Auge Marc - Poteri Di Vita Poteri Di Morte

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Marc Augé. POTERI DI VITA, POTERI DI MORTE. Introduzione a un'antropologia della repressione. Raffaello Cortina Editore, Milano. Prima edizione: 2003. Titolo originale: "Pouvoirs de vie, pouvoirs de mort. Introduction à une anthropologie de la répression". Copyright © 1977, Flammarion, Paris. Pubblicato con il sostegno del ministero della Cultura francese. Traduzione di Annalisa D'Orsi. NOTA DI COPERTINA. «La nozione di repressione non ha alcuna consistenza antropologica se viene semplicemente usata per caratterizzare un tratto essenziale della società occidentale o anche un insieme di forme politiche di cui la società occidentale sarebbe la realizzazione compiuta.» Contro chi ha voluto vedere nelle cosiddette società primitive la differenza assoluta, «la forma pura di una libertà perduta», «un'umanità più preoccupata dell'uguaglianza o più vicina a qualche fondamentale spontaneità», Marc Augé propone una lettura attenta e fedele dei dati etnologici. Il mito del buon selvaggio, per quanto espresso nel linguaggio del progressismo intellettuale e politico, è in realtà portatore di una visione della storia di tipo evoluzionistico e imperialistico. Tutte le società sono repressive, al di là delle specifiche istituzioni che le caratterizzano. Attraverso l'esame delle società lignatiche e dell'attuale società dei consumi, si sviluppa la tesi fondamentale del saggio: «l'ideologia è sempre ideologia del potere». Distinguere tra ideologia dominante e ideologia dominata, sostiene Augé, è pura speculazione intellettuale: l'ideologia dominante è quella di tutti in ogni senso. Poiché all'interno di una stessa società l'affermazione individuale passa per l'emancipazione politica, «nessuno può esigere il senso senza respingere il potere, cioè, in fin dei conti, senza rivendicarlo». Marc Augé è Directeur d'Études presso l'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Africanista di formazione, da anni si occupa di antropologia delle società complesse. Tra i suoi lavori pubblicati in Italia ricordiamo "Un etnologo nel metrò" (Milano 1992), "Nonluoghi" (Milano 1993), "Le forme dell'oblio" (Milano 2000), "Finzioni di fine secolo" (Torino 2001). INDICE. Introduzione. 1. I vendicatori di Laio. "Natura umana e differenze". - Repressioni. - Natura, cultura. - Ragione individuale, ragione sociale. - L'anti-Edipo. - Etnologia-pretesto e antropologia storica. 2. I totalitarismi senza Stato. "Ideologica e rapporti di potere". - Dominio, totalitarismo, simbolizzazione. - L'ideologica. - Ideologica, simbolismo e pratica sociale. - Le strutture dell'ideologica.

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Marc Augé.POTERI DI VITA, POTERI DI MORTE.Introduzione a un'antropologia della repressione.

Raffaello Cortina Editore, Milano.Prima edizione: 2003.

Titolo originale: "Pouvoirs de vie, pouvoirs de mort. Introduction à une anthropologie de la répression".Copyright © 1977, Flammarion, Paris.

Pubblicato con il sostegno del ministero della Cultura francese.Traduzione di Annalisa D'Orsi.

NOTA DI COPERTINA.«La nozione di repressione non ha alcuna consistenza antropologica se viene semplicemente usata per caratterizzare un tratto essenziale della società occidentale o anche un insieme di forme politiche di cui la società occidentale sarebbe la realizzazione compiuta.» Contro chi ha voluto vedere nelle cosiddette società primitive la differenza assoluta, «la forma pura di una libertà perduta», «un'umanità più preoccupata dell'uguaglianza o più vicina a qualche fondamentale spontaneità», Marc Augé propone una lettura attenta e fedele dei dati etnologici. Il mito del buon selvaggio, per quanto espresso nel linguaggio del progressismo intellettuale e politico, è in realtà portatore di una visione della storia di tipo evoluzionistico e imperialistico. Tutte le società sono repressive, al di là delle specifiche istituzioni che le caratterizzano. Attraverso l'esame delle società lignatiche e dell'attuale società dei consumi, si sviluppa la tesi fondamentale del saggio: «l'ideologia è sempre ideologia del potere». Distinguere tra ideologia dominante e ideologia dominata, sostiene Augé, è pura speculazione intellettuale: l'ideologia dominante è quella di tutti in ogni senso. Poiché all'interno di una stessa società l'affermazione individuale passa per l'emancipazione politica, «nessuno può esigere il senso senza respingere il potere, cioè, in fin dei conti, senza rivendicarlo».

Marc Augé è Directeur d'Études presso l'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Africanista di formazione, da anni si occupa di antropologia delle società complesse. Tra i suoi lavori pubblicati in Italia ricordiamo "Un etnologo nel metrò" (Milano 1992), "Nonluoghi" (Milano 1993), "Le forme dell'oblio" (Milano 2000), "Finzioni di fine secolo" (Torino 2001).

INDICE.

Introduzione.

1. I vendicatori di Laio."Natura umana e differenze".- Repressioni.- Natura, cultura.- Ragione individuale, ragione sociale.- L'anti-Edipo.- Etnologia-pretesto e antropologia storica.

2. I totalitarismi senza Stato."Ideologica e rapporti di potere".- Dominio, totalitarismo, simbolizzazione.- L'ideologica. - Ideologica, simbolismo e pratica sociale.- Le strutture dell'ideologica.

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- Contatto.- Senso e potere.

3. L'illusione individuale."Liberalismo e repressione".- L'individuo, l'istituzione.- Istituzione, funzione, dominazione.- L'uno, l'altro. Il singolare plurale.- SAS o la perfezione per addizione.- Logica lignatica e logica della società dei consumi.

Conclusione.

Avvertenza: Tutte le note non seguite dalla sigla [N.d.A.] sono della traduttrice.

***

INTRODUZIONE.

I NOSTRI RITI E QUELLI DEGLI ALTRI.

Viviamo in un'epoca di cui sarebbe insufficiente dire che è «organizzata»: la riflessione comune e gli studi dotti concordano nell'identificare e a volte nel denunciare, con gli stereotipi del tempo, le costrizioni dell'orario; i tempi morti della vita professionale - quelli dove la forza lavoro si ritempra e si rigenera - non sono che un rifugio illusorio per la vita «privata» e «individuale»: la cultura pubblica - lo sport, la televisione, la canzone - li occupa, come si suol dire usando una parola dagli echi stranamente guerreschi e conquistatori. In modo più sottile, l'orario di ciascuno, persino nella sua parte non professionale, segue bene o male, tranne per qualche meandro, il corso del fiume comune: il gesto distratto con cui chi si sveglia, accendendo la radio, libera il flusso delle informazioni che gli sono state preparate, la familiarità quotidiana degli itinerari - la conoscenza intima e immediata del vagone migliore per la coincidenza, la moneta per il giornale, i pannelli pubblicitari che cambiano di tanto in tanto -, la gamma ridotta e la programmazione regolare delle distrazioni collettive (documentario, gelati, film; pre-partita, partita, intervallo, fine partita), in breve tutte le possibilità offerte agli esperti della vita quotidiana, compongono un insieme definito di attività indefinitamente ritualizzate.Il cittadino medio, in questo senso cittadino modello, si applica, come padre di famiglia, lavoratore, giocatore di "tiercé" (1), sportivo, automobilista - se vogliamo: come consumatore - a mettere in opera e a praticare il rito. Egli fa ciò che va fatto quando va fatto e si presenta all'ora stabilita in ufficio o in fabbrica, alle urne, allo stadio, alle porte di Parigi e a Merlin-Plage (2). Paga, ma quale rito si è mai potuto celebrare gratuitamente? Non ha d'altronde alcuna scelta, ma in quale società ci si è mai potuti affrancare impunemente dagli obblighi rituali? Egli officia il rito: allaccia la cintura di sicurezza, attacca il bollo di circolazione, limita la velocità, viaggia su due file, rispetta i sensi vietati; rappresenta: porta i capelli lunghi o corti, indossa o meno la cravatta (è una questione di generazione e ancor più di classe, e anche una questione di circostanze); in breve, egli fa come gli altri, i quali fanno come lui, e nel compiere il rito non si distingue per nulla da coloro ai quali si oppone, quando crede di opporsi. O altrimenti, come uno di quei fantocci che ogni società si trova a tollerare, diventa un deviante che verrà rapidamente eliminato o assorbito, fuma nel metrò, gira senza casco, esprime come può il suo disagio e si addita da sé all'attenzione delle forze dell'ordine, dato che non si limita alle attività strettamente marginali di snobismo consentito, ai privilegi di casta.Tutt'al più gli è consentito sfuggire ai pericoli dell'isolamento, all'emarginazione che in tutte le società sanziona le trasgressioni illecite, unendosi alle folle unanimi che, messa da parte ogni divisione, acclamano negli

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stadi i totem gloriosi della festa sportiva. Verità propriamente totemica, come quella del gallo quando calpesta il cardo scozzese o si punzecchia con esso le piume (3), come quella dei Verts (4) quando accedono alla finale di Coppa Europa. La liturgia del Parc de Princes (5) (cori alternati di tifosi, distribuiti sugli spalti in modo armoniosamente contrastato, bandierine e berretti dai colori adatti, slogan conosciuti e ripresi da tutti) avrebbe indubbiamente impressionato e imbarazzato Durkheim: una festa profana, una festa sacra? Sicuramente una sacralizzazione della società, della città, della nazione o di entrambe; sindaci, deputati e ministri d'ogni tendenza lo sanno bene, qui come altrove: il calcio professionale è stata una delle prime conquiste delle nuove nazioni in via di sviluppo.Ora il paradosso della civiltà occidentale, che ha sempre avuto i suoi totem e i suoi tabù, i suoi dei e i suoi riti, è che, in questo caso, essa ha sempre avuto anche il culto delle differenze - di cui il suo imperialismo costituisce al tempo stesso il rovescio e il complemento. I selvaggi sono quelli che, per così dire, fanno tutto come noi ma lo fanno diversamente. L'ambiguità sta in questo «diversamente». Vecchia tradizione sociologica: per Durkheim, seguito e ripreso su questo punto da Althusser, la religione è in certo qual modo la forma pura dell'ideologia, il minimo sacro necessario al funzionamento del profano. La sacralizzazione, nata dalla particolare atmosfera delle riunioni episodiche di tutta la società, mette o rimette in moto il motore della società - come con un giro di manovella molto simile ai giochi di prestigio con cui la nostra tradizione filosofica prova a evitare il problema in cui inciampa regolarmente: quello dell'impulso iniziale. Ma se a questo riguardo i selvaggi sono esemplari, è perché essi sono anche molto diversi, paradossalmente più socializzati di noi; a proposito dei popoli «primitivi», così scrive Durkheim nelle "Forme elementari della vita religiosa": «Il gruppo realizza in modo regolare un'uniformità intellettuale e morale di cui troviamo soltanto rari esempi nelle società più avanzate. Tutto è comune a tutti. I movimenti sono stereotipati: tutti eseguono i medesimi nelle medesime circostanze, e questo conformismo della condotta esprime il conformismo del pensiero. Dato che tutte le coscienze sono trasportate dalle stesse correnti, il tipo individuale si confonde quasi con il tipo generico» (6). Sotto altre forme, in un linguaggio più sofisticato, i filosofi oggi alla moda rimangono alla moda di casa nostra ed evocano dei selvaggi meno individualizzati, più collettivi e, per meglio dire, più coerenti di noi. Ma essi aggiungono alla descrizione di Durkheim una piccola dose di giudizio di valore che ne cambia profondamente il senso; per Durkheim, i selvaggi costituiscono un modello intellettuale: la forma semplice di rappresentazioni più complesse, l'essenza del rapporto sacro/profano; per i nostri filosofi, essi costituiscono quasi un modello morale: la forma pura di una libertà perduta, che non passava per l'illusione individuale e per la repressione edipica.Il punto debole è proprio qui. Senza per ora far commenti sulle diverse maniere con cui gli autori descrivono e analizzano la differenza, possiamo notare che essi la collocano tutti esattamente nei punti oscuri della nostra sociologia e delle nostre società - il rapporto dell'individuo con se stesso, il rapporto della legge sociale con l'individuo, il rapporto della legge dei dominanti con i dominati e la combinazione di questi tre rapporti costituiscono un problema evidentemente attuale: il rapporto del sé con se stesso non è mai stato tanto problematico come nel momento in cui la schizofrenia appare, secondo la formula di Deleuze, come il limite del capitalismo; la generalizzazione di sistemi statali forti, la concomitante moltiplicazione di forme di contestazione e di repressione, il rapido affinarsi dei metodi di propaganda e di pubblicità definiscono in modo potenzialmente conflittuale il rapporto della legge con gli individui che essa opprime diversamente ma che reprime in uguale misura; le conseguenze del colonialismo e il generalizzarsi delle situazioni di dominazione rivelano senza mezzi termini l'imperialismo del pensiero che accompagna (talvolta dopo averlo anticipato e annunciato) l'imperialismo "tout court", da cui i membri delle società dominate sono ben lontani dal potersi sbarazzare perché esso li ha raggiunti nella loro capacità di fare e di dire: nella loro stessa capacità di vivere (7).Siamo quotidianamente messi a confronto, "hic et nunc", con l'evidenza e con il

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problema dell'efficacia dell'ideologia. E non si può dire che i nostri filosofi non se ne siano mai occupati: essi riconoscono con Deleuze e dopo Reich che il fascismo può essere oggetto di desiderio, con Legendre l'astuzia del discorso canonico che conduce all'amore del censore, con Baudrillard il sistema implicito dei discorsi ufficiali della propaganda e della pubblicità, i quali delineano e costruiscono le costrizioni cui l'uomo della società dei consumi non può sottrarsi. Ma quando si tratta di esplicitare la natura di queste «virtù» sociologiche (di queste astuzie e di questo desiderio), l'etnologia è chiamata alla riscossa. Durkheim trovava nella religione dei selvaggi la forma semplice del passaggio al sacro o, detto altrimenti, il segreto al tempo stesso dell'alienazione e del funzionamento. I nostri filosofi, invece, postulando la radicale differenza dei selvaggi, cercano presso di loro un esempio "a contrario": i simboli precedenti all'alienazione, i rapporti aperti precedenti all'astrazione. Al limite, e per sbarazzarsi delle difficoltà dell'ideologia, essi ne farebbero la perversione del simbolismo. Come se l'ideologia (e le gerarchie che essa suppone) non giocasse alcun ruolo nelle società «diverse», come se il simbolismo non operasse nella società industriale. Spostando in questo modo il problema, esorcizzandolo come se altrove non esistesse, si evita solo di formularlo: ci si crea l'illusione di una risposta «esotica» a una domanda «storica». Ma così facendo si cambia la domanda. Poiché ciò che si dà, da qualche parte fra l'intimità relativa delle storie individuali e le nuove costrizioni di un ordine economico fondato in parte sulla definizione del valore-lavoro come equivalente generale, da qualche parte fra l'Edipo e il Capitale, non è forse precisamente ciò che si dà in ogni società: l'instaurazione e l'efficacia di un potere di cui il capitalismo non è che una delle forme possibili, la più oppressiva, forse, per molti, e la più costrittiva, ma che non può essere ritenuta la più alienante se non a costo di un disconoscimento forsennato delle altre forme storiche di repressione, e che non può essere posta alla fine del mondo (per ciò stesso come assoluto della repressione) se non privilegiando una visione retrospettiva e mutilante della storia?La nozione di repressione non ha alcuna consistenza antropologica se viene usata semplicemente per caratterizzare un tratto essenziale della società occidentale o anche un insieme di forme politiche di cui la società occidentale sarebbe la realizzazione compiuta. A questo punto è importante situare più precisamente questo saggio in rapporto alle riflessioni recentemente sviluppate sul tema della repressione. Di queste riflessioni l'etnologia non è direttamente responsabile, nel senso che rari sono gli etnologi che hanno prodotto lavori su questo tema. Essa è responsabile nel modo abituale: serve da pretesto o da appoggio; è in effetti degno di nota che questa disciplina, che cerca continuamente di prendere a prestito il rigore, il linguaggio o le intuizioni delle discipline vicine (linguistica, filosofia, psicoanalisi), alimenti allo stesso tempo ricerche che la derubano di quel pizzico di esotismo che le è proprio e dei prestigi della distanza. Nel luogo d'incontro di questi due snobismi, si delinea una tentazione insidiosa e tanto più pericolosa dal momento che essa può esprimersi nel linguaggio del progressismo intellettuale e politico: la tentazione di misurare le oppressioni e i sistemi repressivi moderni occidentali sul liberalismo o l'ugualitarismo presunti degli altri, dell'altro, nella sua differenza non più solamente rispettata ma magnificata, proprio perché essa è altra cosa rispetto all'Occidente statale e repressivo e perché, inoltre, resiste alle sue imprese dominatrici o soccombe ai suoi attacchi. Ma, con il pensare per opposizioni di termini, con il pensare le etnie contro l'Occidente, le campagne contro la città, le società contro lo Stato, il primitivismo contro l'Edipo, non si corre forse il rischio di sostituire all'analisi il gioco più o meno sottile, a seconda del talento degli autori, del valorizzare esageratamente qualcosa attraverso la negazione e il rifiuto di qualcos'altro? (8)

I META-ANTROPOLOGI E L'ETNOLOGIA-PRETESTO.

La definizione di una nuova soggettività è all'ordine del giorno per i meta-antropologi francesi (9). Per questi si tratta di denunciare l'«Io» e, più ancora,

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il «Super-io» come una creazione storicamente datata, creazione imputabile, grossomodo, allo spirito occidentale cristiano e, nelle sue forme più attuali, al capitalismo di Stato. Michel Foucault ha recentemente riassunto questa posizione dichiarando: «[...] l'individuo non è il dato su cui il potere si esercita e si abbatte. Con le sue caratteristiche, la sua identità, nel suo impuntarsi su se stesso, l'individuo è il prodotto di un rapporto di potere che si esercita su dei corpi, delle molteplicità, dei movimenti, dei desideri, delle forze» (10). Questo linguaggio potrebbe essere quello stesso di Deleuze, di Guattari o di Baudrillard.Ciò pone un problema. Esso implica infatti che in società diverse dalla nostra siano esistite forme di soggettività diverse da quelle dell'individuo «nel suo impuntarsi su se stesso». Così, Deleuze e Guattari, nel loro "Anti-Edipo" (11), contrappongono le società «moderne» alle società «primitive»: quelle consacrano la privatizzazione delle istituzioni, queste istituiscono organi collettivi come la maschera. Alle prime spetta il «Super-io», il complesso di Edipo, alle seconde i fantasmi di gruppo e l'intersoggettività. Ora, se è evidente che la definizione e la formazione dell'identità dipendono in larga misura dalle configurazioni politiche e sociali (la letteratura consacrata alla nozione di persona è a questo riguardo molto ricca), può sembrare al tempo stesso legittimo supporre che questa formazione dell'identità sia precisamente la peculiarità del potere (quale ne sia la forma) e il segreto della sua efficacia; in tutte le forme del potere, la figura individuale si inscrive nella configurazione complessiva che delimita la totalità del possibile e del pensabile; questo limite determina, propriamente, l'ideologia per effetto della quale ragione individuale e ragione sociale tendono a identificarsi in tutte le società. Da questo punto di vista, ogni interrogativo circa l'universalità dell'Edipo resta secondo, se non secondario; una risposta negativa non invalida in nulla l'ipotesi per cui, in ogni società, repressione psichica e repressione sociale si definiscono vicendevolmente. Ma questo non è il postulato dei meta-antropologi. Ciò che essi respingono, fra l'altro, nella nozione di natura umana è lo schema intellettuale universalistico che le corrisponde e secondo il quale forme omologhe possono e debbono trovarsi nelle diverse culture; l'evoluzionismo latente o esplicito che sottende i loro discorsi pretende che la storia dell'umanità vada dal più aperto (la società primitiva) al più repressivo (lo Stato); una lettura alla rovescia del senso della storia permette loro, un po' contraddittoriamente, di fare del secondo l'ossessione della prima, negandogli al tempo stesso un carattere di necessità storica. Le società primitive, in quanto società della soggettività esplosa e in quanto società del rifiuto (dello Stato), varrebbero come prova e contro lo «struttural-marxismo» e contro il «freudo-marxismo»: contro la natura umana, contro l'Edipo, contro lo Stato.I dati dell'etnologia dovrebbero costituire il perno di questa dimostrazione. E di fatto alcuni etnologi si sforzano di puntellarla con la realtà delle società che essi studiano. Alcuni «americanisti», in particolare, rivendicano con Robert Jaulin la differenza assoluta e con Pierre Clastres l'anarchismo radicale delle società primitive. Questa rivendicazione si riallaccia ad altre che più da vicino interessano le nostre società industriali: il diritto alla differenza mette in discussione lo Stato-nazione, che viene denunciato come creazione dello spirito giudaico-cristiano universalistico e negatore delle differenze; lo Stato appare parallelamente come lo strumento repressivo per eccellenza, a prescindere dalle sue opzioni politiche. Queste denunce s'appoggiano su una lettura attenta delle società primitive o, al contrario, impongono tale lettura? Gli Indiani dell'Amazzonia sono forse i figli ingrati dello stalinismo? E' una domanda che ci si può porre nel vedere la moda attuale dell'etnologia-pretesto e nel notare, per esempio, come certe femministe cerchino, a dispetto dell'evidenza, di trovare nella storia e nell'etnologia alcune società dove il potere politico non fu sostanzialmente maschile, come se fosse necessario aver un giorno perso il potere per poterlo rivendicare, come se fosse necessario trovare altrove un supporto per l'esigenza attuale. Un onore eccessivo per l'etnologia, posta come arbitro nei dibattiti attuali; un eccessivo disonore per gli etnologi, ai quali i meta-antropologi, con la loro lettura facile e altezzosa, infliggono quella stessa sorte che essi rimproverano loro di infliggere a coloro che studiano: pensano al posto loro le

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loro pratiche e le loro produzioni - etnologi di secondo grado, insomma, e radicalmente imperialisti, poiché pretendono di esprimere l'essenziale della visione primitiva, il colmo della differenza, il senso ultimo della parola e del rito.Se tuttavia quest'argomentazione ha successo, è perché essa poggia sulla scoperta, al tempo stesso, dell'esigenza individuale e della costrizione politica (non fosse che per denunciare il carattere chiuso della figura individuale nella civiltà edipica, la potenziale identificazione fra repressione nel senso psicoanalitico e repressione nel senso politico); il suo carattere contraddittorio deriva dal fatto che, mentre fa dell'individuo il prodotto di una costruzione ideologica, di una costruzione del potere il quale dà a se stesso l'individuo di cui ha bisogno per potersi esercitare, tale argomentazione, nel momento in cui smette di considerare le «nostre» società, si disinteressa del luogo e della forma del potere, del legame necessario e di fatto sempre postulato fra costruzione «individuale» e costruzione «sociale»: ciò che interessa nelle «altre» società è la differenza delle soggettività, una differenza abbastanza radicale - essa sembra sottintendere - malgrado la diversità dei poteri non ponga alcun problema. La stessa parola «potere» viene scartata, come se esistesse potere solo negli apparati dello Stato; presso gli autori più caricaturali sotto questo aspetto, per esempio Baudrillard in "Lo specchio della produzione" (12), la reciprocità e lo scambio simbolico rivendicano aggressivamente il posto delle nozioni politiche ed economiche occidentali che gli etnologi etnocentrici, in particolare d'osservanza marxista, avrebbero abbastanza scioccamente applicato alla descrizione dell'Eden primitivo. Sotto la penna di Baudrillard, la cattività nelle società praticanti la schiavitù prende l'aspetto del libero contratto di mutuo sostentamento. Quanto al filone Mauss-Bataille, sfruttato con maggior sottigliezza da Deleuze, esso offre pepite meno grossolane ma dai riflessi altrettanto ingannatori: il debito e la crudeltà del marchio primitivo proteggerebbero dall'influenza totale del "socius" i flussi cifrati, ma non ancora astratti, del desiderio e delle sue produzioni. Presso i primitivi, il rapporto con il desiderio non sarebbe che la trascrizione, immediata e concreta, «l'iscrizione», del desiderio stesso.L'esperienza etnologica non autorizza tali conclusioni. Essa, infatti, suggerisce tre ordini di osservazioni che danno vita ad altrettante contro-argomentazioni. Innanzitutto, non è affatto legittimo applicare indifferentemente la denominazione di «società primitive» a sistemi sociali tanto diversi quanto, per esempio, le bande dei cacciatori-raccoglitori, le società lignatiche o le società di villaggio senza lignaggio. A questo proposito, le analisi dei meta-antropologi sono più o meno sommarie, ma esse hanno tutte un principio e una tentazione in comune: fanno della comparsa dello Stato, della figura del despota, la sola cesura pertinente della storia e tendono a considerare le società non statali come un insieme relativamente omogeneo. In secondo luogo, l'osservazione attenta dei sistemi di rappresentazione e delle pratiche che queste implicano rivela, da una parte, la stretta connessione esistente fra rappresentazioni della persona (come esse risultano dalle teorie locali dell'eredità, dello psichismo, del corpo, della forza e dell'influenza) e rappresentazioni sociopolitiche, dall'altra parte rivela il carattere esplicitamente differenziale, implicitamente non ugualitario e manifestamente costrittivo della configurazione complessiva in cui queste rappresentazioni si articolano, si coniugano, si precisano e si ordinano l'una rispetto all'altra. L'esempio delle società lignatiche mostra come a definizioni originali della persona corrispondano solidalmente e logicamente definizioni originali del potere: il potere si abbatte sempre su individui; e precisamente esso può esercitarsi e venire accettato solo in quanto deriva dalla medesima logica, nel prolungamento delle definizioni della persona, dell'interpretazione del quotidiano e dell'evento, della nosologia, dell'organizzazione della famiglia e degli altri gruppi sociali, della costruzione concomitante dell'individuo e del "socius".Ma questa bella logica, di cui il discorso culturalista rende parzialmente conto, non ha nulla d'armonioso se non l'ideologia che esprime o piuttosto che costituisce. Si tratta dell'armonia stessa dell'ordine - ordine indifferentemente intellettuale, morale e sociale. Essa individua componenti biologiche e psichiche,

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definisce linee di ereditarietà e regole di eredità, riti e diagnosi, prescrive e proscrive: in breve, stabilisce l'insieme del possibile e del pensabile. E tuttavia, ciò che è possibile non lo è per tutti allo stesso titolo, ciò che è pensabile non lo è per tutti allo stesso modo; la somma del possibile e del pensabile costituisce una sistematica delle differenze sia in modo esplicito, designando posti e ruoli (il lignaggio, la stirpe, il villaggio, il quartiere, il padre, il figlio, lo zio, il nipote), sia in modo implicito, in quanto, designando questi luoghi rappresentativi, essa ne situa al tempo stesso l'altrove e stabilisce con ciò stesso lo statuto di coloro che devono tenerne conto senza potersene far carico: tutti coloro che non possono riferirsi a essa se non per misurare la propria debolezza e la propria insignificanza rispetto alle linee di forza e di senso, tutti coloro che essa passa sotto silenzio e invita al silenzio, tutti coloro che la suddivisione temporale delle genealogie e la casualità delle nascite successive hanno allontanato dalle stirpi maggiori e dai fratelli primogeniti, tutti coloro che hanno solo un accesso effimero e passivo - per testimoniare o per subire - allo spazio del potere. Nulla indica che le teorie lignatiche della consustanzialità parziale delle persone, della solidarietà economica, cerimoniale e culturale degli individui o della circolarità dell'alleanza e dell'ereditarietà si riferiscano a un'umanità più preoccupata dell'uguaglianza della nostra, o più vicina di quest'ultima a qualche fondamentale spontaneità. E' invece con rara minuzia e con notevole sofisticazione che esse creano sistemi di costrizione non ugualitari che producono, al di là della differenza delle concezioni e delle definizioni, forme o piuttosto strutture ideologiche (mi riservo di precisare meglio questo termine) identiche a quelle di qualsiasi altro tipo di società e di potere.Infine (e questa sarebbe la terza osservazione), non è affatto legittimo inferire meccanicamente il vissuto degli individui dalle definizioni della persona, le realtà dello psichismo e del sociale dalle rappresentazioni dell'ordine intellettuale o politico. Dedurre il vissuto individuale concreto dai miti d'origine, dalle cosmogonie, dalle forme rituali o dalle teorie antropologiche locali è certamente sacrificare a una concezione strettamente esegetica del simbolismo. Quest'ordine intellettuale non è espresso, o all'occorrenza imposto all'individuo, se non come richiamo all'ordine, allorché l'evento impone la necessità di un'interpretazione; quest'ultima tiene conto contemporaneamente della configurazione logica complessiva (la somma del possibile e del pensabile) e della posizione degli individui in causa rispetto a questa configurazione - al primo posto di questi si trova del resto il maestro dell'interpretazione, che sia divino o che sia il capo del lignaggio. Nella misura in cui è in fin dei conti l'evento a richiamare all'ordine (ogni disordine individuale, per esempio la malattia, rinvierebbe a un disordine sociale, per esempio l'adulterio), la personalità si costruisce proprio in funzione delle costrizioni del sistema e, per quanto possibile, in previsione o in prevenzione dei suoi possibili rigori; tuttavia, sempre minacciata dall'essere identificata con dei personaggi fissi, definiti e denunciabili (come lo «stregone»), essa ha il dovere di prevenire incessantemente la possibile diagnosi, di essere sempre in anticipo di un'essenza; essa s'identifica dunque meno con le definizioni di quanto non vi si sottragga: le resta aperto un campo di libertà e di reinterpretazione a condizione che non si lasci imprigionare dal discorso degli altri; è tuttavia del tutto evidente che questo grado di apertura e di libertà e precisamente funzione della posizione dell'individuo nella gerarchia del sistema; la libertà nel sistema si offre a coloro che ne hanno meno bisogno, poiché esso è costruito per loro, come un surplus di potere. Il rapporto con il sistema - il vissuto - varia da un caso all'altro e non è né in un caso né nell'altro la semplice ripetizione del sistema; esso non vi si inscrive completamente attraverso la parola degli altri se non nella necessità retrospettiva della diagnosi della morte - rapporto di senso che esprime soltanto il rapporto di forza dei viventi.

LA MORTE BUONA DA PENSARE.

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In nessun luogo la morte è, in senso stretto, pensabile. Essa è l'impensabile per eccellenza. Thomas (13) ricorda il paragone che stabiliscono i Bantù a questo proposito. La morte è come la luna; chi ne ha mai visto il volto nascosto? Tuttavia, questo impensabile è buono da pensare: la morte è buona da pensare come tutto ciò che essa non è. Essa è buona da pensare innanzitutto in quanto evento. Se la morte, come la nascita o la malattia, è oggetto, nelle società lignatiche, di inchieste e di interrogazioni tanto minuziose, è perché l'organizzazione della vita ne dipende, e più ancora ne dipende il chiarimento dei rapporti di forza che letteralmente costituiscono il rapporto sociale. La ricerca delle cause non è senza conseguenze, ed è a causa di queste che eventualmente si affrontano, allo stabilirsi di una diagnosi, lignaggi alleati, membri di uno stesso lignaggio o quartieri di uno stesso villaggio. La sepoltura, i funerali sono preceduti da conciliaboli, da accuse, da spiegazioni, da regolamenti di conti che vengono eventualmente presentati come necessari alla tranquillità del defunto, ma che mirano innanzitutto al chiarimento dello squilibrio sociale (rottura di un divieto, adulterio, dissenso, aggressione mediante stregoneria) che deve esser stato la causa della morte, a una ricomposizione del passato che dia senso al presente. Nessun evento è contingente, la morte lo è ancora meno di ogni altro. La morte è prima di tutto un richiamo all'ordine, ma all'ordine dei viventi.Essa è buona da pensare anche in quanto limite - limite dell'individuo e limite del potere. Indubbiamente questo limite può essere spostato, differito, aggirato; tutte le teorie della metempsicosi parziale o totale corrispondono a questa possibilità. Ma anche laddove queste teorie esistono, esse non si applicano ugualmente a tutti gli individui; sembra piuttosto che le linee della reincarnazione tendano a coincidere con le linee della forza sociale. In un certo senso la morte fa assoluto l'individuo e l'individuo è il limite del potere. Se il potere vuole sottrarsi alla dimensione individuale (la sua relativizzazione attraverso la morte), proporzionalmente al suo carattere «individuale» e «assoluto», esso deve gestire la morte (nel doppio senso del termine: amministrarla) e oltrepassarla, sempre al di qua o al di là della sua realtà. Le teorie dell'ereditarietà possono confortare questa visione delle cose, giacché fanno dell'individuo al potere una figura del potere effimera sempre ricominciata, che il rito allo stesso tempo costituisce ed esprime. Dalla forma minimale del potere su alcuni alla forma assoluta del potere sugli altri, dall'iniziazione alla salita al trono, tutti i rituali mettono in scena un passaggio attraverso la morte che appare come la condizione essenziale dell'accesso al potere. La letteratura antropologica abbonda di esempi spettacolari della messa a morte simbolica degli adolescenti iniziati, dei responsabili religiosi nominati, dei capi o dei sovrani saliti al potere.La morte in quanto evento e la morte in quanto limite (limite il cui scongiuro tenderebbe a definire il potere come irraggiungibile dall'evento) sono pertanto incessantemente messe in scena e rappresentate, scomposte, ricomposte, indagate. La morte, sotto questo aspetto, assume un carattere familiare, talvolta parodistico: il morto è maneggiato, scosso, manipolato; la morte è mimata, recitata, provocata. Ma con questo non si vuole dire che tale aspetto familiare distingua irrimediabilmente le società «altre» dalla nostra società. Certo, si può contrapporre, per esempio, all'ostentazione funeraria delle società africane (o una volta delle nostre campagne) la discrezione consolidata delle nostre agenzie di onoranze funebri (14) («voi morite, al resto pensiamo noi»); l'essenziale non può essere qui, ma piuttosto nel doppio movimento, reperibile in ogni configurazione politica, che tende, da una parte, a fare della morte il punto di partenza sociologico (e retrospettivamente l'esito storico) di una concatenazione di cause (così oggi ci viene insegnato a «spiegare» il cancro, la cirrosi, gli incidenti della strada o le fluttuazioni della speranza di vita in termini di responsabilità morale e di stile di vita) e, dall'altra, a identificare l'impensabile della morte con l'impensabile del potere (a persuaderci così fortemente, per esempio, dell'eternità degli Stati che la morte di un capo di Stato in carica ci stupisce ancora per il suo carattere scandaloso).La morte non è la realtà biologica, istituzionale e metafisica in rapporto alla quale certe società si rivelerebbero essenzialmente diverse dalle altre. Essa è

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prima di tutto e dappertutto l'occasione e la provocazione, l'elemento primo e contraddittorio di un pensiero del potere che non può eliminarla se non al prezzo della sua realtà e della sua efficacia. Nessuna società ha mai potuto risparmiarsi una riflessione sulla morte; questa riflessione, in cui s'incrociano senza confondersi la dimensione individuale e la dimensione politica, è essa stessa, per ogni potere, una questione vitale.

I MARXISTI E L'IDEOLOGIA DEGLI ALTRI.

Qui si tratta, è chiaro, di denunciare l'utilizzo fatto dai meta-antropologi di materiali etnologici frammentari, falsi o discutibili per stabilire una radicale e irriducibile "differenza" tra, da un lato, le società «primitive», che sarebbero essenzialmente caratterizzate dall'assenza di repressione psichica e sociale e, dall'altro, le società «statuali» che si definirebbero per la chiusura progressiva della figura individuale su se stessa e il totalitarismo repressivo di un'istituzione politica irreversibilmente costituita come significante assoluto. Ma questa denuncia ha senso solo in funzione di un dibattito più generale centrato sullo statuto teorico della nozione di ideologia - dibattito di cui si trova eco all'altra estremità della gamma teorica, presso coloro che non sono sedotti dall'«apatia teorica» di Lyotard e non rinunciano né a teorizzare la pratica né a dirsi marxisti. Alcuni passaggi dell'opera di Jacques Rancière ("La leçon d'Althusser") (15) hanno avuto il merito di chiarire i termini del dibattito; per Rancière non si tratta certo di ricongiungere Deleuze e Nietzsche, la libido e il risentimento; il ricorso alla "Genealogia della morale" (16) è ai suoi occhi solo una procedura universitaria, un ulteriore abbandono alle delizie della speculazione pura, il segno di un'impotenza a scongiurare i fantasmi della metafisica che molto assillano anche il pensiero marxista e in particolare il discorso «filosofico» di Althusser. Ora, se Rancière rimprovera ad Althusser di riprodurre un modello di analisi ereditato dal «discorso metafisico sulla società» e da una «sociologia borghese di tipo durkheimiano», è precisamente perché rifiuta la concezione althusseriana di un'ideologia «in generale», che assicurerebbe, in tutte le formazioni sociali, la coesione dell'insieme a costo di un effetto di opacità. Per Althusser, infatti, la diversità radicale delle società senza classi e delle società di classe non toglie che né le une né le altre potrebbero sussistere senza «ideologie» concepite come «sistemi di rappresentazioni». La suddivisione in classi aggiungerebbe semplicemente al principio di deformazione ineluttabile proprio dell'ideologia in generale un secondo principio di deformazione specifico a questa divisione, sovradeterminando la funzione del primo e mirando a stabilire a vantaggio della classe dominante una rappresentazione mistificata e mistificante del sistema sociale.Il problema delle differenze è dunque anche al cuore del dibattito marxista, ma corrisponde in realtà a due questioni ben distinte: la prima concerne lo statuto dell'ideologia nelle società di classe e nelle società senza classe; la seconda concerne direttamente le classi stesse e le particolari ideologie di cui sarebbero portatrici. Rancière rimprovera ad Althusser di definire il concetto di ideologia nella sua generalità prima di definire quello di lotta di classe. Per lui la «struttura» della società sono «i "rapporti di produzione" che caratterizzano un modo dominante di produzione», ossia «le forme sociali di appropriazione dei mezzi di produzione che sono delle forme di appropriazione di classe». Detto altrimenti, per Rancière l'espressione «ideologie di classe» ha un solo senso, quella di «ideologia di società di classe» ha un senso equivoco e quella di ideologia della società in generale o di «ideologia in generale» non ne ha nessuno, se non (ma questa è un'altra storia) il senso politico e strategico di una costruzione intellettuale tendente a consolidare l'autorità del comitato centrale del Partito comunista francese.Althusser e Rancière si ritroverebbero però d'accordo con i meta-antropologi della libido nell'ammettere l'esistenza di una frattura radicale (e reperibile a partire dal dibattito sul concetto di ideologia) fra due diversi tipi di società: per il primo, l'ideologia delle società di classe aggiunge un effetto di mistificazione

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all'effetto di opacità prodotto dall'ideologia in generale, mistificazione presente solo nelle società di classe (la religione sarebbe, da questo punto di vista, «la prima forma generale dell'ideologia»); per il secondo, per definizione, non esiste ideologia nelle società senza classi. Rancière non precisa che cosa intenda per società senza classi, ma la sua analisi del feticismo permette di supporre che ne ammetta l'esistenza; la manifestazione-dissimulazione (il feticismo) dei rapporti di produzione non significa per lui un'opacità della «struttura sociale in generale»: è proprio «l'efficacia dell'opposizione di classe lavoratori/non-lavoratori che contraddistingue tutte le società di classe». Così, per Althusser, l'opacità ideologica delle società senza classi non rinvia a rapporti di potere ma a una sorta di minimo vitale sociologico (la coesione sociale) e per Rancière le società senza classi sono votate alla trasparenza; estesa al di là delle società di classe, l'efficacia della struttura (cioè dei rapporti di produzione) «diventa un concetto perfettamente indeterminato - oppure determinato come il sostituto di una figura tradizionale della metafisica: genio maligno o astuzia della ragione». Ecco dunque respinti, assegnati alla metafisica ed estromessi dal campo della storia - per la più grande felicità o la più grande ironia degli esperti di primitività - qualche società, qualche continente, qualche millennio.Non si discuterà qui del concetto di classe. Si ricorderà semplicemente che un antropologo marxista come Pierre-Philippe Rey ha dovuto proporne una ridefinizione per poter render conto delle forme di sfruttamento e di controllo della riproduzione sociale che la sua analisi delle società lignatiche gli faceva scoprire. Quanto ci proponiamo è un po' diverso: anche se si ammette che a dargli troppa estensione s'indebolisce il valore euristico e operativo del concetto di classe, e se si preferisce riservarne l'impiego all'analisi delle società dove l'opposizione lavoratori/non-lavoratori è pertinente, si dovrà riconoscere che l'esistenza del potere (sociale, economico, religioso, politico) è anteriore alla comparsa delle classi e, a dire il vero, completamente indipendente da quest'ultima. Da questo punto di vista, i rapporti di classe sarebbero solo una forma dei rapporti di potere. L'esempio delle società lignatiche ci invita a definire l'ideologia non come il «cemento» delle società ma come la sistematica dei rapporti di potere e ad ammettere al tempo stesso che non esiste né società senza potere, né potere senza ideologia. Esso ci fornisce forse così anche il mezzo per scoprire e analizzare la causa di un'efficacia che nulla deve a un effetto illusorio. L'analisi delle società lignatiche autorizza a mettere in discussione tanto le teorie di spirito funzionalista, che analizzano l'efficacia ideologica in termini di coesione sociale, di immaginario e di mistificazione (come fa Althusser), quanto quelle che rifiutano l'ideologia e la sua efficacia ad alcuni tipi di società (come fanno, con spirito apparentemente diverso, la nuova antropologia nietzschiana da una parte e il contro-althusserismo marxista dall'altra). Infine, e contemporaneamente, essa suggerisce che la distinzione fra ideologia dominante e ideologia dominata è una mera speculazione intellettuale, essendo proprio del potere imporre a quegli stessi che ne saranno sempre solo gli utenti l'ideologia che gli ha permesso di affermarsi e di riprodursi. Non si vuole dire con questo che le classi o i gruppi dominati non possano esprimersi all'interno dell'ideologia del potere e, in certi periodi storici, sovvertirla - cambiando contemporaneamente il rapporto di forza e il rapporto di senso. Si proporrà, a partire dall'esempio dei lignaggi, una distinzione fra i concetti di ideologica e di ideologia per introdurre l'ipotesi fondamentale di questo saggio: l'ideologia è sempre ideologia del potere in qualsiasi tipo di società; essa s'impone, si esprime e si riproduce attraverso strutture d'ordine sintattico che sono omologhe da una società all'altra e che spiegano, da una parte, come ogni individuo formuli e provi a risolvere i suoi problemi d'ogni genere nella logica dell'ideologia del potere e, dall'altra, come i dominati vivano nell'ideologia dei dominanti, pur esprimendo, senza illusione né ambiguità, la loro protesta o, per lo meno, la loro situazione.Tutte le società sono repressive e impongono allo stesso tempo un ordine individuale e un ordine sociale. Tale è, almeno, l'ipotesi che sarà sostenuta in tre momenti successivi. Una prima parte proverà a identificare il percorso e a

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distinguere gli a priori e le implicazioni della meta-antropologia di oggi; in una seconda parte si proverà a descrivere le figure principali dell'ideologica lignatica e, al di là di questo, a proporre un'analisi strutturale dell'ideologica «in generale»; infine, attraverso l'analisi dei discorsi ideologici dell'attuale società dei consumi, si suggerirà, più precisamente, che l'ideologia capitalista funziona a partire da un'ideologica che non è formalmente diversa da quella delle società lignatiche. Così dovrebbe delinearsi un'antropologia della repressione, un'antropologia del potere e dei poteri che non sarebbe esclusivamente né «sociale», né «religiosa», né «politica», né «economica» - e ancor meno una «sintesi» di questi diversi «punti di vista», ma che, al contrario, muoverebbe da un'analisi differenziale delle logiche esplicite e implicite nelle pratiche che possono essere attuate e nei discorsi che possono essere portati avanti nelle diverse società concrete.

Capitolo 1.I VENDICATORI DI LAIO (1).Natura umana e differenze.

REPRESSIONI.

In senso lato, se seguiamo Laplanche e Pontalis, il termine «repressione» si applica a un'operazione psichica che tende a far scomparire dalla coscienza un contenuto spiacevole o inopportuno: un'idea, un affetto eccetera. In questo senso la rimozione sarebbe una particolare forma di repressione. Nel senso più stretto, privilegiato da questi autori, il termine repressione designa solamente alcune operazioni che corrispondono all'accezione del senso lato e si distinguono dalla «rimozione» in virtù del carattere conscio dell'operazione e per il fatto che il contenuto represso diventa semplicemente «preconscio» e non «inconscio» (2).Comunemente, impieghiamo il termine «repressione» anche per designare l'azione di un individuo su un secondo individuo, l'uno soggetto e l'altro oggetto della repressione. In questo senso, nel significato comune del termine, i genitori reprimono certe velleità dei figli, li educano "contro" certe tendenze. Ancora in questo senso, il potere politico reprime con la forza le manifestazioni sovversive, la polizia reprime le infrazioni del codice stradale; da questo punto di vista la distinzione tra prevenzione e repressione è un po' artificiale; la differenza è di grado, non di natura; la prima ha senso solo in rapporto alla seconda; una perfetta riuscita della prima implicherebbe l'interiorizzazione generalizzata delle costrizioni oppure un obbligo assoluto della seconda, in ogni caso il regno dell'ordine. Il gendarme può piazzarsi prima della sommità di una salita o prima di una svolta, giocare un ruolo «dissuasivo», oppure può appostarsi dopo l'una o l'altra, e giocare un ruolo «repressivo»: in entrambi i casi la saggezza che si ritiene ispiri deriva dal timore o, al di là di questo, dall'amore. La repressione si esercita sugli individui presi uno per uno; è quel figlio o quell'allievo a venire punito e che si sa o si crede oggetto di un'attenzione esclusiva. Le condanne, quando c'è giudizio, dosano individualmente la repressione, dalla sospensione della pena alla morte. Ma la repressione non è mai fantasiosa, per lo meno non nel suo principio esplicito; il figlio ben educato e il figlio martire vengono educati e martirizzati in nome di una sistematica dell'educazione, meccanica o sregolata che sia. L'oggetto della repressione nel senso comune è al tempo stesso individuale e collettivo nella misura in cui il giudizio da cui la repressione deriva non è mai una pura invenzione personale; per quanto vittima di una tirannia particolare, l'individuo è sempre vittima di un sistema.Sotto questo aspetto, la repressione nel senso comune non è diversa dalla repressione in senso analitico. Quest'ultima, nel senso stretto citato sopra, corrisponde a un'esclusione fuori dal campo della coscienza presente e non al passaggio da un sistema (preconscio-conscio) a un altro (inconscio). Laplanche e Pontalis osservano a questo proposito che, dal punto di vista dinamico, «[...] le motivazioni morali svolgono nella repressione un ruolo predominante» (3). Le motivazioni morali rimandano con ogni evidenza a un dato sociale. Fra la

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repressione in senso analitico, l'autorepressione e la repressione nel senso comune non c'è dunque soluzione di continuità: la repressione nel senso comune va oltre il suo oggetto occasionale, l'individuo, poiché si esercita in nome di un sistema contro delle deviazioni; l'autorepressione si esercita in nome di un sistema che deborda e ispira lo psichismo individuale; poiché essa prende di mira delle deviazioni in rapporto alle norme di un sistema interiorizzato, prende di mira virtualmente tutti i devianti.E' il medesimo totalitarismo a ispirare la legge dei vincitori quando si applica ai vinti, la legge dei dominanti quando si applica ai dominati. La situazione di dominazione è stabile solo nel momento in cui l'ideologia dei vincitori viene accettata dai vinti; il ricorso alla forza rimane, dal punto di vista dei vincitori, sempre possibile e a volte necessario; ma esso è implicitamente presente nella stessa legge del vincitore, costitutivo, in qualche modo, della sua efficacia e del discorso sempre trattenuto, contenuto ma riconosciuto, che la garantisce. Il fatto è che la situazione di dominazione è nata tanto dall'aggressione quanto dalla repressione nel senso comune; le forze di aggressione si trasformano rapidamente in forze dell'ordine; ma prima di tutto esse sono forze la cui evidenza e materialità non possono essere messe in dubbio. I militari usano belle parole per qualificare le «azioni» «improvvise», «risolute», «brutali», «d'urto» che devono suscitare «sorpresa» e consentire lo «sfruttamento»; parole di sempre, almeno di più d'un secolo, nella nostra tradizione guerresca; abbastanza vecchio da aver udito i professionisti dell'ultima guerra coloniale, l'odierno lettore degli archivi coloniali, dei rapporti degli amministratori e degli ufficiali può stupirsi nello scoprirvi, paradossalmente, come l'eco di discorsi più recenti. Una volta creato l'urto, una volta che il rapporto delle forze viene incontestabilmente stabilito, il nuovo ordine vuole esistere con tutta la forza dell'evidenza; più ancora dell'abitudine, di cui partecipa e con cui vorrebbe confondersi, esso tende a diventare una seconda natura, inevitabile, necessaria e senza passato.Il nuovo ordine, con la sua sola esistenza, pone anche un problema intellettuale a coloro ai quali è imposto e vuole imporsi; pone un problema che implica l'ordine antico, per il fatto stesso dell'efficacia della violenza da cui deriva; tende a fondare la realtà della sua vittoria come verità naturale. La cannoniera testimonia una realtà di cui il missionario spiega la verità; per il colonizzatore (sempre pronto a parlare della sua missione civilizzatrice), l'efficacia non sostituisce la legittimità, vi si identifica; e ogni sforzo di «civilizzazione», sforzo tutto sommato impari, tende a far accettare questa identità ai «non-civilizzati». Ma la prova di forza e la sua conclusione tendono da sole a imporre questa identità; poiché il contatto culturale, per tornare al pudico linguaggio dell'antropologia, è un contatto impari e una violenza, il nuovo ordine s'impone come ordine morale e come ordine intellettuale; l'etnocidio è sicuramente una delle figure repressive della dominazione; probabilmente, gli individui e le collettività dominate non potranno più sbarazzarsi dell'ideologia dei dominanti; la risposta alle provocazioni della violenza e dell'ideologia sarà con ogni probabilità segnata essa stessa dal marchio della repressione: è una risposta dei vinti ed è la disfatta ciò che essa deve innanzitutto spiegare. Tutti i sincretismi sono illusioni: reinseriscono i problemi individuali, moltiplicati e complicati dall'evidenza di nuove sventure, in una problematica sociale che attribuisce ai nuovi arrivati e alla loro forza, anche per opporvisi, più di quanto spetti loro effettivamente. Il missionario parla al tempo stesso dell'uomo e della società, collegando la felicità del primo ai cambiamenti della seconda: combattendo le credenze nella stregoneria (e, per far prima, per essere meglio ascoltato, anche per tradizione professionale, combattendo gli stregoni stessi, come se questi esistessero ma avessero trovato il loro signore), egli chiama in causa, insieme all'ordine sociale e alla ragione individuale che a esso si appoggia, la ragion d'essere dell'individuo e della società; il cristianesimo si presenta come l'insieme delle istruzioni d'uso delle forze della dominazione, la Bibbia come il segreto del potere bianco. Molti di coloro che, all'invito dei nuovi signori, hanno volto lo sguardo alla fonte luminosa del nuovo potere, si sono rovinati la vista senza perdere la speranza e continuano a cercarsi altri soli e nuovi dei.

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NATURA, CULTURA.

