"Fuoco di Bivacco" di don Annunzio Gandolfi – storie e ... · Come il discorso arrivava ......

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collana sentieri - racconti

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ISBN 8-8054-212-5

Copertina:Cesare Reggiani

Disegni di:Adriano Perone e da «L’Esploratore»

© Nuova FiordalisoPiazza Pasquale Paoli, 1800186 Roma

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Annunzio Gandolfi

Fuoco di bivaccostorie e leggende scout

edizioni scout agesci / nuova fiordaliso

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INDICE

PREMESSA 7

APPENNINO MISTERIOSODue scouts misteriosi 15Il segreto di Brasimone 25Le campanine chiacchierine 31Hanno rapito Gesù Bambino 41La leggenda di Spettine 47

SU E GIÙ PER L’ITALIA«I sette vizi capitali» 63Il diavolo a Villanova 73Quattro gomme a terra 83Sua maestà la Sacca 89Il novizio fatato 97

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SENZA FRONTIERELa Squadriglia di nessun luogo 114Un sorriso scout 121Manoli 129

TEMPI DIFFICILIUna fibbia scout 139Lo «Scouting for boys» gli salvò la vita 149Il prezzo della libertà 151

LO STILE SCOUTLa campana della Bastiglia 161La leggenda del Vajont 169Tra la vita e la morte 151

PER CONCLUDERE 183

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PREMESSA

Qualche volta, d’inverno, al calar del sole, i campi diVillanova iniziano a fumare nebbia, col rinforzo del fiume,che sembra la fabbrica più qualificata di quella bambagiaatmosferica.Le cose perdono i loro contorni; non si distinguono più iconfini della terra e tutto sembra cullarsi a mezz’aria, in unambiente irreale e sonnolento.Allora chiudo le finestre, accendo il fuoco nel camino eaccontento quel furbone del gatto, che in queste occasioni èsempre appostato per saltare sulle ginocchia.La nebbia che ammorbidisce il mondo esterno e il fuocoche fa dondolare nella penombra i particolari del mio studio,danno un tocco magico a tutto mandando la mia fantasia inricreazione tra i prati della memoria scout. I ricordi si metto-no a giocare e io li catturo e faccio pagar loro una penitenza.Così sono nate tante leggende per il fuoco di bivacco. Fatti veri

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ma che il tempo ha rivestito a nuovo e collocato a mezz’aria,per cui è ormai difficile stabilire dove finisca la realtà e inizila fantasia, come il paesaggio di Villanova quando sale la neb-bia o, se preferite, come il bosco quando cerca di seguire lefiamme del bivacco con una danza di luci e di ombre.Anche le leggende hanno una loro dignità e un loro valo-re educativo. Quando infatti si parla del patrimonio cultura-le di un popolo, tra i tanti aspetti da prendere in considera-zione, un’attenzione particolare va rivolta ai frutti della fan-tasia, come la poesia, la musica, l’arte, la letteratura e l’epica.E cos’è l’epica se non la leggenda che affonda le proprie radi-ci nella storia?Anche a proposito di scautismo si può parlare di una cul-tura. Un fenomeno umano e giovanile così vasto, sia storica-mente che geograficamente, è ovvio che si presenti con un riccopatrimonio culturale. Il suo contenuto educativo ne è certa-mente l’aspetto più importante ma non si possono ignorare

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tutti gli altri aspetti con cui lo scautismo si presenta esterior-mente e che sono, per la loro originalità, i più conosciuti dal-l’opinione pubblica.Uniforme e stile scout, linguaggio e modi di dire, canzonie giochi tradizionali, bivacchi ed espressioni, jamborees e altremanifestazioni d’insieme, così come le tecniche scout di BillHillicourt, l’educazione fisica di Hébert; i disegni di Joubert odi Perone, i trappeurs di Mercanti e i romanzi di Delsuc e diFoncine, sono tutti aspetti della cultura scout. Quando poi unfenomeno umano è molto vasto, affida necessariamente unaparte della propria cultura alla tradizione orale. Nello scauti-smo questo trapasso di nozioni è tipico. Avviene così che la sto-ria spesso finisca con lo sfumare i propri contorni e debordare,

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trasformandosi nella leggenda. È un segno di fantasia e lafantasia è proprio una delle note caratteristiche delloScautismo, come l’avventura, altra fonte di leggende.Molti racconti di attività scout, sconfinano nella leggen-da: fatti realmente accaduti si trasfigurano; concetti e idee sitraducono in episodi, in parabole, in personaggi epici, sospe-si tra la realtà dei significati e dei concetti e la fantasia deiparticolari.Lo scautismo è ricco di leggende che hanno in sé tutto l’a-nimo e il fascino dell’associazione e sono importanti perchérappresentano un patrimonio di poesia popolare, creata, tra-mandata e continuamente arricchita nel tempo dalla fervidaed avventurosa immaginazione dei ragazzi.I nostri fuochi di bivacco sono certamente l’occasione piùpropizia per tramandare e per accrescere questo nostro patri-

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monio. I grandi poemi epici non sono forse nati proprio così,attorno ai fuochi? E a proposito di epica, di «epica scout» vor-rei ricordare che il materiale di questo libretto è stato da meradunato nell’80° anniversario dell’assedio di Mafeking. Fuin quell’occasione che Baden-Powell, vedendo in azione iragazzi, impegnati in tanti servizi, cominciò a pensare ai BoyScout, «esploratori di pace».

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Appenninomisterioso

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Due scouts misteriosi

Questa storia mi è stata raccon-tata da Piero, caposquadriglia deiBisonti del Bologna 16°, pressappo-co in questi termini:

L’anno scorso, durante il campo estivo, la mia squa-driglia fu inviata in Hike, per tentasei ore, fino al san-

tuario di Boccadirio.Tutto era andato bene fino al pomeriggio del ritorno.Eravamo un po’ in ritardo perché la compilazione dei

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disegni del santuario ci aveva portato via più tempo delprevisto.D’altra parte - come tu sai - la nostra squadriglia hasempre avuto la tradizione di presentare delle relazionid’impresa molto ben fatte, dettagliate e diligneti.Decidemmo allora di rientrare per il sentiero che,passando a sud attraverso i boschi, taglia fuoriCastiglione dei Pepoli e teoricamente doveva abbreviareil percorso. Sulla carta topografica la soluzione sembra-va ottima ma in pratica si rivelò fallimentare, perché ilfamoso sentiero era stato rilevato dagli operatoridell’I.G.M. nel 1934, quando serviva ai carbonari, ed ora,a distanza di quarant’anni, era ormai invaso e copertodalla vegetazione.Quando cominciarono a scendere le tenebre ci tro-vammo “imboscati”. In quel momento la mia responsa-bilità di caposquadriglia si mise in crisi: non sapevo più-dove portare i miei esploratori. Decisi allora di ordinareuna sosta per studiare insieme i da farsi.Mettemmo subito la cosa in ridee per cercare di vin-cere il timore comprensibile dei più piccoli e... non sololoro. Insomma ci eravamo persi!Poiché a stomaco pieni si ragiona meglio, decidem-mo di cenare con quanto ci era rimasto dei viveri, usan-do anche la piccola razione di emergenza, che in squa-driglia ci portiamo sempre dietro nelle uscite lunghe.Intanto si era fatto buio, un buio che sembrava anco-

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ra più intenso a causa della situazione «oscura» in cui citrovavamo.Mentre discutevamo se fermarci o continuare il cam-mino, per cercare di raggiungere il campo, sentimmo deipassi nel bosco e vedemmo tra gli alberi il fascio di lucedi una lampada a pile.Rimanemmo per un attimo interdetti ma poi ci ras-sicurammo quando le due ombre, che avanzavano insilenzio, alla luce del fuoco da noi acceso, si rivelaronocome due scouts in perfetta uniforme ed attrezzati per

