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Numero XIX Inverno 2019 fuori stagione

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L’amore è un ritornello in fuga

La stagione dell’amore viene e va, i sentimenti non invec-chiano quasi mai con l’età, cantava Battiato. E in effetti, l’i-dea del ritorno ciclico, sui cui si fonda il significato della pa-rola stagione, si associa alla negazione del cambiamento, negazione legata all’esperienza dell’immobilità relativa: gli anni passano, certo, e scandiscono il movimento incessante della totalità natura-storia; ma intrecciata al movimento c’è un’altra dimensione della temporalità, una temporalità che ritorna sempre, come un ritornello nel flusso di una canzone.Questo ritorno dell’identico immobile nel movimento del divenire ha una delle sue rappresentazioni più empiriche nel ciclo delle stagioni, che infatti sono portatrici di una doppia certezza: ogni stagione è infatti necessariamente allo stesso tempo destinata a finire, per cedere il passo alla stagione successiva, e a ricominciare da capo, come nuo-va. Mentre ci lascia, ci promette che ritornerà. E nell’atte-sa è al riparo dalla legge del tempo: a distanza di un anno sarà un’altra primavera che tornerà, vergine, non corrotta dall’infinito susseguirsi delle primavere che precedono la nuova. Riferita all’amore, la metafora del ciclo delle sta-gioni sembra particolarmente pertinente: l’amore passa, come la primavera, ma nel consumarsi del suo passaggio promette un ritorno che è al contempo ritorno dell’identi-co e dell’assolutamente nuovo. L’amore ritorna ma nella forma della verginità. Ogni nuovo amore, se autentico, è lo stesso che hai già vissuto nel passato e che prometteva di ritornare, ma è anche l’altro radicale, che sembra sempre essere venuto dal nulla, inatteso, unico, singolare, giovane e senza alcun contatto con l’esperienza che lo precede. Ma la metafora della stagione non racchiude solo que-sta promessa di una riproduzione illimitata della gioventù, ma anche la minaccia del bloccarsi della vita nella ripe-tizione: non è solo il momento della nascita che ritorna come ogni volta nuovo, ma anche quello della fine, in-scritta nel riprodursi stesso del ciclo. Che ogni stagione sia destinata a finire per poter ritornare, ci immerge in un

una dimensione circolare nella quale lottano la gioia della rinascita e l’angoscia dello svanire. La posta in gioco è la possibilità di vivere nella metafora del ciclo: questa lotta è ben descritta da De André, in Inverno, dove ad avere la meglio sembra essere l’immobilità. Dopo averci esor-tato ad affidarci alla potenza della promessa (Ma tu che vai, ma tu rimani / Vedrai la neve se ne andrà domani / Rifioriranno le gioie passate / Col vento caldo di un’altra estate [...] Ma tu che vai, ma tu rimani / Anche la neve morirà domani / L’amore ancora ci passerà vicino / Nella stagione del biancospino), De André cede alla tentazione di chiudere il testo con il ritorno che blocca l’azione, quel-lo dell’angoscia del ripetersi non dell’inizio, ma della fine, non nella trepidante attesa del nuovo, ma nella consolan-te disperazione dell’identico: Ma tu che stai, perché rima-ni? / Un altro inverno tornerà domani / Cadrà altra neve a consolare i campi / Cadrà altra neve sui camposanti.Questo aspetto consolatorio, che deprime l’azione crea-tiva e invita alla passività, è innegabile nella metafora del ciclo stagionale applicata all’amore. Se in questo numero di Diwali abbiamo anteposto un “fuori” alla “stagione”, è per invitare gli artisti a spezzare il ciclo: abbiamo sugge-rito di uscire dalla dialettica del ripetersi di un movimen-to al contempo identico(strutturalmente) e sempre nuovo (empiricamente), per godere della libertà di anticipare le nostre stagioni, deciderne l’inizio e la fine, il ritorno o la rimozione, al di là della ferrea necessità dei processi natu-rali. Perché se nell’arte può nevicare in estate e splendere il sole in inverno, anche nella vita la “stagione dell’amo-re” non segue alcun ciclo, se non quello della nostra ca-pacità di creare la nostra esistenza, sempre esposti non solo all’imprevedibilità degli eventi e delle costrizioni ma-teriali, ma anche alla potenza plastica delle nostre scelte”.

Diwali - Rivista Contaminata

L ' E d i t o r i a l

www.rivistadiwali.it

FEBBRAIO 2019 - N.19- ANNO 6

Diwali - Rivista Contaminata

Trimestrale di Arte & Letteratura

Contatti

facebook.it/diwalirivistacontaminata

[email protected]

Edizioni Les Mots Contaminés

Associazione culturale no-profit

20, Rue Condorcet, 38000, Grenoble - Francia

ISSN 2275-0606

Direttore Editoriale

Maria Carla Trapani

Direttore Responsabile

Flavio Scaloni

Redazione

Dona Amati, Pietro Bomba, Alessandra Carnovale,

Laura Di Marco, Giulio Gonella, Letizia Leone, Sara

Lombardo, Valentina Meloni, Antonella Rizzo, Simone

Scaloni

Ufficio Stampa

Les Mots Contaminés

S o m m a r i o

L’Editorial 3

InSistenze 4

Il vento e una sera di maggio di Simone Scaloni 5

I letti di piombo sull’abisso di Gioele Marchis 12

L’occhio del germano reale di Lucio Costantini 19

InVerso 26

Davide Cortese 27

Ilaria Palomba 28

Roberto Marzano 29

Eugenia Serafini 31

Anna Jolanta Lagoda 32

Fabio Strinati 34

Focus Haiku 37

InStante 40

Daniela Arena 41

Alessia Brescia 43

Daniela Di Rienzo 45

InMobile 47

Unseasonal Mood di Sara Lombardo 48

InContro 53

Andrea Liberni 54

InDicazioni 56

Mancanza di Ilaria Palomba 57

Una piccolissima morte di Francesca Del Moro 59

InAscolto 60

Nostalgie d’InCanto di Maurizio Coira 61

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Lungo i muri delle case in collinaI muri delle case in collina, quelle vecchie e grandi come casolari, a girarci intorno e a sfiorarli con i polpastrelli del-le dita, improvvisamente possono mettersi a vibrare. Essi custodiscono storie di famiglia e hanno sempre aneddoti e leggende da raccontare, fischiettano motivi di una vol-ta, sospirano, imprecano, piangono e ridono a voce alta, le sere d’inverno cantano vecchie canzoni popolari. Sono le case coloniche della fine dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, caratteristiche dell’Italia centrale ma, in realtà, incastonate fra le colline e le campagne di tutta la penisola italica. I muri di questi vecchi edifici, carichi come sono di vicende familiari e di ricordi, sono dunque intrisi di

storie private e Storia nazionale. Sono coperti di segni che sono come graffi e ferite, ferite cicatrizzate. Come i muri delle case in collina, così la terra dei campi che li circonda è una vecchia coperta intessuta di segni, solchi e lacera-zioni, che sono documenti preziosi del tempo trascorso e testimoniano della vita e del lavoro degli uomini che su quella terra, su quei campi e dentro quei casolari, vissero tutta la loro vita.La terra in fondo non è che un grande muro orizzontale, un’immensa lavagna che dai primi anni delle scuole ele-mentari quando la maestra insegnava i rudimenti dell’al-fabeto, ci accompagna poi alla fine della nostra esistenza facendo da palcoscenico alle nostre tragedie e commedie

IL VENTO E UNA SERA DI MAGGIOSIMONE SCALONI

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“...Il mio sogno non sorge mai dal grembo

Delle stagioni, ma nell’intemporaneo

Che vive dove muoiono le ragioni

e Dio sa s’era tempo; o s’era inutile.”

(E. Montale - Le stagioni)

Con la fotografia di Mario Giacomelli [Simone Scaloni] andremo a esplorare il mondo contadino

marchigiano, i volti solcati di rughe dei pazienti del vicino ospizio, le tradizionali feste di paese, ma

soprattutto l’anima nascosta della terra, che l’artista catturava con la sua macchina fotografica,

in immagini capaci di alternare zone di luce abbacinante a pozze nere e scure e dove un vibrante

sfolgorio lascia intravvedere qualcosa di grande e indicibile.

Fuori stagione sembra essere il tedesco Anselm Kiefer [Giole Marchis] che, nato al termine della

Seconda Guerra Mondiale e maturata la decisione di dedicarsi all’arte circa 20 anni dopo quel-

la stagione storica, sentì l’esigenza di confrontarsi ed elaborare il recente passato del suo Pae-

se in una sorta di dolorosa rivisitazione materica, che avesse tuttavia anche valenza catartica e

liberatoria, messa in rilievo della dialettica inscindibile tra tragedia umana e bellezza, una visione

espressa, tra gli altri, da R. M. Rilke nelle Elegie Duinesi (...E se anche un Angelo ad un tratto/mi

stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte/mi farebbe morire. Perché il bello non è/che il

tremendo al suo inizio…).

Domina nel pittore tedesco, infatti, una tensione che conduce, da un orizzonte di morte e distru-

zione, verso la trascendenza e una possibile rinascita, accanto ad elementi e simboli della tradi-

zione germanica, in quella forma di spiritualità tipicamente nordica caratterizzata da un forte lega-

me con la natura e, in particolare, col bosco.

Altro continente (Stati Uniti), pochi decenni addietro, altra Guerra Mondiale, nuovamente un sen-

so duplice della natura: nella pittura di Andrew Wyeth [Lucio Costantini] questa, infatti, porta con

sè, inscindibili, da una parte bellezza, rapimento ed estasi, ma dall’altra anche minaccia, terrore e

morte, enigma senza risposte; la sua è un’arte che potremmo definire Romanticismo simbolico.

Arte che, oltretutto, appare essere stata attentamente studiata da alcuni registi contemporanei,

quali Terrence Malik e Night Shyamalan.

Alessandra Carnovale

Mario Giacomelli, Paesaggio Italia

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quotidiane. E come un muro di mattoni e una lavagna di ardesia, la terra si copre di segni che sono alfabeti primor-diali ed eterni, codici crittografati eppure subito riconosci-bili e conosciuti da tutti. La terra è fatta di ombre e macchie di sole, di concavità e convessità altalenanti come colline, dorsali montuose, fiumi e specchi d’acqua. Soprattutto, la terra è fatta di segni che la percorrono all’infinito in tutte le direzioni e ne segnano le vicissitudini, la storia, il pas-saggio nel Tempo. Questi segni della terra sono solchi im-pressi dagli aratri nei giorni della semina e tracce di pneu-matici di trattori in quelli della vendemmia. Crepe fratture e fessurazioni dovute al caldo dell’estate che sembra non avere pace e non terminare mai, dunque segni di arsura e siccità. Canali di scolo e drenaggio dell’improvvisa acqua piovana e fossati in cui quella stessa acqua si raccoglie e ristagna. Segni d’incendi e falò che sono divampati e han-no bruciato la terra. Orme di animali e impronte di uomini che l’hanno percorsa e calpestata, la terra, in tutte le dire-zioni, da migliaia di anni.Questi segni che tanto affascinavano Mario Giacomelli, ar-tista e fotografo marchigiano di Senigallia, in provincia di Ancona, sono però segni tragici, tracciano la sofferenza e gli affanni degli uomini, fino al decadimento e alla morte.

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Queste testimonianze terragne, a tutti gli effetti grafiche e come incise nel tessuto superficiale della terra, come un tatuaggio sulla pelle di un uomo, Mario Giacomelli le an-dava cercando un po’ ovunque, nei campi come sui muri delle vecchie case in collina di cui si è detto, e sui volti de-gli abitanti di Senigallia. È qui, infatti, dove egli era nato il primo giorno di agosto del 1925 e dove si spense all’età di settantacinque anni il 25 novembre del 2000, che egli trascorse tutta la vita, senza allontanarsi mai troppo dal-la sua tipografia, se non per qualche sporadica gita fuori porta, quasi sempre motivata da impegni professionali, e comunque della durata massima di due o tre giorni. Per Giacomelli Senigallia era il mondo e tanto gli bastava. Egli era sostenitore convinto della cosiddetta anima del mon-do. Ovvero della teoria di derivazione inconfondibilmen-te orientale dell’energia universale che coinvolge l’intero pianeta e in base alla quale, se accade qualcosa a Se-nigallia, una piccola cosa all’apparenza inutile e insignifi-cante, o anche solo se muta la percezione che si ha di un dato fenomeno, nello stesso istante quella stessa cosa e la percezione che si ha di essa cambieranno anche a Pe-chino, Philadelphia e Basilea. La Natura genera energia e la fotografia si fa depositaria e scrigno di questa energia,

la cattura della quale per un fotografo costituisce il vero obiettivo da perseguire. Quindi, alla fin fine, quale motivo veramente valido potrà mai esserci per allontanarsi tanto dalla propria terra? Per Mario Giacomelli infatti non c’era.Nei volti dei vecchi pazienti dell’ospizio di Senigallia, l’O-pera Pia Mastai Ferretti, che Giacomelli frequentava già da bambino quando accompagnava lì sua madre che la-vava i panni dei degenti, in quei vecchi volti raggrinziti e deformati dalle sofferenze e dalla malattia, Mario ritrovava i segni della terra. Come i segni sui muri delle case, come le crepe e i solchi incisi nel suolo dall’uomo e dal suo la-voro, così in quei volti le profonde rughe, le pieghe della pelle e le grinze, che dovevano sembrargli radici e rami-ficazioni di vecchie querce, raccontavano storie che non dovevano essere dimenticate. Come le macerie di ciò che rimase dopo la Seconda Guerra Mondiale, ancora visibili negli anni Cinquanta e Sessanta della ricostruzione, ma-cerie che per Giacomelli erano sacre e dovevano essere rispettate e ricordate, anche i resti di un pasto erano per lui degni della stessa attenzione e motivo d’ispirazione. Li fotografava, né più né meno, come nel Seicento i mae-stri barocchi dipingevano il genere cosiddetto della natu-ra morta, a ricordare a chiunque avesse guardato le loro

opere della transitorietà dell’esistenza e della caducità di tutte le cose.Ma i volti contratti e grotteschi degli ospiti dell’Opera Pia di Senigallia raccontavano anche storie d’ingiustizie subìte e dolori, in fondo, mai davvero sopiti. Sembravano dire di solitudini e passioni silenziose, in verità assai ordinarie e comuni a quei tempi, che però Giacomelli non riusciva a comprendere fino in fondo. In realtà, egli non riusciva a sopportare la vista di quello che aveva davanti agli occhi e per questo motivo, forse, possiamo pensare che sentisse l’urgenza di fotografarlo. Non gli pareva giusto che donne e uomini che avevano lavorato come bestie da soma per l’intera durata della loro esistenza, che avevano sempre faticato nei campi piegati sopra la terra, dovessero fare quella fine, così triste e patetica, e dovessero essere ridot-ti in quello stato. Diceva che lì, nell’ospizio di Senigallia, ol-tretutto, i vecchi pazienti diventavano cattivi e portavano a termine la loro misera parabola terrena urlando a squarcia-gola nel cuore della notte, urinando e defecando per ter-ra, e facendosi feroci dispetti l’uno con l’altro. Giacomelli diceva che prima di ogni altra cosa bisogna saper provare pietà per gli altri, una pietà che lui amava definire umana e precristiana. Ne nacquero due serie fotografiche di im-