Che si applichi allo psichismo individuale, a gruppi o a popoli, la repressione rinvia alle lotte degli uomini fra loro, alle ideologie che producono e che subiscono, a una storia che non è la storia naturale della specie. La storia naturale conosce solamente lunghi periodi che scandiscono l'evoluzione delle specie o gli sconvolgimenti dell'universo terrestre. Con una sorta d'inversione paradossale, le imprese materialistiche che cercano di fare della storia umana un epifenomeno della storia naturale costringono se stesse a ridurre la prima a uno scontro di entità, a un combattimento più o meno manicheo fra principi contraddittori e complementari; tutto accade come se la riduzione della cultura alla natura lasciasse libero il campo a uno spiritualismo mascherato ma forsennato che sostituisce ai misteri divini quelli della genetica, cercando alle frontiere dell'inesplicato i principi di spiegazione del sociale e del politico. Un'intera corrente dell'odierna letteratura in scienze sociali sembra obbedire, a diverso titolo, a un doppio orientamento: quello del neoevoluzionismo e quello del rifiuto della dicotomia natura/cultura - doppio orientamento che corrisponde d'altronde al rigetto globale dello strutturalismo e del marxismo come principi di spiegazione delle società.Seguiamo, nel suo discorso utilmente divulgatore, il cantore eloquente e sintetico della moda antropologica, Edgar Morin (4). Il paradigma perduto è quello che declinava insieme natura e cultura, individuo e società. L'esempio delle società animali, ci ricorda Morin, mostra abbastanza chiaramente come il sociale non sia identificabile con l'umanità. Mentre le formiche, le api, le termiti sono a lungo apparse, da una parte, come eccezioni e, dall'altra, come esempi di antisocietà, in quanto mosse dalla forza del cieco istinto, sembra oggi, in particolare grazie al contributo dell'etologia, che esistano vere e proprie società animali dove si ritroverebbero le caratteristiche che venivano usate per definire le altre società umane: base territoriale, gerarchia (con i conflitti e i rapporti interindividuali di sottomissione/dominio che le corrispondono), solidarietà, cooperazione, ricchezza di comunicazioni (segni, simboli, riti). La società appare dunque come una delle forme dell'«autoorganizzazione» dei sistemi viventi, autoorganizzazione il cui principio di funzionamento è legato alla coppia competizione/solidarietà. La sociologia appare al tempo stesso come una «scienza naturale».Morin reintroduce la coppia complementarità/antagonismo per qualificare il rapporto società/individuo nella società degli antropoidi avanzati: da una parte è la diversità degli individui a nutrire la diversità dei ruoli e degli status ("caid" (5), servitori, devianti, marginali); dall'altra, la società dispone di «modelli ["patterns"]» superindividuali (classe, ruolo) che permangono stabili nel tempo mentre gli individui, con l'invecchiare, cambiano di ruolo. C'è dunque oscillazione fra sistemi a gerarchia morbida (che permettono un grande sviluppo dell'individualità) e sistemi a gerarchia forte (dove il pieno sviluppo individuale è più raro e più marcato - come nel caso del "caid"). Così il rapporto individuo/società è colto come un «rapporto complesso di determinazione reciproca»: «[...] individuo e società diventano parte integrante l'uno dell'altra in un rapporto di simbiosi» (6). Tutto ciò non accade senza insuccessi e senza perdite, senza «rumore», per riprendere un'espressione felice di Morin; ma, nell'insieme, tutta la storia dell'umanità o tutta l'evoluzione verso l'umanità può essere analizzata e descritta in termini di equilibri compromessi e ritrovati. Morin cita Hegel che si stupiva che un'astuzia della Ragione inducesse l'individuo a credere di operare per i suoi fini personali mentre obiettivamente lavorava per l'interesse collettivo; egli si accontenta di attribuire a questa astuzia della Ragione un «indice di complessità» che non contraddice, in ultima analisi, il finalismo complessivo della procedura.A quest'altissimo livello di analisi, l'individuo e la società sono intesi, a dispetto delle loro reciproche determinazioni, come entità separate: l'individuo affronta, all'occasione, altri individui; la gerarchia dei ruoli consente la competizione fra individui; la società nasce e si rafforza da questi scontri.

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Quest'analisi, in termini di equilibri instabili e di crescente complessità, si applica altrettanto bene alle società umane storiche (la citazione di Hegel ne è il segno); che rientri nel campo dell'idealismo finalista o in quello della «socio-biogenesi» materialista, essa fonda la definizione dell'individuo su quella della società, poiché l'individuo, forte o alienato che sia, è lo strumento di una storia che lo supera; l'individuo forte (la forza è la forma cruda e il nome materialistico dell'integrazione) è libero di affermarsi in un ruolo che gli preesisteva; ma forte o debole che sia, comunque alienato (l'alienazione è la forma raffinata e il nome idealista dell'integrazione), gioca secondo le regole di una sceneggiatura a lunga scadenza. Alla filosofia spetterà dire se questa sceneggiatura è stata già scritta, se è il prodotto del caso (la sua continuità per noi dipenderebbe da un'illusione retrospettiva) o se è inscritta nelle necessità della materia o della vita.Uscito dall'ambito dei primati, Morin ci inizia in seguito ai meccanismi più sottili della «protosocietà». A questo punto, ci fornisce gli elementi di un'analisi della repressione; tuttavia, in ragione della prospettiva esclusivamente evoluzionistica e della problematica posta in termini di entità antitetiche, egli si interessa agli aspetti repressivi solo in quanto gli mostrano il mutuo complicarsi dell'apparato sociale e dell'organizzazione individuale, in una prospettiva al tempo stesso finalistica e meccanicistica. Cosa sono infatti questi aspetti? Il cambiamento «bio-antropo-sociale» (la società interviene sempre di più nel processo della riproduzione biologica); il mito biofamiliare (la «Sacra Famiglia» diventa il cemento comunitario mitico della società reale); l'integrazione socioculturale (la mitologia integra «dal punto di vista noologico» la società e l'uomo nel mondo); il dominio della classe maschile per mezzo della religione (la classe maschile occupa «le posizioni chiave magico-religiose, monopolizzando il commercio con gli spiriti che terrorizzano le donne e i bambini») (7). Tutto sommato, e per ciascuno di questi aspetti, Morin s'interessa solamente dei rapporti fra "l"'individuo (8) e "la" società, del rapporto fra codice culturale e codice genetico: ogni ontogenesi individuale riceve stimoli e inibizioni da parte dell'eredità culturale, ogni cultura interviene per «coorganizzare» e per «controllare» l'insieme della personalità.Questa ossessione del complementarismo finalista spiega forse come l'analisi scivoli o svanisca al sopraggiungere dei tempi forti del ragionamento. Morin evoca la nascita del mito biofamiliare, ma non ci dice nulla della sua struttura né delle sue condizioni di efficacia; Deleuze e Guattari si preoccuperanno precisamente della validità generale del «papà-mamma» e della sua relazione con le forme sociali di repressione - relazione che Morin presenta molto velocemente come di riflesso, di rimando; allo stesso modo si riferisce alla credibilità e alla forza di persuasione del settore magico-religioso come alla virtù soporifera dell'oppio: «Qui come altrove, magia, mito e rito sono dotati di una tale credibilità, di una tale forza di convinzione nei loro ordini o nei loro divieti, questi sono così profondamente introiettati da rendere accessorie e talvolta anche inutili la repressione o la punizione, e il sistema non adopera alcuna coercizione fisica, nessun imprigionamento» (9). Complessivamente, il dominio degli adulti maschi sulle donne e sui bambini riposerebbe sulla forza fisica e su una manipolazione molto machiavellica dell'«oppio religioso».Senza insistere sulla rapidità del ragionamento che sacralizza un «sociopolitico» di cui ci piacerebbe sapere che cosa sia prima di essere sacro e che fa della credibilità la spiegazione della credenza, noteremo che la descrizione dell'umanità come oscillante fra l'entità individuale e l'entità sociale ha per interesse e per scopo quello di definire la «protosocietà» come quella formazione sociale dove la repressione sociale era al minimo: certo, essa era dominata gerarchicamente da una «classe maschile», ma non subiva né «lo sfruttamento di una classe straniera» né «la schiavitù parassitaria di un potere statuale poliziesco o burocratico» (10). L'armonia relativa, insomma, in questa mira tautologica, è l'assenza della costrizione: una società è caratterizzata dalle sue mancanze; i cacciatori-raccoglitori non avevano lo Stato; le società statali hanno perso il paradigma iniziale; felice assenza in un caso, irrimediabile perdita nell'altro, e dall'uno

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all'altro caso svolgimento della storia universale, poiché Morin passa direttamene dall'evocazione dei cacciatori-raccoglitori a quella della città-Stato dove appaiono contemporaneamente (e, beninteso, alla fin fine complementarmente) la repressione, la storia e la coscienza individuale. Non si sa più, a questo punto, se invidiare o compiangere i gruppi etnici isolati di cacciatori-raccoglitori ancora presenti su questa terra; soprattutto non si sa dove situare le società senza città e senza Stato che non si dedicano alla raccolta; non si sa che cosa rappresentino, nella terminologia dell'autore, né la «dominazione» né la «classe» né la «protosocietà». A dir poco, l'antropologia di Edgar Morin non è una sociologia.Pascal laico, Morin conduce la sua riflessione di buon passo e non senza eloquenza verso l'evocazione ultima del mistero originario. («L'apertura, abisso sull'insondabile e il nulla, ferita originaria del nostro spirito e della nostra vita, è anche la bocca assetata e affamata attraverso la quale il nostro spirito e la nostra vita esprimono i desideri, respirano, si abbeverano, mangiano, baciano») (11). Ma per chi non intende cominciare dall'analisi dell'insondabile, questa riflessione inconfutabile ha il merito essenziale di lasciar apparire sulla sua scia, incessantemente allargata, gli scogli che essa ha superbamente ignorato: il rapporto individuo/società, che ci piacerebbe comprendere nella sua forma plurale e concreta di rapporto di gruppo e di classe; il rapporto dell'individuo e della società con l'ideologia che ordina il loro rapporto; il rapporto fra dominanti e dominati così come si esprime e si svolge in particolare nell'ideologia che essi condividono. Il nostro problema, infatti, non è quello di situare in una luce metafisica il rapporto fra l'entità individuale e l'entità sociale, un rapporto di equilibrio antagonistico nella scala scelta da Morin, ma quello di discernere nel codice culturale delle società date tutto ciò che determina anticipatamente l'individuo a non poter pensare la propria persona, comprendere la propria vita e governare il proprio destino se non ricorrendo alle categorie dell'ordine stabilito, che è sempre gerarchico. E' il già dato, il già presente, l'ideologico (che comprende anche il sociopolitico) a costituire e informare l'adesione prima, quella che non viene mai rimessa in causa. L'«astuzia della ragione» di cui bisogna rendere conto (e che è anche un'astuzia della ragione «primitiva») è quella che costringe l'individuo a non percepirsi, a non comprendere le alee della sua vita e a non definire i suoi interessi se non nelle categorie che fondano e anche interpretano la realtà dell'ordine sociale in cui si inserisce. Il suo destino individuale non può esser compreso se non nei termini del suo destino sociale - della sua «ragione sociale».Si tratta di dire il luogo strategico che costituisce il corpo ideologico di una data società; l'«astuzia della ragione» non è che una metafora e la ragione sociale non è caduta dal cielo; corpo di rappresentazioni dove si coniugano tanto l'ordine politico ed economico quanto l'ordine individuale, l'ideologia è ideologica proprio in quanto formula in un medesimo discorso le leggi della riproduzione sociale e quelle del perpetuarsi degli individui; al tempo stesso verità di una gerarchia e verità per tutti, presentata come verità di tutti, l'ideologia è sempre l'ideologia dei dominanti, ma è anche il discorso, la pratica, il riferimento e la risorsa o il riflesso dei dominati. Del tutto giustamente, Roland Barthes sottolinea nel "Piacere del testo" il carattere contraddittorio dell'espressione «ideologia dominante»; non esiste, infatti, alcuna ideologia dominata: «Dalla parte dei 'dominati' non c'è niente, nessuna ideologia, se non appunto - ed è l'ultimo grado dell'alienazione - l'ideologia che sono costretti (per simbolizzare, dunque per vivere) a riprendere dalla classe che li domina...» (12). I dominanti hanno sempre ragione - ragione sociale e individuale.

RAGIONE INDIVIDUALE, RAGIONE SOCIALE.

Possono essere presi in considerazione tre livelli di analisi. La relazione fra ordine familiare e ordine sociale in generale, l'inscrizione sistematica della vita individuale - dalle origini alla morte - in un codice dal significato e dalle implicazioni sociali, la disuguaglianza sociale all'interno delle società possono

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essere studiate, da una parte, nei loro rapporti reciproci, dall'altra nel loro rapporto con le diverse forme politiche. Sul primo punto, la letteratura consacrata alle società non industriali è rara. Partiremmo volentieri da un'osservazione e da un commento che tuttavia pretendono di essere l'espressione di un imperativo sovversivo attuale e interno alla civiltà occidentale. Guattari scrive in "Una tomba per Edipo": «Siamo tutti dei gruppuscoli» (13); e Deleuze, nell'introduzione, commenta: «L'io fa parte piuttosto di quelle cose che bisogna dissolvere, sotto l'assalto congiunto delle forze politiche e analitiche. La frase di Guattari 'siamo tutti dei gruppuscoli' segna bene la ricerca di una nuova soggettività, soggettività di gruppo, che non si lascia rinchiudere in un tutto forzatamente pronto a ricostituire un Io, o peggio ancora un Super-io, ma che si estende su più gruppi nello stesso tempo, divisibili, moltiplicabili, comunicanti e sempre revocabili» (14). Per coloro che hanno un poco di familiarità con le rappresentazioni caratteristiche delle società lignatiche, tale ideale di soggettività libera ricorda più o meno queste ultime: legame con i gruppi, addizione di componenti, combinazioni instabili, identità «gruppuscolare» da una parte, ma anche costrizioni correlate a queste definizioni di un'identità per mezzo dell'alterità.I confini dell'etnologia e dell'analisi costituiscono una sorta di Capo Horn epistemologico e bisogna essere grati a Deleuze e Guattari per aver affrontato coraggiosamente, da navigatori solitari, queste regioni perturbate. Noi ci accontenteremo qui di segnalarne qualche punto degno di nota. Marcuse, in "Eros e civiltà", collega la comparsa del senso di colpa a una forma specifica (propria delle società industriali) di repressione; nella nostra società oliata, dove l'interlocutore ufficiale è sempre affabile e privo di responsabilità, l'aggressività gira a vuoto e si ritorce contro colui che la sente e che non può esprimerla: «Colpevole non è la repressione ma l'individuo represso» (15). Rovesciamento notevole, in effetti: ricorda quello che Nietzsche attribuisce al prete della "Genealogia della morale" (16) dove quest'ultimo rinvia a se stesso l'uomo del risentimento che cerca altrove piuttosto che in sé la causa del male di cui soffre; si vedrà più avanti come questo capovolgimento dello schema persecutorio possa anche caratterizzare il messaggio cristiano nei confronti della logica dei sistemi di lignaggio africani; i giochi e le poste in gioco ideologici si ritrovano forse, almeno nelle forme, in contesti sociali e storici diversi.Marcuse sostiene, come del resto Freud, la tesi dell'esistenza di un Edipo repressivo per definizione in ogni formazione sociale; se si interessa all'origine della civiltà repressiva, egli si interessa anche all'origine della repressione presso l'individuo (ontogenesi), e distingue la «repressione addizionale» («le restrizioni rese necessarie dal dominio sociale») (17) dalla repressione fondamentale, «cioè dalle 'modificazioni' degli istinti strettamente necessarie per il perpetuarsi della razza umana nella civiltà» (18); quale che sia la formazione sociale, c'è nell'individuo la presenza di un Super-io che lo obbliga a obbedire ai dettami della realtà; il pensiero di questa realtà ne è anche, notiamolo, in qualche misura il passato, poiché la «coscienza» nasce da una lunga dipendenza nei confronti delle influenze sociali e culturali interiorizzate e integrate dal Super-io, mentre il senso di colpa nasce dalla trasgressione o dal desiderio di trasgredire, in particolare nella situazione edipica. Quest'analisi della repressione consiste essenzialmente in due commenti che fa il suo autore: da una parte c'è un legame essenziale fra repressione individuale e repressione sociale, entrambe dipendenti da uno stesso principio di realtà («[...] nel nostro tentativo di mettere in luce la portata e i limiti della repressività che domina nella civiltà contemporanea, dobbiamo descriverla nei termini dello specifico principio di realtà che ha retto le origini e lo sviluppo di questa civiltà. Gli abbiamo dato il nome di principio di prestazione per dare rilievo al fatto che, sotto il suo dominio, la società si stratifica secondo le prestazioni economiche competitive dei suoi membri...») (19); dall'altra parte, forme di organizzazione sociale diverse da quelle della nostra società e altri principi di realtà hanno potuto e possono permettere un migliore sviluppo degli individui, una repressione minore. («[...] per un lungo tratto, gli interessi del dominio e gli interessi dell'insieme

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coincidono; l'utilizzazione vantaggiosa dell'apparato produttivo soddisfa pienamente i bisogni e le facoltà degli individui») (20).In Deleuze e Guattari (21) si assiste a un tentativo di radicalizzazione di questa distinzione. Essi rifiutano di fare dell'Edipo la repressione fondamentale. Affermano, come il Nietzsche della cattiva coscienza, che questa pianta non cresce sul terreno selvaggio. Edipo non è installato nella «macchina territoriale selvaggia». Non lo è per natura, sembrerebbe, poiché le condizioni sociali della riproduzione non permettono la comparsa di un «complesso familiare» come microcosmo espressivo. Deleuze e Guattari non negano che esista una repressione fondamentale legata alla comparsa del "socius" ma si sforzano, come Marcuse, di specificarla. Edipo è sempre presente e sempre assente, un'ombra assente i cui spostamenti segnano tuttavia le grandi tappe dell'umanità fino al giorno in cui, al termine del suo cammino, essa si rivela finalmente per quello che è: il segno e lo strumento della repressione assoluta; Edipo diventa Edipo il giorno in cui lo Stato diventa capitalista. Qual è il principio di questi spostamenti dell'Edipo? Deleuze e Guattari provano a rispondere alla domanda già posta da Reich («Perché gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro salvezza?») (22) e fondano il loro progetto di creare una psichiatria risolutamente materialistica sulla categoria di «produzione desiderante». La produzione sociale è la stessa produzione desiderante nelle condizioni determinate dal campo sociale che essa attraversa. Le «macchine sociali» costituiscono una metamorfosi della produzione desiderante, delle «macchine desideranti» primordiali; la rappresentazione è sempre una rappresentazione-rimozione della produzione desiderante ma in modi diversi secondo i grandi tipi di formazione sociale considerati. E' a questo punto, d'altronde, che si manifesta l'evoluzionismo degli autori e la stretta relazione che essi stabiliscono fra l'istituzione dell'Edipo e la forma sociale, fra il rapporto con il desiderio e il rapporto con il potere; secondo loro, esiste infatti un «coefficiente di affinità» più o meno grande fra le macchine sociali e le macchine desideranti, a seconda che siano più o meno vicine le une alle altre e, se esistono veramente repressione e rimozione nelle società primitive, i loro «codici» canalizzano e controllano i flussi del desiderio attraverso un «sistema della crudeltà» che è più vicino alle macchine desideranti di quanto lo sia il capitalismo.Edipo è sempre innanzitutto il «rappresentato spostato» del desiderio. Ciò che deve essere rimosso nel caso delle società «primitive» è «il complesso germinale», «la filiazione intensiva». Griaule dà a Nietzsche l'impulso iniziale che permette alla macchina di Deleuze di funzionare. Griaule o piuttosto il mito dogon. Poiché se "L'Anti-Edipo" ci ricorda con un'insistenza forse inutile che alleanza e discendenza devono essere comprese insieme (dal momento che solo la prima permette alla seconda di estendersi e di iscriversi sul «corpo pieno» della terra), esso trova nel mito l'evocazione di uno stato anteriore alla comparsa del "socius" e dell'alleanza. In principio, ci insegnano i Dogon tradotti da Griaule, tradotto a sua volta da due etnologi contemporanei (23), era la filiazione intensiva (e la produzione desiderante, aggiungono Deleuze e Guattari). In principio era l'indifferenza, lo stato primordiale dove non potevano distinguersi né i sessi né le generazioni; era l'Uno, o piuttosto l'Uno-Due originario, "il" o "i" gemelli. Ogo, al termine della sua rivolta, parte con un pezzo di placenta nel quale cerca di trovare la sorella gemella in formazione. Ma Amma trasforma in terra umida e sanguinante questa placenta che è essa stessa una metamorfosi della madre di Ogo. Il mito autorizza la distinzione fra stirpe germinale, continua e intensiva, e stirpe somatica, discontinua ed estensiva. Il figlio è il fratello genetico o germinale della madre. Somaticamente, il figlio non è il fratello della madre; non può dunque sposarla; ciò che rimprovera allo zio materno è di non averla lui stesso sposata; non perché l'incesto con la sorella sia un sostituto dell'incesto con la madre, ma perché esso è «il modello intensivo dell'incesto» (24). Lo zio non può sposare la sorella, non più di quanto il nipote possa sposare la madre: in ogni caso, è la filiazione germinale intensiva che deve essere rimossa.La proibizione dell'incesto non implica dunque alcuna «reiezione del nome del padre»; Edipo è solo l'immagine trasfigurata e spostata di quanto è realmente

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proibito; la rimozione prolunga la repressione e le consente di «far presa sul desiderio». La figura edipica diventa il «rappresentato spostato» del flusso germinale che è il «rappresentante del desiderio». In effetti Edipo, ci dicono gli autori dell'"Anti-Edipo", non è ancora questo rappresentato spostato (e non lo sarà mai più, dal momento che, nelle due tappe successive, occuperà posizioni diverse). Quanto alla ragione della rimozione della filiazione intensiva, deve essere trovata nel «terrore» che il «socius primitivo» prova nei confronti dei flussi non «codificabili». Il "socius" inizia con la differenza, la differenza nominata e i ruoli attribuiti, con la necessità dell'alleanza; il verbo (la memoria della parola che costituisce l'alleanza) non è al principio del mondo, ma al principio della società.Deleuze e Guattari possono pertanto ricostituire gli spostamenti dell'Edipo che corrispondono ad altrettanti cambiamenti nell'evoluzione politica dell'umanità, ma che hanno tutti in comune il fatto di essere segnati (sotto l'effetto di non si sa quale coscienza) dall'ossessione delle origini, la filiazione intensiva, e dal presentimento della fine, la decodificazione generalizzata, la schizofrenia limite del capitalismo. Nella formazione imperiale l'incesto ha cessato di essere il rappresentato spostato del desiderio per diventare la «rappresentazione rimuovente» stessa (ruolo che svolgeva l'alleanza nella formazione primitiva). E' in realtà Luc de Heusch, con le sue analisi dell'incesto reale nei reami interlacustri dell'Africa orientale, a fornire qui l'argomento: l'incesto, nelle sue forme concrete (matrimonio con la sorella agnatizia) o simboliche (unione con donne del clan della madre considerate come «piccole madri»), è il privilegio del re - interdetto agli altri, a tutti gli altri, è in qualche modo proposto loro come il modello dell'impensabile, l'assoluto della proibizione e dell'inversione (per quanto il re sia, per definizione, un modello di potenza sessuale e di fecondità, né le sorellastre né la madre devono mettere al mondo figli dopo la sua salita al potere). Con il capitalismo, la cellula edipica arriva al termine della sua migrazione e diventa il «rappresentante del desiderio» stesso. E' perché la famiglia viene estromessa dal campo del sociale (poiché essa non ha più, come nella società primitiva, la stessa estensione di un campo politico ed economico di cui assicura direttamente la riproduzione) che l'intero campo del sociale può esercitarsi, «ribaltarsi» su di essa e farne un microcosmo espressivo; le persone private diventano le immagini delle persone sociali, costituendo la famiglia un «sottoinsieme» su cui si esercita l'insieme del campo sociale: Edipo è «la nostra formazione coloniale intima che corrisponde alla forma della sovranità sociale» (25).L'insieme del percorso strabiliante compiuto dall'Edipo e da Deleuze è caratterizzato da due elementi essenziali: il principio assoluto, l'inizio, quello dove tutto è flusso e materia, «desiderio» dice Deleuze, ma indubbiamente un desiderio più vicino all'energia che alla vita, allo slancio che alla coscienza; il principio sociale, successivo, il quale implica il controllo del flusso, un minimo repressivo destinato a complicarsi e a ingrandirsi attraverso l'azione di una rimozione più profonda e di una repressione più arbitraria (lo Stato sostituirebbe la sua «assiomatica» ai «codici» primitivi ). In un certo senso l'umanità va dal concreto (la codificazione dei flussi sul corpo pieno della terra è ancora una reale prossimità allo stato primordiale, il minimo repressivo necessario all'estensione della discendenza e alla designazione dei ruoli, la lava canalizzata ma ancora ardente, l'uno ancora attaccato all'altro e da esso definito) all'astratto (la macchina moderna decodifica i flussi «sul corpo pieno del capitale denaro» (26); la proprietà privata, la ricchezza, la merce, le classi: tutte realtà astratte che consacrano il fallimento dei codici; alla confluenza dei due flussi - di produttori e di denaro - il capitalismo astratto manipola e riterritorializza a pieno ritmo, macchina impazzita che ritrova al termine del suo percorso l'ossessione delle origini - quella dell'assenza dei codici, dei tagli in tutti i sensi, dell'indifferenziazione - e che produce in serie, con una sorta di vertiginosa fuga in avanti, assiomi arbitrari che l'aiutano a differire il suo limite assoluto: quello della schizofrenia). Tra questi due stadi, la macchina imperiale, che rimane il modello e l'ideale di ogni forma statale, conserva le

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comunità territoriali ma le assembra, le surcodifica e si appropria del surplus di lavoro.Ciò che ci interessa in questa sede, indipendentemente dalle riletture intelligenti, dalle intuizioni spesso inquietanti e dall'estrema abilità di Deleuze e di Guattari, sono i pochi frammenti etnologici che le sorreggono e l'ambigua antropologia che esse autorizzano. Poiché le società «primitive» (intendiamoci: quelle che gli etnologi studiano ancora oggi, anche solo per impietosirsi a causa della loro prossima scomparsa) esistono per farci toccare con mano i residui o le vestigia della macchina per codificare i flussi, della macchina ossessionata e segnata (come testimoniano i miti che ne costituiscono la memoria) dalla filiazione intensiva. Ecco dunque l'etnologia (se non gli etnologi) investita di un compito sorprendente: testimoniare per tutta l'evoluzione di tutta l'umanità; le origini erano ieri e ieri è ancora oggi, ma «accanto». Ancora così vicini (a qualche migliaio di chilometri) alle nostre origini, siamo dunque (con lo Stato capitalistico che ci viene presentato come la fine dell'umanità e il senso ultimo e retrospettivo della storia) così vicini anche alla fine di tutto? L'etnologia esiste solo per testimoniare di una "chance" irrimediabilmente perduta, a portata di mano eppure intoccabile e invisibile? L'etnologo, novello Orfeo, non può volgersi verso ciò che ama se non a prezzo di farlo morire una seconda volta? Orfeo troppo preoccupato del suo desiderio... L'etnologia di Deleuze e Guattari ci propone, con il suo eclettismo sottile, una visione dell'altro che ci parla soprattutto di noi. Essi hanno indubbiamente premura di seppellire l'altro, ma solo perché s'interessano soprattutto alla nostra stessa fine; sono poco preoccupati di distinguere fra i diversi altri, ma perché ci vedono ugualmente asserviti all'arbitrio dello stesso Stato; hanno premura di farla finita con l'altro, insomma, dal momento che si tratta di celebrare la nostra propria fine... Deleuze e Guattari: la strana alleanza, nel capitolo «Selvaggi, barbari, civilizzati», del pessimismo e della militanza.Con qualche infedeltà, essi ricavano nell'"Homme" e in poche altre opere, che hanno tutte in comune di non essere mai inintelligenti, la sagoma inquietante e vaga di un'antropologia che essi hanno suscitato da una parte, e sollecitato dall'altra. Antropologia di una società primitiva indifferenziata (anche se, per un istante, una sorte particolare viene assegnata al cacciatore amazzonico, al «paranoico» della boscaglia) che è definita dalla sua globalità, dalla sua omogeneità e che è analizzata a partire dalle sue rappresentazioni: società soggetta a un discorso che la esprime e la riflette mascherando al tempo stesso la specificità delle sue forme repressive.Durante il viaggio che li conduce dai selvaggi ai civilizzati, Deleuze e Guattari fissano qualche immagine apparentemente istantanea del paesaggio etnologico. Come per qualsiasi appassionato di foto (e di viaggi), queste istantanee, molteplici e diverse, acquisiranno senso e sapore solo a conclusione del viaggio; ma forse i loro autori ne erano consapevoli al momento stesso dello scatto e hanno assaporato in anticipo il futuro momento dello sguardo retrospettivo - ossessionati essi stessi da questo futuro anteriore di cui fanno (o di cui si fa al loro seguito) l'ossessione e la delizia dei selvaggi. Sfogliamo l'album dell'"Anti-Edipo".

L'ANTI-EDIPO.

- Mitologie, maschere.

La maschera è l'organo che non dipende dall'uno o dall'altro individuo, che non dipende da una persona individuale; è un organo istituito collettivamente. Le interdizioni, legate per esempio all'iniziazione (non vedere, non parlare), riguardano individui che, in una determinata circostanza, non godono di un organo collettivo. Così si contrappongono le società «primitive», più vicine alle macchine originarie, e per le quali «le unità non sono mai nelle persone», dove i fantasmi sono fantasmi «di gruppo», e le nostre società «moderne», che consacrano la privatizzazione degli organi che corrisponde alla «decodificazione dei flussi» divenuti «astratti». La persona privata è un centro individuale di organi: a

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ciascuno il proprio ano, tanto per cominciare (27).Questa analisi dev'essere messa in rapporto con quella dell'autonomia apparente del «microcosmo espressivo», del «triangolo edipico» nelle nostre società. Sono la privatizzazione delle persone e l'isolamento del triangolo che permetterebbero il ribaltarsi delle figure sociali sulla figura familiare e che farebbero delle persone private, alla fin fine, delle immagini delle persone sociali. Il riferimento a Leach (28) non chiarisce granché la contrapposizione così stabilita fra due tipi di società. Se l'immagine di Papà, nel triangolo «moderno», è rivestita di immagini sociali, non è affatto evidente che il ruolo sociale paterno non faciliti e non orienti tale investimento. L'immagine del padre nei "Thibault" (29) sarebbe stata impensabile, letteralmente, a Boulogne-Billancourt (30) o in una fattoria bretone; l'interferenza fra ambiente familiare e ambiente sociale è molto ampia; l'ambiente familiare in senso lato, ancora estremamente presente e pregnante, almeno nelle società europee, contribuisce ampiamente a questa interferenza; Ego sarà certamente meno tentato di scoprire un padre nel suo colonnello che di diventare ufficiale (o obiettore di coscienza) perché suo padre era un militare - ribaltamento forse, ma nell'altro senso, e parziale. Quanto a Leach, il quale sottolinea in effetti come le persone nelle società non industriali siano a titoli diversi inscritte in gruppi, egli mette bene in evidenza la socializzazione "a priori" di ogni persona individuale: in una società matrilineare, per esempio, mio padre è mio padre ma è anche il rappresentante di un lignaggio che è alleato al mio (quello di mia madre). In questo caso la persona privata è a tal punto l'immagine di una persona sociale che il ruolo e la funzione del padre come «alleato» vengono ereditate nel suo lignaggio; d'un colpo solo il figlio eredita una sistemazione rispetto ai diversi gruppi sociali di riferimento che deve e sempre dovrà meno all'età che alla posizione di partenza, all'inscrizione, attraverso l'alleanza, nella gerarchia sociale. E' esattamente perché, come osservano Deleuze e Guattari, nella macchina territoriale «la riproduzione sociale o economica non è mai indipendente dalla riproduzione umana, dalla forma sociale di questa riproduzione»» (31) che l'assiomatica sociale si esercita con rigore sulle determinazioni familiari.Indubbiamente Deleuze e Guattari sono ansiosi di trovare innanzitutto «nella» società primitiva uno stato di società e di umanità dove la soggettività di gruppo possieda una realtà, dove l'Io (e non solo il Super-io) non esista in quanto tale. Ma, indubbiamente, si può rimproverare loro di non trovare questa esplosione della soggettività in società diverse dalla nostra se non a prezzo di un'interpretazione strettamente esegetica delle loro rappresentazioni e dei loro simboli - un tipo di interpretazione di cui essi, altrove, denunciano giustamente la ristrettezza. Non è infatti sicuro che si possa dedurre dai tratti costitutivi della nozione di persona la realtà vissuta dall'individuo, né dalle evocazioni del mito, sia pur "gurmancé", le realtà sociali o i fantasmi di gruppo. Privilegiando tale metodo di analisi, ci si troverebbe fortemente a disagio a dar valore a una favola di Esopo o alle evocazioni nostalgiche dell'Aristofane del "Banchetto".

- La territorialità.

Questa nozione, precisano gli autori, non deve essere intesa come principio di residenza o di ripartizione geografica. Essi sanno, con Engels, che occorre la comparsa dello Stato perché sia la terra, e non più il popolo, a essere suddiviso. La terra, nella macchina territoriale selvaggia, serve piuttosto come «superficie d'iscrizione»; essa stessa è «indivisibile» ma sopra di essa si iscrivono «le relazioni connettive, disgiuntive e congiuntive di ogni segmento con gli altri»; la macchina territoriale «declina i lignaggi» sul «corpo pieno della terra» (32). Una tale descrizione, oltre a fare allusione a un tipo molto particolare di società (lignatico-segmentaria), corrisponde solo molto relativamente alla verità dei fatti; in numerose società segmentarie è difficile stabilire una corrispondenza regolare fra l'organizzazione sociale, il ruolo dell'alleanza e della discendenza, e la loro iscrizione sulla terra. Ma la nozione di «territorialità» consente agli autori di introdurre un'analisi dei rapporti dell'alleanza e della discendenza che

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corrisponde al carattere letteralmente meccanicistico del loro intento e al connesso evoluzionismo in tre tappe (alle tappe «Selvaggi», «Barbari», «Civilizzati» corrisponderanno in seguito tre «corpi pieni»: la terra, il despota, il capitale).

- L'alleanza, la discendenza.

Anche in questo caso si fa riferimento a Leach. E' risaputo infatti che Leach ha criticato la nozione di discendenza o di filiazione complementare (33) proposta da Meyer Fortes (34). Ma Leach e gli autori dell'"Anti-Edipo" non parlano davvero della stessa cosa. Leach, che si sforza di distinguere i tipi di relazione che possono collegare un individuo rispettivamente al gruppo del padre e al gruppo della madre, fa proprio della trasmissione dei poteri «mistici» ("mystical") una caratteristica del legame di alleanza. Deleuze e Guattari, una volta riconosciuto il fatto evidente che la discendenza non può essere estesa se non attraverso l'alleanza (nel senso di alleanza matrimoniale tra gruppi), si sforzano soprattutto di distinguere due tipi di capitale (capitale fisso dalla parte della discendenza, capitale circolante dalla parte dell'alleanza) e due memorie (memoria biofiliativa da una parte, memoria di alleanza e di parola dall'altra). Ora, per Leach, ancora una volta, la relazione più «mistica» e allo stesso tempo più strutturale (involontaria e legata alla «natura delle cose») si trova dal lato dell'alleanza. Inoltre, l'incorporazione (dal lato della discendenza) è da lui presentata come possibilmente «parziale»: il rapporto di discendenza e il rapporto di alleanza possono dunque investire contemporaneamente una medesima relazione; il secondo non è meccanicamente il mezzo di estensione del primo, ma è allo stesso titolo di questo un mezzo per comprendere e per qualificare la relazione.Le cose si complicano ulteriormente per il fatto che gli autori attingono a linguaggi diversi e opposti. Vogliono infatti che le necessità dell'alleanza possano essere espresse in termini di debito e non di scambio, ma allo stesso tempo cercano di comprendere i rapporti tra alleanza e discendenza in termini di determinazione e di dominio. Le evoluzioni della macchina nietzschiano-marxista così costituita ci vengono così descritte e tradotte: la produzione è «registrata nel reticolo delle disgiunzioni filiative sul "socius"» (35). Ma, affinché le «connessioni del lavoro» siano registrate in questo reticolo, occorre un «legame di alleanza o un connubio di persone compatibile con le disgiunzioni della filiazione» (36). Prima traduzione: la parentela è «dominante» ma «determinata a esserlo» da fattori «economici e politici» (37); quest'affermazione, indubbiamente attribuita un po' frettolosamente ai marxisti, i quali non sanzionerebbero la determinazione per mezzo del politico, viene esplicitata in una nuova formula, che apparirà, mi pare, eretica o oscura al tempo stesso sia ai marxisti sia agli etnologi: la discendenza esprime ciò che è dominante, l'alleanza esprime ciò che è determinante o, meglio, «il ritorno del determinante nel sistema determinato di dominanza» (38).In realtà, la sola determinazione per Deleuze e Guattari (e questa determinazione può render conto della diacronia, delle scivolate, dei riaggiustamenti, ma non delle transizioni né del cambiamento) è la macchina stessa o, meglio, i flussi del desiderio primordiale che i codici sociali, quali che siano, devono per obiettivo e per ragion d'essere canalizzare, governare, orientare.Qui si trova forse anche il senso della critica che essi fanno dell'ideologia scambista di Lévi-Strauss, per lo meno quando parlano della circolazione delle donne come di un «sistema fisico», di un qualche cosa «che è dell'ordine di un flusso di energia» (39). Per il resto, e cercando delle argomentazioni in un'antropologia concettualmente abbastanza povera a questo riguardo, essi affermano che un sistema di parentela non è una struttura ma una strategia (come se la seconda non avesse bisogno della prima) e tendono a identificare la chiusura dei sistemi complessi con la coscienza che di essa sviluppano o meno gli individui. Ciò non impedisce loro di concludere che non vi sia ragione alcuna per pensare che lo scambio sia l'inconscio del desiderio; nessuna ragione in effetti, ma non si vede con quale maggior fondamento il debito sarebbe la coscienza di questo desiderio. Marcare il debito, dare all'uomo una memoria, fosse pure con la violenza sadica

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della mano che marchia e dell'occhio che trae godimento, non è forse instaurare un sistema del passaggio e della trasmissione la cui iscrizione non è formalmente diversa da quella dello scambio? Non è d'altronde quanto sembra indicare l'utilizzo dei segni (+) e (meno) di Lévi-Strauss, al quale Deleuze e Guattari rimproverano solo il carattere «metaforico».Che non vi sia realmente alcuna «ideologia scambista» nei diversi tipi di società «primitive» - nel senso che lo scambio sarebbe psicologicamente la verità e il fine delle pratiche matrimoniali -, che insomma lo scambio non abbia se non una verità statistica e approssimativa, è più che probabile e tutte le strategie matrimoniali di accumulazione ne sono un segno abbastanza chiaro; le diverse forme del pegno nelle società africane mostrano abbastanza chiaramente come il debito sia molto consapevolmente e molto esplicitamente la verità e il linguaggio della relazione fra gruppi o fra individui. Ma né Deleuze e Guattari né gli etnologi che ne traggono ispirazione accetterebbero di considerare il debito come l'ideologia del cumulo e l'accumulazione come la verità dei selvaggi. Per loro, il tema del debito è semplicemente più adatto di quello dello scambio a esprimere la concezione di una società in perpetuo slittamento, non controllando che per metà, e non correggendo che "in extremis", il gioco impreciso dei suoi meccanismi approssimativamente complementari. Il debito serve curiosamente a meccanizzare e al tempo stesso a psicologizzare la rappresentazione del dinamismo sociale.

- La storia.

Le società primitive hanno certo una loro storia, ma una storia molto meccanicistica, molto «meccanica». Per un'ironia che sembrerà amara agli antropologi «dinamisti», è a Lévi-Strauss che Deleuze e Guattari attribuiscono il riconoscimento del fatto storico nelle società primitive; questa storia non è del resto niente più che il «segno dell'evento», pura contingenza. La macchina deleuziana, che sotto questo aspetto non può non ricordare quella di Morin, con le sue complementarità antagonistiche e i suoi fallimenti, si adatta benissimo a questa storia che è, per così dire, una storia dell'"equilibrio malgrado tutto". Non stupisce allora che il modello segmentario la seduca.

- La società segmentaria.

Si fa riferimento, naturalmente, a Evans-Pritchard e ai Nuer. L'esistenza di un duplice apparato, tribale e di lignaggio (che oppone i segmenti in quanto «unità filiative genealogiche» e i segmenti in quanto «unità territoriali tribali»), fornisce un esempio ideale di macchina: il così e cosà è il motore della diacronia, giacché rende più complessi la circolazione e l'arresto dei flussi. L'essenziale è infatti il meccanismo di fusione/scissione; più esattamente, la descrizione di questo sistema meccanico approssimativo mostra in questa approssimazione il segreto della sua perseveranza, e l'analisi del suo doppio apparato (tribale e di lignaggio) consente di scoprirgli o di infondergli un'anima; la fondamentale divisione del sistema è l'anima della macchina materiale, che gli consente di funzionare "contro" l'oggetto delle sue ossessioni. Se il sistema segmentario viene presentato come rinascente dalle sue rovine, in effetti queste continue rinascite sono tanto sussulti contro una doppia minaccia quanto espressioni di una doppia ossessione. Prima ossessione: quella del Barbaro Imperiale, o meglio, oppure ugualmente (poiché la minaccia è al tempo stesso interna ed esterna), quella del cambiamento di macchina (o di regime); gli organi dei capi sono mantenuti «in una relazione d'impotenza con il gruppo», essendo tale mantenimento al tempo stesso l'espressione e lo strumento dell'ossessione.» Deleuze e Guattari citano Jeanne Favret che scrive (in "L'Homme", aprile 1966) che il timore è il motore dell'insieme segmentario; ma è del timore della scissione che evidentemente parla Jeanne Favret! E' molto significativo che, segnalando come «in questi sistemi» la funzione politica non si eserciti «se non denunciando la propria impotenza» (41), gli autori facciano riferimento nella stessa nota a Favret e a un articolo di Clastres sulla "chefferie" indiana (42); sarebbe stato necessario precisare che il

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riferimento alla prima valeva per la segmentarietà, mentre il riferimento al secondo valeva per il potere in una società che non ha nulla di segmentario. Resta che, indipendentemente dal fatto di sapere se presso i Nuer o presso gli Indiani dell'Amazzonia la funzione essenziale dello sdoppiamento del sistema in un caso, e della "chefferie" nell'altro, sia quella di denunciare l'impotenza del potere (cosa che io non credo), ci si può rammaricare che la macchina segmentaria venga presentata come il modello di ogni macchina selvaggia, e il modello nuer (con il suo sdoppiamento) come il modello di ogni macchina segmentaria.Seconda ossessione: quella dei flussi decodificati. Lo scambio, il commercio, l'industria non sono «ignorati» ma «scongiurati» affinché i flussi di scambio e di produzione non vengano a spezzare i codici a vantaggio delle loro quantità «astratte o fittizie» (43). Ci sarebbe molto da dire su questa allusione fatta da Deleuze e Guattari al modo in cui la differenza è trattata da parte delle società «primitive». Il mercante e il fabbro non si trovano sempre in una situazione «subordinata» e non sono i soli a essere trattati «diversamente». La macchina di lignaggio, per attingere un momento a questo linguaggio, passa il suo tempo a marcare e a coniugare le differenze: tra sessi e tra generazioni, va da sé, ma anche tra stirpi e tra fratelli; essa passa anche il suo tempo a trattare in modo sottile la differenza: integrando o facendo schiavi, combinando tutte le forme di alleanza e tutte le forme di dipendenza concepibili, indebitando gli uni a vantaggio degli altri; la capacità delle società lignatiche di praticare il commercio senza rinunciare al loro sistema di codificazione e, meglio, di servirsi del primo per rinforzare il secondo, è dimostrata in modo quanto mai evidente dalle società africane, in particolare da quelle costiere. Deleuze e Guattari, che danno prova di una diabolica prontezza quando si tratta di anticipare le obiezioni e di trasformare le contraddizioni in paradossi, evocano del resto tutto quanto nelle formazioni primitive «abbozza» già le formazioni dispotiche. Si spingono fino ad ammettere che l'ossessione possa nascere da un ricordo: «Non è sempre facile sapere se si tratta di una comunità primitiva che reprime una tendenza endogena, o che si ritrova bene o male dopo una terribile avventura esogena» (44). Ci si vuole forse dire che alcune società sono meno «primitive» di altre, già in cammino verso (o di ritorno da) la «Barbarie»? E non avremmo forse voglia di rispondere che vorremmo proprio sapere a che punto delle loro ossessioni sono precisamente tutte queste «società» e che vorremmo proprio sapere se Deleuze e Guattari parlino metaforicamente o meno, e chi sono alla fine questi selvaggi i cui presentimenti assomigliano così tanto alle avversioni e alle disillusioni di chi li descrive?L'ossessione dei flussi decodificati non è diversa dalla prima; si tratta di un'altra figura del presentimento che sembra decisamente essere l'anima del materialismo radicale. Non è certo il più piccolo paradosso dell'evoluzionismo di Deleuze e Guattari quello di costruire una storia dell'ossessione su di una fisica del desiderio. Ora questo paradosso (che raddoppia l'esistenza della coppia antinomica ossessione/contingenza) si regge su principi e comporta conseguenze che non sono privi di effetti sul modo di procedere antropologico: implica, da una parte, che le società non statali tendono all'uguaglianza, dall'altra che esse rifiutano la storia. Questa tendenza e questo rifiuto si esprimerebbero simultaneamente attraverso il rifiuto del potere.La nozione di «plusvalore di codice» (la «forma primitiva del plusvalore») che trae ispirazione da Mauss e dal suo «spirito della cosa donata» rafforza inoltre l'immagine di una società primitiva dall'economia «fredda», «senza moneta e mercato, senza relazione mercantile scambista» (45); non che Deleuze e Guattari ignorino l'uso gerarchico che si fa del plusvalore di codice, ma, attribuendone l'appannaggio alle società «primitive», essi situano queste ultime dalla parte «fredda» della disuguaglianza, come fanno per la storia e per l'economia. In effetti, tale freddezza caratterizza ugualmente queste società nei confronti della storia: o quest'ultima si apparenta alle disfunzioni interne che sono, alla fine, il segreto del funzionamento della macchina, oppure fa irruzione dall'esterno, ma sempre viene scongiurata e respinta (rifiuto del potere, del commercio e della tecnica).

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- Lo Stato.

La minaccia endogena (quella che suscita l'ossessione) proviene in realtà dall'esterno (dalla conquista). L'ossessione e la contingenza, ovvero la coppia mostruosa dell'"Anti-Edipo": «[...] la morte del sistema primitivo viene sempre dal di fuori, la storia è storia di contingenze e di incontri. [...] Ma questa morte che viene dal di fuori, è quella stessa che saliva da dentro» (46). I biondi conquistatori di Nietzsche arrivano improvvisamente, eppure li si attendeva da sempre. Il primitivo, come la Bella Addormentata nel Bosco nel suo castello, dorme con un occhio solo. Con l'arrivo dei conquistatori è una cesura radicale che si instaura. Allo stesso modo, lo Stato moderno sarà radicalmente distinto dallo Stato barbarico. Deleuze e Guattari sfumano però queste contrapposizioni e ci spiegano al contempo il carattere radicale delle cesure e la comparsa delle nuove ossessioni, le ossessioni-ricordo: la formazione selvaggia continua ad assillare la formazione barbarica e quest'ultima assilla a sua volta lo Stato moderno. Per evocare la prima ossessione-ricordo, si fa riferimento a Marx e al modo di produzione asiatico; lo Stato s'instaura sulla base delle comunità rurali primitive, ma si distingue da queste per due punti essenziali: tutte le «filiazioni primitive» sono subordinate alla macchina dispotica, a causa della «residenza o territorialità dello Stato»; attraverso l'abolizione dei debiti, esso subordina a sé tutte le alleanze primitive; lo Stato è il creditore infinito che rende eterno il debito. Così i segni astratti si sostituiscono ai segni fisici primitivi: è la deterritorializzazione che, attraverso il gioco della «surcodificazione» (la discendenza del despota dal dio, l'alleanza del popolo con il despota), crea la «pseudoterritorialità», poiché il corpo pieno del despota si sostituisce a quello della terra. Solo il capitalismo realizzerà la congiunzione del flusso dei produttori e del flusso di denaro, imponendo al tempo stesso «un'assiomatica dei flussi decodificati e una regolazione di questi flussi» (47) che prendono il posto dei codici territoriali e della surcodificazione dispotica. La sostituzione dei codici da parte dell'assiomatica è la grande cesura storica; è anche il grande principio di analisi differenziale delle società, che giustifica l'esistenza dell'antropologia in quanto scienza specifica di società specifiche e relativamente identiche a causa di questa specificità condivisa (l'utilizzo della codificazione, l'ossessione dei flussi decodificati). Di fatto, non c'è mai stata che questa cesura che già traduce nelle sue determinazioni trascendenti la formazione barbarica. Quest'ultima assilla a sua volta lo Stato moderno come il modello ineguagliabile: la formazione dispotica asiatica «[...] costituisce sul fondo il solo taglio per tutta la Storia, poiché anche l'assiomatica sociale moderna non può funzionare che resuscitandola come uno dei poli tra cui si esercita il suo proprio taglio» (48). Al termine della storia la medesima indifferenziazione di partenza; non c'è che un solo Stato, come non c'era che una sola società primitiva; lo stato capitalista e lo stato socialista sono altrettanto «dilaniati fra il significante dispotico, che adorano, e la figura schizofrenica che li trascina», fra il «sovraccarico paranoico reazionario e la carica sotterranea, schizofrenica e rivoluzionaria»: «Democrazia, fascismo o socialismo, quale di queste forme non è assillata dall'Urstaat come modello ineguagliabile? (49)Il terreno così circoscritto è al contempo un terreno che scotta e che inganna. Vi si oppongono, in una maniera spesso implicita ma ogni giorno più manifesta, una visione manichea dell'evoluzione e un'interpretazione dialettica della storia. Si possono citare dei nomi, ovviamente, a proposito di ciascuna delle due tendenze, ma ciò non significa che ciascuna di esse sia veramente omogenea né che ogni individuo si identifichi completamente con l'una o con l'altra. Il confronto è nondimeno reale e può essere individuato a partire da diverse linee di sfaldamento. Aggiungiamo che, in qualche modo (tanto storicamente quanto oggettivamente), il neoevoluzionismo dell'antropologia generale è responsabile del neoculturalismo in etnologia, al prezzo di alcune contraddizioni intellettuali spesso presentate come paradossi o come esempi della complessità del reale.

ETNOLOGIA-PRETESTO E ANTROPOLOGIA STORICA.