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un hike.Nel periodo estivo, in quelle zone non è raro incon-trare altri scouts che campeggiano in località limitrofe.Fraternizzammo subito ma non riuscimmo ad impa-reare di che Reparto fossero. Come il discorso arrivavasu questo interrogativo, per quanto tentassimo di tratte-nerlo, finiva sempre per scivolare su altri diversi argo-menti.Uno dei due scouts era più loquace, l’altro più silen-zioso ma sempre attento e sorridente: un sorriso che,ripensandoci oggi, aveva qualcosa di misterioso.Parlando, i due scouts fecero capire di avere unabuona conoscenza della zona e si offrirono di aiutarci aritrovare la strada del nostro campeggio. Ci avrebberoaccompagnati anche per un tratto del sentiero, poichéstavano andando nella stessa direzione.Spento il fuoco e fatte scomparire le tracce, a cuor leg-gero riprendemmo allegramente il cammino.Le nostre «guide» si muovevano con grande sicurez-za nel bosco ed io mi chiedevo come facessero nel buio aritrovare il sentiero con tanta facilità.Il livello tecnico del loro Reparto doveva essere cer-tamente molto alto, a giudicare dalla preparazione deidue scouts.L’attenzione al percorso non li esimeva poi dalchiacchierare allegramente, ma sempre sottovoce -ricordo bene - forse per non turbare l’atmosfera nottur-

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na del bosco.Come erano padroni del percorso, ben presto s’im-padronirono del discorso, in un modo tanto piacevole dameravigliarci. Alla sensazione di paura, che le tenebreprima avevano destato nei nostri animi, ora era suben-trata una strana sensazione di tranquillità e di leggerez-za. Il buio era diventato come una morbida ovatta che ciproteggeva. Mi sembrava di camminare nelle, o meglio,sopra le nuvole. Questa sensazione confessarono poi diaverla avuta tutti i miei squadriglieri, ed anche oggi aripensarci, pur dopo tanto tempo, ci sembra di riprovar-la, come potrei dire, sulla nostra pelle. È una strana sen-sazione che credo di non riuscire a spiegare. Se ci provomi sembra quasi di rovinarla. Anche il tempo parevascomparso, quasi fossimo…fuori del mondo.Anche il secondo scout, quello più silenzioso e sorri-dente, prese la parola, dopo che l’altro ci aveva raccon-tato, con tanto entusiasmo, episodi della fraternità scoute dei Jamborees.Si mise a parlare della Legge scout, di tanti esplora-tori e di tante guide che l’hanno seguita con entusiasmo;ci parlò delle loro Buone Azioni e del loro impegno e delloro stile di vita. Il discorso fluiva semplice, sereno edavvincente. Il timore era veramente svanito e il bosco eratornato amico. Avemmo anche l’impressione che gli ani-mali selvatici si avvicinassero in silenzio, per veder pas-sare i loro amici scouts.

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Quando meno ce lo apettavamo - anche il tempo,come ho già detto, non sembrava per nulla trascorso -vedemmo in basso, nella valle, un gran fuoco, che sirifletteva danzando sulle tende del nostro campo.Evidentemente i capi, immaginando la nostra situazionedi difficoltà, tenevano acceso quel segnale, per aiutarci aritrovare la giusta direzione.Tirammo un gran sospiro di sollievo: ormai eravamo«a casa».I nostri amici indicarono un sentiero che prendevauna direzione diversa: loro dovevano proseguire perquello. Ci salutammo fraternamente e li vedemmo scom-parire nel buio.Solo allora ci accorgemmo che come non eravamoriusciti a sapere di che Reparto fossero, nemmeno ave-vamo imparato dove era accampato il loro Reparto.Arrivammo al campo col timore di una sgridata delCapo per il ritardo. Il suo tono di voce lasciava traspari-re una giusta preoccupazione, che doveva avergli tolto latranquillità fino a quel momento, e che ora finalmentepoteva essere messa da parte.Ci offrì un bel tè caldo coi biscotti poi chiese le ragio-ni del ritardo e si fece raccontare le nostre avventure.Arrivò anche l’Assistente che era uscito in macchina percercarci lungo la strada provinciale. Il «Don» si ripromi-se di andare il giorno successivo a ringraziare il Capo deidue scouts. Ma dove? Noi non eravamo in grado di dare

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delle indicazioni ma lui conosceva molto bene la zona esapeva quali potevano essere i luoghi di campo entro un

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certo raggio. Se i due scouts erano giunti a piedi finoquasi da noi e avevano una conoscenza così grande deisentieri locali, non dovevano essser accampati troppodistanti.Il nostro Assistente fece un largo giro in auto,esplorò proprio tutte le località che potevano ospitare letende degli scouts, interrogò parroci, carabinieri e botte-gai ma nessuno aveva visto altri esploratori accampatinella zona. Tutte le ricerche risultarono inutili: nessunReparto era nei dintorni.

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In tutti noi rimase il dispiacere di non aver ritrovatoquei due esploratori tanto simpatici e, oserei dire,…tanto scout.Poi venne la sorpresa: durante una riunione di squa-driglia, nel mese di Dicembre, prima del campo inverna-le, prendemmo dalla biblioteca di Reparto alcune vec-chie annate de’ «L’Esploratore» (quelle bellissime di unavolta), per cercare qualche idea di attività.Ci mettemmo a sfogliare le riviste ed improvvisa-mente una foto ci lasciò tutti di sasso: era la foto, e tuttici trovammo concordi nel riconoscerla, di uno dei duescouts che ci avevano aiutato in quella famosa notte,ormai passata nella leggenda. Ma come era possibile? Larivista, infatti, era stata stampata dieci anni prima e sottola foto era riportata la triste notizia della morte di quelloscout durante un’attività notturna del suo Reparto.Anche il nome corrispondeva. Ma c’è dell’altro: nessunodi noi, per quanti sforzi facesse, riusciva a ricordare ilnome dell’altro scout, quello più silenzioso, e, a tutt’oggi,nessuno è più riuscito a farselo venire in mente.Tu, che ne dici?.Qui finisce il racconto di Piero, ed anche il mio perchénemmeno io sono riuscito a dare una risposta all’interrogativo.A meno che...

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Il segreto di Brasimone

Gli scouts e le guide dovrebberopossedere tutti un “libro di caccia”su cui annotare le cronache piùsignificate delle loro attività.Dal libro di caccia di Marco:

C’era una volta... incominciò a raccontare DonNunzio, una delle prime sere al fuoco di bivacco, e

piano piano uscì dalla sua bocca tutta la leggenda diBrasimone, un giovane ardito e buono che aveva segui-to in esilio il figlio del suo re, sovrano delle contrade ove

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ora era posto ilcampo. Erano stati lonta-no tanto, poi saputala notizia della mortedel re, erano tornatiportando un segreto.Si era impadronitointanto della zona unre malvagio e cattivo,che tese loro unagguato all’ingressodella valle del RioTorto. Il figlio del refu ucciso, Brasimonescomparve e non siseppe più nulla di lui.Forse anche lui fusoppresso.La leggenda si ètramadata nella zonaattraverso centinaiadi anni, insieme aldesiderio di conosce-re quel segreto, manessuno fu mai ingrado di scoprire il

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mistero della scomparsa di Brasimone, quando…Eravamo ormai alla fine del campo e le fiamme delfuoco di bivacco avevano già la nostalgia delle ultimesere. Ospite inatteso arrivò il pastore, da noi tutti cono-sciuto perché giornalmente passava con le sue pecoreattraverso il campo, fermandosi volentieri a chiacchiera-re. L’arrivo del pastore, in un’ora così diversa dal norma-le destò un interesse particolare che si trasformò inansiosa curiosità quando iniziò a dire che, dietro insisten-za di don Nunzio, aveva cercato di radunare nella suamemoria tutti i ricordi di quando aveva sentito racconta-

