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Ken Robinson FUORI DI TESTA Perché la scuola uccide la creatività

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€ 16,50

Molti pensano che creativi si nasca, esattamente come si nasce con gli occhi azzurri o castani, e che non ci si possa fare più di tanto. Eppure se qualcuno ci dice di non saper leggere o scrive-re, non pensiamo che non ne sia capace ma semplicemente che non gli è stato insegnato. Con la creatività è lo stesso: quando qualcuno mi dice di non essere creativo, penso solo che non abbia ancora scoperto come può esserlo.

Fuori di testa cerca di mettere a fuoco le ragioni per cui la maggior parte della gente non ha idea delle proprie capacità. Tutti nasciamo con talenti naturali, ma pochi di noi li scoprono né sono in grado di svilupparli. Paradossalmente, una delle cause di questo immenso spreco di talenti è proprio il sistema che dovrebbe valorizzarli: la scuola. Gli attuali approcci all’i-struzione sono infatti impregnati di convinzioni sull’intelligenza superate e adottano valutazioni standardizzate che soffocano la creatività e appiattiscono le ambizioni.Che siate studenti o impiegati, che lavoriate nel campo dell’e-ducazione, o nel mondo degli affari, troverete in questo libro suggerimenti e indicazioni molto utili e interessanti per il vo-stro futuro.

Non riusciremo a tenere la rotta verso il futuro sbirciando in-cessantemente nello specchietto retrovisore. Andare avanti così vorrebbe dire essere, letteralmente, fuori di testa…

FU

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I DI T

ES

TA

Robin

son

Ken Robinson è un’autorità riconosciuta nel campo dello sviluppo della creatività, dell’innovazione e delle risorse umane. È professore emerito all’Università di Warwick, in Gran Bretagna, e ha ricevuto numerose lauree honoris causa. Le sue celebri conferenze TED hanno registrato milioni di visualizzazioni in tutto il mondo. Il suo titolo di maggior successo, The Element: Trova il tuo elemento cambia la tua vita (Milano, 2012), è diventato un best seller tradotto in venti lingue.

Ken Robinson

FUORI DI TESTAPerché la scuolauccide la creatività

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€ 16,50

Molti pensano che creativi si nasca, esattamente come si nasce con gli occhi azzurri o castani, e che non ci si possa fare più di tanto. Eppure se qualcuno ci dice di non saper leggere o scrive-re, non pensiamo che non ne sia capace ma semplicemente che non gli è stato insegnato. Con la creatività è lo stesso: quando qualcuno mi dice di non essere creativo, penso solo che non abbia ancora scoperto come può esserlo.

Fuori di testa cerca di mettere a fuoco le ragioni per cui la maggior parte della gente non ha idea delle proprie capacità. Tutti nasciamo con talenti naturali, ma pochi di noi li scoprono né sono in grado di svilupparli. Paradossalmente, una delle cause di questo immenso spreco di talenti è proprio il sistema che dovrebbe valorizzarli: la scuola. Gli attuali approcci all’i-struzione sono infatti impregnati di convinzioni sull’intelligenza superate e adottano valutazioni standardizzate che soffocano la creatività e appiattiscono le ambizioni.Che siate studenti o impiegati, che lavoriate nel campo dell’e-ducazione, o nel mondo degli affari, troverete in questo libro suggerimenti e indicazioni molto utili e interessanti per il vo-stro futuro.

Non riusciremo a tenere la rotta verso il futuro sbirciando in-cessantemente nello specchietto retrovisore. Andare avanti così vorrebbe dire essere, letteralmente, fuori di testa…

FU

OR

I DI T

ES

TA

Robin

son

Ken Robinson è un’autorità riconosciuta nel campo dello sviluppo della creatività, dell’innovazione e delle risorse umane. È professore emerito all’Università di Warwick, in Gran Bretagna, e ha ricevuto numerose lauree honoris causa. Le sue celebri conferenze TED hanno registrato milioni di visualizzazioni in tutto il mondo. Il suo titolo di maggior successo, The Element: Trova il tuo elemento cambia la tua vita (Milano, 2012), è diventato un best seller tradotto in venti lingue.

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FUORI DI TESTAPerché la scuolauccide la creatività

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Indice

Prefazione 9

Capitolo primoFuori di testa 13

Capitolo secondoAffrontare la rivoluzione 29

Capitolo terzoIl problema dell’istruzione 55

Capitolo quartoL’illusione scolastica 83

Capitolo quintoSapere cosa si vuole 109

Capitolo sestoEssere creativi 137

Capitolo settimoSentirsi meglio 163

Capitolo ottavoNon sei solo 191

Capitolo nonoEssere un leader creativo 211

Capitolo decimoImparare a essere creativi 235

Postfazione 271

Bibliografia 273

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Prefazione

Non riusciremo a tenere la rotta nell’ambiente complesso del futuro sbirciando incessantemente in uno specchietto retrovisore.

Farlo vorrebbe dire essere fuori di testa.

La creatività è il più grande dono dell’intelligenza umana. Più il mondo diventa complesso e più dobbiamo essere creativi per fare fronte alle sfide che pone. Molte persone però si chiedono se hanno una qualche capacità creativa. Fuori di testa parla del perché la creatività sia così importante, del perché le persone credano di non essere creative, di come siamo arrivati a questo punto e di cosa possiamo fare al riguardo. La prima edizione di questo libro fu pubblicata nel 2001. Quella che avete in mano ora è un’edizione completamente riveduta e nuova. Dunque, perché una nuova edizione e in cosa in realtà è nuova?

Scrissi l’edizione originale di Fuori di testa durante l’anno 2000. Il pri­mo motivo per una nuova edizione è che da allora sono accadute tantissime cose, sia nel mondo in generale sia nel mio mondo personale. Quasi in ogni ambito, il ritmo del cambiamento è diventato ancora più convulso e i temi al centro di questo libro sono diventati ancora più urgenti. Consideriamo il ritmo del cambiamento nelle tecnologie. Dieci anni fa, per la maggior parte delle persone Internet era ancora una novità. Non c’erano smartphone, non c’erano iPod; niente Facebook, Twitter, YouTube né la maggior parte dei siti di social media che stanno ora trasformando la cultura e l’economia in tutto il mondo. Sono successe anche molte altre cose — dagli effetti globali degli

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eventi dell’11 settembre all’impatto cumulativo della Grande recessione — che dieci anni fa semplicemente non si potevano prevedere: nella politica, nell’economia, nella cultura e nell’ambiente. L’essenziale imprevedibilità delle vicende umane sta esattamente al cuore della mia tesi sulla necessità di coltivare le nostre energie creative: nel lavoro, nell’istruzione e nella vita di ogni giorno.

Il secondo motivo di questa nuova edizione è che oggi ho anche altre cose da dire riguardo a molte delle idee centrali del libro e riguardo a cosa dovremmo fare per metterle in pratica. Nel corso degli ultimi dieci anni ho presentato e discusso queste idee con persone a ogni livello in ogni tipo di ambito: amministratori delegati di multinazionali e organizzazioni non profit, politici, artisti, scienziati, studenti, genitori e educatori. Queste espe­rienze hanno reso ancora più profonda la mia convinzione circa l’importanza e l’urgenza delle argomentazioni esposte in Fuori di testa e la necessità di farle arrivare a un pubblico ancora più ampio.

Il terzo motivo è che negli ultimi dieci anni non soltanto è andato avanti il mondo ma sono andato avanti anch’io. Nel vero senso della parola. Quando scrissi la prima edizione, la mia famiglia e io vivevamo a Stratford on Avon, una piccola cittadina in Inghilterra e luogo di nascita di William Shakespeare. Ho scritto questa nuova edizione a Los Angeles, dove ora vivo. Una volta l’architetto Frank Lloyd Wright disse che se ribaltassimo il mondo su un fianco e lo scuotessimo, tutto quello che è sciolto finirebbe a Los An­geles. Subito dopo la prima edizione di Fuori di testa, la mia famiglia e io ci siamo sciolti e abbiamo fatto esattamente lo stesso. Potete immaginare che cambiamento morbido si sia rivelato… Da allora, ho viaggiato in tutti gli Stati Uniti incontrando molte persone straordinarie e venendo a conoscenza di iniziative affascinanti. Tutte queste esperienze permeano di sé questa nuova edizione, che pone un rilievo molto maggiore sugli sviluppi nelle Americhe, in Asia e in Europa. Il fatto è che sono questioni veramente globali.

Nel 2006 tenni un discorso alla famosissima conferenza TED (Technol­ogy, Entertainment, Design) a Monterey, in California, e accennai ad alcuni dei temi centrali di questo libro. Da allora quel discorso è stato scaricato più di 5 milioni di volte in oltre 100 Paesi.1 Tuttavia, mio figlio James e

1 Si veda Sir Ken Robinson, Do schools skill creativity?, TED Conference, febbraio 2006, http://www.ted.com/talks/ken_robinson_says_ schools_kill_creativity.html.

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Prefazione 11

mia figlia Kate mi hanno mostrato un video di 30 secondi su YouTube in cui due gattini sembrano parlare tra loro, video che è stato scaricato 30 milioni di volte. Perciò do alla cosa un’importanza relativa. So però che, a differenza del video dei gatti, il mio intervento alla TED è stato mostrato a conferenze grandi e piccole, a convegni ed eventi di formazione, in tutto il mondo. Oggi perciò si stima che sia stato visto da 100 milioni di persone. È un’indicazione del livello di interesse per questi temi. Tenni un secondo discorso alla TED nel 2010 e anche quello sta suscitando reazioni notevoli.2

Nel 2008 scrissi The Element: How finding your passion changes everything, pubblicato negli Stati Uniti nel gennaio del 2009 e da allora anche in molti altri Paesi del mondo (Robinson, 2009).3 In quel libro considero la natura del talento personale e della creatività e le condizioni nelle quali può svilupparsi al meglio. Per molti aspetti, Fuori di testa è un complemento naturale a The Element. Esamina in modo più approfondito le ragioni che rendono così impellente la necessità di sviluppare i nostri talenti naturali — soprattutto la creatività — e come e perché le organizzazioni in generale, e l’istruzione in particolare, tendano principalmente a soffocarli. Di conseguenza fui deliziato quando l’editore mi propose di lavorare a una seconda edizione di Fuori di testa per marcare il decimo anniversario della sua prima pubblicazione. Devo ammettere che all’inizio avevo in mente una revisione meno radicale. Immaginavo che avrei trascorso un lungo fine settimana con una bottiglia di chiaretto tanto per gradire e un programma di controllo ortografico, sistemando il testo originale. Alla fine ho praticamente riscritto l’intero libro, inserendo nuovo materiale e cercando di rendere le argomentazioni più incisive e il tono complessivo più accessibile. Perciò, se avete letto la prima edizione, non rinunciate a comprare (o a prendere in prestito) e a leggere questa nuova. È diversa per molti aspetti e penso che ci troverete abbastanza novità da ricompensare una seconda lettura. Se state prendendo in mano questo libro per la prima volta, sia che lavoriate nel mondo degli affari, nel campo dell’educazione, nel settore non profit o che siate preoccupati per il vostro potenziale creativo, sono fiducioso che vi troverete moltissime cose interessanti e avvincenti.

