sul mercato. Si tratta, a dir poco, di uno sconvolgimento totale della capacità degli uomini di percepire la loro relazione con se stessi e con gli altri, di una rivoluzione di cui, per il momento, avvertiamo solo i primi fremiti ma che, a lungo andare, potrà trasformare i parametri di quella che continuiamo a chiamare natura umana. Per le scienze sociali questa situazione rappresenta una minaccia, una risorsa e una sfida. Una minaccia, perché queste nuove convergenze mettono in dubbio il ruolo delle stesse scienze sociali, chiamate quasi a trasformarsi in strumenti di misurazione al servizio dei cambiamenti tecnologici in corso. Una risorsa, perché le scienze sociali potrebbero ribaltare il loro sguardo critico su se stesse e sull’attualità, come è avvenuto talvolta all’antropologia sociale all’epoca delle colonizzazioni, così da riuscire a misurare esattamente il fenomeno sociale nel quale sono coinvolte. Infine, una sfida all’altezza delle poste in gioco: procederemo a velocità accelerata verso un mondo post-umano o saremo capaci di inventare i princìpi di un nuovo umanesimo? La sfida riguarda anche il fatto che, nella storia contemporanea reale, la diversità delle storie locali gioca ancora un ruolo importante e la storia concreta non si identifica in toto con quella della scienza, anche se le innovazioni tecnologiche, almeno in una parte del mondo, ce ne danno l’impressione. La diversità del pianeta è ancora enorme. Non possiamo accontentarci di osservare da lontano l’aumento della povertà, le violenze religiose, la deriva mafiosa della politica o il potere degli speculatori

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sull’economia mondiale. Un tempo si faceva appello all’«etnografia di emergenza» per conservare almeno qualche traccia delle culture in agonia. Ai nostri giorni l’emergenza è un’altra: reintrodurre lo sguardo critico in quei territori che ci paiono tanto più naturali quanto più ci troviamo a farne parte senza sapere come sia potuto succedere, riutilizzare le armi dell’analisi per mettere in dubbio l’indiscutibile o l’indiscusso, non per spaventarci delle evoluzioni in corso e unirsi al coro dei conservatori e dei reazionari di sempre, ma per salvare l’idea di progresso risollevando il problema dei fini. La ricerca pura non conduce necessariamente a qualche invenzione, non comunque in maniera immediata, ma ogni invenzione è il frutto di questa ricerca. Quanto all’innovazione, concetto coniato da Schumpeter nel 1912, essa si definisce in partenza come l’inserimento dell’invenzione nell’attività economica. Cerchiamo dunque di sfogliare il dossier sull’innovazione. Potrà aiutarci il settimo volume della rivista del Musée des Confluences di Lione, dal titolo Innovation, pubblicato nel luglio del 2011, perché presenta un quadro completo degli usi attuali di questo termine. Bruno Jacomy, direttore esecutivo del Musée des Confluences, precisa il concetto di innovazione aggiungendo: «L’invenzione è l’atto creativo attraverso cui un’idea assume la forma di un oggetto reale, l’innovazione vi aggiunge il carattere sociale, dovuto alla sua diffusione nella società sotto forma di prodotto». Dunque, pur essendo un concetto annoso, non è mai stato tanto utilizzato, celebrato e invocato quanto ai nostri giorni; si presenta come idea chiave di quelle imprese che, appunto, definiamo «innovative» e, come parola, prende posto nel vocabolario e nel linguaggio privato dell’attività economica, superandola però ampiamente, soprattutto attraverso le tecnologie della comunicazione di cui è all’origine. Assistiamo così allo sviluppo di un certo numero di argomenti che, di primo acchito, ci sono relativamente familiari: elogio della diversità, della partecipazione, dell’interdisciplinarità, della relazione tra l’ambito tecnico e quello sociale, elogio della ricerca, formazione continua, collaborazione tra università e mondo del lavoro, tra ricerca e industria… Ma possiamo chiederci se, nel nuovo contesto, questi argomenti non funzionino forse come una sorta di metafora in scala ridotta della vita sociale. In modo più polemico, potremmo anche dubitare del fatto che continui a trattarsi di una metafora, e chiederci se non siamo forse in presenza di una vasta opera di sostituzione, finita la quale le parole «ricerca», «diversità» o «cooperazione» avranno cambiato significato e il mondo delle imprese avrà preso il posto del mondo tout court. Se ci rimettiamo alle analisi di chi tenta di definire il concetto e le realtà che gli corrispondono, l’innovazione ricorda il «fatto sociale totale» di Marcel Mauss, nella misura in cui riguarda simultaneamente tutti gli aspetti della società e fa appello a tutti i suoi attori. Per prima cosa, gli osservatori più attenti la presentano come un fenomeno collettivo che nasce dall’interazione di diversi agenti. L’idea centrale è che gli utenti, in particolare quelli del settore informatico, possano far evolvere il sistema, attraverso le loro reazioni e le loro iniziative, ideando e, all’occorrenza, correggendo alcuni utilizzi in partenza non previsti. Dal punto di vista storico, questa dimensione collettiva dell’innovazione muove dalla consapevolezza che molto spesso le invenzioni si producono simultaneamente in luoghi diversi. A questo proposito, Hubert Guillaud cita due specialisti americani delle nuove tecnologie, Kevin Kelly e Steven Berlin Johnson, che ricordano come il calcolo differenziale, la pila elettronica, la macchina a vapore, il telefono e la radio siano stati concepiti nella stessa epoca da individui diversi. Da questa constatazione, sorretta dalla relativa coerenza di differenti congiunture storiche, si passa forse un po’ troppo in fretta a una visione ottimistica del periodo attuale – una visione ottimistica che, palesemente, corrisponde a una forma di impegno, nel senso sociale e politico del termine. Così

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Johnson decide di dimostrare che i prodotti culturali disprezzati dalle «élite intellettuali», come le serie televisive, i videogiochi e i reality show, nell’ultimo secolo avrebbero contribuito all’aumento del Q.I. Il termine «democratizzazione» viene utilizzato da Eric von Hippel (Democratizing Innovation, 2005) a proposito del ruolo degli utenti nel reimpiego, nell’adeguamento o nella modifica delle macchine di utilizzo corrente. Come altro esempio di questa collaborazione tra utenti e ideatori, viene menzionato anche il fatto che Apple, prima di commercializzarli, testa i suoi prodotti con i bambini in età scolare. Ovviamente, lo sviluppo di quelli che da qualche tempo a questa parte chiamiamo social network, cioè «reti sociali», viene presentato come un elemento rilevante all’interno di questa «dimensione collettiva» dell’innovazione, dato che la comunicazione istantanea facilita reazioni, risposte e scambi. Quel settore delle imprese definito «Ricerca e Sviluppo», espressione impiegata correntemente e che oggi è simbolo di qualità, diviene così il luogo in cui si sperimenta l’efficacia del nuovo modello di innovazione: la cooperazione. Essa può anche estendersi ad aziende rivali che, prima di riguadagnare la propria autonomia, collaborano tra loro per alcuni progetti: in questo caso, come si dice, praticano la «cooperazione». È spuntato anche il concetto di «co-concezione», per indicare il fatto che un’azienda sviluppa servizi o prodotti in collaborazione con i suoi clienti. Tra parentesi, la confezione di questi neologismi, anche se riflette una certa povertà lessicale e creativa, sottolinea l’ambizione degli ideologi dell’azienda di creare un mondo di riferimento che valga per tutti. L’elogio della diversità, che continuano a formulare e a riformulare, ha senso soltanto in rapporto a questo mondo e somiglia solo formalmente al discorso etnologico sulla pluralità delle culture: in definitiva, si fonda esclusivamente sulla produzione di beni di consumo e sulla capacità che avrebbero i consumatori di modificarli parzialmente. Il secondo aspetto dell’innovazione è di natura giuridica. I brevetti di invenzione, che in Francia risalgono alla Rivoluzione, riguardano «le invenzioni nuove che implicano un’attività inventiva e sono atte ad avere un’applicazione industriale»; non riguardano le scoperte o le teorie scientifiche. Tuttavia, con i progressi della ricerca biologica il rapporto tra l’innovazione e il diritto si è fatto più complesso, e la legge francese sulla bioetica del 2004 è passibile di nuove evoluzioni. Il dibattito sullo statuto dell’embrione contrappone chi rifiuta di vedervi una semplice «cosa» a chi, in nome della scienza pura o di argomentazioni economiche, teme che intere squadre di ricercatori fuggano all’estero per poter continuare a lavorare. Bruno Jacomy ricorda che in Francia la Corte Suprema, con un decreto del 1981, ha accettato che siano brevettati dei batteri geneticamente modificati. Pensiamo anche al ruolo delle nanotecnologie nei cambiamenti apportati alle prestazioni del corpo umano. È facile immaginare che l’indagine scientifica solleverà nuove questioni non solo nel campo dell’etica ma anche in quello dell’ecologia o del rischio in generale. Il principio di precauzione, spesso invocato, può diventare, a seconda dell’uso che ne sarà fatto, una rete di protezione o un freno, e qui il problema del confine tra ricerca pura e innovazione, intesa come immissione sul mercato di un’invenzione, è di primaria importanza. Un terzo aspetto dell’innovazione è di natura economica. In quella che ormai definiamo «economia della conoscenza», l’innovazione occupa un ruolo sempre più centrale. Corinne Autant-Bernard (Innovation) ricorda che, secondo Schumpeter, negli Stati Uniti l’interesse per l’innovazione è ricomparso solo negli anni sessanta, grazie all’impulso di Kenneth Arrow e Richard Nelson; e precisa: «Oggi l’economia dell’innovazione rappresenta un settore specifico dell’economia che si interessa al processo di innovazione (cioè, alla creazione di nuovi prodotti o servizi e di nuovi metodi di produzione), così come alle ripercussioni dell’innovazione sull’attività economica (crescita, occupazione, investimento, esportazione, ecc.)». L’autrice analizza i diversi dettagli tecnici della ricerca