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Mario Giacomelli, Metamorfosi della terra Mario Giacomelli, La buona terra

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pressionante forza espressiva, che del resto sbalordirono tutto il mondo e fecero di lui l’uomo nuovo della fotografia, nonché uno dei maestri di questa disciplina più acclama-ti di tutti i tempi. La prima serie s’intitola Vita d’ospizio, o semplicemente L’ospizio, ed è del 1955. La seconda, intitolata Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dall’omonima poesia di Cesare Pavese, Giacomelli la realizzò circa dieci anni dopo, allorché sentì nuovamente il bisogno di foto-grafare i vecchi matti del gerontocomio di Senigallia. Era l’anno 1966.Il senso del tragico e la tragicità intrinseca alla vita stes-sa erano in Giacomelli pensieri dominanti che sempre gli affollarono la mente e tormentarono le giornate. Questo, però, non significa che egli non fosse una persona alle-gra, ironica, e che non amasse le cose belle della vita o che non fosse capace di apprezzarle. Semplicemente, la sua era una natura in fondo malinconica e rivolta alla nostalgia. Dopotutto, aveva perso il padre quando aveva appena otto anni e la vita era stata sempre dura con lui, avara di dolcezze che invece ad altri sembrava elargire con prodigalità. Più tardi negli anni, il lavoro in tipografia e poi la gestione di una tipografia tutta sua, la famosa Tipo-grafia Marchigiana di Via Mastai, dalla quale passarono i

più grandi nomi della fotografia mondiale e oggi purtroppo dismessa, gli garantirono un tenore di vita soddisfacente e la possibilità concreta di mettere su famiglia.In fondo, le cose non gli andarono mai male, mai vi furono improvvisi rovesci di fortuna, e la vita per lui aveva preso la giusta piega. Con il lavoro di fotografo poi, oltre a quello di tipografo, arrivarono anche le soddisfazioni personali e il successo, nazionale e internazionale. Ciononostante in Mario, che era anche poeta e pittore, l’indole e la visione del mondo rimasero sempre le stesse, improntate a una certa amarezza di fondo e a una sorta di distacco preven-tivo dalla realtà che si autoinnesca per non soffrire troppo. Tuttavia, in lui vi fu sempre un’accesa e vibrante tensione spirituale che non è difficile osservare come poi, negli anni e nei suoi lavori, egli abbia tradotto in aura di mistero e vero e proprio misticismo in immagini. Sempre forte in lui fu anche il sentimento della paura, quella paura tutta uma-na che fa sempre dubitare del domani e del futuro. Quella specie di paura che genera ansia per ciò che può stare in agguato dietro l’angolo e che può sempre accadere, da un momento all’altro, mettendo fine a tutto.

Mormora il vento tiepido delle anime come la canzone di

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un CantamaggioLe sere di primavera sono diventate un luogo dell’anima e della letteratura. Sono, le sere di maggio in particolare, quando si dà il caso che si alzi un refolo di vento tiepido, un prodigio del Creato. Sono cariche del profumo dei fio-ri e di elettricità, sembrano piene di promesse. È questo il momento dell’anno in cui si rinasce e si riaccende la speranza del futuro, gli orizzonti sembrano dischiudersi e tutto può accadere nuovamente. Nella provincia di Anco-na, in questo periodo, si celebra una festa antichissima e interamente incentrata sul canto e sulla musica, il Can-tamaggio. I contadini e gli abitanti dei paesi si riuniscono per ascoltare le canzoni dei cantori itineranti. I musicanti girano come tzigani, suonando i loro strumenti che im-bracciano e si caricano sulla schiena da una casa all’al-tra, e fanno visita ai contadini che li aspettano. Tutti offro-no loro qualcosa da bere e da mangiare. Un bicchiere di vino, come per esempio di Verdicchio dei castelli di Jesi, è naturalmente la bevanda più apprezzata. Insieme all’altra antica ricorrenza detta della Pasquella e che ha luogo all’i-nizio di gennaio, è questo del Cantamaggio un momento di festa appartenente alla tradizione popolare marchigiana in cui si canta e si danza tutti insieme. Le anime dei vivi

si raccolgono e festeggiano la pienezza della primavera e l’inizio dell’estate sulle note, portate dal vento, di violini, contrabbassi e fisarmoniche di Castelfidardo. Ma quando si alza una brezza dolce come questa, viene spontaneo abbandonarsi ai ricordi, perché il momento è magico e come sospeso dalle normali attività e dal lavoro di tutti i giorni. Tornare con la memoria ad altri tempi sembra la cosa più naturale del mondo. Ecco allora che tornano i fantasmi del passato, in forma di tiepida brezza maggio-lina, e le anime dei defunti tornano dall’Aldilà a fare visita ai loro cari ancora legati a questo mondo. Lo fanno forse di notte, entrando nei loro sogni e facendoli commuove-re mentre dormono. È quella del Cantamaggio la musica della vita e della morte insieme, dei ricordi come fantasmi che riappaiono una volta l’anno, della rinascita e della ri-membranza di chi non c’è più.E come di sogno, della stessa materia di cui sono fatti i sogni, sembrano fatte le immagini di Mario Giacomel-li. Egli, innanzitutto, sembra vedere il mondo in bianco e nero. Questa è forse la sua caratteristica principale e l’an-notazione stilistica che lo rende immediatamente ricono-scibile. Zone di luce abbacinante com’è quella dei mesi estivi di giugno e luglio, macchie bianche che sembrano

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Mario Giacomelli, Presa di coscienza sulla natura Mario Giacomelli, La notte lava la mente

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espandersi e fuoriuscire dai bordi dell’immagine stessa e che pare vogliano accecare chi le osservi, si alternano a pozze nere e scure come la pece, come l’inchiostro di Cina, un buio assoluto. Poi, l’altra caratteristica saliente, quasi sempre nelle immagini di Giacomelli si assiste a una sorta di sfolgorante rarefazione, un vibrante sfolgorio che fa pensare, ancora una volta, a un intervento sopranna-turale, al divino. Come se fosse stato capace, ogni volta che premeva il pulsante dello scatto, di catturare un even-to mistico miracolosamente in atto. Ogni volta, un vento tiepido di anime sembra attraversare l’obiettivo della sua macchina e imprimersi sulla pellicola delle sue fotografie. Giacomelli, negli anni Novanta del secolo scorso, realizzò una serie intitolata appunto Pasquella e Cantamaggio. In quest’occasione egli incontrò molte famiglie che ancora celebravano queste feste arcaiche, sempre sull’orlo dell’o-blio definitivo, in piccoli paesi dell’entroterra marchigiano come Morro d’Alba e Montecarotto, e a Fabriano, il paese della carta. Prima di questa serie ce n’erano state altre sempre imperniate sul tema della terra e delle sue tradizio-ni secolari. Per esempio, celebre è quella della metà degli anni Sessanta, intitolata proprio La buona terra. In questa occasione il fotografo senigalliese s’introdusse nella casa

di una grande famiglia patriarcale marchigiana rivelan-done come autentica testimonianza le antiche usanze, le stagioni della vita, il senso di famiglia e di comunità incentrato sull’aiuto e il rispetto reciproci, le ricorrenze e le feste, e insomma il calendario che regolava la vita di tutti i suoi componenti. Con questa famiglia Giacomelli instaurò un’amicizia sincera che durò fino alla fine dei suoi giorni.Mario iniziò a fotografare quasi per caso la sera della vigilia di Natale del 1953. Aveva allora ventotto anni e il pomeriggio di quello stesso 24 dicembre era andato a comprarsi quella che sarebbe stata la sua prima mac-china fotografica, una Comet Bencini da pochi soldi. Andò subito a provarla sulla spiaggia di Senigallia. Il ri-sultato di quel primo esperimento fu la famosa immagine che egli chiamò L’approdo e che segnò l’inizio della sua carriera di fotografo. Era appena giunto a destinazione, si sarebbe detto, alla fine di un lungo viaggio intrapreso chissà dove e chissà quando, secondo un’accezione ciclica e infinita dell’esistenza, e uscendo direttamente dalle acque del Mar Adriatico. Un fotografo del tutto sui generis, ormai si è capito, che non conosceva i dettagli tecnici delle sue apparecchiature perché non gli inte-

ressavano. La stessa macchina che fu poi la compagna inseparabile di una vita, ne era infatti gelosissimo e non si staccava mai da lei, era una specie di ibrido sperimentale, un incrocio di diversi apparecchi assemblati insieme, che Mario aveva fatto montare apposta per lui da un ottico di fiducia. Non si ricordava mai le aperture di diaframma che adottava, i tempi di esposizione, né il tipo di pellicola che preferiva utilizzare. E non gli interessavano neanche i nu-meri e le date, la cronologia e le datazioni delle sue opere, quale serie fosse stata scattata prima e quale dopo, tutto questo per lui aveva scarsa importanza. Non memorizza-va questi dati e quando gli venivano chiesti doveva proce-dere per approssimazioni, scavando nei ricordi.Mario Giacomelli fotografava e basta. Andava in giro per la campagna marchigiana, cercava quello che sta lì da-vanti agli occhi di tutti ma che nessuno vede mai, quello che egli affermava che sobbolle ininterrottamente sotto la

pelle della terra e ne costituisce l’anima nascosta, e poi lo catturava, lo imprimeva sulla pellicola fotografica. Ne sortirono immagini indimenticabili che hanno segnato la storia della fotografia e dell’arte, immagini ammirate e ri-conosciute non soltanto in Italia ma in tutto il mondo. Le sue opere ritrassero dunque soggetti ordinari legati alla vita rurale, alla campagna e alla terra, ma in realtà parlaro-no sempre d’altro e usando un’altra lingua. Raccontava-no in silenzio, sussurravano cose grandi e spiritualmente elevate, cose molto più grandi di noi e delle quali, come Mario ripeteva ogni tanto, forse è meglio non parlare.

Per scrivere questo articolo mi sono avvalso di quanto letto nelle pagine del libro Mario Giacomelli. La mia vita intera a cura di Simona Guerra, e di alcuni scritti del figlio dello stesso artista, Simone Giacomelli.

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*[Simone Scaloni vive a Roma tra le pieghe di una

decennale passione per l’arte. Diplomato in restauro

pittorico, si laurea in seguito in Storia dell’Arte. Si inte-

ressa particolarmente alle incisioni del 900 ma non si

preclude incursioni nelle manifestazioni dell’arte con-

temporanea.]

Mario Giacomelli, Il teatro della neve

Mario Giacomelli, Paesaggio

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I LETTI DI PIOMBO SULL’ABISSOGIOELE MARCHIS

A circa sessanta chilometri a nord di Basilea sorge una cittadina tedesca, il cui nome a prima vista sembra im-pronunciabile. Si chiama Donaueschingen e si pronuncia do-nau-escin-ghen. Qui è custodita una meraviglia poco nota e che ha qualcosa di prodigioso. Questo villaggio dal nome difficile si trova nella Germania del sud e, come si è detto, a poca distanza dal confine con la Svizzera. Sta lì incastonato nel cuore dello Schwarzwald, il romantico bo-sco nero di tante fiabe dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm e, a giudizio di molti, il simbolo per antonomasia della terra germanica. Sono ormai secoli, infatti, che il bosco è assur-

to a luogo della letteratura e del mito, basti qui pensare ai Nibelunghi e alle loro leggende cantate, ed è sempre stato molto importante per il popolo tedesco, le cui storie han-no sempre inizio nel fitto di una foresta. La meraviglia dalla quale il villaggio deriva il suo nome, lo scrigno nascosto al centro della cittadina come in una radura fra gli alberi, non è altro che la sorgente del Danubio, che in tedesco si dice appunto Donauquelle e si legge do-nauk-velle.C’è qualcosa di magico in questo luogo, già solo a guar-darlo in fotografia. Emana un senso di mistero al quale è difficile rimanere indifferenti. Sembra infatti convogliare in

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sé tutta l’energia del cosmo e rimestarla in un moto vorti-coso e circolare, com’è quello dei mulinelli d’acqua e delle macine di un mulino, e che non conosce fine. Fa anche pensare, a osservarlo e a lasciarsene ipnotizzare, all’oc-chio vigile di una grande creatura fluviale che abbia preso dimora sotto il bosco e poi sia lì rimasta intrappolata, e ancora, all’origine dell’Universo, centripeta e centrifuga a un tempo.Non lontano dalla sorgente del Danubio, alla fine della Se-conda Guerra Mondiale e di quel lungo inverno del 1945, in una famiglia cattolica del posto, nasce Anselm Kiefer. Già all’età di otto o nove anni, il giorno della Prima Co-munione, quando si aspetta che gli accada chissà quale evento soprannaturale e straordinario al punto da rimaner-ne folgorati, e invece non succede niente, il giovane Kiefer capisce che nella vita avrà bisogno di sorprese continue, piccole sorprese quotidiane che lo aiutino a sopravvivere e ad andare avanti. A ventun anni, nel 1966, prende la de-cisione che diventerà poi la ragione di vita e la sua occu-pazione a tempo pieno, decide di dedicarsi all’arte. Dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti a Friburgo con

Peter Dreher, studia con Horst Antes in quella di Karl-sruhe. Questa, tre anni più tardi, farà da scena al suo esordio artistico incentrato su una serie di fotografie in bianco e nero che lo vedono ritratto in diversi momenti di una sorta di rievocazione parodistica della Germania nazista e hitleriana.Nel 1970 è a Düsseldorf. Qui ha luogo quello che in futu-ro Kiefer inquadrerà come uno degli incontri più influenti e significativi della sua vita. A Düsseldorf, infatti, egli fa la conoscenza di Joseph Beuys. Questi per lui sarà da subito una figura di riferimento con la quale condivide-re idee, visione storica e politica, e soprattutto scelte e tecniche in campo artistico. Fu infatti proprio Beuys a incoraggiare il giovane Kiefer a usare tele di notevoli di-mensioni, grandi come teleri veneziani, e di orientare la propria gamma di materiali su materie e oggetti poveri, già usati e pronti per essere riutilizzati in altri modi.Con Beuys, Kiefer condivideva anche un certo sarca-smo che finiva col riguardare un po’ tutta la realtà che avevano intorno, una specie di sotterranea vena ironica sul corso della Storia e le sorti dell’umanità. Ho perso la

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Ansellm Kiefer, Freia’s Garden