2 Si veda Sir Ken Robinson, Bring on the learning revolution, TED Conference, febbraio 2010, https://www.ted.com/talks/sir_ken_robinson_bring_on_the_revolution.

3 Trad.it. The Elements: trova il tuo elemento cambia la tua vita, Milano, Mondadori, 2012.

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In questo libro i miei obiettivi sono aiutare le persone a comprendere quanto le loro capacità creative sono profonde e perché potrebbero avere dubitato di esse; incoraggiare le organizzazioni a credere nella propria forza innovativa e a creare le condizioni nelle quali essa possa svilupparsi al me­glio; promuovere una rivoluzione creativa nell’istruzione. Nell’introduzione originale raccontavo che avevo intitolato il libro Out of our minds, ovvero Fuori di testa, per tre motivi. Ne ho ancora tre e sono questi.

Primo, l’intelligenza umana è profondamente e straordinariamente creativa. Viviamo in un mondo che è plasmato dalle idee, dalle convinzioni e dai valori dell’immaginazione e della cultura umani. Il mondo umano è fatto tanto dalle nostre menti quanto dall’ambiente naturale. Pensiero ed emozione non sono soltanto questione di vedere il mondo così com’è, ma anche di avere idee su di esso, di interpretare l’esperienza per darle signifi­cato. Le diverse comunità vivono in modo diverso a seconda delle idee che hanno e dei significati che sperimentano. Creiamo letteralmente i mondi in cui viviamo. Possiamo anche ricrearli di nuovo. Nella storia umana, le grandi rivoluzioni sono state spesso innescate da idee nuove: da modi nuo­vi di vedere che hanno mandato in frantumi le vecchie certezze. È questa l’essenza del processo di cambiamento culturale.

Secondo, realizzare il nostro potenziale creativo è in parte questione di trovare il nostro mezzo, di essere nel nostro elemento. L’istruzione dovrebbe aiutarci in questo senso, ma troppo spesso non lo fa e troppe persone ven­gono invece alienate dai propri talenti autentici; sotto questo aspetto sono fuori dal loro elemento e fuori dalle loro teste.

Infine, l’attuale orientamento delle politiche per l’istruzione è mosso da una sorta di mania. Anziché riflettere e discutere sulle strategie necessarie per affrontare questi straordinari cambiamenti, si ripete uno stanco mantra sull’innalzamento degli standard scolastici tradizionali. Questi standard sono stati concepiti per altri tempi e altri scopi, come avrò modo di spiegare. Non riusciremo a tenere la rotta nell’ambiente complesso del futuro sbirciando incessantemente in uno specchietto retrovisore. Andare avanti così vorrebbe dire essere, letteralmente, fuori di testa.

Ken Robinson

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Capitolo primo

Fuori di testa

Quando le persone mi dicono di non essere creative, penso che non abbiano ancora scoperto di cosa si tratti.

Quanto sei creativo? Quanto sono creative le persone con cui lavo-ri? E i tuoi amici? La prossima volta che ti trovi a un evento sociale, fai queste domande alle persone che incontri. Potresti rimanere sorpreso da quello che ti dicono. Ho lavorato con persone e organizzazioni di tutto il mondo. Dovunque io vada, trovo lo stesso paradosso. Per la maggior parte, i bambini pensano di essere molto creativi; per la maggior parte, gli adulti pensano di non esserlo. È un problema più grande di quello che potrebbe sembrare.

Creare il futuro

Viviamo in un mondo che sta cambiando più velocemente che mai e sta affrontando sfide senza precedenti. Come si manifesteranno in pratica le complessità del futuro è pressoché impossibile da sapere. Il cambiamento culturale non è mai lineare e di rado è prevedibile. Se lo fosse, le schiere di opinionisti dei media e di indovini culturali sarebbero superflue. È probabile che l’economista J.K. Galbraith avesse in mente queste dinamiche quando disse: «Lo scopo principale delle previsioni economiche è quello di far apparire rispettabile l’astrologia». Mentre il

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mondo gira sempre più veloce, ovunque le organizzazioni dicono di avere bisogno di persone capaci di pensare in modo creativo, di comunicare e di lavorare in gruppo: persone flessibili e rapide a adattarsi. Troppo spesso dicono di non riuscire a trovarle. Perché? Il mio obiettivo in questo libro è rispondere a tre domande rivolgendomi a chiunque sia seriamente in-teressato alla creatività e all’innovazione o semplicemente a comprendere il proprio potenziale creativo.1. Perché è essenziale promuovere la creatività? Grandi uomini d’affari, politici

e educatori evidenziano l’importanza vitale di promuovere la creatività e l’innovazione. Perché è così importante?

2. Qual è il problema? Perché le persone hanno bisogno di essere aiutate a essere creative? I bambini piccoli sono un fermento di idee. Cosa succede, crescendo, che ci porta a pensare di non essere creativi?

3. Di che cosa stiamo parlando? Che cos’è la creatività? Tutte le persone sono creative o lo è soltanto una minoranza selezionata? La creatività può essere sviluppata e, se sì, come?

Tutti ogni tanto hanno idee nuove, ma in che modo possiamo favo-rire la creatività come parte integrante della vita quotidiana? Chi dirige un’azienda, un’organizzazione o una scuola, come fa a rendere la creatività sistematica e di routine? Come si promuove una cultura dell’innovazione?

Ripensare la creatività

Per rispondere a queste domande è importan-te essere chiari su che cos’è la creatività e su come funziona nella pratica. Ci sono tre concetti intercon-nessi, che svilupperò man mano che andiamo avanti. Sono: l’immaginazione, che è il processo con il quale si evocano mentalmente cose che non percepiamo con i sensi; la creatività, che è il processo con il quale si sviluppano idee originali che hanno valore; l’innovazione, che è il processo con il quale le idee nuove si traducono in pratica. Al riguardo ci sono varie convinzioni errate, soprattutto sulla creatività.

«Parto dalla premessa che tutti abbiamo enormi capacità

creative come effetto naturale dell’essere

esseri umani. La sfida è svilupparle. Una cultura

della creatività deve coinvolgere tutti, non

soltanto una minoranza selezionata.»

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Persone speciali?

Spesso si pensa che solo alcune persone speciali siano creative: che la creatività sia un talento raro. Questa idea trae forza dalle storie di icone della creatività come Martha Graham (1894-1991), Pablo Picasso (1881-1973), Albert Einstein (1879-1955) e Thomas Edison (1847-1931). Le aziende spesso suddividono la forza lavoro in due gruppi: i «creativi» e i «giacca e cravatta». In genere è possibile distinguere i creativi perché non portano giacca e cravatta. Vestono in jeans e arrivano tardi perché hanno avuto difficoltà lavorando su un’idea. Con questo non voglio dire che i creativi non siano creativi. Possono esserlo moltissimo, ma se le condizioni sono quelle giuste può esserlo chiunque, anche i giacca e cravatta. Tutti abbiamo enormi capacità creative. La sfida è svilupparle. Una cultura della creatività deve coinvolgere tutti, non soltanto una minoranza selezionata.

Attività speciali?

Spesso si pensa che la creatività abbia a che fare con attività particolari, come la danza o la pubblicità o il design o il marketing. Tutte queste attività possono essere creative, ma allo stesso modo può esserlo qualsiasi altra cosa, come le scienze, la matematica, l’insegnamento, il lavoro con le persone, la medicina, la presidenza di una squadra o la gestione di un ristorante. A volte le scuole hanno sezioni di «arti creative». Io sono un irremovibile sostenitore del miglioramento dell’educazione alle arti nelle scuole. Più avanti spiegherò il perché. Ma la creatività non si limita alle arti. Ci sono numerosi motivi per insegnare le arti a scuola, come ad esempio l’importanza che hanno nel favorire la creatività e altri altrettanto validi. Allo stesso tempo, anche altre discipline, come le scienze e la matematica, possono essere creative quanto la musica e la danza. La creatività è possibile ogni volta che usiamo la nostra intelligenza.

Anche nel campo economico aziende diverse sono creative in campi diversi. Apple, ad esempio, è notoriamente abile nel creare prodotti nuovi. Altre, come Walmart, non hanno creato alcun prodotto: la loro area di in-novazione è la logistica, insieme alla gestione della catena di distribuzione e la determinazione dei prezzi di vendita. La catena di caffè Starbucks è creativa nel fornire servizi. Starbucks non ha inventato il caffè: ha creato un

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particolare tipo di cultura attorno ad esso. Di fatto, ha inventato la tazza di caffè da 5 dollari, che penso sia stata un po’ una svolta. Un’innovazione in una qualsiasi parte di un’azienda può cambiarne le sorti.

Imparare a essere creativi

Spesso si pensa che le persone creative siano nate tali, così come si nasce con gli occhi azzurri o castani, e che non ci si possa fare più di tanto. In realtà però si può fare molto per aiutare le persone a diventare più creative. Se qualcuno dice di non saper leggere o scrivere, non pensiamo che non sia in grado di leggere o scrivere, ma pensiamo che non gli è stato insegnato. Con la creatività è la stessa cosa. Quando le persone mi dicono di non essere creative, penso che non abbiano ancora scoperto di che cosa si tratti.

Libero sfogo?