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in questo campo, come la misurazione dell’innovazione, sempre difficoltosa, e il complesso rapporto tra dimensione d’impresa, concentrazione industriale, mercato concorrenziale e propensione a innovare. Ma qui ci interessa di più quella che definisco la «concezione totalizzante» dell’innovazione e delle ricerche che la riguardano. Ufficialmente, si distinguono infatti quattro grandi tipi di innovazione, a seconda che riguardino i prodotti, i processi di produzione, le modalità organizzative o le tecniche di marketing. In questa nuova prospettiva, emergono, con una forza senza precedenti, problemi quali la collaborazione del personale statale con le strutture private o la formazione degli ingegneri. Il progresso della tecnica è sempre stato associato a una certa visione del mondo, e la sua storia ha conosciuto grandi momenti fondativi, come il Rinascimento europeo e, nel XVIII secolo, il progetto degli enciclopedisti. Ma la concezione umanistica e la volontà di democratizzazione, che a quei tempi non solo li caratterizzavano ma ne erano parte integrante, oggi sono strettamente correlate al mondo dell’impresa. Da ciò deriva l’appello alle scienze umane perché esse partecipino alla formazione degli ingegneri reclutati nell’industria: «Formare all’innovazione significa, infatti, formare alla realizzazione tecnica ma anche pensare la società nella quale tale realizzazione si colloca. Lo sviluppo di un’innovazione non consiste soltanto nel trovare la “migliore” soluzione tecnologica: bisogna anche che questa innovazione sia in sintonia con le attese delle differenti parti interessate (utenti, collettività, produttori ecc.)». Insomma, un completo «sconvolgimento della tradizionale cartografia dei saperi» (Marianne Chouteau, Joëlle Fourest, Céline Nguyen, Innovation). «Sconvolgimento» è una parola che potrà sembrare eccessiva, se si considera che anche negli anni sessanta, dopo che le colonie avevano riconquistato la loro indipendenza, nei paesi un tempo sottomessi tutte le operazioni di sviluppo economico facevano appello a una collaborazione di questo tipo: interdisciplinare, dunque. A mio avviso, i tanti studi nati da questa attenzione al «fattore umano» indicavano l’esistenza dello stesso stratagemma di cui si avvalgono oggi le nuove teorie dell’innovazione: pur fingendo un adattamento alla società e allo studio dell’ambiente umano, nei fatti rispondevano alla volontà di trasformare questo ambiente da cima a fondo e, perciò, erano più simili alla diffusione di un’ideologia che non a un’analisi della realtà. In altri termini, erano parte della realtà che pretendevano di studiare. Erano il segno della trasformazione di cui avrebbero dovuto studiare le condizioni. Ciò non toglie che alcuni di questi studi rivelino una certa sottigliezza e siano dei documenti di prim’ordine che un giorno gli storici interessati a quel periodo potranno consultare con profitto. Allo stesso modo, possiamo chiederci se l’accompagnamento al fenomeno dell’innovazione da parte delle scienze umane non sia forse una componente (interna) piuttosto che un’analisi (esterna). Le forze dominanti della società si sono accorte della dimensione sociale della loro conquista del pianeta e, di conseguenza, hanno capito che dovevano essere loro a produrre gli strumenti di misurazione e di analisi del loro progetto. Non per una sorta di calcolo machiavellico destinato a ingannare quelli che ne sarebbero stati attori e, al contempo, oggetti, ma perché si tratta appunto di un progetto globale, totale, che non può limitarsi ad essere concepito sono in parte. Il progetto può anche conoscere ritardi o fallimenti (gli start-up non hanno avuto tutti il successo previsto) ma si inscrive nel lungo termine e in una visione del mondo globale nonché, dal punto di vista intellettuale, totalitaria. Di conseguenza, le «attese» del pubblico, a cui si pretende di rispondere e che fingiamo di misurare, sono chiaramente indotte dal sistema a cui esso appartiene come utente e consumatore. Da questo punto di vista, il pubblico può dar prova di astuzia e di ingegnosità, ma la migliore prova della sua integrazione al sistema, e del trionfo di quest’ultimo, è la sua partecipazione. Ora, questo sistema non riguarda soltanto la sfera strettamente tecnica: è la traduzione di una visione del mondo sociale, economica e politica. Perciò, nella letteratura sull’innovazione, emergono due grandi paradossi. Il primo riguarda la diversità degli esempi scelti per celebrare i suoi meriti: da un lato troviamo una borsina biodegradabile, le migliorie apportate a un kayak o al manico di una piccozza, dall’altro Internet, il Web o l’imaging biomedico. Il secondo paradosso sottolinea ancor più chiaramente l’effetto di linguaggio che vi è

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coinvolto: mentre tutta una letteratura evoca l’ampiezza del fenomeno di innovazione (Eric von Himmel afferma che le innovazioni degli utenti sono da due a tre volte maggiori rispetto a quelle dell’industria), Corinne Autant-Bernard fa notare la forte disparità nella loro distribuzione spaziale: «L’essenziale dell’innovazione si produce solo in un numero limitato di paesi e, all’interno di questi paesi, in un numero limitato di regioni, soprattutto nelle loro zone urbane. A questo proposito, la Silicon Valley è un esempio assai rilevante, preso spesso a modello per sviluppare i poli tecnologici in Europa» (Innovation). Possiamo quindi chiederci legittimamente se il termine abbia la stessa portata e lo stesso significato in tutti i suoi usi. Talvolta designa un processo di ingegnoso miglioramento di tecniche esistenti, di cui esistono numerosi esempi nella storia umana e nella diversità delle culture, altre volte indica un fenomeno contemporaneo e inedito di immissione sul mercato di prolungamenti originali della ricerca pura. Dunque, tutto avviene come se il termine «innovazione», utilizzato da solo, costituisse più che altro il tema portante dell’ideologia dell’economia liberale, un simbolo di iniziativa, di dinamismo e di rinnovamento perpetuo, applicabile alle tecniche, a chi le inventa o le mette in pratica, così come a tutti quelli che le utilizzano e alla società in generale. L’analisi di parole e di espressioni nuove è sempre un indicatore affidabile. Non molto tempo fa, era di moda parlare di «cultura d’impresa». L’espressione poteva essere intesa in due sensi. Da un lato, ogni impresa era di per sé una società con le sue regole, la sua vita, la sua storia e le sue solidarietà. Dall’altro, era un modello di razionalità economica e sociale a cui la gestione degli Stati avrebbe fatto bene a ispirarsi. Da un po’ di tempo a questa parte, non sentiamo più così spesso l’espressione «cultura d’impresa». Forse, all’origine di questa nuova discrezione, ritroviamo due aspetti della crisi economica. Da una parte, si tendeva a dimenticare che un’impresa ha dei proprietari, degli azionisti, poi ci si è presto resi conto che, quando bisognava scegliere tra gli interessi dei proprietari e quelli dei lavoratori, la logica finanziaria aveva sempre la meglio: in genere, le imprese hanno preferito sopprimere dei posti di lavoro piuttosto che ridurre gli interessi dei proprietari; gli imprenditori, a loro difesa, hanno dichiarato che è il prezzo del mantenimento della competitività, ma ormai anche per loro è diventato più difficile celebrare le virtù della cultura d’impresa come ambiente solidale. Dall’altra, alcuni leader politici hanno avuto la pretesa di gestire il loro paese come un’azienda e gli infelici esiti della loro amministrazione non perorano la causa di questa scelta. Ormai la cultura d’impresa appare sempre più per quello che è: una parola, un alibi, un’arma. Oggi invece è di moda l’espressione «rete sociale», spesso utilizzata al plurale, «reti sociali», per tradurre la molteplicità, la diversità e la plasticità della realtà a cui si applica. Fa riferimento innanzi tutto alle nuove tecniche di comunicazione, nate dall’invenzione del Web da parte del CERN. Gli utenti innovatori di cui ci parla la letteratura spesso sono utenti di Internet, che comunicano tra loro e, così facendo, danno vita, appunto, a «reti sociali». Recentemente se ne è parlato molto a proposito delle «rivoluzioni arabe», che, sulle prime, sono state presentate come iniziative nate da giovani esperti delle nuove tecnologie e desiderosi di liberarsi dai regimi dittatoriali. È indubbio che Internet sia un mezzo di comunicazione senza precedenti e abbia potuto giocare un ruolo nella mobilitazione di qualcuno. Ma le folle radunate nelle piazze di Tunisi o del Cairo non erano certamente composte solo da utenti di Internet. In una certa misura, l’utilizzo sistematico da parte dei media dell’espressione «reti sociali» era più un auspicio che un’osservazione: l’auspicio di una rivoluzione guidata dai più giovani e aperta agli aspetti più innovativi della democrazia liberale, la prova, per esperienza storica, della teoria della fine della storia, il sorgere spontaneo e miracoloso del modello che, da anni, la forza militare cercava invano di imporre all’Iraq e all’Afghanistan. Per ironia della storia, a più riprese sono state menzionate le «reti sociali» anche a proposito delle sommosse dei quartieri a nord di Londra. Veniamo a sapere che le bande di rivoltosi, per sfuggire alla polizia e anticiparne i movimenti, comunicavano tra loro con cellulari e Internet. A forza di voler attribuire una dimensione sociale a quelli che sono semplici mezzi di comunicazione, rischiamo di