Anselm Kiefer, Aurora

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speranza, è per questo che riesco ad essere ironico, avreb-be dichiarato l’autore non molto tempo fa, in occasione di una conversazione col critico d’arte Germano Celant. Ma soprattutto, a Beuys e Kiefer interessavano la Storia della Germania e la cultura tedesca, naturalmente rivolgendo particolare attenzione al periodo nazista e all’Olocausto, che essi credevano, e Kiefer crede tuttora, avessero bi-sogno di essere rievocati e rivisitati. L’obiettivo era quello di cercare di capire davvero ciò che era successo e, per quanto fosse possibile, di affrontarlo in maniera lucida e coraggiosa.Entrambi sentivano l’urgenza di un processo complicato e doloroso, che fosse però anche catartico e liberatorio. Un processo che da una parte li aiutasse a rendersi con-sapevoli del recente passato storico, di quanto di tragico e terribile era accaduto, dall’altra fornisse loro anche una possibile chiave di lettura e una via di uscita, un modo per lasciarsi dietro le tenebre della memoria, senza per questo rimuoverla e fare come se niente fosse mai accaduto, e

finalmente andare avanti. Un obiettivo, questo, drammati-co e terribilmente complicato, difficile da perseguire, ma al quale Anselm Kiefer non rinunciò e anzi consacrò l’intera sua attività di artista delle arti plastiche. Un artista, come vedremo, che è prima di tutto un alchimista della vecchia scuola, alla stregua di un secentesco Athanasius Kircher che abbia fatto ritorno su questa Terra verso la metà del secolo scorso, e anche, volendo calcare un po’ la mano ma sicuri di non allontanarsi troppo dal vero, una sorta di demiurgo dell’arte.Tutto nell’arte di Kiefer è deflagrazione e devastazione. Ma anche, appunto come all’interno dello studiolo di un alchimista e astronomo rinascimentale, tutto è anche me-tamorfosi, trasformazione e sublimazione. Le sue opere, a guardarle per la prima volta, fanno pensare a scenari apo-calittici, a paesaggi ultraterreni. A un secondo sguardo ci si accorge che è la materia, in tutte le possibili declinazioni e alterazioni, il soggetto per eccellenza delle opere di An-selm Kiefer. La materia nella sua accezione più autentica

e ancestrale, come una lava che scorra sottoterra e porti con sé gli elementi primordiali che daranno vita a nuovi orizzonti. La materia di Kiefer è a tutti gli effetti una specie di magma primigenio che cola e investe tutto, affumica, brucia, incenerisce. I suoi paesaggi sono sempre paesag-gi di guerra nei quali la devastazione e l’eccidio, l’ecatom-be, hanno avuto luogo in modo irreparabile e disumano. In essi vediamo lande annerite e desertificate che sembrano ancora spirare gli ultimi refoli di fumo e, sulle superfici ar-roventate, braci incandescenti che si stanno spegnendo al termine della tragedia.Le opere di Kiefer raccontano, senza attenuanti e senza retorica, della tragedia umana e della catastrofe alla quale l’umanità sembra fatalmente destinata. Ma anche, poiché l’una cosa è sempre contenuta nell’altra, esse narrano della possibile rinascita, della combinazione improvvisa di nuo-ve miscele e nuove formule, e soprattutto dell’inevitabilità della bellezza, come afferma lo stesso autore più volte nel corso della sua vita, anche laddove si assista all’apoteosi

dell’orrore e della morte. Perché la bellezza è ovunque, sembra volerci ricordare Kiefer, ed è più forte di qualsia-si altra cosa. La bellezza non muore, rinasce sempre e si rigenera da sé. Essa è presente anche nel momento pa-rossistico della distruzione finale, è la bellezza di cui parla Rainer Maria Rilke nella prima delle sue Elegie Duinesi. Come la fenice araba fa nel fuoco che la riduce in cenere, essa risorge ogni volta.E poi, le opere di Anselm Kiefer parlano di trascendenza. Il dolore lirico del mondo, la tragedia ciclica dell’umanità alla quale l’artista tedesco sembra non trovare risposte plau-sibili, tende sempre alla spiritualità, o meglio a una visione spirituale dell’esistenza. La guerra con le sue leggi e le sue stragi, i massacri, sono mossi da un vento nero e carico di fumo che cancella l’orizzonte e annulla tutto. Eppure, quello stesso vento di morte conduce alla trascendenza, a una dimensione superiore e ultraterrena che diventa con-cezione religiosa della vita. La componente spirituale e un sentimento religioso dell’esistenza, in queste opere, sono

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Anselm Kiefer, Walhalla Anselm Kiefer, An Intimation of Apocalypse

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sempre centrali. L’afflato mistico è tale che vengono in mente Michelangelo Buonarroti e gli affreschi vaticani le-gati al ciclo del Giudizio Universale. Dunque la realtà e la Storia sono magmatiche per definizione. La Storia è essa stessa un magma infinito e indistinto che segue il suo cor-so come un flusso inarrestabile che distrugge e rigenera a suo piacimento, seguendo regole oscure e inconoscibili. L’Universo è un grande forno alchemico in cui tutto s’im-pasta e si rimpasta, si mescola e rimescola all’infinito. Per Kiefer il Cosmo non è altro che questo grande forno nel quale tutto finisce e dal quale tutto ritorna a prendere vita. Esso decreta la fine ma dispone anche il nuovo inizio, chiu-de un’era e dà l’abbrivio per ricominciare nuovamente. Il Cosmo è l’officina di un fabbro onnipotente, è la fucina di Efesto sotto il vulcano. Oppure, per chi sia credente, esso è la parola soprannaturale e soprastorica di Dio.L’antica pratica dell’alchimia fa subito pensare a processi di trasmutazione e metamorfosi continua che sono fonda-mentali nella poetica di Anselm Kiefer. Per esempio, il pro-cesso di spiritualizzazione della materia mediante il quale dal piombo, il metallo preferito dall’autore e l’unico secon-do lui adatto a sopportare il peso delle vicende umane, si cerca di ottenere l’oro. Cioè dal nero si prova ad arrivare al rosso-oro, passando attraverso lo stato del bianco. Il che,

mutuando i termini dal latino dell’Opus Magnum, equivale a dire che dalla fase iniziale della nigredo si cerca di giun-gere a quella intermedia dell’albedo, per approdare infine alla fase detta della rubedo.Il grigio è dunque il colore prevalente nelle opere di Kiefer, e il suo preferito. È il grigio del piombo, come abbiamo vi-sto, del fumo e della cenere, dei cieli in tempo di guerra, e dei letti allineati uno appresso all’altro nelle camerate delle caserme e negli ospedali, come sul cratere di un abisso. È il grigio dei cacciatorpedinieri e delle portaerei, dei som-mergibili, e di tutti i velivoli bellici. Nel grigiore plumbeo dei suoi quadri, Anselm Kiefer ricava, come estraendoli dalle macerie di un bombardamento, i suoi soggetti. Tuttavia il termine quadri, quando ci si voglia riferire ai lavori di Kiefer, è forse improprio. Di fatto si tratta di agglomerati spessi e corposi di materiali eterogenei e molto diversi fra loro. Questi materiali sono ammassati, accumulati su vari livel-li come stratificazioni laviche sedimentate una sull’altra, nonché sempre frutto di una lenta e lunga elaborazione.I soggetti delle opere di Kiefer sono lande incenerite e pa-esaggi desertici nei quali l’umanità è del tutto assente per-ché dispersa, sterminata, o inabissatasi in remote e oscu-re cavità terrestri come dentro le gallerie di un formicaio. Ecco allora che vediamo superfici crettate come terreni

essiccati dal fuoco e dall’arsura, fiori e girasoli inceneri-ti e che sembrano scheletri affumicati, resti industriali e rottami polverosi, lamine taglienti e relitti arrugginiti che conservano ancora le sembianze di aerei e sottomarini della Seconda Guerra Mondiale. Sono i Campi Elisi della devastazione e della morte, nei loro molteplici aspetti, ter-ribili scenari di catastrofi ormai avvenute e di asfittica ma-linconia, ma, come abbiamo visto, anche di trascendenza e di possibile rinascita. E poi, sono scenari di struggente bellezza. Come un sentiero scosceso che si inerpichi nel fitto di un bosco e che punti alla sommità di una monta-gna, Kiefer ha sempre concepito la sua arte come un per-corso doloroso attraverso i territori desolati della Storia, che però abbia come orizzonte ultimo quello della catarsi e dell’elevazione spirituale.Storia, memoria, tradizioni e miti germanici come la saga dei Nibelunghi, l’opera sinfonica di Wilhelm Richard Wa-gner e la pittura romantica di Caspar David Friedrich, sono i temi scelti dall’autore e rappresentati nelle sue opere. Accanto a questi, tuttavia, compaiono soggetti più eterei e ineffabili, come abbiamo visto dall’afflato quasi mistico, che nella fattispecie fanno sì che le opere di questo arti-sta finiscano puntualmente col riempirsi di simboli, non sempre facili da decifrare e anzi ermetici come sigilli, e di elementi iconici che rimandano a pratiche magiche, drui-diche, dalle proprietà occulte. È il dominio della Natura e delle forze oscure che in essa operano di continuo. Que-ste non sono necessariamente nefaste o dannose ma si muovono al di là e al di sopra del volere degli uomini. Ci si sta qui riferendo a una forma di spiritualità tipicamente nordica che trova nel rapporto con la Natura, e col bosco in particolare, il principale motivo ispiratore e, come acca-de con la sorgente del Danubio a Donaueschingen, una fonte inesauribile di energia, storie e leggende.Molti e diversi tra loro sono i materiali impiegati da Anselm Kiefer per esprimere tutto questo, cioè per dare forma vi-siva ai risultati della sua ricerca artistica e all’universo in-teriore che gli affolla i pensieri. Partendo quasi sempre da una base fotografica o da un’incisione di notevoli dimen-sioni, sia in bianco e nero sia color seppia, egli lavora so-pra queste immagini stampate come su un grande collage, che forse sarebbe più giusto chiamare assemblage. Alla fine di questo processo di accumulazione e sedimentazio-ne dei materiali, la carta verrà incollata su una tela che ne costituirà il supporto definitivo. Dunque Kiefer lavora sul-le immagini che intende realizzare per sovrapposizione e stratificazioni successive, e utilizza una varietà pressoché

illimitata di materiali.Le vernici e i colori spaziano da quelli ad acqua agli acrili-ci, fino agli inchiostri neri e rosso-sangue dei quali ricopre le rose, i fiori essiccati e le spighe di grano. Materiali indu-striali di scarto come lamine taglienti e pezzi di piombo, il ferro e il rame, spire di filo spinato, il cemento e la sabbia, mattoni e siliconi, vengono giustapposti o fusi insieme con altri materiali di origine vegetale come il legno e la paglia, il fieno e il carbone, i rami con le foglie ancora attaccate, le radici degli alberi, le felci di bosco e i girasoli di campo, altri fiori essiccati e anneriti per sempre, e infine la cenere, su tutto la cenere, come alla fine di eruzione vulcanica. Su queste enormi tele vengono poi applicati oggetti altrimenti destinati all’obsolescenza, reimpiegati dall’artista e inve-stiti di una nuova, simbolica funzione. Questi oggetti sono parti metalliche di Spitfire da caccia aerea della Seconda Guerra Mondiale, segmenti di pellicole cinematografiche consumate dal Tempo, pezzi rotti di insegne al neon, pile di libri di piombo accatastati, libri consunti e scarabocchiati, rottami di motori, lastre e schegge di vetro, e ancora lastre di piombo dell’antico tetto della Cattedrale di Colonia che fu smantellato nel 1985 e che l’artista si affrettò ad andare a recuperare.Sette anni dopo, nel 1992, Anselm Kiefer lascia per la pri-

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Anselm Kiefer, Osiris and Isis Anselm Kiefer, Hortus Conclusus

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ma volta e per sempre la sua Germania e si trasferisce in pianta stabile nel sud della Francia. Va a vivere e lavorare dentro un’ex fabbrica dismessa, una fabbrica dismessa, situata alle porte di una cittadina dell’Occitania chiamata Barjac. È questo un ambiente fortemente evocativo e dal fascino straniante. Simile per certi versi a un’officina anco-ra brulicante di attività e a un termitaio imbiancato con la calce, pieno com’è di gallerie sotterranee che si accaval-lano l’una sull’altra, fa pensare a un ospedale psichiatrico degli anni della guerra o al misterioso interno di una pira-mide rovesciata. Questa, a sua volta, ricorda un’arcaica reggia cretese col suo complesso di meandri a formare un labirinto, nel quale si aggiri un Minotauro triste e furioso. Ma forse, più semplicemente, si tratta di una suggestiva rivisitazione del Valalla, la grande sala dei morti in battaglia della mitologia scandinava e germanica.Fuori, non lontano dagli edifici della vecchia fabbrica, una serie di costruzioni grigie e verticali simili a piccole torri fa mostra di sé in mezzo all’erba alta. Sono i Sette Palazzi Celesti descritti in un antico trattato ebraico risalente al quarto o quinto secolo dopo Cristo, chiamato Sefer He-chalot, nel quale si narra del simbolico cammino d’inizia-zione spirituale al quale si deve sottoporre colui che abbia

manifestato l’intenzione di avvicinarsi a Dio. Realizzate in piombo e cemento armato, queste sette torri non sono altro che cumuli di rovine e macerie della nostra contem-poraneità. Esse simboleggiano l’esperienza mistica dell’a-scensione individuale attraverso i sette livelli di spiritualità, le sette tappe che è necessario percorrere, da quella più bassa a quella più alta.E in cima a una tradizionale casa tedesca costruita al li-mitare del bosco, potremmo dire al suo livello più alto, entriamo in una vecchia soffitta di legno. Da uno degli ab-baini possiamo scorgere il Danubio fluire, lento e maesto-so, poco lontano. In quest’ambiente sospeso e pieno di silenzio, per un istante abbiamo la sensazione di non sta-re da nessuna parte, qui non c’è niente. È perfettamente vuoto com’è giusto che sia la mente dell’artista-demiurgo allorché si accinga all’ideazione di un nuovo progetto, alla creazione di una nuova opera d’arte. Ormai abbiamo ca-pito che questa mansarda nella quale siamo entrati rap-presenta la mente dell’artista. Ma non è completamen-te vuota come ci era sembrata all’inizio. C’è qualcosa in basso a destra. Un oggetto metallico conficcato nel legno dell’assito. È una spada. Manda bagliori luminescenti che sono come caratteri di un alfabeto e formano parole ri-volte soltanto a chi sia in grado di leggerle e carpirne il significato. È la spada forgiata da Sigfrido il Volsungo e che Wagner chiamò Notung, ovvero la spada del bisogno. Notung è dunque emblema d’intelletto e creatività, e sta nascosta nella parte più alta della mente dell’artista. Del resto l’Arte è una cosa difficile, ha detto una volta Anselm Kiefer, è cosa mentale, avrebbe chiosato Leonardo, non è intrattenimento.

*[Gioele Marchis (1977) nasce a Torino e si trasferisce

a Londra appena ventenne, come molti coetanei, con

l’idea di trascorrerci un’estate o poco di più. La città

diventa la sua nuova ‘casa’ e lo spinge ad iscriversi alla

Central Saint Martins School, diventata negli anni la più

affermata fucina di nuovi talenti. Industrial Designer di

professione, è fortemente attratto dalla ricerca sui ma-

teriali e dal connubio del “vecchio” con il “nuovo”. Col-

labora con diverse riviste di settore.]