La creatività viene spesso associata alla libera espressione, il che in parte è il motivo per cui l’idea di promuovere la creatività nell’istruzione preoc-cupa alcune persone. I contrari immaginano bambini che scorrazzano senza freni e rovesciano i mobili anziché impegnarsi nel lavoro serio. In effetti, essere creativi implica generalmente giocare con le idee e divertirsi; diletto e fantasia. Ma significa anche lavorare con grande concentrazione su idee e progetti, plasmarli nella forma migliore e intanto formulare giudizi critici riguardo a quale funzioni meglio e perché. In ogni disciplina la creatività attinge anche dall’abilità, dalla conoscenza e dal controllo. Non è soltanto questione di libero sfogo: è anche questione di tenere duro.

Comunque, perché tali questioni sono importanti?

Tre temi

Questo libro è percorso da tre temi fondamentali:1. il primo è che viviamo in tempi di rivoluzione;2. il secondo è che, se vogliamo sopravvivere e prosperare, dobbiamo pensare

in modo diverso alle nostre capacità e farne il miglior uso possibile;

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3. il terzo è che per far questo dobbiamo gestire le nostre organizzazioni e soprattutto i nostri sistemi di istruzione in modi completamente diversi.

Entrerò più nel dettaglio di ciascuno di questi temi nei prossimi capitoli, ma lasciatemi sintetizzare brevemente il mio punto di vista.

Affrontare la rivoluzione

Non importa chi sei o cosa fai: se sei vivo e sulla Terra sei nel mezzo di una rivoluzione globale. Intendo in senso letterale, non metaforico. Oggi sono attive forze che non hanno precedenti. So che è un’affermazione ardita, ma ha una sua giustificazione. Le vicende umane sono sempre state turbo-lente. La particolarità, ora, sta nel ritmo e nella portata del cambiamento. Le due grandi forze propulsive sono l’innovazione tecnologica e la crescita demografica. Insieme stanno trasformando il nostro modo di vivere e di lavorare; stanno sottoponendo a sforzo immenso le risorse naturali della Terra e stanno cambiando la natura della politica e della cultura.

Ovunque le nuove tecnologie stanno rivoluzionando il lavoro. Nelle vecchie economie industriali stanno riducendo in modo enorme il numero di persone addette all’industria e alle professioni una volta ad alta intensità di lavoro. Le nuove forme di lavoro si basano sempre più su alti livelli di cono-scenza specialistica e sulla creatività e l’innovazione. In particolare, le nuove tecnologie richiedono capacità completamente diverse da quelle richieste dall’economia industriale. L’industria manifatturiera si sta spostando nelle economie emergenti, soprattutto in Asia e in Sud America, così come accade per molte nuove forme di lavoro che implicano alti livelli di competenza nel design e nelle tecnologie dell’informazione. Data la rapidità del cambia-mento, i governi e le aziende di tutto il mondo riconoscono che istruzione e formazione sono le chiavi per il futuro e sottolineano il bisogno vitale di sviluppare le energie creative e innovative. Primo, è essenziale generare idee per nuovi prodotti e servizi e mantenere un margine competitivo. Secondo, è essenziale che l’istruzione e la formazione permettano alle persone di es-sere flessibili e adattabili, così che le aziende possano rispondere ai mercati in evoluzione. Terzo, tutti dovranno adattarsi a un mondo in cui, per la maggior parte delle persone, un impiego sicuro e a vita in un unico posto di lavoro è cosa che appartiene al passato.

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Capitolo terzo

Il problema dell’istruzione

I sistemi attuali di istruzione non sono stati pensati per fare fronte alle sfide a cui ora ci troviamo davanti. Sono stati sviluppati per rispondere

alle necessità di un’epoca precedente. Non basta riformarli: occorre trasformarli.

Uno dei motivi principali per cui così tante persone pensano di non essere creative è l’istruzione. Una volta Picasso disse che tutti i bambini nascono artisti: il problema è rimanere artisti anche quando si cresce. La creatività non ha a che fare solo con l’arte o con l’essere artisti, ma sono profondamente convinto che creativi non si diventa: si smette di esserlo. Spesso veniamo educati a non esserlo. La creatività è un processo con tante sfaccettature. Implica molte capacità comuni e alcune abilità e tecniche specialistiche; può essere favorita da molti modi diversi di pensare e si avvale del giudizio critico quanto della fantasia, dell’intuizione e spesso delle sen-sazioni di pancia. Le forme di istruzione dominanti reprimono attivamente le condizioni che sono essenziali allo sviluppo creativo. I bambini piccoli fanno il loro ingresso alla scuola dell’infanzia pieni di creativa fiducia in se stessi; quando terminano la scuola secondaria di secondo grado, molti hanno perso completamente quella fiducia in se stessi. È importante capire perché e come questo succede. Gli adulti possono riaccendere la creatività propria e altrui in molti modi. Ma se la creatività deve avere un ruolo fondamentale nel nostro futuro, come prima cosa deve arrivare al cuore dell’istruzione.

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Riformare e trasformare

Mentre la rivoluzione tecnologica ed economica acquisisce velocità, si riformano i sistemi di istruzione di tutto il mondo. Quasi sempre queste riforme si concentrano sul «miglioramento» del sistema esistente. La mag-gior parte dei Paesi ha una doppia strategia. La prima è aumentare l’accesso all’istruzione, in particolare il numero di persone che va all’università. La richiesta di titoli di studio cresce ogni anno, per cui istruzione e formazione sono ora uno dei più grandi business al mondo.

La seconda strategia è alzare gli standard. Gli standard di istruzione dovrebbero essere elevati e ovviamente innalzarli è una buona idea. Non ha molto senso abbassarli. Ma standard di che cosa? Istruire più persone e farlo a uno standard molto più elevato è cruciale. Ma dobbiamo anche istruirle in modo diverso.

L’istruzione non è e non è mai stato un processo neutrale di sviluppo delle capacità naturali delle persone. I sistemi di istruzione di massa si fondano su due pilastri. Il primo è economico: sono stati modellati da idee specifiche sui mercati del lavoro, molte delle quali sono ora irrimediabilmente superate. Il secondo è intellettuale: sono stati modellati anche da idee parti-colari riguardo all’intelligenza scolastica, idee che trascurano altre capacità altrettanto importanti, soprattutto ai fini della creatività e dell’innovazione. L’indicatore forse più eloquente della necessità di una trasformazione è il fenomeno dell’inflazione accademica.

L’inflazione accademica

Iniziai l’università nel 1968 e la finii nel 1972. Allora avevo un aspetto diverso da ora. Non ero la persona garbata e sofisticata che vedete sul mio sito. Ero appassionato di hard rock, dei Led Zeppelin e, almeno esterior-mente, ne incarnavo la voce principale, Robert Plant. Avevo i capelli lunghi fino alle spalle, indossavo jeans e un lacero giubbotto da combattimento e le donne mi trovavano quasi pericolosamente attraente. Sicuramente era una mia impressione. Avevo 22 anni e valutavo le possibilità. Dovevo trovarmi un lavoro? Non ancora, pensavo. Non c’era fretta. All’epoca, chi si laureava aveva un lavoro decente pressoché assicurato e non importava molto in che cosa si fosse laureato. Poteva anche essere norvegese antico, e spesso lo era. I

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Il problema dell’istruzione 57

datori di lavoro comunque se li accaparravano. «Sai parlare vichingo» dicevano «vieni e gestisci la nostra fabbrica: è evidente che hai una mente molto acuta».

Negli anni Settanta e Ottanta, una laurea era il lasciapassare per il lavoro. All’epoca, se andavi bene a scuola e soprattutto se andavi all’uni-versità, avevi la garanzia di un lavoro sicuro. Se avevi una laurea e non un lavoro, probabilmente era perché un lavoro non lo volevi. E io non volevo un lavoro. Volevo «trovare me stesso». Negli anni Settanta lo potevi fare. Così decisi di andare in India, dove pensavo di potermi ritrovare. Ma si dà il caso che non arrivai in India; arrivai a Londra (dove, a essere sinceri, ci sono un sacco di ristoranti indiani). Sapevo però che non appena avessi voluto un lavoro lo avrei trovato, e presto così fu.

Nel 1950, gli studenti che avevano un buon diploma si aspettavano una vita professionale stabile, magari rimanendo sempre nella stessa azien-da fino al pensionamento. Ora è improbabile. Per certi aspetti avere una laurea è comunque meglio che non averla, ma serve solo a introdurti nel mondo del lavoro: una volta che ci sei entrato non ti dà sicurezze. I laureati che trovano lavoro nel 2012 non si aspettano di essere ancora nella stessa azienda nel 2050 né che quell’azienda nel 2050 ci sia ancora. Durante la loro vita lavorativa, potrebbero cambiare più volte non soltanto il posto ma anche il tipo di lavoro che fanno. Ci sono molti buoni motivi per prendere una laurea. Il processo che porta a conseguirla dovrebbe meritare di per se stesso di essere intrapreso e nei casi migliori lo merita davvero. Ma i titoli di studio universitari sono anche una forma di valuta: nel mercato del lavoro hanno un tasso di cambio con impieghi o ulteriori possibilità formative. Come tutte le valute, il loro valore può salire o scendere a seconda delle condizioni del mercato e di quanta valuta è in circolazione. In passato le lauree universitarie avevano un valore di mercato alto, in parte perché erano relativamente poche le persone a possederne una. La crescita demografica, combinata con l’espansione del lavoro amministrativo e professionale, fa sì che ora un numero senza precedenti di persone vada all’università. Negli anni Settanta, nelle vecchie economie industrializzate, andava all’università una persona su 20. Attualmente l’obiettivo è una su 3, per arrivare a una su 2.

Secondo l’UNESCO, il numero di persone che nei prossimi trent’anni conseguiranno titoli di studio formalmente riconosciuti sarà superiore alla somma complessiva dagli inizi della storia. Di conseguenza, il valore di mercato delle lauree sta crollando. Occorre qualcosa di più per portarsi in

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testa alla folla. I lavori per i quali in passato bastava una semplice laurea ora richiedono anche un master o addirittura un dottorato.