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trasformare una sommossa urbana in un movimento rivoluzionario. È una respinta al mittente, in un certo senso. E forse è una respinta salutare, nella misura in cui la sensazione di essere privati di ogni possibilità di avvenire è sembrata prevalere tra i rivoltosi di Londra e delle altre città britanniche. L’innovazione non è sempre immediatamente percepibile e, nella crisi economica in corso, c’è stato qualcosa di sorprendente nello stupore manifestato da molti, per primo dal presidente Obama, di fronte al declassamento dell’economia degli Stati Uniti da parte di una agenzia di rating. Va detto che, fino a pochissimo tempo fa, noi, comuni consumatori, non sospettavamo neppure che esistessero istituzioni simili e ne ignoravamo il nome. Soltanto da qualche mese siamo stati informati dai media della loro esistenza, dei dettagli del loro sistema di valutazione e della loro notevole influenza. Conserveremo la nostra tripla A? Due o tre anni fa, per il pubblico questa domanda non avrebbe avuto senso. E improvvisamente tutti si preoccupano o si indignano all’idea di ricevere un brutto voto. Carol Sirou, rappresentante francese dell’agenzia Standard & Poor’s, ha risposto in maniera illuminante alle domande del quotidiano «Libération» (8 agosto 2011) sul ruolo sempre più centrale di queste agenzie: «Oggi tutti sembrano scoprire la nostra esistenza. Ma noi valutiamo le imprese e gli Stati da decenni. Quel che è cambiato è che i fondi d’investimento, le banche e le assicurazioni hanno introdotto le nostre valutazioni nelle loro regole interne. Ciò significa che un determinato fondo, per esempio, si imporrà di investire un X% in titoli classificati AAA, un Y% in titoli AA… e che in caso di un loro declassamento dovrà venderli. E questo, di conseguenza, ci ha attribuito un ruolo sistemico che prima non avevamo. E che ha l’effetto di un acceleratore. Insomma, il mercato ci ha assegnato un ruolo che non è il nostro». In questa storia, dunque, non c’è un cambiamento nella maniera di funzionare delle agenzie di rating ma nella strategia delle istituzioni che esercitano un’influenza decisiva sul mercato. È un cambiamento interessante per due ordini di motivi: costituisce di per sé un’innovazione, nel senso proprio del termine, e rivela la doppia natura del potere planetario attuale, che è essenzialmente un potere finanziario. Di conseguenza, ci invita alla vigilanza intellettuale. L’uso sistematico di parole di cui non si domina il significato, l’utilizzo meccanico di frasi fatte, è proprio della magia. E il potere dei media, capaci di imporle e diffonderne l’uso su tutto il pianeta in pochi giorni, è terrificante. Perché, nel caso specifico, queste parole e queste formule hanno un senso; rivelano la verità del mondo; eppure questa verità ci sfugge, e chi ne beneficia gode dell’impunità delle società anonime. La globalizzazione è più perversa della colonizzazione perché, anche se si impone a tutti, i suoi attori sono meno facilmente identificabili. Abbiamo tutti la sensazione di essere colonizzati ma non sappiamo da parte di chi, se non che si tratta di entità dall’apparenza astratta ma dall’azione terribilmente concreta, il mercato, la borsa, la crisi, la crescita, l’occupazione, gli investitori e gli agenti economici. Queste entità hanno sostituito il destino o il fato, che, sotto nomi diversi, hanno sempre trovato posto nei miti degli uomini. A tal riguardo, non possiamo fare a meno di citare l’analisi proposta da Marx di questo mondo «stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme come pure e semplici cose» (Il capitale, libro III, cap. 48).

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7. Scommessa per il futuro: il senso, la fede, la scienza Capita spesso che, dopo un intervento in cui sono stati evocati gli aspetti più scoraggianti del mondo attuale (e sappiamo che non mancano), qualcuno si armi di coraggio e mi chieda: «E allora, che cosa bisogna fare?» oppure (con un accenno di impazienza o di irritazione): «E allora lei cosa propone?» Capisco la domanda ma so che non è rivolta a me, so anche che non è una vera domanda e che se rispondessi con precisione susciterei lo stupore o persino l’incredulità del mio interlocutore. Che fare? Il titolo interrogativo dell’opera di Lenin continua a provocarci ed è interessante riproporre questa domanda in un’epoca, la nostra, in cui dubitiamo di tutto. Dubitiamo, soprattutto, delle grandi visioni dell’avvenire delineate nel XIX secolo e che poi, nel momento del «passaggio all’azione», hanno causato milioni e milioni di vittime. Dubitiamo anche di ogni minimo particolare del «grande racconto» liberale e del suo ideale (democrazia rappresentativa ed economia di mercato), ora che siamo di fronte ai suoi fallimenti tecnici (i divari sono in aumento), politici (i regimi non democratici sono duri a morire) e ideologici (i totalitarismi di ogni specie ci ripropongono Dio in tutte le salse). Nelle condizioni attuali, rispondere alla domanda «che fare?», riferendola al futuro immediato, espone al pericolo di abbandonarsi a considerazioni utopiche e più o meno astratte. Personalmente, rispondere alla domanda «che fare?» mi espone anche al rischio di ripetermi, perché qualche volta ho già cercato di abbozzare una risposta e non posso ragionevolmente né moralmente cambiarla, sebbene sia convinto delle sue imprecisioni, delle sue insufficienze programmatiche e, visto come stanno oggi le cose, del suo carattere irrealistico. Come conclusione necessariamente provvisoria, tenterò comunque di precisare la risposta (e ciò che questo libro dovrebbe fare), con umiltà ma anche con la speranza di circoscrivere almeno il significato e le poste in gioco della questione. In primo luogo, devo ricordare che il problema della conoscenza è essenziale per definire il nostro avvenire, cioè l’avvenire del pianeta e dell’umanità. È essenziale per diverse ragioni. Innanzi tutto, possiamo pensare che la conoscenza degli effetti che lo sviluppo delle società umane ha sul pianeta in cui vivono sia cruciale per il loro avvenire. Ma qui vorrei dedicarmi a un altro aspetto delle cose, che pure non è certo indipendente dal primo. In argomenti come questi, ogni fatto si lega all’altro. Partiamo da due constatazioni. Prima constatazione: la scienza si sviluppa a ritmo accelerato e la nostra immaginazione non riesce a rappresentarsi quale sarà il suo futuro. Non siamo in grado di dire oggi quale sarà lo stato della scienza fra cinquanta o nemmeno fra trent’anni. Con «stato della scienza» intendo riferirmi allo stato delle nostre conoscenze e, assieme, a quello delle sue ricadute pratiche sulla vita umana. Siamo dinanzi a una immensa zona di incertezza, sulla quale gli specialisti possono, certamente, concepire delle ipotesi e delle proiezioni ma non esprimere certezze, se non quella che un giorno saranno sorpresi da ciò che scopriranno. Dall’inizio del XX secolo, la scienza ha compiuto progressi rapidissimi che oggi ci schiudono prospettive rivoluzionarie. Cominciano ad aprirsi dei nuovi mondi: da un lato, l’universo, le galassie (e, di qui a breve, questo vertiginoso cambiamento di scala influirà sull’idea che ci facciamo del pianeta e dell’umanità); dall’altro, il confine tra la materia e la vita, l’intimità degli esseri viventi, la natura della coscienza (e questi nuovi saperi comporteranno una ridefinizione dell’idea che ogni individuo può farsi di sé).

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Seconda constatazione: le disparità sul piano scientifico sono ancora più considerevoli di quelle economiche. In ambito economico, il sistema della globalizzazione è caratterizzato da un aumento del divario tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri. Questo aumento è rilevabile anche negli stessi paesi sviluppati. Ed è ancora più accentuato nei paesi emergenti, come la Cina o l’India, dove l’enorme scarto interno tra i molto ricchi e i molto poveri è il corollario del loro accesso nel mercato mondiale. Questa disparità globale si sostituisce progressivamente all’opposizione Nord/Sud, che pure resta pertinente, soprattutto perché nei paesi sviluppati del Nord esistono ancora delle politiche di assistenza sociale più efficaci e più sistematiche, e i movimenti migratori rilevanti avvengono in direzione Sud/Nord, Sud/Sud, ma non in direzione Nord/Sud. In ambito scientifico la situazione è ancora più drammatica. Come accade nel settore economico, compaiono nuovi poli di sviluppo (Cina, India). Ma nei paesi scientificamente emergenti i divari interni sono colossali. E aumentano anche nei paesi sviluppati. Inoltre, oggi la ricerca scientifica esige un accumulo di capitale finanziario e intellettuale, e tale concentrazione esiste soltanto in qualche raro punto del pianeta. Alcuni anni fa, George Steiner fece notare che il budget per la ricerca della sola Harvard University era superiore alla somma di tutti quelli delle università europee. Complessivamente, si profila all’orizzonte una doppia disuguaglianza, tra i paesi (è impensabile che il Ruanda possa mai acquisire il potenziale scientifico degli Stati Uniti) e all’interno dei paesi, quelli sviluppati e quelli sottosviluppati. A questo proposito possiamo osservare, da un lato, che questo disequilibrio interno impedisce ai paesi più sviluppati di ideare dei consistenti progetti di aiuto scientifico e intellettuale agli altri paesi (hanno troppo da fare a casa propria) e, dall’altro lato, che esso obbliga le menti più brillanti dei paesi più svantaggiati, per esempio quelli del continente africano, a espatriare definitivamente. La fuga dei cervelli e l’individualizzazione dei destini scientifici sono una caratteristica della globalizzazione allo stesso titolo dei grandi movimenti migratori. Ne risulta che possiamo a buon diritto preoccuparci per l’avvenire: un’oligarchia mondiale del potere, del denaro e del sapere prende il comando del pianeta, e così vediamo delinearsi, con tratti ogni giorno più marcati, una prospettiva assai diversa da quella immaginata dai teorici della «fine della storia». Per il momento, in ogni caso, la democrazia rappresentativa non appare come il necessario corollario del mercato liberale. Il liberalismo reale conoscerà presto la stessa disavventura del comunismo reale? La «fine della storia» sarà l’ultimo «grande racconto»? Torniamo per un istante alla nozione proposta da Lyotard. I miti dell’origine, le cosmologie, la cui presenza è attestata nella storia di tutti i gruppi umani, sono stati concepiti per dare un senso al mondo. Che cosa significa? Lévi-Strauss lo diceva molto bene nell’Introduzione all’opera di Marcel Mauss: fin dall’apparizione del linguaggio, è stato necessario che l’universo significasse. Questo significato è passato attraverso una distribuzione arbitraria del senso e del simbolico sul mondo. Il senso, definito come principio ordinatore del sociale, della vita di gruppo e delle relazioni sociali, non è la conoscenza ma la condizione di ogni possibile conoscenza in un universo e in una società concepiti come universi chiusi. I saperi tradizionali o, per esempio, le «medicine primitive» si iscrivono nella prospettiva del senso concepito in questo modo. Ciò non significa che alla base di certe pratiche e classificazioni non ci sia un’osservazione empirica. Anzi, gli etnologi sono sempre rimasti colpiti dalla qualità e dall’esaustività dei rilievi compiuti da tutti i gruppi umani sul loro ambiente naturale. Lo stesso vale per la psicologia umana. Anche se l’etnopsichiatra Georges Devereux notava che gli indiani Mohave, sebbene attribuissero un significato psicologico ai sogni e alle psicosi, non riuscivano a stabilire una teoria generale della psicopatologia, visto che il loro orientamento di base era tributario di una costruzione a priori e dunque non scientifica.