Andrew Wyeth, il cui cognome si pronuncia uaieth, era un uomo piccolo di statura e gracile di costituzione. Era nato con una malformazione al bacino, o meglio alle anche, che lo costringeva a camminare con le punte dei piedi rivolte verso l’esterno ossia, come si dice solitamente in questi casi, con i piedi a papera. Era nato durante la Prima Guer-ra Mondiale, il 12 luglio del 1917, lo stesso giorno in cui esattamente cento anni prima era nato il filosofo e scrittore di Concord, Massachusetts, Henry David Thoreau. Questi, fra gli altri suoi meriti, ebbe l’intuizione di volgere in pratica attiva i principî teorici del Trascendentalismo d’ispirazione tedesca del suo maestro Ralph Waldo Emerson. Andrew Wyeth era invece nato a Chadds Ford, una piccola località

della Pennsylvania, a circa una quarantina di chilometri di distanza dalla città di Philadelphia.A causa della particolare conformazione fisica e per le condizioni di salute che lo segnarono sin dall’inizio, Wyeth non frequentò mai la scuola del villaggio ma visse e lavorò sempre all’interno della casa di famiglia, dalla quale non si sarebbe mai allontanato nell’arco di tutta la sua lunga vita. Nella casa del padre, il celebre e allora popolarissi-mo illustratore americano Newell Convers Wyeth, Andrew ricevette l’educazione e i fondamenti dell’istruzione dalle sorelle maggiori, Henriette in particolare. Mentre l’attitudi-ne artistica e la predilezione per la pittura erano nell’aria come una musica suonata la sera al pianoforte, come una

L’OCCHIO DEL GERMANO REALELUCIO COSTANTINI

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Anselm Kiefer, Parsifal II

Andrew Wyeth,Young Bull (1960)

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brezza leggera che entrasse al mattino presto da una fi-nestra lasciata aperta, senza bisogno di doversele inven-tare o andarle a cercare chissà dove. Si può ben dire che in casa Wyeth l’arte era come il profumo di una torta di mele appena sfornata, come le scodelle di latte con i ce-reali disposte intorno alla tavola e il pane abbrustolito e imburrato della prima colazione. C’era chi suonava uno strumento musicale, chi dipingeva con i colori all’olio e chi disegnava con le matite al carbone. Wyeth disegnò sempre, effettivamente, dai più teneri anni dell’infanzia in poi, e fino alla fine dei suoi giorni che cadde il 16 gennaio del 2009. Sempre a Chadds Ford, naturalmente, dove era nato novantun anni prima.Andrew Wyeth era un uomo taciturno, aveva un carattere schivo e riservato, e amava osservare in silenzio il mon-do che aveva intorno. Gli piaceva ascoltare piuttosto che parlare. I difetti fisici e l’indole silenziosa, in un certo senso quasi segreta, lo portarono presto a preferire l’arte sopra ogni altra cosa. La disciplina d’elezione fu da subito la pittura. Andrew amava poi attardarsi in lunghe passeg-giate nella Natura, immerso negli scenari del posto in cui era nato e dove viveva, una Natura particolarmente avvol-gente e romantica, nell’accezione più lirica e pittorica che

del Romanticismo si possa dare, e più che mai adatta a fare da soggetto a una pittura ad olio. I boschi di conifere tutto intorno, le colline innevate per buona parte dell’an-no, la neve di primavera e le lamine di ghiaccio sottile sul selciato davanti casa e lungo i sentieri, le rive ombrose e muschiate del fiume, soprattutto il Brandywine River con la sua vallata, i torrenti freschi e gorgoglianti che precipi-tavano giù dalle alture e tra le fronde, le vecchie case del villaggio costruite con le pietre o rivestite di assi di legno, le querce, i campi verdi a perdita d’occhio con le mandrie di mucche e le pecore al pascolo, gli antichi abbeveratoi per gli animali e i mulini ad acqua risalenti addirittura al Settecento, tutti questi elementi facevano da sfondo alle passeggiate di Wyeth e alla sua vita, e fu cosa naturale per lui che poi sentisse il bisogno di tradurli nei sogget-ti privilegiati dei suoi dipinti. Lo stesso cognome Wyeth, probabilmente originario del Galles, pare voglia indicare colui che ha preso dimora nei boschi e che, alla stregua di un uccello acquatico, vive presso il guado di un fiume, che in inglese si dice appunto ford. Il cognome della ma-dre Carolyn, invece, era Bockius. Molto probabilmente un cognome tedesco.Col passare degli anni, però, lo splendore e la sontuosità

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della Natura come sono ravvisabili, per esempio, nei qua-dri di metà Ottocento dei pittori della famosa Hudson Ri-ver School, assunsero in Wyeth un altro significato e, per così dire, cambiarono di segno. Come il frutto giunto a maturazione di una continua e indefessa osservazione del paesaggio, che dapprima si fa contemplazione e in ultimo vera e propria attitudine estetica, gli scenari naturali di An-drew Wyeth si trasformarono in qualcos’altro. Da Arcadia idealizzata e imbevuta di nostalgie romantiche e istanze classiche, essi mutarono in qualcosa di sospeso, in co-stante tensione, e di come allucinato. Pur mantenendo le caratteristiche di fondo, una morbidezza e una capacità d’attrazione che sono come una malia insita nella Natu-ra stessa, le vedute di Wyeth si fecero oscure e sinistre, sempre sottilmente inquietanti, e come velate, alla stregua di un sogno dal quale si è ormai capito che non ci si risve-glierà più.L’aspetto profondamente oscuro della Natura, che è sem-pre imprevedibile nelle sue trasformazioni, è insondabile come un enigma che non abbia soluzione, ed è caratteriz-zato dal fatto di portare con sé morte e bellezza inscindibili l’una dall’altra. Questo aspetto ontologicamente ambiguo della Natura di essere terribile e affascinante insieme, co-

stituisce il nucleo teorico intorno al quale fu teorizzata l’in-tera poetica del Romanticismo. In ultima analisi, dunque, la Natura è bellezza rapimento ed estasi, ma anche, e non c’è niente da fare, minaccia terrore e morte. Ed è pro-prio di questa componente, questa intrinseca e ineludibile ambivalenza, che a un certo punto della sua vita Andrew Wyeth dovette rendersi conto. Seppure la dimensione in-vincibile e misteriosa della Natura, al cospetto della quale tutto è minuscolo e insignificante, fosse già presente in germine nelle opere degli artisti della Hudson River Scho-ol, una dimensione sovrumana la cui irresistibile bellezza si può sempre capovolgere in orrore capace di seminare devastazione e morte, non c’è dubbio che a un certo pun-to accadde qualcosa nella vita di Wyeth che impresse alla sua pittura una svolta irreversibile.Questo funesto momento di svolta, come un punto di non ritorno, fu innescato dall’improvvisa morte del padre di Andrew, Newell Convers Wyeth, in un tragico incidente avvenuto in corrispondenza di un passaggio a livello di un binario ferroviario, nei pressi della fattoria Kuerner, che il padre dell’artista credeva inattivo. Qui pare che egli si fos-se fermato a bordo della sua autovettura e qui un treno in corsa lo colse in pieno. Il vecchio Wyeth aveva accanto a

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Andrew Wyeth, Spring Fed (1967) Andrew Wyeth, Pentecost (1989)

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sé il nipotino di appena tre anni, al quale era stato dato il suo stesso nome, che nel momento dello schianto mici-diale volò via dalla vettura a metri e metri di distanza. En-trambi morirono sul colpo. Era l’ottobre del 1945 e Andrew aveva allora ventotto anni. Naturalmente ne fu devastato e così, da allora, la sua vita e la sua pittura non furono più le stesse.Avrebbe dichiarato in seguito, lontano negli anni dal tragi-co accadimento e dunque forte di una raggiunta interio-rizzazione dell’episodio, pacificato con quell’imprevedibile snodo che la vita gli aveva imposto, che la morte improv-visa di suo padre e del nipotino, figlio di sua sorella Hen-riette, investirono di senso la sua arte. Prima dipingeva senza sapere perché, adesso ne era invece pienamente consapevole. Il momento, com’è facile intuire, fu catartico e il nuovo umore di cui s’impregnarono l’anima dell’autore e la sua prassi artistica non fu cosa da poco. Improvvisa-mente, la Natura amata e fino a quel momento decantata nei suoi toni idilliaci e pastorali, la Natura accogliente e av-volgente dell’infanzia, mostrava l’altra sua metà, svelava l’altra faccia. L’anima del mondo era uscita dalla Natura stessa e coglieva il pittore, e per la prima volta, in tutta la sua incomprensibile e terrificante potenza. L’enigma che non ha risposte era apparso sulla scena.La pittura di Wyeth si caricò allora di una forza e un miste-ro fino a quel momento insospettabili. Qualcosa lo aveva afferrato senza che lui potesse opporgli resistenza, lo ave-va fatto sobbalzare, e non l’avrebbe più abbandonato. Era il Giano a due facce dell’antica mitologia greca, il serpen-te che ingoia se stesso, il senso stesso dell’Infinito? Era forse lo spirito della Natura che è come un grande volatile d’oro che mai fa la sua comparsa ma che, quando senza preavviso decida di manifestarsi e si dia il caso che uno abbia in dono di saltargli in groppa, può donare i segreti dell’Arte come una scatola di pennelli forgiati nel fuoco e colori magici estratti dall’iride di un arcobaleno.A questo punto l’opera di Andrew Wyeth, da realistica e regionalistica che era, cioè tipica di un determinato luogo e di un preciso momento storico, si riempì di simboli e si fece pittura simbolica. È dunque possibile, e credo legitti-mo, parlare, nel caso dell’opera di Wyeth, di Simbolismo o di Realismo Magico. Nel primo caso come ultimo erede di un movimento artistico che ebbe nell’Ottocento la sua culla e il momento massimo di splendore, nel secondo come esponente di una corrente pienamente novecente-sca. Non credo, ma è soltanto una mia impressione, che per Wyeth si possa parlare di pittura surrealista e ancor meno di pittura astratta o informale, sebbene egli stes-

so a più riprese abbia dichiarato che la sua pittura fosse, appunto, anche astratta e informale. Era in realtà un’eco postuma di Romanticismo del secolo precedente a quello in cui gli capitò di vivere, l’ultima suggestiva risonanza di un Romanticismo caricato di simboli che potrebbe allora essere definito Romanticismo simbolico.Dalla contemplazione dell’anima della Natura che, come abbiamo visto, Wyeth riuscì ad estrarre e fermare nelle sue opere, egli passò alla contemplazione dell’anima degli oggetti. Anche gli oggetti, infatti, se amati con trasporto e osservati a lungo, possono dischiudere orizzonti sor-prendenti. La spiritualità insita in un oggetto può coglierci quando meno ce lo aspettiamo e insegnarci che anche ciò che è apparentemente inanimato vive in realtà di una sua vita segreta e silenziosa, ed è connesso a tutto il re-sto. Gli oggetti sono quindi in relazione attiva e feconda con tutto ciò che sta loro intorno. Wyeth seppe attendere e fu pervaso anche dalla spiritualità degli oggetti che, al-lora, egli impiegò non tanto alla stregua di nature morte, e cioè nel senso di memento mori e simboli di caducità dell’esistenza, quanto piuttosto in qualità di metafore per alludere a qualcos’altro. Seppure sia vero che quest’ac-cezione simbolica degli oggetti non è in fondo così lonta-na dalla valenza solitamente attribuita alla natura morta, still life in inglese, è anche vero che Wyeth riuscì a farne qualcosa di più. Seppe uscire da sé e autoproiettarsi negli oggetti che aveva di fronte e che si accingeva a dipingere. Se vogliamo, detto in altri termini, egli arrivò al punto di scambiare la propria identità con quella degli oggetti della sua contemplazione.Questo scambio d’identità, che è dunque scambio di ani-me, una volta iniziati al mistero, Wyeth lo applicò anche agli altri soggetti dei suoi dipinti, gli esseri umani che in essi possiamo ammirare. Si tratta di figure per molti versi lontane e stranianti, come avvolte in un’aura di mistero, velate come in un sogno. L’impressione è che si trovino sempre in qualche altro luogo rispetto a quello in cui ci è dato vederle, come sospese in un altrove che però coin-cide in tutto e per tutto con la realtà nella quale siamo normalmente inseriti. Erano i suoi vicini di casa, sempre gli stessi per tutta la vita. Come una gazza ladra che stivi tutto all’interno del suo nido, Wyeth rubò loro la vita sen-za mezzi termini, estirpandogliela lentamente giorno per giorno, come si fa con lo sradicamento di un albero da trapiantare da qualche altra parte. Oppure, egli barattò la vita dei suoi vicini di casa con quella degli oggetti che a quelle persone appartenevano, quegli oggetti familiari con i quali essi per primi avevano fatto a scambio di vita

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confondendosi in essi, tanto da arrivare al punto che gli oggetti stessi potessero rappresentarli e parlare per loro. A quel punto, quegli esseri umani erano stati letteralmente sostituiti. Non c’era più bisogno, ormai, che comparissero fisicamente nel dipinto.Ecco allora che un paio di vecchi stivali che Wyeth usava nelle sue lunghe passeggiate lungo le rive del Brandywine arrivano a rappresentare, essi da soli, l’autoritratto dell’ar-tista e un inno alla nostalgia di giorni perduti. Una finestra aperta con le tende leggermente increspate da un refolo di vento, così come la soglia di una porta appena socchiusa, possono alludere al ritorno di qualcuno o, al contrario, alla sua definitiva uscita di scena, o ancora, all’improvviso ri-affacciarsi alla memoria di un momento felice del passato. Le reti dei pescatori stese ad asciugare al vento rappre-sentano il giorno di maggio in cui si celebra il mistero della Pentecoste, il mistero dello Spirito divino che discende sulla Terra. Un piatto vuoto e un coltello compongono il ritratto del vicino di casa a Chadds Ford, Karl Kuerner, nella forma di allusione alla vita semplice e rustica che quest’uomo conduceva e a una sua innata brutalità ca-ratteriale. Un secchio vuoto usato per trasportare l’acqua o il latte appena munto, può a sua volta rappresentare il

lavoro e la vita stessa di qualcun altro, oltre naturalmen-te alla caducità e alla transitorietà dell’esistenza. E via di seguito, per molti altri oggetti apparentemente inanimati e insignificanti che è possibile rinvenire nelle numerose ope-re dipinte da Andrew Wyeth in quasi settantacinque anni di alacre attività. Gli oggetti erano diventati simboli a tutti gli effetti. E così, le diverse personalità delle donne e de-gli uomini ritratti, le caratteristiche individuali di ognuno di loro, l’ambiente nel quale essi vivevano e si muovevano, insomma l’anima stessa delle persone effigiate, tutto in Wyeth era diventato pienamente simbolico.I vicini di casa furono sempre, come si è visto, uno dei sog-getti più frequentati. A Chadds Ford, che oltre ad essere la casa natale era anche la casa d’inverno, e cioè la casa in cui Wyeth e la sua famiglia trascorrevano la parte più fredda dell’anno, i vicini erano i coniugi Anna e Karl Kuer-ner, una coppia di immigrati tedeschi che si erano stabiliti lì in Pennsylvania nel 1926, quando Andrew aveva nove anni. Anna aveva un carattere instabile e umorale e, for-se, era psicologicamente un po’ squilibrata. Karl, invece, era stato soldato nella Prima Guerra Mondiale e raccon-tò sempre ad Andrew molti aneddoti di guerra. La Gran-de Guerra fu come un tarlo nella mente e accompagnò

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Andrew Wyeth, Flood Plain (1986)