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re dai suoi nonni su Brasimone. Ora, con l’aiuto di quei dati e per la grande cono-scenza che aveva della zona, gli sembrava di essere ingrado di poter indicare la località che avrebbe forse potu-to svelare il mistero: «Un grande albero in mezzo a duetorrenti, vicino a due sorgenti».Egli quel posto lo aveva visto infinite volte, ma nonlo aveva mai collegato con la leggenda. Ora però… per-ché non andare subito a vedere? Non era poi tantodistante! Comparvero delle fiaccole e degli attrezzi e cimettemmo subito in cammino.Alla luce delle fiaccole che si rispecchiavano lam-

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peggiando nel ruscello, la lunga fila degli scouts paludatiancora con la tenuta da fuoco, panni e mantello e fazzo-letto in testa, procedeva in una stretta valle, resa impo-nente da un contorno di abeti.Sembrava proprio una scena da leggenda medievale.Il pastore ordinò l’alt: i particolari topografici sembrava-no esatti.Coi badili si fecero due o tre sondaggi, poi un rumo-re sordo fece capire che forse si era trovata la posizionegiusta. Le vanghe affondarono febbrilmente tra l’erba easportarono uno spesso strato di terra, poi picchiaronosul duro: era un grande lastrone di sasso. Venti mani l’afferrarono e lo sollevarono lentamen-te. Sotto comparve uno spettacolo macabro: alcuneossa sepolte in mezzo a terra e sassi e tra esse unteschio che affiorava con un’occhiaia vuota e l’arcatasuperiore dei denti.I capi mossero pian piano le ossa ed ecco che trova-rono una capsula di legno chiusa. Non fu possibile aprir-la sul posto.Gli scouts si mossero di nuovo per ritornare alcampo. Ognuno commentava a suo modo la scoperta.Varie supposizioni si accavallavano ma comune era lacuriosità di conoscere il contenuto della capsula.Attorno al fuoco i capi si misero all’opera.Si sentiva solo il crepitio della fiamma, tutti gli occhierano fissi su di un punto.

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Finalmente la chiusura fu tolta e comparve una per-gamena:

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Le campanine chiacchierine

Se avrete occasione di attraversare il campeggio degliscouts o delle guide di Villanova o, sentirete ogni

tanto nell’aria il suono festoso di alcune piccole campa-nelle, appese agli alberi.Ce n’è almeno una per ogni squadriglia, con una stri-scia di carta appesa al batacchio a mo’ di banderuola, cheprende il vento e la fa tintinnare.È un richiamo argentino, delicato ma insistente :«LaB.A.! La B.A.! La B.A.!».Un tempo, gli scouts e le guide per ricordare questoloro impegno quotidiano di servizio, quando al mattinoindossavano il fazzolettone, annodavano insieme le duepunte inferiori e poi… non erano contenti finché nonavevano trovato l’occasione di fare una Buona Azione equindi di sciogliere anche quel nodo che ricordava il loroimpegno quotidiano.

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Naturalmente fatta una B. A. (come si dice in gergoscout) non si era dispensati da farne altre…Era un punto d’onore scoprire più occasioni possibi-li di rendersi utili e servizievoli.Il famoso romanziere francese Victor Hugo ha scrit-to che «Vivere soltanto per sé è una malattia.L’egocentrismo è la ruggine della personalità».Lo scout e la guida, per definizione, hanno il deside-rio di crescere sani e con una personalità forte e quindi…Almeno una Buona Azione al giorno debbono farla, acosto di andarla a cercare. Come si può altrimenti anda-re a letto tranquilli, senza «aver fatto un po’ di bene peravvicinarsi di più al Divin Figliolo Gesù», come dice lanostra preghiera?Quel nodo visibile era anche un «invito» a chi siincontrava perché approfittasse della disponibilità che gliveniva offerta da ragazzi desiderosi di rendersi utili.Vorrei ricordarvi poi che nello spirito di Bi-Pi (cosìgli scouts chiamano confidenzialmente il loro fondatoreBaden-Powell)la Buona Azione era immaginata come un«buon tiro birbone», ossia uno scherzo buono, piacevoleper chi lo riceve.Ecco: uno scout trova la sua gavetta lavata! Chi saràstato? Ai ragazzi piace scherzare; perché non indirizzarequesta loro caratteristica verso il bene piuttosto cheverso la molestia del prossimo?Anche la comunità avrà allora un vantaggio e non

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un’incrinatura, come nel caso dello scherzo fastidioso.Nella Buona Azione, come in uno scherzo, deve rimane-re, in quanto è possibile, la ricerca della sorpresa e il ten-tativo di lasciare sconosciuto l’autore.La B. A., lo avrete già capito, deve essere a vantaggiodi altri, non di se stessi. Non vale dire: «Oggi ho studia-to quindi ho compiuto la B.A.», anche se l’impegno sco-lastico è cosa buona e può… sorprendere i genitori.Deve anche essere voluta, ossia cercata deliberata-mente al di là del proprio dovere quotidiano. Non puòuno scout addormentarsi tranquillamente alla sera senell’esame di coscienza è stato costretto a cercare tra letante cose fatte nel giorno per trovarne una a cui appic-cicare l’etichetta di B.A.

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Oltre al nodo ci sono anche altre astuzie per ricor-dare questo primario dovere dello scout.In un Jamboree, un’esploratore americano mi regalò- e la conservo ancora gelosamente - una bella medaglia- coniata proprio per ricordare la B.A. Su un verso èriportato il giglio scout, segno del cammino nella giustadirezione e nell’altro la frase: «Passami dalla tasca destra(dei calzoni) a quella sinistra - quella del cuore - quandoavrai fatto la B.A.».A un ragazzo capita spesso di mettere le mani intasca e quindi una medaglia come quella non può passa-re inosservata se è ancora a destra.Le stesse maniche rimboccate, tipiche dell’uniformescout, sono il segno distintivo di un ragazzo attivo, checerca di rendersi utile. Mettetevi ben in testa che sacrifi-care tempo ed energie per il bene del prossimo non èuna perdita; è un arricchimento, che rende più feliceanche la propria esistenza.Iddio ci ha fatti secondo questo preciso progetto: piùdiamo più riceviamo.«Il risparmio energetico» nel campo del bene…impoverisce.Lo Scautismo lombardo stampava una volta unabella agenda quotidiana, che doveva servire soprattuttocome diario delle attività scout. Aveva un titolo benindovinato: «scinò», ossia sciogli il nodo (tutti i giorni).Ma torniamo alle campanine degli scouts di

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Villanova. Com’è sorta quell’usanza?Dovete sapere che fino a qualche anno fa due vecchifratelli vivevano in una casa isolata tra i monti dell’altoappennino bolognese. Là erano nati e là erano rimastiper tutta la vita.Mancavano le strade e non arrivava la luce elettricama in compenso l’acqua era buona e abbondante, l’ariapulitissima e la legna a sufficienza per tenere sempreaccesa una bella fiamma nel camino. Ogni stagionevariava il panorama, accendendo i propri colori sempre-vivi: dal giallo dei prati fioriti della primavera al rossodelle foglie d’autunno, al bianco smagliante delle nevid’inverno.Una volta la famiglia era numerosa. I figli erano unaricchezza perché lassù tutto si lavorava a mano e si tra-sportava a spalla.I Marchetti, così si chiamavano, si sentivano ricchianche perché vivevano sul «proprio» e ciò era sufficien-te per assicurare l’esistenza. Allora la gente aveva pochepretese: bastavano un po’ di frumento per il pane, unadecina di pecore per il latte e il formaggio, il maiale legalline e soprattutto le castagne e una gran fede in Dio.Le scarpe si toglievano per S. Giuseppe e si rimettevanodopo i Santi. Ogni venti giorni passava il bottegaio dellafrazione più a valle col somaro: portava sale, un po’ dicarne e qualche altra cosuccia e ritirava in cambio deiformaggi. Tra andata e ritorno impiegava una mattina,

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ma forse un po’ di tempo lo dedicava ad osservare la sel-vaggina poiché era un cacciatore accanito.