Alcuni anni fa feci parte di una commissione universitaria di nomi-na. Chiesi al presidente della commissione che cosa stessero cercando nei candidati. Accennò alle varie qualità e qualifiche essenziali per il lavoro in questione e poi disse: «Penso che stiamo cercando qualcuno che abbia anche un buon dottorato». «Un cosa?» dissi. «Un buon dottorato» disse lui. «Invece di cosa?» dissi «Di un pessimo dottorato?». Intendeva una persona che aveva conseguito un dottorato presso un’università di eccellenza. C’è stato un tem-po in cui, se avevi un dottorato, facevi parte di una minuscola percentuale della popolazione. Tutti i dottorati erano visti con riverenza. Gli studenti di master occupavano una stanza separata e venivano nutriti con il plasma. I bambini venivano portati a vederli, e si diceva loro che questo era ciò che poteva aspettarli se non avessero ottenuto di più. Ora stiamo iniziando a fare gli schizzinosi. Vogliamo che i candidati a un posto di lavoro abbiano un buon dottorato. Quale sarà la prossima voluta della spirale? Il Premio Nobel? Alla fine vedremo vincitori di Premio Nobel che fanno domanda per un impiego d’ufficio e si sentono dire: «Va bene, lei ha un Premio Nobel, ottimo. Sa anche usare Excel? Ci serve qualcuno che riordini il libro paga».

L’idea, ora, è che estendendo l’istruzione e innalzando gli standard andrà tutto bene. La mossa finale prevede che, quando tutti avranno un dottorato, ci sarà un ritorno in termini di piena occupazione. Ma non ci sarà. I tassi di cambio della valuta scenderanno, i mercati cambieranno e i datori di lavoro cercheranno altro. Lo stanno già facendo. Il problema non è che gli standard accademici stanno calando. Il vero problema è che le stesse fondamenta sui cui sono costruiti i nostri attuali sistemi di istruzione si stanno muovendo sotto i nostri piedi.

Pilastri gemelli

La spinta politica a sviluppare sistemi nazionali di istruzione non fu puramente filantropica o umanitaria: fu anche economica. Nacque dall’im-pennata di esigenze della Rivoluzione industriale. I sistemi di istruzione che ne derivarono non soltanto erano concepiti in funzione degli interessi dell’industrialismo, ma erano creati a sua immagine e somiglianza in termini sia di struttura sia di cultura.

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Il problema dell’istruzione 59

La catena di montaggio

Oggi diamo per scontato che i governi forniscano istruzione di massa, che l’istruzione debba essere finanziata con denaro pubblico, che tutti i ragazzi debbano andare a scuola fino ad almeno i 16 anni e che un’elevata percentuale di essi debba proseguire con gli studi universitari. Per quanto ora possano apparire ovvie, queste idee sono relativamente nuove.1 Fu soltanto a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento che i Paesi di tutta Europa, così come molti Stati americani, iniziarono a istituire sistemi di istruzione pub-blica di massa. Dovunque, la storia dell’istruzione pubblica è un arazzo intri-cato di esigenze economiche concrete, di passioni filantropiche individuali, di movimenti contrastanti di riforma sociale e di convinzioni filosofiche ampiamente divergenti. Tuttavia ci furono alcune forze trainanti comuni.

In molti Paesi, la diffusione dell’industrializzazione nel Diciannovesimo secolo cambiò in maniera radicale la fisionomia della forza lavoro e creò strutture sociali interamente nuove. Le società preindustriali erano domi-nate dagli interessi delle vecchie aristocrazie e del clero, che governavano popolazioni ampiamente analfabete e generalmente povere che vivevano nelle campagne. Prima degli anni Sessanta dell’Ottocento, la stragrande maggioranza degli europei era analfabeta. Soltanto la Prussia, alcuni degli altri Stati tedeschi del nord e i regni scandinavi potevano vantare una diffusa alfabetizzazione (Gutek, 1972, pp. 203-204). La nascita dell’industrialismo creò enormi flussi di nuova ricchezza e una forza sociale completamente nuova: i benestanti e ambiziosi ceti medi.

L’istruzione era considerata un passaggio essenziale verso il miglio-ramento sociale e verso nuove opportunità economiche. L’istruzione era essenziale anche per creare condizioni di prosperità economica a lungo termine. Lo sviluppo dell’istruzione pubblica ruotò attorno agli interessi e alle ambizioni che i ceti medi avevano non soltanto per se stessi ma anche per le società industrializzate che stavano contribuendo a creare. Per la prima

1 In Gran Bretagna, l’istruzione formale per tutti fu introdotta nel 1870. Lo Stato si incaricò di fornire a tutti i bambini le basi per leggere, scrivere e far di conto fino all’età di 12 anni. Durante gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, si accinse a pianificare la ricostru-zione post-bellica del Paese. I programmi per l’istruzione vennero esposti nell’Education Act del 1944. Uno degli obiettivi principali era fornire a tutti i giovani una maggiore istruzione.

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volta, l’industrialismo fornì anche le risorse finanziarie per pagare i sistemi di istruzione di massa.

Mentre milioni di lavoratori si spostavano dalla campagna nelle città, per alimentare le fiamme dell’industrialismo nelle industrie e nei cantieri navali, iniziò a prendere forma un terzo gruppo sociale: le classi operaie urbane. Per alcuni pionieri dell’istruzione di massa, la scuola era un modo per elevare le aspirazioni delle classi operaie e tirarle fuori dalla povertà e dalla disperazione. Per altri l’istruzione era il modo migliore per promuovere i valori e le oppor-tunità che dovevano essere al cuore delle democrazie sane. Negli Stati Uniti, Horace Mann vide nell’istruzione per tutti il compimento naturale dei principi della Costituzione. Altri avevano una visione meno idealistica dell’istruzione di massa, considerandola il modo più efficiente per inculcare nelle classi ope-raie le abitudini e le conoscenze fondamentali per la produzione industriale.

Per tutti questi motivi, verso la fine degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta dell’Ottocento in tutta Europa spuntarono sistemi di istruzione o scuole elementari finanziati e diretti dagli Stati. Tali sistemi comparvero in Ungheria nel 1868, in Austria nel 1869, in Inghilterra nel 1870, in Sviz-zera nel 1874, nei Paesi Bassi nel 1876, in Italia nel 1877 e in Belgio nel 1879. Secondo il professor Gerald Gutek, all’arrivo della Guerra civile «il movimento per la scuola pubblica negli Stati Uniti aveva raggiunto il suo obiettivo di realizzare sistemi popolari di istruzione elementare nella maggior parte degli Stati. Dopo il 1865, furono istituite scuole negli Stati del sud. Man mano che entravano nell’Unione, anche nuovi Stati istituirono sistemi di istruzione elementare pubblica» (Gutek, 1972, pp. 203-204).

Alcuni scettici obiettarono che tentare di istruire i figli delle classi opera-ie era uno spreco di risorse pubbliche: questi bambini erano sostanzialmente ineducabili e non avrebbero tratto alcun beneficio da tali investimenti. Su questo si sbagliavano. Altri temevano le conseguenze sociali e politiche: istruendo le classi operaie, queste avrebbero sviluppato delle idee ben più evolute rispetto al loro status e questo avrebbe portato a una rivoluzione sociale. Su questo non si sbagliavano.

Fin dall’inizio, i sistemi di istruzione di Europa e Nord America fu-rono concepiti per soddisfare le richieste di manodopera di un’economia industriale basata sulla manifattura, sull’ingegneria e sulle attività correlate, tra cui l’edilizia, l’estrazione mineraria e la siderurgia. A grandi linee, l’in-dustrialismo aveva bisogno di una forza lavoro che era per l’80% manuale e

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per il 20% amministrativa e professionale. Tale richiesta ebbe una profonda influenza sulla struttura dei sistemi di istruzione. Il tipico modello di istru-zione era a forma di piramide, con un’ampia base di istruzione elementare che a salire si restringeva in una stretta sommità di istruzione superiore. La stragrande maggioranza dei bambini frequentava la scuola elementare e un numero minore ma comunque significativo di essi proseguiva con gli studi superiori. La maggior parte dei ragazzi lasciava la scuola a 16 anni, per trovare lavoro. Una piccola percentuale proseguiva gli studi. Quelli con buoni titoli si iscrivevano all’università, altri al politecnico.

In Europa, le scuole superiori erano generalmente di diverso tipo: licei per una minoranza di alunni che mostravano attitudine per questo tipo di studi e istituti tecnici o professionali per la maggioranza che non mostrava tale attitudine. Benché le politiche nazionali sottolineassero il valore di tutti i tipi di scuola, i licei, che alimentavano le università, godevano di status superiore, così come gli studenti che li frequentavano. Non è che solo una minoranza fosse in grado di andare all’università: la disponibilità di posti era limitata dalle richieste dei mercati del lavoro.

Quando queste richieste cambiarono, il numero di posti nell’istruzione superiore aumentò. Negli Stati Uniti e in Europa, l’espansione ebbe inizio negli anni Sessanta del Novecento, in parte per fare spazio all’incontenibile popolazione di figli del baby boom avutosi dopo la Seconda guerra mon-diale. La tendenza è poi continuata con le crescenti richieste della cosid-detta economia della conoscenza. Dagli albori dell’istruzione pubblica, nel Regno Unito l’espansione dei licei è andata di pari passo con l’istituzione di nuove università nei principali centri industriali.2 Fra il 1954 il 1966, il numero di ragazzi che terminava la scuola dell’obbligo con un titolo di studio che dava accesso all’università passò da 24.000 a 66.000. Durante gli anni Sessanta del Novecento, nel Regno Unito furono fondate nuove università per rispondere alle richieste dei figli del baby boom, processo che culminò nella creazione della Open University, che fornisce istruzione di livello universitario per tutti, attraverso l’apprendimento a distanza. I due terzi delle università britanniche furono istituiti dopo il 1960, quando i politecnici acquisirono lo status di istituti universitari.

2 Furono istituite le università di Birmingham (1900), Liverpool e Galles (1903), Leeds (1904), Sheffield (1905) e Bristol (1909).

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Capitolo sesto

Essere creativi

Quando le persone trovano il proprio mezzo espressivo, scoprono le loro vere capacità creative e si realizzano.

Aiutare le persone a entrare in contatto con le loro capacità creative individuali è il modo più sicuro per far uscire il meglio che hanno da offrire.

Nel capitolo primo ho detto che esistono molte idee sbagliate sulla creatività; che è considerata erroneamente dominio esclusivo di persone particolari o attività particolari; che o sei creativo o non lo sei; che è tutta questione di lasciarsi andare ed essere disinibiti. Cosa c’è di sbagliato in que-ste convinzioni? Che cos’è la creatività? Che rapporto ha con l’intelligenza? Come funziona concretamente?

Permettetemi di partire da Las Vegas.