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Deleuze e Guattari trovano nella riflessione antropologica un pretesto per sognare la storia degli uomini, qualche rima e qualche ritmo per il loro grande poema della memoria e dell'ossessione. L'etnologia francese non ha sempre avuto il coraggio dei gemelli dogon e non si è mai completamente distaccata dalla discendenza griauliana intensiva; prendendo a prestito a loro volta il procedere tortuoso della spirale, Deleuze e Guattari si esponevano al rischio di fare del mito quell'uso strettamente semiotico che condannano altrove; in questo modo, non parlano forse essi stessi il linguaggio dei miti? Cosa sono o chi sono questo desiderio e questo "socius", questo desiderio venuto da fuori e questo "socius" che non sembra affiorare alla coscienza se non per reazione contro il desiderio che lo investe, lo assilla e lo sovrasta? Il "De Rerum Natura" di Deleuze e Guattari è purtroppo più vicino a Morin che a Lucrezio; non si accontenta della declinazione degli atomi e della casualità degli incontri: la visione macchinata del "socius" ci riporta al funzionalismo slittante ma controllato delle complementarità antagoniste.Se nondimeno colpisce il contrasto fra il pessimismo soddisfatto di Deleuze - che in poche parole stabilisce la necessità di ciò che è - e l'ottimismo impaziente di Morin - che sarebbe stato d'accordo con Baudelaire per cercare del nuovo nel fondo dell'ignoto e che aderisce (avendola forse anticipata) alla parola d'ordine d'inselvatichimento della vita proposta da Moscovici -, è indubbiamente perché Morin non si rassegna così facilmente alla non esistenza dell'individualità; il rapporto individuo/società è al principio (e costituisce la fine) della sua riflessione. Nell'"Anti-Edipo" l'individuo scompare sin dal principio, come se venisse rifiutato dalla società «primitiva»; ma possono i suoi autori legittimamente dedurre dalla nozione di persona la realtà individuale e interindividuale, e dal mito la società? Il "socius", creatore dei miti che lo riflettono, cos'altro è, dunque, se non il soggetto di una storia che si riduce alle sue ossessioni e alla necessità della loro realizzazione - a un gran spavento?L'etnologia-pretesto, a sua volta, si nutre del recupero di vitalità di Nietzsche; ciò che essa ha prestato (un racconto dogon, una zucca, qualche Indiano...) le viene reso cento volte. Essa può ripartire con il piede giusto; ha un antenato, una garanzia e un metodo: Nietzsche, Deleuze e la lettura retrospettiva. A questo punto non teme più i grandi principi. Sostituisce alle contrapposizioni politiche (nel senso in cui si oppongono sistemi come il capitalismo e il socialismo) delle contrapposizioni tecniche (mondo industriale/mondo non industriale), le quali relativizzano o cancellano le prime; e questa cancellazione è comoda: ben vista dall'estrema sinistra, non rischia di essere riprovata dal tecnocraticismo ben pensante. Successivamente, essa reintroduce una contrapposizione di forma politica (Stato/assenza dello Stato) che elimina le opposizioni interne ai due tipi di società. Essa può quindi abbandonarsi (più o meno, a seconda del temperamento degli autori) alle delizie più sofisticate dello spiritualismo frivolo: l'evocazione dei paradisi perduti e l'esaltazione del presentimento.Naturalmente tutti sanno che la formazione selvaggia può essere crudele; ma questa stessa crudeltà, per l'etnologia-pretesto, è prossima all'indifferenziazione originaria e serve a imporre l'uguaglianza. L'ombra dello Stato segue ovunque questa formazione selvaggia dal fascino incerto e le serve da spalla. La formulazione estetico-parigina contrapporrà così le società del marchio a quelle della scrittura. Il marchio, la tortura, le scarificazioni vogliono indicare a ognuno la sua uguaglianza rispetto agli altri: la formazione primitiva o la comunità delle uguaglianze imposte. Evidentemente si pone allora la questione di sapere se questo è veramente l'obiettivo del ricorso alla violenza e al marchio. Anche in Durkheim violenza e dolore segnano il passaggio dell'individuo alla dimensione sociale; più esattamente, è l'accesso al sacro (attraverso l'educazione e il dolore) che impone la legge sociale all'individuo e gliela fa accettare. Ma l'accesso al sacro non implica da solo alcuna uguaglianza: al contrario, impone e fa accettare la legge profana, la quale non è affatto ugualitaria.Neppure la logica dell'inscrizione ha qualcosa di ugualitario, e questo è il motivo per cui la conclusione dell'eccellente opera di Adler e Zempléni (50), "Le Bâton de l'aveugle", non sembra procedere necessariamente dal complesso della loro analisi.

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Per loro la «macchina divinatrice» è una «macchina per pensare»; la divinazione viene definita come un'«istituzione sociale destinata a orientare le scelte, tanto degli individui quanto della collettività, un'istituzione per decretare ogni sorta di decisioni - in merito a un semplice viaggio oppure ai riti più solenni...». Le categorie prese in considerazione per l'interrogazione si manifestano sul suolo sotto forma di tre o quattro archi di circonferenza progressivamente costituiti attraverso l'inscrizione di risposte parziali ottenute per sorteggio. Il divino mundang fa dunque ricorso a un procedimento assolutamente statistico e aleatorio che gli impedisce di far intervenire nella sua diagnosi o nelle sue prescrizioni null'altro se non le sue personali intuizioni e la sua indiscutibile conoscenza degli affari pubblici o privati. Ciò che conta è che la divinazione fa intervenire e inscrive sul suolo, in ogni occasione, per quanto limitata essa sia, un insieme di categorie perfettamente conosciute da tutti (le potenze legate alla terra, lo spazio socioreligioso del villaggio, le componenti della persona, la rappresentazione del corpo, la stregoneria eccetera); così si manifestano, da una parte, la solidarietà ontologica e storica dell'individuo e della società, dall'altra, il legame funzionale dell'insieme delle categorie la cui inscrizione è necessaria per produrre un messaggio.Anche altre analisi delle società lignatiche manifestano questa solidarietà e questo legame. Turner, citato da Deleuze e Guattari, parla della divinazione come di una forma di analisi sociale; si vedrà più avanti che l'esempio delle società lagunari propone a sua volta una logica delle rappresentazioni e una definizione sociale dell'individuo. Ma tale logica non implica alcuna uguaglianza di fatto o di diritto, anzi. Per poter parlare di uguaglianza (almeno di uguaglianza potenziale) gli etnologi hanno bisogno del fantasma dello Stato e del mito del presentimento. Secondo Adler e Zempléni, la società mundang, tanto attraverso il ricorso al procedimento probabilistico quanto attraverso la selezione delle categorie (non tutte le categorie rituali rientrano nel codice divinatorio), avrebbe voluto limitare il campo d'esplorazione della divinazione e l'affinamento della tecnica divinatoria allo scopo di scongiurare la minaccia di un Sapere illimitato di cui una classe di sacerdoti e di sapienti avrebbe assunto il monopolio. Gli autori contrappongono questa prudenza e questa ammirevole prescienza ai testi sacri della tradizione giudaica, la quale, esprimendo il carattere assoluto della volontà divina, ha consentito lo sviluppo di un corpo di commentari rabbinici: essi, così, rivelano chiaramente la natura del sottile legame che unisce la filosofia materialistica del desiderio allo spiritualismo neoculturalista degli etnologi dell'etnocidio; formulano nei termini di Deleuze sia il tema della prescienza dei selvaggi, più volte espresso da Clastres, sia il tema della tradizione giudaico-cristiana negatrice delle differenze, orchestrato da Jaulin.L'etnologia del presentimento deriva in effetti da una lettura retrospettiva della storia: questa lettura è legittima se il capitalismo è al contempo la fine del mondo e della storia, il rovescio di tutte le forme sociali; ma nella misura in cui questa definizione del capitalismo poggia sull'analisi delle società primitive, tale ragionamento nel suo complesso si avvicina molto alla tautologia. Di fatto, se i primitivi presentono è perché l'etnologo sa; se vivono nel futuro anteriore è perché l'etnologo crede di conoscere il presente. Allo stesso modo la logica della marchiatura, la quale manifesterebbe sia l'ugualitarismo sia le ossessioni della società primitiva, pone forse molti problemi ai propri teorici: bisogna che la codificazione non sia esaustiva (prossima dunque all'assoluto statale); bisogna che non sia una scrittura (adatta a comporre delle leggi e un'assiomatica); bisogna che non sia discriminatoria (strumento, in questo caso, della disuguaglianza).Quanto all'antropologia economica influenzata dal marxismo, essa ha cercato le differenze interne dal lato delle società un po' affrettatamente presentate come indifferenziate; ma bisogna notare, da una parte, che l'attenzione da essa rivolta ai modi di produzione e alla loro articolazione (grossomodo, la sua problematica althusseriana) l'ha indotta a trascurare il rapporto dell'individuo con la società e l'insieme della sfera delle rappresentazioni (trattate frettolosamente in uno stile molto funzionalista) e, dall'altra, che alcuni suoi riferimenti ai rapporti di classe sono riutilizzabili nell'ottica apolitica modernista. Se non è stato

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inutile porre il problema dei rapporti di classe nelle società lignatiche, ciò è dovuto al fatto che le differenziazioni interne in questo tipo di società non si riducono né all'opposizione anziani/giovani, in termini puramente cronologici, né all'opposizione uomini/donne. Il dibattito attualmente riprende, per quanto concerne sia la struttura interna delle società lignatiche sia le rappresentazioni, l'ideologia e l'efficacia dei simboli; se rischia di superare il suo quadro iniziale (quello di queste società) e di assumere veramente valore antropologico, le domande poste da Deleuze e da Guattari, bisogna riconoscerlo, saranno servite a qualche cosa.E tuttavia resta il fatto che, oggigiorno, si va delineando un'opposizione che riproduce in qualche modo, pur cambiandone i termini, quella fra strutturalismo (con i suoi rimandi alle relazioni interindividuali e allo spirito umano in generale) e funzionalismo d'ispirazione britannica (che rinviava alle relazioni di gruppo, alla storia e alle conseguenze del contatto). La moda antropologica attuale ha ucciso il padre e rinnegato lo strutturalismo (è proprio per questo che gli resta legata mediante una discendenza storica le cui tracce sono facilmente reperibili). I suoi modelli sono tuttavia meno linguistici che biologici e psicoanalitici; essa parla in termini di specie, s'interessa ai rapporti individuo-società (in quanto entità) e alle tappe di un'evoluzione - questo rapporto e queste tappe essendo concepiti in termini di equilibrio e disequilibrio. L'antropologia storica mantiene la necessità dell'analisi in termini di classe (rifiutandosi di considerare l'evoluzione e la specie come suo oggetto specifico), s'interessa ai rapporti fra gruppi e a una storia concepita in termini di dominio e di rottura. La contrapposizione delle classi alla specie, della dialettica all'equilibrio, della dominazione alle trasformazioni non basta, forse, a costituire un'antropologia della repressione individuale e sociale. Ma essa costituisce un baluardo contro le illusioni retrospettive e contro l'uso metaforico del linguaggio.L'etnologia-pretesto nutre la sua rappresentazione degli altri e del passato con lo spettacolo dell'attualità. Attribuire a questi «altri» un presentimento è legittimare la retrospettiva come metodo; affermare la loro differenza è denunciare l'uniformità industriale; evocare la loro autenticità (la loro vicinanza a uno stato di natura rinvigorito da Nietzsche) è sottolineare l'artificiosità delle costruzioni della civiltà industriale. Tradotta in termini di programmi d'azione, questa visione delle cose invita alla reazione (a reagire per tornare ai mestieri artigianali, a denunciare l'attività intellettuale in quanto tale), al particolarismo (la localizzazione dell'autenticità, il conservatorio degli elementi antichi e tipici che devono essere resuscitati) e alla natura (poiché rifiutare la distinzione natura/cultura porta a scindere la cultura e a opporre la buona cultura, quella autenticai codici - alla cattiva, quella snaturata, astratta - l'assiomatica). Nella misura in cui queste tre parole d'ordine si combinano, esse danno vita a un discorso politico inquietante che è di fatto presente nella vita intellettuale francese. Di fatto solo perché ciascuno degli intellettuali interessati lavora in un settore delimitato e si specializza, chi nel desiderio, chi nella differenza, chi nel presentimento; si tratta forse di una qualche forma di pigrizia intellettuale che ci preserva dalle sintesi terrificanti. Quanto alla carovana deleuziana, essa passa a gran velocità da un castello all'altro, tonitruante e fracassante, facendo vacillare gli edifici invecchiati e fragili; se abbaio (tanto vale lo dica io stesso) è perché essa rischia di lasciarsi dietro qualche bisognoso della scienza umana, qualche "bricoleur" del desiderio il quale, rimasto senza più fiato per seguirla, si accontenterà di attizzare le ceneri nei punti dove essa si è depositata, e di maneggiare con molta imprudenza degli esplosivi abbandonati ma non disinnescati. Un "bricolage" inoffensivo forse, se non apportasse delle risposte così facili ai guai della contemporaneità, e così in accordo, in fin dei conti, con l'esaltazione comune dell'altrove e del passato che costituisce il diversivo per eccellenza di ogni genere di responsabili del presente.E' perché hanno in testa l'assiomatica statuale che Deleuze e Guattari possono contrapporvi la codificazione primitiva. Non è dunque inutile ritornare brevemente su questa codificazione e osservare perché, come e per chi funziona. La

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codificazione, anche quando si inscrive nella piena carne o sulla piena terra, è forse solo una modalità dell'assiomatica prodotta da ogni costruzione sociale. Forse non è necessario camminare a ritroso per analizzare le società non statuali, e neppure invocare gli spiriti per ridare vita alle ipotesi materialistiche. Il desiderio, l'ossessione, il giudeocristianesimo: dei misteri per quanto ignoriamo e dei nomi su questi misteri - l'oscurantismo?

Capitolo 2.I TOTALITARISMI SENZA STATO.Ideologica e rapporti di potere.

DOMINIO, TOTALITARISMO, SIMBOLIZZAZIONE.

L'interpretazione teorica in antropologia si dà sempre un quadro di riferimento nel quale essa cerca d'inscrivere le realtà di cui fa il suo oggetto, una totalità significante alla quale rapporta le sue osservazioni e le sue descrizioni. L'interpretazione culturalista e l'interpretazione strutturalista hanno in comune che le loro totalità significanti sono, da un punto di vista strettamente sociologico, relativamente parziali: esse si applicano meno alle società che alle configurazioni intellettuali e mentali attraverso le quali le società esprimono, contemporaneamente, la loro originalità e universalità. Sia che ricostruiscano «stili culturali» contrastanti, differenti e irriducibili gli uni agli altri in un caso, o la logica inconscia del pensiero selvaggio, dei sistemi di parentela e dei miti nell'altro, esse non si occupano né dei rapporti di efficacia all'interno di una data società né della spiegazione storica di una particolare configurazione.Altri due tipi di totalità servono di riferimento per la riflessione antropologica. La totalità funzionale, che ha orientato l'essenziale della letteratura anglosassone, permette di non escludere i problemi dell'efficacia; tutta una generazione di antropologi britannici ha potuto ironizzare sul gusto esclusivo dell'antropologia francese ispirata a Griaule per l'osservazione dei sistemi di pensiero, delle cosmogonie e cosmologie; lo studio più sistematico dell'ammezzato e dei piani intermedi, per riprendere un'immagine spiritosa di Mary Douglas, non sfugge necessariamente al gioco speculare della riflessione in cerchio - giacché l'analisi di ogni singolo «livello» rischia, da questo punto di vista, di esprimere soltanto, in un linguaggio specifico, le caratteristiche di qualsiasi altro livello; complessivamente, tuttavia, l'ideologia è intesa nel discorso funzionalista come operante a vantaggio dell'ordine sociale: viene ammesso un ordine di priorità, il quale rinvia a uno schema interpretativo di tipo durkheimiano; il sacro rimane l'astuzia del profano e il sociale la totalità in cui si ordinano e si annullano definitivamente gli scarti individuali e le aberrazioni sociologiche.Si conoscono almeno due versioni di totalità riduzioniste, una economicistica e l'altra psicoanalitica. La totalità riduzionista che serviva da riferimento, a lungo molto contestato, al Freud di "Totem e tabù" invade da qualche tempo l'orizzonte epistemologico dell'antropologia francese. A questo proposito bisognerebbe parlare di «genetismo»; un evento primordiale - in Freud, l'assassinio del padre - permette di pensare tutti gli altri eventi - ciò che alcuni chiamano storia - come altrettante metamorfosi del primo. Tutta la storia è ridondante, espressiva, ripetizione dell'atto originario; in rapporto a questa totalità di partenza (l'evento unico e fondatore), se ci può essere spiegazione storica, non potrebbe esserci un senso della storia - se non un senso a ritroso, un senso retrospettivo nato dalla decrittazione dell'evento ridondante che ne viene a significare un altro. Così René Girard può parlare di «unità dei rituali», intendendo con questa espressione che tutti i rituali studiati dall'etnologia costituiscono altrettante ripetizioni del sacrificio primordiale attraverso il quale è stata istituita, in tutte le società, la società.Che cosa ne è oggi, nell'antropologia francese, del ricorso a queste differenti totalità? Innanzitutto le diverse tendenze teoriche hanno almeno un punto in comune: che esse scoprano nelle attuali figure repressive l'esito d'un infelice

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percorso dell'umanità giudaico-cristiana o che, ricorrendo alla teoria classica del feedback, si sforzino di comprendere meglio i modi di produzione non capitalistici per affinare la teoria dei modi di produzione e la comprensione della società industriale, nostalgiche o progressiste che siano, esse si lanciano tutte "à la recherche du temps perdu".Dalla parte di Nietzsche, stranamente alleato su tale questione tanto con Freud quanto con un surrogato edulcorato di Rousseau, l'etnologia-pretesto e la meta-antropologia pongono la riflessione sociologica sotto il segno della disillusione - dissolvimento delle illusioni del senso e della storia; divise tra l'individualismo legato al rifiuto dello Stato e il biologismo legato a una teoria confusa del desiderio, esse instaurano bene o male una problematica della coscienza che tende a sfumare in una teoria della deriva. Con un'alchimia di cui detengono il segreto, l'etnologia-pretesto e la meta-antropologia trasformano la minaccia del caos che ci promette Girard in speranza e la storia in "pas de deux" (1), oscillando con una grazia un po' aggressiva fra la nostalgia e la speranza apocalittica. Nostalgia di una società primitiva (come esse definiscono indifferentemente, lo abbiamo visto, gli Indiani dell'Amazzonia o le società segmentarie africane), nella quale, ci viene assicurato, l'individuo in quanto tale non esiste, nella quale «le unità non sono mai delle persone» (Deleuze-Guattari). Speranza in un rovesciamento delle concezioni della persona: «L'io fa piuttosto parte di quelle cose che bisogna dissolvere...» (Deleuze commentando Guattari). Fino a oggi ci si è sforzati di mostrare ciò che, nella letteratura antropologica, serviva da giustificazione alla nostalgia che dà origine a una tale speranza: pezzi di miti, elementi di teoria sociale, la descrizione di alcune pratiche istituzionali riferite a un insieme supposto indifferenziato, il "socius" «primitivo», ulteriormente definito attraverso le rappresentazioni mitiche che si ritiene proponga di se stesso. Griaule, la fenice dell'etnologia francese, rinasce dalle sue ceneri - meno rigoroso (poiché Griaule parlava di una società) e anche poco sociologico -, riducendo l'individuo alla persona e la società al suo discorso, come se la società in quanto tale parlasse, come se l'identificazione dei locutori, dei portavoce e degli ascoltatori fosse accessoria, come se la parola s'identificasse con il linguaggio e il linguaggio con un simbolismo strettamente esegetico.Dalla parte di Marx, l'influenza di Althusser, considerevole nella corrente antropologica, oscilla fra il riduzionismo storicistico o economicistico e la totalità funzionale: fra «determinazione» e «dominazione». Storia ed etnologia pongono al marxismo il seguente problema: come conciliare la determinazione dell'economico con la molteplicità delle formazioni sociali e delle forme di dominio ideologico che l'esperienza ci rivela? La corrente althusseriana suggerisce una soluzione: definire ogni formazione sociale come l'articolazione di diversi modi di produzione «in senso lato». Il modo di produzione in senso stretto si definisce attraverso la combinazione delle forze di produzione (oggetto di lavoro e mezzo di lavoro) e dei rapporti sociali di produzione; esso può essere individuato e osservato a condizione di venire ritagliato dalle sovrastrutture che sono ritenute corrispondergli. Quanto alla formazione sociale, essa costituisce la sola realtà sociale globale e concreta osservabile. Le differenti «istanze» sovrastrutturali della formazione sociale non sono pertanto la risultante meccanica dell'infrastruttura osservabile, bensì la combinazione delle sovrastrutture deducibili rispettivamente da ciascuno dei modi di produzione in senso stretto. La totalità concreta della formazione sociale è puntellata dalla realtà strutturale e astratta dei modi di produzione in senso lato e dalla fantomatica articolazione delle loro sovrastrutture virtuali.Diffidare delle apparenze: proprio questo sembra essere il presupposto che il marxismo condivide con lo strutturalismo allorché sia l'uno sia l'altro ne fanno la materia prima della loro analisi, chi per scoprirvi il gioco di una determinazione dell'economico, chi per decifrarvi la struttura inconscia di cui le apparenze non sarebbero che una realizzazione parziale. Come in quelle immagini dove l'intreccio dei rami e delle nuvole disegna e dissimula al tempo stesso la figura da scoprire (il lupo o il pastore, il gatto o il topo), la complessità sociale, in definitiva, «in ultima analisi», non rivelerebbe sotto la sua fronzuta abbondanza che la

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traccia di un percorso o l'abbozzo di una struttura. E se l'apparenza, invece, come la lettera rubata, non si desse che per quello che essa è, là dove si trova? Apparenza e verità, verità dell'apparenza - accecante, forse, a forza di essere vera, ma non nascosta, né mascherata, né invertita? Povere astuzie, invero, come quelle dei sistemi in cui la minaccia di segmentazione non verrebbe scongiurata che dall'uso più o meno machiavellico di credenze di cui gli stessi uomini sarebbero tanto le vittime quanto i manipolatori - così, per l'antropologia britannica, i giovani, in rapporto alle credenze di stregoneria, sarebbero manipolatori quando sono lele (ma destinati a una vecchiaia più ingenua), sarebbero vittime quando sono yao o cewa (ma destinati a una più lucida maturità). Eppure il marxismo si ferma qua e rimane funzionalista allorché fa della parentela un linguaggio o delle credenze nella stregoneria un'inversione, sacrificando alla smania di far dire a ciò che si esprime altra cosa rispetto a ciò che è espresso.Non mancano tuttavia i segni che dovrebbero trattenere l'etnologo dal sacrificare alla falsa sottigliezza dei rovesciamenti di prospettiva. Uno di essi, forse il più evidente, è stato battezzato ancora prima di essere stato studiato, come se fosse urgente dargli un nome per evitare che sia percepito; i riti di «inversione» o di «ribellione», non appena vengono chiamati in questo modo, non possono più venir presentati che per quello che devono essere se non devono significare nulla: l'inverso d'un diritto, una ridondanza appena paradossale, uno scherzo, una catarsi, un recupero; l'"imagerie" psicologista o politicista si sbarazza con qualche considerazione selvaggia di una realtà che dovrebbe allertare il semplice buon senso. Sollevati e resi obbedienti gli schiavi del re per essersi visti accordare, alla sua morte, qualche giorno di allegrezza istituzionale? La tensione fra i sessi messa in sordina, resa appena percepibile, mediante lo scambio rituale di qualche verità poco amena e la parziale inversione del costume? Poiché qui è la stranezza: nei riti d'inversione non si dice altro che la verità; la verità di coloro che, abitualmente, la subiscono e che, dicendola, continuano a subirla: lo schiavo agni sa e dice che, in tempi normali, viene maltrattato, considerato un nulla; sa che morirà; ma sa anche (ed è il solo a dirlo) che il re morto è veramente morto. Così i giovani e le donne, così i sudditi al momento della salita al trono d'un capo o d'un principe: la marea degli insulti, degli avvertimenti, dei rimproveri non veicola altro che verità; nessuno è ingannato, nessuno s'illude né sul potere né sui potenti, né sugli altri, né su di sé. Questi lampi di lucidità possono almeno illuminarci su un punto: la dominazione non passa attraverso un gioco di illusioni. Gli uomini non vivono alla rovescia il rapporto con le loro condizioni di esistenza. «Eppur si muove»: la società funziona (noi conosciamo e riconosciamo come tale questo truismo dopo Lévi-Strauss) e le persone vanno avanti; «Les braves gens!» (2) dice l'Imperatore che le guarda e le manda a morire. E tuttavia essa «devia»: talvolta la società sfugge al potere che la incarnava. Come possono potere e lucidità coesistere all'interno della dominazione ideologica, come possono sorgere la rivolta o la rivoluzione malgrado questa dominazione?Ma, innanzitutto, di quale dominazione si parla? Nella sua forma più elaborata (quella che Maurice Godelier le ha dato dopo qualche saggio e qualche rimorso), la nozione si applica a una «istanza» della società di cui ci viene detto che «funziona» al tempo stesso come infrastruttura e come sovrastruttura. La gerarchia dei «livelli» deve essere interpretata come una gerarchia di funzioni, non come una gerarchia di istituzioni. Allo stesso tempo, per funzionare come infrastruttura, il «livello» dominante deve «occupare il posto» dei rapporti di produzione. Niente di strano quindi (ed è proprio il caso delle società primitive, ci dice Godelier) che i rapporti di parentela possano funzionare come infrastruttura e far parte integrante dei rapporti di produzione. Nella logica di questa interpretazione Godelier può rimproverare a Lévi-Strauss di definire in modo troppo ristretto l'infrastruttura quando questi parla del suo primato e rimproverare agli antropologi «althusseriani» di definire in modo troppo istituzionale e troppo meccanico il sistema delle istanze.In sé non c'è niente di scandaloso nel voler conciliare gli inconciliabili; indubbiamente proprio questo è il solo tipo di volontà intellettuale intelligente che si possa concepire. Resta però il fatto che la costruzione di Godelier, la

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quale ispira una giusta consapevolezza delle difficoltà e una notevole intuizione del modo in cui debbano risolversi, pecca per il suo carattere incompiuto. Godelier non è coerente con se stesso quando conserva la metafora delle istanze verticali (3): qual è dunque il posto che occupano le relazioni di parentela quando si identificano con i rapporti di produzione? Questo luogo dove «infrastruttura» e «sovrastruttura» si identificano, non si definisce più evidentemente in termini di verticalità. Tanto vale ammettere, quindi, che il suo «dominio» è «orizzontale». Come dire altrimenti che non è la parentela in quanto tale a esser dominante (ammesso che lo sia) ma discorsi o pratiche nei quali i riferimenti alla discendenza e all'alleanza hanno un ruolo statisticamente dominante? La dominazione così intesa non si identifica con un posto nella struttura della produzione: così i rapporti di produzione, nelle società lignatiche o nelle bande dei cacciatori-raccoglitori, non si identificano con i rapporti di parentela in enunciati o in pratiche che ammettono e implicano anche altri riferimenti e la cui articolazione, d'ordine sintattico, costituisce la struttura di ogni dominazione.Qui si sceglierà di prendere le società alla lettera e si partirà da ciò che esse danno a vedere. Tuttavia, si eviterà di dare uno statuto particolare alla nozione di dominazione; quest'ultima non potrebbe avere che un'esistenza per così dire statistica all'interno di enunciati o di pratiche la cui esistenza costituisce ogni vero dominio e la cui articolazione o sintassi costituisce la particolare configurazione ideologica di una data società. Che il potere domini è una tautologia che ci si esimerà dal formulare, una volta ammesso che, effettivamente, in società diverse, l'istituzione politica può, da una parte, controllare più o meno tipi diversi di attività e, dall'altra, ritagliare più o meno istituzioni differenti. Dire che la politica è dominante nella Grecia antica, la Chiesa nel Medioevo e la parentela nelle società africane equivale ad ammettere, in termini di istituzioni, un intreccio, in ciascuno dei casi considerati, dell'istituzione in questione con le altre e, in termini di funzione, il suo intervento in attività che dipendono anche da un'altra istituzione. Quanto alle istituzioni, esse non sono mai completamente confuse e sarebbe una petizione di principio a farci definire l'istituzione del capo di lignaggio come interamente derivante dalla logica della parentela.

L'IDEOLOGICA.

Quanto al potere, in nessun luogo esso si identifica con la sola istituzione politica: il potere non si comprende se non attraverso la logica complessiva che situa le une in rapporto alle altre, in modo molteplice e differenziale, non solo le diverse varianti istituzionali di una società, ma anche quelle intellettuali, morali e metafisiche. E' a questa logica complessiva che abbiamo proposto di dare il nome di ideologica o logica delle rappresentazioni. L'ideologica sarebbe pertanto al tempo stesso la somma del possibile e del pensabile per una data società, una somma che costituisce una totalità virtuale la quale non si attualizza mai se non in enunciati parziali per l'interpretazione, la descrizione o la giustificazione di un dato evento.Che cosa significano la possibilità e la realtà di enunciati di questo tipo? Esse indicano innanzitutto il carattere ideologico dell'esistenza sociale. Se l'economia, la parentela, la mitologia sono in ugual misura «simboliche», come dice Lévi-Strauss, ciò non è, dal nostro punto di vista, nel senso che esse sarebbero, ciascuna indipendentemente dalle altre, l'oggetto di rappresentazioni di cui ci sforzeremmo di pensare la logica intrinseca, anche a costo di definire ulteriormente l'ordine degli ordini, il sistema dei sistemi dove l'architettura dello spirito umano si rivelerebbe con quella delle sue produzioni, ma nel senso che, definite contemporaneamente come organizzazione e come rappresentazione, promosse contemporaneamente all'esistenza intellettuale e a quella sociale, contemporaneamente teoriche e pratiche, esse devono venire intese, attraverso le catene sintattiche che le articolano "all'interno di una data società", come al tempo stesso rapporti di senso, rapporti di efficacia e rapporti di potere.L'ordine ideologico non è un ordine deduttivo meccanico. Se rimaniamo fedeli alla

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metafora marxista delle istanze, dobbiamo ammettere che all'interno stesso delle «forze di produzione», attraverso la mediazione dei «mezzi di lavoro», penetra una parte di questa arbitrarietà relativa mediante la quale si definiscono le sovrastrutture e la loro relativa autonomia. Questa constatazione è ancora più vera nel caso dei rapporti sociali di produzione, per cui non si tratta di suggerire che possano essere definiti indipendentemente dalle forze di produzione; tuttavia, non per questo si può dire che essi ne siano integralmente determinati nella forma. Se partiamo, al contrario, dalla considerazione delle sole condizioni materiali della produzione in un momento e in un luogo determinati - oppure, facendo astrazione dai dati umani che segnano ogni ecologia, se partiamo da un punto zero puramente astratto e speculativo (l'infrastruttura secondo Lévi-Strauss) - constatiamo che l'ideologica non può costituirsi (o, dal punto di vista del suo osservatore, essere compresa) se non a partire da due somme e da due arbitrarietà. La prima somma non riguarda che termini logicamente compatibili, e cioè intellettualmente e materialmente coerenti. A partire da un dato ambiente naturale, alcune tecniche di produzione, alcuni stili di residenza, alcune modalità di raggruppamento sociale sono concepibili e realizzabili, altri no. La compatibilità di cui si parla in questa sede è duplice: complessivamente si tratta di una compatibilità tecnica fra i dati naturali e l'organizzazione umana; nei dettagli le compatibilità sono più sottili: da una parte c'è una seconda esigenza di compatibilità fra organizzazione della produzione e organizzazione sociale, dall'altra, se ad alcune configurazioni economiche o sociali possono corrispondere delle rappresentazioni dello psichismo o dell'organizzazione somatica, non avrebbe alcun senso decidere "a priori" se queste ultime sono compatibili o no con le condizioni naturali o materiali della produzione; certo è, in compenso, che esse non costituiscono per questo la rappresentazione in un altro linguaggio delle configurazioni economiche o sociali. L'organizzazione in patrilignaggi o matrilignaggi non pregiudica in nulla né la natura dei poteri psichici attribuiti ad alcuni individui, né il senso della loro influenza, né in generale le grandi linee del sistema di rappresentazione dell'ereditarietà; il tentativo di Leach di fare di questo tipo di rappresentazione un'espressione strutturale delle categorie dell'incorporazione e dell'alleanza, oltre a soffrire di una certa mancanza di rigore concettuale, si scontra, su questo punto, con l'evidenza dei fatti. Bisogna ammettere, al contrario e all'inverso, che le teorie locali dell'ereditarietà e dell'influenza qualificano e condizionano differentemente, a seconda delle società, le relazioni della discendenza con l'alleanza e il senso della discendenza doppia (4). La somma delle compatibilità non corrisponde né a un ordine di generazione né a un ordine speculare, ma all'assunzione, a partire dalla compatibilità essenziale - fra condizioni materiali e modelli tecnici di organizzazione del lavoro - della molteplicità non infinita dei possibili.La prima arbitrarietà costitutiva dell'ideologica è legata al fatto che, all'interno dei principali paradigmi di riferimento di una data società (componenti psichiche, poteri e influenze, componenti biologiche, modalità sociali di relazione, istituzioni giuridico-economiche, relazioni economiche, attività economiche) non compaiono tutti gli elementi possibili (compatibili). In società con ambienti naturali e storici sostanzialmente equivalenti, anche geograficamente vicine, troviamo differenze considerevoli per ciò che riguarda la discendenza, le regole di alleanza, l'organizzazione del lavoro, gli stili di residenza eccetera. Nel sudest della Costa d'Avorio, nei secoli diciottesimo e diciannovesimo, gli Alladiani coltivavano la manioca, fabbricavano il sale, pescavano in mare e commerciavano con gli europei; gli Ebrié, stanziati nel nord della laguna, coltivavano la manioca, pescavano in laguna, commerciavano un poco con le regioni dell'interno, solo indirettamente con gli europei, e praticavano la guerra con maggior vigore rispetto ai loro vicini stanziati sulla riva del mare. In parte, queste attività sono individuali o implicano solo una ridotta collaborazione (pesca in piroga, con la lenza o con piccole reti, coltivazione della manioca); in parte necessitano di un raggruppamento di forze che nelle due società è palesemente avvenuto su basi diverse: presso gli Alladiani è la «corte» a riunire sotto l'autorità di uno stesso uomo la sua discendenza agnatizia e quella degli uomini

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del suo matrilignaggio e a costituire il quadro normale di attività come la fabbricazione del sale e il commercio dell'olio di palma. La regola di residenza vuole che un figlio viva presso il padre pur appartenendo al lignaggio dello zio paterno; tuttavia essa non vale se non per i capi di lignaggio: il successore viene a occupare la sedia del predecessore (lo zio materno o il cugino uterino) nella corte di quest'ultimo; patrivirilocalità ["patri-virilocalité] e semiarmonia ["hémi-harmonie"] (o parziale disarmonia) definiscono così una forma di potere e una forma di organizzazione economica. Presso gli Ebrié la disarmonia è totale e il nipote lavora per lo zio; quanto alle attività collettive, esse mettono in gioco l'organizzazione in classi di età per il grande luogo di pesca del villaggio, il lignaggio per i luoghi di pesca meno importanti. Nessuna determinante necessità tecnica può spiegare la particolare ragione di questo o quel modo di raggruppare le attività, di questo o quel modo di esercitare il potere. Gli Alladiani avrebbero potuto fabbricare il sale nel quadro del lignaggio e gli Ebrié ripartirsi i loro grandi luoghi di pesca fra lignaggi o fra quartieri d'uno stesso villaggio.Si tratta, del resto, di possibilità che sono state realizzate in certe epoche e in determinate circostanze: nel diciannovesimo secolo, con la crescita della domanda di olio di palma, i commercianti alladiani hanno tendenzialmente costituito corti omogenee dal punto di vista del lignaggio; i matrimoni con donne dida patrilineari portatrici di dote o con le schiave hanno permesso di aggirare la regola di disarmonia rispettandone al tempo stesso il contenuto formale. In alcuni villaggi ebrié le diverse sezioni del grande luogo di pesca collettivo erano attribuite ai quartieri di villaggio invece che alle classi di età. Queste diverse modalità non impediscono che la dimensione lignatica s'imponga, presso tutti, nella definizione dei canali di distribuzione e di circolazione; ma anche in questo caso compaiono differenze che nessuna necessità economica o sociale ha imposto a priori: presso gli Alladiani, un «figlio» era tenuto per un lungo periodo della sua vita a consegnare il prodotto della propria pesca al «padre», il quale aveva a sua volta degli obblighi di ridistribuzione nei confronti del rappresentante del proprio matrilignaggio; il raggiungimento dell'età «adulta», della piena «cittadinanza», comportava un riorientamento delle prestazioni; presso gli Ebrié, la prima fase era limitata alla prima infanzia. Sotto questo aspetto altre soluzioni o una ripartizione inversa delle soluzioni adottate da ogni società sarebbero state ugualmente concepibili. Stabilire la somma del pensabile e del possibile per una data società non significa dunque indicare in termini assoluti quanto non le è possibile sul piano intellettuale o materiale. Ogni società sa che i suoi vicini pensano in modo diverso.Ma, a questo punto, arriviamo alla seconda somma e alla seconda arbitrarietà costitutive di ogni ideologica. Si tratta, per una data società, della totalità dei legami sintagmatici che essa stabilisce fra i diversi elementi paradigmatici accertati al suo interno. Questa totalità si esprime in termini di necessità, e questa necessità si presenta indifferentemente come individuale e sociale, biologica e psicologica, giuridica e metafisica. La somma dei sintagmi ammissibili - degli enunciati formulabili o dei comportamenti praticabili - è indubbiamente impossibile da stabilire in modo esaustivo, ma la sfera del possibile si delinea e s'impone con maggior fermezza per ciascun individuo proporzionalmente alla sua esperienza intellettuale e sociale: le diagnosi, le indagini, i riti, le cerimonie, le incertezze della vita individuale e collettiva, gli insegnamenti più o meno istituiti (a partire dagli indovinelli, dai racconti, dalle iniziazioni) circoscrivono con un tratto sempre più netto, in ogni caso, i limiti di quanto è enunciabile e possibile. Ciò che conta non è tanto conoscere la somma, per definizione astratta, di ciò che può esser detto o fatto, quanto il non ignorare ciò che non può essere né detto né fatto.Prendiamo come esempi di enunciati parziali quelli che presso gli Alladiani riguardano le credenze nella stregoneria; un enunciato di questo tipo può far intervenire un numero rilevante di elementi paradigmatici (vedi la figura 1 - qui omessa). In tutte le lingue della laguna, il concetto di «stregone» (nel senso di "witch", come contrapposto a "sorcier") viene espresso anteponendo alla parola che significa «uomo» il nome del potere di aggressione che si accompagna alla qualità

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di stregone. Si dirà in alladiano: "awa wro", uomo d'"awa"; ci sono altri tipi di poteri psichici rispetto a quello attribuito allo stregone, e in particolare il "seke", forza difensiva che si presenta di primo acchito come il suo inverso e che distingue la persona dell'antistregone ("witch-doctor"); l'"awa" è ritenuto attaccare una delle istanze psichiche della sua vittima, quella che è più prossima al principio vitale e del sangue, "ee"; esiste un'altra istanza psichica, il "wawi", che è ritenuta invece portare il potere di aggressione o di difesa, stabilire la relazione con gli altri; un enunciato sul potere di stregoneria farà spesso intervenire la nozione di sangue ("nkre"), una delle componenti biologiche della persona, essendo questo potere ritenuto capace di privare di sangue la sua vittima. Il potere non può esercitarsi senza distinzioni: la sua sfera d'azione è limitata al matrilignaggio dell'aggressore ("etyoko"), la vittima essendo necessariamente un membro del matrilignaggio ("etyoko wi") dell'aggressore. Alcune regole secondarie spiegano in che modo uno stregone possa anche attaccare, con l'aiuto di un altro stregone (è il tema della società degli stregoni e del debito cannibalico), qualcuno di estraneo al proprio lignaggio. Ma l'enunciato più immediato non mette in gioco che la relazione "etyoko wi"; mentre ne esistono altri ("wï"; "ebiwï") che mettono in gioco altri partner e altri tipi di influenza. I casi di stregoneria sono spesso conclamati per questioni di eredità ("adya") o di successione che mettono in gioco il possesso della sedia del lignaggio ("abu") e la gestione del tesoro del lignaggio ("obii wakre"). Questi sono gli elementi fondamentali di ogni prediagnosi (formulata o solo pensata) quando una morte o una malattia appaiono sospette - che è il caso, più o meno, di ogni morte e di ogni malattia. Un enunciato parallelo potrà chiamare in causa il potere difensivo ("seke") addetto alla protezione dell'"ee", trasmesso con lo sperma ("ake n'du": acqua dell'uomo) lungo la linea agnatizia diretta (nonno, padre, figlio) ed esercitato preferibilmente a beneficio di quest'ultima. Un altro enunciato potrà chiamare in causa il potere di maledizione ("aüeda") del «padre» sul figlio (nel senso del rappresentante del matrilignaggio del padre - il padre stesso oppure, se è morto, il suo erede - sul bambino di un uomo del matrilignaggio) e di conseguenza la relazione "ebiwï", il più delle volte in merito a una questione di residenza (di «corte»: "dbü") o di ridistribuzione dei prodotti della pesca.Tutti questi esempi sono tanto più frammentari in quanto dovrebbero essere messi in relazione con i tipi di malattia e di morte che gli corrispondono, dal momento che nell'eziologia locale questa corrispondenza è precisa e sofisticata al tempo stesso. E' opportuno soprattutto notare che alcune correlazioni sono impossibili: l'awa non si trasmette di padre in figlio, non si esercita su un ebiwï; il potere di maledizione non può essere evocato in merito a una relazione interna all'etyoko eccetera. "A priori", tutte le diagnosi sono possibili ma, a partire da un elemento di interpretazione, non sono più possibili tutte le connessioni. Si comprende allora che ogni parola conta e che il peso del silenzio bilancia quello della parola. Ma si noterà anche come l'arbitrarietà delle correlazioni proprie di una data società sia al tempo stesso riconosciuta come contingente e vissuta come necessaria.Gli Alladiani sanno perfettamente che presso i Dida patrilineari il potere di stregoneria può venire esercitato dal padre sul figlio; lo sanno tanto bene che spesso hanno sposato donne dida per ricreare a proprio vantaggio le condizioni di un potere residenziale più forte. Ma sanno anche, e meglio ancora, che in se stesso un potere vale l'altro: assegnare una dote a una donna dida e sposarla significa eliminare i rischi di un potere rivale (quello del lignaggio della donna); significa al tempo stesso attribuire al potere del padre sui figli una maggior libertà ed estensione, e cioè più anonimato: nessuno si prende il rischio di definire un potere senza concorrenza. Che le parole si applichino a relazioni e che queste non definiscano rapporti di senso se non in quanto si applicano a rapporti di forza è cosa che gli Alladiani hanno sempre saputo, i più ricchi e i più potenti fra loro essendosi sempre sforzati di creare le condizioni della sinonimia o dell'accumulo dei poteri, cioè quelle del massimo potere. Per quanto riguarda le formule, le messe in relazione sintagmatica, queste possono piegarsi a tutti i rapporti di forza, definendo con rigidezza ma in modo vario chiavi

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d'interpretazione utilizzabili da quei soli individui che hanno il potere di imporne l'arbitrarietà, un'assiomatica il cui senso non deve esser cercato se non dalla parte di coloro che ne detengono il controllo.Non esiteremo dunque a usare l'espressione «totalitarismo di lignaggio» per indicare che nessun evento individuale può sfuggire all'interpretazione e che nessuna interpretazione esce dal quadro delimitato dal sistema legnatico. La legge sociale - trattando dell'eredità, della residenza, dei doveri economici - è allo stesso tempo legge individuale, biologica e fisiologica. L'eziologia delle malattie rinvia ai divieti la cui trasgressione (sociale) viene sanzionata (biologicamente), all'ereditarietà dei poteri e degli attributi psicologici, essa stessa legata alle regole giuridiche della discendenza e dell'alleanza, ai rapporti di forza che la teoria della stregoneria informa e mette in scena al di qua delle peripezie della vita di lignaggio. Ma la concezione della vita che può derivarne non è per questo passiva o fatalista; se ogni cosa può sempre essere spiegata, non è mai dato nulla. L'origine della malattia, della morte o, più in generale, dell'evento, viene rapportata a una causa esterna e, quando si tratta di eventi infausti, all'azione di un agente malevolo. La gente dell'entourage, da questo punto di vista, costituisce una griglia di interpretazioni alla quale tutti possono far riferimento, se non sono liberi di usarla a proprio piacimento (5).

IDEOLOGICA, SIMBOLISMO E PRATICA SOCIALE.

A questo punto si possono ricordare alcune precisazioni teoriche già menzionate. Il problema del simbolismo si trova all'incrocio di numerose attuali ricerche di antropologia. In questo campo, la tradizione francese manifesta di volta in volta o un eccesso o una mancanza. La tradizione di Griaule offriva più una sociologia dell'anima che una sociologia degli uomini; la più recente tradizione strutturalista ha progressivamente costituito un'antropologia dell'intelletto e delle configurazioni mentali; l'antropologia economica di orientamento marxista pare spesso ingombra, a conclusione dei suoi sforzi per articolare i modi di produzione, di una sovrastruttura di cui si sbarazza volentieri, facendone semplicemente una «rappresentazione» rovesciata dei rapporti sociali reali. Il termine «rappresentazione» pone dei problemi; con qualche approssimazione si potrebbe dire che viene generalmente impiegato nel senso di Durkheim, dove il sacro è la rappresentazione del profano e allo stesso tempo, in qualche modo, la sua «astuzia»: la deviazione per il sacro fa «passare» la legge sociale. Dio e la società sono un tutt'uno, ma è perché si adora Dio che si accettano le regole sociali. Il sacro funziona per il profano poiché lo traduce.Useremo qui il termine «rappresentazione» in un altro senso. Ogni organizzazione è simultaneamente rappresentazione di se stessa (sia che riguardi la parentela, l'economia o la politica). E' proprio, mi pare, ciò che intende Lévi-Strauss quando, nell'"Introduction à l'oeuvre de Marcel Mauss" (6), definisce la cultura come un insieme di sistemi simbolici, fra i quali annovera indifferentemente il linguaggio, le regole matrimoniali, le relazioni economiche, la scienza, l'arte, la religione. Sennonché, in Lévi-Strauss i «simboli» così intesi rimandano alle strutture inconsce, quelle strutture dello spirito umano che sono all'opera in realizzazioni parziali (i miti, le strutture della parentela) indipendentemente dalla loro localizzazione. La domanda che viene posta qui è un po' diversa e può essere formulata in molti modi: che cos'è la struttura di una simile totalità? Che cos'è l'efficacia simbolica in una data società?Il concetto di ideologica o di logica delle rappresentazioni designa la coerenza dei diversi ordini di «rappresentazioni» (nel senso non speculare) in una data società. Se appartiene all'ordine del simbolico o, più esattamente, a quello della simbolizzazione, è perché l'ideologica è la condizione e lo strumento di una pratica (d'interpretazione), e a questo titolo essa viene utilizzata sempre parzialmente (per l'interpretazione di un determinato evento) e tuttavia sempre in rapporto alla logica complessiva soggiacente alle espressioni simboliche della società, perché, insomma, essa non ha che un uso diacronico: il senso definitivo dell'interpretazione non appare se non al termine di un processo di enunciazione

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soggetto a ritocchi, a contraddizioni e a rielaborazioni, in funzione delle reazioni che provoca da parte di coloro che si riferiscono, pur da punti di vista diversi, alla stessa ideologica. Nel caso di una malattia, per esempio, la diagnosi fa riferimento al simbolismo complessivo della persona e dei poteri ma non ne fa che un uso settoriale; più esattamente, coloro che formulano una diagnosi utilizzano settori diversi del simbolismo complessivo; e queste diverse scelte (evidentemente legate alle rispettive posizioni sociali dei diversi locutori) costituiscono ed eventualmente esprimono dei conflitti. Se Ego si ammala, può accusare lo zio materno di attaccarlo (si parlerà allora di stregoneria ed Ego sarà considerato una vittima); può anche essere accusato di aver mancato di rispetto all'erede del padre e di aver pertanto attirato la maledizione di quest'ultimo (sarà allora considerato colpevole); può anche essere accusato di aver attaccato più duramente di quanto gli fosse consentito e di essersi scontrato con difese legittime. Il rapporto di senso s'impone così come un rapporto di forza (ma anche la forza è significante e significata); se il rapporto di forze cambia, cambia pure il senso. Il senso è sempre retrospettivo.Sotto questo aspetto, la simbolizzazione appare come l'attuazione dell'ideologica. In numerose analisi del simbolismo l'attenzione si concentra più sul simbolo che sul processo di simbolizzazione; il tratto comune a queste diverse analisi, di conseguenza, è che esse vertono su figure fisse; questo immobilismo dipende talvolta dalla realtà stessa dell'oggetto studiato, istituzionalizzato e ritualizzato (gesti compiuti, parole pronunciate nel corso di una consacrazione, di un'iniziazione... ), ma, in ogni caso, lo sforzo intellettuale di simbolizzazione non può essere compreso se non al termine della sua creazione, sotto forma di rapporti «simbolici» diretti (del tipo significante/significato: bianco = purificazione, nero = pericolo o lutto) e di rapporti intersimbolici (la giustapposizione di diverse coppie significante/significato costituisce un insieme specifico, e si può parlare, con Luc de Heusch, di una struttura simbolica dell'incesto reale o, con Rodney Needham, di una struttura simbolica della sinistra e della destra). Le stesse osservazioni varrebbero per tentativi «analitici» come quelli di Beidelman a proposito del simbolismo nuer, che conducono a fare dell'ambiguità dei temi simbolici (la lancia come pene socializzato, il bue come toro socializzato) un'espressione ridondante dell'ambiguità delle relazioni sociali. Il simbolo, tuttavia, rimanda ad altra cosa che a un'altra figura di se stesso; i Greci designavano con il nome di «simbolo» le parti troncate di un braccialetto la cui riunione provava, all'occorrenza, l'identità dei partner uniti da una relazione (simbolica o reale) di commercio. Allo stesso modo, mi sembra che l'interpretazione ideologica debba essere compresa in relazione a due totalità: quella della logica globale, che costituisce la somma di tutti i discorsi socialmente possibili (giacché ciascuno di questi discorsi stabilisce una relazione sintattica fra differenti ordini di rappresentazioni, una serie di accordi nel senso grammaticale del termine); quella dell'interpretazione definitiva, della totalità lineare, della diagnosi compiuta, della necessità retrospettiva che, conclusi gli scontri, le suggestioni e i silenzi, identifica il senso e la forza e non può essere compresa se non in occasione di eventi concreti e specifici. Diciamo, riferendoci al linguaggio qui utilizzato, che i simboli sono dalla parte degli elementi paradigmatici appartenenti all'ambito della prima arbitrarietà evocata sopra, mentre la simbolizzazione è uno dei processi di concatenamento sintagmatico attraverso cui si definisce l'ideologica. Il nostro proposito risulterà forse più chiaro se lo mettiamo in relazione con le ipotesi di Leach in "Nuove vie dell'antropologia" (7). Secondo Leach, i figli di una coppia possono essere assegnati al gruppo di ciascuno dei genitori sia tramite incorporazione, permanente o parziale, sia tramite alleanza. Le relazioni d'incorporazione verrebbero simboleggiate ed espresse in termini di sostanza fisica (ossa, carne, sangue), mentre le relazioni di alleanza verrebbero simboleggiate ed espresse in termini sovrannaturali ("mystical") d'influenza e di potere.Qui si tratta di sostituire al modello metaforico di Leach, che riduce il simbolismo a una figura (8), un rapporto d'ordine «sintattico». La descrizione del simbolismo elementare della società alladiana potrebbe presentarsi come una serie