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Lassù c’erano allora anche altre costruzioni di sasso,immerse nel verde, ma servivano solo da alpeggio per l’e-state. Le famiglie che le usavano, ritornavano in paesecon gli animali dopo la raccolta delle castagne, quando igiorni diventavano più corti. I Marchetti invece rimane-vano. Pian piano, col tempo, la famiglia cominciò a sfol-tirsi: qualcuno partì attirato dal lavoro e dai guadagni delfondovalle, qualche altro morì. Alla fine rimasero solo idue fratelli, che non si erano sposati, e una manciatina dianimali. La loro vita era regolata dalla luce del giorno edall’alternarsi delle stagioni.Negli ultimi anni la loro casa fu un punto obbligatodi passaggio per gli scouts che si accampavano più inbasso verso il paese di Stagno. L’Hike personale di ven-tiquattro ore in val di Nadia, su per Caprevecchie e giùper Barbamozza, era il vanto degli scouts più anziani e...il timore dei più giovani.La casa dei Marchetti, a più di mille metri di altitu-dine, rappresentava uno dei rifornimenti di acqua eanche l’occasione unica per scambiare una parola e chie-dere una notizia o un’indicazione sui luoghi, poichéormai lassù da anni non passano più nemmeno i caccia-tori o i guardiaboschi.E fu così che Italo, uno dei due vecchietti, una voltache passammo con tutto il Reparto, ci regalò la primacampanina.L’aveva portata, addirittura dal Giappone, un altro

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fratello, che dal monte si era convertito al mare diven-tando marinaio. Con la saggezza dei vecchi lupi di mare

aveva detto ai fratelli:«Quassù si sentesolo il canto degliuccelli e il belaredelle pecore.Ricordatevi che nelmondo c’è anchetanta altra gente e c’èil Signore. Io, che hoviaggiato tanto, ve loposso proprio con-fermare.Attaccate questacampanella ad unalbero, come fanno igiapponesi; il ventola farà tintinnare eallora vi ricorderetedi me e degli altri».Poi era partitoper l’ultimo viaggio:ven-ne la guerra enon tornò più. Lasua campanina fuattaccata ad un ramo

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di marasco accanto alla casa .Gli scouts la notarono subito ed uno, più spiritosodegli altri, disse:«Siamo così in alto, vicino al Paradiso, che sugli albe-ri fioriscono addirittura le campane!»La battuta scherzosa piacque al Marchetti, chestaccò la campana e ce la porse.«Prendetela voi - disse - io sono quasi arrivato alParadiso; voi invece avete ancora tanta strada da percor-rere nella vita. Beata giovinezza! Fate suonare questacampana, ascoltatela e ricordatevi soprattutto di quantihanno la solitudine nell’anima e nel cuore. Ve lo dice ‘unvecchio eremita’ che non si è mai sentito solo».Fu così che la prima campanella iniziò il suo dialogo

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argentino con gli scouts e le guide di Villanova, durantei campeggi estivi. Da allora altre se ne sono aggiunte:una ogni buona azione realizzata dai Reparti.Appese aglialberi, pare proprio che sussurrino con cortese e lieta sol-lecitudine: «B.A.! B.A! B.A.!».E se qualcuno volesse fare le orecchie da mercante,vi assicuro che allora il loro suono diventa martellante erintrona nella coscienza.Qualche anno dopo, il più anziano dei Marchettimorì all’ospedale e Italo rimase solo tra i suoi monti,invano sconsigliato dai nipoti.Nel dicembre dell’Ottanta venne una gran neve,tanta da mettere in pericolo il tetto della casa. Deciseallora di scendere a valle dai parenti. Una bufera allora losorprese e morì assiderato lungo il sentiero, mentre inlontanaza le campane della parrocchia suonavanol’Avemaria della sera.Le nostre campanine ora suonano anche per lui e ciricordano che nessun uomo è solo.

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Hanno rapito Gesù Bambino

Quest’anno abbiamo fatto ilcampo estivo a Stagno, nella valledel Limentra di Treppio, al confinetra l’Emilia e la Toscana.

La parrocchia di Stagno è da molti anni senza parro-co, a causa dell’esiguo numero degli abitanti.

Molti anni fa una squadriglia di scouts, durante ilcampo estivo decise di compiere una Buona Azione afavore della parrocchia. Gli scouts pulirono ed ordina-

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rono la sagrestia. Trovarono anche le statue del prese-pio, abbandonate in uno scatolone di cartone: alcuneerano rotte, altre coi colori sbiaditi; mancava addiritturail bambinello.Gli scouts incartarono bene le statue perché nonsubissero ulteriori danni e si proposero di tornare perripararle. Qualcuno suggerì di tornare la vigilia di Nataleper costruire il presepio ed aiutare il sacerdote officiantenelle celebrazione della Messa di mezzanotte. L’ideapiacque e fu messa in esecuzione con l’aiuto dei genito-ri, che si prestarono al trasporto della squadriglia conalcune auto. Gli scouts portarono anche un bel BambinoGesù nuovo.I parrocchiani gradirono molto questo interventonatalizio e fecero trovare ai ragazzi la legna per accen-dere il grande camino della vecchia canonica nuova, una

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bella torta di castagne ed altri generi di conforto, cheallietarono l’attesa della Messa di mezzanotte ed anchegli scambi di auguri al termine della sacra funzione.L’esperienza piacque molto e si decise di trasformar-la in tradizione. Negli anni successivi ci fu un crescendodi successo. Aumentò la partecipazione dei genitori e siunirono anche le altre squadriglie, così che fu necessarionoleggiare un pullman per trasportare la numerosacomitiva. Ogni anno si studiava un’iniziativa diversa cheservisse ad allietare la vigilia unendo parrocchiani, scoutse genitori. Un anno, per esempio, fu organizzato un pre-sepio vivente: tutti gli scouts si abbigliarono da pastori,da personaggi del tempo, da magi e non mancarononemmeno le pecorine, fornite dai locali. Il corteo di que-sti personaggi, poco prima di mezzanotte, attraversò ilpaese ed entrò processionalmente in chiesa.Anche il presepio ogni anno si accresceva di nuovestatuine e di nuove costruzioni, spesso opera delle manie dell’inventiva degli stessi scouts.Tutti gli anni poi occorreva ricomperare la statua delBambin Gesù, che regolarmente e misteriosamente spa-riva dal presepio dopo l’Epifania. Per molto tempo que-sta sparizione rimase un mistero, poi una vecchiettaparlò! Erano gli stessi parrocchiani che a turno prende-vano l’immagine. Un anno era destinata ad una famiglia,l’anno successivo ad un’altra e così via. La prendevanoper ricordo della bella celebrazione natalizia, ma soprat-

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tutto per obbligare gli scouts a tornare.«Siete voi con la vostra presenza che ogni anno ciriportate Gesù Bambino nella notte santa di Natale -aggiunse la vecchietta - e la preoccupazione di non farmancare la statuetta certamente vi ricorderà quanto siaimportante per il nostro paese, ormai abitato solo daanziani, la vostra presenza natalizia. Senza il BambinGesù non si può fare il presepio e senza di voi nonpotremmo celebrare un gioioso Natale. I vostri canti, ilvostro semplice sorriso, le vostre iniziative ed il vostrolavoro spontaneo ci ridanno fiducia per un anno intero.Le statuette del bambinello, messe in bella mostra

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sulle credenze delle vostre famiglie del paese, ci servonoa ricordare per tutto l’anno che Gesù non è venuto inva-no, poiché ci sono ancora dei ragazzi che gli voglionobene e lo sanno render presente tutti i giorni tra gliuomini con la loro buona volontà».