Viva Las Vegas

Mia moglie Terry e io viviamo e lavoriamo insieme da più di trenta-cinque anni. È una grandissima fan di Elvis Presley. Non ho parole per dire quanto questa affermazione sia riduttiva. Nel nostro matrimonio ci sono tre persone. Per fortuna io sono vivo. Ma a essere sinceri è un vantaggio solamente marginale. Nel 2007 era il nostro venticinquesimo anniversario

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di matrimonio e decidemmo di rinnovare i voti nella cappella di Elvis. Ci andammo con trenta amici e tutta la famiglia, compresi i nostri due figli, James e Kate. Fu un fine settimana strepitoso. Scegliemmo il pacchetto Blue Hawaii. Ce ne sono altri, ma a noi piaceva quello. Il pacchetto com-prendeva il sosia di Elvis, quattro canzoni da scegliere fra dieci possibili, e fumo. Quando entrammo nella cappella, da un tubo accanto all’altare uscì uno sbuffo di fumo, presumibilmente per accentuare l’atmosfera di mistero e sacralità. C’era anche una danzatrice hawaiana, come optional. Avevo scelto anche quella, per motivi dei quali ero abbastanza compiaciuto in quelle circostanze. Per altri 100 dollari potevamo avere una Cadillac rosa, ma pensammo che fosse un po’ pacchiana. Avrebbe abbassato il tono dell’evento nel suo insieme.

Dopo la cerimonia demmo un ricevimento al Venetian Hotel, un luogo enorme che comprende, al secondo piano, una copia al chiuso di piazza San Marco, completa di Canal Grande, gondole e gondolieri. Sono stato a Venezia e per certi aspetti il Venetian Hotel è meglio. Lo sento più autentico e non puzza di acque di scarico.

Parlo di Las Vegas per un motivo. Se ci pensiamo, non ha ragione di esistere. La maggior parte delle altre città esiste per una ragione. Alcune, come New York o Barcellona, si trovano in porti naturali, perciò sono utili per il commercio. Altre si trovano in pianure o valli fertili perfette per l’agricoltura; o sorgono sulle rive di grandi fiumi, per cui vanno bene per gli insediamenti e i trasporti; oppure sono in cima ad alture, ideali per la difesa. Nel caso di Las Vegas non c’è nulla di tutto questo. Per quanto ne

sappia io, nessuno sta cercando di invadere il Neva-da. Las Vegas è in mezzo al deserto. I territori che la circondano sono lande selvagge e aride. Non ha ri-sorse idriche naturali, localmente non vi si pratica l’agricoltura e risente di temperature altissime. È il posto più improbabile del mondo per una grande città. Eppure per anni Las Vegas è stata una delle città americane che ha avuto la crescita più rapida, ed è famosa in tutto il mondo. In un certo senso Las Vegas occupa veramente il luogo più fertile del mondo: l’immaginazione umana.

«Per almeno un aspetto gli esseri umani sono radicalmente diversi dal resto degli esseri che vivono sulla Terra. Abbiamo la capacità

di immaginare. Di conseguenza, abbiamo

capacità creative sconfinate.»

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Essere creativi 139

Las Vegas nacque come un’idea. Un’idea che si rivelò talmente convin-cente da creare un turbine di energia immaginativa. Non vi sto chiedendo di approvare l’idea di Las Vegas: semplicemente di riconoscere che è inte-ramente e unicamente il prodotto dell’immaginazione umana. E lo è anche ogni conquista puramente umana in tutti i campi.

Immaginazione, creatività e innovazione

L’immaginazione è la fonte della creatività, ma immaginazione e crea-tività non sono la stessa cosa. L’immaginazione è la capacità di portare alla mente cose che non sono presenti ai nostri sensi. Possiamo immaginare cose che esistono o cose che non esistono affatto. Se vi chiedo di pensare a un elefante, alla vostra vecchia scuola o al vostro migliore amico, potete evocare immagini mentali tratte dall’esperienza reale. Di norma non considereremmo immaginative le immagini mentali di esperienze reali. Più precisamente, sono immaginali. Se vi chiedo di pensare a un orso polare verde vestito da donna, potete immaginare anche quello. Ma ora state portando alla mente qualcosa che non avete vissuto — almeno penso di no. Le immagini di questo genere riguardano possibilità create dalla mente, più che evocate alla mente. Sono immaginative. A volte confondiamo le esperienze immaginative con quelle reali. Le esperienze di questo tipo sono immaginarie. L’immaginazione comprende i pensieri immaginali, immaginativi e immaginari.

L’immaginazione è il più grande dono della coscienza umana. Con l’immaginazione possiamo uscire dal qui e ora. Possiamo rivisitare e rivedere il passato. Possiamo guardare il presente da un punto di vista diverso met-tendoci nei panni degli altri, possiamo cercare di guardare le cose con i loro occhi e di provare quello che provano loro. E con l’immaginazione possiamo anticipare tanti possibili futuri. Forse non saremmo in grado di prevedere il futuro, ma mettendo in pratica le idee prodotte dalla nostra immaginazione possiamo contribuire a crearlo. L’immaginazione ci svincola dalle circostanze immediate e porta con sé la possibilità costante di trasformare il presente.

Rispetto all’immaginazione, la creatività è un passo più in là. L’imma-ginazione può essere un processo del tutto privato di coscienza interiore. Potremmo starcene sdraiati immobili nel letto in uno stato immaginativo febbrile e nessuno se ne accorgerebbe. Ciò che una persona immagina nella

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sua mente potrebbe non avere alcun effetto sul mondo. La creatività ne ha. Essere creativi implica fare qualcosa. Sarebbe strano definire creativo qual-cuno che non ha mai fatto niente. Dire che una persona è creativa implica che realizza qualcosa in maniera deliberata.1 Le persone non sono creative in astratto; sono creative in qualcosa: nella matematica, nell’ingegneria, nella scrittura, nella musica, negli affari, in qualsiasi cosa. La creatività richiede di mettere al lavoro l’immaginazione. In un certo senso, la creatività è im-maginazione applicata.

L’innovazione è il processo con il quale si mettono in pratica le idee nuove. L’innovazione è creatività applicata. Per definizione, l’innovazione riguarda sempre l’introduzione di qualcosa di nuovo e/o di migliore, ed è generalmente considerata positivamente. Che lo sia o meno, nei casi speci-fici, è sempre questione di giudizi; e i giudizi possono sempre variare. Ma l’intento generale dell’innovazione è buono.

La mente creativa

Se portate fuori il cane e gli indicate la luna, il cane guarderà il vo-stro dito e poi probabilmente voi. Se portate fuori un bambino piccolo e gli indicate la luna, il bambino guarderà la luna. Questa abilità evoluta si chiama attenzione condivisa: la capacità di condividere le parole e un oggetto di interesse. Man mano che il cervello si sviluppa, i bambini apprendono l’idea che una cosa può rappresentarne un’altra. Questa capacità è alla base della conquista più importante della mente creativa: la capacità di pensiero simbolico. Il linguaggio è l’esempio più evidente. Quando impara a parlare, il bambino apprende che i suoni possono avere un significato e, alla fine, che le lettere rappresentano suoni. Gli altri animali hanno solo una capacità limitata in questo senso.

Se dite «prendi» a un cane addestrato, si preparerà subito a correre. Se gli parlaste dell’importanza di prendere le cose o di persone che avete co-

1 Questo può essere un processo altamente dinamico i cui esiti sono talora assai diversi da quelli previsti inizialmente. A volte, man mano che emergono idee e possibilità nuove, l’obiettivo cambia; a volte, come succede con le invenzioni e le scoperte, dopo che sono stati definiti un prodotto o un’idea iniziale, si individuano nuovi scopi.

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nosciuto che erano molto abili nel prenderle, resterà sdraiato con sguardo assente finché non gli lanciate il bastone. Mostrategli una foto del bastone e probabilmente la annuserà. Le capacità del cane non vanno molto oltre l’associazione tra suoni e azioni. Non si trasformano, con la rapidità che si osserva nei bambini, in facoltà sofisticate di pensiero e comunicazione.

La capacità di rappresentazione ha dato origine a forme molto com-plesse di linguaggio, alla matematica, alle arti, che permeano la coscienza umana e strutturano ciò che pensiamo e proviamo riguardo al mondo. Non ci limitiamo a guardare la luna: la collochiamo in articolate teorie sull’universo; non soltanto provia-mo sentimenti verso gli altri, ma siamo in grado di metterli in musica e in poesia. Non soltanto viviamo in comunità: costruiamo teorie e strutture politiche sofisticate.

Dire quello che si pensa

Generalmente per senso comune si crede che il linguaggio sia in pri-mo luogo un sistema di comunicazione: prima abbiamo i nostri pensieri e poi troviamo le parole per trasmetterli. Da tempo gli studi di linguistica e di psicologia dello sviluppo e cognitiva hanno dimostrato in maniera convincente che il linguaggio, sebbene sia senz’altro un modo raffinato di comunicare, riveste un ruolo ben più complesso riguardo a ciò che pen-siamo e come.2 L’origine della lingua che usiamo influisce su cosa e come pensiamo. Il bambino impara presto che le cose hanno un nome. Ma fa anche qualcos’altro. Assimila i modi di pensare resi possibili dalle parole. Questi modi di intendere variano enormemente da una lingua all’altra. In arabo, ad esempio, esistono molti modi diversi di dire «cammello». Oltre al vocabolo dell’arabo standard djemal, nel parlato si utilizzano varie cen-tinaia di altri nomi, a seconda del dialetto della zona. Avere le parole per descrivere le sfumature permette di vedere più facilmente le differenze tra

2 Si vedano, ad esempio, fra i molti altri, gli studi pionieristici di Benjamin Whorf, Edmund Sapir, Jean Piaget, Jerome Bruner e Noam Chomsky.

«La creatività richiede di mettere al lavoro

l’immaginazione. In un certo senso, la creatività

è immaginazione applicata.»

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di esse.3 Ma il linguaggio non è composto soltanto dal nome delle cose. È fatto anche di strutture grammaticali, tempi verbali, modi e sintassi; e anche questi cambiano, spesso profondamente, da una lingua all’altra. In alcune lingue dei nativi nordamericani, ad esempio, la semplice idea «vedo un uomo» non può essere espressa senza indicare, con altre parti del discorso, che l’uomo sia seduto, in piedi o che stia camminando.4 Il greco ha tempi e modi verbali che in inglese non esistono.