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spezzettata di rapporti duali speculari: sangue = discendenza agnatizia, forza difensiva = discendenza agnatizia, stregoneria = matrilignaggio, potere di maledizione = matrilignaggio paterno, forza lavoro = figli degli uomini del matrilignaggio. Sembra sia più interessante e maggiormente rivelativo del gioco ideologico ricostituire la somma degli enunciati possibili, degli enunciati impliciti e degli enunciati sostenibili e plausibili. Questi enunciati, l'abbiamo visto, si formano a partire da serie paradigmatiche che corrispondono ai diversi ordini di rappresentazioni concepibili ed esistenti (per esempio, i poteri psichici, le componenti che costituiscono la persona, le relazioni sociali, le attività economiche). Qualsiasi elemento di ciascuna di queste serie può venir messo in rapporto con qualsiasi altro elemento di una serie diversa: del potere di stregoneria (awa) si può dire che attacca una delle istanze psichiche (ee) di un uomo dello stesso matrilignaggio (etyoko) dell'aggressore in occasione di una questione di eredità (adya); del seke (potere di difesa) si può dire che si trasmette con il sangue (nkre) lungo la linea agnatizia; della maledizione (aüeda) si può dire che si esercita sul figlio di un uomo del matrilignaggio (ebiwï) in relazione a questioni di residenza o di prestazioni di lavoro eccetera.Ma questa teoria ideologica, che in qualche modo stabilisce una somma di costrizioni intellettuali, è riempita di silenzi che esprimono costrizioni sociali; più esattamente, l'ideologica è metonimica: non esprime la dipendenza dei giovani se non enunciando la legge degli anziani; parla in modo universale, parla a tutti come se parlasse di tutti; si rivolge a tutti, ma in particolare a coloro di cui non parla e a cui la parola è negata. Parla degli anziani, cioè di coloro che non sono necessariamente vecchi ma che molto probabilmente lo diventeranno (9): al limite, diventeranno vecchi perché sono anziani potenziali. La longevità si accompagna alla forza che viene ereditata tendenzialmente lungo la linea agnatizia dei primogeniti. Il primogenito possiede una posizione sociale che non lo condanna all'astensione e al silenzio; è tenuto a essere prudente, ma sa vedere con chiarezza (la chiaroveggenza è anche un attributo della forza). L'evento può rimettere in causa le pretese all'anzianità, ma alcuni individui sono inscritti nel disegno delle stirpi come anziani infinitamente più plausibili di altri. Coloro che sono troppo lontani dalla seniorità ["séniorité"] verticale (l'appartenenza a una stirpe maggiore) o orizzontale (l'ordine delle nascite) non costituiscono, a prescindere dalla loro età effettiva, anziani veramente credibili. Eredità ed ereditarietà, leggi sociali e leggi biologiche si sovrappongono per costituire altrettante linee di forza. Le regole della presa di parola sono incluse nelle regole sintattiche.Ogni parola comporta un rischio: colui che parla si scopre; questo è vero anche delle azioni; ma i rischi non sono uguali; una posizione sociale forte consente alla parola e agli atti di esprimersi più liberamente. Una buona conoscenza della propria posizione rispetto ai diversi mondi che compongono il proprio entourage in senso lato è necessaria all'individuo che, novello Ulisse, sa che la forza non esclude l'astuzia, che l'arte di convincere non si identifica con l'eloquenza e che l'arte del saper vivere si lega in larga misura alla capacità di lasciare che le cose maturino. Le costrizioni relative e continue che pesano sulla vita individuale, sullo sfondo, non possono essere comprese se non all'interno del sistema interpretativo in cui funzionano, ma esse non definiscono meccanicamente le condotte da tenere. Nessuno ha da solo l'intero dominio, non fosse altro perché nessuno ne ha il completo controllo, della produzione dei segni (degli eventi, significanti per definizione). Tutti sanno che atti ed eventi verranno interpretati secondo una logica costrittiva ma non meccanica, che lascia al tempo il suo ruolo (c'è un tempo dell'evento, un tempo dell'interpretazione o delle interpretazioni, a volte un tempo della conferma, dell'invalidazione o dell'aumento della complessità). L'atto accenna prima di esprimere. Il significato è al passato ma anche al plurale: alla mercé del futuro, dell'evento e dunque, in parte, degli altri. L'ideologica corrisponde a una visione relativamente deterministica ma assolutamente esistenzialista della vita.Di qui la necessità pratica di misurare i suoi segni: le sue parole, azioni, ricchezze. Il gioco complesso e ponderato dell'ostentazione e della discrezione

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corrisponde a un obbligo di natura (si dà sempre a vedere) e a delle strategie pratiche (lasciar vedere, lasciar intendere). Nella festa ostentativa (la festa delle ricchezze ebrié, per esempio), l'individuo ricco mette in mostra, più che la sua ricchezza personale, quella dei suoi lignaggi di riferimento; in questo modo, egli parla discretamente della sua ricchezza e aggressivamente della sua influenza sociale; il discorso (la diagnosi, il consiglio, l'accusa) usa giri di parole (litoti, metonimie, silenzi): queste pratiche sono tutti «tentativi» che traggono senso, retrospettivamente, dalle risposte che sollecitano. Su questo punto non si può che convenire con le osservazioni molto stimolanti che Pierre Bourdieu (10) consacra alle pratiche «che si definiscono per il fatto che la loro struttura temporale, ovvero il loro orientamento e il loro ritmo, è costitutiva del loro senso»; Bourdieu sottolinea giustamente come sia necessario, affinché il sistema funzioni, che gli agenti non ignorino gli «schemi» che organizzano i loro scambi, senza per questo riconoscere completamente la logica esplicitata dal «modello» meccanico dell'antropologo. Eppure, non si può forse ammettere che lo schema tenda a identificarsi con il modello nello spirito del «virtuoso maestro della sua 'arte di vivere'», come dice ancora Bourdieu, il quale può servirsi di tutte le possibilità offerte dall'esistenza simultanea di costrizioni logiche e di zone sociali d'indeterminazione, per poco che la sua posizione sia, quella sì, chiaramente determinata e adatta a favorire l'interesse per i suoi propositi e la credibilità delle sue azioni?In generale, la distinzione fra schema e modello non è del tutto compatibile con il concetto di ideologica. L'osservatore non è più in grado dell'attore di stabilire la somma del possibile e del pensabile. Può solo constatare, con l'attore stesso, la necessità delle verità retrospettive, delle totalità lineari compiute. Con lui può comprendere la logica delle forze in gioco. L'antropologo può discernere, come fa l'attore, il carattere non meccanico dei modelli d'interpretazione di cui egli stesso prova a interpretare la logica. E solo provando a formulare le leggi di composizione del discorso o della pratica ideologica, le strutture (sintattiche) elementari dell'ideologica che supporrà essere all'opera in ogni ideologica che egli stabilirà un'ipotesi propriamente antropologica, generalizzata e applicabile a ogni forma di società e di potere. Il paragone che Bourdieu tratteggia fra le molteplici possibilità della pratica sociale e l'infinita molteplicità delle corrispondenze suono-senso, determinate nel cervello, secondo Chomsky, dalla combinazione di un sistema di strutture e di un sistema di regole, forse non è, da questo punto di vista, del tutto convincente: l'ordine e la teoria della pratica compongono innanzitutto una teoria dell'ordine sociale; e i percorsi che portano dall'ordine sociale all'ordine intellettuale e a quello individuale non sono illimitati: si può essere tentati di trovarne la traccia e il senso. Tali percorsi non costituiscono per questo un «repertorio di soluzioni tipiche» cui chi agisce non avrebbe che da attingere, né «un programma predeterminato da un meccanismo semplice»; bisogna semplicemente riconoscere localmente lo stesso grado di libertà relativa al modello indigeno e al modello dell'osservatore (si tratta, di fatto, dello stesso modello) e, a un livello maggiore di riflessione, considerare che le forme del potere (identiche, in questo caso, alle sue pratiche), le forme di relazione che esso impone al pensiero della pratica e alla pratica del pensiero, esse stesse confuse, sono in numero limitato, indipendentemente dall'immensa varietà delle scelte paradigmatiche e dal carattere non meccanicistico delle combinazioni sintagmatiche.Se ci si attiene provvisoriamente alle analisi precedenti, si ricorderà, per lo meno come un primo elemento di conclusione, che la logica lignatica è una logica totalitaria in un triplice senso:1) Essa pensa insieme l'individuo e la società in termini tali che l'individuo è costretto a pensare il suo divenire in rapporto agli altri (altri selezionati e privilegiati).2) Essa è costituita da diversi ordini di riferimento, i quali si declinano ciascuno per proprio conto (costituendo dei «paradigmi») e si accordano o si coniugano gli uni con gli altri (costituendo dei «sintagmi»). La sintassi logica si confonde così con la pratica sociale; le regole sintattiche costituiscono la teoria

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di tutti i discorsi e di tutte le pratiche possibili, non nel senso che il discorso rispetta la sintassi, ma nel senso che le combinazioni che esse autorizzano (e, implicitamente o esplicitamente, quelle che proibiscono) definiscono le leggi della presa di parola e, al tempo stesso, i limiti del diritto e del senso.3) Essa costituisce ogni società come umanità. Ogni società lignatica riconosce e respinge la diversità delle altre. Non se ne serve che per assoggettarla: lo schiavo consente ai potenti di moltiplicarne le possibilità di costrizione e di accumulo del sistema.Il totalitarismo logico-sociale non toglie nulla alle difficoltà della pratica e all'angoscia del vivere. La tendenziale identificazione dell'ordine sociale, dell'ordine individuale e dell'ordine intellettuale mette a confronto le pratiche con i temibili rischi della necessità retrospettiva e ineluttabile. Nessuno è al riparo dal rischio, ma gli individui sono diversamente armati per fronteggiarlo e questa disuguaglianza è, in ultima analisi, sociale.

LE STRUTTURE DELL'IDEOLOGICA.

- Rapporti di forza e rapporti di potere.

I reami dell'Africa orientale, nell'evocazione che ne fa Luc de Heusch, hanno affascinato Deleuze; egli crede di scoprirvi l'essenza del despota e il senso della fondamentale rottura con la quale viene abolita l'esistenza della terra come corpo pieno e come superficie d'iscrizione. Il corpo pieno del despota darebbe il cambio alla terra quando lo Stato si sostituisce al "socius" primitivo. Ma che cosa ci rivela invece l'antropologia africanista? Che tutti i tratti attraverso i quali si pretende di definire l'originalità del despota sono attestati in forme di potere estremamente diverse. Non alla maniera di presentimenti o di rimorsi metafisici con i quali il potere esprimerebbe la sua impotenza, né come una «surcodificazione» distinta da altre forme d'inscrizione, ma in quanto strutture elementari di ogni relazione politica e anche di ogni rapporto sociale (giacché nessuna forma sociale sfugge alla dimensione del potere che definisce e mette in atto le sue gerarchie). Reami, "chefferies" e lignaggi dipendono comunque da queste strutture elementari dell'ideologica di cui abbiamo cercato di mostrare fino a questo momento il carattere sintattico, che ordinano in enunciati pensabili ed enunciabili le condotte definite possibili; a questo livello di analisi non esiste più alcuna distinzione pertinente tra forma e contenuto, tra dire e fare, tra grammatica e diritto di parola, non più che tra i diversi sensi della parola struttura presi in considerazione rispettivamente dall'antropologia funzionalista e dall'antropologia strutturalista.Le strutture dell'ideologica si presentano infatti contemporaneamente come modi di dire e modi di fare. La teoria della stregoneria che definisce un senso privilegiato di esercizio e di trasmissione del potere di stregoneria non può essere compresa senza riferimento alla teoria delle istanze psichiche e dell'esercizio e della trasmissione degli altri tipi di influenze; le regole d'uso dei termini che corrispondono ai concetti di «stregoneria», «antistregoneria», «maledizione», «potere di difesa», sono quindi implicate dalla semplice caratterizzazione di questi poteri. Dire il senso privilegiato (plausibile) della trasmissione, significa anche orientare la pratica di coloro i quali, a seconda della loro posizione rispetto alle linee di trasmissione (linee di forza e di senso, stirpi sociali), si trovano o meno nella situazione, eventualmente, di accusare, protestare, sottintendere o tacere. Comunque, una volta sopraggiunto l'evento (morte, malattia, sventura) che fa scattare pratiche istituzionali quali l'interrogazione del cadavere, la consultazione di chiaroveggenti, la riunione di lignaggi alleati, l'indagine delle classi di età, la sepoltura, i funerali... la griglia del rapporto di forze, il cui legame con quella dei rapporti sociali è esplicito e manifesto, viene utilizzata come strumento per decifrare il senso che questo evento sottintendeva; di qui, tutta una serie di altre pratiche dipendenti eventualmente dalla totalità lineare ricordata sopra, al termine delle quali tutte le condotte e tutte le pratiche traggono il loro senso retrospettivamente dalla

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loro inscrizione finale nella griglia d'interpretazione. Ogni gesto, ogni parola costituisce un rischio teorico; ogni riferimento alla teoria è già un'iniziativa pratica.Strutture del dire e del fare, le strutture dell'ideologica esprimono il dominio di coloro che dominano ma informarlo il discorso e la pratica di tutti: esse costituiscono al tempo stesso l'espressione e l'efficacia della dominazione. Si tratta, a questo, punto, di non confondere due distinte questioni; la prima riguarda la ragione (storica) della dominazione di un gruppo o di una categoria dati in una determinata circostanza; la seconda concerne l'efficacia della dominazione e della repressione, il fatto che i dominati subiscono, accettano e pure condividono il sistema ideologico che costituisce e rende eterna la loro situazione. L'analisi di queste strutture ideologiche non è, a rigore, interessata se non dalla seconda questione. La prima questione riguarda un altro tipo di analisi, almeno per alcuni dei suoi aspetti; questo non vuol dire che l'analisi ideologica non sia interessata dal cambiamento: definire l'ideologica di una data società non significa descrivere un sistema chiuso di rappresentazioni da cui essa non potrebbe affrancarsi; tutto lascia pensare invece che la parola e la pratica dei dominati si esprimano all'interno del sistema in cui essi devono inserirsi fino a quando non lo sovvertono, e tale espressione è un segno da cui l'analisi del cambiamento non può fare astrazione; inoltre, in tutte le situazioni pudicamente caratterizzate dall'antropologia come situazioni «di contatto», la reazione ideologica delle popolazioni dominate - pratiche di resistenza, di ripiego, di collaborazione, tentativi d'interpretazione della nuova situazione, di prese in prestito dallo straniero invasore o dal passato mitico - deve essere analizzata come la pratica stessa del cambiamento e non come la semplice rappresentazione che se ne farebbero coloro che lo subiscono senza averne il controllo. Sicuramente l'analisi dell'ideologica lignatica in crisi non può stabilire da sola la spiegazione storica dell'imperialismo occidentale coloniale o neocoloniale da cui essa stessa dipende; ma sarebbe ugualmente insufficiente affermare che l'ideologica lignatica in crisi ci «parla» del colonialismo e dell'imperialismo - tale affermazione, che sembra a prima vista evidente, sottintende in modo insidioso che alcune pratiche non fanno che «rappresentarne» delle altre, che laggiù non si suona che la stessa aria di qui, semplicemente con un po' più di noncuranza, di fantasia o di note stonate. Al contrario, essa è un luogo della storia e della pratica attuali: non «rappresenta» che se stessa, come tutte le ideologiche; la novità (ma questo non riguarda solo le società lignatiche) è l'estendersi dell'orizzonte politico all'insieme del mondo; il fatto nuovo, trattandosi delle società lignatiche e di alcune altre, è che niente nel loro divenire implicava a così breve scadenza una tale estensione: per un periodo esse sono state dunque condannate alla reazione. Da qui a pensare la loro pratica in termini di riflessi e il loro avvenire in termini di sviluppo, non c'è che un passo, passo compiuto allegramente da numerosi osservatori ed esperti presto stupiti, quindi scoraggiati, dalle forme aberranti o caricaturali che assume ai loro occhi un'evoluzione ritenuta inevitabile (il che è un truismo) e concepita come lineare (il che è una sciocchezza).Analizzare l'ideologica di una società significa dunque analizzare tutta questa società o, più precisamente, l'organizzazione dei poteri che la costituiscono e dei poteri che essa istituisce, in tutti i loro aspetti, compresi quelli più problematici. L'analisi ideologica non può specificarsi in un'antropologia politica, in un'antropologia religiosa o in un'antropologia economica; per definizione, essa respinge queste distinzioni; ma le analisi globali dell'economia e della storia, che la riguardano nella stessa misura in cui i fenomeni che queste studiano su grande scala influenzano progressivamente i dati locali, evidentemente non si riducono a essa. I territori dello storico, dell'economista e del sociologo si confondono in luoghi determinati e circoscritti, ma i loro principi esplicativi restano distinti su più vasta scala. Si potrebbe senza dubbio assegnare alla storia e all'economia lo studio dei rapporti di forza e all'antropologia quello dei rapporti di potere; se i secondi dipendono in modo quanto mai evidente dai primi, essi non si inscrivono nella loro stessa durata: il potere non è mai tanto

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repressivo come alla vigilia del suo crollo; non è mai tanto tentato di servirsi della forza come quando la sua debolezza diventa palese, quando il mutamento dei rapporti di forza diventa a tutti evidente. Precisiamo ancora che i poteri non vanno tutti allo stesso passo del potere; dei sintagmi sono ancora o già formulabili, pensabili e messi in opera quando la rivoluzione delle istituzioni si è già o non si è ancora realizzata: l'istituzione non è che un elemento della sintagmatica del potere e indubbiamente è più vulnerabile di altri, malgrado la sua resistenza, all'evoluzione dei rapporti di forza. Quanto all'analisi di queste forze, essa si riferisce alla lunga durata e talvolta ai diversi spazi: l'evoluzione delle curve demografiche, le trasformazioni dell'attività economica, l'ascesa di nuove classi, lo stato del mercato internazionale non compaiono nella configurazione locale dei poteri e nella coscienza degli attori sociali che al termine della loro azione «strutturante», questo termine avendo esso stesso la propria durata e non essendo mai immediato: la messa alla prova dei poteri precede la crisi del potere; una contraddizione totale fra i poteri e il potere non è, letteralmente, pensabile, e l'effetto di rivoluzione o di sovversione del potere è un effetto di rottura; ma la flessibilità sintattica dell'ideologica le permette di «reggere» nell'attesa della rottura: sotto Luigi Quattordicesimo il gentiluomo borghese è ricco ma ridicolo; lo snobismo dei "parvenu" che non sono ancora arrivati è l'inversione permanente ma alla rovescia, il plagio, la caricatura, il mimetismo, la debolezza e la forza relativi di coloro che si trovano in posizione di forza ma non hanno né il potere né tutti i poteri; l'aspetto del rapporto di forza fuorvia, dato che si riflette nello specchio del potere: immaginare M. Jourdain (11) al potere è indubbiamente molto difficile, ma pur sempre meno difficile, agli occhi dei piccoli signori o degli aristocratici in rovina che gli spillano denaro, che farne l'arbitro delle eleganze. Se nessuno presta attenzione alla propria prosa (gli viene così naturale!) è perché vuole fare dei versi. L'Occidente, oggi, non si stanca delle «eccentricità» dei suoi re-negri o dei suoi emiri; queste rassicurano, inquietano, affascinano.L'antropologia ideologica tende a ricostituire la configurazione del potere e dei poteri in un luogo e in un momento determinati. Postula anche che configurazione e pratica dipendano da strutture omologhe in tutti i tipi di società; questa omologia, d'ordine pratico e sintattico, è di per sé un oggetto distinto da quello della storia e dell'economia, ma vi si integra e ne dipende. L'analisi ideologica può vertere indifferentemente, a differenza dell'analisi strutturalista, sulla realtà di una determinata società o sulla realtà comparativa di diverse società; essa deve riguardare simultaneamente, a differenza dell'analisi storicistica o economistica, la realtà individuale e la realtà sociale. Infine, per essa, contatto e cambiamento sono oggetti di analisi antropologica. Il potere non è potere, riconosciuto ed efficace, se non in quanto riesce ad apparire, più o meno approssimativamente, come la somma dei poteri. Non si può concepire in modo duraturo un potere istituito contro uno dei poteri che dovrebbero costituirlo. Questi poteri, di cui abbiamo ricordato la diversità e la convergenza a proposito delle società lignatiche, concernono tutti i rapporti di senso e d'interpretazione: del sé con il sé, del sé con l'altro, del sé con gli altri e degli uni con gli altri. Quale che sia il grado d'indipendenza o d'autonomia istituzionale di questi poteri, è la logica delle loro relazioni esplicite e implicite a costituire, in senso proprio, la logica del potere stesso. Questa ideologica sembra strutturarsi secondo tre modalità complementari, tre regole sintattiche pratiche.La prima di queste è la messa in relazione o sdoppiamento, attraverso la quale s'impone una dialettica dell'interno e dell'esterno e si esprime la vulnerabilità aperta dell'individuo; la seconda la metonimia, attraverso la quale s'impone una dialettica del singolare e del plurale e si esprime il carattere naturale delle costrizioni gerarchiche; la terza è l'inversione, attraverso la quale s'impone una dialettica del medesimo e dell'altro e si esprime il carattere non individuale del potere.

- Il doppio.

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L'identità, nelle società lignatiche africane, si definisce sempre in modo relativo: in relazione all'altro (padre, nonno, antenato) che interviene parzialmente nella costituzione della persona biologica e psichica (in termini di eredità), in relazione a coloro (parenti, alleati, membri della stessa classe d'età) la cui azione o reazione influisce non solo sul comportamento della persona ma sulle sue componenti (in termini d'entourage). Sotto questo aspetto, le credenze nella stregoneria rappresentano il complesso più spettacolare; la malattia e la morte vengono spesso attribuite all'azione di un altro, il quale, secondo la teoria locale, può essere situato in termini sociali rispetto alla vittima. Abbiamo già insistito, qui e altrove, sulla costrizione sociale che impone questi tipi di credenza: presso gli abitanti delle lagune della Costa d'Avorio, il primo a essere sospettato (il capo del matrilignaggio del morto) è anche il solo che può decidere se il cadavere sarà interrogato o no. Sono molti gli esempi che esprimono la necessità di distinguere fra sospetto e accusa e che invitano a riconoscere i legami teorici e pratici esistenti nelle società locali fra poteri psichici ("mystical", dice Leach) e potere politico. Le teorie dell'influenza e della forza psichica, dei poteri spirituali di aggressione di difesa non descrivono i margini del sistema o i marginali del potere ma il sistema e il potere stesso. Così, il rapporto del sé con il sé è sempre già un rapporto del sé con l'altro e il rapporto con l'altro è sempre già un rapporto sociale inscritto nella configurazione politica. Allo stesso modo, il biologico è sempre già parte anche dello psichico; la salute del corpo e dello spirito è alla mercé d'un potere esterno; lo psichico fa parte ancora del Sociale, tanto che ogni disordine del primo rimanda a un disordine del secondo; i turbamenti somatici o psichici rinviano sempre a una perturbazione dell'ordine sociale dove normalmente si situano le relazioni padre/figli, zio/nipoti, sposo/sposa, le relazioni fra alleati, fra membri dello stesso lignaggio, co-residenti, membri d'una stessa generazione eccetera. L'identità è sempre minacciata non solo nel suo equilibrio o nella sua esistenza, ma nella sua stessa definizione: un "awa wro" (stregone) morto, o più esattamente il suo "wawi" (questa parte dello psichismo che si sposta «in doppio» su altri per attaccarli o difenderli), può imbattersi in una donna incinta e sostituirsi o integrarsi al bambino che essa porta in grembo; i segni scoperti alla nascita di un bambino possono rivelare che egli incarna parzialmente un antenato scomparso - la stessa regola vale nel caso del figlio maggiore del figlio maggiore di un morto; ma capita che il cambiamento d'identità avvenga durante la vita di un individuo il quale eredita lo "wawi" del fratello o del nonno prima della loro morte.Come dire che la forza fisica e morale non è mai indipendente dal potere che l'esprime o che, in ultima analisi, la vera forza è sempre legittima. Una posizione sociale forte autorizza solo una rivendicazione d'influenza e d'autorità che, isolata, diventa sospetta e può essere messa in discussione e denunciata se non poggia su una realtà istituzionale: la dipendenza psicologica e la sottomissione sociale sono tanto più irreversibili dato che tendono a corrispondere agli stessi tipi di relazione sociale. Poiché i sistemi che permettono di misurare forza, influenza e potere sono essenzialmente schemi d'interpretazione dell'evento, l'individuo è costantemente invitato a rapportare le incognite della sua esistenza, compresi i fatti della sua vita biologica più intima, alla condizione della sua situazione e delle sue relazioni sociali. Misura dell'altro e misurata sull'altro, l'identità non si costituisce se non rischiando di perdersi; ma essa non si costruisce mai se non in rapporto allo sguardo e alla posizione degli altri: nel loro sguardo si leggono, s'indovinano o si apprendono l'interpretazione di comportamenti dal senso fondamentale e il verdetto che foggia retrospettivamente la verità della persona; quanto alla posizione degli altri, essa definisce di rimando le diverse situazioni di cui l'individuo deve tener conto per definire, insieme alla sua posizione strutturale, la sua identità. Non senza rischi: il margine d'incertezza che separa la definizione meccanica dell'identità personale dalle ipotesi plausibili non si riduce che alla sperimentazione, in funzione delle lezioni dell'evento, degli atteggiamenti e delle reazioni dell'entourage; è significativo che, in numerose società africane, il termine che designa una delle presunte istanze dell'apparato psichico connoti la nozione d'ombra aggettata: un

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elemento essenziale dell'identità personale non si manifesta così se non alla luce del giorno, nello sguardo degli altri; e se scompare, una volta sopraggiunta la notte, è per unirsi alla battaglia delle ombre, alla vita notturna «in doppio» i cui risultati non si misurano, a lungo termine o d'improvviso, se non quando è tornato il giorno. Nella congerie dei sogni, che la prudenza ordina di ricordare e interpretare, chi saprebbe distinguere a colpo sicuro la traccia delle aggressioni subìte da quella delle aggressioni compiute o tentate? I fantasmi notturni aggiungono un dubbio a tutti quelli che l'individuo può avere sul proprio conto e che, in definitiva, solamente la coscienza e la pratica degli altri dissiperanno.L'ordalia e l'autopsia cercano di scoprire all'interno del corpo il marchio (il riflesso interiore o la traccia fisica) rivelatore di una natura e di un'identità; la letteratura africanistica è ricca di informazioni riguardanti poteri ("ker" per gli Alur, "tsav" e "swem" per i Tiv... ) simultaneamente fisici, psichici e politici che possono ancorarsi alla carne stessa, nell'intimità viscerale dei loro detentori, pur non essendo necessariamente acquisizioni di sempre o per sempre. Presso gli abitanti delle lagune ivoriane la capacità di rigettare facilmente, di vomitare il veleno della prova ordalica, dimostra meno l'innocenza che la forza, ma s'intende che quest'ultima, quand'anche costituisca l'essenziale del senso e dell'identità della persona, proviene da un altro luogo e va altrove, si intende anche che la prestanza e la buona salute diurne e quotidiane sono indizio di una vittoria incessantemente riaffermata nel combattimento notturno delle vite in doppio; la forza stessa si manifesta incessantemente, il che equivale a dire che si manifesta attraverso il rapporto con gli altri e che tale manifestazione è quella stessa del potere. L'individuo si sa e si sente sempre già sociale.

- La metonimia.

Ma dove si situa l'altrove in rapporto al quale l'individuo si definisce, si costruisce e si cimenta nell'esistenza sociale? Questo altrove stesso è descritto, indicato e orientato dalle linee di forza e di senso che tracciano le teorie locali dell'ereditarietà, dell'eredità e della successione.«Non si rompe il lignaggio», dice la teoria della laguna, giustificando così la trasmissione «orizzontale» dell'eredità e della successione (da primogenito di stirpe a primogenito di stirpe, con ritorno alla stirpe maggiore allorquando si è esaurita la lista dei primogeniti di stirpe). Tuttavia, da una parte la stirpe maggiore resta preponderante e la segmentazione minaccia pertanto che l'allargamento della catena genealogica tenda a rendere inoperante la gerarchia delle stirpi, dall'altra parte la teoria passa sotto silenzio - appunto perché parla in termini di stirpi - tutti i non primogeniti la cui probabilità di accedere all'eredità e alla successione diminuisce in proporzione diretta con l'allontanamento dalla stirpe maggiore, con l'allontanamento dal primogenito della propria stirpe e con l'ampiezza della catena genealogica.Da ciò si traggono almeno due insegnamenti: la segmentazione lignatica è un principio di ordine; lungi dall'intervenire necessariamente contro l'ordine esistente, essa è utile alla riaffermazione del principio di anzianità; in secondo luogo, le regole di successione e di eredità formulano in un linguaggio universalistico, al singolare-plurale (come l'etnologo che parla di zio e di nipote, di padre e di figlio), principi che riguardano in modo diverso coloro di cui parlano e coloro a cui si rivolgono. Per la maggior parte degli individui i problemi di eredità non concernono che qualche bene particolare; l'accesso alla piena «cittadinanza», che si realizza progressivamente sotto il controllo di un anziano (presso gli abitanti della laguna, il padre o l'erede del padre), è ben più significativa, giacché consacra il raggiungimento dell'autonomia relativa, l'accesso diretto alla produzione e la possibilità, offerta con l'autorizzazione a sposarsi, di avere figli e di crearsi un ambito di produzione e di autorità relativamente indipendente; questo accesso assomiglia molto, per certi versi, a un'eredità: infatti, un individuo non acquisisce il diritto di esercitare i suoi doveri paterni fin quando il padre non rinuncia ai propri; ma questa stessa rinuncia non interessa che le prestazioni ordinarie. L'«affrancamento» dei figli

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comporta per loro l'obbligo di versare prestazioni al proprio matrilignaggio, di modo che, per i capi di matrilignaggi potenti, la rinuncia ai diritti paterni produce come normale contropartita un rafforzamento dei diritti avuncolari.La successione e l'eredità in linea materna non interessano che un numero molto limitato di individui, sebbene la formulazione della regola possa lasciar intendere che tutti i rappresentanti di una stessa generazione debbano avervi accesso prima che i membri della generazione precedente possano avanzare pretese. Ma questa indicazione ugualitaria della regola non corrisponde ad alcuna realtà; la vera distinzione fra maggiori e cadetti non è una questione di generazione: essa si applica all'ordine delle nascite in uno stesso gruppo di fratelli, all'ordine delle stirpi all'interno di uno stesso lignaggio. La sola conseguenza del linguaggio universalistico della regola è che esso non esclude nessuno a priori; la regola stessa non deve essere considerata al di fuori del suo rapporto con le altre norme, in particolare quelle dell'ereditarietà; quando un giovane viene scelto a spese di un altro più attempato, quando una stirpe viene favorita a spese di un'altra meglio situata, non si tratta di un'eccezione rispetto a una regola definita in maniera esclusivamente giuridica; di fatto, si può dire indifferentemente che nessuna istituzione è assolutamente autonoma o che nessuna regola è strettamente esclusiva; la costrizione nasce dal rapporto intellettuale postulato fra diversi elementi; la posizione sociale è uno di questi, ma non si manifesta pienamente se non in rapporto alle altre caratteristiche (salute, fortuna, intelligenza...) dell'individuo che la occupa e di coloro che possono avanzare pretese su di essa; tutte queste caratteristiche non vengono osservate, analizzate e interpretate se non in quanto segni che rimandano agli altri elementi costitutivi dell'identità individuale, soprattutto le diverse forze ereditate per via agnatizia o per via uterina. Il vero potere è l'accumularsi in uno stesso individuo di tutti questi elementi; ma se i fatti manifestano un certo scarto fra collocazione ideale e la situazione reale degli individui (accade che un fratello minore si dimostri per esempio molto più adatto del maggiore alla gestione del lignaggio), questo scarto potrà essere ridotto cambiando la posizione sociale degli individui interessati, non per mezzo di un colpo di forza giuridica ma attraverso la sottomissione all'ordine del potere. E' evidente che questa logica delle cose lascia uno spazio alle strategie della pratica; ma questa evidenza non contraddice affatto quella della potenziale identificazione fra ordine delle cose, ordine intellettuale e ordine sociale. Essa rammenta piuttosto l'istituzione della guerra tra fratelli nemici e l'indifferenza mostrata dai reami dell'Africa orientale verso la persona del sovrano, per poco che sia riaffermata l'identità del potere.Se il discorso sull'eredità e sulla successione non parla che dei punti forti del sistema, quantomeno esso si applica a tutti; l'universalità del suo disegno, la non esclusione sul piano teorico degli individui (la maggioranza) situati a lato delle linee di forza sono ciò che determina la sua efficacia. Più precisamente, la pratica di coloro che non ereditano nulla e che non succedono ad alcuno si definisce nel silenzio del discorso che parla della gestione dei beni e delle persone; l'universalità teorica del diritto all'eredità o alla successione afferma implicitamente l'universalità del dovere di sottomissione; se la teoria del diritto prescrive la pratica del dovere, è parlando solo dei luoghi (o degli individui) in cui forza e senso si concentrano e rispetto ai quali devono situarsi (o agire) tutti gli altri. L'eredità, inoltre, non si legittima se non attraverso il suo rapporto fondamentale con l'ereditarietà, e tutte le teorie della trasmissione delle influenze, buone o cattive che siano, parlano al singolare-plurale: il potere di difesa, si dirà, si trasmette di padre in figlio presso gli abitanti delle lagune, oppure di nonno in nipote; ma per essere più precisi occorre distinguere la linea così definita relativizzando al tempo stesso il rigore della trasmissione: la linea di trasmissione non passa che per gli anziani (padre, figlio primogenito del padre, figlio primogenito del primogenito del padre...) ma questo ordine di trasmissione non è che virtuale, preferenziale; l'evento, la constatazione di un'insufficienza invitano a reinterpretare una situazione di cui la teoria riuscirà sempre a render conto, poiché interpretare è la sua prima funzione e poiché le catene sintagmatiche dell'interpretazione correggono l'effetto paradossale di

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questo o quell'elemento rispetto alla concatenazione inizialmente prevista, cambiando anche alcuni elementi messi in relazione con esso. In termini di forza, tutti i rovesciamenti d'interpretazione sono possibili; e questo vale anche per le forze di aggressione (trasmesse per via uterina). Ma comunque sia, la linea di forza è sempre distinta.E' particolarmente degno di nota che presso gli Ashanti la pratica del matrimonio con la cugina incrociata patrilineare caratterizzi le famiglie principesche, le quali cercano di riprodurre nella persona del nipote (primogenito) la formula psichica completa del nonno paterno, con tutti i poteri che gli sono associati e, più ancora, con tutta l'ambiguità che corrisponde a questo accumulo. La teoria del potere vuole che poteri distinti e qualificati (quelli della linea agnatizia e quelli della linea uterina) s'intersechino negli uomini che esercitano il potere - potere al contempo inqualificabile e indenunciabile. Parlare di poteri è parlare del potere; praticare il matrimonio con la cugina incrociata patrilineare è creare le condizioni della discendenza unica e cumulativa del potere; descrivere i percorsi rispettivi di ciascun principio spirituale è esprimere l'efficacia del loro accumulo, il carattere inqualificabile del potere. Parlare dell'ereditarietà è parlare dell'eredità; parlare degli stregoni è parlare dei lignaggi; ma anche: produrre una diagnosi su una malattia è intervenire nella politica lignatica o di villaggio, particolarmente in materia di gestione di beni o di organizzazione del lavoro; interrogare un cadavere è chiamare in causa l'organizzazione politica del lignaggio. L'ideologica descrive la semplicità lineare delle cause per indicare la complessità cumulativa degli effetti. E' il discorso sulle cause che invita a vivere l'evento come effetto; in questo senso l'ideologica è già metonimica e la metonimia in quanto affermazione della causa per parlare dell'effetto non è che l'equivalente quantitativo dello «sdoppiamento» o della concezione persecutoria del male testimoniata dalla pratica di lignaggio: l'ambiguità e la forza del potere rimandano alle rispettive singolarità dei diversi poteri.L'ideologica è «metonimica» in un altro senso, più ampio o più approssimativo, ma abbastanza strettamente solidale con il primo: è attraverso la descrizione della parte (le linee selezionate della trasmissione dei poteri) che essa traccia i contorni del tutto (la totalità gerarchizzata dell'ordine sociale); descrizione e disegno corrispondono ad altrettante pratiche nella misura in cui la condotta di ogni attore sociale è informata dal suo rapporto con gli altri attori; la forza degli uni fa la legge di tutti, ma il margine d'incertezza proprio della relazione «in doppio» e il carattere «interpretativo» (e, in questo senso, metonimico) del sistema impongono agli attori, con una posizione incerta rispetto alle linee di forza e di senso in rapporto alle quali si situano, una vera e propria pratica «sperimentale»; la maggior parte delle pratiche sociali consiste, è vero, in pratiche per le quali il tempo è costitutivo del senso, per riprendere l'espressione di Bourdieu; il carattere problematico e «rischioso» di qualsiasi iniziativa sociale è abbastanza generalizzato: si tratta sempre, per gli attori, di affermarsi senza mostrarsi troppo, di esistere senza provocare - cosicché l'evocazione delle sineddochi della teoria sociale ci introduce abbastanza logicamente a quelle stesse pratiche descrivibili in termini retorici come la litote o l'inversione...Resta il fatto che la gerarchia sociale, nelle sue manifestazioni e nelle sue costrizioni più concrete, si esprime nel linguaggio dei poteri in termini di identità più o meno forte. Il vero potere è l'accumulo dei poteri; presso gli abitanti delle lagune ivoriane, la sola identità è quella della linea agnatizia che attraversa i matrilignaggi nei suoi punti di forza, dove essa interseca le linee di forza della discendenza uterina: linea agnatizia in cui si riproducono con alternanza, come fossero la sostanza stessa del loro psichismo e della loro forza, i nomi dei primogeniti delle diverse generazioni. Le combinazioni possono variare ma la diversità degli esempi africani può essere espressa con un'unica constatazione: l'ideologica àncora la legittimità sociale nell'intimità fisiologica del corpo individuale. Più esattamente, con un movimento doppio e complementare, fa del corpo individuale il significante della regola e dell'anomalia sociali, e al tempo stesso fa dell'ordine sociale il significante dell'ordine naturale inscritto

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nei corpi individuali. La logica dell'interpretazione sociale esprime dunque simultaneamente il carattere sociale delle incognite individuali e il carattere naturale della gerarchia sociale.Queste due figure non descrivono esattamente né un'andata e ritorno né un cerchio, bensì la convergenza asintotica delle dimensioni naturale e culturale dell'individualità. Se l'esigenza di senso incontra così facilmente l'esigenza dell'ordine, se l'ordine intellettuale e l'ordine sociale tendono tanto facilmente a confondersi (a questo proposito, si parla in antropologia di rapporti fra il potere e il sacro), è perché l'esistenza individuale di per sé non ha alcun senso e perché il primo rapporto intellettuale è anche il primo rapporto sociale; esiste una complicità iniziale ed essenziale fra l'esigenza individuale di questo rapporto fondamentale e l'autorità sociale che s'instaura e si riproduce tanto più facilmente dato che fonda come verità naturale la realtà del potere sociale. Se il potere è sempre possibile è perché il senso è sempre necessario. Questa necessità non determina il grado di costrizione e di disuguaglianza del sistema sociale, ma spiega come, malgrado la diversità dei regimi politici e delle forme di repressione, il rapporto fra i poteri e il potere sia sempre postulato - al di là delle apparenze a volte immediate - come significativo e costitutivo di ogni forma di costrizione.Il sistema africano delle classi d'età è a questo proposito molto eloquente. Mentre l'etnologia lo presenta talvolta come una compensazione degli effetti della gerarchia di lignaggio, esso sembra piuttosto rafforzarne gli effetti; l'istituzione delle classi d'età non è una realtà politica dissociabile dall'organizzazione in lignaggi: appartiene allo stesso sistema; in Africa occidentale le classi d'età non sono mai tanto sviluppate, sofisticate e importanti nella vita politica come quando si afferma anche la gerarchia intra- e interlignatica. Le variazioni della costrizione e della gerarchia hanno per pendant un gioco (gioco di parole e gioco istituzionale) sulla nozione di età. In società come quelle dida e alladiana (quest'ultima più gerarchica della prima), anche in alcuni gruppi ebrié, le classi d'età raggruppano veramente individui della stessa età, ciascuna classe comprendendo un intervallo di tempo che va dai tre ai quattro anni; il potere di villaggio associa un capo villaggio (il capo di un lignaggio nel caso degli Alladiani, il più vecchio del villaggio negli altri casi) a un consiglio di anziani che rappresenta l'autorità dei lignaggi; il campo d'intervento di questo potere interessa alcune delle relazioni al tempo stesso interne al villaggio e fra i lignaggi; l'autonomia dell'istituzione politica è molto ridotta; l'organizzazione lignatica garantisce l'intera funzione politica senza l'intervento di un'istituzione specifica; è che tanto le relazioni di discendenza quanto quelle di alleanza definiscono l'essenziale del campo sociale; le classi d'età intervengono in situazioni rituali determinate (in particolare il matrimonio, la sepoltura, i funerali) al fianco di uno dei partner coinvolti in termini di discendenza o di alleanza; l'individuo si inscrive progressivamente nel campo sociale e politico in funzione di dimensioni personali di cui la sua educazione e il suo entourage lo invitano a decifrare le caratteristiche e gli effetti sulle reazioni del suo corpo e sulle incertezze della sua vita psichica e biologica.All'altro capo del mondo della laguna, presso gli Ebrié orientali e gli Atié, l'istituzione di classi d'età gioca un ruolo molto più importante. Tuttavia, nessun sistema di trasformazioni che metta in rapporto di reciproco equilibrio l'organizzazione in classi d'età e l'organizzazione in lignaggi potrebbe render conto della «struttura» di questa nuova configurazione: più la classe d'età esercita un ruolo politico istituzionalizzato, più si accentua la gerarchia fra i lignaggi; il principio lignatico e il principio delle «generazioni» non si bilanciano: si rinforzano a vicenda. Le classi d'età sono divise in sottoclassi. Nella configurazione politica atié il potere politico appartiene effettivamente, per un certo periodo, a una data classe d'età e, più esattamente, a una sottoclasse maggiore, ma da una parte la "chefferie" stessa non può essere ricoperta che dal rappresentante del matrilignaggio dal bastone d'oro con il quale essa si identifica, dall'altra parte la gerarchia interna alla classe d'età riguarda il primato delle linee agnatiche maggiori: è l'età sociale a servire da principio per

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il raggruppamento degli individui - età sociale o età relativa che situa, gli uni rispetto agli altri, tutti gli abitanti del villaggio in termini di discendenza agnatizia e tutti i fratelli agnatizi in termini di età reale. I figli maggiori appartengono necessariamente alla classe d'età alterna rispetto a quella del padre, i fratelli di uno stesso padre non potendo appartenere alla medesima sottoclasse d'età, di modo che i figli minori si ripartiscono, all'interno della stessa classe d'età, in sottoclassi diverse da quella del fratello maggiore e, all'occorrenza, nella classe d'età che non è più alterna rispetto a quella del padre. Il capo di una classe d'età è necessariamente il capo della sottoclasse maggiore e il capo del villaggio è necessariamente il capo della classe d'età al potere. Così, la persona del capo si colloca nel punto d'incontro di una linea agnatizia maggiore e della linea uterina maggiore del lignaggio che detiene la "chefferie". Tutte le regole di reclutamento delle classi d'età, tutte le regole di esercizio del potere del villaggio, l'intera, minuziosa organizzazione dei sistemi lineari (basati sull'età reale) e ciclici (basati sull'età sociale) descritti in particolare da Denise Paulme (12) possono essere ricondotti a un principio di organizzazione sistematica dell'accumulo di poteri. Tutti passano per le classi d'età; ciascuno afferma la sua solidarietà con i suoi promotori; tutti conoscono le stesse prove e superano le stesse tappe. Ma questo linguaggio condiviso e queste pratiche comuni assegnano a ciascuno il proprio posto e mantengono stabile il potere.

- L'inversione.

"Inversione, perversione".Mai i riti sembrano indicare qualcosa con tanta insistenza come quando danno l'impressione che i ruoli s'invertano; contro il susseguirsi dei giorni, al di là della soglia che separa il profano dal sacro, i significati immediati, le pratiche ammesse, gli atteggiamenti appropriati di colpo s'invertono: lo scambio punto per punto dei segni fasti e nefasti, della destra e della sinistra, del maschile e del femminile, dell'autorità e della dipendenza pare costituire, al di là delle pratiche, un modo di dire le cui modalità ci sorprendono e di cui ci sfugge l'oggetto. I funzionalisti hanno cercato di definire questo oggetto, gli strutturalisti di comprendere queste modalità; e bisogna proprio ammettere che gli uni e gli altri ci lasciano insoddisfatti. Fra i primi, alcuni ritengono che i riti di travestimento esprimano la protesta o la resistenza delle donne alla dominazione maschile; per altri, e anche per gli strutturalisti (si pensi in particolare a Lévi-Strauss, soprattutto al corso tenuto al Collège de France nell'anno 1974-1975), non si tratta di fare delle figure d'inversione altrettante forme di resistenza: con Gluckman (13) fanno notare come l'esecuzione dei riti funzioni a vantaggio dell'ordine stabilito, con Norbeck (14) come il travestimento riguardi i due sessi e avvenga nei due sensi, con Lévi-Strauss come, attraverso il clawnismo rituale, gli uomini «si sforzino di assimilare la femminilità nella propria umanità».Restano ancora due domande, che riguardano l'una la pertinenza e l'estensione del concetto d'inversione, l'altra il senso di pratiche di cui né i riduzionismi funzionalisti né le costruzioni strutturaliste possono rendere conto completamente. Innanzitutto, si può rigorosamente parlare d'inversione a proposito dei riti di travestimento sessuale e di «ribellione» politica? E inoltre, sono assimilabili o comparabili questi due tipi di riti? Le analisi di Lévi-Strauss si limitano ai riti di travestimento, mentre il repertorio stabilito da Norbeck arriva ad abbracciare non solo i riti d'inversione politica ma addirittura altre forme di conflitti ritualizzati e di comportamenti paradossali rispetto alle norme quotidiane.Prima di stabilire quale rapporto di senso possa rappresentare il capovolgimento delle relazioni di genere e delle relazioni di potere, è bene sottolineare il carattere relativo - sul piano logico e sociologico - di questo capovolgimento. Allo stesso modo, abbiamo proposto di considerare le relazioni caratterizzate dallo sdoppiamento (quelle che informano le credenze nella stregoneria) come incluse nel campo delle strutture sintagmatiche della logica e della pratica sociali: lo «stregone» non è che in parte l'inverso dell'uomo «normale»; le coppie

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d'opposizione notte/giorno, ubiquità/località, cannibalismo/non-cannibalismo non esprimono che un aspetto del «mondo» della stregoneria; quest'ultimo, sotto ben altri aspetti, rende conto molto direttamente dei rapporti di forza sociali, diurni e quotidiani: la potenza, la ricchezza, il potere si spiegano anche mediante il possesso delle forze che rendono lo stregone potente. L'ambiguità si rivela ambivalenza allorché a una interpretazione esegetica si sostituisce, punto per punto, una logica dei discorsi articolabili e delle pratiche realizzabili, dei rapporti di senso e di forza.Che cosa ne è, dunque, del concetto d'inversione quando si applica alle pratiche ritualizzate descritte dall'antropologia? Capita che il discorso locale renda conto direttamente di questa ambivalenza, che il concetto di «potere di aggressione» si scomponga da solo in significati puramente quantitativi, in pure e semplici valutazioni del rapporto di forza, del peso corrispettivo di ciascuno degli elementi messi in relazione. I Ge e gli Watchi del sudest del Togo non distinguono, come fanno gli abitanti della laguna ivoriani, fra un potere d'aggressione e un potere di difesa; è esplicitamente lo stesso potere ("aze") a servire allo stregone e a colui che deve proteggersi. Nella regione di Anfouin, il "vodu" Akpaso è detto essere un "vodu" d'"aze", ma con questo bisogna intendere che esso serve tanto ad attaccare quanto a difendersi; la potenza relativa di ogni rappresentazione di Akpaso può essere misurata con precisione, dato che ci sono sedici metamorfosi di Akpaso e ciascuna di esse costituisce un ricettacolo più o meno grande di poteri più o meno importanti: ogni metamorfosi differisce da quella precedente mediante l'aggiunta d'un elemento supplementare. Akpaso è acquisito per eredità o per acquisto: in tutti i casi si trasmette di individuo in individuo; comprare un Akpaso, "a fortiori" un Akpaso che possieda la totalità dei suoi poteri, costa caro. Quanto ad Akpaso stesso o al potere che esso incarna, gli informatori possono dire che «non rifiuta né il bene né il male». Quando Akpaso protegge un cortile (la collocazione del suo altare, non lontano dall'ingresso del cortile, rende questa protezione molto evidente), gli stregoni che desiderano attaccare devono domandargli il permesso di farlo - permesso che si ritiene ottengano più facilmente se possiedono essi stessi un Akpaso e con molte più difficoltà se l'Akpaso che protegge colui che vogliono attaccare è più forte del loro. Ogni cosa è una questione di forza, di una forza che non si tratta di qualificare quanto di misurare.Altre distinzioni talvolta presenti nella letteratura antropologica vengono d'un sol colpo a cadere. L'"aze" rimane un potere psichico individualizzato, ma non viene distinto da quello posseduto dal "vodu" inteso come divinità e come rappresentazione materiale di questa. L'aze si eredita, ma il "vodu" che l'incarna può essere acquisito. La distinzione fra "witchcraft" e "sorcery" appare pertanto relativizzata agli occhi dell'antropologo, mentre agli occhi delle popolazioni locali le possibilità d'interpretazione dell'evento sono continuamente moltiplicate. Ogni enunciato che fa intervenire il concetto d'"aze" riguarda più oggetti di quanti non ne designi espressamente: se, al limite, si può dire una cosa e il suo contrario, è perché il linguaggio dell'"aze", linguaggio ideologico, è metonimico. Linguaggio cinico del rapporto di forza, linguaggio metonimico del rapporto ideologico, il linguaggio della stregoneria non è forse molto vicino, in definitiva, a quello dei rituali d'inversione? Tanto più le «astuzie» di Akpaso indurrebbero a sottolineare questa prossimità dato che rammentano con la loro apparente ingenuità - di fatto evidentemente provocatoria - i miseri trabocchetti posti in alcuni rituali d'inversione e in altre pratiche simboliche al fine di distogliere i cattivi spiriti, gli stregoni o gli dei dall'azione.Per disarmare gli spiriti malintenzionati; colui che possiede un Akpaso gli offre delle uova: dono dal duplice uso, giacché i possessori d'"aze" sono molto golosi di uova; se si presentano all'ingresso del cortile che vogliono attaccare, essi si attarderanno, si pensa, davanti all'altare presso il quale è esposta la loro leccornia preferita: il tempo d'un pasto e il loro corruccio si placherà; Akpaso li disarmerà «con dolcezza», senza tradire nessuna delle solidarietà apparentemente contraddittorie che lo legano ad avversari devoti. La descrizione dello spirito di compromesso del dio, della golosità e dell'ingenuità degli stregoni nonché

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dell'astuzia del devoto ad Akpaso fa sorridere i suoi stessi autori; tutto ciò, nella loro mente, non è che un modo di dire, un modo di dire senza proclamare verità straordinarie, un modo di esprimere qualcosa senza forzare con avvertimenti ultimi, secondo una pratica propriamente metonimica: il dono al dio è destinato a coloro di cui deve scongiurare la minaccia; se si presta attenzione al fatto che uno stregone capace è ritenuto essere a sua volta devoto di Akpaso, questo gioco di senso sulla causa e sull'effetto costituisce da solo un fenomeno molto vicino ai riti cosiddetti d'inversione: è insomma il ricettacolo di tutte le minacce a venir preso come protettore, a essere pregato e ringraziato. Allo stesso tempo, potenze conosciute come temibili e credute tali verrebbero giocate con trucchi elementari.Di un gioco in effetti si tratta, attestato in numerose pratiche sorprendenti che appaiono tutte come sovvertimenti dei rapporti di forza e dello spirito di serietà: in numerose società africane, alla morte d'un gemello, si sotterra anche un'immagine dell'altro gemello, lo si fa in maniera esplicita e ufficiale affinché il morto, tratto in inganno, non torni a cercare il sopravvissuto; si dona un figlio a un'altra famiglia al fine di preservarlo dagli attacchi di uno spirito malevolo la cui potenza è stata comprovata dalla morte di precedenti bambini; si offrono al dio protettore del vaiolo gli alimenti che gli sono proibiti affinché si allontani, deluso, e porti via con sé l'epidemia. Tutti comportamenti attraverso i quali il simbolico tende a identificarsi con il parodistico, giacché ogni cosa accade come se, nei momenti limite, quelli in cui sono in gioco la vita e la morte dell'individuo o dei gruppi, si dovessero manifestare in modo quasi ludico uno scherno e una qual perversione dei rapporti abituali; con questo scherno e con questo sovvertimento gli attori sembrano rischiare il tutto per tutto in un atto estremo che, dal loro punto di vista, non può suscitare che la complicità o lo scatenarsi di coloro che fanno finta d'ingannare.Nei riti detti d'inversione, in generale, ci si trova a confronto proprio con un sovvertimento dell'identificazione postulata abitualmente fra rapporto sociale e rapporto di senso piuttosto che a un'inversione di questi rapporti. L'«inversione» sociale non è mai lo stretto equivalente dell'inversione logica (che inverte l'ordine dei termini di una data proposizione e ne inverte al tempo stesso il senso), né dell'inversione grammaticale (che scompiglia l'ordine analitico delle parole in una frase senza tuttavia mutarne il senso). La proposizione «tutti i matti sono cattivi» è l'inverso della proposizione «tutti i cattivi sono matti»; l'identità di senso fra due proposizioni inverse non può essere postulata o suggerita se non dall'apparato repressivo di un sistema almeno potenzialmente totalitario, quando questo tende a identificare deviazionismo politico e anormalità psichica e a suggerire, per esempio, indifferentemente, che tutti gli oppositori sono violenti e che tutte le violenze sono proprie dell'opposizione. Quanto allo snobismo dell'inversione grammaticale, è ancora M. Jourdain a esserne, suo malgrado, l'eroe: «Bella marchesa d'amore, i vostri occhi morir mi fanno». Notiamo che l'inversione grammaticale esige uno sforzo di memoria da parte dell'ascoltatore (e del locutore), giacché la frase non si rivela come enunciato significativo se non quando l'ultima parola è stata definita e pronunciata. L'inversione sociale, dal canto suo, sembra oscillare da un'inversione all'altra - al tempo stesso pare ammettere che le verità sono paradossali e che possono invertirsi (in un certo senso il re è schiavo e, per un momento, lo schiavo può essere re) e suggerire che, in definitiva e retrospettivamente, non viene mai significato, in tutti i sensi della parola, che l'ordine normale delle cose: «Bella marchesa, i vostri occhi mi fanno morire d'amore».Soffermiamoci, tuttavia, sul carattere paradossale e retrospettivo delle verità rituali. Questo carattere vale tanto per i rituali detti d'inversione politica quanto per i rituali detti d'inversione sessuale; di per sé pare dimostrare la loro profonda identità. Prenderemo come esempio uno dei rituali «politici» di un reame (il reame agni dell'Indénié studiato da Claude-Hélène Perrot) (15) e un rituale di travestimento sessuale di una società strutturata in "chefferie" che ho studiato personalmente (la società mina del sud del Togo); le verità che l'uno e l'altro sembrano suggerire e mettere in scena sono innanzitutto paradossi: esse si scontrano con l'opinione comune e talvolta arrivano a invertirla.