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Wyeth per tutta la vita e a partire da quel giorno del 1925 quando, accompagnato da suo padre, era andato al cine-matografo a vedere il film di King Vidor intitolato The Big Parade. Il pittore disse poi di averlo visto e rivisto centinaia di volte, tanto era rimasto colpito dalle atmosfere di guer-ra che il regista era riuscito a riprodurre. Inoltre, Andrew Wyeth fu sempre un appassionato collezionista di solda-tini e arrivò a possederne circa duemila. Karl Kuerner era invece un uomo semplice e spartano, oltre che robusto al punto da far pensare a un cinghiale, e la sua passione erano le pistole e i fucili. A Chadds Ford i Kuerner avevano acquistato una fattoria dove, oltre a fare i fattori, allevava-no mucche. La produzione di latte e burro era dunque la principale occupazione. A un certo punto della loro vita, quando i Kuerner erano ormai piuttosto in là con gli anni, si unì a loro una terza figura, una ragazza con i capelli rossi, anche lei tedesca come i padroni di casa, di nome Helga Testorf. Helga faceva la badante e fu la protagoni-sta di molti nudi, gli allora considerati scandalosi soggetti erotici, dipinti da Andrew all’insaputa di sua moglie Betsy, stando almeno a quanto narra la leggenda. I quadri legati ai coniugi Kuerner sono particolarmente indicativi di come sia stato sempre vivo in Wyeth il desiderio di dipingere la

nostalgia di un tempo lontano, fatalmente destinato ad estinguere i suoi ultimi bagliori, nonché la frugale rettitudi-ne della più autentica vita rurale americana.L’altra casa protagonista di tante opere di Wyeth, l’amata casa d’estate, stava a circa ottocento chilometri a nord di Chadds Ford, e precisamente presso il villaggio di Cushing nello Stato del Maine. Qui i vicini erano Alvaro e Christina Olson, fratello e sorella. Christina era paraplegica e Alva-ro doveva occuparsi di lei notte e giorno. I dipinti legati ai fratelli Olson, per le particolari atmosfere in essi descritte, possono essere accostati al movimento artistico del cosid-detto Gotico Americano, e dunque a pittori suoi esponenti come Grant Wood. Fra gli altri possibili accostamenti, bi-sogna qui citare le opere del bostoniano Winslow Homer, il cui lavoro Andrew dichiarò sempre di ammirare molto, e del newyorkese Edward Hopper, coetaneo di suo padre Newell Convers, e cantore delle solitudini e delle aliena-zioni urbane americane, soprattutto della East Coast. È infine interessante notare come oggi vi siano alcuni registi cinematografici che nei loro film hanno dimostrato di es-sere particolarmente attenti all’opera di Andrew Wyeth e che, in certi casi, sembrano davvero averla studiata da vi-cino. Basti pensare al Terrence Malick di The Tree of Life,

I n s i s t e n z e > > >

al Night Shyamalan di The Village, e al fotografo Gregory Crewdson. Altri amici di famiglia che si prestarono a fare da modelli ai dipinti di Wyeth furono l’afro-americano Da-vid Lawrence, Senna Moore che fu ritratta in guisa di Dria-de o ninfa delle querce, e negli anni Novanta del secolo scorso i coniugi George ed Helen Sipala. E infine James Loper, anche lui un vicino di casa dei Wyeth, allevatore di bestiame e mentalmente disturbato.Spesso le vedute e i paesaggi di Wyeth si riconoscono in un batter d’occhio per una particolare tecnica di ripresa, come potremmo definirla mutuando un termine dal lessico cinematografico. Infatti, oltre che a volo d’uccello, è come se fossero grandangolati, quasi sferici e declinanti verso il basso, fuori dai bordi dell’inquadratura. La tavolozza adot-tata da Wyeth, poi, sempre asciutta e sobria nella gamma limitata di colori, si concentra soprattutto sui toni autunnali delle terre, dei seppiati e dell’ocra, come pure del bianco nelle sue infinite gradazioni e del beige miscelato agli az-zurri del cielo. Non è un caso, forse, che l’autunno fosse la stagione preferita dell’autore. Wyeth iniziò a dipingere con i colori ad acqua, una tecnica pittorica che egli ama-va particolarmente e che non avrebbe mai abbandonato del tutto, per poi passare alla pratica rinascimentale della

tempera all’uovo. Questa tecnica, alla quale fu iniziato da suo cognato Peter Hurd, anch’egli pittore e affermatosi soprattutto nel sud-ovest degli Stati Uniti dal quale prove-niva, divenne presto la sua specialità. Per quanto riguarda la scelta delle uova, infine, il cui tuorlo doveva utilizzare come medium da miscelare ai pigmenti, Andrew Wyeth si orientò sempre sull’uovo Extra-Large della locale catena di negozi chiamata Wawa. Catena di negozi che ha nel logo un Germano Reale in volo sulle colline, sui boschi e sui fiumi dell’America settentrionale.

*[Lucio Costantini, napoletano di nascita, milane-

se d’adozione, classe 1968. Si avvicina alla fotografia

nell’era pre-digitale, quando realizzare una foto era un

lavoro che includeva ancora una certa dose di artigia-

nalità e ci si formava sul campo con ore e ore di espe-

rienza. Nel corso della sua carriera ha esplorato diversi

generi e tecniche, pubblicando per riviste importanti

come National Geographic, GQ, L’Espresso. Scrive per

passione, convinto che tra immagine e racconto esista

un sottile fil rouge.]

< < < I n s i s t e n z e

Andrew Wyeth, Winter (1946) Andrew Wyeth,The Yellow Shade

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I n v e r s o > > >

Anche le stagioni si sono precarizzate, il paesaggio climatico

è diventato spaesante. Le regole climatiche, le severe

leggi della natura seguono la schizofrenia dei ritmi umani.

L’uomo è stato capace perfino di questo: di far lievitare

le sue lacerazioni, i suoi buchi della memoria fino a livelli

stratosferici, fino al buco nell’ozono. Forse è colpa del

silenzio delle sirene e Kafka ci aveva avvisati: «Le sirene

possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il

loro silenzio».

Dopo il novecento e i suoi orrori, è arrivata la grande

rimozione: l’“Età della tecnica” e la furia insensata del

capitalismo globale. Il pianeta ridotto a un magazzino

stipato di merci e cianfrusaglie. Ci si è consacrati alla liturgia

della plastica e alla danza sotto la pioggia acida. Tutto è

in scadenza. Tutto è desacralizzato. Questo il retroterra

ineludibile di ogni reduce della poesia. Ogni scrittore non

può che confrontarsi con il silenzio, il vuoto, il non-detto

o l’oblio della memoria. Le sirene non cantano più. Ma la

poesia è fuori stagione?

C’è da chiederselo spesso dopo che Nietzsche ha sentito il

nichilismo bussare alla porta: «da dove ci viene costui, il più

inquietante fra tutti gli ospiti?»

Letizia Leone

Mi dicono una vertigine, i tuoi occhi.Sento il presagiodi un tempo tuo futuroal quale non prenderò parte.E ho nostalgia di adessoe tenerezza per questi nostri fragili sorrisi.

Si può raccontare di un ricordo mai vissuto o avere nostalgia di un presente non ancora trascorso? essere

dunque qui ora ed al contempo altrove... Non siamo forse noi con i nostri intensi desideri, i viaggiatori del

tempo, in cui la mente è il multi verso? È su questo che fa riflettere l’autore Davide Cortese. Insinuandoci

attraverso due suoi componimenti, in cui forse il vero paradosso temporale è il diventare protagonisti di un

passato in quanto tale ed immutabile e rimanere spettatori inermi innanzi al mutevole futuro.

[Laura Di Marco]

DAVIDE CORTESE

Io c’ero, ve lo giuro,a Woodstock.(Davvero non bastadesiderarlo molto?)E ho ballato nudo sotto la pioggiafradicio di musica e di gioia.Ho ballato nel sole e cantato l’amore.E non ho temuto mai di sorriderti,non è vero?Ho dipinto un fiore sulla tua pelle,ricordi?(Davvero non si può ricordareciò che non si è mai vissuto?)io c’ero, ve lo giuro,a Woodstock.

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ILARIA PALOMBA

Testo densamente metaforico, questo di Ilaria Palomba. Evocazione di un paesaggio per un’ombra. Una

figurazione dell’inafferrabilità dei propri fantasmi: la fragilità del dire, la fragilità della propria presenza nel

mondo, minaccia del nulla e come sottofondo il Tempo. Il tempo presente frantumato in mille direzioni, mi-

nacciato dall’oblio della memoria. Memoria storica che qui precipita a valle, nel ricordo intimo bruciante

eppure sfuggente. Il tempo interiore dei fantasmi evocati, invocati: Ti cerco nei muri /e scendi a valle/con

parole spezzate/ e occhi di un altro. /Il buio non si ferma../Nebbia. Stanze vuote. La materia poetica dell’e-

legia viene trasfigurata in un dettato dal ritmo spezzato e singhiozzante.

[Letizia Leone]

DESERTO

Ti cerco nei murie scendi a vallecon parole spezzatee occhi di un altro.Il buio non si ferma.Nebbia. Stanze vuote.Il piacere è fattodi maldestra ferocia.E adesso sta zitta, dicevi.Come non servissesapersi soli.

Cercavi un rifugio nel boscoe trovavi i suoi occhinel riflesso della pioggia.Per sempre si appartiene ai carnefici.

Ti cerco tra le ombre,torna a grandinare.Lasciami il suono del marenei gusci di conchiglia,lasciami urlare.

ROBERTO MARZANO

Attraverso il gioco di forma e parole che contraddistingue il suo stile, Roberto Marzano ci propone una ri-

flessione sul susseguirsi delle stagioni e quindi di noi stessi, spesso dimentichi del presente nella continua

attesa spasmodica di un “dopo”, di un futuro che finisce sempre per sorprenderci impreparati in un giorno

qualunque... celebriamo allora invece, ogni semplice ciclo naturale, sonno e risveglio di ogni essere vivente

che si ripete incurante della nostra umana ed imperfetta irrequietezza.

[Laura Di Marco]

LE STAGIONI DI ADESSO

Spesso mi domandavo cosa ci fosse

dietro la curva a gomito appoggiata

sul pian del tavolo a sostenere il mento

alle domande mie senza risposte

apposta poste per spalancarmi strade

di versi sguscianti lucertole in volo

delle quali ho pieni armadi e matita

e bocca aperta al retrogusto un po’ amaro

di stagioni passate aspettando

le stagioni di adesso ora giunte

e chiedermi ancora se fosse il caso davvero

di perder tempo attendendo il futuro

che zitto-zitto mi ha sorpreso alle spalle

picchiettando le nocche a reclamo

per riscuotere il suo legittimo credito

ahimè dovendo a quello che ho indietro

ciò che diventato io sono, qui, adesso...

Inv

erso

>>>

Adesso sii bufera e scombuia.Mia madre si perdeva nell’ondae io non vedevo,cucinavo i resti.Sii il fulgore del vesproe io sarò il livore che muore abbacinante, fortissimo,prima del sepolcro.

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AMO L’ESTATE

Amo l’estate quando le nubi son lunghe da arrivarei panni lasciati sulle corde a seccare per pigriziaamo l’orologio abbandonato chissà dovetanto il treno dopo va benissimo lo stessoamo il sesso, che si snoda al ritmo tranquillo del solstizioamo delle rane il gracidare che deride il mio vinoamo il destino, che l’autunno al posto suo spingerà lo stesso…

VIOLETTA

Ce l’hai infine fattaa infilarci le bracciaspodestando quel sassoaggrappato al selciatoa impietrire l’invernorisputandogli in facciadolce cara violettaviolenta e testarda!

OMBRELLI VIOLA

Ragazzi spentifoglietti spiaccicati ai parabrezzasi sfaldano alla pioggia fitta e ghiacciaombrelli violaserpeggiano sui viali rugginosisoldati esaustidi leva sotto ai platani sospiranoappesi a cannela lenza tesa alla perduta estatestagione mortadi gioventù sprecata nell’attesache il tedio quotidiano abbia requiecade il fucilenon c’è più forza di reggerlo o far fuocolì sul confinetra sonno e alienazione a sprofondare.

EUGENIA SERAFINI

Appena gli occhi cadono sulle parole di Eugenia Serafini, si avverte immediata l’intuizione di un luogo, del

calore improvviso in lotta con un vento del Nord, di un respiro tirato, di una pausa vitale, di una scrittura in

caratteri che sfuggendo anche essi alla formale quotidianità, sottolineano ed interpretano il momento vis-

suto. Quanto tempo è trascorso? un pomeriggio? l’eterno? o forse solo quella frazione di tempo che i ver-

si hanno il potere di fermare in sospeso.

[Laura Di Marco]

LA VIA DELL’AMORE

S’erano sedute lei e Marilina su un sedile di pietra lungo

la VIA dell’AMORE. E il figlio di Marilina che soffriva di depressione.

Avevano il sOle negli occhi e si stringevano al giaccone imbottito

per vincere la TRAMONTANA.

Lontano sull’orizzonte s’increspavano onde di spuma. Schizzavano

ALTE verso il sOLe.

A poco a poco s’erano sentite penetrare dai raggi del sOle e riscaldate fino in fondo al

cuOre.

Le sembrava che fosse durato un’ETERNITA’ quel meriggio alle

5 TERRE.

Ma lo sapeva che erano state solo poche ore. O forse neanche.

FORSE SOLO MEZZ’ORA con il sOle negli occhi e il mare che si confondeva con il ciElo e

bisognava tenere gli occhiali per poterlo guardare.

IL SOLE E ANCHE IL MARE che finiva nella piazzetta addosso a 3 barche.

Una roSSa/una giallA/l’ultima era AZZurrA.

Le sembrava che fosse durato UN’ETERNITÀ.

Quando si alzarono il sOle era TRAMONTATO.

Allora la prese un FREDDO IMPROVVISO!

Inv

erso

>>>

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ANNA JOLANTA LAGODA

Il VIAGGIO FUORI STAGIONE nei testi di Lagoda è l’evento spaesante e straniante, occasione di sdoppia-

mento del sé e oscillazione tra stati dell’essere. Timori di blackout della memoria, di perdita della dimensio-

ne quotidiana, gioia dell’immersione totalizzante nella profondità sacra della natura Indonesiana. L’armonia

delle antiche donne di Bali rivive nella cadenza misurata del verso. Una natura che apre a risonanze miti-

che e ancestrali: Ammirando gli stormi /Di bali bianchi/E uccelli tessitori/Volare sopra i tetti/Dei templi/Sarei

la terra nel mare/Tanah-Lot/Il tempio senza croci.

[Letizia Leone]

LELONG

Con movimenti felini

sciogli la ghirlanda

d’incantesimi

intrecci di meraviglia

e l’incanto.

Chiudi gli occhi

della tigre

pigri e lenti

nel cerchio sacro

della danza.

Fermo

sospeso

come il tempo

sull’orologio

di vecchio stampo

TANAH-LOT

Se il mare mi togliesse di dossoLa veste di fuocoTroverei il riparoNell’ abbraccio della forestaE conterei i bambooUno per unoAccarezzerei le pianteDi riso Sotto il soleAmmirando gli stormiDi bali bianchiE uccelli tessitoriVolare sopra i tetti Dei templiSarei la terra nel mareTanah-LotIl tempio senza croci

Inv

erso

>>>

LUNA

Presa dalla negazione

Della legge gravitazionale

Fluttuando nella notte

Colma di canti e sussurri

Inciampo silenziosamente

Nel labirinto

di rose nere

Vedo i lineamenti

Del tuo viso

Il mare negli occhi

E tra le corde delle vene l’indaco

Del tramonto

La luna è piena

Come il seno

Delle donne

Balinesi

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NEVICANO ORE, PIOVONO MINUTI

“....adesso è già marzo coi colori nuovi, frescala vita che dentro ci rimbalza e balla,anima di cuore, assolato per i campiin festa....”

Giorni corti come fraseggi d’animeè dicembre quel mese finaleche non lascia filtrareattesa né luce sopra il davanzaledi una stanza vuota e spartana.

Passano solerti le locomotive.