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La leggenda di Spettine

Il campo scuola delleSpecializzazioni scout a Spettine ècertamente uno dei luoghi più famosie prestigiosi dello Scautismo italiano.Migliaia di esploratori e diguide vi hanno vissuto delle meravi-gliose esperienze di tecnica e di spi-rito scout.

Il campo è situato al centro di una verde conca appen-ninica; un drappeggio di bosco adorna l’imponenteedificio costruito dagli scouts piacentini, con il loro

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entusiasmo, con il loro impegno e soprattutto con leloro mani.Nella vecchia casa, sulle cui rovine è sorto l’attualeedificio, abitava una volta un falegname di campagna checostruiva o riparava carri, attrezzi agricoli, porte e mobi-li rustici. Dal bosco, ricco di legname di varie qualità,prendeva il materiale che gli serviva.Era sua cura poi ripiantare i vari tipi di alberi e farlicrescere diritti.Quella bella macchia di verde era chiamata, per que-sto, «bosco del carradore». Oltre gli alberi, anzi attraver-so un varco che si apre in mezzo alle loro cime, si vedo-no ancor oggi i ruderi arcigni di un vecchio castello.Dal campo vi si può arrivare in una ventina di minu-ti di cammino, salendo un ripido sentiero, che per la suabellezza naturale spesso è scelto dagli scouts per un’e-splorazione d’ambiente o per una veglia notturna itine-rante, con logica conclusione ai piedi delle mura delcastello, sempre un po’ misteriose, specialmente quandola luna piena, con il suo gioco di ombre e di luci argen-tati, crea una plasticità tutta medievale nel paesaggio.Naturalmente, come ogni maniero che si rispetti,anche questo ha una sua leggenda: immaginate che io vela racconti mentre voi siete seduti attorno a un fuoco ela mia ombra si riflette e danza contro le vecchie e scre-polate mura, colorate di mistero.Ma procediamo con ordine. Ecco alcune notizie sto-

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riche che ho trovato in un vecchio libro scritto nel 1805da Antonio Boccia e intitolato «Viaggio ai monti diPiacenza». Ci serviranno a fare mente locale.«Da Ebbio a Spettine vi sono quattro miglia e mezzo.Queste sono le più faticose e perigliose ch’io abbia fattoda che sono al mondo. Vi sono più strade per giungere aquesta chiesa, una peggiore dell’altra e la sciocca guidami favorì di condurmi per la più disastrosa, circuendo ilmonte dei Barbieri con dei saliscendi difficoltosi ecosteggiando per due miglia, per un sentiero poco più-largo di un palmo, con lo spaventevole aspetto di conti-nue profondissime ripe quasi a perpendicolo, sicurod’andare in pezzi, se il piede non avesse geometricamen-te compassato il terreno. Aggiungasi che il piano del sen-tiero era formato di minuti pezzi di carbonato di calceassai mobili che scorrevano assai facilmente essendopremuti dal piede, ond’è che conveniva appoggiarlo conogni cautela. La giornata era cocentissima, le ore le più-fervide poiché dopo il mezzogiorno appena.Il riflesso del carbonato di calcio, di cui è tessutaquella costa, nessuna ventilazione d’aria dei seni, chevi sono ad ogni tratto, ed il sempre presente pericolodi andare in frantumi, aumentavano il calore più dellecircostanze.Questa marcia fu così spaventosa e terribile, chesaputasi dai parroci circonvicini ne fecero le più altemeraviglie.

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«La chiesa di Spettine è molto antica e sarà fra nonmolto inaccessibile, perché dalla parte verso la Nura vi sisale per un strada corta bensì, ma altissima, che - quan-to prima - sarà impraticabile, e l’altra strada, che vienedalla costa già descritta, vicino alla chiesa va dirupando-si ed è sostenuta da una specie di ponte fatto con tron-chi d’albero che poggiano su due estremità delle ripe,che oggimai sono vicine alla chiesa».«Contiguo alla chiesa di Spettine eravo ne tempipassati un castello i di cui avanzi veggonsi tuttora».Come vedete, un vero percorso da Hike!Veniamo ora alla nostra leggenda.

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Una manciatina di secoli addietro, il castello eragovernato da un tristo figuro, che di nobile aveva solo iltitolo, ed era aiutato nelle sue malvagie imprese daifiglioli. Il mestiere loro sembrava fosse quello d’imporrebalzelli oltre il limite ai contadini e ai viaggiatori di pas-saggio e di godere in baldorie quegli immeritati guada-gni. Padre e figli erano una maledizione per tutti mapoco gliene importava, tanto erano avvezzi ormai a suc-chiare sangue ai poveri e a vivere di prepotenza. Forse ilnome Spettine deriva da codesta loro attività.Un figliolo però faceva eccezione ed era, diciamocosì, la «pecora bianca», della famiglia.

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Si chiamava questo figliolo Agide ed era cresciuto,pianticella spontanea, ricco di buoni sentimenti e diamore verso il prossimo, tanto che non potendo più sop-portare l’ambiente domestico e le villanie dei fratelli, unbel giorno decise di partirsene per altri lidi, ove poterrespirare miglior aria.La sua partenza fu considerata anche dagli altri unaspecie di liberazione, poiché veniva così a mancare l’uni-ca «pietra di conforto» che in qualche modo avrebbepotuto far ricordare l’esistenza della bontà. Dove se neandò nessuno lo seppe o forse a nessuno interessò.Qualche viaggiatore, venuto da lontano, disse d’a-verlo intravisto a Firenze con l’abito della«Misericordia», qualche altro parlò addirittura di S.Giacomo di Compostella, che era la meta ultima deipellegrini pieni d’amor di Dio, ma se ne parlò sempre intermini molto vaghi ed imprecisi, tanto che dopo qual-che anno si perse anche il ricordo di lui.Se i suoi parenti avessero avuto buoni sentimenti sisarebbe potuto almeno giustificare codesto oblio colproverbio «lontano dagli occhi, lontano dal cuore!» maqui di cuore non era proprio il caso di parlare.Molti anni dopo in una gelida sera d’inverno, arrivòa Spettine un viandante adorno di un ricco barbone eavvolto in un lacero mantello, che conservava però qual-che segno di un’antica nobiltà. Non sembrava che il suocammino avesse una direzione precisa; chiese ad un con-

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tadino di poter dormire nel fienile e per carità ebbeanche una zuppa calda.Dopo qualche giorno era ancora in loco e poiché nonaveva l’aria di quelli che amano vivere a sbafo, trovò dalavorare alle dipendenze del castello, in cambio di unaminestra e di un rifugio per la notte. Gli furono assegna-ti subito i lavori più umili ed il riparo più sgangherato.Non si lamentò mai per il troppo lavorare, anzi sem-brava che accettasse l’umiliazione in cambio di chissàquale peccato. I cani dei padroni erano certamente tenu-ti in migliore considerazione ed anche meglio nutriti.Se poteva, se gliene rimaneva il tempo, cercava diaiutare i poveracci come lui e quanti nei dintorni eranonella sofferenza: lo faceva soprattutto con qualchebuona parola e con un invito a unire il proprio dolore aquello di Gesù Crocifisso e questa sua fede ottenevasempre maggior risultato dell’aiuto materiale, che purcercava di dare con le sue braccia, perché di denarocerto non ne aveva.L’unico momento in cui pareva uscire da un volon-tario nascondimento era la mattino prestissimo, quandosi recava a Messa nella chiesa parocchiale, che allora,come appare anche dalle cronache di Antonio Bocciapiù sopra ricordate, sorgeva prossima al Castello, in unluogo in cui ancor oggi pare di notare l’ubicazione. Ipreti allora avevano l’abitudine di recarsi in chiesa almattino quando ancora fuori era buio e quindi quasi nes-