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Alla morte del re agni, gli "aburua" prendono possesso della corte regale. Gli "aburua" sono i figli di padre e di madre schiavi, in contrapposizione agli individui liberi di nascita, agli schiavi veri e propri ("kanga") e agli "auroba" (individui di cui solo la madre è schiava). Gli "aburua" o, piuttosto, un certo numero di essi, conosciuti in anticipo (hanno per madri le schiave entrate più anticamente nella corte regale), ricostituiscono un'immagine e una parodia dell'apparato regale: viene designato un «re», che deve essere eloquente e capace di sostenere il suo ruolo con brio; lo circondano e l'accompagnano una regina, dei servitori e dei portatori di bastone. Tuttavia i "kanga" cercano di sfuggire ai carnefici del re, poiché un certo numero di essi deve essere messo a morte e sepolto insieme al defunto. L'"aburua" s'identifica con il re, di cui prende il posto quanto ad abbigliamento, mimica e condotta: indossa i gioielli del re, sottrae dal suo letto di morte dei panni di cui si riveste, danza la danza regale il cui solo accenno normalmente mette a repentaglio la vita di chiunque non sia il re; è portato sul catafalco del re e può costringere il giovane fratello del re defunto a portarlo; rispetta le interdizioni alimentari del re e, come lui, non può spostarsi da solo, né posare il piede nudo sul suolo.L'"aburuahene" (letteralmente, il re - "ehenne" - figlio di schiavi) e i suoi controllano l'ingresso del cortile dei funerali; non contenti d'identificarsi con il potere regale, essi lo spingono ai limiti, dando mostra di una smisuratezza che il potere legittimo non può permettersi: possono insultare, colpire e spogliare i principi. Il momento di smisuratezza è più ancora un momento di verità; i figli degli schiavi denunciano il dispregio nel quale sono ordinariamente tenuti; pronunciano minacce e rimproveri in confronto ai quali il loro abituale riserbo può passare per dissimulazione dei rapporti reali; allo stesso tempo, sono i soli a proclamare la morte del re, della quale nessuno ha diritto di parlare. Uomo di una verità che assomiglia insieme alla caricatura e alla sfida, il falso re beve e si rimpinza con i suoi compagni quando il resto della società digiuna e tace, provocando la spoglia del re e invitandola a venire a condividere il suo pasto («Tu che non sei morto, alzati, vieni dunque a mangiare con noi, ora»), Don Giovanni di un festino dalla fine inevitabile: al termine dell'interregno, il falso re è messo a morte.Un falso re in effetti, poiché altri hanno in mano il controllo di un potere che è più messo da parte che veramente messo in discussione. A partire dalla fine della prima parte dei funerali, viene nominato un sostituto (che può essere il presunto erede) per sbrigare le faccende di ordinaria amministrazione; il grande intendente convoca i notabili, inventaria davanti a loro i beni regali, chiude certe stanze del palazzo in attesa di rendere i conti e fare un nuovo inventario al cospetto del nuovo re. Il re di parata non ha accesso né ai beni né agli affari: rappresenta il potere, ma questa rappresentazione è anche un gioco della verità.Consideriamo direttamente i giochi d'inversione ai quali si consacrano, nel paese mina, le donne di Avlekete, "Avlekete si"; la regione mina-ge, nel sudest del Togo, è tuttora il luogo di una organizzazione religiosa rigorosa e al contempo spettacolare. Benché, indubbiamente, non siano contemporanee né abbiano la stessa origine, l'organizzazione in patrilignaggi ("k[c]ta") (15 bis) e l'organizzazione in conventi si sovrappongono oggi - e senza dubbio da lunga data - in modo sistematico. Molti lignaggi hanno un convento consacrato a uno o a più "vodu", un luogo di culto e di formazione riservato, nel paese mina, all'educazione delle ragazze o per lo meno di alcune ragazze del lignaggio o di figlie di donne del lignaggio. Le sacerdotesse di Avlekete sono scelte in base alle stesse condizioni (una malattia è il segno della loro elezione e appartengono a un lignaggio particolare), ma il loro ruolo interessa l'insieme della comunità del villaggio. In confronto agli altri "vodu", Avlekete è di per sé e per molti aspetti un "trickster", una divinità paradossale; potente ma buffone, rappresenta innanzitutto, insieme alle istituzioni che gli sono collegate, la presa in giro del culto, in un certo senso l'inversione dell'inversione. Tutti i conventi si presentano, materialmente, come altrettante soglie al di là delle quali le pratiche si specificano, quando non s'invertono: i fedeli devono camminare a piedi nudi, a torso nudo; i gesti che normalmente vengono compiuti con la mano destra sono

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compiuti con la sinistra; tutti i "vodu", insomma, hanno proprie esigenze e interdizioni. Con Avlekete è proibito proibire; il solo divieto che pesa sulle sacerdotesse di Avlekete è quella di rispettare i divieti.Esse non hanno alcun divieto proprio. Tuttavia sono tenute a non rispettare gli usi degli altri, pena il rischio di ammalarsi, al pari di quelli che trasgrediscono i loro divieti. Così, quando nella boscaglia, ai crocicchi, s'imbattono in un sacrificio offerto a qualche divinità, esse devono appropriarsene, se può essere ancora consumato, oppure disperderlo colpendolo sette volte con il piede se è stato offerto da troppo tempo. Nella vita di tutti i giorni, esse assumono un comportamento maschile, e più ancora che maschile, provocatorio; partecipano alle riunioni degli uomini, che allietano con le loro spiritosaggini e i loro interventi inopportuni; parlano a voce alta e forte. Possono, di diritto, intervenire in qualsiasi cerimonia. Le loro danze sono all'insegna del travestimento sessuale: coperte di vestiti maschili, esse maneggiano con vigore, ritmo, insistenza e precisione evidenti simboli fallici.Un tempo (dato che su questo punto, come per buona parte del rituale agni, l'osservazione si riduce alla raccolta delle testimonianze orali), le donne di Avlekete - la cui azione è originale anche perché concerne l'intero villaggio - avevano due attività principali: regolarmente (una volta ogni sette mesi lunari) esse si facevano carico di ripulire e purificare il villaggio - "du me grado": riparare, ripristinare ("grado) in ("me") il villaggio ("du"), oppure "du me pl[c]p[c]": spazzare nel villaggio -, una purificazione intesa simultaneamente in senso stretto e in senso figurato. In caso di epidemia, e in particolare in caso di vaiolo, erano incaricate dai rappresentanti di tutti i conventi di portare offerte sacrificali al "vodu" responsabile; ma queste offerte erano anche provocazioni: si trattava di offrire al dio del vaiolo gli alimenti che gli erano proibiti, di modo che questi, deluso, prendesse la fuga, portando con sé l'epidemia di cui era al contempo simbolo, ricettacolo e rimedio. Ancora una volta, identità dei contrari ed evocazione della causa per esprimere gli effetti definiscono un rituale apparentemente irrispettoso, un'astuzia simbolica, la cui sola spiegazione pare trovarsi nella situazione limite, la crisi della società e del potere.L'interregno e l'epidemia hanno infatti in comune che mettono in discussione direttamente il potere; il vuoto di potere è di per sé abbastanza temibile, per non parlare della morte del re; ma in diverse società questo divieto riguarda anche la morte del capo o di certi notabili, e per un certo periodo può persino corrispondere a una pura e semplice dissimulazione. I disordini simbolici che accompagnano queste morti si associano talvolta a disordini reali; la guerra di successione può essere una vera e propria istituzione. Quanto all'epidemia, essa rappresenta una minaccia di estinzione demografica e costituisce da sola una negazione del potere; una parte della società rischia di non poterle sfuggire se non attraverso la fuga e la dispersione che consacrano il crollo o, almeno, il rovesciamento del potere istituito. Che cosa rappresenta lo scambio dei ruoli politici e sessuali di fronte a tali disordini?Il «re figlio di schiavi» (aburuahene) si afferma libero in contrapposizione alla sua condizione di figlio di schiavi; allo stesso tempo si afferma «re» rispetto alla condizione di uomo libero; e, sempre allo stesso tempo, parodistico, provocatore e, in qualche modo, senza misura rispetto alla condizione regale: dice crudamente la verità del potere regale, insulta il cadavere del re, abusa visibilmente della sua posizione privilegiata. Le donne di Avlekete si affermano «maschi» rispetto alla loro condizione di «femmine»; allo stesso tempo si affermano «divine» rispetto alla condizione maschile: sfuggono ai divieti degli altri uomini, intrattengono con la divinità rapporti di familiarità e, nelle circostanze drammatiche, vengono inviate a contrastare la sciagura e la rovina, quale avanguardia della società. Tuttavia, esse sono paradossali ed eccessive tanto rispetto alla condizione maschile quanto rispetto alla condizione divina. Nelle assemblee degli uomini si comportano come nessun uomo mai oserebbe e potrebbe fare; nei confronti degli dei, sono portatrici di un'eterna provocazione e s'arrischiano, eventualmente, a scacciarne uno dal villaggio.La struttura di quanto si chiama «inversione», nei due casi, sembra piuttosto

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potersi scomporre in una serie di rovesciamenti parziali che costituiscono altrettanti sovvertimenti del rapporto normale - sovvertimenti che confermano e rafforzano le risoluzioni prese, che chiamano in causa in un caso gli uomini liberi e il re, e nell'altro il potere maschile e il potere degli dei (vedi la figura 2).

FIGURA 2.

FIGLIO DI SCHIAVI ---> liberore "--- liberore ---> PROVOCATORE DEL REDONNA ---> uomoprete "--- uomoprete ---> PROVOCATORE DEL DIO--------------------------------------------------

Nessuno statuto è più definibile nell'interezza della sua esigenza intellettuale dal momento che si definisce anche per mezzo del suo contrario - il contrario che lo rivela per ciò che anche è e che dissimula l'ordinamento della norma quotidiana. Soltanto questa messa a giorno o a nudo fa parte integrante dell'istituzione del potere; di qui la tentazione, cara alla tradizione funzionalista, di presentarla come la valvola di sicurezza di questo potere, lo sfogo delle tensioni, il catalizzatore della violenza..., circoscrivendo in questo modo un altrove del potere che è la condizione stessa del suo esercizio e della sua continuità, la sua assicurazione contro ogni rischio e, in qualche modo, l'humus dell'ecosistema politico.Ma non esiste un altrove del potere; e nemmeno esiste veramente la sua inversione. Semplicemente occorre, affinché il potere sia credibile, che esso non si riduca alla persona di chi lo esercita o che questa persona non sia affetta dalle vicissitudini che fanno ordinario l'individuo. Doppia passività: il peso del potere grava sulle spalle del capo o del responsabile in modo molto concreto; ha un'evidenza materiale e naturale che non può essere negata, non più di quella delle rocce o dei grandi alberi, che si può solamente controbilanciare sorreggendo, trasportando il titolare della carica, in modo da evitargli ogni movimento, ogni fatica supplementare e fatale, ed eventualmente alleggerendolo di parte del carico delegando alcuni dei suoi poteri. Il peso lordo del potere, la sua inerzia, ha per corollario la passività del titolare, nominato suo malgrado, coperto di divieti e stranamente irresponsabile.Così, tutti i rituali d'inversione sembrano avere in comune un ruolo politico essenziale, anche quando vertono in primo luogo sul rapporto fra generi: essi mettono in scena il potere. Così facendo, manifestano tre tratti che sono comuni a ogni potere - tratti complementari, il cui amalgamarsi dà l'illusione di un'inversione sistematica: la passività del potere, il cinismo dell'ideologia del potere e il carattere non individuale del potere. Questi tratti si combinano per costituire una struttura ideologica, nel senso che abbiamo conferito a questo termine, ma essi non sono semplicemente «espressivi» e devono essere compresi mediante le pratiche che mettono in atto e che li definiscono.Questa struttura potrebbe indubbiamente definirsi, in termini analitici, come struttura "perversa". Concorrono a questa definizione il ruolo della feticizzazione (nei riti detti d'inversione, l'altro, che si imita o che si prende in giro, è ridotto a un oggetto simbolo: un vestito, un emblema fallico eccetera), l'ambivalenza del tema della morte (respinta e riconosciuta), la deviazione del rapporto «normale» in un rapporto parossistico essenzialmente segnato dalla mutazione della figura del potere (ridotta, da una parte, alla passività totale - il cadavere del re bistrattato, l'altare del dio sbeffeggiato - e, dall'altra, alla caricatura dai comportamenti spettacolari di coloro che recitano il potere).Chi mette in opera questa struttura? Essa è istituzionale e viene messa in opera dal potere, ma il soggetto ne è apparentemente escluso: chi è il soggetto, colui che interpreta ora il potere (lo schiavo-re) ora il sacrilegio (la donna-uomo che spregia gli dei) o colui che sopporta, fino al ristabilirsi dell'ordine delle cose,

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l'aggressione sadica del suo doppio caricaturale? Questa scomparsa dell'Apro, che Deleuze, nella sua notevole postfazione al "Vendredi" di Michel Tournier, ritiene essere la caratteristica della perversione, della «desoggettivizzazione perversa», non è forse essenziale all'autorappresentazione del potere nei suoi riti, dove «né vittima né complice funzionano come degli altrui»?«Il mondo perverso - scrive Deleuze - è un mondo dove la categoria del necessario ha completamente sostituito quella del possibile.» Questo mondo non è forse esattamente quello del potere, quello dove esso si rifugia (sviluppando i temi della passività e della morte) e quello a partire dal quale s'impone, imponendo agli altri questo passaggio dalla categoria del possibile a quella del necessario che l'evento (l'altrui assoluto, il possibile assoluto) può incessantemente rimettere in discussione? Di qui probabilmente l'importanza degli apparati di prevenzione e d'interpretazione nell'organizzazione di ogni potere.

"La passività del potere".Se la passività, doppione logico della materialità del potere, è veramente costitutiva del potere dispotico, come ha osservato Deleuze, lo è anche di ogni potere direttamente o indirettamente legato all'istituzione politica, qualsiasi essa sia. Il re agni è coperto di divieti che anche il falso re temporaneo a sua volta rispetta; sotto questo aspetto, l'inversione è totale e rigorosamente logica (il re è schiavo, lo schiavo è re). Tuttavia si ritrova qualcosa di questa passività nell'obbligo di provocazione delle donne di Avlekete, delega del potere nei punti caldi in cui l'ordine sociale si rivela strettamente sottomesso all'ordine naturale: esse non hanno il diritto di non provocare, sono tanto libere quanto la calamita o il parafulmine; questa provocazione obbligatoria è strutturalmente legata alla passività e alla pratica del potere (ci ritorneremo). Notiamo, tuttavia, che abbondano gli esempi che permettono di collegare passività e provocazione di questo genere a forme diverse di potere politico o di poteri specifici.Il capo di guerra di una classe d'età ebrié è designato a sua insaputa dagli anziani; i membri della sua classe d'età, informati della scelta degli anziani, lo sorprendono all'alba, lo afferrano e lo trascinano a forza alle cerimonie che consacreranno la sua nuova posizione. Quest'ultima, a sua volta, corrisponde a una molteplicità di divieti e alla moltiplicazione dei pericoli corsi; come se l'irresponsabilità dell'individuo crescesse con il suo valore simbolico: portatore di tutte le insegne guerriere, il capo di guerra non combatte; per lo meno, è dietro i combattenti, attorniato, protetto, portato; ma la sua morte o la sua cattura significa la disfatta: è dunque l'oggetto privilegiato degli attacchi nemici; la sua sola esistenza, resa più solenne dagli emblemi che sfoggia (il cappello, la sciabola, la collana eccetera), li provoca, li attira e li sfida. Il signore della pioggia ("lamutyiri"), presso i Samo dell'Alto-Volta, è generalmente designato sin da prima della nascita dal signore della terra ("tudana"), sette anni dopo la morte del precedente titolare della carica. Viene sempre scelto nello stesso lignaggio dopo numerose consultazioni. Nel corso di questi sette anni, è un parente del defunto che ha assunto la carica. Il nuovo lamutyiri non entra in carica se non sette anni dopo la sua designazione; durante questo nuovo periodo di sette anni è il tudana ad assicurare l'interim del signore della pioggia. Così si afferma, insieme alla complementarità dei due poteri (che del resto in altri villaggi vengono assunti dalla stessa persona), la possibile permutazione delle persone. Il lamutyiri non è un capo villaggio, non ha alcun mezzo di costrizione; l'autorità politica in senso stretto appartiene piuttosto all'insieme dei più vecchi del villaggio; resta però il fatto che il lamutyiri è un personaggio di avanguardia, il quale per funzione va incontro all'evento; la configurazione complessiva del potere associa nel consiglio di villaggio i decani dei lignaggi al lamutyiri, il quale consulta gli indovini, identifica i mali, le colpe e i rimedi, organizza i grandi rituali e convoca i consigli di villaggio. Quest'autorità indiretta, delegata e provocatrice lo pone anche nella posizione di potenziale capro espiatorio (proprio come i re di Esiodo e di Omero studiati da Vernant); per funzione, egli si sottomette alla sanzione dell'evento. Questo carattere aperto e

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rischioso dell'incarico spiega ed esige la passività del personaggio; quanto alla sua ambiguità («Tyiri, sei tu il capo - il mucchio di immondizie -, quello che raccoglie e prende tutto su di sé...»), essa deriva piuttosto dall'ambivalenza che caratterizza l'esistenza storica: come il capo politico, il signore della pioggia è condannato a vedersi confermato, sostenuto e riconosciuto dall'ordine naturale. Presso i Mossi dell'Alto-Volta, il canto d'investitura del Moro-Naba, effettivo sovrano di un vero e proprio reame, esprime sotto la parvenza d'una stessa ambiguità, e in termini identici, una stessa "ouverture" sulla storia e una stessa dipendenza dall'evento:

"Tu sei un escremento,tu sei un mucchio d'immondizia,tu vieni per ucciderci,tu vieni per salvarci" (16).

Françoise Héritier, da cui prendiamo in prestito la descrizione e l'analisi del ruolo del lamutyiri (17), sottolinea tutti gli aspetti involontari e passivi del suo incarico. Tali aspetti riguardano la nomina del titolare della funzione: «Il bambino viene immobilizzato, rivestito delle vesti-insegne della sua carica, la sua testa viene rasata per la prima volta e i suoi capelli conservati (come lo saranno durante tutta la sua vita, per essere sepolti insieme a lui); di traverso sulle sue gambe viene distesa la bambina, appartenente al lignaggio del tudana e scelta da quest'ultimo secondo le stesse modalità, che sarà la sua sposa legittima e che condivide con lui la responsabilità della venuta della pioggia...». Ma tali aspetti riguardano anche tutta l'esistenza del lamutyiri, il quale non è mai «padrone dei propri movimenti», non può lasciare il suo villaggio, non ha diritto di correre e deve persino camminare con precauzione; come il re agni, non può «percuotere il suolo o camminare a piedi nudi», non può danzare con i giovani suoi coetanei né mostrarsi a capo scoperto, non può lavarsi prima della notte o lasciarsi tagliare i capelli più di una volta all'anno.Il potere, nelle sue diverse modalità, è posto sotto il doppio segno, essenziale ed esistenziale, della vita e della morte. La morte è il suo diritto ultimo e anche ciò da cui protegge gli altri - con la sua azione sugli dei, sulla natura e sui nemici. Essa è anche, in modo più sottile, una delle sue componenti: bisogna che il potere sia come morto, per lo meno che colui che lo incarna sia già passato attraverso la prova della morte, perché l'esercizio del potere non sia più toccato dalla mortalità dell'individuo. I rituali moltiplicano le varianti simboliche intorno al tema della morte: dal punto di vista del potere, la persona è tanto «buona da pensare» quanto lo sono i miti. Ma questi esercizi di stile e di pensiero non sono privi di effetti pratici: essi stabiliscono al contempo la materialità e la trascendenza del potere; lo fanno valere come si fanno valere l'evidenza e il peso delle cose, con tutta la brutalità del reale che non deve né spiegazioni né giustificazioni; allo stesso tempo, essi fanno di chi esercita il potere il simbolo di quest'ultimo, relativizzando fino al limite estremo (quello, largamente attestato, della messa a morte del capo) l'importanza della sua identità personale. In questo senso, i temi del cinismo ideologico, della passività del potere e del carattere non individuale del potere personale sono strettamente correlati.

"Il cinismo ideologico".L'insediamento di un capo Yao, così come viene descritto e analizzato da Gluckman, manifesta vistosamente questa correlazione; il futuro capo è prima di tutto oggetto di un «insegnamento» intensivo da parte degli Anziani, insegnamento realista che gli espone i pericoli della funzione e le insidie della vita di villaggio. La cruda realtà dei rapporti di forza viene espressa, insieme alla pesante passività del potere, dai riti che seguono questo primo insegnamento: il futuro capo viene preso a pugni e gettato a terra dal capo di un villaggio vicino; muore ritualmente; lo si veste come un cadavere, lo si cosparge di farina e si attende il momento della sua «risurrezione». Quest'ultima è seguita da un periodo di reclusione in cui un nuovo insegnamento viene impartito al «pretendente». Alla fine, gli viene data da

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consumare della carne umana (la letteratura etnologica non si pronuncia sul carattere simbolico o reale di questa carne): se la vomita, egli afferma il suo carattere fausto e forte.Anche in questo caso il discorso ufficiale non nasconde nulla della realtà dei rapporti di forza; allo stesso tempo la pratica del potere, aggravata dal peso morto e dal silenzio del capo o del re, sfida l'ordine delle cose con qualche parola e con qualche gesto singolari, con una serie di trasgressioni che, come quelle delle sacerdotesse di Avlekete, possono passare per specifiche del suo carattere transindividuale. La provocazione (la perversione) delle regole abituali è un altro aspetto della passività del potere, strettamente legato alla persona stessa del re o del capo che è chiamata a relativizzare da sé il carattere assoluto delle costrizioni che impone alla vita sociale, come per esprimerne simultaneamente l'arbitrarietà e la necessità; la logica perversa del potere indica che i contrari non possono identificarsi che in se stessi, non per gli stessi: le differenze si trovano sempre dalla parte della cultura e più precisamente da quella del sociale; ma allo stesso tempo esse devono avere l'evidenza del naturale, la pesantezza del reale. Indubbiamente, questo è il senso delle situazioni limite in cui possono essere dette le altre verità, quelle verità-sfida che sono proprie del potere: il re è duro, odiato dai suoi sudditi, dai suoi alleati, gli uomini sfruttano le donne, il dio è la causa del male - sfide, ma non rivendicazioni, sfide all'iniziativa di un potere che le assume, le proclama e le manipola con rude franchezza. Il potere non reclama l'amore; perciò viene caratterizzato in alcuni rituali dai simboli usuali dell'obbrobrio, del disgusto e dell'impurità. Nelle monarchie dell'Africa orientale, il re si presenta come il trasgressore per eccellenza; René Girard ha perfettamente ragione quando dice che la pratica dell'incesto regale deve esser messa in relazione con le altre trasgressioni: consumo di cibi proibiti, atti di violenza, bagni di sangue, utilizzo di droghe malefiche (come nella cerimonia dell'Incwala dello Swaziland, dove il compimento dei riti di trasgressione-provocazione è ritenuto fortificare il "silwane" del re). Queste trasgressioni si ritrovano dappertutto (bisogna ripetere che non caratterizzano solo il potere regale), ma non possono venire interpretate né come puro gioco simbolico né come segno d'impotenza.Esse non sono un puro gioco simbolico; la concezione del gioco simbolico corrisponderebbe al punto di vista di René Girard, secondo cui la dualità dei ruoli assunti dal re africano può essere ricondotta alla coppia di opposti sacrificato/sacrificatore. Nell'Incwala il re apparirebbe in definitiva come il maestro di un gioco che consiste essenzialmente nel ripetere il sacrificio originario: quello che ha instaurato l'ordine sociale e posto l'esistenza delle differenze. L'ordine è derivato originariamente dalla violenza, e le trasgressioni del re sarebbero tutti pretesti simbolici per aggredirlo simbolicamente allo scopo, in definitiva, di sacrificarlo e sostituirlo - giacché l'ordine riappare con la metamorfosi del sacrificato in sacrificatore: «Ogni re africano è un nuovo Edipo, che deve rappresentare di nuovo il suo stesso mito dall'inizio alla fine, perché il pensiero rituale vede in questa rappresentazione il modo di perpetuare e rinnovare un ordine culturale sempre minacciato dalla disgregazione» (18). Dal re si esigerebbe insomma che compisse ritualmente quanto ha miticamente compiuto una prima volta. Il tema dell'incesto regale, analizzato da Luc de Heusch, non giocherebbe da questo punto di vista che un ruolo secondario, atto semplicemente a rafforzare l'efficacia del sacrificio - anche se, in alcuni contesti di naufragio rituale, l'incesto ha potuto sopravvivere mentre s'inabissava, insieme al sacrificio, il ricordo dell'evento primordiale. Per René Girard il padre è meno importante dell'assassinio. Tuttavia, egli si attiene troppo facilmente a una concezione riduttiva del rituale e a una visione genetica della storia; il rito non viene compiuto in un momento qualsiasi; non tratta qualsiasi materia; si cura prima di tutto dell'efficacia; e la sua efficacia non può essere puramente simbolica: il rito deve affrontare la sanzione del reale e, più esattamente, quella dell'evento; che miri a evitare quest'ultimo oppure a suscitarlo, vi si confronta, e insieme a esso vi si confrontano tutti coloro che vi partecipano. La realtà che lo concerne non è semplicemente quella del passato lontano (del mito) oppure prossimo (quello

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delle tensioni da disinnescare, quello dell'escalation della violenza), ma quella del futuro immediato: dell'epidemia, della guerra, della presa del potere. Le trasgressioni legate all'esercizio del potere si inscrivono nella totalità lineare menzionata sopra e sono sottoposte alla sanzione dell'evento e dell'interpretazione retrospettiva.

"Il carattere non individuale del potere: l'alleanza, la morte".Esse non indicano con questo l'impotenza del potere, ma ne sottolineano il carattere non individuale. Il re, il capo del villaggio, il capo di una classe d'età, il signore della pioggia suggeriscono che il potere che essi rilevano viene da più lontano di loro stessi e che questa lontananza dà precisamente la misura della loro potenza straordinaria. Come le trasgressioni o le «inversioni» dicono il vero, così gli scopi proclamati dal potere sono i suoi veri scopi: il mantenimento dell'ordine sociale, in particolare nei periodi di "interim" e di guerra, la regolazione dell'ordine meteorologico, la lotta contro lo scatenamento delle epidemie sono, per il potere, imperativi assoluti e smisurati in rapporto alla dimensione finita e al destino effimero dell'individuo. Perciò, la passività e i pesi del potere si presentano come un altro aspetto della sua transindividualità; da questo punto di vista, le pratiche matrimoniali straordinarie e i riti che circondano la morte degli individui che incarnano il potere affrontano più da vicino delle altre «inversioni» e trasgressioni i rapporti fra istituzione e persona. Più esattamente, alcune pratiche matrimoniali e alcune pratiche di messa a morte simbolica o reale suggeriscono che l'individuo incaricato del potere non è un individuo come tutti gli altri - cosa che conduce, in termini esegetici, a interpretazioni sofisticate del potere personale, dell'eredità, della successione e, in termini pratici, a una difesa dell'istituzione, alla riaffermazione di una relativa non responsabilità del responsabile, in parole chiare: alla costituzione di una capacità di difesa e di reazione dell'istituzione del potere di fronte alle smentite dell'evento. Occorre, insomma, che colui che esercita un potere o il potere sia sempre legittimato (all'occorrenza condannato) a esercitarlo e che con questo le insufficienze dell'individuo non danneggino il potere più di quanto le incertezze dell'evento danneggino i suoi agenti.Qua non si tratta di funzionalismo, ma della logica del potere: logica simultanea dei suoi discorsi e delle sue pratiche. Difficilmente l'individuo finito può identificarsi con l'assoluto del potere e far pesare le sue costrizioni. Questa finitezza, perciò, viene rifiutata alle persone che hanno l'onere del potere: esse non nascono e non muoiono come gli altri. Il carattere eccezionale della loro nascita è legato a pratiche matrimoniali particolari e l'incesto reale ne è l'esempio più spettacolare; queste pratiche, se in parte sfuggono alle regole imposte ai comuni mortali, si affidano agli stessi elementi, agli stessi paradigmi, e si costruiscono secondo gli stessi tipi di regole sintagmatiche che definiscono e compongono l'insieme delle logiche sociali.Per il potere, ricondurre l'alleanza alla filiazione è stabilire simultaneamente l'eternità delle persone e relativizzare l'identità degli individui. E' già stato fatto notare che le teorie più elaborate dell'ereditarietà, nelle società lignatiche, riguardano di preferenza i primogeniti e contribuiscono così a costituire linee dominanti e punti forti di discendenza: è il caso delle società lagunari e delle società akan (matrilineari); un legame privilegiato unisce il nonno al figlio primogenito del proprio primogenito, il quale è ritenuto riprodurre in parte, per mezzo della trasmissione agnatizia, la formula biopsichica del nonno (da cui del resto prende il nome). La pratica matrimoniale può rendere sistematica questa definizione e ridurre al minimo il ruolo dell'alleanza nella costituzione dell'identità personale. Presso gli abitanti delle lagune della Costa d'Avorio, quando un padre dà al figlio una schiava o una straniera patrilineare portatrice di dote, egli assicura in teoria la trasmissione simultanea dei principi agnatizi e uterini di cui è il detentore alla persona del proprio nipote agnatizio; ottiene questo risultato (che in una società disarmonica corrisponde a vantaggi cumulativi dal punto di vista dell'organizzazione della produzione e dell'eredità) per mezzo di una specie d'incesto simbolico: suo nipote è in un certo senso anche il nipote

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uterino (la schiava o la straniera non avendo più un'identità lignatica) e il figlio (dato che ha acquistato o dotato egli stesso la madre, la quale chiama pertanto il suo acquirente «padre»). Questi, del resto, può ancora eliminare una mediazione e sposare lui stesso la schiava o la straniera acquistata (vedi la figura 3 - qui omessa).Le origini del figlio di una schiava sono però connotate in modo peggiorativo nei matrilignaggi, per i quali, se le donne non servono che a situare gli uni in rapporto agli altri gli uomini e i loro status, delle virtù specifiche si legano nondimeno alla trasmissione uterina «pura». Molti conflitti d'interpretazione sono così sorti dalle possibilità offerte ai trafficanti della costa attraverso l'estensione del commercio con l'Europa.Un risultato praticamente identico e teoricamente meno attaccabile è ottenuto attraverso il matrimonio preferenziale con la cugina incrociata patrilineare nella misura in cui esso permette di restringere lo scambio matrimoniale a due lignaggi e di concentrare completamente sulla persona del nipote agnatizio le virtù e i principi trasmessi dal nonno lungo due linee (vedi la figura 4 - qui omessa). Questo matrimonio, che tende alla costituzione di una linea di discendenza forte e «intensa», è significativamente prescrittivo ma limitato alle famiglie principesche nella società ashanti.Troviamo una rottura ancora più radicale nei reami dell'Est africano: si sa che il principe che accede al potere deve sposare la sorella agnatizia (una delle figlie di una delle concubine del padre), ma non deve darle figli. La regina-madre e la regina-sorella-sposa si trovano così, per il tempo di un regno, integrate nella configurazione del potere; ma nessun vincolo d'alleanza si costituisce e neppure si profila. La madre e la sorella-sposa del re defunto scompaiono con lui. La perennità della discendenza agnatizia va di pari passo con una relativa indifferenza nei confronti dell'identità del re: la guerra dei fratelli nemici, alla morte del re regnante, se tende ad assimilare il potere alla forza (sottomettendolo deliberatamente alla sanzione dell'evento), definisce anche i limiti della legittimità, che non sono quelli degli individui ma quelli della discendenza agnatizia. Gli uomini che prendono il potere non sono mai i figli della sposa del padre; ciascuno condanna alla castità e alla sterilità la madre e la sua sorella-sposa. La sola stirpe a riprodursi e a poter essere identificata è quella degli uomini: lo scontro dei fratelli nemici non mette tanto in risalto il valore degli individui, quanto il primato dell'identità filiativa legata alla discendenza senza alleanza (vedi la figura 5 - qui omessa).Il problema dell'incesto simbolico o reale non ci interessa in questa sede se non per il posto che occupa nella teoria e nella pratica del potere, sotto forme diverse che hanno in comune di relativizzare la nozione di identità individuale quando essa deve essere applicata alla persona del capo. Colui che comanda gli uomini o che interviene in modo decisivo negli eventi che essi affrontano si protegge in qualche modo dall'immensità dei suoi compiti fondando la sua identità su quella di un'entità più ampia rispetto all'individuo. Come l'Uomo-Dio dei cristiani, egli tende, al limite, a riprodurre la persona del suo creatore. Non nasce veramente. E' già nato da sempre.Similmente, egli non muore. Ed è indubbiamente questa l'origine della tendenza a rammentarci che è già morto da sempre. La nomina, l'intronizzazione, l'iniziazione passano attraverso un'immagine della morte che esprime meno la nascita a un nuovo stato, meno un rinnovamento e una risurrezione di quanto non costituisca una prova il cui esito non viene scoperto che nelle sorti della vita futura. Al di qua della nascita (alcuni riti, per esempio quelli d'iniziazione senufo, mettono in scena un nuovo parto) o, è lo stesso, al di là della morte, colui che avanza provoca e si espone. Il colmo della provocazione è raggiunto con la morte volontaria del Maestro dell'Arpione presso i Dinka (19). Il rituale agni ci propone due temi intrecciati: quello del potere subìto e della morte negata (rituale del re), quello del potere recitato e della morte provocata (rituale del figlio di schiavi); ma i due rituali sono inseparabili e il rituale del re è esso stesso una provocazione; ognuno sa, malgrado il silenzio ufficiale, che il re è morto come ogni altro uomo e che il tema della morte negata non è, al di là della particolare sorte degli individui,

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che la risposta estrema o l'estrema provocazione del potere: la morte, in se stessa, è una sfida incessante alla credibilità del potere e all'efficacia del rito. Allo stesso modo, la morte volontaria dei Maestri dell'Arpione provoca più il futuro di quanto non neghi la morte - giacché tale provocazione non caratterizza più il solo individuo, ma anche la stessa istituzione: «Le loro morti devono essere o devono apparire intenzionali, e devono rappresentare l'occasione per una forma di solennità pubblica. [...] La morte decisa liberamente, benché riconosciuta come morte, li dispensa in questo caso dall'ammettere la morte involontaria che tocca agli uomini comuni e alle bestie» (20). Mary Douglas, che cita queste righe di Lienhardt (21), indica a giusto titolo che l'analisi del rito sfocia nel problema della sua efficacia.Sennonché, decisamente influenzata da Durkheim, essa distingue tra l'efficacia materiale del rito (la sanzione mediante l'evento) e l'efficacia propriamente simbolica (legata all'atto rituale stesso e alla presa di coscienza che l'intera società realizzerebbe da sé in questa occasione). Si ritrova in questa distinzione una tendenza ricorrente in antropologia: pensare il rito e l'istituzione, da una parte, per quanto esprimono e, dall'altra, per quanto realizzano; a volte accade che questa distinzione, operante all'interno di uno stesso «campo», lo suddivida e si applichi allo stesso tempo alle «funzioni» che le suddivisioni adempiono agli occhi degli osservati e all'interesse che esse presentano per l'osservatore; così la religione viene talvolta contrapposta alla magia come l'espressione all'efficacia, e questo in un duplice senso: attraverso la religione le società locali si rappresenterebbero l'ordinamento del mondo e della società, attraverso la magia i membri di queste società riterrebbero di poter agire gli uni sugli altri e anche sulla natura. Dal punto di vista dell'osservatore, la religione consentirebbe una buona conoscenza delle strutture empiriche della società, mentre la magia consentirebbe di comprendere le sue tensioni interne, i suoi conflitti, le sue zone d'ombra. In Mary Douglas la distinzione assume una venatura di giudizio in parte morale e in parte estetica; per lei la preoccupazione utilitaristica ha qualche cosa di volgare e di interessato a cui non si può ridurre il senso del rito; il vecchio Maestro dell'Arpione che dà il segnale per essere ucciso «non ha nulla dell'esuberanza di un san Francesco d'Assisi che si avvoltola tutto nudo nella sporcizia e fa buona accoglienza a sorella Morte. Ma entrambi sfiorano gli stessi misteri. [...] Se taluni sono tentati di considerare il rituale come una lampada magica che basta strofinare per ottenere beni e un potere illimitato, il rituale mostra loro l'altro lato della medaglia. Se la gerarchia dei valori era bassamente materialistica, eccola scalzata, in maniera drammatica, dal paradosso e dalla contraddizione» (22). E' evidente che, in queste righe, Mary Douglas costruisce da sola l'opinione che poi si diverte a demolire; l'aspettativa che nasce dal rito non ha niente di basso; quanto alla gerarchia dei valori, non c'è più senso a chiamarla «materialistica» di quanto ce ne sarebbe a decretarla «spiritualistica»; questo linguaggio un po' banale significa semplicemente che i riti dinka e il prete dinka sono altrettanto degni d'interesse e di stima dei "nostri" riti e dei "nostri" mistici. E ne siamo profondamente convinti. Ma la dignità del rito non è in nulla inficiata dalla sua finalità prospettiva.

- Il rito come scommessa.

C'è di più: questa finalità prospettiva è inseparabile dai temi trattati dal rito, inseparabile anche dalla sua struttura cerimoniale. Che inverta o che provochi, che sfidi o che supplichi, il rito fa una scommessa fondamentale, impegna celebrante e celebrato nella logica irreversibile dell'evento il cui esito non conosce al massimo che un'alternativa: la vita o la morte. Poiché ha il controllo della sua morte, il Maestro dell'Arpione insegna ai Dinka qualche cosa sul suo potere (deve trattenere l'ultimo respiro affinché il suo spirito si trasmetta intatto al successore), qualche cosa sulla loro comunità (sono tutti radunati attorno a lui; Girard insiste sull'importanza dell'unanimità che presiede a ogni sacrificio rituale di questo tipo), qualche cosa, insomma, "sul" potere (che supera di gran lunga tutte le provocazioni e tutte le "mises" concepibili). Ma questo

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«significato» è interamente rivolto al futuro che lo avvererà: l'aspettativa che il rituale instaura è rivolta alla persona del successore, alla fortuna della comunità e, per dirla tutta, all'efficacia del rito. Di più: il tempo del rito è sottoposto alla logica della totalità lineare; ogni tappa del tempo cerimoniale costituisce in quanto tale un giudizio retrospettivo sulle tappe precedenti. La carica di Ayiwe (23), presso gli Ibo di Asaba, era una carica essenziale; i suoi diversi altari assicuravano la protezione dei cittadini di Asaba (all'occorrenza la loro sopravvivenza quando venivano feriti), allontanavano le minacce della guerra o, eventualmente, garantivano la vittoria. Se il detentore dell'ufficio moriva mentre era in carica, si supponeva che avesse infranto uno dei numerosi divieti associati a quest'ultima: la sua spoglia veniva allora gettata nel «bosco dell'abominio», e l'infamia che si legava al suo nome ricadeva sulla sua famiglia per diverse generazioni. In questo modo è il rito stesso a recare incessantemente la prova della sua fondatezza e della qualità del suo responsabile. La logica dell'evento è inscritta nel rituale stesso.I riti in generale, e in particolare i riti detti d'inversione, sono dunque a loro volta costituiti nel tempo; non possono essere colti e compresi se non attraverso questa apertura sul futuro, questa attesa della risposta e della verità retrospettiva che caratterizzano le pratiche ideologiche. La litote, l'allusione, il sottinteso, l'insieme delle astuzie simboliche, la cui ingenuità perversa può di primo acchito sorprendere, si accumulano nelle pratiche d'inversione che costituiscono, in qualche modo, un caso limite. Non c'è soluzione di continuità fra pratiche tanto diverse e poste tanto differenziate come non piangere la morte di un gemello, affidare il proprio bambino a una famiglia estranea, o dare a un "vodu" i cibi che gli sono proibiti. Tutte queste pratiche sono al contempo una risposta all'evento e, letteralmente, una provocazione nei confronti del futuro; insieme all'importanza della posta cresce il ruolo dell'ostentazione rituale; il potere minacciato dall'epidemia o dalla morte ritualizza «spalle al muro», lascia dire (e in qualche modo proclama esso stesso) l'arbitrarietà del potere divino e del potere politico: nel rito d'inversione si manifesta l'altra verità dei rapporti sociali, il volto nascosto del potere s'illumina e tuttavia questa rivelazione non è che un invito alla smentita dell'evento. Nel momento stesso in cui il potere esprime la sua passività ed eventualmente la mette in scena, nel momento stesso in cui il titolare della carica esprime la sua non responsabilità (rifiutando il titolo che lo opprime), quando la sua stessa individualità si nasconde dietro le magie della discendenza, tutto il sistema del potere si appella contro questa modestia e si sottopone alla sanzione di un evento che ha talvolta anche la speranza di controllare o di creare, e il mezzo per farlo: la morte del falso re agni sanziona logicamente l'intronizzazione del vero re - e, di qui, l'immortalità del re.L'ideologica, nel complesso, tende all'interpretazione o alla prevenzione di diverse categorie di eventi. Le strutture ideologiche che abbiamo appena elencato e analizzato prescrivono l'attuazione intellettuale e sociale di queste pratiche; esse si combinano in differenti pratiche istituzionalizzate che dipendono tutte da una sintassi comune, per quanto poi il carattere degli eventi che rispettivamente controllano conferisca loro forme, ritmi e modalità di funzionamento diversi. Nella figura 6 (qui omessa) sono rappresentate schematicamente le diverse categorie di eventi che individui, gruppi o la società nel suo insieme potrebbero dover interpretare, prevenire o modificare. L'evento in questione può essere unico o ricorrente, imprevedibile o prevedibile. Ma le combinazioni consentite da questa duplice distinzione si complicano per il fatto che un medesimo evento può venire considerato come unico o ricorrente a seconda che lo si consideri dal punto di vista di un individuo o di un gruppo determinati oppure dal punto di vista dell'insieme della società.Va da sé che una tappa iniziatica o una malattia ben precisa, che costituiscono un evento unico per un gruppo e per un individuo, sono dal punto di vista della società eventi ricorrenti; prova di questa ricorrenza sono le costanti del rituale e l'esistenza di una eziologia specifica. Va da sé che, se la morte di ogni individuo è unica, la morte è un evento quasi quotidiano; la morte in quanto fenomeno ricorrente è sottoposta a un rituale stabilito, ma ogni morte mette in

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gioco, a partire da questo rituale, un tentativo d'interpretazione specifico che è condizionato al contempo dall'indagine retrospettiva e dall'attesa prospettiva. Inversamente, gli eventi regolarmente ricorrenti e totalmente ritualizzati e formalizzati, come le cerimonie di purificazione legate a un determinato periodo del calendario agricolo, possono dar luogo in determinate circostanze a interpretazioni particolari: le condizioni meteorologiche del momento, la personalità del celebrante, gli eventi dell'anno trascorso influiscono sul senso di un rituale, il quale deriva contemporaneamente dal passato e dal futuro.A parte tutte queste riserve o tutto questo relativizzare, si potrà, dal punto di vista di un Ego indifferenziato, distinguere fra quattro tipi di pratiche ideologiche più o meno formalizzate corrispondenti a diverse categorie di eventi. La morte in quanto evento unico e imprevedibile (a) dà luogo a indagini, talvolta a interrogazioni del cadavere, eventualmente ad accuse (in particolare di stregoneria) che danno adito, se nessuna persona influente vi si oppone, al corso relativamente libero della totalità lineare e della logica retrospettiva. La malattia e la morte in quanto eventi ricorrenti e imprevedibili (b) hanno dato luogo a procedure simboliche molto formalizzate - l'organizzazione metodica della divinazione o dei funerali.Presso gli Alladiani della Costa d'Avorio, la sepoltura, insieme a tutte le indagini che la precedono e che la seguono, sarebbe da classificare nella prima categoria, mentre i funerali che mettono in scena la diagnosi compiuta apparterrebbero alla seconda. Eventi unici e imprevedibili (c) come le iniziazioni, l'avanzamento delle classi d'età, la designazione dei capi delle classi di età possono essere considerati prevedibili e ricorrenti dal punto di vista dell'istituzione (d); nondimeno si distinguono in quest'ultima categoria pratiche come i rituali agrari stagionali (perfettamente ricorrenti e regolari) e i rituali d'intronizzazione legati a problemi di successione che vengono completamente istituzionalizzati per alcuni loro aspetti, ma che in ogni caso chiamano in causa individualità irripetibili e mettono in gioco eventi incomparabili. Da questo punto di vista, il colmo del paradosso o del bizzarro è raggiunto mediante l'istituzionalizzazione della guerra di successione - la guerra dei fratelli nemici - nei reami dell'Africa orientale. Questa guerra, insomma, rappresenta il più compiuto sforzo simbolico formale per conciliare l'eternità dell'istituzione (e la formalizzazione del rituale) con la logica dell'evento (e lo stabilirsi di una verità retrospettiva). La morte volontaria del Maestro dell'Arpione rappresenterebbe inversamente, da questo punto di vista, il più compiuto sforzo simbolico formale per integrare l'evento particolare nella categoria del prevedibile e ridurre la vicenda individuale all'eternità dell'istituzione. In un caso come nell'altro, per eccesso o per difetto, è la nozione di individualità che viene meno.Lo schema che abbiamo abbozzato e commentato non vuole stabilire una tipologia degli eventi e delle pratiche rituali. Al contrario, essa intende sottolineare la continuità strutturale che unisce queste pratiche e la complementarità dei punti di vista (individualizzante o generalizzante) che qualificano questi eventi. La peculiarità dei rituali propriamente politici è forse appunto che essi impongono la fusione dei punti di vista: poiché il titolare della carica non è un individuo come tutti gli altri, allo stesso titolo degli altri (un tema che rimanda a quelli della passività e dell'«inversione»), l'evento che lo riguarda è, più d'ogni altro, unico e ricorrente al tempo stesso; è vero allora che il rito ripete il rito (da cui la tentazione, per il filosofo, di pensare che esso ripeta il mito o l'evento originario); è anche vero che la persona ripete la discendenza e che i vanti plebei dell'alleanza vengono meno nella trasmissione da uomo a uomo delle cariche e degli emblemi; ma è anche vero che la dipendenza dall'evento, dal futuro prossimo o lontano, segna il potere (che se ne smarca per quanto gli è possibile - individualmente e proprio attraverso la disindividualizzazione dei personaggi che lo incarnano e che lo esercitano - ma che al tempo stesso gli rinnova in ogni istante, in quanto essenzialmente necessario, il suo appello e la sua fiducia). Questo evento può essere l'esterno assoluto (l'aggressione) o l'esterno che ogni società racchiude in sé (l'epidemia, l'azione delle fazioni rivali); può anche

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essere (forse favorito dagli sconvolgimenti demografici o da altri sconvolgimenti indotti dall'esterno assoluto e dall'esterno relativo) il passaggio all'azione dei dominati, la cui lucida parola e le cui pazienti derisioni aspettano d'invadere un giorno il rituale che le accoglie e, nel duplice senso del termine, le contiene.

CONTATTO.

- Sincretismi e messianismi.