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A partire dalle cosmologie o dalle grandi narrazioni del passato, vediamo svilupparsi delle modalità pratiche di gestione del quotidiano, dei saperi tecnici parziali che nascono dall’osservazione della natura (gli effetti di alcune piante, la regolarità delle stagioni, la ricorrenza di configurazioni celesti) e dalla «saggezza popolare» che, nella tradizione occidentale, si ritrova sotto forma di proverbi: insomma, una certa arte di vivere. D’altronde, questa saggezza non è esclusiva di una organizzazione gerarchica della società, tutt’altro, ed è conservatrice. Si tramanda come una tradizione. Quanto ai saperi, essi si trasmettono e possono diffondersi, ma non progrediscono. Si fondano su cosmologie stabilite una volta per tutte. Le società del senso così definito sono società politeiste. Il monoteismo aggiunge la fede al senso. Il senso tradizionale sopravvive nelle società monoteiste, così come il paganesimo in quelle cristiane o musulmane, in diverse forme. Il monoteismo apporta tre elementi nuovi e complementari: la fede individuale, che non trova spazio nella logica politeistica; un’idea di futuro individuale e collettivo, che non compare praticamente mai nel politeismo; infine, di conseguenza, il proselitismo, che implica una concezione universalistica della natura umana e, al tempo stesso, una concezione conquistatrice della storia. Quando diciamo che la modernità del XVIII secolo, la modernità scientifica, ha fatto piazza pulita delle grandi narrazioni del passato per far posto alle grandi narrazioni del futuro, dimentichiamo un po’ troppo in fretta la dimensione escatologica delle religioni monoteistiche. È vero che, in senso stretto, non è una dimensione sociale: essa evoca o il destino dell’individuo dopo la morte o la fine del mondo. Nondimeno, il proselitismo musulmano è portatore di una visione assai precisa dell’organizzazione sociale, che in teoria esso vuole estendere al mondo intero. Il fondamentalismo islamico è dunque una forma ibrida. Ma contrariamente ai modelli delle utopie del XIX secolo, quello che esso vuole applicare esiste già. Dalle saggezze tradizionali alle pretese proselitistiche e reazionarie dei fondamentalismi, la declinazione delle cosmologie del passato conduce a situazioni storiche e concettuali molto diverse. È vero che le utopie del XIX secolo, le utopie del progresso avevano cercato di invertire il movimento, proiettando i loro miti (quello, ad esempio, della società senza classi) nel futuro. Pensavano di cambiare il mondo con l’andare del tempo, e in ciò si distinguevano dal monoteismo. Ma la visione che esse proiettavano era quella di una totalità bell’e fatta, che presumeva l’esistenza di un passato già orientato, di qualcosa di appartenente al passato che autorizzasse la proiezione nel futuro. Questo già qui che prefigurava la totalità a venire non aveva lo statuto di un’ipotesi scientifica. Il socialismo storico non è scientifico perché ha un’idea del fine e della fine. Nella misura in cui si presenta come una chiave di lettura delle relazioni sociali, si apparenta con le logiche del senso, ma, nella misura in cui delinea la forma del futuro, si apparenta in toto con le logiche della fede. Insomma, collocandosi a metà strada tra le une e le altre, nella buona e nella cattiva sorte, si apparenta con ciò che abbiamo chiamato «ottimismo della volontà». Quando Lyotard imputava la comparsa della condizione postmoderna alla morte delle grandi narrazioni della modernità, ci rinviava dunque alle evidenze e alla realtà del presente, soprattutto all’esistenza di reti di ogni tipo – rispetto a cui, in effetti, possiamo essere tentati oggi di definire questo presente –, al mondo dell’istantaneità e dell’ubiquità che ha poi analizzato Paul Virilio. Nondimeno, se non vogliamo farne un’ideologia, non possiamo pensare il presente fuori dal tempo e, tutto sommato, la nozione di postmodernità, puramente descrittiva di un momento o di una presa di coscienza, ha senso solo in rapporto a ciò che la precede. Ferma il tempo.

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Anche la pratica della scienza non è estranea al senso, alla fede e alla volontà, ma non ne è originata in maniera prioritaria. Non parte dal senso, non obbedisce alla fede e non nega ciò che le oppone resistenza. Abbiamo bisogno di senso, nella misura in cui abbiamo bisogno di pensare la relazione con gli altri (non è possibile costruire un’identità senza l’alterità). Ma quando tutte le relazioni sono già prescritte non esiste più né libertà, né identità: l’eccesso di senso uccide entrambe. Abbiamo bisogno di fede, nella misura in cui abbiamo bisogno di credere in ciò che facciamo. Ma quando la fede diviene una certezza e guida le azioni invece di esserne originata, quando non si nutre dell’esperienza e si sottrae alla riflessione, allora nega qualsiasi alterità in nome di un’identità arbitrariamente postulata. Abbiamo bisogno della volontà, non fosse altro che per vivere e continuare a pensare, ma il volontarismo può rendere ciechi alla realtà. Gli eccessi del senso, della fede e della volontà derivano tutti da un riferimento di principio, arbitrariamente postulato, alla totalità; rifiutano l’ignoto, cioè il reale. Nel cristianesimo la nozione di mistero nasce da un cortocircuito del pensiero, da un atto di forza intellettuale che pone l’ignoto nel campo del noto, ricorrendo a nozioni come la promessa, l’annuncio o la rivelazione. Di fronte a queste dimostrazioni di superbia, la scienza è un modello di umiltà. La storia della scienza è quella di un movimento progressivo, non esente da correzioni, da constatazioni di fallimento e da rettifiche, delle frontiere dell’ignoto. Alla base della scienza e del suo processo stanno il non noto e il tempo. La scienza, pur reggendosi sulle conoscenze acquisite, non le considera mai definitive, poiché lo stesso movimento con cui essa progredisce nell’interpretazione del reale può spingerla a riconsiderarle. Detto altrimenti, l’unico settore dell’attività umana in cui la nozione di progresso, inteso come accumulo di conoscenze, deriva dall’evidenza è anche quello in cui le nozioni di certezza, di verità e di totalità sono continuamente messe in dubbio. Proprio per questo l’approccio scientifico può essere considerato il modello di ciò che qualsiasi approccio politico o sociale dovrebbe essere. Non si governa in nome della scienza (non esiste un sapere assoluto originario), ma in vista della scienza. È l’esatto contrario di ogni fondamentalismo, jihad o creazionismo che sia. La scienza produce alcune forme di messa in intrigo che non derivano automaticamente da quanto le precede. Le rotture epistemologiche sono piuttosto la conseguenza dei limiti dei modelli precedenti ma, in ogni caso, la parte di immaginazione del futuro, induttiva più che deduttiva, è essenziale. Sartre (La Liberté cartésienne) ammirava l’audacia con cui Cartesio affrontava il non noto e, a proposito del Discorso sul metodo, faceva notare che la maggior parte delle regole del metodo erano massime «di azione e di invenzione»; poi aggiungeva: «Del resto, quando Bacone insegnava agli inglesi a seguire l’esperienza, non fu forse Cartesio il primo a reclamare che il fisico la facesse precedere da ipotesi?» Oggi l’elaborazione delle ipotesi è il compito più esaltante dei fisici, e l’esplorazione della materia nella sua intimità appare come complementare o identica a quella dell’universo nella sua infinità. Al giorno d’oggi, la scienza è il solo settore dell’attività umana a costruire delle messe in intrigo di cui tutti possono, non ovviamente comprendere il contenuto, e neppure tutte le poste in gioco, ma intuire l’importanza e l’interesse. In questi ultimi tempi ci siamo molto appassionati alla ricerca del bosone di Higgs, la particella che dovrebbe spiegare l’origine della massa di tutte le particelle dell’universo. Come è accaduto un tempo per la scoperta del pianeta Nettuno da parte di Le Verrier, anche in questo caso all’origine dell’ipotesi c’è l’osservazione di fatti altrimenti inspiegabili. L’obiettivo principale dell’acceleratore di particelle del CERN è quello di provare l’esistenza del bosone, fin qui mai osservata in maniera certa. Questa volta non si tratta soltanto di osservare, ma anche di costruire (a costi elevatissimi) il dispositivo sperimentale che permetterà di testare l’ipotesi. Secondo alcuni, è possibile che lo LHC (Large Hadron Collider) riesca persino a dimostrare l’esistenza di particelle che farebbero parte della «materia oscura», quella che non emette luce. Il profano, a tal proposito, può trarne tre insegnamenti diversi. Innanzi tutto, che l’ambizione e l’umiltà della scienza hanno la stessa natura. Non

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c’è niente di più umile delle argomentazioni di un fisico che spieghi che, se non si riuscisse a dimostrare l’esistenza del bosone di Higgs, sarebbe certamente una delusione, ma bisognerebbe subito costruire altre ipotesi. Allo stesso tempo, non c’è niente di più vertiginoso dell’ambizione di un programma che aspira a coniugare la fisica dell’infinitamente piccolo a quella dell’infinitamente grande e che, nel caso dovesse riuscirci, permetterà la nascita di una nuova fisica. Insomma, senza idealizzare gli individui, siamo obbligati a prendere atto che la comunità scientifica offre lo spettacolo di una coalizione di sforzi che supera le frontiere nazionali, come testimoniano le diverse origini dei ricercatori che lavorano al CERN e la fruttuosa collaborazione di quest’ultimo con il suo omologo negli Stati Uniti, il Fermilab. Ai venti Stati membri dell’Unione Europea si aggiunge anche la partecipazione attiva di paesi come l’Australia, il Brasile e la Cina e, come osservatori, del Giappone, della Russia e degli Stati Uniti. Tenuto conto delle finalità perseguite dalle comunità scientifiche, e dei tipi di gruppi che esse sono riuscite a creare a tal scopo, come potremmo non vedere in loro un modello e una speranza per l’umanità intera? È vero che l’esistenza di forme aggressive di religione (islamismo, evangelismo) può farci temere un XXI secolo dilaniato da concezioni del mondo opposte e ugualmente retrograde, il che smentirebbe il tema della fine dei miti dell’origine e dei miti del futuro. È vero che, senza sopravvalutare la capacità pratica degli integralismi religiosi di imporre la loro visione nel mondo, non dobbiamo comunque sminuirne il carattere letteralmente reazionario. La modernità è ancora da conquistare e siamo nel bel mezzo di una crisi di cui sbaglieremmo a trascurare la dimensione ideologica. In compenso, anche se siamo costretti a prendere atto di un indebolimento o, addirittura, di una scomparsa delle proiezioni politiche di ampio respiro, non tutto è negativo, perché forse, in fin dei conti, l’assenza di rappresentazioni del futuro precostituite ci offre un’effettiva possibilità di concepire dei cambiamenti alimentati dall’esperienza storica concreta. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a convertirci a una sorta di esistenzialismo politico e pratico. Le innovazioni tecnologiche che hanno sconvolto i rapporti tra i sessi e i sistemi di comunicazione (come la pillola contraccettiva o Internet) non sono nati dall’utopia, ma dalla scienza e dalle sue ricadute tecnologiche, eppure hanno trasformato il nostro rapporto con il mondo. Bisogna rivolgerci al futuro senza proiettarvi le nostre illusioni, dar vita a ipotesi per testarne la validità, imparare a spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto: è questo che ci insegna la scienza, è questo che ogni programma educativo dovrebbe promuovere e che dovrebbe ispirare qualsiasi riflessione politica. Forse l’esigenza democratica e l’affermazione individuale domani imboccheranno delle strade inedite che oggi riusciamo solo a intravedere.