Queste differenze evidenziano i diversi modi «naturali» di pensare all’interno delle varie comunità linguistiche. Per un anglofono è relativa-mente facile imparare il francese o l’italiano, in parte perché molte parole si assomigliano, ma anche perché le convenzioni di queste lingue sono simili. Tutte e tre fanno parte della famiglia delle lingue indo-europee. Per un europeo può essere più difficile imparare il cinese, perché le convenzioni di base sono completamente diverse. Il cinese è una lingua tonale e prevalente-mente monosillabica. Di fatto, il cinese è tonale perché è prevalentemente monosillabico. Moltissime parole si compongono di una sola sillaba e nello scritto vengono rappresentate con un solo carattere. Il numero di parole con suono simile sarebbe ingestibile senza un qualche modo per distinguerne il significato, ed è qui che entra in gioco la voce. Alle parole vengono dati un tono — alto, medio, basso — e un’intonazione, o contorno. Mentre si pronuncia la parola, la voce rimane piatta, o si alza, o si abbassa. Si può dire che il cinese sia una lingua cantata. Se cantate una nota sbagliata, la persona

3 Naturalmente, il nostro senso della realtà non deriva soltanto dalle convenzioni sociali. Dire che la conoscenza è influenzata da fattori sociali è diverso dal dire che la conoscenza è determinata da fattori sociali. Il fatto che, nella nostra cultura, si faccia una distinzione fra cani e gatti potrebbe essere dovuto a determinate condizioni sociali. La possibilità, per noi, di operare questa distinzione «ha qualcosa a che fare con i cani e i gatti». Il modello mentale di tutte le persone contiene alcune immagini che si avvicinano molto alla realtà accanto ad altre che sono distorte o inesatte. Tuttavia, affinché una persona possa svolgere le proprie attività, il modello deve avere una somiglianza generale con la realtà: «Ogni riproduzione del mondo esterno, costruita e utilizzata per orientare l’azione, deve in qualche misura corrispondere a quella realtà. Altrimenti la società non avrebbe potuto sopravvivere; i suoi componenti, se avessero agito sulla base di assunti completamente infondati, non sarebbero riusciti a creare neanche gli strumenti più rudimentali e a procurarsi, con essi, cibo e riparo dal mondo esterno» (Lawton, 1975).

4 Questa argomentazione viene sviluppata da George Herbert Mead (si veda Miller, 1973).

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Essere creativi 143

con cui state parlando sentirà un significato completamente diverso. Gli stranieri alle prime armi con l’apprendimento del cinese non possono evitare frequenti incomprensioni e gaffe, alcune più serie di altre.

Dall’altro lato, a differenza dell’inglese, del francese o dell’italiano, il cinese non usa le desinenze per esprimere concordanze, tempi e numero: questi vanno dedotti dal contesto e dall’ordine delle parole. Anche nella scrittura il cinese si differenzia dalle lingue europee, perché non ha alfabe-to. Ogni parola è un carattere distinto, che va imparato per intero senza il vantaggio delle lettere a guidarne la pronuncia. Per questo in Cina nel corso dei secoli si sono sviluppati moltissimi dialetti, tutti basati su una lingua scritta comune. Il risultato è che cinesi provenienti da parti diverse del Paese possono far fatica a capirsi parlando, ma riuscire a comunicare per iscritto. Un modo facile per afferrare questo concetto è osservare la tastiera di un computer: che sia inglese, francese o italiano, chiunque è in grado di comprendere le lettere e i numeri, anche se, leggendoli ad alta voce, darebbe loro nomi diversi.5

Crescendo all’interno della propria cultura, i bambini assorbono modi di pensare profondamente radicati nella particolare lingua che imparano. In questo modo, le lingue rivestono un ruolo centrale nello sviluppo della coscienza. Tuttavia, per quanto siano importanti, le parole non sono il nostro unico mezzo per pensare. Le parole ci aiutano a riflettere su alcuni tipi di esperienza, ma sono relativamente inutili per gestirne altri. Usiamo modi diversi di rappresentazione per esprimere tipi diversi di idea. Si racconta che una volta il compositore Gustav Mahler fosse seduto nel suo studio intento a terminare un nuovo pezzo per pianoforte. Mentre suonava, entrò uno dei suoi allievi, che rimase in silenzio ad ascoltare. Al termine del pezzo l’allievo disse: «Maestro, è meraviglioso. Che cos’è?». Mahler si voltò verso di lui e disse: «È questo» e lo suonò daccapo. Se le idee in musica potessero essere espresse a parole, non ci sarebbe alcun bisogno di scrivere musica.

Alcune idee possono essere espresse soltanto con la matematica. La matematica è il mezzo migliore per alcune forme di conoscenza, ma relati-vamente scadente per altre. Se vuoi descrivere i movimenti degli elettroni,

5 Per l’ideazione di questo esempio mi sono avvalso dei consigli e della competenza di Barrie Wiggham, ex funzionario del governo di Hong Kong e rappresentante di Hong Kong a Washington.

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ti serve l’algebra. Se vuoi esprimere il tuo amore per una persona, puoi usare la poesia. Se qualcuno vi chiede: «Quanto mi ami?», non dategli una calcolatrice dicendo: «Prendi qua, calcolalo tu».

Il velo delle idee

Se è vero che recepiamo la nostra esperienza del mondo attraverso la percezione sensoriale diretta, il modo in cui quelle informazioni vengono interpretate cambia da persona a persona. La natura dei nostri sensi deter-mina ciò che percepiamo. Ma, pur potendo usare gli stessi sensi, spesso le persone vedono i medesimi fatti in maniera diversa. Questo perché hanno punti di vista diversi. Potrebbero trovarsi in luoghi fisici differenti e vedere letteralmente le cose da angolature diverse. Se fosse tutto qui, qualunque controversia potrebbe essere risolta prendendo in esame il punto di vista di ciascuno e componendo una panoramica oggettiva. In teoria, questo è ciò che dovrebbe accadere nei tribunali. In pratica, mettere insieme il punto di vista di tutte le persone coinvolte spesso aumenta l’importanza dei dettagli nella disputa. Questo perché la nostra visione individuale dei fatti è pro-fondamente influenzata dalle idee, dai valori e dalle convinzioni attraverso cui interpretiamo le nostre esperienze. Questi influiscono su ciò che di fatto percepiamo e su cosa poi facciamo di tutto ciò.

L’intelligenza umana è un processo non soltanto di percezione, ma anche di selezione. Se così non fosse, ci sarebbero troppe informazioni in entrata, come una radio sintonizzata su tutte le frequenze. Quando osser-viamo una stanza, un paesaggio, la strada, non prestiamo pari attenzione a tutto ciò che è presente nel nostro campo percettivo. Notiamo alcune cose, altre no. Due persone su una stessa strada possono percepirla in maniera completamente diversa. Un vigile urbano potrebbe vedere un paesaggio di potenziali contravventori; un lavavetri una terra di opportunità. Un appas-sionato di uccelli che passeggia nel bosco vedrà il bosco in maniera diversa da un botanico interessato a piante rare. Se guidate una macchina gialla è

probabile che vedrete macchine gialle ovunque.Vediamo il mondo non così com’è, ma at-

traverso un velo di idee. Secondo alcune teorie dell’intelligenza esiste una via diretta dai sensi al cervello, alle azioni che intraprendiamo. La filosofa

«Vediamo il mondo non così com’è, ma attraverso

un velo di idee.»

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Essere creativi 145

dell’arte americana Susanne Langer ritiene che esista un processo intermedio. Afferma che il cervello assomiglia a un grande trasformatore: «La corrente dell’esperienza che lo attraversa subisce un cambiamento di natura non per opera […] del senso tramite il quale è entrata ma in virtù dell’uso principale che immediatamente se ne fa. Viene risucchiata nel flusso di simboli che costituisce una mente umana» (Langer, 1951).

Cosa vuoi dire?

Tutto può essere un simbolo. Un tramonto può essere simbolo di tristezza per voi e di euforia per qualcun altro, a seconda delle associazioni o dello stato mentale individuale. I simboli sono personali e psicologici. I simboli formali intendono significare qualcosa. Permettetemi di delineare una distinzione generale tra forme sistematiche e schematiche di rappresen-tazione simbolica.

Simboli sistematici

Le parole e i numeri sono esempi di simbolismo schematico. I sistemi numerici si sviluppano da un piccolo insieme di unità di base, che possono essere combinate in una varietà infinita di modi per esprimere significati precisi. Così come i numeri hanno un valore condiviso, anche le parole hanno significati convenzionali che possono essere definiti nei reciproci termini e regole sul loro uso, che hanno a loro volta un significato. Nel linguaggio verbale, le parole si susseguono in sequenze governate dalle convenzioni della sintassi.

Il simbolismo sistematico è governato da regole che distinguono molto chiaramente, attraverso procedure condivise, cosa ha senso da cosa non ne ha. In questi sistemi ci sono solo alcuni modi per combinare i vari elementi così che essi conservino un significato. Potremmo non conoscere tutte le parole in una certa frase, ma in generale riusciamo a riconoscere che la frase ha un significato perché conosciamo le regole del sistema. Se incontriamo una parola nuova, possiamo andarne a vedere la definizione e trovarne descritto il significato tramite altre parole. Di fatto non è sempre

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necessario cercare la definizione di una parola che non conosciamo, perché spesso il suo significato è chiaro dal contesto.

La natura sistematica del linguaggio è ben descritta dallo scienziato e filosofo Michael Polanyi, che si è chiesto cosa succederebbe se dovessimo sostituire ogni frase della lingua inglese con un’unica parola. In primo luo-go dobbiamo tenere presente, ha detto, «che con un alfabeto di 23 lettere potremmo comporre 238 — cioè circa centomila milioni — parole di otto lettere». Naturalmente, questo è anche approssimativamente il numero di neuroni presenti in un cervello umano.