Il problema del contatto costituisce in qualche modo una pietra di paragone per la definizione delle strutture dell'ideologica. Abbiamo indicato sopra che l'analisi ideologica era interessata dal cambiamento per due ragioni di fatto: la parola e la pratica dei dominati o dei marginali si esprimono e si inscrivono nella struttura d'inversione dell'ideologica; le popolazioni aggredite dalla forza materiale e dall'imperialismo spirituale del colonizzatore rispondono per quanto possono in maniera logica. L'ordine pensato (ordine intellettuale) e l'ordine vissuto (ordine sociale) sono effettivamente inseparabili: l'immaginario individuale e il simbolismo sociale derivano da essi. I cambiamenti subiti dall'ideologica lignatica al contatto con il colonizzatore e, più in generale, con la società industriale, non sono il riflesso, il contraccolpo o l'espressione ideologica di cambiamenti realmente avvenuti altrove, a un altro «livello» (per riprendere la metafora verticale) della realtà sociale: sono il prodotto attivo di due lotte, di due tentativi.Da una parte, il colonizzatore arriva con le sue istruzioni d'uso; detto altrimenti, combatte direttamente le rappresentazioni della società colonizzata; questo è vero dell'azione missionaria cristiana, che nega la verità, la fondatezza di tali rappresentazioni e sostituisce i propri miracoli, quelli veri, ai miracoli locali, quelli falsi. Ma le affermazioni dei missionari non avrebbero alcuna possibilità d'essere recepite se, parallelamente, la prova di forza non volgesse sistematicamente a favore del colonizzatore. Quest'ultimo prova in modo quanto mai evidente la sua forza; l'azione brutale, il dispiego della forza non comportano semplicemente la sottomissione, ma anche la convinzione che, in effetti, il colonizzatore bianco possieda i segreti della potenza. La cannoniera, nella bassa Costa d'Avorio, è la prova chiara dell'esistenza del Dio della Bibbia. Con abilità, i missionari più intelligenti e, significativamente, i profeti locali non contestano l'esistenza, la realtà dei geni locali o degli «stregoni» ("witches"); contestano la loro forza, come se essa non fosse che un accenno o un'approssimazione della vera forza: il potere bianco.Dall'altra parte, le popolazioni locali non si accontentano di subire e di registrare la forza altrui, il potere venuto da un altro luogo: cercano di comprenderla. Comprendere per controllare (per prevenire, per attenuare, per piegare) era già la ragion d'essere dell'ideologica tradizionale. Per gli straordinari mutamenti apportati all'entourage dell'individuo essa si trova messa a confronto con problemi nuovi. L'ideologica inserisce l'ordine individuale in un ordine sociale. Abbiamo visto come essa sia unica (ricorso e riferimento dei dominanti e dei dominati, tale da assicurare al tempo stesso la dominazione dei primi sui secondi) e «sovradeterminata», per quanto, funzionando colpo su colpo, essa prescriva, più di quanto non esprima, la pratica degli uni e degli altri, la vita dei gruppi e quella degli individui. Per questa stessa ragione, a causa delle sue debolezze e delle sue lacune, improvvise o graduali che siano, a causa della sua incapacità di spiegare gli sconvolgimenti delle gerarchie e dei rapporti di forza, essa si rivela vulnerabile al cambiamento (e, in questo senso, rivelatrice del cambiamento). Tuttavia, reagisce al cambiamento nella misura in cui è, per definizione, esigenza di controllo intellettuale. A proposito dei movimenti millenaristici della Melanesia, Peter M. Worsley ha perfettamente mostrato come essi non costituiscano affatto delle fughe irrazionali fuori dalla realtà, secondo l'espressione di Lintos, quanto piuttosto un tentativo sistematico e talvolta disperato di comprendere il nuovo ambiente.E' forse in questa prospettiva che conviene studiare i sincretismi e i messianismi

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nati nel periodo coloniale e le loro metamorfosi attuali. Infatti (ed è questo il fatto degno di nota), numerosi movimenti sincretici sono sopravvissuti alle condizioni che li hanno visti nascere: è così che altrove sono stato indotto a evocare il ruolo e l'organizzazione attuali dello harrismo apparso in Costa d'Avorio nel 1913. Questo esempio e le precedenti riflessioni consentono forse di relativizzare l'opposizione stabilita da Sundkler ("Bantu Prophets in South Africa", 1948) fra chiese di tipo «etiope» e chiese di tipo «sionista». Le prime corrisponderebbero a una dominazione principalmente culturale ed esprimerebbero di rimando un'opposizione di tipo culturale; le seconde avrebbero cause ed espressioni più sociali. Le prime, fortemente segnate dall'apporto cristiano, verrebbero sostenute da una certa élite della società dominata; le seconde, più sincretiche, avrebbero una base più popolare. E' basandosi più o meno su questa distinzione che ricercatori francesi come Claudine Vidal, Gérard Althabe e Jean-Pierre Dozon contrappongono, nello Zaire, movimenti religiosi come il kimbanghismo e il kitawala. Il primo, di stile «etiope», è normalmente sfociato nella costituzione di una chiesa di Stato; il secondo è scomparso nella bufera che ha provocato la scomparsa di Lumumba.Jean-Pierre Dozon (24) svolge, da questo punto di vista, una critica interessante di un articolo di Bastide («Messianisme et développement économique et social», CIS, 1961), il quale, pur sottolineando che la via religiosa è la sola via di protesta praticabile per i popoli colonizzati, evoca il paradosso per cui un movimento messianico, efficace durante il periodo coloniale, deve, dopo l'indipendenza politica, integrarsi nella società globale, e dunque identificarsi con l'ordine stabilito, a costo di diventare reazionario. Al contrario, Dozon suggerisce che l'indipendenza non è un limite, ma un elemento rivelatore: il divenire dei movimenti religiosi dopo l'indipendenza che essi sembravano invocare ci informa oggi sul loro precedente contenuto ideologico, politico e sociologico. E' così possibile una lettura retrospettiva.Ma una cosa è ammettere che i movimenti sincretico-messianici sono, come tutte le manifestazioni simboliche, produzione, reazione e creazione, che sono prima di tutto pratiche e in quanto tali possono essere oggetto di studio, altra cosa è fare della loro ultimissima metamorfosi l'espressione del loro senso e della loro verità. La chiesa harrista in Costa d'Avorio è oggigiorno estremamente difficile da qualificare e si possono concepire molti scopi per i profetismi odierni; un personaggio come l'attuale profeta Atcho non è privo di ambiguità né di ambivalenze. Ma, qualsiasi cosa avvenga in seguito, sono proprio le ambivalenze a essere oggi significative e in qualche modo efficaci. Esse, del resto, sono essenziali per il «profetismo», che non s'identifica totalmente né con la visione religiosa né con la visione politica della società. Il profeta africano si sforza di comprendere, di restituire un ordine logico a situazioni parziali, e in particolare individuali, colpite da una situazione globale perturbata. Il profeta non è né un uomo politico, né un missionario. E perché parla all'individuo della sua sventura individuale, del suo disordine interiore, che gli parla anche dell'ordine sociale - fedele, in questo, allo spirito dell'ideologica tradizionale. Henri Desroches parla dello scacco a cui sono condannati tutti i messianismi; il fatto è che, comunque, la promessa del messianismo è, per ciascuno, personale: essa si misura sulla scala della vita umana individuale, e muore molte volte con ciascuno dei suoi adepti. Una visione strettamente politica delle cose non è mai veramente messianica, dato che sacrifica la dimensione individuale: le sue scadenze non si trovano necessariamente a portata dell'individuo. Non a tutti i militanti viene promessa la rivoluzione e questa lacuna cronologica può, in qualche modo, costituire il limite di credibilità o di efficacia delle dottrine rivoluzionarie; il riformismo segue il rivoluzionario come la sua ombra, è al margine di ogni progetto radicale, la sua coscienza temporale, la sua cattiva coscienza e la sua esigenza «laica», se è vero che l'esigenza individuale è legittima e che la vita individuale è un assoluto.I sincretismi nati dalla dominazione e le loro promesse rispondono anche e innanzitutto all'oppressione vissuta da ogni individuo, al bisogno di comprendere provato da ciascun individuo. Il reame evocato dalla visione religiosa non è di

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questo mondo. Ma il messianismo africano ha i piedi per terra; si cura meno di rivelare un altro mondo che di comprendere il nuovo mondo: di reinserire l'ordine individuale nell'ordine sociale e quest'ultimo nell'ordine del mondo. Annuncia la prossima realizzazione, su questa terra, dell'ordine nuovo; costituisce la società attuale come futuro significante di una rivoluzione già significata; tale annuncio vale per tutti gli individui viventi. Nel 1914 Harris annuncia ai Neri della Bassa-Costa che sette anni più tardi sarebbero stati «come i Bianchi». «Wait and see»: è la legge pragmatica del profetismo. Che le disillusioni siano ineluttabili, che la speranza riscaturisca nel corso di una stessa vita (gli harristi rinvieranno la prima scadenza di fronte all'evidenza dei fatti) o che sia riaffermata da una nuova generazione indifferente alle disillusioni di quella precedente, non toglie nulla all'identificazione della vita con l'attesa e della salvezza individuale con il cambiamento sociale.Per concludere su questo punto in modo concreto, evocheremo, sull'esempio della bassa Costa d'Avorio, gli aspetti ideologici della violenza coloniale, del sovvertimento cristiano e della strategia di sviluppo e di integrazione politica attuale.

- L'esempio dello harrismo.

Nel diciannovesimo secolo le popolazioni lagunari - principalmente gli Alladiani del litorale situato a ovest dell'odierna Abidjan, gli Avikam della regione di Bandama (all'estremo ovest della civiltà di tipo akan e matrilineare in ambito patrilineare), gli Ebrié e gli Abouré situati a est dell'odierna Abidjan e alla foce della Comoé - praticavano il commercio con l'Europa. Traendo vantaggio dalla loro posizione di intermediarie, le popolazioni costiere si arricchirono malgrado fossero le popolazioni dell'interno a fornire la maggior parte del prodotto di esportazione: l'olio di palma. Sennonché, alla fine del secolo la politica francese mutò; le imprese commerciali europee si insediarono localmente, imponendo direttamente il loro prezzo d'acquisto ai produttori e assicurando esse stesse lo smercio dei prodotti lavorati. Presenza amministrativa e presenza militare coincidono con questo insediamento. I francesi passarono dallo sfruttamento economico indiretto, che li accomunava agli inglesi e al quale gli abitanti della costa erano associati, allo sfruttamento diretto, insieme a quanto esigeva violenza per assicurare sottomissione e rendimento.In principio, l'aggressione ideologica (il cristianesimo) parve non avere seguito, i missionari non trovarono eco. Ma l'evidenza della forza bianca s'impose rapidamente. Dal 1880 al 1910 la repressione fu severa in Costa d'Avorio e coloro che non ne furono le vittime principali (per esempio gli Alladiani) ne furono i testimoni, giacché il colonizzatore reclutava forze ausiliarie presso i capi convertiti alla sua causa. Occorreva sia pensare sia comprendere la disfatta degli uni e la vittoria schiacciante degli altri: un'ideologica che, sotto diversi aspetti, è una logica delle forze non può che fallire nel rendere conto del proprio scacco e dell'impotenza che esso manifesta. E' una storia che perdura: contemporaneamente, vengono meno il quadro in cui si inscrivono i fatti da spiegare e i principi esplicativi.I profeti, e Harris per primo, prendono atto innanzitutto dello scacco nero. Harris viene dalla Liberia, andrà fino in Ghana, ma è in bassa Costa d'Avorio che conoscerà il successo. In Liberia ha fatto l'esperienza della forza bianca inglese e, lungi dall'opporvisi, vuole metterla a servizio degli africani. La forza di cui si tratta, allora, non è semplicemente la forza militare, la quale non è altro che un aspetto di una forza più fondamentale il cui segreto si trova nella Bibbia. In ogni villaggio avikam o alladiano Harris sfida geni e stregoni ad attaccarlo. Non mette in discussione la loro realtà, ma la loro forza. Imprigionato dai francesi a Grand-Bassam, lascia credere in una sua evasione miracolosa, ma le sue stesse evasioni, come i suoi miracoli, ricalcano quelli della tradizione cristiana. L'Africa è il nuovo inizio del mondo ma un nuovo inizio accelerato, e un mondo cristiano; Harris annuncia che in sette anni i Neri saranno come i Bianchi: i segni della ritrovata potenza nera saranno bianchi.

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Non insisterò qui sul personaggio di Harris e sui dettagli della storia dello harrismo (25). Dopo la sua espulsione dalla Costa d'Avorio (1914), lo harrismo conosce alterne fortune; parecchi aspiranti profeti, dal destino più o meno effimero, si raccomandano a Harris. Persino i pastori protestanti; un francese, il pastore Benoît, si reca in Liberia per strappare un messaggio a Harris (che è forse un falso) nel quale questi consiglia agli ivoriani di aderire alla chiesa metodista wesleyana; tuttavia, nel 1928 Salomon Dagri e Jona Ahui, l'attuale «papa» dello harrismo ortodosso, ottengono da Harris risposte che negano validità alle dichiarazioni del pastore Benoît. L'atteggiamento delle autorità amministrative francesi è stato tanto incerto e ambiguo nei confronti dello harrismo quanto lo era stato nei confronti del suo fondatore. Harris era stato considerato al tempo stesso pericoloso e utile. Pericoloso, perché si circondava di cattivi spiriti anglofoni, impiegati di imprese commerciali giunti da territori assoggettati all'altra potenza coloniale. Utile, nella misura in cui faceva bruciare i feticci, istintivamente e sottilmente percepiti dai colonizzatori come i loro nemici più tenaci, utile anche nella misura in cui, rimandando i suoi fedeli indifferentemente all'una o all'altra delle chiese cristiane, identificava l'adesione alla liberazione e prendeva atto della fine della prova di forza.Dopo aver differito le scadenze, la chiesa harrista, con l'indipendenza, dovette riconoscere che i tempi erano maturi. Essa celebra oggi con entusiasmo la politica di sviluppo del presidente Houphouët Boigny. In un certo senso, avrebbe potuto costituire una specie di kimbanghismo ivoriano. All'inizio ha fatto reclute fra i piccoli "lettrés" (26), per riprendere un'espressione locale; è stata molto vicina allo R.D.A. (27); inoltre i suoi rapporti con il cristianesimo sono, come si è visto, molto stretti. Ma, su questo terreno, essa ha subìto la concorrenza degli stessi protestanti, malgrado il cattolicesimo apparisse progressivamente nella politica della Costa d'Avorio come la religione del potere. Di modo che, oggigiorno, lo harrismo, diffuso nella metà meridionale del paese, è soprattutto la religione degli emarginati e dei poveri.Di conseguenza, pare esserci talvolta un contrasto e quasi una contraddizione fra la richiesta degli adepti dello harrismo o di coloro che, pur non essendo harristi, si rivolgono ai suoi profeti, e il messaggio ufficiale della chiesa. La chiesa harrista non è una sola; oggigiorno parecchi profeti pretendono di essere i legittimi rappresentanti dello harrismo. Tutti hanno in comune (con il più importante fra loro, Atcho, autorità laica dello harrismo ortodosso rappresentato da Jona Ahui) di glorificare l'azione governativa e di non profetizzare che il presente. I discorsi ufficiali, le circolari, i sermoni riprendono temi di attualità (lo sviluppo, le «lottizzazioni», la felicità dell'uomo ivoriano e la profonda saggezza del capo di Stato). Lo stile è spesso parodistico, le formule stereotipate. Le rivendicazioni immediate (la creazione di una strada, il riconoscimento ufficiale delle doti terapeutiche del profeta) sono espresse nella lingua ufficiale, il francese, e nei termini che sembrano adatti: quegli stessi che il Potere utilizza per promettere.Quanto al Potere, esso esita a rispondere favorevolmente alle richieste dei rappresentanti della religione locale. Certo, il ministro senza portafoglio assiste alla festa annuale del profeta-guaritore Atcho, a Bregbo; il profeta è insignito dell'Ordine nazionale; certo, in principio, si è convenuto che una cattedrale harrista dovrebbe figurare a Abidjan a fianco dei nuovi edifici religiosi cattolici e protestanti. Tuttavia, questa cattedrale non è mai stata realizzata (nemmeno le altre, del resto), e Bregbo non è mai stata riconosciuta come complemento ufficiale dell'ospedale psichiatrico di Bingerville. Lo harrismo ufficiale celebra l'avvento di tempi nuovi, ma gli individui che si rivolgono ai profeti e ai guaritori vogliono comprendere questi tempi nuovi e conoscere la causa delle sventure che li opprimono: sventure di sempre (malattia, sfortuna, morte) e sventure moderne (disoccupazione, insuccessi scolastici, rivalità professionali). Agli occhi dei non-harristi, gli harristi rimangono i detentori delle forze antiche. Lo schema persecutorio (che invita l'individuo a cercare sempre altrove da sé la causa delle proprie eventuali sventure) è all'opera nella richiesta rivolta al profeta Atcho, proprio come era ed è ancora all'opera nell'interrogazione del cadavere o

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nell'accusa di stregoneria. Il profeta proclama la virtù dell'attuale felicità, ma quelli che fanno ricorso a lui gli chiedono di spiegare le nuove sventure (le quali, del resto, non comportano la scomparsa delle altre). Così, c'è sempre dalla parte dello harrismo, delle sue istituzioni e dei suoi personaggi una potenzialità sovversiva indipendente dalle sue posizioni ufficiali e legata alla situazione di coloro che ricorrono a esso.Albert Atcho, profeta-guaritore di Bregbo, un piccolo villaggio ebrié a est di Abidjan, riassume queste ambiguità e queste contraddizioni. E' in certo qual modo il garante laico e terapeutico della chiesa harrista. Per quanto non sia collegato alla gerarchia della chiesa in senso stretto, Atcho ne è la figura più prestigiosa. Deve la sua fama alle sue guarigioni - e anche, bisogna dirlo, ai suoi testimoni esterni, i quali confermano, agli occhi dei fedeli e dei malati, la sua credibilità: le autorità politiche, che non possono non essergli grate del fatto di vedere nell'avvento del nuovo potere la realizzazione delle promesse divine, gli etnologi, per curiosità professionale, e qualche curioso, dato che questa etnologia non è né lontana né di difficile accesso, conferiscono il suo stile alla predicazione di Atcho, esplicitamente edificata sul linguaggio e sullo sguardo degli altri.Atcho è stato e resta in primo luogo un guaritore. Ma la guarigione mette in gioco l'intera concezione della persona; il guaritore africano è innanzitutto un indovino che scopre la ragione sociale della malattia e non guarisce l'individuo se non indirettamente, per quanto riesce a distinguere e ridurre il disordine sociale che è all'origine di tale malattia; la prova migliore di questo è che la morte è oggetto delle stesse indagini compiute per le malattie. Essenzialmente, agli occhi di molti di coloro che sono ricorsi a lui, Atcho è un "witch-doctor". Tuttavia, sotto la doppia pressione dell'influenza cristiana e della situazione politica attuale, tende a modificare lo schema rappresentazionale della malattia e della morte, dell'individuo e della società, che corrispondeva all'ideologica tradizionale e che ancora ispira la maggior parte delle richieste che gli sono rivolte e dei casi che gli vengono sottoposti.Tale lieve trasformazione si traduce in diversi modi. Innanzitutto il ricorso alla confessione si generalizza. La confessione tradizionale verteva su punti molto specifici (adulterio, rottura di un particolare divieto). Oggi essa tende a diventare il rimedio dei malati e lo strumento della loro guarigione. Gli Alladiani, indubbiamente perché, data la loro quasi insularità, hanno un'organizzazione sociale e spaziale rimasta a lungo intatta, conducono sempre al cospetto di Atcho individui sospettati di aver causato ad altri malattie o di averli fatti morire. Ma nel paese ebrié, dove l'organizzazione di villaggio e lignatica è stata molto più colpita dalla conquista, dall'espansione di Abidjan e dall'espansione delle culture industriali, sono i malati che, di loro iniziativa oppure incoraggiati dai genitori, vengono a confessarsi, come se il loro male non provenisse che da loro stessi. Questo atteggiamento corrisponde all'insegnamento di Atcho e dei suoi rappresentanti: il male e la malattia continuano a rimanere una sola e medesima cosa, ma questa cosa è opera del malato stesso; se confessa le sue menzogne, il malato espellerà al tempo stesso la sua malattia.Si afferma così un capovolgimento delle concezioni della persona (tradizionalmente concepita come composta da istanze psichiche collegate ma relativamente autonome, vulnerabili agli attacchi esterni ed eventualmente mobili) che è anche la rappresentazione di un cambiamento della società e della logica sociale. Mettere in discussione le rappresentazioni tradizionali della stregoneria (uno stregone è ritenuto esercitare il suo potere all'interno del suo matrilignaggio) significa infatti mettere in discussione la concezione stessa del lignaggio e dei rapporti intere intralignaggi. Tutta una parte dell'ideologica tradizionale cade quando l'inscrizione del destino individuale nella società non viene più concepita in primo luogo come inscrizione all'interno di un lignaggio - con le definizioni e le costrizioni che vi corrispondono.Atcho vuole creare un individuo che non sia più definito dal suo entourage e dalle sue eredità, che sia separato dalle sue inscrizioni tradizionali e che stabilisca soltanto in rapporto a se stesso la sua relazione con il mondo esterno e con le

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incertezze della vita. Bene che vada, se non si riesce a inculcare il senso del peccato, si stabilirà l'evidenza dello scacco: si dirà al malato che lui stesso ha attaccato un'altra persona ma che questa era troppo forte per lui.Come «profeta», Atcho prende atto del disfacimento degli universi antichi, nel quale vede il segno - differito da Harris - dell'avvento di una nuova era - la bianchezza per i Neri, così come l'incarnano il presidente, i suoi ministri e il profeta, egli stesso imprenditore, uomo d'affari la cui riuscita «moderna» funge da prova e da testimonianza. Come terapeuta, Atcho dà l'ultimo tocco, con le sue diagnosi, a questa disgregazione: invece di essere l'entourage tradizionale a manifestarsi nella malattia dell'individuo, è la mediocrità dell'individuo stesso, già nuovo (causa di se stesso) ma ancora vecchio ("witch" svalutato, nel nuovo linguaggio: diavolo), a manifestarsi nelle difficoltà del rapporto con l'entourage. Questa rottura della relazione è rappresentata simbolicamente nell'immaginario di Bregbo dai «guerrieri di Dio», che tagliano la strada dello stregone aggressore, ma tutto il rovesciamento si trova nella diagnosi che fa della vittima un colpevole. Se lo stregone viene vinto, ciò significa che l'entourage in quanto tale non esiste più. L'individuo le cui sventure manifestavano la struttura è invitato a sentirsi manifestato dalla destrutturazione. Se non ha più una relazione efficace con l'entourage, questa carenza rimanda a un'altra relazione, quella dell'individuo con se stesso e con il mondo nuovo che lo circonda.L'individuo è solo al mondo. Chiede spiegazione al profeta delle nuove sciagure. Se non vuole mettere in discussione la società, il profeta è tenuto a non rimandare l'individuo se non a se stesso. Ma la sua figura può essere sopraffatta dalla richiesta che gli viene rivolta, segnata dall'evidenza di altre sciagure dopo la parziale cancellazione del mondo antico. Ciò nonostante, la logica delle rappresentazioni cambia senza arrivare a ordinarsi in una figura stabile e coerente.

SENSO E POTERE.

- Il senso e il tempo.

Tutte le osservazioni fatte fino a questo punto, siano esse destinate a una rievocazione critica dei temi antropologici di moda o a una ripresa rapida delle nostre analisi del sistema lignatico, sollevano il problema del tempo e delle concezioni del tempo, più esattamente quello della memoria e dell'oblio. Il concetto di memoria riunisce in un certo qual modo i concetti di repressione individuale e di repressione sociale; memoria individuale e memoria sociale si alimentano l'un l'altra e spesso sono entrambe arbitrariamente selettive. La memoria è l'espressione più immediata della costrizione; ogni promemoria è un richiamo all'ordine, richiamo di un evento, di una promessa, più generalmente: di un'origine. «Chi t'ha fatto re?» L'individuo si sa, si crede o si teme «segnato» dal suo passato, a meno che l'assenza di qualsiasi evento «che lasci un segno» nella sua esistenza tolga a quest'ultima ogni senso. L'origine servile si traduce nel nome o s'inscrive nella carne. Il ricordare si coniuga volentieri all'imperativo: ricordati di fare questa o quest'altra cosa (cioè di ricordarti il passato come costrizione); smetti di rivendicare e di esaurire tutto il senso dell'esistenza ("memento mori"). I messianismi e i profetismi coniugano la costrizione al futuro anteriore, differendo la comparsa dei segni che esprimeranno, giunto il momento, una necessità ancorata nel passato.L'antropologia, essendo "ricerca del senso (quantunque si tratti del senso che gli altri danno alla loro esistenza), non può non essere una riflessione sulle origini (quantunque si tratti delle origini che gli altri si riconoscono o che si inventano). Mettiamo insieme tutti i temi e ritroviamo le loro costanti: Morin evoca i rapporti complementari del codice culturale e del codice genetico, la stimolazione dell'ontogenesi da parte dell'eredità culturale. Marcuse fa risalire la storia umana a due origini: l'origine della repressione individuale e l'origine della civiltà repressiva (che conduce alla «repressione addizionale»). Il «Super-io», dove si accumulano gli effetti dell'ontogenesi e della cultura, obbliga

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l'individuo a obbedire ai dettami della realtà: la realtà pensata che s'identifica con la realtà passata. Adamo, Prometeo, Ogo: tutte le origini sono simbolizzate da passati di rivolta e di rottura - passati tuttavia incessantemente riattualizzati (mitizzati, ritualizzati, celebrati) come se il limite della rivolta fosse quello stesso del senso legato alla costrizione, come se il bisogno di comprendere e di giustificare esigesse che il passato abolito non venisse per questo dimenticato. La prima rottura, la rottura iniziale è, evidentemente, la nascita stessa; di qui, indubbiamente, il fatto che il senso dell'esistenza sia tanto spesso cercato indietro, prima della nascita; nel mito di Er e nei suoi omologhi africani, l'oblio delle scelte che precedono la nascita non è mai totale: occorre un minimo di memoria e di responsabilità per mantenere il senso dell'esistenza sociale. Poiché è di senso e di società che si tratta; al limite estremo di questa tentazione logica, e necessario che la nascita sia un errore affinché l'esistenza abbia un senso; il peccato originale è un'esigenza di senso; tutti i Prometeo sono al contempo eroi logici ed eroi sociali - o, come si è detto, dei civilizzatori.Logica storica e logica mitica si confondono nella misura in cui l'ordinamento vigente deve essere pensato. Che la storia abbia un senso è l'esigenza di ogni società odierna. Tutte le società hanno bisogno di una storia e di «fare una memoria» per coloro che le costituiscono; l'ordinamento sociale ha bisogno, per essere logico (per imporsi), dell'ordine cronologico; la storia forse non è se non la storia della creazione del senso e delle sue costrizioni (anche se questo senso e queste costrizioni rimandano a costrizioni più fondamentali). Immaginare (o credere di scoprire) una società primitiva senza costrizione è come definirla senza memoria e senza storia; sarebbe anche come definirla alogica, priva di senso dal suo stesso punto di vista - un limite intollerabile e impensabile. Perciò l'antropologo che vuole cancellare il passato per sopprimere la costrizione e tuttavia conservare il tempo per salvare il senso si rifugia nel mito del presentimento. Il senso che non può nutrirsi di passato deve essere nutrito con il futuro: la pratica primitiva trae il suo senso dal futuro che essa rifiuta; nulla ha di anteriore se non il suo futuro; «[...] è contro la legge di Stato che si pone la legge primitiva», scrive Clastres. Ma questo è un mito di etnologo o un'etnologia mitizzata, un mito di chi, facendo dello Stato un'origine assoluta, lo concepisce come peccato capitale e costringe se stesso a risalire la storia controcorrente per illudersi di comprenderla e affermare che altri l'hanno rifiutata.Le società (e parimenti gli individui) intrattengono con il loro passato rapporti diversi, ma sempre necessari, di eredità o di rifiuto: di pensiero. La rivoluzione è la sola storia al presente: con essa la storia cronachistica acquista un senso; esistono giornate rivoluzionarie. Indubbiamente, il passato può spiegare o autorizzare la rivoluzione, ma essa ne scaturisce con tanta forza da conferire senso, di rimando, al passato: retrospettivamente necessaria, fra le sue possibilità la rivoluzione è quella che si è realizzata, e con questo anche la più «vera», quella meglio autenticata - almeno per colui che abbraccia con lo sguardo tutto un periodo storico. Questa riorganizzazione del passato costituisce del resto una minaccia per la rivoluzione: dal momento in cui ridà senso al passato, essa si costituisce come riferimento per il futuro, come passato virtuale, certo costrittivo e, in qualche modo, buono da pensare, ma solo fin tanto che non verrà assoggettato a una nuova necessità retrospettiva. Allo stesso modo, per l'individuo, il «buon tempo» è esattamente il tempo morto, il passato lontano della giovinezza perduta e delle rivolte fallite, delle guerre, delle sofferenze sordide e delle avversioni quotidiane trasformate in celebrazioni folcloriche e ciarliere - o ancora la pace geometrica, pettinata e rastrellata, dei cimiteri militari, che suscita e intrattiene, con il silenzio del rispetto, il flusso dell'emozione. E' il passato superato e, per così dire, "dé-pensé" (28); non rimane più nulla da fare o da comprendere - passato buono per pensare tutto, come ci sono delle domestiche tuttofare. Forse la rivoluzione riesce a evitare di essere recuperata solo controllando questa produzione incessante del passato, pensandola incessantemente: questa potrebbe essere la giustificazione di un attivismo dell'intelligenza e della pratica che porrebbe tutto il senso nel presente e che costituirebbe la rivoluzione

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permanente.La lotta per il senso è una lotta sociale ed è una lotta con la storia. Non si può riscrivere la storia ma la si può reinterpretare: il senso della storia non è arbitrario ma è relativo all'attualità che tuttavia ne deriva; si può sapere a colpo sicuro che il movimento kimbanghista poteva diventare una chiesa di Stato dal momento che è quanto è successo; con questo, non è detto che esso non fosse, ai suoi tempi, suscettibile di altre analisi o di altre ipotesi; la sua verità storica è oggi consolidata ma un cambiamento storico (per esempio la scomparsa di questa chiesa o una sua maggiore integrazione nell'apparato dello Stato) potrebbe sfumare questa verità. L'attitudine politica o filosofica che consiste nel riprendere in considerazione, facendosene carico, gli elementi passati, nel ripensare la storia, non è dunque totalmente arbitraria, anche quando mitizza o inventa questa storia, poiché con la sua sola esistenza essa le attribuisce una possibilità supplementare. Va da sé, tuttavia, che la storia non potrebbe interamente dipendere dall'attualità e che esiste un confine fra le metamorfosi storiche di un'istituzione, le quali rivelano progressivamente la sua complessità e le sue potenzialità, e le ricostruzioni arbitrarie che modellano il passato sulle esigenze del presente. In ogni caso, l'esigenza del senso passa attraverso un pensiero del passato. All'estremo limite dittatoriale di questa esigenza è la macchina di Orwell, che cancella o ricompone il passato secondo la richiesta del potere.La chiesa non ignora nulla circa la necessità di riscritture. Passato il tempo della conquista, dei feticci bruciati e dei battesimi di massa, arriva il tempo della riflessione, del recupero ideologico, dell'elaborazione della storia. In tutta la letteratura religiosa consacrata all'etnologia si trovano due affermazioni complementari: innanzitutto, le credenze indigene sono interessanti; esse non sono né assurde né irragionevoli; i pagani credono in Dio; il politeismo è solo un'apparenza. Con maggiore o minore abilità e fortuna, si arriva a scoprire nel dio degli altri tratti che non lo discostano troppo dal dio cristiano; la letteratura protestante inglese dedicata agli Ashanti condisce il "kra" (una delle istanze psichiche dell'individuo) in tutte le salse, traducendolo con «anima» o con «angelo custode». Seconda affermazione, che è complementare alla precedente e ne relativizza la portata: a un certo punto, il pensiero indigeno ha subìto una deviazione che lo ha portato al feticismo, una specie di peccato originale supplementare; occorre dunque separare il grano dal loglio, astrarre dal guazzabuglio indigeno gli elementi compatibili con l'idea di un Dio unico e immateriale, e imporre ai nuovi catecumeni un'altra storia.La Bibbia, che sia letta o meno, è il simbolo del nuovo inizio. Bisogna ripartire da zero, anche a costo di bruciare le tappe. In materia di religione, ontogenesi e filogenesi s'identificano. La sorte dell'umanità e quella di ciascun individuo sono legate. Ogni conversione implica, dovrebbe implicare, un cambiamento di storia. Si tratta proprio, anche in questo caso, di rifare una memoria, che elimini quella vecchia. L'imposizione di un nuovo passato si esprime nel costituirsi di una nuova territorialità, di uno spazio (la chiesa o il tempio, la diocesi, Roma) e di un tempo (il calendario, le festività comuni, un percorso individuale - il battesimo, la comunione). La chiesa è, da questo punto di vista, rivoluzionaria piuttosto che evoluzionista; essa crea in modo rivoluzionario le condizioni di una nuova memoria che, una volta compiuta la rivoluzione (cadute in un giorno le potenze che incutevano timore), torna a essere tradizione e costrizione, verità di ogni eternità. Occorre sempre un passato di ricambio per fare il cambiamento. Ci sono sempre vecchi conti da regolare, persino con Confucio.L'esempio ivoriano ci propone delle società lignatiche inscritte nello spazio (territorio tribale, terreno del villaggio, terra del lignaggio) e nel tempo (catene genealogiche dove si leggono, insieme al gioco delle alleanze, la trasmissione delle eredità, la circolazione delle forze ereditarie, il senso delle reincarnazioni); esso ci propone al tempo stesso una visione senza sfumature dell'aggressione occidentale e della «deterritorializzazione» legata all'apparato dello Stato: fisicamente, territorio e terreno si cancellano per lasciar posto alle grandi tenute necessarie all'estensione delle culture industriali; le sigle misteriose dietro alle quali si profilano, senza veramente nascondersi, il potere

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statale e i capitali stranieri segnano il nuovo spazio che non viene più misurato con il metro delle frontiere etniche o di villaggio. Parallelamente, e ormai in atto da molto tempo, aumenta l'erosione delle strutture lignatiche, delle rappresentazioni che vi corrispondono e delle logiche individuali che da esse traevano la loro ragion d'essere. Colpito fisicamente, il lignaggio si sfilaccia, non s'aggrappa più alla terra che gli viene sottratta, non coniuga più tanto facilmente, tanto logicamente, l'alleanza con gli altri lignaggi; il potere amministrativo e il potere religioso (comprese le forme sincretiche che non possono svilupparsi lontano dal potere politico) pesano nello stesso senso delle costrizioni materiali (esodo in città, disoccupazione, scolarità irregolare) e tendono a creare un individuo solitario affrancato dai vincoli di solidarietà del lignaggio: vietare l'interrogazione del cadavere, denunciare o trasformare le credenze nella stregoneria, dimenticare o far dimenticare le costrizioni dell'inscrizione genealogica non significa passare al setaccio l'intatta profondità del sistema, è distruggerne, con un solo gesto, la logica e la natura. I tempi nuovi sono giunti, proclama lo harrismo; siamo compartecipi del peccato originale, ricorda la Bibbia. L'uomo ivoriano, che sia proletario o imprenditore, è un uomo solo, suggeriscono i messaggi ufficiali, i regolamenti dei concorsi di reclutamento, il catasto, i procacciatori d'impiego e la violenza anonima degli edifici di Abidjan. L'ivoriano è senza passato.Evocando questi cambiamenti di tempo, constatiamo la cancellatura delle «inscrizioni» e il gioco apparentemente disordinato delle «riterritorializzazioni». Non per questo ci siamo avvicinati alle analisi dell'"Anti-Edipo". A dire il vero, ce ne differenziamo su tre punti che conviene, per concludere, riprendere e approfondire. In primo luogo, l'assiomatica non è il privilegio della società statuale e si può, per esempio, parlare con rigore di assiomatica di lignaggio. L'opposizione codice/assiomatica non è pertinente. In secondo luogo, la struttura simbolica - e la sua efficacia repressiva - è identica in tutti i tipi di società. Insomma, la filiazione intensiva può rientrare nel campo di un'analisi diversa da quella dell'"Anti-Edipo": lungi dall'essere l'ossessione scongiurata dagli spostamenti dell'Edipo, essa può apparire come l'espressione e la pratica del potere, e non (oppure non solamente) come l'evoluzione dell'indifferenziazione originaria ma come l'esigenza limite di un potere che per farsi accettare e comprendere (per comprendersi esso stesso) deve imporsi come naturale, al limite (e al di là) del senso comune e del senso "tout court".

- Al di là del senso: la necessità.

Le ingiunzioni delle società lignatiche sono arbitrarie. A qualche chilometro di distanza, nel mosaico lagunare, esse cambiano senso, senza che nessuno ne tragga motivo di stupore. Un Alladiano matrilineare e attento alle minacce del suo matrilignaggio sa che un Dida, invece, può temere tutto dal proprio patrilignaggio. Le strategie matrimoniali e i calcoli economici tengono conto delle molteplici possibilità offerte dalla combinazione dei diversi assiomi. Sposare una donna dida al fine di trattare suo figlio come un nipote senza permettergli di dimenticare i suoi doveri filiali, dare al proprio figlio una sposa schiava al fine di attribuirsi a un tempo i diritti dello zio e quelli del nonno sulla sua progenie, combinare, coniugare, manipolare: questo virtuosismo non è possibile se non a partire da dati discordi, opposti e molteplici. Indipendentemente da queste combinazioni, la logica lignatica di una determinata società propone una quantità considerevole (ma niente affatto illimitata) di assiomi che combinano a loro volta gli elementi paradigmatici forniti dalle rappresentazioni della persona, della malattia, della stregoneria, dell'ordine sociale eccetera. Ritroviamo a questo punto la nozione di ideologica come logica sintagmatica. Ciò che conta è che la natura di un evento e la posizione di colui che prende la parola possono invalidare o modificare una diagnosi o un'affermazione che erano state in un primo tempo accettate, e che la riserva di proposizioni formulabili (non tutte lo sono) è abbastanza ricca e variegata da consentire tutte le inversioni di formulazione. La posizione di Ego in una costellazione lignatica gli impone costrizioni e

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definizioni, ma nessuna costrizione è meccanica, nessuna definizione automatica. Nulla è sicuro, tutto è possibile (giacché il limite di questa «libertà» consiste, come nel capitalismo, nella costrizione complessiva del sistema e nella sua gerarchia globale).Gli assiomi hanno sempre un soggetto e un oggetto universali; l'assiomatica di lignaggio, come tutte le ideologie, parla al singolare/plurale. L'etnologo che si accontenta di raccogliere quanto gli informatori gli dicono sulle regole di alleanza, di eredità e di successione rischia seriamente di comporre un quadro abbastanza distante dalla realtà, ma il discorso che raccoglie non è necessariamente ingannatore; per lo meno, non è necessariamente destinato a suo uso esclusivo e non lo inganna più di quanto non inganni gli altri, coloro ai quali è più specificamente destinato. L'individuo si concepisce come uomo e concepisce la sua società come umanità: le regole della sua società si presentano come analitiche o come normative; parlano dell'ereditarietà o dell'eredità, del corpo individuale o del corpo sociale (la distinzione fra descrizione e norma sarebbe estremamente relativa, dal momento che quest'ultima traduce esigenze che sono le stesse dell'essere e dell'esistenza); in questo stesso modo esse l'aiutano, lo spingono a non definirsi se non come illustrazione particolare di verità universali; si tratta dell'astuzia, l'abbiamo visto, dell'ideologica, che parla a tutti come se parlasse di ciascuno, mentre invece i suoi silenzi riguardano la gran massa di coloro ai quali essa si applica senza parlarne. La parola del potere sa che il linguaggio di cui si serve è fatto anche di silenzi, inversioni, litoti e allusioni. Essa non è mai tanto efficace come quando si fa quasi silenzio; allo stesso modo, la pretesa di potere non è mai tanto arrogante come quando mostra tutto ciò che, da parte del pretendente, riguarda gli altri, spetterà agli altri. Nelle società lignatiche come nelle altre, l'universalizzazione dei soggetti maschera la personalizzazione del potere e la gerarchizzazione degli individui. Della successione nei lignaggi lagunari ci viene ricordato che passa di stirpe in stirpe, orizzontalmente, per cui queste stirpi non sono troppo numerose - un numero eccessivo provocherebbe normalmente la segmentazione; ma l'uguaglianza relativa delle stirpi significa la subordinazione dei cadetti a cui il potere, nella sua peregrinazione orizzontale, non arriverà mai. Non siamo così lontani dall'uguaglianza dei cittadini nelle società liberali.Non è sicuro, tuttavia, che le parole «maschera» e «inganno» non siano in questo caso improprie e metaforiche. All'eterno «complotto» del potere occorrono ragioni fondamentali: se l'esistenza individuale dell'uomo è problematica, la sua esistenza sociale pone un diverso e medesimo problema. L'uno non è meno metafisico dell'altro. Le forme sociali più oppressive sono anche una risposta (per quanto perversa) a un'esigenza di senso. Si sa che l'istituzione politica corrisponde in linea di principio a rapporti di forza ancorati nel controllo della produzione; dal controllo all'istituzione, però, sono concepibili parecchie mediazioni, e di fatto si scoprono nelle società esistenti; ma quale che sia il gioco tra la realtà economica e l'istituzione politica, il potere, indubbiamente perché si rivolge agli individui concreti e si esercita attraverso individui concreti, ha bisogno di imporsi logicamente; l'evidenza logica, da questo punto di vista, è per esso più necessaria della giustificazione morale; e più ancora dell'evidenza logica, è necessaria l'evidenza dell'esistenza e dell'essere. Il fatto che il potere si eserciti attraverso individui mortali è di per sé contraddittorio - agli occhi di coloro che lo esercitano come agli occhi di coloro che lo subiscono; il carattere assoluto del potere (le costrizioni di un potere non dispotico sono, ciascuna per conto proprio, assolute) e il carattere mortale della vita umana non sono pensabili insieme.Quanto alla filiazione intensiva, essa è la stirpe germinale dove l'indistinzione dei corpi corrisponde all'inesistenza della morte. Se mettiamo da parte per un istante la sistematica simbolica di Deleuze e Guattari, che cosa constatiamo? Più l'apparato politico si rafforza e diventa autonomo, più esso si esprime in forme prossime alla filiazione intensiva. Per evitare che ogni potere risulti scandaloso e intellettualmente insopportabile, occorre che il capo sia immortale, sempre lo stesso (il re è morto, viva il re), oppure che il potere esista indipendentemente

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da coloro che lo esercitano (la presenza reale di Dio costituisce il potere della Chiesa). O il despota è sempre lo stesso e fa, costituisce il potere, o il potere è sempre lo stesso e può incarnarsi in diverse figure effimere. La seconda soluzione è al contempo più religiosa, più feticistica (ci possono essere ricettacoli del potere) e meno stabile della prima (può esserci competizione per il potere); del resto, può benissimo arricchirsi dei suoi vantaggi. La seconda soluzione corrisponde a un trattamento simbolico della morte; è necessario relativizzare l'individuo per salvare il carattere assoluto del potere: per relativizzarlo è necessario ammettere che si reincarni o, per lo meno, che alcune delle sue componenti ritornino, che la figura individuale non sia altro che la combinazione effimera (ma non casuale) di elementi di uno stesso ceppo, destinati ad andate e ritorni infiniti. L'affermazione dell'eternità e il trattamento della morte suppongono una teoria dell'alleanza; pertanto vediamo quest'ultima affinarsi, complicarsi, strutturarsi con l'ordine politico. La teoria dell'alleanza è più sofisticata nelle società lignatiche che nelle bande di cacciatori-raccoglitori; con la teoria dell'ereditarietà, essa assicura da una parte la permanenza dello stock genetico del lignaggio, dall'altra la trasmissione, il ritorno regolare degli elementi che definiscono il sangue, la forza, l'identità e il potere; occorre notare che è proprio nei sistemi politici forti che la pratica matrimoniale si sistematizza in relazione a ciò; nei lignaggi lagunari si ammette che la forza del nonno, così come il suo nome, si trasmettano di preferenza al primogenito del figlio primogenito; nelle famiglie principesche ashanti, ci ricorda Rattray, il matrimonio di un principe con la cugina incrociata patrilineare ha esplicitamente lo scopo di riprodurre nella persona del nipote la formula biopsichica del nonno, la quale è caratterizzata da due principi, trasmessi uno per via agnatizia, l'altro per via uterina. Al limite, l'incesto come negazione della morte (cioè dell'individuo), esigenza di senso e verità del potere.Il limite viene raggiunto con il sistema dispotico. L'incesto reale si presenta proprio per quello che è: il rifiuto di individualizzare la figura del potere. Nei reami interlacustri, il re sposa la sorella agnatizia, un'unione reale che rimane parzialmente simbolica: la sorella non darà figli al fratello. Troviamo un'unione ancora più reale nell'antico Egitto: il Faraone sposa la sorella e nascono dei figli. L'incesto con la sorella è certo un privilegio del re, ma svolge la funzione di rimuovere l'immagine dell'intensità originaria? Non sarà piuttosto che la ribadisce come privilegio e definizione del potere? Il "ka", il doppio che sopravvive alla morte del corpo, è prima di tutto un privilegio del re; ed è anche un attributo divino. L'intensità e l'incesto non vengono negati, scongiurati, ma rifiutati, come l'immortalità, a coloro che dipendono dal potere (29). L'intensità pertanto è Dio, compreso nel mito dogon; il potere regale dialoga con gli dei e tratta simbolicamente la morte. Niente di meno individuale né di più sacro del potere personale!O altrimenti Dio a fianco del governo, il potere a fianco dei potenti, il potere da prendere, da afferrare, per chi osa e può. Ma, anche quando il potere è da prendere, legittimo e legittimante, occorre della forza a chi se ne impadronisce - la spiegazione della forza rimanda al trattamento del destino e del caso, dell'ereditarietà e della morte. Meglio ancora (surlegittimazione, suresplicazione) che il potere sia di colui che lo prende e che tuttavia siano sempre gli stessi a essere adatti e autorizzati a prenderlo. La guerra dei fratelli nemici, la guerra di successione nei reami interlacustri indica con sufficiente chiarezza che l'identità individuale del despota importa poco, a condizione che venga affermata la sua permanenza, la sua identità essenziale. Una ridondanza sociologico-politica vorrà inoltre che lo stesso simbolo del potere ne sia il ricettacolo - come il tamburo degli Ankole il cui possesso legittima il possessore.L'indifferenziazione delle generazioni, la negazione della morte, la negazione dell'assoluto individuale (solo la morte fa l'individuo) sono necessari alla verità e alla realtà del potere; la sua divinizzazione, il suo carattere sacro, non è che uno degli aspetti di questa necessità. Lo Stato moderno non sfugge a questa esigenza logica, ma deve superare due scogli comparsi nella storia dell'umanità: la morte di Dio e la mortalità dell'uomo; affinché il potere sia possibile, credibile,

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occorre che, anche se Dio è morto, non tutto sia consentito; se la misura dell'individuo dà la misura dell'uomo, e la morte quella dell'individuo, ogni potere diventa tanto più improbabile e difficile quanto più la morte di Dio rende la sua sacralizzazione artificiale. L'ordine laico si vede attribuire il compito assurdo ed eroico di coniugare ateismo e potere. E' proprio dal lato del potere, tuttavia, che, una volta reso l'individuo alla sua pienezza assoluta, bisogna trovare il senso e la legittimità della società. Pertanto, il trattamento della morte, che costituisce il tema centrale delle ideologie lignatiche e di quelle dispotiche, cede il posto al trattamento della storia che sottende e anima le grandi ideologie contemporanee. Da qualche parte nella "Condizione umana" (30), un eroe di Malraux si chiede per quale motivo i comunisti debbano adoperarsi per la realizzazione di una rivoluzione presentata come ineluttabile; la risposta è già nella domanda: la necessità della rivoluzione offre precisamente all'azione tutto il senso che la rende possibile. Il colmo della filiazione intensiva non verrà trovato dal lato dei balbettamenti dinastici dello Stato moderno, per quanto molto significativi (la moglie di Perón, il clan Kennedy, Gandhi figlio, il delfino di Franco, l'amicizia conclamata dei grandi di questo mondo, che forse un giorno finiranno per diventare cugini), ma dal lato di questa eternità anonima del Potere inqualificato che porta il governo francese a riconoscere gli «Stati», e non i «regimi». L'individuo, la persona, l'entità: questa progressione è quella stessa dell'aumento della complessità della politica. Crescente astrazione, certo, ma anche, dal punto di vista politico, maggiore intensità e disindividualizzazione.Oggi, come sempre, per i governanti, ma anche per i governati, si tratta di salvare la coppia senso/società; è forse significativo, da questo punto di vista, che la filosofia, riflessione sull'essenza dell'uomo, faccia posto o assegni un posto alle scienze umane, riflessione sulla società. Comunemente si ritiene l'idea di individuo una creazione occidentale (come se le teorie della persona in quanto condivisione e in quanto eredità nelle società non occidentali comportassero l'assenza di un vissuto individuale, di interessi e di strategie individuali); ma quest'idea non è mai stata tanto elaborata quanto nel diciottesimo secolo, al momento della rinascita della filosofia politica, della riaffermazione dell'idea nazionale e del corpo sociale. E' che si tratta di relativizzare questo concetto nel momento stesso in cui lo si riafferma; come se esso non fosse stato utilizzato se non per ricavarne i principi (libertà, uguaglianza) che, in fin dei conti, conferiscono senso al "socius" che lo limita. L'aspetto più puro dell'individualità è dal lato della felicità e della fusione con la natura: a esso il diciottesimo secolo dà forma e promette il suo paradiso perduto, la sua isola solitaria; l'individuo politico è il cittadino, colui che deve ammettere la necessità logica di un contratto sociale e l'esistenza di un potere statale che né le rivoluzioni o le restaurazioni, né i colpi di Stato o le destituzioni metteranno in discussione. L'individuo, una creazione dell'Occidente? Mai nella storia folle tanto docili e immense avranno subìto la legge dell'uniforme e del massacro con tanta rassegnazione o entusiasmo come dal giorno in cui venne diffusa la parola d'ordine di libertà individuale. Parola d'ordine, in effetti. Poiché è ateo, poiché trae il suo senso dalla storia, lo Stato moderno, intensità assoluta del potere impersonale, gioca con un virtuosismo amplificato il gioco dell'illusione individuale, del singolare-plurale nel quale hanno sempre dato ottima prova i poteri politici, fossero anche quelli di lignaggio.Non sorprende che i vendicatori di Laio vogliano, con la morte di Edipo, quella dell'Io e del Super-io. Nessun potere troverà da ridire. L'individuo e il potere rimangono antinomici. Non si può dar senso all'uno senza toglierlo all'altro. Oppure bisogna destreggiarsi, distribuire, dosare, come fanno gli indovini, i chiaroveggenti, i capi di lignaggio o come fanno, altrettanto bene, qui e ora, i teorici liberali dell'illusione individuale.

Capitolo 3.L'ILLUSIONE INDIVIDUALE.Liberalismo e repressione.

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Per ogni sistema sociale, il pericolo è l'individuo, la radicalità della rivendicazione individuale, l'originalità irriducibile. La stessa ideologia contrattuale ammette, al limite del suo sforzo teorico di accomodamento con l'esigenza individuale, che la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella degli altri; punto contrattuale che non definisce confini, punto di confine che non impone costrizioni.

L'INDIVIDUO, L'ISTITUZIONE.