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suno, tantomeno qualche abitante del castello, avevamodo di notare questa devozione del nostro personaggio.Un brutto giorno si ammalò e il parroco, avvertitoin tempo da qualche altro servo che conservava un po’di compassione, corse ad amministrargli gli ultimisacramenti.Il poveraccio giaceva in un mucchio di stracci, in unsotterraneo umido che aveva tutta l’intenzione di volerfar concorrenza al giaciglio di Giobbe o meglio allagrotta di Betlemme e proprio per questo il Signore fu

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molto contento di entrare in quel luogo e soprattutto inquell’anima.Di lì a poco morì.I signori del castello avrebbero voluto seppellirlonella vigna per far concime, ma il parroco, che conosce-va il suo segreto, decise con grande coraggio di darglicristiana sepoltura e suonò le campane per radunaregente. Vennero tutti e non ci fu difficoltà a trovare anchei soldi per comperare quattro assi e fare una cassa conuna bella croce sopra.Il parroco fece il suo bel discorso, insistendo moltosull’esempio di Gesù che era morto per riparare i pecca-ti degli altri e sul grande valore della penitenza, sceltavolontariamente e per mezzo della quale anche noi ciuniamo alla morte di Gesù in riparazione del male. Parlòanche del premio che ci attende in Paradiso e ricordò laparabola del povero Lazzaro.Non aggiunse altro certamente per non tradire ilsegreto della confessione. In quei tempi i funerali si cele-bravano al tramonto e il corteo era illuminato da tanticeri, simbolo della resurrezione e della vita eterna: ognipartecipante ne portava uno. Lascio a voi immaginare lebattute di spirito volgari che, anche in quella occasione,gli abitanti del castello ebbero il coraggio di cavar fuori,seguendo la scena dall’alto della torre.Poco prima dell’alba, quando ancora tutti dormiva-no, le campane della parrocchia si misero a suonare a

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distesa che pareva la mattina di Pasqua. In campanilenon c’era nessuno… Immaginate lo spavento del parro-co nell’udire quella sveglia anticipata e soprattutto neltrovare la porta del campanile perfettamente chiusa.La gente con l’animo agitato accorse fin dalle casepiù lontane e tutti si radunarono in chiesa con grandebatticuore. Le campane intanto continuavano a suonaregioiosamente il loro inno di risurrezione. Il parroco allo-ra indossò cotta, stola e piviale e fattosi precedere dallacroce, mosse verso il cimitero, poiché in quella direzionesi vedeva un bagliore riflesso nel cielo, ancora trapunto distelle ma già in via di rischiararsi per l’alba ormai vicina.Un nuovo giorno stava per sorgere e tutti ebbero lagioiosa sensazione che con il sole anche la loro animasarebbe stata illuminata e riscaldata da una nuova luce.Sulla fossa ancora fresca del poveraccio sepolto lasera prima, trovarono una lastra di marmo con un nomeche sembrava inciso con caratteri di luce: AGIDE.Il segreto, che il parroco aveva conosciuto e custodi-to nel chiuso del confessionale, si rivelava ora a tutti conla ricchezza del suo significato e la luce del suo esempio.Tutti s’inginocchiarono e cantarono il Te Deum. Altermine anche le campane cessarono il loro inno.Qualcuno raccontò che la lastra di marmo era così bian-ca da sembrare fosforescente e che di notte questo can-dore luminescente si vedeva nitido fin dal castello, quasivolesse essere un continuo richiamo.

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Neppure questo segno e questi fatti valsero a far cam-biare condotta al padre e ai fratelli di Agide, che liquida-rono il tutto con qualche battuta blasfema.È proprio saggio il proverbio che ci ricorda come «lapianta cade dalla parte che pende» e l’altro che conclu-de: «si muore come si è vissuti».Ad uno ad uno, infatti, quando venne la loro ora, sene andarono tutti senza prete e senza sacramenti.Furono sepolti nella grande tomba di famiglia, accompa-gnati da commenti di sollievo di quanti malaugurata-mente li avevano conosciuti.La grande pietra scura che ricopriva il loro sepolcrosi spezzava di continuo e per quanto si facesse per ripa-rarla non era mai possibile vederla intera.Spesso veniva ritrovata anche spostata e la gente

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diceva che di notte degli uccellacci scuri e delle ombreuscivano dalle fessure e volavano sui merli del castellocon stridii lamentosi.Sembra che si sentano anche oggi, soprattutto nellenotti senza luna, e qualche scout crede di averli intravisti.Molti cominciarono allora a pensare che sarebbestato meglio spostare la chiesa lontano da quel castellocosì triste e maledetto, edificandone una nuova in unalocalità più comoda e centrale rispetto ai vari borghi.Passò molto tempo prima che si giungesse ad unadecisione operativa. Ai tempi di Boccia se ne parlavaancora ma finalmente si arrivò a dare inizio alla costru-zione del nuovo edificio. Quando tutto fu pronto, il par-roco in carica con una grande processione, cui parteci-parono anche gli abitanti dei paesi vicini, trasportò nelnuovo edificio tutti gli arredi, le statue e il SantissimoSacramento.Nella vecchia chiesa rimasero solo le campane, in atte-sa di una impalcatura speciale necessaria per rimuoverle.Quella notte stessa suonarono ancora a distesa sulvecchio campanile e la gente da lontano vide un granchiarore nel camposanto.Al mattino molti curiosi accorsero per vedere ciòche era acccaduto e con grande sorpresa constataronoche la tomba di Agide era scomparsa.Il parroco, conoscendo tutte le notizie storiche anno-tate nell’archivio, concluse che dopo la partenza di Gesù

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Eucaristico dalla vecchia chiesa, Agide non aveva volutolasciare nemmeno le sue ossa nella zona.Un’altra versione della leggenda dice che la lapidedi Agide fu impiegata per costruire la mensa delnuovo altare.La vecchia chiesa pian piano rovinò e le pietre che sipoterono recuperare furono impiegate per altre costru-zioni e per restaurare, nel secolo scorso, il castello.Anche il cimitero fu abbandonato e il tempo cancellòanche lui dal territorio, lasciando solo il ricordo... sfuma-to in leggenda.Non sembra invece che siano sparite le ombre oscu-re: nelle notti senza luna volano stridendo e cigolandoattorno alla torre del castello. Ma forse saranno solo ilprodotto della fantasia di qualche scout impaurito.Nei campi di specializzazioni se ne fa comunque ungran parlare…

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Su e giùper l’Italia

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«I sette vizi capitali»

Qualche anno fa a Fano funzionava un terreno di camposcout fisso, utilizzato soprattutto per i corsi di vela. Era postovicino al mare; un monticello di terra lo riparava dai venti eassicurava un ottimo punto di osservazione per seguire lanavigazione delle varie imbarcazioni, affidate non sempre adabili piloti.Precedentemente questo rialzo di terreno era servito anchecome «parapalle» per il locale poligono di tiro, ora abbando-nato e fuori uso, ma la sua esistenza ha avuto origini ancorapiù antiche. Fu pian piano elevato dagli abitanti locali aseguito di un episodio che sto per raccontarvi.