Il fumo sale in cielo. Una nuvolasi scioglie al vento,come un verso fragile e terapica,una sbavatura figlia d’un camino,fumanti le venature nel vuoto sbiadite.

Nevicano ore, piovono minutisopra i tetti delle case e dentro,sfumano pensieri. Come un’albanasce e poi muore nel chiaroscurodelle vita, un colore si distendein una notte senza stella, è buio,la tua assenza, unica ferita.

*

Brevi appaiono le notti sopra cornicioni imbiancati!

Passano lievi i pensieri assottigliaticome in un imbuto scivolanolacrime o da una grondaia, rimasugli d’acqua,grigia fertile e piovana.

Trascorrono le ore. Si dividonofiocchi di neve dissimili fra loro.

Minuti, scorrono via ugualidentro un orologio flemmatico al polso,col cinturino ormai, dal tempo logorato.

*

Imperversano venti e scorribande, vie intasate guarnite d’invernoal bordo di una strada un biglietto.

Di vetro una bottiglia.

Una pergamena dentro,

ecco come scivola via la sera

Inv

erso

>>>

FABIO STRINATI

Immagini e musica, grafia e note, nella poesia di Strinati. Testi che diventano anche partiture di un penta-

gramma visivo tendente all’astrazione. Il tempo sembra essere quello contato da un ipotetico metronomo

cosmico e insieme interiore. Passioni musicali salgono al momento /intessute e adrenaliniche… oppure:

Mani da cui partono / spesso colpi, suoni, rumori: diesis e bemolli!

Partitura lirica che si avviluppa sui ritmi delle rivoluzioni terrestri, del giorno e della notte ma lancetta che

oscilla anche pericolosamente nel vuoto. L’assenza, il dolore, la confessione dell’io lirico sono le spie che

accendono ogni verso.

[Letizia Leone]

l’attimo d’un frenetico momento!

Rotolano palloni lungo stradestrette fra alberi canuti.

Piangono lettere aperte dal cieloululano vocali sordidetra i vecchi palazzi di un quartiereabbandonato.

Vuota una stanza.

Una musica distante: la sento!

Ecco come scivola via la seral’umore d’un frenetico tormento!

Nevicano ore, piovono minutisopra i tetti delle case e dentro,sfumano pensieri. Come un’albanasce e poi muore nel chiaroscurodelle vita, un colore si distendein una notte senza stella, è buio,la tua assenza, unica ferita.

*

Ascolto il rumore dei miei passimuoversi cauti fra le ombredi una strana sorte, e danzo al ritmodi una cantilena che suona al toccodella falce sulle spogliedi una perduta sera,

l’anima dispersa tra le fauci della notte.

*

Ortaggi d’inverno ostaggi nella serras’abbracciano fraternicome fiocchi di neve già morenti scendono,

i giorni effimeri di un calendario appesodestinato a sciogliersi s’una parete di bianco verniciata,che ancora sa di fresco!

*

Sento sfuggire la vita, come dal didentrosento scandire al cuore i suoi battitie sempre un più flebile metronomo,

assopirsi nella goccia dell’istante.

*

Dita tremano sui tasti usati dal tempoe frasi troppo presto interrotte,nel vuoto sfumano al vento.

Passioni musicali salgono al momentointessute e adrenaliniche, crepitano dentro;vene intrecciate da un sentimentocome fulgide arterie sgattaiolano via,su autostrade le serpentesche melodie!

Mani all’apparenza leggere, fragili, sane.

Mani da cui partono spesso colpi, suoni, rumori: diesis e bemolli!

Pianoforte bianco pregno d’estasi, bianchissimii tasti fra le carie le armoniche danzecome sulla vertebra, una scossa penetra il midollo.

Fuori, piccoli rumori smuovono le frondedegli alberi vicini, o lontani?Orecchio ascolta, o vede? Percepisceonde che come frequenze si muovonoal tatto di un preludio saggiato col guizzodella nota, oppure, si scorda di essereorchestra come il vento con le foglie?

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Ora, i battiti del tempo sono scanditida un metronomo ch’è figlio del cuore.

Da un dolore che non ha tramonto,come sul pentagramma le rime.

Nevicano ore, piovono minutisopra i tetti delle case e dentro,sfumano pensieri. Come un’albanasce e poi muore nel chiaroscurodelle vita, un colore si distendein una notte senza stella, è buio,la tua assenza, unica ferita.

i l f o c u s d i I n v e r s o > > >

MURASAKI SHIKIBU

MEMORIE IN FORMA DI POESIA DELLA PRIMA ROMANZIERA AL MONDO

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Murasaki Shikibu è una tra le più illustri letterate del pe-riodo Heian (VIII-XII sec.). Celebrata autrice del primo ro-manzo scritto al mondo, Il romanzo di Genji − caposaldo della letteratura giapponese in cinquantaquattro capitoli che fu ispirazione per molte opere d’arte e di teatro − fu nobildonna alla corte imperiale. Come per altri autori coevi le date di nascita e morte sono incerte, ma alcuni storici indicano il 973 e il 1014 d.C., altri il 1025. Sconosciuto anche il vero nome poiché nel periodo Heian i nomi delle donne non venivano registrati; ci si riferiva loro con so-prannomi derivati dai ruoli sociali del padre o del marito: Murasaki fa riferimento a uno dei personaggi de Il roman-zo di Genji, e Shikibu alla posizione del padre, maestro cerimoniere a corte. Fino al X secolo, i rigorosi costumi dell’epoca precludevano alle donne l’apprendimento del cinese, considerato il forbito linguaggio ufficiale del ‘po-tere’, nella sfera pubblica e governativa. Era perciò pre-rogativa dei soli uomini, studiosi e aristocratici. Tuttavia Murasaki crebbe sotto l’erudita influenza del padre che, avvedutane l’intelligenza e sensibilità, la educò ‘come un maschio’ alla scrittura del cinese e alla familiarità con i clas-sici della letteratura, favorendone il gran talento letterario.Si sposò giovane con un uomo molto più anziano che aveva altre mogli e altri figli e, come l’uso di allora che non prevede-va la convivenza tra coniugi, continuò ad abitare nella casa paterna. L’unione matrimoniale diveniva tale alla prima ‘visita’ del marito nella casa della moglie. Ebbe una figlia ma a soli due anni dal matrimonio un’epidemia di colera la rese vedova. Intorno all’anno 1006 fu richiesta alla corte imperiale come dama di compagnia per una delle consorti dell’imperato-re Ichijô, l’imperatrice Shôshi, probabilmente proprio per la sua reputazione letteraria. Donna coltissima dalla per-sonalità discreta e indipendente, Murasaki contravven-ne i costumi d’epoca insegnando la scrittura del cinese alla sua giovanissima imperatrice, che apprezzava molto essere intrattenuta con storie e poesie waka. Ma nono-stante la modalità riservata delle lezioni, queste le valsero comunque invidie e malumori di altre illustri letterate di corte che la accusarono a torto di supponenza e alteri-gia ritenendola interessata a ostentare la propria cultura.All’apice del periodo Heian, la produzione letteraria femmi-nile, dovuta in gran parte alle dame dell’aristocrazia, trovava

il suo spazio all’interno dell’emergente letteratura giappo-nese, che nell’affrancamento dalla lingua cinese cercava una propria identità culturale. Emerse soprattutto in forma di diari e poesia waka, determinando il graduale sposta-mento verso un sistema di scrittura vernacolare, il Kana, che contribuì di fatto all’ascesa della letteratura classica di lingua giapponese. Come spiega Shirane: “La poesia waka divenne parte integrante della vita quotidiana dell’aristocra-zia, funzionando come una forma di comunicazione eleva-ta e fu il principale mezzo di comunicazione tra i sessi, che per tradizione erano fisicamente separati l’uno dall’altro”. Murasaki scrisse inoltre il Diario di Lady Murasaki un’ope-ra eclettica composta da frammenti letterari, aforismi, vi-gnette, poesie waka e una sezione epistolare scritta sotto forma di una lunga lettera. Il Diario, scritto tra il 1008 e il 1010, sottolinea con vivacità e dovizia di particolari, senza il vincolo dell’ordine cronologico, eventi importanti della vita a corte. Preponderante la parte che narra la nascita dei figli dell’imperatrice Shoshi. Le vignette descrivono le relazioni tra i dignitari e le nobildonne, consegnando una cronaca realistica della composita vita di corte tra magnificenza e schermaglie; ai lunghi passaggi descrittivi Murasaki appone osservazioni e opinioni, rivelando il suo senso di solitudine e l’insofferenza per i contrasti tra alcuni personaggi di corte:Le persone sono molto diverse tra loro. Ci sono quelle sicure di sé, aperte e vivaci e quelle introverse come me che non piacciono agli altri perché, non riuscendo mai a distrarsi, amano starsene per conto proprio, rovistare tra le vecchie lettere ricevute per rileggerne qualcuna…Ma è nella collezione dei centoventotto waka raccolti nelle Memorie poetiche che Murasaki condensa la gra-zia e l’intensità della stilizzazione descrittiva. Sistema-ti in sequenza biografica, alcuni trattano d’amore, al-tri sono dedicati alla sorella morta, altri ancora sono impressioni di viaggio. Furono pubblicati nel 1206.Morì in data incerta. Anni più tardi pure sua figlia salì a corte, distinguendosi anch’essa nella poesia.

Dona Amati

Inv

erso

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Nel fondo della rugiadadi queste colline distanti le foglie d’acero diventano rosse. Vorrei poterti mostrare il colore delle mie maniche.

**

Infuria tra le colline lontane, la tempesta senza tregua --spazza via entrambi foglie scarlatte e rugiada, senza lasciare traccia.

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Foglie rosse, sedotte incessantemente dalla tempesta, non avevo voglia di cadere ovunque tranne sotto l’albero.

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Se dovessi svanire, verresti? cercando il mio nome fino a la tomba?

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Scrivimi spesso,come le ali delle oche selvaggeche volando a nordscrivono le nuvole sfiorandole --non smettere mai di scrivere.

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Mentre la vita scorre, chi leggerà maiquesto ricordo di lei di chi memoria non morirà mai?

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Afflizione e desideriomirando la luna dal mare occidentale --è tempo di solo lacrime.

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Ci eravamo incontrate per caso - lei sembrava quell’amica di una volta, se ho visto chiaramente. Poi è scomparsa come Il volto della luna di mezzanotte.

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È irrigidito dal ghiaccioil mio pennello da scrittura e non posso scrivere --ti disegno un’immagine dei miei sentimenti.

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I n s t a n t e > > >

È questa la stagione del cambiamento

del cambio di stagione

degli anni suddivisi in aspettative disattese

di attese troppo lunghe che fanno seccare i rami

e repentini geli inaspettati

e inopportune vampate

Eccola la stagione delle decisioni non prese

delle occasioni colte al volo da altri

gli incauti fruitori della vita

dei rossori alle guance e alle dita

dei sudori imprevisti e l’aria traditrice frizzantina

le scarpe troppo grosse

la maglia troppo fina

Residui di mode passate

di fuori stagione stratificati

di fuori tempo sedimentati

di imbarazzanti tentativi di adeguatezza

e di recupero

e infine

di orgogliosi ed ostentati

fuori stagione.

Pietro Bomba

Trasgressione, Passione, Paura, Malinconia, Esitazione, Riflessione e Potenza, sono gli elementi emotivi che, legati alla sperimentazione dell’immagine, creano la forza espressiva di questi scatti…nulla è casualità! Le pos-sibilità di essere ciò che sei ti raggiungono sempre. Buona visione

DANIELA ARENA

*[Daniela Arena nasce in Sicilia negli anni 80, inizia il suo percorso fotografico all’età di 19 anni frequentando l’I-

stituto Superiore di fotografia di Roma dove, oltre ad imparare le tecniche fotografiche, sviluppa la capacità istan-

tanea di immedesimazione nello stato d’animo altrui, fotografando così attraverso l’emozione e non attraverso la

tecnica. Si sperimenta nel reportage, nel ritratto e vive la passione fotografica per descrivere momenti di vissuto

del Tutto. Oggi è impegnata a sperimentare la comunicazione fotografica a supporto di cause sociali.]

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I n s t a n t E > > >

“Ho scelto queste foto perché in molte di queste compare l’acqua, un elemento che simboleggia un luogo di nascita, un luogo che offre una sospensione dalla realtà, dall’altra troviamo foto che rappresentano la terra ver-de rigogliosa. I due elementi acqua e terra incontrandosi danno vita ad un altrove, rigeneratore dello spirito.”

ALESSIA BRESCIA

*[Alessia Brescia Inizia a fotografare all’età di sedici anni con macchine fotografiche analogiche, solo dopo un perio-

do dedicato alla pittura e alle arti plastiche continua a seguire la mia passione per la fotografia studiando e seguendo

corsi a Roma. Attualmente vive a Testaccio, e ha da poco completato gli studi in scienze politiche.]

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Breakfast Farm:Fuori Stagione è riuscire ancora ad immaginare un mondo che non esiste più rappresentandolo in chiave fia-besca riconducendoci alla nostra infanzia.

Partita Iva: Figlio di NessunoFuori Stagione è essere un libero professionista, fare un lavoro non riconosciuto e non tutelato come il foto-grafo che ti porta così a rincorrere una vita sempre più frenetica senza darti l’opportunità di sentirti pari ad altri. Il pensiero di un figlio diventa così un pensiero astratto e pieno di paure in cui rifugiarsi senza trovare la via di uscita.

DANIELA DI RIENZO

*[Nata a Roma nel 1978, Daniela Di Rienzo si diploma in grafica pubblicitaria e si specializza in fotografia presso

l’ISF (Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata) di Roma. Spinta dall’infinito desiderio di comunicare

con l’esterno per tutto ciò che la circonda e l’assorbe svolge una ricerca costante del presente, usando la fotografia

come mezzo espressivo, affinché ogni pensiero, timore e messaggio siano codificati dall’osservatore in un mondo

sfuggente. www.danieladirienzo.it]

I n s t a n t E > > >

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I n m o b i l e > > >

“Il mio sogno non sorge mai dal grembo

Delle stagioni, ma nell’intemporaneo

Che vive dove muoiono le ragioni

e Dio sa s’era tempo; o s’era inutile.”

Eugenio Montale da “Satura”

Nel tempo che fugge, inesorabile, scandito

da ritmi convulsi e routinari della vita

moderna, a volte ci si sofferma a rimirare

gli arbusti che imperterriti ogni anno

seguono il loro ciclo di nascita, fioritura

e morte. Guardiamo con naso all’insù

e scorgiamo una nuvola di storni e di

rondini il cui passaggio scandisce il fluire

naturale dalla stagione invernale a quella

primaverile. Calpestiamo foglie accartocciate

e scricchiolanti sotto le nostre suole e ci si

ricorda che l’autunno è oramai arrivato.

E gli sternuti, la patina biancastra che si

posa sui vetri delle nostre finestre o sui

cruscotti delle nostre auto: è lei la tanto

attesa primavera!