L'istituzione vive di ruoli e di status, di personaggi di cui l'abito definisce in larga misura il valore e quasi l'identità; essa impone a coloro che ne fanno parte costrizioni formali più forti e più numerose di quelle subite dagli altri membri della società. Queste costrizioni valgono come definizioni e l'opinione comune se ne fa qualche idea in modo caricaturale, rappresentandosi il carattere e persino il fisico del colonnello, del maresciallo, del gesuita e del seminarista. L'esercito, la chiesa: al loro interno, l'individuo rappresenta l'antagonista irriducibile e necessario. Essi non possono impedire all'individuo di esistere (non possono impedirsi di esistere) ma possono giocare sulle modalità e sulle definizioni della sua esistenza; questi alti luoghi istituzionali sono per eccellenza i luoghi in cui l'esistenza precede l'essenza: datemi dei bambini, ne farò dei soldati. La «vocazione», la chiamata proveniente da un altro luogo, significa anche questo superamento dell'individuo nella sua realizzazione istituzionale; è l'ideale di ogni corporativismo (l'«ordine» dei medici, da noi, difficilmente si rassegna a vederlo indebolirsi senza poter trovare un rimedio) respingere l'individuale in un'origine che è già e anche un altrove (la vocazione) al fine di realizzarlo in un ruolo (una missione). Questo superamento dell'individuo attraverso il suo ruolo e, al di là di questo, attraverso l'istituzione, è tipico dell'esercizio del potere: il potere non può venire esercitato integralmente da individui (interamente mortali), non fosse altro perché è esso stesso potere di vita e di morte. Potere "tout court" come quello dell'esercito e della chiesa (che l'abbiano esercitato o che lo esercitino ufficiosamente o ufficialmente) e che perciò nega l'assoluto individuale: da una parte il costume e la gerarchia esteriorizzata, il superindividuo che si consola della sua mortalità amministrando ed eventualmente realizzando quella degli altri, dall'altra il sottoindividuo, a cui viene sottratta la sua unica identità - quella della sua morte biologica, inscritta nella sua carne forse, virtualmente presente, ma solo nella «sua ora» - e a cui viene rifiutata la libertà di scelta, ovvero, ancora una volta, non la libertà ma l'identità, la scelta della morte: il suicidio è un peccato «mortale». Ammiriamo per un istante il cinismo del linguaggio, la franchezza sempre troppo evidente del potere: il potere di dare la morte è certamente anche un potere di vita, non già quello di lasciare la vita - non sto usando un pleonasmo - ma quello di ordinarla, di conferirle senso e realtà, di rifiutarle l'assoluto individuale; quanto al peccato mortale, esso non fa morire, tutt'altro; se esistono peccati mortali, è appunto per evitare che l'individuo possa cavarsela con la morte, sia egli destinato a un nuovo inizio del ciclo oppure a una seconda vita senza altra individualità che la traccia uniforme e indelebile del peccato della prima vita; la Chiesa può anche rinunciare all'Inferno senza che cambi il suo sistema repressivo; tutti i suoi peccati sono originali: il peccato mortale, come il peccato originale, è quello dell'individuo. Il divieto è preesistente alla colpa; è Adamo che ha scelto la propria mortalità; essa è colpa e non sanzione.Ogni potere è potere di morte. Il potere sulla morte, capace di negarla (potere del prete) o di differirla (potere del medico) è, come il potere di morte (quello del militare, del magistrato, del politico, con cui, del resto, può essere identificata la figura del prete o del militare), un potere sulla vita. Il potere in questo senso è l'assoluto dell'ideologia; tutti gli uomini sono mortali, quindi Socrate è un uomo... Al fondo del sillogismo la solitudine attenta di ciascuno, mai così prossima alla sorte comune, alla sorte degli altri, mai così «universale» e pronta a recepire il discorso al singolare/plurale a partire da questa insormontabile preoccupazione, da questa interrogazione su una fine di cui il potere può

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avvicinare o differire la scadenza e alla quale può anche conferire o rifiutare il senso. La mia morte, la morte: l'assoluto contro la statistica; il non senso contro il senso della storia e del presente: del potere. Quale altra risorsa per il potere, al limite, se non condannare a morte? Risorsa che sarebbe irrisoria se, appunto, non decidesse del senso e della scadenza.La morte è la sanzione più grave del crimine, e il crimine più grave è quello dell'individualità; non solo quello del «fuori legge» di piccolo calibro, ma anche quello dei grandi attori: coloro che traggono dal loro ruolo più di una personalità, come una nuova e irrecuperabile individualità, trascendente la legge. Ora, la gerarchia non conferisce autorità se non in quanto impone la disciplina. L'esercito e la Chiesa hanno due ossessioni: l'eroe e il santo. Non è forse l'eroe un fellone o un ribelle in potenza (quanti generali, quanti capitani...)? Non sfiora forse il santo in ogni istante l'eresia? De Gaulle e Giovanna d'Arco sono due aspetti diversi dell'ambiguità del potere: entrambi condannati dal potere da cui dipendono, uno lo recupera, l'altro viene recuperato. Parole piene di sollecitudine, cariche d'affetto, qualificano le varianti minori dell'eroismo e della santità: il cattivo soggetto e l'inquieto. Il fatto è che bisogna adattarsi; nei casi eccezionali la tenerezza recupera ben più della forza; preso nel modo giusto, compreso, il «testone» può essere un combattente «magnifico»; è solo necessario riprenderne il controllo periodicamente. Quanto alla Chiesa, essa ha per gli afflitti al limite dell'eresia un'incessante sollecitudine, più vigile e suscettibile, tuttavia, quando investe i membri dell'apparato: la gerarchia può richiamarli all'ordine, se essi sbagliano, o escluderli dall'ordine, se perseverano nell'errore.Per l'istituzione, l'individuo, interlocutore obbligato, diviene un valido interlocutore se può essere colpevolizzato. La colpa è la sola modalità tollerabile dell'esistenza individuale, la colpa con il suo corollario - versione sociale dell'individualità disprezzata: l'isolamento. Insieme alla colpa compaiono i diversi marchi dell'individualità colpevole, le sue modalità gerarchizzate, la progressione della sanzione. L'immagine del destino nell'«al di là» - quella che oggi la Chiesa tende a cancellare, almeno nelle sue realizzazioni più intellettuali, ma con la quale essa ha a lungo regnato - è quella di un'individualizzazione mediante la colpa, inverso della colpevolizzazione dell'individuo; una volta messi da parte gli estremi del male e della santità (che possono essersi confusi in principio: Lucifero - il primo individuo? - era un angelo amato da Dio), il purgatorio è assegnato agli uni e agli altri in ragione dei loro errori: a ciascuno secondo le sue colpe; ciascuno non è che le sue colpe.Di qui l'occasione insperata che rappresentano per le istituzioni repressive le grandi sciagure, quelle che, come la morte, colpiscono tutti e ciascuno, materiale bell'e pronto per l'elaborazione ideologica - dono di Dio, flagello di Dio. E' così che, per il potere politico, ciò che si perde all'esterno si recupera all'interno. Rendere la Comune responsabile delle disfatte dell'Impero e l'ateismo delle debolezze dell'Esercito equivale a far «interiorizzare» la disfatta, a farne l'affare di ciascuno, a farne una questione di conversione. In Francia, «terra di missione» (colonia interna), la Chiesa non ha bisogno di profeti indigeni, di un Harris o di un Atcho; essa si fa carico della totalità del messaggio; per lo meno questo era il caso ancora negli anni Quaranta, quando cantavamo - in processioni che discendevano verso una delle croci di missione che punteggiano e delimitano la Bretagna a partire dal diciassettesimo secolo: «Dio di clemenza, o Dio vincitore / Salva, salva la Francia in nome del Sacro Cuore» (1). Non si trattava di salvare la Francia dalla disfatta (la disfatta era già un fatto reale, come nel 1870), bensì dalle cause della disfatta; l'ateismo e il socialismo (o la pigrizia spirituale che ne permette la comparsa e lo sviluppo) sono il peccato di ciascuno: inversamente, la salvezza dell'individuo s'identifica con la salvezza nazionale, con l'ordine ritrovato. E' l'evento che crea la colpa che consente al Potere di avere a che fare con individui colpevoli; non rimane al Potere che creare questo evento per chiudere il cerchio della repressione. Più diventa teso il rapporto potere/individuo (laddove il punto estremo di questa tensione è il sistema carcerario), più l'individuo deve essere colpevolizzato (i cattivi trattamenti avviliscono, il

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paternalismo ospedaliero rende infantili); questo punto estremo è anche un punto di rottura: la colpevolizzazione passa attraverso la dominazione ideologica, ma quando questa si risolve in violenza, essa viene vissuta come oppressione. Ciò non equivale a dire che la differenza fra repressione e oppressione passa per la presa di coscienza di coloro che ne sono l'oggetto. Da una parte, la repressione non è necessariamente vissuta in maniera incosciente; l'efficacia simbolica non implica l'incoscienza, ma corrisponde a una coscienza parziale, parcellizzata, a impasse logiche e a rapporti di forza e di senso che non sono immediatamente superabili. Dall'altra parte, l'oppressione violenta testimonia l'esistenza di un rapporto di forza che esige di essere interpretato e non solo concepito; la controviolenza reattiva può condurre a impasse tanto dal punto di vista del rapporto di forza quanto dal punto di vista del rapporto di senso.L'istituzione si spinge fino a sfidare l'individualità, fino a sfidarla (colmo del cinismo teso al recupero) a sopportare quelle prove al termine delle quali l'ordine individuale sarà salvato e tuttavia in linea con l'ordine istituzionale. Qui si trova il principio di tutte le iniziazioni, applicabile ai ribelli più convinti, quelli di cui non bisogna assolutamente lasciar perdere il valore. Il rappresentante dell'istituzione abbozza un movimento propriamente religioso, e più precisamente pascaliano: quello dei gradi di verità; l'istituzione è divina: un po' di riflessione ce ne allontana, un po' più di riflessione ci fa riavvicinare; tale è il punto d'arrivo e il segreto di tutte le iniziazioni. L'ufficiale del "commando" preferisce un rivoltoso, un «comunista», a un pappamolla: nella speranza di canalizzare la sua energia, certo, e di innalzarla a un altro grado d'individualità, che è anche il buon grado dell'istituzione; questo personaggio è ben descritto in "RAS" (2), ma molti uomini di una certa generazione ne hanno conosciuti di simili. La coscienza che può essere coinvolta nel gioco che essi giocano (senza che questo termine metta in causa totalmente la loro «coscienza» e la loro «buona fede») non limita assolutamente l'efficacia della loro prestazione: affare di «malafede» sartriana alla confluenza di due individualità (definite, in una situazione concreta, dalla reciprocità antagonistica di ostentazioni fisiche e morali) dove s'annida precisamente, per un periodo, la ragione istituzionale. Allo stesso modo lo sceriffo o l'eroe del western, nelle opere classiche che celebrano l'epopea eroica e conformista, si offre e poi si impone allo sguardo degli altri (la folla sbiadita e passiva dei fattori, dei bottegai, del barbiere e del carpentiere), da cui ricava tutta la sua forza; ma non si fa riconoscere come individuo se non nel momento in cui s'impone come personaggio, come rappresentante dell'ordine nuovo o ristabilito: fine dei disordini nelle campagne o nei saloon, dei furti di bestiame o della giustizia sommaria. Improvvisamente, l'individualità degli elementi anonimi della folla ignava sale di un grado (il vile dalla coscienza sporca la perde e guadagna una stella), mentre crollano nella polvere gli avventurieri di un tempo, presi nella trappola della sfida individuale, sconcertati dallo sguardo di quell'uomo che gli assomiglia, venuto per ucciderli o morire, e per morire. Infatti, li ritroviamo più tardi questi giustizieri o questi criminali, a volte riconoscibili nella bizzarra figura di un solitario dal passato pesante, la cui morale «personale» aggiunge alcuni conformismi contraddittori e disarmonici: attraverso queste fessure (la nostalgia, l'amicizia, la fatica...) s'insinua il disincanto e si riversa la morte; i tempi sono cambiati, la «giustizia» non ha più bisogno di giustizieri, né l'avventura di colt d'oro; è cambiato anche il tempo dei registi, sono cambiate le prese di coscienza, e le crisi di coscienza che dominano le riprese: sul grande schermo del western decadente l'eroe «smitizzato» (ovvero semplicemente disistituzionalizzato) si sente come perso, si stupisce di aver fatto così bene, di aver creato l'ordine che credeva di difendere, e che lo esclude - mezzo sorpassato di una fine sempre superata, come i ribelli di cui l'Esercito si serve in tempo di guerra (il buon tempo).Esiste, in termini sociali, una problematica dell'individuo che raddoppia la problematica della repressione. L'individuo isolato può essere ricondotto alla massa - la quale gli conferisce il minimo vitale e il massimo auspicabile di senso, di simbolismo; l'individuale e il gregario sono le due figure estreme del sociale, il quale esige che esse non siano se non l'inverso e il diritto di una medesima

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realtà. Ciò che non è tollerabile, dal punto di vista sociale, è l'associazione delle individualità senza ritorno alla massa - cosa che ben avvertono le istituzioni repressive dal momento in cui si forma una «coalizione»; ogni tentativo di sindacalizzazione nell'Esercito o nella Chiesa comporta il rischio di fazione, di ribellione o di eresia. Se il gruppuscolo, quale che sia, irrita e inquieta, è perché cumula vulnerabilità e spirito critico, Davide sociologico, irrispettoso, libero, irresponsabile.Da questo punto di vista, notevole è l'interesse dei gruppi femministi nella società contemporanea. Se effettivamente esiste una condizione femminile in rapporto a una «normalità» maschile, essa consiste nel fatto che ogni donna, in quanto donna e, diciamo pure, per definizione, vive la repressione individuale essenziale; ciò che appunto le viene rifiutato è la condizione individuale: in quanto donna, essa è già destinata dalla nascita a un ruolo sociale minimo, definito in termini molto più ristretti e rigidi rispetto a quello dell'uomo, ed evidentemente legato alla sua qualità di riproduttrice. Lo status della donna sterile, nelle società lignatiche africane, mostra abbastanza chiaramente come questa repressione fondamentale non sia una prerogativa dell'Occidente cristiano o capitalista. E' a questa fondamentale repressione che risponde l'aggregarsi di alcune donne in quanto donne su basi che non sono immediatamente «politiche». Tale aggregazione costituisce la protesta individuale essenziale e si rivolge indifferentemente a tutte le società esistenti. Aggiungiamo che né la storia né l'etnologia forniscono esempi di società in cui la «normalità» giuridica e ideologica non sia stata maschile, e che questo non ha nulla di sbalorditivo: tutti i poteri (e non c'è società senza potere) limitano l'affermazione individuale assoluta; e questa limitazione si applica con maggior rigore alle donne, che sono lo strumento necessario della riproduzione sociale. Se la donna è, in termini ideologici, un essere sociale per natura, essa non può rifiutare la sua qualità naturale di riproduttrice sociale, la sua qualità sociale di riproduttrice naturale, ovvero la sua definizione in termini di ruolo, se non perdendo ogni identità individuale tollerabile: sarà ridicola (zitella), pericolosa (strega) o verrà eliminata (in convento). La società esige che l'essenza (sociale) della donna preceda la sua esistenza; l'ordine inverso non può essere che maschile; non stupisce che la protesta più radicale sia, di rimando, una protesta sessista: la repressione individuale è ancorata al rapporto dei sessi. Ancora più evidente è che l'esigenza di una concezione libera è un'esigenza profondamente individuale. Ciò non significa che i problemi delle donne non siano anche problemi politici, né che tutte le donne abbiano gli stessi problemi; ma i problemi di tutte le donne derivano senza eccezione dal fatto che a esse non è dato di essere individui allo stesso titolo degli uomini. Nessuna protesta di gruppi era mai stata tanto appropriata al proprio oggetto quanto quella dell'M.L.F. (3); è in quanto tale e, paradossalmente, per i suoi aspetti più sessisti, che essa supera l'esigenza femminista radicalizzando la rivendicazione individuale. Indubbiamente, si potrebbe dire altrettanto - senza per questo esaurire il fenomeno - delle rivendicazioni autonomiste.Un'altra questione è sapere se il gruppo, da solo, non ricominci la società - perdendo quindi una parte della sua «individualità» critica a vantaggio del suo totalitarismo. Un regime un po' rigido gli conviene più di un regime troppo liberale: ingrandirsi sarebbe la sua tentazione peggiore, la sua peggior debolezza, ed è indubbiamente l'istinto di sopravvivenza politica - ovvero, più giustamente, l'esigenza di riflessione critica - che lo spinge a un'incessante segmentazione. Un partito di portata «nazionale» mal si adatta al gioco delle tendenze, ma libera di tanto in tanto piccoli raggruppamenti che entrano nel gioco indefinito delle fissioni, delle scissioni e delle ricomposizioni.Il carattere negativo della critica, l'assenza di proposte, sono questioni comunemente sollevate dai sostenitori dell'ordine quando parlano a coloro che lo contestano o, piuttosto, di coloro che lo contestano. Il linguaggio della responsabilità, in compenso - quello dei partiti o dei sindacati -, parlerà di volontà di dialogo o almeno di confronto, di proposte o almeno di controproposte. Questo linguaggio si rivolge al contempo al Potere, all'interlocutore in rapporto

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al quale occorre situarsi, e alla massa (o «alle masse»: questa messa al plurale di un termine generale ha paradossalmente l'effetto di sfumarlo, di individualizzarlo e di nobilitarlo, come se rivolgersi alle masse popolari fosse rivolgersi a ciascuno di coloro che costituiscono la massa). Nella misura in cui questo linguaggio è suscettibile di essere recepito e accolto dalla massa, esso stabilisce con l'interlocutore ufficiale, il Potere, una sorta di connivenza, un altro dialogo (quello vero) al di qua e al di là del linguaggio. Beninteso, ciò che dico conta soprattutto per quel che viene inteso dal nostro pubblico comune. I grandi dialoghi politici (compresi i grandi scontri) contano per i loro sottintesi - sottintesi che non poggiano sul tenore del discorso, ma sul suo pubblico. Un ministro degli Interni non farebbe proprio l'anticomunismo «primario e logoro» in una conversazione privata, ma in una conversazione di questo tipo egli ammetterebbe forse che conta innanzitutto l'interesse della questione esposta pubblicamente. Perciò, è su questo piano che gli verrà risposto; anche i dirigenti del P.C. parlano di anticomunismo primario, quasi riconoscessero la possibilità di un comunismo secondario o superiore. Sappiamo bene che non lo ammettono - lo si vede chiaramente in occasione di altri dibattiti - ma il discorso esplicito deve sempre essere rivolto al terzo termine, a quella maggioranza che è sempre silenziosa in queste occasioni, a cui bisogna far percepire, sperare di far percepire, la non credibilità del discorso dell'avversario rispetto ai propri criteri di credibilità: come discutere seriamente con un Potere tanto incoerente? A quali miserie si è ridotto! Eccetera.Questo scarto fra il linguaggio politico e il linguaggio pubblico è abbastanza rivelatore. Fra tendenze politiche la discussione è argomentata (sarà facile per la propaganda avversaria presentarla come speciosa, sofisticata, distante dalle «realtà»); nel dibattito pubblico le differenze vengono meno: le coalizioni maggioritarie al potere concordano nel dirsi unanimi; quando rivelano un punto di disaccordo è perché il loro dibattito interno è già molto avanzato. La sinistra usa a sua volta, quando occorre, questo linguaggio unanimista, e non fa eccezione per l'estrema sinistra che, in tempo di elezioni, parla indifferentemente con la voce di Krivine o di Laguillier (4), prima di ritornare ai suoi veri dibattiti. L'individuo - la tendenza - è riconosciuto nel dibattito professionale, tecnico, specialistico. Ma con la massa (le masse non organizzate) si viene rinviati all'individuo gregario. Questo sarebbe il momento per introdurre la questione se la vera distinzione fra destra e sinistra non passi per una diversa definizione del ruolo del partito, del programma e dell'educazione. Certo è che l'indifferenziazione viscerale e gregaria serve il Potere, quale che sia, e tutte le sue forme istituzionali. Ma è anche certo che essa serve in primo luogo il capitalismo. Oggi è di buon gusto non evocare le differenze fra le democrazie popolari dell'Est e le società liberali dell'Ovest se non in termini tecnici: capitalismo di Stato in un caso, capitalismo privato nell'altro, dove la relatività della distinzione dipende dalla forte presenza nel mercato mondiale e da un espansionismo certo nel primo caso, dal ruolo dirigenziale e spesso dirigistico dello Stato nel secondo. Non sacrificheremo qui che il tempo di una parentesi al punto di vista di Sirius, alla tentazione di una scorciatoia storico-sociologica (che consente ad alcuni di mettere sullo stesso piano capitalismo europeo e capitalismo americano, socialismo e capitalismo, o ancora bande di cacciatori-raccoglitori indiane e lignaggi africani): dal punto di vista della libertà individuale, e in nome del primato delle libertà reali sulle libertà formali, il potere di sinistra in quanto tale tende indubbiamente a una sureducazione, a un'integrazione ragionata, iperragionata, in un sistema di costrizione logica, di verità storica (e in questo senso totalitario); in nome del primato delle libertà formali, il potere di destra tende a una sottoeducazione, all'integrazione con dolcezza, che va da sé, in un sistema di necessità evidenti e naturali; il socialismo, indubbiamente, differisce la scadenza rivoluzionaria totale e la riconciliazione delle libertà; ma è il capitalismo che riafferma incessantemente e suggerisce indefinitamente che tutto va già per il meglio nel migliore dei mondi possibili, identificando il necessario e il possibile, il minimo e il massimo, il desiderio e la legge; in questo senso, oggi come ieri, la natura è a destra.

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ISITTUZIONE, FUNZIONE, DOMINAZIONE.

Ritroviamo a questo punto l'oggetto di questo saggio, che è di analisi sociologica e non di proposizione politica - per quanto questa distinzione sia possibile e sostenibile: suggerire che l'efficacia ideologica e le strutture di repressione simbolica (nella misura in cui questo termine connota simultaneamente quelli d'integrazione individuale e d'integrazione sociale) siano omologhe in tutte le forme sociali è, in parte, ritornare a Durkheim, analizzare l'ideologia come una costrizione strutturale indifferenziata, non farne né il prodotto né la posta della lotta di classe, grossomodo cadere sotto il colpo delle critiche che Rancière rivolge ad Althusser (5); è anche opporsi ad alcune analisi dell'attuale antropologia generale (molto generale!) le quali, rimproverando al marxismo, da una parte, di credere al senso della storia, dall'altra di proiettare sulle società «primitive» le categorie che gli servono per analizzare la nostra società capitalistica, non sono poi da meno nel fare di queste società (che si guardano bene dal descrivere e dal localizzare) l'immagine invertita della nostra, il ricettacolo privilegiato di un armamentario simbolico suscettibile di aiutarle a «scongiurare la comparsa della legge» (Baudrillard) (6). Ritorneremo in seguito all'allegrezza teorica che permette di coniugare il simbolo e l'ossessione per rifiutare il senso alla storia. Resta il fatto che, per quanto le produzioni della meta-antropologia contemporanea siano rigorose e documentate in modo disuguale, esse hanno in comune (7), in nome della differenza irriducibile, la tendenza a contrapporre un tipo di società a un altro, e più esattamente una categoria ideologica a un'altra, il codice all'assiomatica (Deleuze) o il simbolo al segno (Baudrillard). Noi cerchiamo qui di rifiutare tutte le contrapposizioni che sono appena state ricordate; se la logica ideologica è sistematica, le costruzioni (comprese le costruzioni nel senso grammaticale del termine) ideologiche possono al contempo dipendere da strutture omologhe e costituire delle pratiche antagoniste, essere al contempo «strutturate» e «strutturanti»; possono anche essere passibili dello stesso tipo di analisi, quali che siano le forme di società, dal momento che costituiscono queste forme e che hanno in comune, attraverso la molteplicità delle loro differenti realizzazioni formali, il fatto di dire, imporre e istituire l'integrazione differenziale degli individui nel corpo sociale - il che implica anche un modo di dire e di istituire l'individuo. Non si tratta allora di analizzare le "funzioni" dell'ideologia (funzioni d'integrazione eccetera); non c'è l'ideologia "e" le sue funzioni, la società "e" l'ideologia, l'individuo "e" la società; niente esiste prima di niente, né storicamente né logicamente; si tratta di estrinsecare le regole di concordanza che autorizzano, in una data società, la costituzione di tutti i discorsi sostenibili e, anche, di tutte le possibili condotte; si tratta anche, con ciò stesso, di estrinsecare la logica «naturale», ammessa, implicita, delle differenze interne quando queste non costituiscono l'oggetto di categorizzazioni esplicite.Il concetto di causalità strutturale, sul quale Baudrillard ironizza pesantemente in "Lo specchio della produzione", cerca di rendere conto dei cambiamenti di efficacia ideologica. Baudrillard, lui, si accontenta di nominare quanto avrebbe difficoltà a designare: la «rottura» dello scambio simbolico mediante il quale caratterizza la società primitiva, o ancora la «frattura» del cristianesimo. Deleuze e Guattari si vantano di non avere mai incontrato uno schizofrenico; Baudrillard, lui, ha incontrato due primitivi, Mauss e Bataille; forte della loro conoscenza può decretare che i primitivi non hanno inconscio, né economia, né lavoro, né potere. Lo scambio simbolico punto e basta, che si tratti del rapporto con gli dei, del rapporto con lo schiavo o del rapporto con la sopravvivenza biologica («Mangiare, bere, vivere sono per i primitivi innanzitutto atti che si scambiano; se non possono scambiarsi, non hanno luogo») (8). Lasciamo questo: Baudrillard approda nondimeno a un punto interessante quando denuncia il mantenimento, da parte di Godelier (per il quale «i rapporti di parentela funzionano a un tempo come elementi dell'infrastruttura e come sovrastruttura») (9), del linguaggio delle istanze. Egli rimprovera insomma all'antropologo che

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riconosce la diversità primitiva il linguaggio del marxista che mantiene il termine «rapporti di produzione» pur ammettendo che nelle società primitive essi non appaiono come «separati dai rapporti sociali, politici, religiosi» (10). A partire da "Antropologia e marxismo", Godelier (11) si è spinto un po' più lontano, parlando del modo di produzione come di una gerarchia non già di istituzioni ma di funzioni. Non si vede più, di fatto, quale sia pertanto l'interesse del linguaggio delle istanze. Se tutto è funzione, tanto vale fare a meno delle strutture e della loro gerarchia amovibile e trasformabile. La nozione di «dominazione» forse non necessita di questa pesante meccanica; quando Godelier scrive che, per esser dominante, un'«istanza» deve al tempo stesso essere «plurifunzionale» e occupare il posto dei rapporti di produzione o funzionare come rapporto di produzione, egli designa una coniugazione di «funzioni» che costituisce semplicemente la funzione politica in senso lato - coniugazione di cui forse è possibile render conto in altri termini.Abbiamo definito i poteri di morte come poteri sulla vita. L'ideologia liberale predica la separazione dei poteri e ufficialmente allontana dal potere alcune istituzioni (l'Esercito, la Chiesa); è noto che questa separazione e questa distinzione sono relative e a volte formali; questo non autorizza a considerarle puro travestimento: esse delimitano un luogo dove si gioca una vera e propria battaglia politica; la repressione liberale non si confonde con l'oppressione fascista. Ma la separazione istituzionale dei poteri non è di per sé il contrario del totalitarismo; non solo perché esiste realmente o ufficialmente comunicazione fra i poteri (un ministro degli Interni esprime la sua opinione su una questione «trasmessa» alla giustizia e, comunque, questa trasmissione è legale ed esprime il collegamento delle componenti dell'ordine), ma anche perché la logica stessa dell'ordine può mettere in relazione aspetti molto contrastati della vita individuale (la malattia, la vita sessuale, la religione, i rapporti giuridici) anche a costo di assegnare ciascuno di questi aspetti a giurisdizioni o a istanze differenti. Il totalitarismo può essere policefalo. Il dibattito sul «problema» dell'aborto mostra bene, per esempio, dove si situa il potere medico e in che cosa esso ha potuto e può ancora essere assimilato a un potere definito in modo più ampio; non è solo l'aborto a essere in causa: il medico può trovarsi nella difficile situazione della scelta («Salvate il bambino!»); il «rispetto della vita» è allora sottinteso in modo quanto mai evidente da una definizione molto costrittiva, molto parziale e molto istituzionale sia della vita sia del rispetto; questa definizione dipende dal potere del cristianesimo, più esattamente dell'istituzione ecclesiastica cattolica, potere la cui efficacia ancestrale non è più assolutamente né immediatamente legata alle «credenze» professate da coloro che lo subiscono. Parecchie malattie continuano a essere vissute come peccato e i successivi passaggi dell'istanza religiosa (che perdona), dell'istanza medica (che ha potuto praticare il raschiamento senza anestesia) e dell'istanza giuridica (che condanna) chiudono, al limite, il cerchio di un totalitarismo senza debolezze.E' l'individuo che dà (e non sempre prende) la misura del totalitarismo. L'individuo sa, impara a sapere, quello che può dire e quello che non può dire, quello che può fare e quello che non può fare (cioè, anche, il confessabile e l'inconfessabile, il proferibile e il non proferibile). Parafrasando Lacan: il potere è strutturato come un linguaggio. La trappola del potere si apre con le parole e si richiude sulla frase. Ogni linguaggio chiama del resto il potere, dal momento che non esprime e non impone a ciascuno se non il «senso comune», lasciando all'individualità il ricorso e la risorsa rara dello stile e della poesia. Più le catene sintagmatiche nelle quali si esprimono questo sapere e questo potere integrano dei paradigmi, più il sistema complessivo tende verso il totalitarismo, e viceversa. A un estremo, gli enunciati che impongono la connessione di tutti gli ordini paradigmatici (ordine biologico, ordine psichico, ordine economico, ordine sociofamiliare, ordine sociale, ordine giuridico, ordine politico, ordine religioso...), inscrivendo l'individuo in una totalità irriducibile a una delle sue componenti. All'altro estremo, soltanto il grido dell'individuo solo, urlo di piacere o di sofferenza, di esistenza.Sotto questo aspetto, e per ragioni già ricordate, molte società non industriali

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(e, in modo esemplare, le nostre società lignatiche) sono totalitarie; tutte le società o più esattamente tutti gli ordini politici in senso lato tendono al totalitarismo; ma la «detotalitarizzazione» corrisponde a un accorciamento dei sintagmi, a una reale frattura fra gli ordini paradigmatici, all'eliminazione di certe colonne paradigmatiche dal concatenamento necessario dei sintagmi possibili; quando l'ordine sociale si libera dell'ordine naturale, l'ordine individuale ha maggiori probabilità di liberarsi dell'ordine sociale - senza che scompaiano con ciò stesso i rischi e le ragioni dell'oppressione: il potere ha sempre bisogno di affermare se stesso come naturale e l'autorità laica è tentata di reinventare le astuzie di Dio. Si può così concepire la «dominazione» come statisticamente corrispondente all'ordine paradigmatico più frequentemente attestato negli enunciati sintagmatici possibili, ma questa nozione non è forse così significativa come si potrebbe credere, dal momento che è l'articolazione di quest'ordine con gli altri che conta ed è il numero di concatenamenti possibili che dà la misura relativa della dipendenza o dell'autonomia individuale. Se c'è un senso della storia, esso si trova al contempo nel maggior controllo dell'uomo sulla Natura (controllo affermato in ogni forma sociale e che appare, allo stesso modo della costrizione sugli individui, come il minimo sociale necessario) e nel maggior controllo dell'individuo sulla Società; questo secondo movimento, contrario al precedente, è dialetticamente legato a esso; tale contraddizione si esprime nelle contraddizioni del potere laico, il quale può tendere verso l'assolutismo in proporzione alla sua laicità e assumere la forma mostruosa delle dittature moderne.Quanto alla determinazione «in ultima analisi», non c'è bisogno di sofismi o di casistica per comprendere ciò che essa designa nella problematica marxista («Né il Medio Evo poteva vivere di cattolicesimo né l'Antichità di politica») (12); quando Baudrillard sostiene che, se è vero che nessuna società può vivere senza economia, «molte cose potrebbero, allo stesso titolo, ricoprire il ruolo di istanza determinante: il linguaggio per esempio» (13), si sbaglia. A partire da un dato linguaggio sono astrattamente concepibili (14) numerose forme sociali, cosa che non è vera per l'ecologia e per le condizioni materiali della produzione. Ed è ancora meno vera per quanto riguarda le forze di produzione, le quali corrispondono al tempo stesso alle condizioni naturali e alle condizioni demografiche e sociali del loro sfruttamento, definendo insomma simultaneamente questa soglia minima di controllo (della natura) e di costrizione (sugli individui) che definisce il "socius".Senza dubbio, occorre nondimeno ricordare che la determinazione da parte dell'infrastruttura nel senso stretto del termine (il senso di Lévi-Strauss) è una determinazione negativa; quanto all'infrastruttura in senso marxista, essa comporta già, lo si è visto, elementi di relativa arbitrarietà, i quali sono collegati agli altri elementi da una logica (ideologica) che non si riduce alla costrizione economica, giacché lo stesso ordine economico è piuttosto uno di questi elementi. Determinazione negativa degli elementi compatibili da parte delle condizioni naturali della produzione (nel senso in cui determinate condizioni ecologiche rendono impossibili certe attività economiche) e compatibilità reciproca dei diversi elementi determinati come compatibili: tale è al tempo stesso la doppia relazione e la doppia relatività che conferiscono senso e limiti alla determinazione da parte dell'economico. La relazione di compatibilità reciproca fra gli elementi negativamente determinati come compatibili con l'infrastruttura in senso stretto non ha nulla di meccanico, ma non acquista senso e non può avere origine se non a partire dalla presa in considerazione e dalla messa in opera delle condizioni materiali della produzione: è nel controllo tecnico della natura che cominciano, si esprimono e si identificano simultaneamente l'ordine storico, l'ordine intellettuale e l'ordine sociale. In una società storica concreta queste condizioni materiali possono costituire esse stesse il prodotto di una storia e, in quanto tali, gravare in termini non esclusivamente economici sulla logica delle pratiche e dei discorsi.Resta il fatto che la formula di Godelier («I rapporti di produzione [...] non appaiono come separati dai rapporti sociali, politici, religiosi, di parentela») è insufficiente: a questa stregua i rapporti sociali, politici eccetera non appaiono

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più separati dai rapporti di produzione. Al tempo stesso, cade l'obiezione di Baudrillard (secondo cui non ci sono più rapporti di produzione, poiché essi sono indefinibili in quanto tali): i rapporti di produzione esistono veramente nelle società primitive (così come i rapporti sociali, politici eccetera.); non si confondono con altri rapporti, per esempio, con quelli di parentela; ritagliano "dei" rapporti di parentela, e anche "dei" rapporti religiosi e politici, così come i rapporti di parentela ritagliano "dei" rapporti economici, "dei" rapporti religiosi eccetera, senza che, con questo, alcuni di essi si confondano completamente con gli altri. Non c'è dunque dominazione della parentela, ma un collegamento sistematico e totalizzante dei diversi ordini paradigmatici corrispondenti simultaneamente alla rappresentazione e al controllo della natura e degli uomini.

L'UNO, L'ALTRO. IL SINGOLARE PLURALE.

Da noi, anche da noi, il potere liberal-capitalista ha bisogno di natura e di evidenza. La destra rimanda i suoi lettori, i suoi consumatori (noi tutti) a un mondo mitico di personaggi infraindividuali o sovraindividuali: il suo eroe ha una famiglia come noi (e lo vediamo nell'intimità con la sua signora, a casa sua, davanti alla t.v., in "Paris-Match" o in "Jours de France", questi settimanali che sfogliamo per lo meno nella sala d'attesa del dottore, per rilassarci); meglio ancora, ha un carattere, un lato teatrale, un profilo, un accessorio simbolico: il cappello di Pinay o il freddo humour di Jobert. Questo vale per la classe politica, che si cerca di rendere bonaria, inoffensiva e persino, come fosse un attore o un cantante, affascinante (dopo tutto, tutto questo non è che politica) quando non si ha bisogno di distruggerla; è il carisma di Mitterrand o le sfuriate di Marchais, per i quali sono già pronti dei sostituti, dei passati su misura da utilizzare con cautela (poiché, insomma, alcune stelle della Quinta Repubblica brillavano già sotto la Quarta e non tutti gli uomini del potere sono stati eroi di guerra). L'essenziale è che sul volto dei personaggi si fondano e si confondano le figure contraddittorie dell'immediatezza e della distanza; che, al tempo stesso familiari e irraggiungibili, le individualità del potere, in proporzione alla conoscenza intima che ci viene rivelata, non siano individui come gli altri. Quanto ai superpersonaggi, ai miti viventi, ne abbiamo conosciuti in Francia (Pétain, de Gaulle) che raggiungevano prima della morte le grandi figure in costume (Luigi Quattordicesimo, Napoleone) dei libri di storia delle classi primarie, nei quali è molto scarso il senso dei cambiamenti di regime.L'individuo solo (con questo termine non si intende l'uomo o la donna senza famiglia o senza amici ma colui o colei che, senza alcuna relazione istituzionale, anche antagonistica, con il potere, si definisce al contempo come maggioritario e silenzioso) è nato per la repressione. Gli si propone il modello bonario del grande uomo politico, che ha, come quello degli eroi dei film, un lato molto realistico. Il tal dei tali sembra molto vero, molto «naturale», alla t.v.; d'altronde si applica, migliorando la sua dizione fino a lasciare cadere, con una calma composta, solo parole levigate e regolari, bolle arrotondate, lavorate, soffiate dall'arco della bocca, cristallo il cui suono puro non inganna. Nel cielo delle idee e nelle paludi della politica non coglie che evidenze. Al tempo stesso, irraggiungibile ineguagliabile e, per così dire, impensabile a furia di essere presente, di essere "tout court", tanto mitico quanto il principe Malko (15) o Hubert Bonnisseur de la Bath (16). Potete anche denunciare la sua politica (o la politica), la sua persona (o i politici) ed essere scombussolati se per caso - queste cose accadono: ci si mostra, si inaugura, si cena in città - l'incarnazione del Potere vi incrocia e vi porge la mano. Potete, voi studenti contestatori, irrigidirvi e rifiutare la mano, navigare in pieno simbolismo a vele spiegate, ma vi sentirete pur sempre a disagio davanti a questo individuo in carne e ossa il cui stupore stanco vi riduce tutto d'un tratto alla mediocrità, alla presunzione, alla scorrettezza cattiva, al vuoto astio. Non più simbolo, ma concretezza, una così modesta concretezza: la stessa differenza che c'è fra la morte e un cadavere, fra la rivoluzione e uno sparo.Sennonché, in fin dei conti, nella vita comune (quella che passa veloce e in cui

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non rimane senza fiato che l'individuo) non s'incontra tutti i giorni il presidente della Repubblica; ai livelli inferiori della gerarchia, i capi si curano meno di essere «umani», concreti, unici (molto spesso si conoscono fin troppo bene le loro miserie, i loro tic e le loro cravatte) che di guadagnare in potenza simbolica («Rispettate almeno la veste che porto», ripete meccanicamente il vescovo Louis Jouvet in "Drôle de drame", e questo non è buffo se non per il fatto che l'ha scambiata con una gonna scozzese. «Non rispettate la veste che non porto», dice il presidente in maglione, volendo indubbiamente suggerire che l'abito non fa il presidente. A partire da questa affermazione dovrebbero potersi studiare i rituali d'inversione). L'evidenza quotidiana dei passaggi di potere è più dura e meno "coquette"; il presidente-direttore generale viene poco a contatto con la folla (non ci sarebbe folla) e il caposervizio non è al vostro servizio, benché egli possa operare anche nell'inversione e nei jeans sbiaditi a partire dal preciso momento in cui si convince della realtà del suo potere - sia pure parodistico e, per esempio, accademico.L'illusione di un vero dialogo con il Potere non si ritrova che nella solitudine, davanti alla radio, alla televisione - gli animatori fingono di resuscitarla a ogni istante; oppure, ancora, nella folla solitaria, nel treno, nel metrò, attraverso ciò che rivela del machiavellismo della politica internazionale il cinismo affascinante delle spie da romanzo. La letteratura di massa, come si suol dire, presenta individui eccezionali (di una perfezione per addizione sulla quale ritorneremo) ai quali si rivelano, alla fine delle loro avventure planetarie, i retroscena, le regole segrete del grande gioco politico. SAS è al tempo stesso Machiavelli, Nixon e Tarzan, poiché il colmo della beffa (essendo la regola del genere che le preoccupazioni strettamente umanitarie o morali appaiano come ingenue) è anche il colmo della serietà: il cinismo ha ragione, ma le sue ragioni, come quelle del cuore, non devono essere conosciute. Tra «Miromesnil» e «Chaussée d'Antin», quante Yalta accettate, quanti omicidi compiuti, quanto disgusto sublimato.Le otto di sera. L'ora di ristorare le forze, di riprodurre la forza lavoro. L'ora delle notizie, anche. A volte, l'ora del discorso. Il presidente o l'aspirante alla presidenza appare sullo schermo, semplice e distinto. Dice: «Buona sera signora, buona sera signore.» Questo singolare universale, questo universale al singolare è in effetti ben strano (17); se ne riconosce l'intenzione, o piuttosto la si intuisce; essa disturba; da sola, costituisce un prodigioso bricolage metafisico, la trinità moltiplicata all'infinito, ma ad altezza umana; signore (o signora), sono io: l'ascoltatore (o l'ascoltatrice, salutata per prima, prima di «lui», all'inverso delle formule stereotipate del genere «Signori e Signore»); sono io, io che seguo e tutti gli altri: io, è evidente (mi si interpella, dunque sono), e tutti gli altri, poiché so bene che anche loro sono all'ascolto. La formula abbozza il limite impossibile dello spossessamento e dell'eccedenza individuali, che dipende dalla mistica essenziale, essenzialista («Ama il prossimo tuo come te stesso»). Il presidente o l'aspirante alla presidenza parla ancora, cerca il mio sguardo, e precisa in una frase le dimensioni della metonimia: «Ho voluto guardare la Francia diritto negli occhi»; ed è me che guarda! Lui è lo Stato, la Francia sono io. La Francia la si conosce: ogni francese ha imparato a riconoscersi nelle sue qualità fondamentali e nei suoi difetti recuperabili. Forza Francia! Madre delle arti, delle armi e delle leggi, alchimista dai sottili talenti che tramuta le disfatte in vittorie, i disordini in ordine; Francia, paese dell'ordine che vive sulla reputazione del 1789 - a questo punto una parentesi, una precisazione: che non si veda in queste parole alcuna particolare ironia; la Francia qui non è che esemplare. De Gaulle prima dei cinesi e prima di SAS ha ridotto gli scontri ideologici all'urto di «egoismi» nazionali; non rimane che pensare a cosa possa essere un egoismo «nazionale». L'equazione Francia = io, simbolo di tutte le banalità (li si è vinti, li si vincerà ancora), è nondimeno una formula mirabile; che ciascun individuo porti in sé e prenda su di sé, esprima e assuma gli errori e le sventure della collettività, ecco, proprio il rovesciamento metafisico essenziale: quello del cristianesimo, della pubblicità, della propaganda e del potere.

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Il vero politico sa, come hanno sempre saputo i politici delle società lignatiche, che fondamento del potere sulla società è il potere su ciascuno degli uomini presi individualmente nella loro realtà sociale, mentale e biologica. Il Potere esige che Ego sia responsabile e risponda di tutto quanto accade alla sua società, nella sua società. Inversamente, ma in modo complementare, tutto ciò che accade a Ego riguarda la società. C'è inflazione ed Ego spreca (se ha una coscienza - coscienza, termine dalle connotazioni contemporaneamente intellettuali e morali -, egli tradurrà: io spreco, dunque c'è inflazione). Forse resisterà a questa semplificazione; l'inflazione non lo tocca sempre nell'intimo. La sua resistenza sarà minore quando lo si colpirà nel corpo: Ego ha mal di pancia, se ne occuperà l'ospedale, malgrado il deficit della previdenza sociale - il concetto di deficit applicato a servizi pubblici ha obiettivi ed effetti che superano di gran lunga il calcolo economico; esso fa dell'utente un consumatore scorretto (se non consumasse troppe medicine...) e dello Stato un'entità estranea a coloro la cui aggregazione presumibilmente lo costituisce, un'entità nondimeno benevola, che tappa i buchi creati dagli individui nel bilancio, che riversa dall'esterno una inestinguibile manna per porre rimedio agli abusi di un consumo individuale eccessivo. Esteriorizzato e moralizzatore, esso coinvolgerà ciascuno di noi nel tentativo di colpevolizzazione: duecento morti sulle strade e voi non mettete la cintura di sicurezza! - anche lo speaker guarda la Francia diritto negli occhi. Degli incidenti sul lavoro, altrettanto mortali (18), non parlerà così spesso (19), poiché, essendo di genere diverso, sono anche più difficili da mettere al singolare/plurale. La dattilografa o il capo contabile non si sentono facilmente responsabili di un'esplosione di grisou o del crollo di un ponteggio. Inoltre, l'evidenza degli errori e delle insufficienze tecniche trasforma spesso gli accenni di colpevolizzazione in protesta, in contestazione: l'incidente sul lavoro è vissuto raramente in solitudine, in quanto produce una solidarietà professionale immediata, a caldo. Al limite fra lavoro e consumo, il camionista, molto spesso coperto d'insulti perché è anche un "utente" della strada come gli altri, esemplare, anonimo, individualizzato dai suoi errori. Lui avrebbe dovuto rallentare, loro avrebbero potuto segnalare la svolta. Non conosciamo il primo più di questi altri misteriosi.Da questo singolare a questo plurale la transizione è d'altronde facile: i camionisti sono sorprendenti, i camionisti vanno troppo veloce, il camionista ha preso male la curva.La logica dell'ideologia capitalistica è binaria: essa procede allo stesso tempo per prescrizione e per proscrizione. Tutto accade come se occorresse al contempo che il cittadino consumasse e si sentisse colpevole per questo. La macchina, prima dell'ultima crisi, era l'oggetto di una pubblicità sistematica di cui certi temi vengono oggi attenuati a vantaggio di altri: si parla meno di velocità, un po' più di economia, sempre di nervosismo, di comfort, di libertà; l'automobile è inoltre un'industria nazionale, un simbolo di riuscita nazionale. Parallelamente, si è sviluppata in fretta la tematica della prevenzione stradale: luci puntate sugli incidenti, sui morti e sui feriti, sui pirati della strada, certo, ma ancora di più sulle intime debolezze di ciascuno: visione incerta di sera, sensazione illusoria di guida facile dopo una bevanda alcolica, gusto della velocità, voglia di dormire. La loro evocazione a proposito degli incidenti altrui tende a sottolineare la potenziale colpevolezza di tutti e di ciascuno. «Gli incidenti succedono solo agli altri», si ritiene pensino gli imprevidenti a cui viene ricordato come, al contrario, siano parti in causa negli incidenti degli altri. Questa colpevolizzazione intensa ed estesa, le «moralità» parziali e vigorose che tali debolezze suscitano in molti (i quali denunciano le imprudenze o l'incapacità degli altri e li giudicano in base alla loro «condotta») (20) non interessano al Potere fino al momento in cui, come dicono quelli che ne hanno diverse, «ciascuno ha la sua macchina». Poiché la macchina, questo sogno di evasione individuale, di libertà individuale, si «generalizza», essa deve essere luogo e materia di repressione; nulla di quanto è individuale può essere estraneo al Potere, e la condotta automobilistica è un'espressione dell'intimità individuale; essa tradisce il nervosismo o traduce il sangue freddo, si fa meno sicura di sé con l'età;

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prolungamento del corpo (maschile, il più delle volte), la guida è uno stato d'animo. Facile è quindi immergerla nei simboli repressivi; la macchina simbolica della prevenzione-repressione stradale coi suoi segni imperativi si rivolge a tutti e interpella ciascuno. Gli agenti in moto che Cocteau aveva trasformato in angeli della morte spuntano d'un tratto nei retrovisori; il flusso delle macchine rallenta, si dispone in file, si mette in ordine; ognuno, quindi, teme di essere quello che un gesto imperativo sta per sottrarre dal flusso e che sa (malgrado, a volte, i dinieghi, le spiegazioni, le proteste educate) di avere torto, che sa come una mancanza recente e già quasi dimenticata, messa da parte, lo incalzi da dietro, lo sorpassi e lo blocchi nella sua individualità una volta tanto riconosciuta, ma riconosciuta colpevole. Fermato, può liberarsi per un momento della cintura che lo fissa al suo posto e nel suo ruolo (sicurezza obbligatoria, tant'è vero che né la sua salute né la sua vita gli appartengono: esse ci costano abbastanza care), ma non se ne libera che per soffiare in un palloncino, per esprimere con un sospiro il suo grado di alcolizzazione e di colpa. Respiro e spirito ancora confusi sono l'oggetto di un giudizio di Dio, da cui l'individuo uscirà discolpato solo se i rivelatori che gli insegnano a conoscersi non cambiano colore.Tutte le sostanze che penetrano nel corpo si prestano al trattamento ideologico - tutto ciò che si ingoia o si fuma, s'insinua, si mescola al sangue e al respiro o rode i polmoni, il fegato, le viscere: le analisi degli escrementi e delle secrezioni, le analisi del sangue e le radiografie rivelano strane presenze interne, e il male cresce nel corpo come il frutto di una mostruosa fecondazione. Maschile o femminile che sia, il corpo si lascia penetrare e invadere. Che una nota di biasimo si leghi al consumo di certe sostanze (e le conseguenze supposte nefaste della loro assunzione bastano alla formulazione di questo biasimo): l'evidenza della sofferenza farà il resto - il resto, cioè l'identificazione del male fisico e del male morale. Tuttavia (per quanto riguarda, per esempio, l'alcol e il tabacco), da una parte questa sofferenza può essere quella degli altri, dall'altra gli inviti al consumo sono molteplici. Per colui che beve senza danno, l'apprensione sostituisce la sofferenza (mantenuta a volte dalla fitta fuggevole in un punto a sinistra, a destra, un po' più in basso, o dalla palpazione disincantata di un dottore che ne ha viste ben altre) e la commiserazione sostituisce la colpa (forte del sostegno di una pubblicità che invita "anche" a bere: chi beve, beve con ragionevolezza e in ogni caso meno di un altro che, invece, è un incosciente). Così si delinea lo spazio angusto in cui prova a infilarsi con un po' di vergogna l'individuo stretto fra prescrizione e proscrizione, malato di desiderio - malato di un desiderio di cui gli viene detto a sufficienza che non ne conosce se non le metamorfosi estreme (beve per dimenticare), un desiderio che non riesce a definire e rifiuta di qualificare, come sempre.E' così che si sviluppano le provocazioni-repressioni della società liberale; gli snobismi non nascono se non con lo snobismo inverso e contrario; la crescita dello snobismo gastronomico si accompagna all'ossessione della linea. Il vecchio cognac è un simbolo di virilità, ma solo la purezza delle acque minerali garantisce questa proprietà interna il cui pensiero apparenta Evian a Lourdes e la cui ossessione conforta le grandi equazioni nosologico-repressive: pulizia = purezza, malattia = male. Il cuore dell'uomo è pieno di immondizia, scrive Pascal. Vittel, Contrex, Perrier rincarano la dose: tutto il corpo dell'uomo è pieno di immondizia, di tossine che lo invadono, lo appesantiscono, lo bloccano. La pubblicità per le acque minerali accosta, in disegni approssimativi o fotografie ritoccate, l'uomo che fa bene pipì, con un getto la cui parabola esprime un'arrogante virilità, a colui che nulla può e il cui volto esprime con sufficiente chiarezza come sia roso dalla stizza e dall'angoscia. Queste immagini toccano abbastanza da vicino l'intimità biologica ed evocano malattie abbastanza frequenti e dolorosamente reali, mortali, affinché la loro subdola efficacia sia fuori di dubbio: su parecchi tavoli di bevitori di vino, una bottiglia d'acqua minerale non iniziata, o appena iniziata, scongiura l'angoscia, simbolo feticcio di una società dei consumi contrari. Consumi al plurale, dato che l'opposizione non è fra consumo e astensione bensì fra consumo volgare e consumo di lusso: consumare meno è consumare meglio o più caro. L'acqua minerale è più cara del vino «da tavola», il pane dietetico più caro della

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"baguette", i prodotti scremati più cari degli altri, le sigarette senza nicotina più care delle Gauloises. Queste differenze non sono prive di effetti.E' chiaro che il binomio prescrizione/proscrizione, il "double bind" (21) di cui parlano i sociologi, non nasce dal complotto deliberato di qualche volontà soggettiva: il monopolio Renault, il ministro degli Interni, il monopolio dei tabacchi, Gault et Millau eccetera. Ma questi nomi sono anche il simbolo di un sistema di segni e di costrizioni; designano altrettanti portavoce di un'ideologia di funzionamento (individuale e sociale) le cui configurazioni contano tanto quanto i temi; i temi hanno in comune il fatto di toccare l'intimità biologica dell'uomo e dunque di concernere specificamente ogni singolo individuo, giacché trattano del consumatore in generale, del consumatore al singolare/plurale; le configurazioni hanno in comune la loro polarità. Nella nostra società senza obbligo religioso le contraddizioni individuali, che sono tutte delle figure del rapporto con gli altri (l'un-l'altro, interno-esterno, piacere-sofferenza, vita-morte, desiderio-altro desiderio), sono sufficienti, come nelle società lignatiche, all'elaborazione e all'efficacia della costrizione sociale.

SAS O LA PERFEZIONE PER ADDIZIONE.