Una volta il terreno di quella località era appena sullivello del mare e quando le onde in tempesta riu-

scivano, durante l’alta marea, a superare la striscia sasso-

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sa della spiaggia, si trasformava in un ampio acquitrino.Anche durante la buona stagione rimanevano pozzedi acqua stagnante riparate da cespugli di canne.Per questo suo aspetto la zona era considerata male-detta dagli abitanti della città, ed anche malsicura perchéin essa vi trovavano facile rifugio e nascondiglio vaga-bondi e malandrini. Sembra che tra le canne sorgesseroanche delle capannucce o delle baracche, ma nessunopoteva affermarlo con certezza, poiché si tenevano tuttialla larga e se qualcuno aveva necessità di transitare nellevicinanze, prima si segnava per la paura, poi affrettava ilpasso e procedeva con lo sguardo rivolto a terra, per nondestar sospetto di voler spiare o anche solo vedere. Seera possibile tutti preferivano passare più lontano anche

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a costo di allungare di molto il cammino.Di certo si sapeva che in mezzo alla palude era statacostruita in modo più stabile una baracca e che era abi-tata da sette fratelli, siprannominati dalla pubblica opi-nione “I sette vizi capitali”.La definizione era azzeccata ed essi facevano di tuttoper mostrarsi degni di quell’etichetta. In città difficilmen-te avrebbero trovato un alloggio, né avrebbero avuto lapossibilità di potersi muovere senza controlli per i loroloschi affari, così come invece erano liberi di fare in quelloro regno fuori mano e così ben protetto, sui confini,dalla paura degli altri.La loro condotta valeva il nome e la fama che sierano meritati e la paura che incutevano.Oltre alla baracca in mezzo agli acquitrini possede-vano anche una barcaccia che serviva per i loro loschi

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traffici. Normalmente la tenevano ormeggiata pocodistante o tirata in secco sulla spiaggia.Per le faccende di casa e altri servizi avevano presoun povero orfanello, più o meno sui dodici anni, e loobbligavano a lavorare sodo in cambio degli avanzi dellaloro mensa e di molte percosse. Spesso era anche ogget-to di scherzi malvagi.Unica consolazione per quel ragazzetto di nomeAlberto era la compagnia di un cane randagio, che siazzardava ad avvicinarsi alla baracca solo quando ipadroni erano via con la barca. Una volta, infatti pereccessivo ottimismo o solo per distrazione, aveva trascu-rato la regola e si era buscato una scarica di legnate, percui in seguito, non tentò più di ripetere l’esperienza.Controllava la situazione da lontano e appena si rende-va libera la strada, correva a far festa al suo giovaneamico che lo contraccambiava con molta effusione equalche osso. Tutti e due avevano bisogno di affetto, poi-ché il mondo era stato avaro con loro.Una bella sera di luna piena, i sette fratelli ritorna-rono molto allegri e soddisfatti poiché, a loro avviso,avevano concluso un «ottimo affare». Lungo la stradadi Ancona, oltre la foce del Metauro, avevano assalitoun ricco mercante, lo avevano percosso duramente ederubato. Poiché non dava più segni di vita, avevanocaricato il suo corpo sulla barca, per farlo sparire in unazona più lontana.

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Il bottino superava le aspettative e perciò decisero difare grande baldoria.Alberto aveva lavorato tutto il pomeriggio per pre-parare una zuppa di pesce. In tavola furono portati alcu-ni fiaschi di vino buono. Ad un certo momento dellafesta, i sette fratelli sotto l’effetto del «verdicchio», oltreche della loro cattiveria, decisero di giocare un bruttoscherzo ad Alberto, ignaro degli antefatti della giornata,e del morto.«Vai a prendere - gli dissero - quel sacco ch’è sotto iltelone, nella barca». Poi si prepararono a sghignazzareper la paura del ragazzo. Si apettavano un grande urlo dispavento ma udirono invece un tremendo colpo controla porta, che si spalancò violentemente. Nel riquadroapparve il morto con gli occhi di fuoco e l’indice minac-ciosamente puntato contro i presenti.Con un tono di voce che non lasciava dubbi disse:«La catena delle vostre nefandezze è al termine e viavvolge tutti. Avete stuzzicato anche la morte e la morteora viene a prendervi. Venite con me!».«I Sette vizi capitali», rimasti sul momento immobiliper la paura, come rispondendo ad un appello, tentaro-no allora di alzarsi ma inutilmente perché ad uno ad unoinvece strabuzzarono gli occhi con una smorfia diaboli-ca e rotolarono giù dalle sedie, rimanendo poi immobilisul pavimento. Alberto intanto era entrato per l’altroingresso.

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Una gran ventata rinchiuse la porta sul buio dellanotte e quando, dopo qualche minuto, il povero garzo-ne, con i capelli diritti per lo spavento, si slanciò fuori perchiedere aiuto, non vide più nessuno. Anche la barca,strappati gli ormeggi, era sparita nella notte.Il ragazzo col cuore in gola, corse allora in città edebbe qualche difficoltà a farsi aprire la porta dalle guardie.Nel cielo, illuminato da una fredda luna piena, corre-vano sette nuvoloni neri, simili a trombe d’aria; gli scuridelle finestre sbattevano, i grandi alberi vicino al castellogemevano e si piegavano verso terra; i cani ululavano…Era una notte d’inferno che faceva gelare il cuore e tre-mare le ossa.Le guardie sentendo bussare violentemente allaporta delle mura ed udendo dei gemiti, presero molteprecauzioni prima di aprire e si meravigliarono molto nelvedere il ragazzo piangente in quell’ora tarda.Il cane lo seguiva guaendo, con le orecchie basse e lacoda tra le zampe.Prima dell’alba nessuno si azzardò ad uscire per fareun sopralluogo. Col sole, il Capitano del popolo, unnugolo di guardie e il parroco della cattedrale andaronoa controllare.Non potendo seppellire i sette briganti nella terrabenedetta del cimitero, fu scavata per loro un profondafossa, vicino alla capanna; poi vennero tutti gli abitanti diFano a scaricare con entusiasmo terra e sassi sui cadaveri.

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L’incubo era terminato: i «Sette vizi capitali» eranosepolti, ma per paura di rivederli, i fanesi continuaronoad accumulare materiale sulla loro tomba, fino ad ele-vare una montagnetta.La capanna fu bruciata; le monete e gli altri oggettidi valore recuperati furono regalati al ragazzo, che trovòospitalità di ben altro tipo presso i frati di S. Agostino ein seguito divenne un bravissimo artigiano. In alcunechiese di Fano si conservano ancora cornici e decorazio-ni di legno scolpite, attribuite alla sua mano.La zona attorno alla «collina dei Sette Vizi Capitali»rimase per alcuni secoli abbandonata. Nessuno si arri-schiava a coltivare il terreno adiacente, nessuno deside-rava approdare con la barca alla spiaggia vicina.Qualcuno poi giurava di aver visto nella notte della lunapiena di luglio sette nubi a colonna elevarsi in mezzo almare, oltre la collina, tra forti raffiche di vento.Cinquant’anni fa, i militari in cerca di una zona percostruire un poligono di tiro, pensarono di sfruttare lamontagnetta come parapalle e così la zona ebbe un suonuovo assetto. In seguito, dopo la seconda guerra mon-diale, il poligono fu abbandonato e il terreno adiacentefu per qualche anno impiegato dagli scouts, come ho giàdetto, per i loro campi scuola di vela.Nel 1979 il reparto di Villanova ebbe la bella idea difare un campo marino e non trovò difficoltà nel poterusufruire di questa base e delle sue attrezzature.