Sara Lombardo

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UNSEASONAL MOODSARA LOMBARDO

Inm

obil

e>>> Gli artisti, nel corso dei secoli, hanno espresso ed impres-

so le loro stagioni, i loro pennelli hanno solcato paste co-lorifiche e tracciato percorsi a ritmo di passaggi stagionali, mostrando al mondo che i cambiamenti climatici scandi-scono lo scorrere del tempo condizionando le nostre abi-tudini di vita.Da Botticelli, con la memorabile Primavera, ad Arcimboldo che costruisce volti assemblati di fiori e frutti, passando per il duro lavoro nei campi di Millet con Le spigolatrici, sino a Mucha le cui Stagioni si vestono di drappeggi sinuosi e lascivi, in cui corpi di donna personificano l’avvicendarsi dei mesi.Ma esiste quella stagione che ognuno di noi ha, nel suo intimo, che cambia indipendentemente dalla pioggia, dal sole o dalla neve, senza accartocciarsi sotto i nostri piedi rumoreggiando, che si mostra silente e si manifesta solo in determinate circostanze. Quell’isola felice o infelice di

tempo personale ed intimo muta a seconda del nostro umore o viceversa.Si colora di giallo ocra quando il giorno, anche in pieno dicembre, brilla di colori felici e avvolgenti; muta nel vivido verde prato ad un successo lavorativo, oppure si rabbuia nel grigio antracite per la perdita di un affetto.Ripercorrere pedissequamente il mutare sempre più fanta-sioso ed ingestibile delle stagioni canoniche con il proprio intimo sentire è impresa ardua e, a volte, si giunge ad un connubio perfetto mescolandosi insieme ed imbrattando la tavolozza di mille sfumature diverse.

Sulle note musicali di Franco Battiato ricordiamo la Sta-gione dell’amore, intramontabile testo che ci conduce in una stagione fuori dal comune, che potrebbe ben asso-ciarsi alla primavera!

https://www.youtube.com/watch?v=J1IT9WqI7zA

E l’intramontabile Vivaldi ci conduce con le sue Quattro ( e solo quattro, ben inteso!) Stagioni nel mondo musicale in-timista e sempiterno che, con la variazione e implementazione di strumenti musicali ricrea l’atmosfera giusta per ogni stagione!A questo proposito diverse compagnie di danza, sulle note vivaldiane, hanno messo in scena le loro stagioni.Spellbound Contemporary Ballet ” Le Quattro Stagioni ”Espressione di una artisticità e di un modello sia imprenditoriale che creativo in costante rinnovamento la Compagnia Spellbound esprime una ricca progettualità artistica unita a una visione dinamica e in forte relazione con il territorio sia locale che ultranazionale.

https://vimeo.com/208334163

Promo Le Quattro Stagioni_from summer to autumn - Compagnia Arearea 2016/2017 - Coreografia: Marta Bevilacqua, Roberto CocconiRitorna l’espressione del corpo che interpreta la musica. Ed ancora una volta il corpo parla e mutamento stagionale e dello stato d’animo sulla musica di Vivaldi.

https://vimeo.com/76797273

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Martesana, le stagioni città è un progetto di film documentario suddiviso in quattro parti, che corrispondono alle quattro stagioni. Ogni stagione rivela la natura di un paesaggio peculiare della città di Milano e insieme accenna a un tema differente.

L’Inverno sfiora quello della memoria, con delicatezza, come una suggestione. Mentre la neve ricopre il canale, il par-co, e tutto si fa ovattato e fermo, affiora qualche segmento della vita che fu.

https://vimeo.com/60580731

https://vimeo.com/223827296

L’Estate, documentario poetico sul naviglio Martesana di Milano:

La Primavera è il terzo episodio del lavoro sul naviglio Martesana di Milano:

https://vimeo.com/54297215

https://www.youtube.com/wa-tch?v=tjvqppshCfo

Carlo Ratti invece vuole indagare il rapporto tra la natura e l’abitare ovvero come il design, la creatività e l’innovazione possano integrarsi con la natura e conciliarsi con il rispetto dell’ambiente, il controllo dei consumi e l’impiego di materiali e tecniche sostenibili (Padiglione è presente di fronte a Palazzo Reale a Milano dal 17 al 25 aprile 2018).Living Nature è l’installazione tecnologica che vuole “riconnettere l’uomo con la natura” interpretando gli spazi interni dell’abitare attraverso le quattro stagioni. La mostra-installazione Living Nature, portavoce di questo tema, è un padi-glione-giardino in cui tutte e quattro le stagioni dell’anno coesistono insieme grazie a un innovativo sistema di gestione dell’energia per il controllo del clima. Sono racchiusi quattro microcosmi naturali e climatici che permettono alle quat-tro stagioni di coesistere nello stesso momento. Gli spazi domestici sono legati tra loro attraverso una serie di stanze e aree familiari, dove composizioni da orto e vari oggetti-icona di design definiscono e caratterizzano ulteriormente gli ambienti. I visitatori del padiglione possono quindi attraversare primavera, estate, autunno e inverno in un unico spazio, immergendosi nei cambiamenti climatici e cromatici portati dalle varie stagioni.

Fondazione CR Firenze - InOPERA - Video Installazione #InCollezioneSette schermi in verticale disposti a semicerchio, allestiti nel salone di ingresso a pian terreno, costruiscono una sorta di architettura, un boccascena teatrale che riempie lo spazio e la vista dello spettatore, dove le opere d’arte prendono vita. I paesaggi trasportano dentro l’opera: riflessi sull’acqua, voci e risate di donne al lavoro nelle campagne toscane, un foulard mosso da una lieve brezza di vento, barche che scivolano sull’Arno, il sole che tramonta sullo sfondo della “pescaia” di San Niccolò. I ritratti si animano: il volto della Madonna col Bambino, le braccia di Cristo in pietà; figure, colori, e simmetrie si susseguono e compongono le immagini.Musica e suoni lontani ci accompagnano in questa esperienza multisensoriale. Si apre il sipario, un assolo di violino ci accompagna, intona una melodia, infervora una battaglia, fumo, scalpitio di cavalli. Ad un tratto un flauto cambia l’at-mosfera: romantici paesaggi ritraggono le stagioni scandite dal lavoro nei campi, cavalli che si abbeverano ad una fon-tana, scene di vita quotidiana.

https://www.youtube.com/wa-tch?v=_766AGaX_ks

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Le Quattro Stagioni dell’Anima di Andrea PrandiIn occasione della collettiva “Nudo d’Arte” di ACAF-Artemisia Gallery, di Bergamo; organizzata nello spazio aDaArt Gallery di Barcellona dal 24 aprile al 12 maggio, l’artista illustra la sua composizione “Le quattro stagioni dell’anima”: pannelli fotografici su resina cm 80x80 . L’arte di Andrea Prandi spazia dalla pittura su tela all’illustrazione, dalla foto-grafia all’arte digitale, dalla sceneggiatura alla regia: nella sua più recente produzione, “Le Quattro Stagioni dell’Anima”, l’artista, unendo videoarte e fotografia, narra il percorso evolutivo dell’anima che muta nel tempo alla continua ricerca di se stessa.

https://www.youtube.com/wa-tch?v=MyxVSlKAfPg

I n c o n t r o > > >

Il plasmare con le mani un essere dalla terra, atto

che affonda le radici fin dal racconto della Creazione

dell’uomo e che dona all’artista durante il suo

compimento, quasi un momento di onniscienza.

Laura Di Marco presenta l’opera di Andrea Liberni

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“…INERMI…” – ANDREA LIBERNILAURA DI MARCO

La porcellana, è materiale usato di sovente da Andrea Li-berni, che come lui stesso ci spiega, possiede una “me-moria” che tende a far regredire la figura plasmata, alla propria forma originale. Una sostanza che oppone resi-stenza ad una sua forzata mutazione. Una lotta potrem-mo dire, tra la creatura ed il proprio ideatore. Ma anche la scultura come metafora del forzato adattamento dell’uo-mo alla realtà esterna, nel momento in cui egli viene alla luce. Il feto, dapprima argilla informe, espulso con fati-ca dalla mente dell’artista che lo genera. Ed è da questa resistenza che inizia il messaggio dell’artista che colpi-sce lo sguardo di chi osserva. La sofferenza visibile nel-le espressioni ed atteggiamenti di questi “homunculi”, ai quali volutamente non viene data importanza alla ricerca di perfezione dei loro corpi bianchi, alle loro estremità, ai quali intenzionalmente viene assecondata l’inerzia della materia che li compone ma la cui disperazione si riassu-me tuttavia nel perfetto dettaglio dei volti e nelle pose.

Quasi dei feti malformati ormai adulti, imprigionati da un divenuto ormai soffocante sacco amniotico. Li osservia-mo in tentativi di fuga, in una traversata delle acque sor-reggendosi l’un l’altro (ma c’è chi in quelle acque resta a specchiarsi: fermarsi a riflettere oggi è ormai il lusso di un vanesio?), tendendo il busto invano come il gambo di una pianta verso la luce, in direzione del margine di un quasi invisibile confine circoscritto che con il passa-re delle ore, solamente l’ombra dei loro arti allungando-si, quale illusione/sogno, al crepuscolo riesce a varcare. Inerme diviene dunque anche lo spettatore quando si spec-chia di fronte ai volti impersonali che in continuo sdoppia-mento, si susseguono compulsivamente sullo schermo. Inerme, davanti alla presa di coscienza del nostro sta-re al mondo spesso solo come figure abbozzate di piccoli uomini sempre tesi verso qualcosa da cui illu-derci di evadere, ma in realtà, inesorabilmente stati-ci, le nostre ombre solitarie, proiettate verso l’altrove.

< < < I n C o n t r o

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I n D I C A Z I O N I > > > LA STAGIONE DELLA POESIA PER ILARIA PALOMBA E LA SUA MANCANZAANTONELLA RIZZO

Ogni talento letterario ha assaporato il passo grave del-la mancanza, fino ad attraversare gli anni di piombo della crescita umana e artistica. Ilaria Palomba traghet-ta sé stessa dall’esperienza del romanzo a quella del-la poesia, compiendo un percorso inverso da quello di molti scrittori. Con Mancanza, la sua silloge per le edi-zioni Augh, compie felicemente il suo ingresso nella pa-rola poetica con la classe che la contraddistingue, una raccolta matura, malgrado la giovane età dell’autrice. Ci si imbatte in un personaggio squisitamente autentico, ingenuo, dalla carnalità inconsapevole e feroce che non prova risentimento. Questa caratteristica è rara nel pa-norama odierno che critica la complessità pur non co-noscendo altro modo di compiere l’esperienza. Ilaria Pa-lomba è una degna erede dei travagli del Novecento, una scrittrice di colta provenienza che mette a disposizione del suo talento una interiorità difficile da contenere, in una condizione di eterna borderline. Lo fa con una sag-gezza composta, paziente, abituata com’è a gestire un mondo enorme rispetto alla sua fisicità, con i mezzi in-tellettuali che coltiva come unica risorsa al mal de vivre.La Palomba guida la parola fino al suo compimen-to della sua funzione, non esagera con i virtuosi-smi inutili, artificiosi; non si spinge verso sterili provo-cazioni, distruzioni di massa, cannibalismo sessuale.La sua mancanza è la fame atavica dopo ogni pasto, quel margine tra il gesto e la felicità che non potrà essere col-mato da niente e da nessuno. Lo spleen, il retrogusto del costante abbandono non chiede la risoluzione del conflit-to perché teme il limbo più dell’inverno stesso. La poeti-ca di Ilaria Palomba è tagliata perfettamente a misura del suo senso di realtà e la percezione che se ne ricava è di un’opera corposa, di un suono scuro ma armonico, ac-cordato a mestiere. Antonio Veneziani è incisivo nella sua

prefazione e sancisce la sorellanza della Palomba con le voci inquiete della Poesia mondiale come Anne Sexton, la Pozzi, la Guidacci e le altre, tutte quelle che hanno rotto il patto con il conformismo di facciata, che sono uscite dal nido caldo della propria esistenza per sperimentare i pro-pri confini. Lo fa, come ho già detto, senza rivendicazioni o pretese di risarcimento ma con una sorta di delicatez-za e di garbo che conduce il lettore di poesia nella zona franca dove risiede l’oscura malinconia della Mancanza. Il suo è l’occhio di Redon che sovrasta l’esperienza uma-na, solcando cieli in grande solitudine. C’è chi potrà sol-levare obiezioni sulla discontinuità tra lo stile “urbano” dei romanzi e la dimensione aulica delle poesie; credo profon-damente nel pensiero articolato dell’autrice e nel suo de-siderio di attribuire a livelli diversi di percezione peculiarità

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specifiche di rappresentazione. Non ci è dato di sapere se questo intermezzo poetico rappresenti per la Palom-ba un’incursione felice nella sua carriera letteraria o l’i-nizio di una nuova consapevolezza; ci auguriamo di leg-gerla ancora in questa veste che emoziona e convince.

Ilaria Palomba ha pubblicato: I BUCHI NERI DIVORANO LE STELLE (Arduino Sacco Editore 2011) con il quale ha vinto il secondo premio nella XIV edizione del Premio Nazionale Osservatorio; FATTI MALE (Gaffi Editore, 2012) tradotto in tedesco dalla casa editrice Aufbau-verlag con il titolo TU DIR WEH (marzo 2013); VIOLENTATI (ErosCultura, 2013); IL CORSETTO (Lite Editions, 2013); IO SONO UN’OPERA D’ARTE (Edizioni Dal Sud, 2014); HOMO HOMINI VIRUS (Meridiano Zero, 2015); STREGHE POSTMODERNE (Alte-rEgo, 2016); UNA VOLTA L’ESTATE (Meridiano Zero, 2016).