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8. Un’utopia dell’educazione È su questa base che si dovrebbe costruire ciò che, a volte, ho definito una «utopia dell’educazione». Passo dopo passo, ma senza mai perdere di vista la finalità alla quale essa vorrebbe rispondere. In questo settore, è importante non accontentarsi delle chiacchiere. Le affermazioni e le statistiche (per esempio, quelle che riguardano il tasso di scolarizzazione) non sono sufficienti; possono perfino servire da alibi alle inerzie più colpevoli. Certo, è importante che i ragazzi siano scolarizzati, ma è altrettanto importante che non vengano insegnate loro delle sciocchezze. Tenerli in classe senza prepararli a nulla, o imprigionarli per indottrinarli, non deve essere confuso con l’ideale dell’educazione per tutti. Possiamo immaginare che, in una società che abbia come fine la conoscenza e come conseguenza la prosperità, le ingiustizie sociali sarebbero considerate intellettualmente ridicole, economicamente costose e scientificamente pregiudizievoli. Potremmo concepire un modello, così come lo intendono gli scienziati, per tentare di verificare o di perfezionare questa ipotesi. Del resto abbiamo già accertato, anche se in scala assai ridotta, che quei gruppi culturalmente ed economicamente svantaggiati in cui era stato compiuto uno sforzo di educazione e di formazione per le donne avevano migliorato la loro condizione in maniera sensibile. A dire il vero, però, questo tipo di «verifica» è del tutto inutile. Non solo perché, come spesso capita, in casi di questo genere il dispositivo sperimentale non fa che dimostrare l’evidenza, ma ancor più perché lo sviluppo dell’educazione è un imperativo categorico generale, che non ha bisogno di essere supportato da giustificazioni di profitto economico; è un fine in sé, in nome dell’unità del genere umano – un principio assiomatico, ma che, abbiamo forti ragioni di pensarlo, una volta realizzato avrebbe tra le prime conseguenze la prosperità economica. D’ora in poi, l’utopia dell’educazione è l’unica speranza di riorientare la storia dell’uomo nella direzione dei fini. Perché la chiamiamo utopia? In realtà il termine «utopia», per l’utilizzo che ne facciamo qui, ha senso solo in rapporto alle politiche reali, che, indipendentemente dai propositi, si muovono tutte in direzione sbagliata: si affidano ai dati relativi all’insuccesso scolastico, legano intimamente la questione della scuola o dell’università a quella del lavoro, non si occupano a sufficienza di creare le condizioni necessarie perché si diffonda una cultura generale, indipendente dall’ambiente familiare o sociale, e nel complesso non prestano abbastanza attenzione agli obiettivi, o li riducono al campo dell’economia, affermando, per esempio, che il ritorno alla crescita sia il requisito assoluto di qualsiasi iniziativa sociale. Ma questa «utopia» ha il suo luogo: la Terra, l’intero pianeta; per ottimismo, sarei tentato di definirlo un «programma». Il programma può adeguarsi al tempo, anzi ha bisogno del tempo politico, della lunga durata (che rappresenta una forma di speranza), ma solo se l’avvicinamento alla sua applicazione è percepibile o quantomeno discernibile, cosa che oggi non accade in nessun luogo ma che domani potrà avere inizio. Ovviamente, un programma di questo tipo non può nascere da un qualsiasi desiderio di governare in nome di un sapere assoluto. La conoscenza, diversamente dall’ideologia, non è né una totalità, né un punto di partenza. Si tratta, al contrario, di governare in vista del sapere, di darsi il sapere come fine, individuale e collettivo, destinato a rimanere prospettico e asintotico. È un vero peccato che il termine «scientismo» venga spesso utilizzato in maniera troppo disinvolta da polemisti consapevoli o inconsapevoli delle sue risonanze. Se con questa parola indichiamo l’affermazione di un sapere totale, da cui dedurre quale debba essere il comportamento degli uomini nella società, nessuno scienziato è scientista. Al contrario, se questa parola esprime la convinzione – comune a tutti gli scienziati – che la mente umana possa progredire indefinitamente nella conoscenza, fino a conoscere quei meccanismi

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cerebrali che le permettono tale progressione, il suo utilizzo polemico sarà solo puro e semplice indice di malafede e oscurantismo. Oggi a che punto siamo? Ci viene detto, qua e là, che molti giovani sono di fatto descolarizzati, e ci chiediamo quali forme di apprendimento potrebbero garantire una transizione morbida dalla scuola al mondo del lavoro; ci viene detto che i ritardi scolastici si accumulano e che una parte degli studenti che accedono alla prima media non conosce i «fondamentali», la lettura, il calcolo, la scrittura; che al termine del primo anno di università un numero importante di giovani abbandona gli studi; che le università non collaborano a sufficienza con le imprese per assicurare uno sbocco lavorativo ai loro studenti. Capisco che i responsabili, a tutti i livelli, si trovano di fronte situazioni concrete difficili e non ho la pretesa di elargire soluzioni prestabilite per l’immediato. Resta il fatto che, nel momento in cui vengono invocate le esigenze di profitto per giustificare le riduzioni di organico, che, a loro volta, comportano una diminuzione del potere d’acquisto, e questa stessa diminuzione causa un rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella fase attuale), le politiche dell’educazione sono sempre meno orientate verso l’acquisizione del sapere per il sapere. L’orientamento scolastico è sempre più anticipato e negli ambienti «economicamente svantaggiati», per riprendere l’eufemismo corrente, i ragazzi hanno una possibilità minima, per non dire nulla, di accedere a certi tipi di insegnamento. I sociologi hanno evidenziato che oggi, in un paese come la Francia, il sistema educativo tende non a ridurre ma a riprodurre i divari sociali. Certo, siamo nell’età dell’apertura dell’insegnamento superiore al maggior numero di persone, ma il tasso di insuccesso nei primi due anni è considerevole. Inoltre, l’apertura delle università ai grandi numeri è ufficialmente considerata come qualcosa che ne trasforma la vocazione: le si invita, prima di tutto, a rispondere ai bisogni del mercato del lavoro. Ritorniamo, dunque, all’utilizzo del termine «utopia», che forse può esserci utile per ricordare qualche principio, per delineare un ideale, suggerire qualche pista e rifiutare qualche vicolo cieco. Il tema dell’utopia dell’educazione si ricollega ai vecchi dibattiti che, dal Rinascimento in poi, hanno segnato la storia europea. Ma se Montaigne parlava della pedagogia in generale, Rousseau, invece, si occupava dell’educazione ideale di un soggetto singolare ed esemplare. Nella sua riflessione sugli intellettuali (Difesa dell’intellettuale), Sartre cambia prospettiva e si interroga sulla categoria dei «tecnici del sapere pratico», sul loro sistema di reclutamento e sulla formazione che hanno ricevuto, ma il suo discorso non ha ambizioni pedagogiche. Siamo nel 1966, in un’epoca di relativa prosperità economica, e Sartre sviluppa un pensiero critico radicale, infervorato dagli interrogativi posti dai fenomeni contemporanei, come la lotta di classe, il colonialismo, l’imperialismo, il razzismo e il sessismo. Mezzo secolo più tardi, questi interrogativi continuano a riproporsi, ma in termini diversi; rimane che, appunto, questo scarto di tempo è forse utile per conquistare, insieme al distacco, una maggiore consapevolezza delle poste in gioco della politica educativa. In questo testo – scritto originariamente per una conferenza che si tenne in Giappone nel settembre-ottobre 1966 – Sartre cerca di definire i caratteri della «categoria sociale» di quelli che chiama i «tecnici del sapere pratico». Per lui, la classe dominante ha una prima responsabilità: decide del posto di lavoro che occuperanno questi tecnici – medici, insegnanti ecc. –, del loro numero, della loro specializzazione e della loro distribuzione; ciò significa che tutta una categoria di adolescenti si trova dinanzi a «una strutturazione del campo delle possibilità, gli studi da intraprendere, e quindi a un destino». Per compiere