Questo arricchimento per milioni di volte della lingua inglese la distruggerebbe completamente, non solo perché nessuno potrebbe ri-cordare tante parole, ma per la più importante ragione che esse sarebbero prive di significato. Infatti, il significato di una parola si forma e si manifesta attraverso il suo uso ripetuto, e la grande maggioranza delle nostre parole di otto lettere sarebbero usate solo una volta o tanto raramente da non poter acquistare ed esprimere un significato definito. (Polanyi, 1990, p. 176)

La chimica, ad esempio, afferma che i milioni di diversi composti sono costituiti da circa un centinaio di elementi chimici:

Poiché ciascun elemento ha un nome e un simbolo caratteristico, pos-siamo scrivere la composizione di ogni composto scrivendo gli elementi che contiene. […] Per classificare le cose in termini di caratteristiche per le quali abbiamo dei nomi, come facciamo quando parliamo delle cose, occorre la stessa dote di intenditore che il naturalista deve avere per identificare gli esemplari delle piante o degli animali. Così l’arte di parlare con precisione, applicando un ricco vocabolario in maniera esatta, rassomiglia alla delicata discriminazione praticata da un esperto tassonomo. (Polanyi, 1990, p. 177)

Simboli schematici

Le parole e i numeri si prestano bene a rappresentare le idee che possono essere esposte in maniera sequenziale. Le immagini, dall’altro lato, presentano l’intero insieme delle idee simultaneamente. Possiamo esprimere in forma visiva pensieri che non si adattano alle strutture delle parole. Dipinti, poesie, musica e danza sono esempi di simboli schematici. Il loro significato è espresso unicamente attraverso la forma che assumono. Se

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Essere creativi 147

vogliamo comprendere il significato di un dipinto, non possiamo consultare un dizionario dei colori per vedere cosa significano di solito il blu e il verde quando vengono accostati. Non c’è guida agli accordi e alle armonie che ci dica cosa comunichi una certa sinfonia né un cifrario che ci dica cosa significa una data opera teatrale. Non esistono significati prestabiliti per le forme simboliche d’arte che distinguano ciò che ha senso da ciò che non ne ha. Il significato di un’opera d’arte è accessibile soltanto nella forma parti-colare in cui viene espressa. La forma di un’opera d’arte è inseparabile non soltanto da quello che esprime, ma anche da come lo esprime. Un dipinto, un’opera teatrale, una sinfonia, un romanzo sono creazioni complesse e uniche che nascono da un’idea della forma e della conoscenza culturale più che da significati sistematici.

Le forme schematiche possono utilizzare simboli sistematici. Do-potutto, le opere teatrali, i romanzi e le poesie sono scritti in parole e la notazione musicale ci permette di vedere ogni nota in forma scritta. Ma la partitura non è la musica, così come il testo non è l’opera teatrale. Questi sono i simboli con i quali viene codificata l’opera schematica e sulla base dei quali va interpretata nella rappresentazione o dal lettore. Le parole possono essere utilizzate in modo funzionale per fare le cose di tutti i giorni. Pochi di noi dedicano tempo a perfezionare un appunto veloce o una e-mail da mandare a un amico o a un collega. Quello che ci interessa è cosa viene detto più che come viene detto: è il contenuto più che la forma. La poesia è una cosa diversa. Consideriamo questa, di William Butler Yeats:

Quando tu sarai vecchiaQuando tu sarai vecchia e grigia e piena di sonnoe ciondolante accanto al fuoco, tira giù questo libroe leggi adagio, e sogna il tenero sguardoche avevano i tuoi occhi, le loro ombre profonde;e quanti amarono i tuoi momenti di grazia felice,e amarono la tua bellezza, con vero o falso amore,ma uno amò l’anima tua pellegrina,e amò i dolori del tuo volto che cambiava;e curvandoti accanto ai ferri incandescentimormora, un poco triste, come Amore fuggì viae percorse le montagne alte sopra di noie nascose il suo volto tra una folla di stelle.(Yeats, 2005, p. 149)

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148 Fuori di testa

Per i poeti sono importanti non soltanto i significati letterali, ma anche le associazioni, su più piani, tra parole e tra i ritmi e le cadenze della poesia nel suo insieme. Comprendiamo una poesia, o un’opera teatrale, o la musica non soltanto riga per riga o nota per nota. L’opera nel suo insieme è più della somma delle sue parti. Il fatto che li comprendiamo nel loro insieme è una caratteristica dei simboli schematici.

Creare e ricreare

La coscienza umana prende forma dalle idee, dalle convinzioni e dai valori che ricaviamo dalle nostre esperienze e attraverso i significati che deduciamo da esse. Le nostre idee possono renderci liberi o prigionieri. Creiamo letteralmente il mondo nel quale viviamo; e c’è sempre la possibi-lità di ricrearlo. Come disse lo psicologo George A. Kelly (1963), «per dare significato ai fatti li intrecciamo con le idee e per dare significato alle idee dobbiamo sottoporle alla prova dei fatti».

Lo descrive come processo di approssimazioni successive. Le grandi idee generative della storia umana hanno trasformato la visione del mon-do e hanno contribuito a dare nuova forma alla cultura della loro epoca. Creiamo il mondo in cui viviamo e possiamo ricrearlo. È probabile che il comico George Carlin avesse in mente questo processo di evoluzione culturale quando disse: «Proprio quando avevo scoperto il senso della vita lo hanno cambiato».

Ciò che è vero per i cicli lunghi di cambiamento creativo in una cultura sociale è vero anche per i cicli più brevi di lavoro creativo da parte di singole persone e gruppi. Anche il processo creativo opera per approssi-mazioni successive.

Il processo creativo

Definisco la creatività come il processo di generazione di idee origi-nali e di valore. Le parole chiave qui sono tre: processo, originale e valore. Il più delle volte la creatività è un processo più che un evento. Definendo qualcosa come «processo» si presuppone un rapporto tra i suoi vari elemen-

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Essere creativi 149

ti: si presuppone che ogni aspetto e fase di quanto succede siano collegati a ogni altro. Essere creativi implica due processi che si intrecciano l’uno con l’altro. Il primo è generativo. Il secondo è valutativo.

Generare idee

La creatività ha caratteristiche simili in tutte le discipline. Il chimico vincitore del Premio Nobel Sir Harry Kroto è anche un grafico professionista. Gli chiesi quali differenze, per la sua esperienza, avesse riscontrato — ammesso ne avesse riscontrate — tra la creatività in ambito artistico e in ambito scientifi-co, in studio e in laboratorio. Disse che per lui il processo è esattamente lo stesso, anche se i risultati sono diversi (come vedremo nel capitolo settimo). In ogni processo creativo oltrepassiamo i confini di quello che sappiamo ora per esplorare nuove possibilità; ci avvaliamo delle abilità che abbiamo ora, spesso estendendole e sviluppandole secondo le necessità. Nelle prime fasi, essere creativi può consistere nel giocare con un’idea, nel pasticciare o nell’improvvisare sul tema. Può cominciare da una vera e propria mezza idea: da uno schizzo, un primo progetto o abbozzo di progetto; le prime note di una melodia o un indizio per la risoluzione di un problema. Possono esserci varie idee sul tavolo e una serie di possibili punti di partenza. La creatività non richiede sempre la libertà da ogni vincolo o carta bianca. Moltissimo lavoro creativo deve attenersi a direttive o convenzioni precise, e lavorando entro vincoli formali spesso si ottengono risultati eccellenti. Alcune delle poesie più belle sono in forma di sonetto, che ha regole fisse cui lo scrittore si deve attenere. Similmente, anche l’haiku giapponese pone al poeta vincoli formali specifici, così come molte altre forme di struttura poetica. Questi vincoli non inibiscono la creatività dello scrittore: le danno un’impalcatura. La conquista creativa e il piacere estetico stanno nell’usare forme standard per raggiungere effetti assolutamente particolari e intuizioni originali.

Come ho accennato in precedenza, essere creativi implica sempre fare qualcosa, per cui implica sempre usare qualche tipo di mezzo. Può essere un mezzo fisico, come il metallo, il legno, la creta, il tessuto o il cibo; può essere un mezzo sensoriale, come il suono, la luce, la voce o il corpo; può essere un mezzo cognitivo, come le parole, i numeri o la notazione musicale.

«La creatività è il processo di avere idee originali e di valore.»

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Capitolo decimo

Imparare a essere creativi

L’istruzione non è un processo lineare di preparazione al futuro: è coltivare i talenti e le sensibilità che ci permettono di vivere al meglio

la nostra vita nel presente e di crearci un futuro.

In tutto questo libro ho affermato che uno dei principali motivi per i quali così tante persone credono di non essere creative è riconducibile all’istruzione e soprattutto ai sistemi di istruzione di massa che si sono svi-luppati a partire dalla Rivoluzione industriale. Individui e organizzazioni possono fare molte cose, nell’immediato, per riaccendere le loro capacità creative. Ma c’è anche il bisogno urgente di trasformare l’istruzione. Ci sono tanti insegnanti creativi che fanno un lavoro meraviglioso nelle loro classi, uffici e laboratori. Ci sono istituzioni che perseguono programmi innovativi all’interno dei loro distretti, e interi distretti che lottano per fare altrettanto nella loro regione.

Per la maggior parte, tuttavia, queste innovazioni stanno avendo luogo non per volontà delle culture dominanti, ma loro malgrado. La sfida è quella di portare l’innovazione sulla vasta scala: trasformare l’i-struzione in un processo che affronta sul serio le vere sfide di vivere e lavorare nel Ventunesimo secolo. Che cosa implica questo processo di trasformazione?

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236 Fuori di testa

Trasformare l’istruzione

Permettetemi di iniziare con un’osservazione sulla terminologia. Oggi con «scuola» si intende un particolare tipo di istituzione formale che fornisce insegnamento organizzato, soprattutto ai giovani. In questa sede utilizzerò il termine in senso più ampio, riferendomi a ogni comunità che si propone obiettivi di apprendimento, rivolta a bambini o adulti, pubblica o privata, a frequenza obbligatoria o volontaria. Includo le istituzioni formali e i ra-duni volontari, dagli asili nido alle università, community college e istruzione a domicilio. L’istruzione è spesso associata ai bambini e ai giovani. Con «istruzione» intendo tutte le sue forme, dall’asilo nido all’educazione degli adulti. Quando uso la parola «studente» intendo chiunque sia impegnato in un apprendimento deliberato, a prescindere dalla sua età e dal contesto.