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UNA PICCOLISSIMA MORTE - FRANCESCA DEL MOROVALENTINA MELONI

Io un lunghissimo bacio / e lentissimo ti darei/ fino a spa-rire in te/ e tu in me/ finché si disfa il tempo/ si dissolve ogni cosa/ e si fa buono il silenzio/ che ora mi addolora. Prendo i tuoi versi, Francesca, e ne faccio un respiro, quello sottratto alla piccolissima morte che ci coglie nel dolore delle frasi – taglienti – ferme in mezzo al petto o nel piacere del corpo tutto penetrato dalla luce. Un respi-ro per tornare incolumi da quella sospensione di senso, da quella dissoluzione dell’io che aneliamo nell’atto eroti-co: l’acme di ogni felicità, l’oblio del pensiero e dei corpi, la perdita del controllo di sé, l’intesa intensissima dell’i-stante atteso da decenni, sempre uguale, sempre diver-so, quando, come la bocca di dio spalanchiamo i corpi.Ringrazio che mi venga incontro la poesia per dire l’in-dicibile, la tua, perché occorre, perché mi cura una fe-rita esistenziale, quella in cui mi rivedo nella cor-sa alle sedie tutte prese, mentre la musica continua a suonare e io, come te, come altre donne intrappola-te in altre esistenze, scivolo, mi rialzo, mi siedo, cado.Noi, le imperfette, quelle “ah sei separata? interessante”, quelle che “tanto mi posso divertire”, quelle “prendiela-scialaquandotipare” ma anche quelle che scrivono quasi fosse preghiera: non ti farò mai del male e a te stella sali-vo/ salivo a te sogno a te angelo custode/ a te dio incar-nato per me atea salivo/ col corpo spalancato… Noi che sappiamo – davvero – quanto eros si avvicini a thanatos, quanto sia vera e – necessaria – la petite mort in «Ma-dame Edwarda» di Georges Bataille, quella che annulla sia il bisogno, sia il desiderio, abolendo tutte le tensio-ni che patiamo in vita. Perché l’erotismo del corpo fem-minile, nel suo essere sede di contrari, in quanto emble-ma della trasgressione e del suo divieto – essendo anche il corpo della madre – provoca una frattura nei soggetti che permette loro di superare i propri limiti e, in quell’at-

to piccolissimo di annientamento, di infrangere se stessi.Ma anche noi ci superiamo, superate da un tempo più velo-ce di noi, quello della perfezione, della famiglia felice che non è mai la nostra, quello del “femminile performante”, come lo definisci tu, e ci inventiamo un non tempo, un’isola felice, o quasi, una piccola morte che non è più solo quella dell’or-gasmo che ci lascia più spaesate di prima nell’abbandono, ma tante piccolissime morti, nelle poesie, nelle preghie-re, nelle speranze, nelle delusioni, nei ritorni inaspettati, in quella solita persistente sottile paura che cerchiamo di ag-girare con piccoli sotterfugi ma che, in realtà, ci tiene in vita. E allora come dire di quelle minuscole ferite che si aprono giornalmente al nostro desiderio di ritorno alla totale perdi-zione? Come esporle a un mondo che ci vuole belle, forti e sensuali, pronte ad assecondare un piacere che ci vie-ne negato, quello che non sta più nell’attesa paziente ma nell’irruente desiderio subito realizzato? Un piacere non più idealizzato nello stare appesi alle esigenze di un altro che non è mai nostro se non in quegli istanti di spaesamento

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della dolce morte? Perché è solo questo il fine, le piccole morti quali l’estasi, la preghiera dei mistici, gli stati di ab-bandono, l’effusione erotica, il riso o la poesia, non sono che aperture tra individui in cui avviene il contatto tra ferite aperte: la sospensione di quella discontinuità che ci rende impossibile comunicare in maniera totalizzante e profonda. Ecco allora che la paura e il godimento, la pienezza e la frammentazione, coincidono in questa tua piccolissima morte. Scrivi: sul tuo petto respiro la forza/ la protezione il pericolo/ e mi guardo allo specchio/ e sono grandis-sima e bella/ e tu dici sei una meraviglia/ e poi mi vol-to e mi avvolgo/ nell’amore senza scampo. E poi anco-ra: Il coltello è fermo / in mezzo al petto/sento il freddo/ del metallo, il taglio/ ostacola il battito/ costringe il respi-ro/ a un percorso alternativo/ spacca il corpo/ longitudi-nalmente/ io gli tremo intorno/ e lentamente mi separo.Si toccano gli estremi come si congiungono i corpi in una genesi continua dell’essere donna, nella pienez-za di questa meravigliosa condizione che non si sottrae né alla bellezza, né al nutrimento d’anima e corpo, né al dolore, né all’annientamento che accade nel segreto ta-ciuto, qui rivelato, di farsi l’amore negato, di conceder-si al piacere autoerotico come gesto vero di restituzione, incontro all’amore verso cui sempre dovremmo essere chiamate, quello per noi stesse: Una voglia adunca/ di morire/ il dito che mi scava/ nel sesso che hai disabitato.Infine scrivi una chiusa perfetta, un verso che, da solo, basterebbe a giustificare qualsiasi abbandono, qualsiasi dolore, separazione e annullamento: nell’amore ogni cosa risplende. Perché la stagione dell’amore è un fuori-tempo, si pone cioè al di là di ogni durata temporale, di ogni età, di ogni calcolo e predestinazione. Ma per raggiungerlo si deve essere pronti a lasciare tutto, a perdere se stessi, a frattu-rarsi in mille pezzi, per risuonare in un canto di offerta di un

giorno sempre nuovo, ogni volta fuori da qualsiasi tempo preordinato: […]Oggi è il giorno/ in cui verrai,/ il giorno della gioia,/ lo spillo nel tempo/ la data/ che sparirà dai calenda-ri. Un giorno che è già addio, come la Buonanotte di Emily Dickinson –perché il distacco, quello si è la notte – o l’im-permanente susseguirsi di Martina Campi citata nella dedi-ca in esergo: È così l’addio di ogni giorno/ la piccola morte che si ripete/mattina e sera/ mattina e poi, sera/scorrendo.Allora grazie, Francesca, per la meravigliosa voce che ci of-fri, per l’opportunità di esistere così come siamo, attraverso la poesia, attraverso le parole: fragili, imperfette, vere, come ogni altro essere che conosce benissimo il proprio desiderio, il proprio bisogno di essere amato come ineluttabile necessità.

Libro scaricabile in vari formati a questo link :http://www.larecherche.it/public/librolibero/Una_piccolissima_morte_di_Francesca_Del_Moro.pdf

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In Irlanda, poco lontano da Dublino – precisamente nella contea di Wicklow – potrete sperare in un inaspettato in-contro con l’elfica Enya. In quelle verdi e remote contee in cui sopravvive ancora il dialetto gaelico, trova il proprio cammino Eithne Pádraigín Ní Bhraonáin, nome un tantino scomodo da ricordare e, soprattutto, da pronunciare cor-rettamente, tanto che nel 1984, in occasione della colla-borazione alla colonna sonora del film “The Frog Prince”, si decise di adottarne la trascrizione letteraria della pro-nuncia, ovvero Enya. Sebbene stile e sound non si siano troppo modificati negli anni, la cantante irlandese ha go-duto di un successo altalenante, fatto di improvvisi lampi di luce con conseguente corsa alla vetta delle classifiche, alternata però a lunghi momenti di oblio e silenzio artisti-co. Allergica a relazioni amorose, vestale unicamente del-la sua musica, lascia che la propria vita privata rimanga perennemente avvolta dalle nebbie. Se tale scelta suscita

assensi riguardo alla modestia della cantante, è anche probabilmente croce della sua fama. Inoltre, a causa della complessità di esecuzione dei suoi brani, non concede facilmente performance completamente live – la televisio-ne italiana può vantarne un raro esempio in occasione del non troppo apprezzato 51° Festival di Sanremo del 2001, con la bellissima “Wild Child” - ed è più che normale che la schiera di fan sia assai selezionata e affezionata. Il per-sistente effetto multivocals, mediante il quale la voce della cantante viene sovrapposta centinaia di volte, crea i tipici cori d’angeli e ninfe che accompagnano la musica com-posta e suonata direttamente da lei alle tastiere elettriche e al pianoforte. “Caribbean Blue” rimane il singolo emble-ma della musicalità di Enya, utilizzatissimo per spot pub-blicitari e documentari: il tono fiabesco e suggestivo dei versi che qui si rincorrono vengono accompagnati da un trasognante tripudio di cori in latino, lingua decisamente

NOSTALGIE D’INCANTOMAURIZIO COIRA

fuori stagione, ma così deliziosamente adatta allo scopo. La lingua di Cesare viene utilizzata più volte nei brani della cantante irlandese, merito della sua paroliera di fiducia, Roma Ryan, che la segue sin dai suoi esordi e dimostra una cultura linguistica, poetica e semantica di singolare ri-cercatezza. “Cursum Perficio”, ad esempio, nella sua so-lenne semplicità coinvolge l’ascoltatore a 360°, evocando panorami acustici della tradizione canora gregoriana – merito sicuramente degli anni passati dalla giovane Eithne alla tastiera dell’organo della propria chiesa –; forse inte-resserà sapere che la Ryan non ha mai rivelato se il titolo “Cursum Perficio” (“ho terminato il viaggio”) sia un tributo alla scritta riportata accanto alla porta dell’ultima dimora di Marilyn Monroe, oppure derivi direttamente dalla lettera di S. Paolo a Timoteo da cui è tratta… Nel corso dei di-schi al latino si affiancano anche altri idiomi, veri o inven-tati: numerosi sono infatti i brani in gaelico, lingua madre della cantante, lo spagnolo de “La Soñadora”, il francese (“Only If…”) e anche il giapponese per la delicatissima e geishissima “Sumiregusa”. Quest’ultimo brano, che spo-polerà in brevissimo tempo nel paese del Sol Levante, già di per sé perdutamente innamorato della cantante, è sta-to ispirato da un haiku del poeta nipponico Basho, come spiega Roma Ryan in un’intervista. «Basho racconta che, durante una delle sue passeggiate in montagna, si imbat-tè in una piccola violetta selvatica, che toccò il suo cuore e lo commosse. […] Forse è una celebrazione della vita, o solo un momento che è unicamente nostro. In “Sumi-regusa” tutta la natura è uguale nel suo potere di ispirare, muoversi, toccare – da un piccolo ciottolo a una grande montagna, da una foglia verde ai molti colori dell’autun-no, dal canto degli uccelli a un fiore viola». L’ottima guida del produttore Nicky Ryan – che, insieme alla consorte Roma e alla stessa Eithne completa la triade celata sot-to il nome di “Enya” – porta inoltre la moglie a comporre nelle lingue tolkieniane anche due brani della colonna so-nora della trilogia de “Il Signore degli Anelli”: le suggestive “Aniron” e “May It Be”. Quest’ultima, inizialmente data in odore di Oscar, soffiato però da un film Disney, viene poi relegata ad accompagnamento dell’ennesimo reportage di guerra… Destino purtroppo condiviso da numerose tracce dell’artista. A riguardo, un caso a sé è rappresen-tato da “Only Time”: “Who can say / why your heart sighs / as your love flies, / only time. / And who can say / why your heart cries / when your love lies, / only time” [Chi può dire / perché il tuo cuore sospira / come il tuo amore vola, / solo il tempo. / E chi può dire / perché il tuo cuore

piange / quando il tuo amore mente, solo il tempo], canta sussurrando Enya tra evanescenti overdub accompagna-ti da una melodia malinconica e suoni elettronici ispirati all’acqua e al vento. Singolo di debutto dell’album “A Day Without Rain” del 2000, godrà inizialmente di una tiepida accoglienza, per poi tramutarsi alla fine dell’anno succes-sivo in uno dei più grandi successi della cantante poiché utilizzato come colonna sonora di un toccante documen-tario sull’attentato alle Torri Gemelle. Tale scelta, apparen-temente assai infelice, scatenerà un’impennata superso-nica delle vendite del singolo e dell’intero album, tanto da farle raggiungere per la prima volta la Top 10 della Billbo-ard Hot 100 e i primi posti delle classifiche in paesi solita-mente avari di plausi nei suoi confronti. In principio irritati dall’accostamento del proprio brano a una violenza e a un dolore così strazianti, Enya e Ricky Ryan decideran-no successivamente di pubblicare una versione speciale della canzone per raccogliere fondi per le famiglie delle vittime: «Sono felice di rendermi utile. Tutti vogliono aiuta-re in questo momento e penso che potremmo confortare quanti sono nel dolore», rivela lei a una rivista tedesca. Tre anni dopo gli altoparlanti delle discoteche pom-pano ripetutamente un pezzo R&B di Mario Winans e

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rappato da Puff Daddy, ballato da migliaia di perso-ne tra luci stroboscopiche e drink estivi. Forse però, “I Don’t Wanna Know” non sarebbe stato lo stesso sen-za il prezioso contributo di una discreta Enya: tutto il te-sto è sostenuto da un campionamento proveniente dalla suggestiva traccia “Boadicea” già pubblicata molti anni prima dalla cantante. Sepolcrale, intima e sacra, viene pensata come lamento funebre eseguito a pucciniana bocca chiusa per la regina celtica Budicca. Da ascolta-re prima la versione originale e poi la versione di Winans.Nuovo album, nuova sperimentazione: nel 2005 arriva “Amarantine” con il debutto in alcune tracce del nuovo idioma inventato dalla Ryan e ispirato alle rune di Tolkien: il Loxian. Benché criticato da svariati esperti di lingue anti-che per via della grammatica fortemente irregolare e della poca comprensibilità, questo linguaggio riesce inaspetta-tamente a sorprendere l’ascoltatore e a trasportarlo verso galassie lontane lontane, dove, ad attenderlo, non vi è un energumeno nero dal respiro stertoroso, ma bensì la fatata Enya. Tra i brani in Loxian, imperdibile “The River Sings”. Complici un ritmo martellante e le velature vocali, il brano

evoca il suono di un fiume frantumato in mille cascate, lo sciabordio dei flutti in piena, il frangersi dell’acqua sulla roccia. La sperimentazione del linguaggio delle stelle non si esaurisce con “Amarantine”, ma prosegue con nuovo vigore nell’ultima compilation del 2015: “Dark Sky Island”. Nome dichiaratamente ispirato all’isola di Sark, dove l’e-nergia elettrica e le tecnologie sono prudentemente limita-te e il cielo stellato si tatua nella memoria dell’osservatore, “questo album parla di viaggi, viaggi verso l’isola, lunghi tutta una vita, attraverso la storia, attraverso le emozio-ni e viaggi attraverso i grandi oceani. Benché non sia un vero e proprio album tematico, c’è questa sorta di filo conduttore che attraversa le canzoni”, così le parole della stessa cantante ripercorrono l’ultimo faticoso lavoro, nato dopo ben 7 anni di gestazione. Già da un primo ascol-to, l’album è attraversato da una vena di spensieratezza frammista a malinconia, tema ricorrente nei lavori di Enya e decisamente sostenuto dall’uso delle marcette – un po’ atipiche nel panorama della musica pop internazionale – e delle ballate stile celtico. Forse le tracce che più solletica-no le trombe di Eustachio rimangono “The Humming…”,

una ballata inneggiante al ciclo della vita e al “brusio” che lo accompagna e la squillante “Echoes In Rain”, un trionfante tintinnio di alleluia tra motivetti canticchiabili.Vessillata da sempre come regina della musica new age, etichetta da lei mai confermata, ma piuttosto scrutata con sguardo obliquo, è strano pensare a come decenni di carriera, lauree honoris causa, Word Musica Awards e Grammy Awards vinti, oscar sfiorati, colonne sonore – fatte ed evitate, vedi Titanic –, non siano riusciti a con-segnare a Enya il giusto tributo, relegandola nella nicchia della musica ambient, adatta a una cena formale, a un documentario o a una lezione di yoga. Spesso persegui-tata dagli immancabili detrattori e nello stesso tempo in-differente alle critiche, si porta tuttavia dietro la maledizio-ne di chi, probabilmente, è rimasta intrappolata nelle suo stesso stile, avvolta da abiti che, seppur riadattati per non risultare troppo fuori moda, mostrano sempre la stessa stoffa di fondo. Mi rincuora comunque pensare che, pro-tetta dalle mura del suo castello a picco sul mare, Eithne intessa incessantemente antichi canti che sanno di piog-gia primaverile, di brezza oceanica e di incensato infinito.

I n A s c o l t o > > >

*[Maurizio Coira è nato ad Anagni nel 1983 e vive a

Roma. Dopo aver conseguito due lauree e un dotto-

rato nel settore scientifico, decide di lasciare ricerca e

carriera universitaria per inseguire il suo sogno artisti-

co. Coltiva la passione per l’arte figurativa ed espone in

varie gallerie della Capitale; nel frattempo, si fa coinvol-

gere nel turbinio del mondo teatrale, prestando il suo

volto a vari personaggi della commedia classica. Con-

tando spesso solo sulla resistenza delle proprie gam-

be, comincia le sue peregrinazioni in giro per il mondo,

interessandosi alle tradizioni locali e, in particolare, alla

musica popolare. Con la cocciutaggine che lo contrad-

distingue, intraprende lo studio dell’arpa celtica assisti-

to da insegnanti di spicco del panorama musicale in-

ternazionale. Oggi si trova povero, ma incredibilmente

felice, circondato dalle sue arpe, da pile di libri e CD e

da orde di studenti. Collabora attivamente con riviste

e blog di ambito artistico, spaziando dalla musica alle

belle arti.]

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