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le sue scelte, la classe dominante tiene conto della crescita industriale, della congiuntura e dei nuovi bisogni emergenti, come la pubblicità o lo human engineering. Insomma, Sartre formula, prima che l’espressione assuma il suo significato ufficiale che ormai conosciamo, un sunto della «teoria dell’innovazione» in materia sociale, assieme a un’analisi che anticipa quanto, quarantacinque anni dopo, possiamo confermare: «Oggi la cosa è chiara: l’industria vuol mettere le mani sull’università per obbligarla ad abbandonare il vecchio umanesimo ormai superato e a sostituirlo con discipline specialistiche, destinate a dare alle imprese testers, funzionari secondari ecc.». Sartre affronta poi la formazione ideologica e tecnica ricevuta da questi specialisti del sapere pratico, all’interno del sistema di insegnamento (classi secondarie e insegnamento superiore) imposto loro «dall’alto». Questa formazione assegna e insegna loro, sottolinea Sartre, due ruoli: ne fa «degli specialisti della ricerca», certo, ma anche dei «servitori dell’egemonia» o, per riprendere l’espressione di Gramsci, dei «funzionari delle sovrastrutture». Infine, Sartre ricorda che sono le relazioni di classe a regolare automaticamente la selezione di questi tecnici. Nelle loro fila non troviamo molti operai, poiché il sistema permette loro di figurarvi solo eccezionalmente. Per la maggior parte, essi vengono reclutati tra i figli dei piccolo-borghesi delle classi medie, ai quali fin dall’infanzia (nell’insegnamento primario e secondario) è stata inculcata l’ideologia particolaristica della classe dominante. Fin dal principio, il tecnico del sapere pratico vede la sua sorte determinata dalla classe dominante, che decide, soprattutto, della parte di plusvalore da consacrare al suo salario in funzione della congiuntura e della crescita: «In questo senso il suo essere sociale e il suo destino gli vengono dal di fuori: egli è l’uomo dei mezzi, l’uomo-medio, l’uomo delle classi medie: i fini generali ai quali si rapporta la sua attività non sono i suoi fini». Le analisi di Sartre, segnate dal loro tempo e da un linguaggio senz’altro ormai obsoleto, restano comunque affascinanti perché definiscono l’intellettuale come «qualcuno che si immischia in ciò che non lo riguarda» – rimprovero che dall’esterno gli viene rivolto spesso ma che egli, in tutta coscienza, potrebbe contestare, visto che sa che, appunto, tutto ciò «lo riguarda». L’intellettuale sartriano è un tecnico dell’universale «che si accorge che, nel suo campo, non esiste universalità bella e fatta, ma che essa è continuamente da fare». A differenza dei filosofi del XVIII secolo, che appoggiavano le rivendicazioni della borghesia di cui facevano parte e, in questa misura, erano degli «intellettuali organici», in senso gramsciano, l’intellettuale sartriano è l’uomo della presa di coscienza: prende coscienza del fatto che, dentro di sé, il singolare e l’universale coesistono, e che può pretendere di raggiungere l’universalità solo se non nega la sua singolarità. L’intellettuale sa da quale classe proviene e, se vuole liberarsene, deve prenderne coscienza critica; proprio come Flaubert, deve sforzarsi non di sfuggire al passato, che costituisce la sua «singolarità», ma di sfuggire alla determinazione attraverso questo passato. «La vera ricerca intellettuale, se vuole liberare la verità dai miti che la offuscano, implica che l’indagine passi attraverso la singolarità dell’indagatore». Evidentemente questo principio – che potremmo attribuire a un antropologo, visto che questi, per poco che rifletta sulla natura del suo oggetto di indagine, deve innanzi tutto prendere coscienza di esserne parte – prende di mira tutti i pregiudizi di classe e di situazione, tutte le alienazioni di classe o di funzione che pesano sulla libertà di analisi, di osservazione e di decisione. Sartre illustra questa filosofia della libertà attraverso due citazioni che si fanno eco, una di Ponge («l’uomo è l’avvenire dell’uomo») e l’altra di Malraux («una vita non vale niente, niente vale una vita»), con quest’ultima che fa dell’ambivalenza l’elemento costitutivo dell’opera letteraria, e di quest’ultima l’espressione della contraddizione, sempre feconda, tra il particolare e l’universale. Sartre è un bravo analista e un brillante dialettico, ma prima di tutto è spinto dall’impeto volontaristico che è seguito alla seconda guerra mondiale. Nell’immediato dopoguerra, si pensava di cambiare la società, di gettare le basi di una solidarietà nuova, si credeva nel futuro. Certo, le divisioni

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c’erano e il Partito comunista, allora molto potente, suscitava parecchie opposizioni; ma a quell’epoca si sono create diverse collaborazioni e, soprattutto, al termine di una prova così straziante era impensabile non rivolgere lo sguardo verso un altro orizzonte. La letteratura e il cinema testimoniano di questo stato d’animo che, sul piano storico, imponeva di superare l’orrore della guerra e del nazismo e, su quello metafisico, di trascendere, magari attraverso un’etica dell’eroismo, il sentimento dell’assurdo provocato dal confronto dell’uomo con il silenzio del mondo. Pensiamo a Camus, naturalmente, ma anche all’esistenzialismo: affermare che l’esistenza precede l’essenza significa definire l’uomo come creatore di se stesso. Gli orrori del mondo non hanno diminuito la loro intensità, ma oggi non usciamo da una prova così fondamentale, identificabile e simbolica come quella della seconda guerra mondiale. Fino a prova contraria, le crisi economiche suscitano più inquietudini, più depressioni o violenze incontrollate che non reazioni intellettuali. Ecco perché l’utopia dell’educazione è utopica: non si accorda sufficientemente al momento storico per imporsi da sé. Eppure qualche segno a prima vista contraddittorio potrebbe militare a suo favore. Le rivolte dei giovani nei diversi agglomerati urbani e nei diversi continenti forse non rappresentano un appello diretto a rifondare il sistema educativo, ma non sono neppure soltanto un’espressione di pura violenza o una semplice reazione alla povertà. Nella misura in cui esprimono l’ingiustizia di una situazione di emarginazione sociale, rappresentano una ricerca di verità: cosa dovrebbe essere la società visto che, evidentemente, fallisce nell’affermarsi come comunità di destini? Il tema dell’esclusione (sociale, economica, intellettuale) contiene in sé il suo contrario: che cosa dovrebbe essere l’inclusione sociale? Ogni protesta sociale ha il suo rovescio, che è la domanda fondamentale: che cos’è il legame sociale? Ogni protesta è una forma di ricerca. C’è un altro segno, decodificabile in maniera più diretta: il bisogno di sapere che il pubblico, qualora gli si offra l’occasione, manifesta. Da questo punto di vista, l’Italia è un esempio notevole, considerato il numero di festival e di convegni che vi si organizzano, trovando un’accoglienza entusiastica. Anche in Francia, dove le iniziative di questo tipo sono più rare, un’esperienza come quella dell’Université de tous les Savoirs, voluta nel 2000 dal Ministero dell’Educazione per diffondere la cultura attraverso conferenze gratuite, poi scaricabili dalla Rete, ha incontrato un enorme successo; ci sono poi diverse Universités populaires (la più nota è quella di Caen), tutte molto frequentate. Complessivamente, almeno in Europa, prevale l’impressione che esista un immenso giacimento non sfruttato di capacità intellettuali – che, a contrario, provoca un sentimento di frustrazione e di ingiustizia –, una carenza che non sarebbero in grado di colmare né gli incessanti e più disparati flussi di informazione televisiva («Ci sarebbe acqua su Marte», «Il Paris Saint-Germain ha acquistato cinque nuovi giocatori»), né gli inviti rivolti agli utenti della Rete perché commentino a modo loro le ultime notizie del giorno. Utopia: il primo merito di questa parola è quello di obbligarci a rivolgere lo sguardo verso il futuro. Il secondo è quello di invitarci, almeno a titolo di morale provvisoria, a non tener conto delle argomentazioni di ogni sorta che potrebbero essere utilizzate a suo sfavore, se non, riprendendo il linguaggio semplice ma efficace di Sartre, per considerarle espressioni della «classe dominante» – diciamo: del sistema vigente. Utopia pratica, pragmatica, progressista ma progressiva: questi aggettivi hanno la loro importanza, perché presiedono alla possibilità di un effettivo passaggio all’atto. Una rivoluzione di questa portata può compiersi solo al termine di un’evoluzione controllata, misurata e, all’occorrenza, emendata e corretta. Alcuni princìpi potrebbero prendere forma abbastanza velocemente. Vediamone alcuni. Per lottare contro l’insuccesso scolastico, alcune classi «difficili» delle scuole primarie dovranno essere composte solo di quattro o cinque allievi. Per qualche anno (il tempo che gli effetti della riforma della primaria si facciano sentire) la misura potrebbe applicarsi anche alle classi della secondaria.

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Ovviamente, una misura del genere implica dei reclutamenti supplementari di insegnanti. I programmi saranno concepiti secondo un’ottica generalista e basata sui fondamenti. L’orientamento verso l’indirizzo scientifico, letterario o misto avrà luogo il più tardi possibile, nel primo o secondo anno delle superiori. In tutti gli indirizzi sarà obbligatorio l’insegnamento di due lingue europee. Un ampio programma di borse di studio per alloggi e residenze studentesche romperà l’isolamento geografico ed economico dell’insegnamento secondario, permettendo agli allievi di famiglie povere che lo desiderano di rendersi più autonomi e scegliere la loro sistemazione. Per i più giovani, sarà necessario inventare e sviluppare qualche forma di internato o semi-internato, così da assistere finanziariamente e culturalmente le famiglie bisognose. Quest’ultima misura costerà molto cara e implicherà numerose assunzioni. Quando questo programma verrà attuato, non ci sarà più nessuna necessità specifica di riformare in modo sostanziale l’insegnamento universitario (sebbene le cose possano presentarsi diversamente a seconda dei paesi e, in ogni caso, debbano essere tenute sotto stretto controllo l’attribuzione di borse di studio, in base a criteri economici, e le politiche di reclutamento, in base a criteri scientifici). Ma un punto resta essenziale: le università devono salvaguardare la vocazione che il loro nome implica. La loro autonomia non deve servire a trasformarle in appendici delle aziende. Le università assicurano, e devono continuare ad assicurare, una formazione di base, animata dalla sola ricerca del sapere. Le aziende, ovviamente, possono entrare in contatto con le università e comunicare quali siano le loro esigenze in termini di personale, ma dovranno farsi carico in prima persona di eventuali formazioni pratiche complementari. In maniera generale, la distinzione tra ricerca pura e ricerca applicata è utile a entrambe. Sappiamo bene che in certi settori questa distinzione si assottiglia o si abolisce – è il caso, per esempio, della fisica pura, che può progredire solo grazie ai costosissimi strumenti che, a poco a poco, vengono messi a punto. Ma quando si è responsabili di un’università quello che va tenuto a mente è l’obiettivo della conoscenza pura. Se ho menzionato in maniera rapida e superficiale questi pochi punti di un programma possibile, ovviamente suscettibili di discussione, non è tanto per aprire un dibattito che, nelle condizioni attuali, sarebbe evidentemente prematuro, quanto per sottolineare una semplice verità di buonsenso: in nome dell’«utopia», si possono proporre alcune riforme parziali e concrete perfettamente realizzabili. L’etnologo come tale analizza situazioni esistenti; non ha nessuna vocazione da profeta – anche se gli è capitato di lavorare su alcuni personaggi che rivendicavano questo titolo e questa funzione. Tuttavia, il mondo in cui viviamo è continuamente attraversato da messaggi che pretendono di fornirci la chiave del presente, misurando il passato recente (ieri è già storia) e il futuro immediato (domani è già oggi). Questi messaggi sono l’espressione della verità oppure, a poco a poco, vanno a comporre il mito e l’ideologia del mondo globale a cui apparteniamo? Questo problema è più familiare all’etnologo; egli sa bene che, di solito, le visioni costruite del futuro nascondono solo le carenze e le paure del presente. Nulla ci obbliga ad approvare queste carenze e queste paure, e ancor meno a condividerle. Abbiamo il diritto di non aderire agli arroganti discorsi dei politici, più impegnati a punire i furti di qualche rivoltoso che non a riformare il loro sistema scolastico e sociale. Abbiamo il diritto – e alcuni direbbero persino il dovere – di rifiutare la nostra fiducia a quelli che ci chiedono di fare sacrifici in un mondo di disparità che essi stessi si accaniscono a proteggere, a riprodurre e ad amplificare. Abbiamo il diritto, insomma, di rimanere liberi di osservare, di giudicare e di non fidarci delle parole di cui ci impongono l’uso. A prima vista, l’assicurazione e il credito sono due figure antinomiche dell’economia, due