L'eroe della letteratura di massa, cioè dei romanzi di spionaggio, ha la caratteristica di cancellare le contraddizioni. Superindividuo, raggiunge la perfezione per addizione. Prodotto del consumo eccessivo (SAS, OSS 117 fanno tirature record e ravvicinate, e ogni copia è letta da molti), il superuomo del consumo è l'eroe di tutti i consumi, uomo dell'accumulo, non della contraddizione. SAS viene sempre dipinto in modo realistico; è principe e agente segreto ma non per questo è meno uomo: le sue armi, le sue bibite, i suoi itinerari e le sue attività sessuali costituiscono l'oggetto di descrizioni tecniche e minuziose; nessun dettaglio delle sue avventure è inverosimile; l'inverosimiglianza, non immediatamente percepibile, non nasce che dall'accumulo incessante di performance incompatibili o contraddittorie; nell'immediato questo accumulo si presenta come il culmine della virilità, del coraggio, dell'intelligenza. SAS è un essere naturale; la sua spigliatezza non è acquisita, lui è di razza; tuttavia la sua naturalezza deriva anche da un accumulo di saperi; padroneggia tutte le tecniche; la sua cultura non si limita alla conoscenza della sua panoplia professionale; spara con il fucile, con la pistola, con il bazooka, guida macchine, aerei, elicotteri, ma parla anche diverse lingue, conosce il cuore dell'uomo e conosce i retroscena della politica mondiale. In lui sovrannaturale e sovraculturale si confondono. Sfugge alle costrizioni fisiologiche; certo non è privo di debolezze - bisogna che rimanga umano; gli capita di farsi intrappolare, di perdere una battaglia, di soffrire, di farsele «suonare» e farsi «rovinare»; ma «recupera» all'istante e ritrova, con il suo dinamismo, la sua prestanza intatta e senza macchia. Fa l'amore per umanità, all'occasione, e non senza condiscendenza, non avendo mai incontrato donna che non anneghi subito nei riflessi dorati del suo sguardo chiaro; non si può negare che abbia solo l'imbarazzo della scelta; non conosce affatto l'imbarazzo e non sceglie che il suo momento; seduce tutte le donne - per tenerezza, per sadismo, per caso - ma generalmente padrone del suo desiderio si sa anche astenere, a costo di far soffrire quelle che sognano di essere appagate da lui, che si offrono a volte per spiarlo o per tradirlo ma il cui piacere, certo, non inganna. Almeno in via generale, da qualche tempo SAS è diventato forse più passivo e al tempo stesso più sensibile alle grazie femminili, anche esotiche; nei suoi ultimi romanzi subisce più con sorpresa che con consenso libertà che qualche anno fa non avrebbe tollerato. Ne subisce più di quante non se ne prenda. Ma ciò non va visto come un effetto dell'età: SAS è immortale e non invecchia; egli segue l'attualità, da Cuba al Libano, dallo Zaire al Cile, ma sono già più di dieci anni che si mantiene all'apice della maturità conquistatrice (quarant'anni...). Semplicemente, segue la moda così come l'attualità; è diventato, anche lui, un consumatore di erotismo, un "amateur" di esibizionismo, di colpi di frusta e fellazioni. Anche in questo campo è tenuto a essere esemplare e a non vivere di immaginazione. Tutti questi episodi gli passano sopra senza lasciargli un segno. Senza memoria né fatica, egli si

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ritrova nuovo al principio di ogni capitolo.Distribuisce la morte come l'amore: senza piacere né compiacimento, ma generosamente. Esplode in ogni istante (pioggia di sperma, di pallottole, di colpi) ma è al riparo dalle conseguenze. Non uccide se non costretto. In queste occasioni prova un profondo disgusto per ciò che fa, che è piuttosto un disgusto per coloro che uccide. La morte degli altri deriva da una necessità che a volte favorisce senza per questo confondersi con essa, ma i morti stessi - vili, delatori, traditori, sadici - sono ignobili e brutti: l'orrore dei cadaveri esprime il fetore delle anime; e quei morti, spesso, sono di colore o, peggio ancora, meticci - meticci, sangue misti immischiati in ciò che non li riguarda e che vogliono, tuttavia, credersi parte in causa. SAS è razzista, di un razzismo che trasuda a ogni pagina ma non è mai oggetto di teorizzazione, che sembra scaturire in modo naturale dalla triste constatazione delle evidenze; diciamo che SAS è meno razzista del suo autore, Nettuno di questo oceano di sesso e di sangue dove naviga la fragile barchetta della libertà che minaccia a ogni momento di finire nelle mani viscide di libanesi libidinosi, di neri bestiali, di asiatici viziosi, di uomini panciuti dal sorriso crudele, sensuale e scaltro, ma trasudante angoscia quando la paura fa stralunare il loro sguardo sfuggente, quando, precedendo di una frazione di secondo la pallottola precisa della sua pistola ultrapiatta, li trapassa lo sguardo d'acciaio di Sua Altezza Serenissima. Allietano questa fauna, riposo del guerriero, fantasma del lettore, esca eterna della spia, a momenti tanto cieca quanto Guignol davanti al gendarme, delle donne, tutte le donne, ammirevoli creature, sensuali per definizione, animali per natura, sopraffatte dagli eventi, dominate da un corpo (corpo splendido, sodo, provocante) con cui credono di poter giocare fino al momento in cui restano vittime delle sue esigenze (corpo insaziabile, affamato, bruciante) o dei colpi a volte mortali, sempre gravi, della forza maschile (corpo ansante, slogato, abbattuto, deformato-ripugnante).L'umanità esotica non è che il sottoprodotto dell'umanità; la femminilità non è che il sottoprodotto della mascolinità. Fascismi esotici e comunismi esotici hanno in comune la loro essenziale mancanza di serietà: essi abbozzano in politica una pretesa di efficacia occidentale tanto ridicola quanto la pretesa più fondamentale della sotto-umanità esotica di umanità "tout court" e di bellezza, in confronto allo splendore senza pari del grande sogno biondo nordico. Alcuni abbozzi più riusciti (SAS ha sempre il «suo» cubano, il «suo» libanese e anche il «suo» negro) non attenuano in nulla il manicheismo complessivo; allo stesso modo, alcune donne raggiungono talvolta la grandezza virile. In questa giungla vischiosa, che gli ispira necessariamente più disgusto e indifferenza che odio, SAS, temibile felino, s'aggira silenzioso e attento, senza curarsi delle erbe che calpesta, dello spavento che sparge, della preda che abbatte. Cerca la sua vera preda, la quale può farsi cacciatore. Angelo sterminatore, Ponzio Pilato del grilletto, san Michele Karateka, uccide senza sporcarsi le mani, senza mettere altra attenzione che quella tecnica, fino al giorno in cui si scontra con altri grandi rappresentanti della lotta dei valori che, pure loro, hanno seguito la pista. Certamente la lotta è politica; SAS è un agente della CIA, ma i grandi agenti segreti dell'Est e dell'Ovest hanno in comune la loro calma autorità, la forza fredda e la determinazione. Si conoscono e si stimano, individuano e apprezzano da conoscitori le tracce delle loro rispettive imprese. Neppure la spia sovietica uccide volentieri, essa possiede la stessa eleganza felina e raffinata che fa il fascino di SAS - l'eleganza prodotto di cultura, ma che esprime una superiorità di natura, quell'eleganza che dà la stirpe: fra di loro si stabilisce, se non una simpatia, almeno la complicità delle grandi fiere.Di questo mondo senza Dio, questi eroi sono i santi laici e senza fede; il solo dio a essere evocato (il Vecchio, il Padrone a capo dell'organizzazione) è collerico e cinico come un dio omerico; il solo vero dio è la necessità, l'ineluttabile ironia che impone la vita agli uomini, la società all'individuo e l'Occidente al mondo. Ma la ragione di queste insensatezze non si discute. SAS non offre ai suoi lettori lo spettacolo debilitante della minima crisi di coscienza; se gli succede di preferire i suoi avversari ai suoi alleati, fa in modo di aiutare i primi senza tradire i secondi. Le sue occasionali qualità - un'ombra subito fugata di stanchezza, un

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pizzico di scetticismo, la sensibilità alla bellezza d'un viso, al fascino d'un bambino, alla crudeltà della vita - lo distinguono sottilmente dai suoi omologhi e rivali, più meccanicamente duri, più rigidamente convinti della bontà della loro causa, più settari e meno morali. Così, la causa senza ragione per la quale si batte appare progressivamente giustificata: ha l'evidenza di fatto di una realtà naturale e l'esistenza di diritto del male minore; ha per se stessa questa parvenza di distanza e di humour che mostra il suo agente speciale, il quale ne relativizza la fondatezza ma al tempo stesso la addobba con le grazie insidiose dell'intelligenza. Mai tanto brutale quanto potrebbero far credere le sue funzioni, mai tanto debole come potrebbero far credere le situazioni d'impotenza in cui a volte si trova, SAS è un seduttore; non è mai quello che si crede; quando la sua maschera cade, lui non rivela che un'altra maschera; come i dottori, sa che è meglio nascondere la verità a coloro che non la possono sopportare e mente parecchio a coloro che ama un poco; ma nulla, nel suo gioco, assomiglia allo scrupolo o all'indecisione. Nemmeno le incertezze della pratica lo sottopongono alla prova della contraddizione. Beve e fa a pugni, fuma e corre, mangia e nuota; il suo corpo glorioso è a immagine del suo spirito, che non conosce né la fede né il dubbio. Come non desiderare questa invulnerabilità? Ma come immaginarla? Immagine deludente di una perfezione irraggiungibile, Malko, Coplan, Bonnisseur de la Bath ignorano in modo così provocatorio le leggi della gravità biologica e sociale, disprezzano in modo così superbo il binomio prescrizione/proscrizione (obbediscono sempre ma si concedono tutto) che ne ricordano e ne esprimono in ogni istante la necessità per tutti gli altri. I loro autori, del resto, aspirano a loro volta allo humour e invitano a sognare allegramente i fantasmi che essi destano.

LOGICA LIGNATICA E LOGICA DELLA SOCIETA' DEI CONSUMI.

Questo uno-due repressivo, che scongiura e conforta l'eroe della letteratura a uso popolare, Baudrillard l'ha descritto nella "Società dei consumi", dove, gettando le premesse della sua critica dell'economia politica del segno, analizza alcuni temi del codice repressivo liberale. Ma già la lettura della "Società dei consumi" ispirava un senso misto di piacere, di interesse e di fastidio di cui la letteratura meta-antropologica doveva, di lì a poco, aiutare a precisare le ragioni. Baudrillard evoca, per esempio, il tema dell'automobile e della circolazione, e degli imperativi contraddittori a esso attribuiti («[...] promozione senza limiti del consumo individuale, appelli disperati alla responsabilità collettiva e alla moralità sociale, obblighi sempre più pesanti...») (22). Egli collega questo contrasto al fatto che il consumatore è già, poiché consuma, all'apice della responsabilità sociale: non gli si può chiedere un'altra forma di responsabilità senza creare una contraddizione. Questa contraddizione verrebbe d'altronde percepita in quanto tale dal consumatore, almeno in modo confuso: «I milioni di consumatori, in virtù di una qualche parte del loro subcosciente sociale, hanno una specie di intuizione pratica di questo nuovo stato del lavoratore alienato, essi quindi traducono spontaneamente come mistificazione l'appello alla solidarietà pubblica, e la loro tenace resistenza su questo piano non fa che tradurre un riflesso di difesa "politica"» (23). L'automobile è, in effetti, uno di quei settori «autonomi», parcellizzati, dove la repressione può funzionare per il Potere con tanta più efficacia da presentarsi immediatamente come apolitica. La contestazione del consumatore (e per esempio i segnali che si fanno gli automobilisti con i fari, come tante strizzatine d'occhio complici, per avvisare della presenza della polizia lungo la strada) si disperde, si smorza e perde vigore, per quanto lui accetti la separazione di generi che gli viene imposta: io sono un oppositore, ma vado troppo veloce. E se è vero che l'eccesso di velocità non deriva da una guida rivoluzionaria, è anche vero che la repressione poliziesca sulla strada rappresenta, prolunga o precede una repressione più profonda.E un po' ciò che sottolinea Baudrillard quando nota: «Non è sommergendo gli individui sotto il comfort, la soddisfazione, lo standing che il consumo smorza la virulenza sociale (ciò è legato alla teoria ingenua dei bisogni e non può rinviare

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che all'assurda speranza di rendere le persone più misere per vederle ribellarsi), è piuttosto "addestrandoli alla disciplina inconscia di un codice" [...]» (24). Ma questo codice, non è forse esattamente quello di ogni sistema sociale, il codice del potere, del sapere e della parola, l'ideologia? Baudrillard stesso stabilisce il parallelo fra «i rituali gerarchici o religiosi delle società primitive» e il consumo che può «sostituirsi da solo a tutte le ideologie e, alla lunga, assumere da solo l'integrazione di tutta una società» (25). Questo parallelo, affrettato e frequente nella "Società dei consumi", deve metterci in allerta. E' degno di nota che i paragoni con le società primitive vengano così spontanei a un autore che intende evocare i caratteri specifici della società dei consumi, salvo non menzionare l'economia delle società primitive, come alcuni meta-antropologi contemporanei, se non a partire dall'unico articolo di Marshall Sahlins scritto in francese, dove quest'ultimo si azzardava a qualificare i cacciatori-raccoglitori, condannati dal loro stile di vita al consumo immediato, come «prima società dell'abbondanza» (26). Non si possono prendere le società primitive come esempio di una cosa e al tempo stesso del suo contrario, postulare contemporaneamente a loro riguardo la funzione integrativa dei riti e la trasparenza dei rapporti sociali: affermare che il consumo è una forma ideologica specifica non equivale ad affermare che esso costituisce un'ideologia del potere strutturalmente e funzionalmente diversa dalle altre: anzi, è il contrario.Del resto, l'«individualità di sintesi», il cui sviluppo, per non dire la genesi, viene legato da Baudrillard all'azione della pubblicità, non può non evocare qualcosa di già noto, di già incontrato. L'astuzia della pubblicità, ci dice Baudrillard, consiste nel fatto che essa non si rivolge mai all'uomo solo, ma all'uomo «nella sua relazione differenziale»: «[...] essa convoca sempre i vicini, il gruppo, l'intera società gerarchizzata nel processo di lettura e di interpretazione, nel processo di sfruttamento da essa instaurato» (27). Ma arrivare a ognuno in funzione degli altri, identificare assimilando, non è forse il processo stesso di ogni ideologia? Baudrillard commenta una formula pubblicitaria «superriflessa»: «Personalizzate voi stessi il vostro appartenere a voi stessi!» (28): per lui, la «persona», in quanto mito della tradizione occidentale, è appena stata «spazzata via dal nostro universo funzionale» (29). Si prova a ricostituire questo essere, perduto a causa della forza dei segni, con la logica delle differenze molteplici ma non infinite degli oggetti di consumo: si personalizza la macchina, il colore o il taglio dei capelli eccetera; ricostituendo a partire da questi diversi elementi un'individualità sintetica e artificiale. Ma non è forse normale che la pubblicità ci presenti come dato il risultato a cui mirano tutte le ideologie? Individui che sono così simili da dover rivendicare la loro identità (anche se sono così diversi da credere alla loro somiglianza). Anche il membro del lignaggio si definisce mediante la somma delle costrizioni poste dall'entourage. Bisogna allora pensare che l'ideologia del consumo agisca in senso contrario al cristianesimo quando esso erode le articolazioni della società lignatica? Il cristianesimo cancella le differenze legate all'inscrizione dell'individuo nel tempo e nello spazio; «deterritorializza». Ma queste stesse differenze si trovano in relazione sistematica: l'una si definisce per mezzo dell'altra; il registro delle differenze non è illimitato e le strategie sociali contribuiscono a creare situazioni: se l'individuo del lignaggio è quello che è, è perché è "dov'è", all'incrocio delle linee di sangue e di forza, dell'alleanza e della discendenza, dell'ereditarietà e dell'eredità. L'ideologia lignatica intrattiene con «l'individuo» un rapporto paragonabile a quello che l'ideologia del consumo intrattiene con l'individualità di sintesi; il "bricolage" sintetico è parte del suo discorso esplicito. Inoltre, né l'anonimato del consumatore né quello del «soggetto» (30) di lignaggio (così come lo ritraggono le teorie generali e "a priori", indifferenziate, dell'ereditarietà, della malattia o della morte) stanno a significare l'indifferenziazione delle situazioni. Da nessuna parte le teorie della persona parlano degli individui reali più di quanto parlino dei rapporti di forza sociali di cui esse sono un elemento.In ciò consiste l'insufficienza di una teoria della repressione binaria del tipo prescrizione/proscrizione. Non tutti sono integrati allo stesso titolo in questo

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sistema binario - e le modalità d'integrazione fanno a loro volta parte del sistema: è proprio qui la difficoltà circolare di ogni sistema, quella che Bourdieu affronta quando si rifà a Weber per sottolineare il ruolo delle classi strutturanti o quando rammenta i virtuosi del sistema. Per Baudrillard, così come il Medio Evo si equilibrava su Dio e sul Diavolo, il consumo è inseparabile dalla sua denuncia, che egli finemente qualifica come «residenza secondaria dell'intellettuale» (31). Baudrillard ha certamente ragione quando traccia questo parallelo Dio/Diavolo, Consumo/Denuncia, e ricorda, citando Stuart Mill, che ai nostri giorni «il semplice fatto di dare esempio di anticonformismo, il semplice rifiuto di piegare le ginocchia davanti agli usi è in se stesso un servizio» (32), ma nel farlo tocca un aspetto importante del problema fondamentale della struttura e dell'efficacia ideologiche (quello dell'inversione, ritualizzata o meno) che non è specifico della società dei consumi. Con il consumo e la sua denuncia, come con Dio e il Diavolo, ci troviamo già al di là della bipolarità prescrizione/proscrizione, nell'astuzia del discorso chiuso in cui il negativo non è mai l'inverso. Denunciare il consumo è consumare lussuosamente; parlare del Diavolo è parlare di Dio; parlare degli stregoni è parlare dei lignaggi, non nei termini di un inverso che riflette un diritto, bensì di uno degli elementi di un concatenamento sintattico. Se il linguaggio delle istanze ci condanna a una descrizione meccanica dell'efficacia ideologica, l'opposizione dell'inverso e del diritto o quella del pro e del contro ci condanna a definizioni tautologicamente funzionalistiche dell'inversione. La letteratura etnologica abbonda di tautologie di questo tipo che giustificano le credenze con le loro funzioni e spiegano le funzioni con le credenze.L'inversione pone problemi in primo luogo perché non è mai veramente inversione. Gli snobismi forniscono la prova che le inversioni non sono mai totali e che formano un sistema con il resto. Le società lignatiche ci forniscono a questo proposito tanti esempi quanti la società dei consumi: per alcuni è bene lasciar intendere che sono forse stregoni; la loro posizione li mette al riparo da ogni accusa, non traggono dalle voci che il prestigio che vi è associato: passano dalle voci alla fama. Ma il vecchio miserabile o l'ultimogenito di un ramo cadetto non avanzano di queste pretese se non per rovinarsi. Da noi il grande politico può mettersi un maglione, l'uomo ricco o influente può fare allusioni colte alla sua natura modesta, passando discretamente e alternativamente da una parte all'altra della barriera con un movimento, propriamente, di seduzione (no, no, io non sono colui che credete... né così semplice, né così complicato) (33); ma l'uomo senza mezzi (senza mezzi per pagare o farsi intendere - mezzi: parola mirabile) non deve manifestare la sua natura ambiziosa (i suoi discorsi e la sua condotta sarebbero fuori luogo, se non addirittura inquietanti) né vantare la sua modestia (i suoi discorsi sarebbero in certo qual modo ridondanti, pleonastici, oppure ugualmente inquietanti: sospetti d'inversione). All'uomo «modesto» (anche in questo caso si ammirerà con un termine d'uso comune la confusione delle connotazioni finanziaria e morale) la parola è rifiutata: gli rimane solo la parodia, che non è ancora l'inversione quanto piuttosto la forma elementare dell'individualità di sintesi. Applicata allo studio delle società in via di «sviluppo» nell'area d'influenza occidentale, l'analisi dei comportamenti parodistici consentirebbe forse di eliminare lo sviluppo delle illusioni sovraculturali, delle illusioni etnocentriche e dei razzismi latenti.Nella società lignatica come nella società dei consumi il sistema prescrizione/proscrizione non prescrive né proscrive a ciascuno allo stesso modo; l'uomo davvero ricco può veramente esprimere la sua ricchezza e indifferentemente cenare con un'insalata di pomodori o con i piatti più costosi in un tre stelle parigino; la sua discrezione è sempre relativa; rapportata alla sua posizione, essa è piuttosto una forma di ostentazione indiretta: un modo di dire. Similmente, il ricco della laguna che espone la sua fortuna agli occhi degli altri, consacrando il suo status di adulto e di anziano potente, espone allo stesso tempo quella del suo entourage, prendendo a prestito per l'occasione stoffe e oro dal tesoro del suo lignaggio, da quello del padre, eventualmente anche da quello della moglie; attraverso una specie di metonimia sociologica, egli esprime, più che la sua fortuna, la sua influenza sociale; guadagna in potere quanto tace in possesso; ma

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l'uno è sempre il garante o il segno dell'altro. Quanto è vero dell'ostentazione economica è vero dell'ostentazione oratoria o più semplicemente del diritto di parola. Jean-Louis Bory può parlare per sé, ma più difficilmente per gli altri; invano Jean-Paul Sartre prova a farsi incolpare: se, fino a un certo punto, la loro parola gira a vuoto, è perché una delle loro individualità viene loro sottilmente rifiutata, rimandata alla totalità del personaggio che significa altra cosa (più e meno) nella società ufficiale; non si rifiuta al primo la sua qualifica di omosessuale, né al secondo quella di "gauchiste", ma viene loro rifiutato il sintagma complessivo al quale essi vorrebbero integrare questo elemento della loro personalità. E' «normale» che uno scrittore o un artista abbia comportamenti ritenuti originali: è un'opinione comune, alimentata, condivisa del resto da molti scrittori o artisti. Si può indifferentemente fare la somma delle tesi ammissibili e ammesse riguardanti le «deviazioni» delle professioni «marginali» o fare il conto di coloro che possono, senza veramente urtare, affermare tesi e ostentare condotte «inverse» rispetto a quelle «normalmente» ammesse: si ritroverà, si ridefinirà sempre la logica di una sintassi che designa anche l'identità differenziale dei locutori.Se l'espressione "savoir-vivre", a proposito delle società lignatiche, può applicarsi altrettanto bene al codice delle buone maniere e, letteralmente, all'arte della sopravvivenza, è perché il diritto alla parola, all'ostentazione, alla potenza e al potere non viene riconosciuto a tutti; alla morte di un Alladiano, il cadavere può essere interrogato; le sue risposte affermative o negative (si ritiene che faccia avanzare o indietreggiare coloro che lo portano e che, in qualche modo, sono i suoi portavoce silenziosi) possono condurre all'accusa di un individuo - generalmente, secondo la teoria, di un individuo del suo lignaggio. Ma il capo di lignaggio, che è uno dei sospettati più plausibili - giacché il potere d'aggressione si trasmette di preferenza dallo zio materno al figlio primogenito della sorella primogenita -, è anche colui che accorda o rifiuta il diritto di interrogare il cadavere. Se rifiuta, ciò può essere una specie di mezza confessione, ma una confessione in guisa di atto di forza: nessuno, a meno che non abbia qualche precisa ragione per credere alla debolezza del capo e alla propria posizione di forza, si arrischierà ad accusarlo, tanto più che, sempre secondo la teoria, colui che si ritiene erediti il potere nefasto di aggressione è anche ritenuto ereditare di preferenza (per via agnatizia, questa volta) il potere di difesa: al limite il potere è inqualificabile, o addirittura ineffabile. Non si accusa impunemente un uomo forte (di una forza costituita al tempo stesso da potenza psichica e potere sociale) e un'accusa si volge facilmente contro colui che la pronuncia. Così, esiste una sorta di snobismo della forza che induce alcuni anziani del lignaggio a lasciare intendere di possedere un potere sulla natura intorno al quale è meglio non porsi domande; questo tipo di suggerimento è attestato abbastanza spesso nell'etnologia africanista. Coloro che, troppo sensibili al prestigio della potenza, lasciano intendere senza essere nella posizione di farsi ascoltare finiscono per essere compresi fin troppo bene e per costituire degli accusati ideali.Per un «quadro superiore» (34), SAS può essere divertente, eccitante, stupido o odioso, ma non è, a dire il vero, affascinante; questo lettore ha un'esperienza diretta di paesaggi esotici, di jet, di hostess, di grandi alberghi di lusso internazionali, perfino di erotismo; il potere del libro è limitato, o mutato, dalla conoscenza del lettore che ne fa una lettura, come si suol dire, di secondo grado. Questa distanza diminuisce evidentemente con lo status sociale del lettore. Ciò è vero di ogni consumo e Baudrillard lo dice molto bene: «Il consumo, al pari della scuola, è un'istituzione di classe: non solo c'è di fronte agli oggetti una disuguaglianza in senso economico [...] ma più profondamente c'è una discriminazione radicale nel senso in cui solo certi accedono a una logica autonoma, razionale, degli elementi dell'ambiente [...] Allo stesso modo il sapere e la cultura non sono, per coloro che non ne hanno la chiave, vale a dire il codice che ne permette l'uso legittimo, razionale ed efficace, che l'occasione di una segregazione culturale più acuta e più sottile, poiché il sapere e la cultura non appaiono allora, ai loro occhi e nell'uso che essi ne fanno, che come un marra

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supplementare, come una riserva di potere magico, invece di essere l'opposto: un tirocinio e una formazione oggettiva» (35). Tutto questo è senz'altro vero, ma vale anche per le società lignatiche. Anche nella società lignatica (e noi sosterremmo volentieri che ciò vale anche per ogni tipo di società) la posizione all'interno del sistema e la conoscenza del sistema sono legati; il potere deriva dalla percezione della logica delle differenze e la percezione è funzione della posizione. Il potere, in questo senso, è una questione di punti di vista.Non bisognerebbe tuttavia dedurne che una minoranza di spiriti forti detiene il potere e gioca cinicamente possibilità di un sistema cui non aderisce. I virtuosi sono per un verso i più convinti della verità naturale del sistema, per lo meno degli aspetti del sistema che rafforzano la loro qualità di virtuosi. I credenti sono i primi a farsi beffe della superstizione. Le distanze prese rispetto alla letteralità della fede (in qualunque campo) sono altrettanti gradi di approfondimento di questa fede. A una certa distanza, le verità parziali appaiono più manifestamente legate le une alle altre, in questo senso meno assolute, ma questa visione, lungi dall'impedire l'adesione al quadro complessivo, la rafforza e la rende più complessa. Il virtuoso non prende le distanze che all'interno del sistema che consacra il suo virtuosismo - il quale non è altro che la presa di coscienza del carattere sistematico del sistema. C'è dunque una distinzione da fare, da una parte fra i diversi tipi di insiemi ideologici dove può esercitarsi il virtuosismo, dall'altra fra i diversi totalitarismi che prendono posto all'interno di ciascuno di questi insiemi. Certo è così che i sintagmi formulabili in una società lignatica e in una società come la società capitalista liberale francese hanno contenuti diversi; la società lignatica stabilisce relazioni precise ed esplicite fra campi che la nostra società generalmente tiene separati (economia, biologia, religione); ma pure nella nostra società le relazioni stabilite fra questi diversi campi differiscono a seconda delle posizioni socioculturali degli individui. Questa diversità si misura sulla lunghezza delle catene sintagmatiche tollerate dalla norma; nelle società lignatiche questa lunghezza è quasi illimitata; in questo senso, e perché in esse la logica persecutoria ribalta l'ordine individuale sull'ordine sociale e questo sull'ordine del mondo, tali società sono più totalitarie della nostra. Ma in entrambi i casi bisogna parlare anche di totalitarismo differenziale: per alcuni le catene sono più corte, più frammentarie che per altri e, se è vero che il diventare autonomo di un qualsiasi settore di attività o di rappresentazione può portare a una sorta di feticizzazione eminentemente repressiva (il linguaggio comune evoca del resto con forza le persone che non vivono che per il loro mestiere, lo sport, i loro bambini...), è ancora più vero che la frattura delle relazioni fra diversi settori di rappresentazione comporta una relativa liberazione dell'individuo. Si ha così come un doppio movimento. Il codice delle società industriali perde rubriche o le separa, almeno agli occhi di coloro che pensano di dominarlo: il virtuosismo si esercita in una sfera più ristretta rispetto a quella dell'ideologica lignatica; allo stesso tempo, coloro che non hanno la chiave del codice adoperano sintagmi più lunghi, più pesanti, e mischiano ancora Dio, la loro famiglia e i loro peccati con i loro problemi materiali o con i loro voti. L'autonomizzazione del politico in rapporto alla religione può benissimo non rappresentare un ostacolo alla dittatura, ma è dialetticamente legata alla liberazione ideologica, e cioè alla riaffermazione individuale.Questa constatazione non è assolutamente estranea al problema del rapporto fra scienza e ideologia. Non lo si evocherà in questa sede se non in quanto esso tocca il problema della repressione in senso lato. La scienza tende a totalizzare le diverse logiche che scopre. Che la logica di una scienza non sia estranea a quella di un'altra scienza, e quanto postula ogni scienza, per quanto essa sia poi incapace di controllare il passaggio da una logica all'altra - da un certo ordine del mondo, per esempio quello della materia, a un altro, per esempio quello dell'energia. Di questa mancanza si è potuto fare virtù, e Durkheim, quando affermava che la causa determinante di un fatto sociale dovrebbe essere ricercata esclusivamente nei fatti sociali antecedenti, giustificava il suo rifiuto della psicologia dichiarandola tanto inutile per la spiegazione etnografica quanto lo

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erano la fisica o la chimica per la spiegazione dei fatti organici. Da allora abbiamo assistito a una compenetrazione delle diverse discipline, per esempio alla comparsa di una chimica organica la cui esistenza dovrebbe rendere gli osservatori più ottimisti riguardo al futuro delle reciproche relazioni fra le scienze umane. Le nuove configurazioni, i nuovi oggetti di scienza o di sapere costituiscono da soli un progresso della scienza: la scoperta di una logica più profonda e più sottile, o più precisamente un approfondimento delle logiche esistenti.Ma la scienza resta totalizzante mentre l'ideologia si vuole totalitaria. Tali sono le loro rispettive definizioni e in questo consiste la loro fondamentale differenza. La scienza non potrebbe realizzarsi come sapere totale se non dominando contemporaneamente l'infinito dell'universo e l'assoluto della coscienza nel momento strettamente impensabile e, si potrebbe dire, «divino» della fine o del nuovo inizio del mondo. L'ideologia, al contrario, poiché urta direttamente con l'evidenza della coscienza, da cui essa stessa deriva, è tenuta a far saltare il proprio limite e ad affermarsi come verità totale, modellando, come si suol dire, gli «animi» o le «coscienze». Le scienze umane, e in ogni caso l'antropologia, hanno per oggetto essenziale e, oserei dire, unico lo studio di questo cortocircuito. Esse non sono scienze (ma allora nel pieno senso del termine) che in proporzione al loro scetticismo. Esse devono restare morali nel doppio senso del termine. Altrimenti possono perfettamente fare da intermediario a un superamento della scienza da parte dell'ideologia - che realizza a perfezione il suo totalitarismo quando dà alla scienza dell'eretica, della borghese o della proletaria.E' proprio perché l'ideologia è sempre ideologia del potere, perché non esiste potere senza assoluto più di quanto non esista società senza potere e perché i rapporti di classe non sono che una modalità dei rapporti di potere che non c'è alcun bisogno di contrapporre su questo punto Marx a Durkheim: l'ideologia lignatica, l'ideologia cristiana o l'ideologia del consumo si vogliono tutte totalitarie; tutte hanno voluto sottomettere la figura individuale alla figura sociale, parlare al singolare/plurale, giocare d'astuzia con il nome proprio in nome del senso comune; esiste dunque davvero una struttura ideologica in ogni formazione sociale; ma le costrizioni che si esprimono nell'ideologia e per il suo tramite differiscono da una società all'altra e all'interno di una stessa società. All'interno di una stessa società non c'è posto per una controideologia in senso stretto, ma per spostamenti ideologici che manifestano al contempo la pressione dei repressi e i nuovi accenni di repressione; gli snobismi e le condotte d'inversione non sono trucchi meccanici del potere, ma figure provvisorie e difensive della dominazione, nelle quali può leggersi anche la contestazione dei dominati. L'ideologia dominante è quella di tutti in ogni senso; così, la disuguale sistematizzazione delle costrizioni testimonia al tempo stesso una disuguale inserzione nell'insieme e la possibilità di una lotta per la presa di coscienza, la presa di parola e la presa del potere. Non c'è opposizione fra lotta di classe e affermazione individuale: la prima è la condizione della seconda e la seconda il senso della prima. Nessuno può contestare ad alcuno l'esigenza immediata e assoluta di senso e di esistenza: la storia e la lotta di classe muoiono con l'individuo; ma la libertà passa attraverso l'uguaglianza; nessuno può esigere il senso senza respingere il potere, cioè, in fin dei conti (e qualsiasi cosa ne dicano i ricchi beneficiari dell'insularità individuale), senza rivendicarlo.

CONCLUSIONE.

E, per finire, esorcizzare colui che, per primo, ha declinato insieme individuo, natura e società: di Rousseau scacciare il rousseauismo. Rousseau conosce il piacere fisico dell'immersione nella natura - al ritmo regolare dell'acqua del lago di Bienne, ferma l'attenzione sulle sue sole sensazioni, fino a dissolversi in esse, corpo anonimo e conduttore come vorrebbe Lyotard, e non essere ben presto più che pulsare del sangue nelle arterie, rumore mescolato d'acqua e di sangue, fusione, intensità -annichilimento.E' l'ultimo respiro dell'uomo solo. Questi non ritorna a se stesso che per trovare

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gli altri. La costrizione altrui, che gli è tanto pesata, gli occorre pensarla per ammetterla. Se il "Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza" (1) fa della disuguaglianza una delle molle della storia, il "Contratto sociale" (2) sovrappone a questo pessimismo una seconda lettura del fenomeno sociale: l'affermazione di un contratto sociale si applica alle implicazioni logiche (e ideologiche) di ogni regime esistente, di ogni società concepibile.In questa oscillazione si percepiscono i limiti dell'immaginazione politica come della realtà sociologica, nonché quelli della più pura libertà individuale: ciascuno può scomparire; questa cancellazione non è né un'analisi né un programma.Rousseau, lui, qualsiasi cosa si dica, si è guardato dal proiettare sui «selvaggi» (che egli non identifica con il primo stato di natura) il suo desiderio di fuga, il suo rifiuto del presente, i suoi sogni di fusione e di effusione. Le società che gli etnologi studiano non offrono l'esempio di una individualità spezzettata o condivisa, di una maggior prossimità a qualche intensità prima. Che siano diverse, è evidente. Che siano altre, è una menzogna.Ogni individuo vive la sua storia con quella degli altri e muore solo. Il Potere per sopravvivere a questa contraddizione cerca di farne la sua materia. La storia di questi tentativi, di queste logiche, è la storia del Potere: la storia.

NOTE.

INTRODUZIONE.

Nota 1. "Tiercé": gioco pubblico di scommesse settimanali basato sul pronostico dei primi tre classificati in una corsa.Nota 2. Merlin-Plage: luogo di villeggiatura in Vandea, sulla costa atlantica.Nota 3. Il gallo e il cardo sono, rispettivamente, emblemi della Francia e della Scozia, e in questo senso sono stati utilizzati nel mondo sportivo.Nota 4. Verts: squadra di calcio del Paris Saint-Germain.Nota 5. Parc de Princes: stadio di Parigi.Nota 6. E. Durkheim, "Forme elementari della vita religiosa", trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 7.Nota 7. «[...] dans leur savoir-faire et dans leur savoir-dire, au sens fort du terme: dans leur savoir-vivre.»Nota 8. «Jeu du repoussoir et du faire-valoir»: letteralmente, «gioco del respingere e del valorizzare».Nota 9. Con questa espressione s'intendono quei filosofi la cui riflessione si costruisce in parte a partire dai materiali forniti dall'antropologia sociale; presso alcuni etnologi questa riflessione filosofica sembra dominare la descrizione stessa delle società studiate: all'occasione, chiamerò l'etnologia che ne risulta «etnologia-pretesto». La meta-antropologia e l'etnologia-pretesto sono complici (oggettivamente e soggettivamente): possiamo dire indifferentemente che la prima poggia sulla seconda o che la seconda è scritta sotto dettatura della prima. [N.d.A.]Nota 10. In "Hérodote", I, primo semestre 1976, passim. [N.d.A.]Nota 11. G. Deleuze, E. Guattari, "L'anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia", trad. it. Einaudi, Torino 1975.Nota 12. J. Baudrillard, "Lo specchio della produzione", trad. it. Multhipla, Milano 1979.Nota 13. L. V. Thomas, R. Luneau, "La terre africaine et sa religion", Larousse, Paris 1975, passim. [N.d.A.]Nota 14. "Thanatopraticiens": letteralmente, gli «esperti della morte».Nota 15. J. Rancière, "La leçon d'Althusser", Gallimard, Paris 1974, passim.Nota 16. E Nietzsche, "Genealogia della morale", trad. it. Adelphi, Milano 1988.

CAPITOLO 1.

Nota 1. Laio: nella mitologia greca, re di Tebe e padre di Edipo. Edipo uccise il padre e sposò la madre ignorando chi fossero veramente.

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Nota 2. J. Laplanche, J.-B. Pontalis, "Enciclopedia della psicoanalisi", trad. it. Laterza, Roma-Bari 1973, p. 537. [N.d.A.]Nota 3. Ibidem, p. 538.Nota 4. E. Morin, "Il paradigma perduto: che cos'è la natura umana?", trad. it. Feltrinelli, Milano 2001. [N.d.A.]Nota 5. "Caid": in Nord Africa, funzionario musulmano che riunisce gli attributi di giudice, amministratore e capo della polizia.Nota 6. E. Morin, op. cit., p. 41.Nota 7. Ibidem, p. 165.Nota 8. Maschile. [N.d.A.]Nota 9. E. Morin, op. cit., p. 165.Nota 10. Ibidem, p. 170.Nota 11. Ibidem, p. 210.Nota 12. R. Barthes, "Il piacere del testo", trad. it. Einaudi, Torino 1975, p. 32. [N.d.A.]Nota 13. E Guattari, "Una tomba per Edipo. Psicoanalisi e metodo politico", trad. it. Giorgio Bertani Editore, Verona 1974, p. 329. [N.d.A.]Nota 14. Ibidem, p. 11.Nota 15. H. Marcuse, "Eros e civiltà", trad. it. Einaudi, Torino 1964, p. 89 [N.d.A.]Nota 16. E Nietzsche, "Genealogia della morale", trad. it. Adelphi, Milano 1988.Nota 17. H. Marcuse, op. cit., p. 65.Nota 18. Ibidem.Nota 19. Ibidem, p. 73.Nota 20. Ibidem, p. 74.Nota 21. G. Deleuze, E Guattari, "L'anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia", trad. it. Einaudi, Torino 1975. [N.d.A.]Nota 22. Ibidem, p. 32.Nota 23. A. Adler, M. Cartry, «La transgression et sa dérision», in "L'Homme", luglio 1971. [N.d.A.]Nota 24. G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., p. 177.Nota 25. Ibidem, p. 302.Nota 26. Ibidem, p. 298.Nota 27. Ibidem, p. 158.Nota 28. E. R. Leach, "Nuove vie dell'antropologia", trad.it. il Saggiatore, Milano 1973. [N.d.A.]Nota 29. R. M. Du Gard, "I Thibault", trad. it. C.D.E., Milano 1965.Nota 30. Boulogne-Billancourt: cittadina situata alla periferia di Parigi.Nota 31. G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., p. 299.Nota 32. Ibidem, p. 161.Nota 33. Filiazione complementare: «Nozione elaborata da Fortes per mettere in luce che ogni individuo appartenente a un gruppo di discendenza unilineare gode di ampie reti di relazioni interpersonali con la linea di discendenza alla quale egli non appartiene» (in U. Fabietti, F. Remotti, "Dizionario di antropologia", Zanichelli, Bologna 1997, p. 306).Nota 34. E.R. Leach, op. cit., capitoli 1 e 5.Nota 35. G. Deleuze, E Guattari, op. cit., p. 163.Nota 36. Ibidem.Nota 37. Ibidem.Nota 38. Ibidem.Nota 39. Ibidem, p. 175.Nota 40. Ibidem, p. 170.Nota 41. Ibidem, p. 168.Nota 42. "Chefferie": in Africa, unità territoriale sulla quale si esercita l'autorità di un capo tradizionale. Corrisponde all'inglese "chiefdom"; in italiano potremmo tradurre con «potentato».Nota 43. G. Deleuze, F. Guattari, op. cit., p. 170.Nota 44. Ibidem, p. 220.Nota 45. Ibidem, p.p. 166-167.

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Nota 46. Ibidem, p. 219.Nota 47. Ibidem, p. 298.Nota 48. Ibidem, p. 297.Nota 49. Ibidem.Nota 50. A. Adler, A. Zempléni, "Le bâton de l'aveugle", Hermann, Paris 1972. [N.d.A.]

CAPITOLO 2.

Nota 1. "Pas de deux": passo a due, balletto.Nota 2. «Les braves gens», usava dire Napoleone. Potremmo tradurre: «Avanti!», «All'attacco, miei prodi!».Nota 3. Quest'osservazione si riferisce ai testi pubblicati fino a "Antropologia e marxismo", trad. it. Editori Riuniti, Roma 1977. [N.d.A.]Nota 4. Discendenza doppia (o bilineare): «[...] s'intende un sistema di parentela fondato sia su gruppi di discendenza matrilineare sia su quelli di discendenza patrilineare: ogni individuo appartiene ai due gruppi di discendenza unilineari, materno e paterno, simultaneamente, benché persegua scopi differenti relativamente ai diversi ruoli esplicati dai due gruppi» (in U. Fabietti, F. Remotti, "Dizionario di antropologia", Zanichelli, Bologna 1997, p. 240).Nota 5. Per maggiori dettagli su questo punto, vedi M. Augé, "Théorie des pouvoirs et idéologie", Hermann, Paris 1975. [N.d.A.]Nota 6. M. Mauss, "Sociologie et anthropologie", Presses universitaires de France, Paris 1968.Nota 7. E. R. Leach, "Nuove vie dell'antropologia", trad. it. il Saggiatore, Milano 1973.Nota 8. Per una critica del simbolismo così concepito vedi D. Sperber, "Per una teoria del simbolismo", trad. it. Einaudi, Torino 1981. [N.d.A.]Nota 9. «Le nozioni di giovane e anziano si riferiscono a 'età sociali', senza riferimento stretto all'età biologica degli individui» (in U. Fabietti, "Storia dell'antropologia", Zanichelli, Bologna 2001, p. 222).Nota 10. P. Bourdieu, "Per una teoria della pratica", trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2003. [N.d.A.].Nota 11. M. Jourdain è il protagonista della commedia di Molière "Le Bourgeois Gentilhomme". Rappresenta il classico "parvenu" con aspirazioni nobiliari.Nota 12. D. Paulme, "Classes et associations d'âge en Afrique de l'Ouest", Plon, Paris 1972. [N.d.A.]Nota 13. M. Gluckman, "Custom and Conflict in Africa", Blackwell, Oxford 1955; Id., "Order and Rebellion in Tribal Africa", Free Press, New York 1963. [N.d.A.]Nota 14. E. Norbeck, «African rituals of conflict», in "American Anthropologist", 65, 1963, p.p. 1254-1279. [N.d.A.]Nota 15. C.-H. Perrot, «Be di Murua: un rituel d'inversion sociale dans le royaume agni de l'Indénié», in "Cahiers d'Etudes Africaines", 7, 27, 1967. [N.d.A.][Nota 15. Nella versione originale la [c] è una "c" rovesciata]Nota 16. Citato da R. Girard in "La violenza e al sacro" (trad. it. Adelphi, Milano 1980, p. 154) e tratto dal film di J. Rouch e D. Zahan, "Moro-Naba"; citato anche da L. Makarius, «Du roi magique au roi divin», in "Annales", 1970, p. 685. [N.d.A.]Nota 17. F. Héritier, «La paix et la pluie», in "L'Homme", 13, 3, 1973. [N.d.A.]Nota 18. R. Girard, op. cit., p. 153. [N.d.A.]Nota 19. I Maestri dell'Arpione sono un clan sacerdotale ereditario dinka.Nota 20. M. Douglas, "Purezza e pericolo", trad. it. il Mulino, Bologna 1993, p. 119. [N.d.A.]Nota 21. R.G. Lienhardt, "Divinity and Experience", Clarendon Press, Oxford 1961. [N.d.A.]Nota 22. M. Douglas, op. cit., p. 270.Nota 23. Vedi M.-F. Obi, tesi di dottorato, Université de Paris Sorbonne, 1976. [N.d.A.]Nota 24. J.-P, Dozon, «Les mouvements politico-religieux. Syncrétismes, messianismes, néo-traditionalismes», in M. Augé (a cura di), "La Construction du

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monde", Maspero, Paris 1974. [N.d.A.]Nota 25. Sullo harrismo e sul personaggio di Atcho, vedi l'opera collettiva C. Piault (a cura di), "Prophétisme et thérapeutique", Hermann, Paris 1975. [N.d.A.]Nota 26. "Lettrés": letterati.Nota 27. R.D.A.: Rassemblement Démocratique Africain, partito africano fondato nel 1947.Nota 28. "Dé-pensé": gioco di parole. "Depensé" significa «speso», ma il termine francese è composto dal prefisso "de" e da "pensé", che significa «pensato».Nota 29. « Il divieto universale dell'incesto precisa, di norma, che le persone considerate come genitori e figli o fratelli e sorelle, anche solo nominalmente, non possano avere rapporti sessuali e ancora meno sposarsi. In alcuni casi molto noti, quali l'antico Egitto, il Perú precolombiano, e anche diversi reami dell'Africa, del sudest asiatico e della Polinesia, l'incesto veniva definito molto meno rigorosamente che altrove. Tuttavia, anche in questi casi, il divieto esisteva, poiché l'incesto consentito era limitato a una minoranza, la classe dirigente (eccetto, forse, nell'antico Egitto, dove potrebbe essere stato più diffuso); d'altra parte, non si poteva sposare una qualsiasi parente stretta, ma solo la sorellastra, oppure, in caso di matrimonio consentito con una vera sorella, solo la maggiore, giacché quello con la minore era ritenuto incestuoso» (C. Lévi-Strauss, «La famille», in "Annales de l'Université d'Abidjan", serie F, tomo 3, 1971). [N.d.A.]Nota 30. A. Malraux, "La condizione umana", trad. it. Bompiani, Milano 1997.

CAPITOLO 3.

Nota 1. Ma cantavamo: «Cattolico e bretone sempre» al posto dell'abituale «e francese sempre». Questo ufficialmente, per iniziativa della gerarchia; indubbiamente essa sperava più nel popolo bretone che nell'altro, poiché più puro, meno misto, più prossimo alle inscrizioni originarie, esso rivelava più facilmente il luogo e la molla della seconda deviazione - come i Bantù di padre Tempels. [N.d.A.]Nota 2. Yves Boisset, 1973 [N.d.A.]. Si tratta di uno dei primi film francesi ad aver affrontato il tema della guerra d'Algeria. E' la storia di tre giovani soldati di leva che finiscono in un battaglione disciplinare. Sono ribelli, e il loro comandante deve addestrarli per formare un'unità scelta. Presi nell'ingranaggio della guerra, della tortura e delle morti, questi refrattari diventeranno, loro malgrado, degli assassini.Nota 3. M.L.F. è la sigla del Mouvement de libération des femmes.Nota 4. Krivine e Laguillier sono i due leader trotzkisti della lista di estrema sinistra francese.Nota 5. J. Rancière, "La leçon d'Althusser", Gallimard, Paris 1974. [N.d.A.]Nota 6. J. Baudrillard, "Lo specchio della produzione", trad. it. Multhipla, Milano 1979, p. 58. [N.d.A.]Nota 7. Con l'eccezione (se ne chiamerà fuori lui stesso) di J.-F. Lyotard, la cui constatazione serena («Non ci sono società primitive») dovrebbe mettere a disagio i neoculturalisti. Vedi J.-F. Lyotard, "Economia libidinale", trad. it. Colportage, Firenze 1978. [N.d.A.]Nota 8. J. Baudrillard, op. cit., p. 72.Nota 9. Ibidem, p. 66.Nota 10. Ibidem, p. 67.Nota 11. M. Godelier, "Antropologia e marxismo", trad. it. Editori Riuniti, Roma 1977. [N.d.A.]Nota 12. J. Baudrillard, op. cit., p. 67.Nota 13. Ibidem, p. 68.Nota 14. Indubbiamente non è vero il contrario. [N.d.A.]Nota 15. Si tratta del protagonista della serie di romanzi di spionaggio scritti da Gerard de Villiers. Il principe austriaco Malko Linge, in codice SAS (Sua Altezza Serenissima), è un agente segreto della CIA che accetta pericolose missioni internazionali per potersi permettere la ristrutturazione dell'antico castello di

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famiglia.Nota 16. E' il protagonista di un'altra serie di romanzi di spionaggio, scritti da Jean Bruce. D'origine francese e nobiliare, Hubert Bonnisseur de la Bath, in codice O.S.S. 117, è un agente segreto dell'Office of Strategic Service, e successivamente della CIA.Nota 17. E' il linguaggio degli oroscopi e di Madame Soleil. Ogni mattina le stazioni periferiche (che sono al centro dell'informazione) chiariscono, per un giorno, i misteri e le promesse dei segni zodiacali. Ma in questa predizione segno dopo segno tutto si svolge come se gli altri, la maggioranza, tutti coloro che condizionano la storia del portatore del segno, non avessero segno. La metonimia corrisponde così simultaneamente a una negazione e a una promozione dell'altro - semplice entourage o strumento del destino. [N.d.A.]Nota 18. Meno morti, più invalidi. [N.d.A.]Nota 19. Recentemente, grazie ad alcune iniziative individuali, sono stati maggiormente pubblicizzati. Le risposte ideologiche, che verranno, saranno interessanti da interpretare. [N.d.A.]Nota 20. Gioco di parole. "Conduite" significa al tempo stesso «condotta» e «guida».Nota 21. "Double bind": «doppio vincolo», indica un dilemma.Nota 22. J. Baudrillard, "La società dei consumi: i suoi miti e le sue strutture", trad. it. il Mulino, Bologna 1976, p. 108. [N.d.A.]Nota 23. Ibidem, p. 108.Nota 24. Ibidem, p.p. 124-125.Nota 25. Ibidem, p. 125.Nota 26. Dopo di allora è apparsa, presso Gallimard ("Age de pierre, âge d'abondance", 1976), la traduzione di "Stone Age Economics", la cui prefazione «meta-antropologica» (di Pierre Clastres) è un modello di voracità recuperatrice [N.d.A.]. Vedi M. Sahlins, "L'economia dell'età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive", trad. it. Bompiani, Milano 1980.Nota 27. J. Baudrillard, "La società dei consumi: i suoi miti e le sue strutture", cit., p. 78.Nota 28. Ibidem, p. 114.Nota 29. Ibidem, p. 115.Nota 30. Gioco di parole. "Sujet" significa al tempo stesso «suddito» e «soggetto».Nota 31. J. Baudrillard, "La società dei consumi: i suoi miti e le sue strutture", cit., p. 292.Nota 32. Ibidem, p. 268.Nota 33. Il gioco delle vesti a cui si dedicano gli ecclesiastici da qualche anno costituisce a questo proposito un notevole esempio di inversione-seduzione. [N.d.A.]Nota 34. "Cadre supérieur": gioco di parole. Augé parla di un alto dirigente ma allude allo stesso tempo a un punto di vista diverso, più elevato.Nota 35. Non è significativo che Baudrillard abbia bisogno della nozione di "mana" per descrivere la logica del consumo? [N.d.A.]. J. Baudrillard, "La società dei consumi: i suoi miti e le sue strutture", cit., p.p. 70-71.Nota 1. J.-J. Rousseau, "Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza", trad. it. Laterza, Roma-Bari 1997.Nota 2. J.-J. Rousseau, "Il contratto sociale", trad. it. Laterza, Roma-Bari 1997.