Adotto questo approccio per due motivi. Primo, le mie considerazioni riguardano essenzialmente le caratteristiche dell’insegnamento e dell’ap-prendimento, ovunque essi abbiano luogo. Secondo, le istituzioni assumo-no molte forme. Le strutture possono essere cambiate se c’è la volontà di cambiarle e se gli obiettivi sono chiari. Troppo spesso gli obiettivi vengono distorti dalle abitudini istituzionali. Come disse Winston Churchill: «Noi diamo forma alle nostre istituzioni e loro danno forma a noi». La sfida è ricreare le nostre istituzioni ripensando l’idea che abbiamo dell’obiettivo.

Una cultura della creatività

Nel 1997 il Governo britannico mi chiese di formare una commissione nazionale che sviluppasse una strategia per l’istruzione creativa nella scuola primaria e secondaria. C’era già una strategia nazionale per l’alfabetizzazione, nella quale si raccomandava tra l’altro che alla scuola primaria si dedicasse ogni giorno un’ora a insegnare a tutti gli alunni i materiali approvati dallo Stato per la letto-scrittura. Per la matematica c’era una strategia simile. Dalle conversazioni con alcuni membri del Governo avevo avuto l’impressione che sperassero potessimo raccomandare qualcosa di simile: forse un’ora di creatività, magari il venerdì pomeriggio. Sarebbe stata una strategia pulita e facile da conciliare con il sistema esistente. Ma le nostre raccomandazioni si spinsero ben oltre. Per promuovere in maniera sistematica la creatività nelle scuole è necessario trasformare l’intera cultura dell’istruzione.

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Imparare a essere creativi 237

Il modo migliore per realizzare tale obiettivo è fare quello che i decisori politici chiedono e tornare alle cose fondamentali. Spesso si ritiene che le «cose fondamentali» siano la lettura, la scrittura e le discipline quali scien-ze, tecnologia, ingegneria e matematica. Sono tutte importanti. Ma prima di parlare del curricolo, occorre porsi alcune domande più fondamentali sugli scopi dell’istruzione nel Ventunesimo secolo. A cosa serve e cosa c’è veramente al cuore del processo?

È utile un’analogia con il teatro.

Tornare alle cose fondamentali

Peter Brook è uno dei registi teatrali più innovativi e di maggiore suc-cesso dei nostri tempi. A Brook interessa fare del teatro un’esperienza il più possibile diretta e intensa. È convinto che troppo spesso il teatro moderno non sia né l’una né l’altra. Il suo scopo è stato inquinato dagli orpelli. Per Brook l’essenza del teatro è il rapporto fra un attore e il pubblico. Afferma che a questo rapporto non dovrebbe essere aggiunto nulla, a meno che non lo favorisca o lo migliori. «Posso scegliere un qualsiasi spazio e considerarlo un palcoscenico spoglio. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò che occorre per realizzare un’azione teatrale.» Eppure, dice Brook, quando parliamo di teatro non è affatto questo che intendiamo:

Sipari rossi, riflettori, versi giambici, risate, buio, tutte queste cose ven-gono sovrapposte in maniera disordinata nell’immagine confusa contenuta da un’unica parola universale. Diciamo che il cinema uccide il teatro e con quella frase ci riferiamo al teatro così com’era quando il cinema nacque, un teatro con botteghino, ridotto, sedili ribaltabili, luci della ribalta, cambi di scena, intervalli, musica, come se per definizione il teatro fosse questo e poco più. (Brook, 1995, p. 9)

Con il tempo, l’attività centrale del teatro è stata messa in ombra da ogni genere di orpello, come i successivi strati di vernice sull’opera di un grande maestro.

L’analogia con l’istruzione è diretta. Al cuore dell’istruzione c’è il rapporto fra insegnanti e studenti. Se gli studenti non imparano, non c’è istruzione. In molti sistemi scolastici, la limpidezza di quel rapporto è stata

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238 Fuori di testa

offuscata dai programmi politici, dai termini e dalle condizioni di impiego, dai regolamenti edilizi, dai regimi di valutazione, dai territori professio-nali, dagli standard nazionali e pubblici, e così via. In mezzo a questi altri interessi, i veri bisogni degli studenti sono facili da dimenticare e spesso vengono dimenticati. Questo è uno dei motivi per cui così tanti studenti escono dal sistema. Hanno l’impressione — a ragione, si dà il caso — che tutto il clangore del sistema non li riguardi.

Nell’istruzione, come in qualsiasi altro campo, la chiarezza degli obiettivi è cruciale, soprattutto quando ci sono così tante persone coinvolte in così tanti ruoli. Per funzionare, tutti i sistemi complessi dipendono da una molteplicità di ruoli, alcuni dei quali sono ruoli di prima linea e altri sono ruoli fondamentali di supporto. Le organizzazioni devono avere chiara l’attività fondamentale sulla quale tutti questi ruoli devono convergere e riconoscere che tutti i ruoli possono fornire contributi creativi a migliorarla.

Di recente ho visitato, su suo invito, una grande catena alberghiera per discutere l’approccio al coinvolgimento del personale. L’intera compa-gnia è consapevole del fatto che la sua attività principale è incentrata sulla comodità e sulla soddisfazione dei clienti e che ogni membro del persona-le ha un ruolo, diretto o indiretto, nel garantire che i clienti siano soddi-sfatti e che ritornino. Questa consapevolezza è condivisa non soltanto dagli

addetti che interagiscono direttamente con i clienti, ma anche da quelli che non interagiscono diretta-mente con loro, compresi il personale della lavan-deria, i lavapiatti e le squadre della manutenzione. Il successo del sistema nel suo complesso dipende da tutti loro. I lavapiatti sanno che uno stampo di rossetto su un bicchiere d’acqua può bastare a rovi-nare l’intera esperienza di un cliente e che il loro lavoro contribuisce realmente alla qualità del servi-

zio dell’hotel nel suo complesso. È questo senso di scopo condiviso a deter-minare la fama e lo sviluppo della compagnia.

Benché troppo spesso lo si dimentichi, l’attività principale delle scuole è migliorare la qualità dell’apprendimento degli studenti. Nell’istruzione i principi della leadership creativa valgono a ogni livello. I dirigenti scola-stici hanno una particolare responsabilità nell’alimentare una cultura che li realizzi, favorendo il coinvolgimento creativo di ogni componente della

«Se gli studenti non imparano, non c’è

istruzione. La chiarezza degli obiettivi è

essenziale.»

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Imparare a essere creativi 239

comunità, qualunque sia il suo ruolo. La cultura comprende tutto ciò che succede nella scuola e tutti coloro che, in un modo o nell’altro, nel bene o nel male, contribuiscono ad essa.

I principi della trasformazione

Nel capitolo terzo ho detto che l’istruzione ha tre scopi principali:– personale: sviluppare i talenti e le sensibilità individuali degli studenti;– culturale: approfondire la loro conoscenza del mondo;– economico: permettere loro di guadagnarsi da vivere e di essere economi-

camente produttivi.

Le argomentazioni che ho presentato riguardo la natura della creatività e della cultura indicano principi specifici con cui le scuole possono realizzare concretamente tali scopi.

Il talento è diversificato

Nella scuola, la visione ristretta concentrata sulle abilità scolastiche e su particolari discipline marginalizza inevitabilmente gli studenti, i cui veri interessi e le cui vere capacità afferiscono ad altri ambiti. Coltivare l’intera gamma dei talenti degli studenti richiede un curricolo più ampio e una gamma più flessibile di stili di insegnamento. Con questo non voglio dire che gli studenti dovrebbero studiare soltanto le materie che piacciono loro o verso le quali hanno un interesse naturale. Una delle funzioni dell’istruzione è quella di ampliare ed estendere gli interessi degli studenti in aree per le quali potrebbero non avere un’affinità naturale: è parimenti importante, tuttavia, che sentano che le loro capacità naturali vengono sollecitate e apprezzate in maniera adeguata.

Quando mia moglie Terry frequentava le superiori in Inghilterra, dove-va passare la maggior parte dei mercoledì pomeriggio d’inverno all’aperto, su un campo da hockey gelato. Non era la parte della settimana che preferiva. Era circondata da persone più alte, più veloci e più appassionate di hockey di quanto lo fosse lei. Per la maggior parte del tempo si sentiva come se fosse distesa impotente sui binari di un treno merci impazzito. Dice che

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non le sarebbe dispiaciuto così tanto se le ragazze che si divertivano a farla cadere sul campo da hockey fossero andate con lei una volta alla settimana alla scuola di danza, dove poteva far risplendere le sue capacità e dove si sentiva più a suo agio.

Questa diversità implica che nelle scuole l’ampiezza dovrebbe essere bilanciata con la profondità. Accanto a ogni comune curricolo dovrebbero esserci opportunità, per gli studenti, di approfondire le aree che li interessano particolarmente. Dovrebbero inoltre essere incoraggiati nella stessa misura molti tipi diversi di scelta di carriera. Non tutti, ad esempio, hanno bisogno o voglia di andare all’università e non tutti dovrebbero iniziarla subito dopo avere finito le superiori. Alcuni vogliono fare la scuola di design o quella di musica o di danza. Altri vogliono uscire nel mondo e iniziare subito a lavorare. Le comunità umane dipendono da un’eterogeneità di talenti, non da una singola idea di capacità.

L’apprendimento è personale

Come disse Socrate in un suo famoso aforisma, «educare è accendere una fiamma, non riempire un vaso». Tutti gli studenti hanno interessi e stili di apprendimento differenti. Ciò che viene loro insegnato, e il modo in cui viene insegnato, deve attivare le loro energie, la loro immaginazione e il loro modo particolare di imparare. Non si può fare in modo che una persona apprenda contro la sua volontà. Imparare è una scelta personale.

Naturalmente, in condizioni di costrizione e sotto minaccia di punizione, anche i discenti più riluttan-ti impareranno malvolentieri a memoria per evitare conseguenze spiacevoli. Ma lo spirito dell’istruzione democratica richiede che gli studenti imparino vo-lontariamente.

Esistono diversi programmi per incoraggiare gli studenti che abbandonano la scuola secondaria di secondo grado o l’università a riprendere gli studi. La maggior parte di essi si basa sull’attenzione all’in-

dividuo e sull’insegnamento personalizzato. Se l’istruzione pubblica fosse personalizzata fin dall’inizio, la abbandonerebbero molti meno studenti. Alcune persone sono del parere che personalizzare l’istruzione per ogni

«Personalizzare l’apprendimento per ogni studente è possibile. Uno dei modi in cui lo si può fare è tramite l’utilizzo creativo delle nuove

tecnologie.»