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opposte modalità di esprimere il rapporto con il futuro. Mi assicuro contro tutti i rischi della vita, se sono assicurato non mi può capitare nulla di grave; posso anche proteggere i miei cari, la mia famiglia: se «mi succede qualcosa», come si dice, riscuoteranno del denaro; posso perfino prevedere i dettagli dei miei funerali. Così, tutto il percorso della vita si presenta circoscritto, ordinato e controllato, come quelle autostrade sorvegliate dalle forze di polizia nelle giornate di traffico intenso. L’assicurazione è una protezione contro i casi della vita, l’esatto contrario dell’avventura. Il credito, invece, è aperto al futuro. Vivere a credito significa confidare nella vita, prendersi dei rischi, seguire i propri desideri, soddisfarli e pagare più tardi, realizzare i propri progetti o, detto altrimenti, trasformare il lontano futuro che si attribuisce alla nozione di economia («faccio economia» per vivere più tardi) in un presente immediato. In questo senso, il credito è il contrario dell’investimento che «frutta» a termine, è la spesa rinviata. È il contrario o l’altro volto, dal momento che il proprio credito può anche essere venduto. In realtà sappiamo che, dal punto di vista finanziario, le cose non sono così semplici. Le assicurazioni sono un prodotto come un altro e alcune società assicurative sono quotate in borsa. Inoltre, nel caso di investimenti a rischio, generalmente sono assicurati anche i crediti. Le cose non sono così semplici neppure dal punto di vista psicologico. Assicurarsi non significa eliminare gli imprevisti della vita, ma soltanto concedersi i mezzi finanziari per farvi fronte. Significa immaginare che si avrà una vita sovraccarica di eventi, gli uni più catastrofici degli altri, una vita in cui si è sempre esposti alla minaccia di un incidente stradale, di un furto con scasso o di una malattia. In teoria, la vita dell’assicurato è una vita da avventuriero. Non si è mai assicurati contro la noia. Viceversa, il credito è piuttosto una prefigurazione rischiosamente concreta dell’avvenire. Soddisfacendo immediatamente il desiderio, il credito lo elimina dalla visione, lo consuma, lo divora. Uccide doppiamente l’immaginazione, mettendoci sotto gli occhi la mediocrità dei nostri desideri futuri. Quando non sono più un’idea o un progetto, un’automobile, una casa entrano a far parte della dura realtà quotidiana. Non bisogna più sognare, ma amministrare… e rimborsare il credito. Sia il credito sia l’assicurazione, infatti, ci offrono alcune versioni asettiche della messa in intrigo e dell’inaugurazione. Inquadrano in modo efficace i desideri e le paure, li incanalano e li orientano. Sono procacciatori di illusioni: illusioni di protezione o illusioni per il futuro, che è un po’ la stessa cosa. Nella società dei consumi, i soli veri avventurieri sono i burattinai che muovono i fili e talvolta li spezzano, imponendo così alle loro vittime un nuovo racconto, in cui all’improvviso proliferano dei personaggi solitamente più riservati: i mercati (sempre febbricitanti), i trader (sempre sospetti), i fondi sovrani (sempre mal gestiti). I titoli dei capitoli di questo nuovo racconto hanno nomi terribili: il debito, la crisi, la recessione. I copioni di crisi sono sempre un po’ gli stessi, mettono in scena con un gran chiasso la paura del futuro immediato, ma una volta che i mercati si calmeranno, che la febbre sarà scesa (non c’è niente di meglio del vocabolario medico per rappresentare i movimenti finanziari), tutto potrà ricominciare come prima. Massima astuzia del sistema: cambiare qualche parola ma riproporre sempre la stessa minestra, per far credere a quelli che ha impoverito di poter diventare, grazie ai loro sacrifici, gli artefici del nuovo inizio. I due volti del Giano economico, il credito e l’assicurazione, recupereranno entrambi il loro bel colorito, in attesa di una nuova crisi e di nuove paure. Visto che stiamo parlando di educazione e di futuro, sarebbe il momento di abbandonare la metafora economica (l’educazione è un investimento per il futuro ecc.). Smettiamo di evocare l’interesse generale, che spesso nasconde interessi particolari, e partiamo piuttosto, non dall’interesse individuale in senso stretto, ma dall’interesse generico. Solo accogliendo le esigenze dell’individuo che, nella lingua di Sartre, è singolare e universale, solo accogliendo la parte di umanità generica che egli reca in sé, e a cui si rivolge qualsiasi sforzo di educazione, avremo una possibilità di rifondare la società.

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9. Conclusione provvisoria: l’etnologo e l’avventura della conoscenza Alla fine di questo percorso, dopo essermi interrogato sulle ombre che pesano sul nostro futuro collettivo e aver tracciato, in modo volontaristico, alcune grandi linee di un programma possibile, devo tornare sulle distinzioni che hanno introdotto questa presentazione. L’avvenire di ogni individuo è la morte, e tutte le astuzie di cui dà prova il ricorso al futuro anteriore (sarò stato il tale o il talaltro, questo o quello) non possono cambiare le cose. Come sappiamo, per far fronte a questa scadenza che, assieme, affascina, attrae l’uomo e lo ripugna, nel corso della storia sono stati creati i miti più improbabili. Ma la loro finalità era parlare della morte o insegnare a vivere? Sullo stato di morte non avevano niente da dire, e forse proprio in questo si annida la loro parte di verità: non c’è niente da dire su ciò che non esiste. La grande intuizione pagana, che si esprime efficacemente tanto nei riti di nascita quanto nei fenomeni di possessione, è che l’individualità è plurale, che è composta da elementi chiamati a decomporsi e a ricomporsi, che tutto, ininterrottamente, ricomincia; è una intuizione scientifica, perché elimina l’ipotesi della perennità dell’individuo e, al contempo, quella dell’esistenza della morte. La grande intuizione cristiana, a condizione di rovesciarne i termini e ammettere che Dio sia stato concepito a immagine dell’uomo, è che ogni esistenza individuale è singolare, distinta e unica; e anche questa è una intuizione scientifica. Infine, forse potremmo accreditare anche l’intuizione giudaico-cristiana che lega l’apparizione dell’uomo a quella del desiderio di conoscenza; ma, anche in questo caso, bisognerebbe rovesciare i termini, cioè sostituire l’idea di evoluzione a quella di creazione e fare del peccato originale la finalità e la promessa ultime dell’umanità. Postulare che l’uomo (ogni uomo) abbia come vocazione essenziale la conoscenza, la conoscenza di ciò che è, la conoscenza di chi è, non significa assegnargli un ideale irraggiungibile, ignorare le condizioni materiali e affettive che possono garantirgli il benessere e talvolta la felicità: significa ricordare la parte di umanità generica di cui siamo tutti portatori, e l’esigenza etica e critica che ne consegue. Il fatto di includersi nella conoscenza di sé (e i diversi percorsi dell’etnologo, da questo punto di vista, gli facilitano il compito), significa progredire, iniziare un percorso e capire che questo movimento è il mezzo e, allo stesso tempo, l’oggetto della conoscenza: io che cosa sono, se non questa fragile e tenace volontà di capire? La coscienza comune di questa tensione profonda definisce il più alto grado di sociabilità, il rapporto più intenso con gli altri, l’incontro. Dunque, non stupirà il fatto che io chiuda questa riflessione sul futuro ricordando i miei percorsi. Non che siano così importanti, ma, considerato il mio mestiere, a lungo andare mi hanno offerto la possibilità di comprendere in maniera sempre più chiara fino a che punto i cambiamenti in corso abbiano fatto sì che i destini umani siano profondamente intrecciati gli uni agli altri. Per me questi percorsi hanno rappresentato simultaneamente (è così per tutti, ma l’etnologo ha dei punti di riferimento particolarmente sicuri) un’avventura personale (cioè un’attesa di eventi, un’esplorazione del futuro) e un’esperienza storica, e dunque collettiva. Si può essere etnologi senza viaggiare e viaggiare senza fare etnologia. Ma si dà il caso che io abbia praticato queste due attività collegandole strettamente l’una all’altra, talvolta per caso e sempre per preferenza personale. Oggi mi rendo conto che così facendo, sono stato, assieme ad altri, una sorta di testimone, per metà consapevole e, sulle prime, per metà inconsapevole, del movimento che ha portato il mondo dalla colonizzazione alla globalizzazione. Nel mio ultimo libro, Straniero a me stesso, ho distinto tre tipi di etnologia: l’etnologia di soggiorno, l’etnologia di percorso e l’etnologia di incontro. Mi si permetterà di ritornare un istante su questa distinzione, che è parte di quanto, sulla scorta di Sartre, potrei definire la mia «singolarità». L’etnologia di soggiorno è quella che corrisponde all’immagine tradizionale dell’etnologo, che trascorre molti mesi sul campo, osservando i comportamenti, annotando i minimi dettagli e interrogando

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i suoi informatori, per poi redigere il ritratto più completo possibile di un gruppo umano relativamente identificabile dalla sua localizzazione, dalla sua lingua e dalla sua cultura. Negli anni sessanta, tra gli Alladiani della Costa d’Avorio, mi sono occupato di questo. L’etnologia di percorso, invece, prende atto che ogni identificazione è relativa, e cerca di considerare un certo numero di variabili. Ho tentato di dedicarmi a questo tipo di etnologia quando, una volta lasciato il piccolo gruppo degli Alladiani, attorno alla laguna Ebrié (che si estende per migliaia di chilometri a ovest di Abidjan), mi sono interessato ad altri gruppi, molto diversi dai primi, ma le cui modalità di organizzazione potevano essere paragonate a quelle che avevo già studiato, e così mi hanno permesso di circoscriverne meglio il significato antropologico e le poste in gioco. Potrei anche definire etnologia di percorso la mia frequentazione dei «profeti guaritori» della Costa d’Avorio, personaggi pittoreschi che si sforzavano di comprendere, e di far comprendere ai loro fedeli e pazienti, i soprassalti di una storia scossa dall’irruzione coloniale, che incideva sia sul corpo sociale sia sui corpi individuali. Si somigliavano tutti ma ognuno di loro era unico. La letteratura esistente permetteva di allungare il percorso fino al Congo e al Sudafrica, dove erano stati studiati fenomeni e personaggi della stessa natura. In Togo, negli anni settanta, ho considerato altre variabili, questa volta religiose: i culti politeisti formalmente scomparsi in Costa d’Avorio che, invece, laggiù erano ancora presenti, ufficiali e molto attivi. L’etnologia di incontro, infine, è più che altro un effetto della casualità. Una casualità comunque relativa perché, ovviamente, gli itinerari, e gli interrogativi di cui possono essere oggetto, si legano alle esperienze precedenti dei ricercatori. In questo modo, nel metrò parigino – di cui, a dire il vero, non ho fatto l’etnologia – mi sono prima di tutto interrogato sul mio lavoro, alla luce dello spaesamento paradossale che il ritorno in Francia mi aveva provocato. Sempre in questo modo, grazie alle funzioni di presidente dell’EHESS, ruolo che ho ricoperto dal 1985 al 1995 e che mi ha condotto in diversi continenti, ho potuto interrogarmi sugli spazi che attraversavo. Inoltre, prendendo in prestito per il momento il terreno ad alcuni miei studenti, ho scoperto l’America Latina e ho osservato abbastanza da vicino fenomeni come il sogno o la possessione che, retrospettivamente, hanno arricchito le mie esperienze africane, perché, sebbene se ne distanziassero per molti aspetti, nel complesso erano loro stranamente simili. Di rimbalzo, infine, l’interesse per le mie analisi da parte di qualche architetto e artista mi ha permesso di ampliare le mie riflessioni, di diversificare i campi di osservazione e moltiplicare gli spazi di incontro. Sono assolutamente convinto che questo amore per il viaggio sia una mia personale caratteristica e che potrei cercarne qualche spiegazione nelle mie origini o nella mia prima infanzia. L’essenziale è che mi ha reso particolarmente sensibile a quelli che potremmo definire i «paradossi della mobilità spaziale e temporale». Nelle sue versioni di lusso, questa mobilità è amplificata dallo sviluppo accelerato dei mezzi di trasporto. Uomini d’affari, personalità politiche, divi di ogni genere solcano il pianeta in tutti i sensi, proprio come fanno le star dell’architettura, che appongono la loro firma su tutti i luoghi urbani più importanti della Terra. Per parte loro, i turisti si recano in massa nei paesi (sempre che al loro interno la situazione sia tranquilla) da cui scappano i migranti, talvolta a rischio della vita; viceversa, al termine della loro fuga, questi migranti si trovano spesso immobilizzati, obbligati a restare rinchiusi nelle baraccopoli o, per i più fortunati, nei quartieri poveri delle grandi metropoli. Che si sposti fino alle periferie della città in cui abita o percorra il mondo, oggi più che mai l’etnologo deve muoversi, fisicamente e intellettualmente, e accertarsi che il suo sguardo resista alle false trasparenze delle evidenze illusorie. Forse è soltanto un testimone del pianeta. Ma se resta fedele alla sua vocazione può riuscire a comprendere qualcosa dei cambiamenti che stanno trasformando il mondo, continuando sempre a interrogarsi sulle ragioni che, come studioso, lo spingono a muoversi.

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Perché la sua vocazione è l’instabilità. Non può esistere un’etnologia sedentaria. La stessa etnologia di soggiorno rappresenta, per chi vi si cimenta, un’intima prova di squilibrio. L’etnologo venuto da lontano si trova in una situazione particolare: i suoi abituali punti di riferimento non ci sono più, e non ce ne sono altri. Per lui, questa assenza rappresenta una sfida, un’esperienza e una risorsa. Lo situa in un luogo, o in un nonluogo, di cui percepisce al tempo stesso la coerenza e l’arbitrarietà delle regole. E, forse con una certa perversione, l’etnologo coinvolge i suoi «informatori», persuadendoli, in definitiva, a considerare culturale ciò che, prima del suo arrivo, percepivano come naturale. L’etnologia è essenzialmente critica; in mancanza di questa virtù, rischia di alienarsi alle illusioni di cui, invece, deve rendere conto. L’antropologia generale, che è il suo fine ultimo, si interessa a tutto ma non si fissa su niente. Non è relativistica e si interessa alle differenze solo per superarle. In questo senso, è essenzialmente viaggiatrice. Certi etnologi, ammaliati da coloro che stavano studiando, si sono sistemati definitivamente a casa loro. Hanno commesso un errore professionale, hanno cambiato vocazione. Perché l’etnologo deve sapersene andare e riprendere la strada – anche se non è semplicemente un viaggiatore nello spazio, ma un viaggiatore nel tempo. Forse un vero e proprio etnologo è portato a fare della sua stessa vita un viaggio. Riprendendo la strada, una volta perso di vista ogni luogo referenziale, incontrerà dei migranti, degli itineranti o degli erranti, testimoni più o meno consapevoli del cambiamento di scala che incide sulla vita degli abitanti del pianeta, per la felicità di alcuni, l’infelicità di altri e la vertigine di tutti. Ogni giorno, nel nostro mondo sottoposto alla tripla accelerazione delle conoscenze, delle tecnologie di comunicazione e del mercato, aumenta lo scarto tra la rappresentazione di una globalità senza frontiere, che permetterebbe ai beni, agli uomini, alle immagini e ai messaggi di circolare senza limiti, e la realtà di un pianeta frammentato, in cui le divisioni, pur negate dall’ideologia del sistema, risiedono nel suo stesso cuore. Così il mondo-città, che avvolge il pianeta nelle sue reti, diffondendone un’immagine ogni giorno più omogenea, si contrappone alle dure realtà della città-mondo, in cui si ritrovano e, nel caso, si affrontano con violenza le differenze e le ineguaglianze. L’urbanizzazione del mondo, in questo duplice volto, è la verità sociologica e geografica di quella che chiamiamo «mondializzazione» o «globalizzazione», ma è una verità infinitamente più complessa rispetto all’immagine della globalità senza frontiere che serve da alibi per alcuni e da illusione per altri. Oggi più che mai dobbiamo parlare del futuro al plurale e l’etnologo, da sempre diffidente nei confronti dell’articolo determinativo, soprattutto al singolare (il selvaggio, la società primitiva), è il primo a rallegrarsene. Né la società multiculturale, né le reti sociali (eredi del villaggio globale), né la società dei consumi o dei servizi rappresentano l’ultima parola della storia, perché questa fine, questa parola finale, non esiste. E così l’etnologo può consolarsi di non essere un profeta. Non sapremo neppure come andrà a finire l’avventura della conoscenza. Il giorno in cui lo sapremo, l’uomo generico potrebbe riconoscersi nell’immagine di Dio e, visto che evocare l’uomo generico significa necessariamente prendere in considerazione i miliardi di individui della galassia umana, monoteismo e politeismo si troverebbero riconciliati, o cancellati entrambi. Non sapremo come andrà a finire perché la conoscenza è senza fine, ma possiamo prendere atto che le nostre città più spettacolari, quelle in cui svettano le nuove cattedrali del capitalismo commerciale, fanno sempre più pensare alle navicelle spaziali della fantascienza o alle strutture che, un giorno ancora lontano, l’uomo costruirà su altri pianeti. È come se, ormai, ci sforzassimo di predisporre le scenografie per i nostri incontri futuri. Mentre i pianeti del sistema solare cominciano a sembrare semplici periferie della Terra, mentre la divulgazione scientifica ci propone alcune ipotesi dal linguaggio oscuro, al cui paragone i misteri architettati dai monoteismi terrestri impallidiscono, la natura non costituisce più né una risorsa, né un

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soccorso, ma una sfida. Una sfida alle società umane perché queste diano la priorità alla sola cosa che può offrire loro il controllo del futuro, e dare un senso alla vita umana individuale del singolo universalizzandola: la ricerca del vero. Forse il segreto della saggezza più profonda degli individui sta nel cuore delle ambizioni più vertiginose della scienza. E forse la coscienza del futuro comune può dare a ciascuno di noi la forza di vivere questo presente in movimento che chiamiamo «futuro».

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Riferimenti bibliografici AA. VV., Innovation, «Cahiers du Musée des Confluences», VII, 2011. Augé, Marc, Straniero a me stesso. Tutte le mie vite di etnologo, Bollati Boringhieri, Torino 2011 (ed. or. 2011). Baudelaire, Charles, I fiori del male, in Opere, a cura di Giovanni Raboni e Giuseppe Montesano, Mondadori, Milano 1996 (ed. or. 1857-61). Descartes, René, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, a cura di Eugenio Garin, Laterza, Roma-Bari 1986 (ed. or. 1644). Flaubert, Gustave, Madame Bovary, in Opere, a cura di Giovanni Bogliolo, I, Mondadori, Milano 1997 (ed. or. 1856). – L’educazione sentimentale, in Opere, a cura di Giovanni Bogliolo, II, Mondadori, Milano 2000 (ed. or. 1869). Hippel, Eric von, Democratizing Innovation, MIT, Cambridge (Mass.) 2005. Leiris, Michel, Le Ruban au cou d’Olympia, Gallimard, Paris 1981. Lévi-Strauss, Claude, Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in Marcel Mauss, Teoria generale della magia, Einaudi, Torino 1991 (ed. or. 1950). Lyotard, Jean-François, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981 (ed. or. 1979). Malraux, André, La condizione umana, Bompiani, Milano 2001 (ed. or. 1933). Marx, Karl, Il capitale. Critica dell’economia politica, III, Editori Riuniti, Roma 1989 (ed. or. 1894). Molière, Don Giovanni o Il convitato di pietra, Einaudi, Torino 1966 (ed. or. 1665). Sartre, Jean-Paul, L’Anthropologie, in Situations, IX: Mélanges, Gallimard, Paris 1972. – L’idiota della famiglia. Saggio su Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, il Saggiatore, Milano 1977, 2 voll. (ed. or. 1971-72). – Difesa dell’intellettuale, Theoria, Roma 1992 (ed. or. 1972). – La Liberté cartésienne. Dialogo sul libero arbitrio, Marinotti, Milano 2007 (ed. or. 1946). Virilio, Paul, Città-panico. L’altrove comincia qui, Cortina, Milano 2004 (ed. or. 2004). – Le Futurisme de l’instant. Stop-eject, Galilée, Paris 2009.

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Indice Futuro 1. Futuro individuale e futuro collettivo 2. La messa in intrigo 3. L’inaugurazione 4. Rinuncia o creazione: Flaubert 5. Le nuove paure 6. L’innovazione 7. Scommessa per il futuro: il senso, la fede, la scienza 8. Un’utopia dell’educazione 9. Conclusione provvisoria: l’etnologo e l’avventura della conoscenza Riferimenti bibliografici

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