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La sera del 9 luglio, in occasione della luna piena, altermine del bivacco io ebbi la malaugurata idea di rac-contare la leggenda del luogo. Quando iniziai il cielo erasereno e nessuno poteva immaginare quanto sarebbe dilì a poco accaduto. Al termine della narrazione, per unodi quei repentini cambiamenti atmosferici che qualchevolta si verificano nelle zone marine, iniziò a spirare unforte vento; il cielo si oscurò da un lato e tutti viderochiaramente, oltre la collinetta, sette nubi verticali checorrevano verso la luna. Ci precipitammo verso le nostretende, ma senza successo, perché la tromba d’aria ormaile stava abbattendo tutte senza misericordia. Noi cer-cammo di salvare il salvabile aggrappandoci ai sopratet-ti che volavano via come foglie al vento tra raffiche dipioggia. Di li a qualche minuto la bufera cessò e d’im-provviso tornò la calma. Per poter ripiantare il campodovemmo rastrellare tutto il prato e lavorare fino a notteinoltrata.Era la notte di luna piena di luglio e tutti avevanochiaramente visto le sette nubi nere, simili a trombe d’aria.Se non fossi stato testimone della coincidenza, nonavrei creduto…

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Il diavolo a Villanova

Gli scouts di Villanova hanno la loro sede a poco più di untiro di schioppo, come si diceva una volta, dal fiume Savena.Le acque del fiume, un po’ torbide, scorrono entro uncanalone verdeggiante scavato nella pianura e vanno a con-fluire, poco più avanti, in quelle dell’Idice, pressappoco doveerano, una volta, le capanne degli antichi Villanoviani, famo-si per aver preceduto gli etruschi, nella lavorazione del ferro.La storia parla di «civiltà villanoviana”» non senza un certovelo di mistero e ne sappiamo qualcosa noi che abitiamo sulposto. Infatti, anche se i reperti archeologici sono ormai neimusei, qualcosa è rimasto nell’aria. Vecchie storie che poi, coltempo, si sono aggiornate; vaghi timori notturni che si risve-gliano al comparir della luna piena tra i pioppi; personaggimorti da chissà quanto tempo ma che rinascono continuamen-te nella memoria della gente, con contorni e fisionomie qualchevolta precisi e qualche volta, invece, sfumati verso la leggenda.

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Una volta, sull’aia o nelle stalle, si parlava molto di piùdi loro: semplici episodi della vita, venati d’umorismo, diven-tavano un mito e certe battute del loro linguaggio assumevanodignità di proverbio o di modo di dire, consolati dalla fre-quente citazione.Oggi invece tutti guardano «mamma televisione». Cipensa il piccolo schermo a fornire i ricordi, mummificati inimmagini, e ad arricchire il linguaggio comune in modouniforme per tutta la comunità nazionale. E così i vecchi per-sonaggi di paese entrano melanconicamente nell’inceneritoredella storia locale, nella discarica della fantasia.Chissà se un mondo senza fantasia sarà bello? Ne dubito!Gli scouts e le guide sono certamente dei ragazzi del futu-ro: il nome e l’età lo garantiscono. Non disdegnano tuttaviarecuperare anche il passato. Dice infatti una massima africa-

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na: «se bevi in un pozzo, ricordati di chi lo ha scavato!».Per questo, più che accettare le rappresentazioni dei fattie le soluzioni predisposte dal supermercato televisivo o daimass-media, come si dice oggi, gli «esploratori» preferiscono,quando è possibile vedere coi propri occhi e parlare diretta-mente con la gente.L’esplorazione d’ambiente chiamata anche «Hike», è unadelle loro attività preferite, perché permette di acquistare lacapacità di vedere e di ascoltare, che poi aiuterà a capire edin seguito ad agire con cognizione di causa.In campagna ci sono tante cose da vedere e da capire es’incontra ancora tanta gente capace di raccontare, special-mente tra i più anziani.Gli scouts di Villanova qualche volta vanno ad accam-parsi vicino alla confluenza dei fiumi, in una zona chiamatalocalmente «l’ Alta».Forse su quella spianata sorgeva l’antico villaggio villa-noviano; forse in tempi più recenti i Galli vi posero il loro

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accampamento, di fronte a quello romano di Publio ScipioNasica che, stando allo stemma del comune, era piazzato al dilà del fiume Idice.Se fossero qui i due accampamenti, o più a nord, è motivoancora di discussione, ma certo è che lungo i secoli molta gentesi è fermata sull’ «Alta» a contemplare lo scorrere del fiume,più impetuoso d’inverno, più tranquillo d’estate. Dicono che loabbia fatto anche... il diavolo e che l’attuale percorso delSavena lo abbia tracciato proprio lui, in un momento di collera.I vecchi della zona raccontano ancora una leggenda che inostri scouts hanno raccolto e qualche volta anche presentato,con grande divertimento, al fuoco di bivacco.La prima parte del racconto è comune a leggende di altrelocalità. Qual è infatti quel paese che non ha il suo «ponte deldiavolo?». Forse dipende dal fatto che il demonio è furbastroma poco scaltro e soprattutto monotono.Ascoltate, dunque, e cercate d’immaginare le scene con gliocchi della fantasia.Le vecchie carte geografiche dicono che qualche secolo fail fiume Savena non si gettava, come oggi, nell’Idice, vicinoall’«Alta». Andava invece pigramente in tutt’altra direzione:più ad ovest. A nord di Bologna c’è infatti un vecchio canaleche si chiama ancora Savena abbandonato e verso la circon-vallazione sorge un’antica chiesa parrocchiale che porta iltitolo di S. Antonio di Savena, pur essendo ormai moltodistante dall’attuale fiume omonimo.Come mai è avvenuto un cambiamento di corso così

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radicale?I Koala - questo è il nome di una squadriglietta di guidepiù o meno bionde - credono di aver trovato la spiegazione diquesto mistero interrogando una vecchia contadina, tanto vec-chia che era già al mondo prima che Garibaldi morisse. Eccoil racconto della nonna Chiarina:

Qui sull’Alta, la vita era difficile, il terreno sembravaquasi stregato e ogni tanto affioravano delle zolle

nere, che parevano uscite dall’inferno. Chissà che cosadoveva esser accaduto nei tempi passati.Un giorno, il nonno di mio nonno, ma forse era ilbisnonno, vide un ometto seduto sul bordo di un fosso,sotto una «piantata» di vite.- Che cosa fai lì?- Cerco lavoro da garzone e mi accontenterò. Nongiudicarmi dall’apparenza. So fare tutto e quindi potreiaiutarti moltissimo, anzi potrò farti ricco se mi ascolterai.La proposta era allettante per un povero contadino,abituato a mangiare polenta, spesso condita con… niente!- Mettimi alla prova e sarai contento.Il nonno aveva da sterrare tutti i fossi. Prese unavanga e chiese al forestiero:- Quanto tempo vuoi per rimettermi in sesto tutte lescoline?Era un lavoraccio da rompere le braccia per un sta-gione, ma il nostro ometto assicurò che lo avrebbe por-

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tato a termine al massimo in due giorni.La notte tirò un gran vento e tuonò come mai si erasentito; pareva che cento barrocci solcassero il cielo.

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Al mattino tutti i fossi erano netti, squadrati e nellagiusta pendenza.- Sei contento del lavoro? - chiese l’ometto mentre isuoi occhi lampeggiavano in modo strano.- Che compenso mi darai? - soggiunse.- Bravo! Ti darò tutto quanto crescerà su questocampo, tra la «cavedagna» e quella piantata d’uva. Tornaal momento del raccolto - rispose il nonno, un po’ inso-spettito, e non a torto.Al momento giusto l’ometto arrivò tutto baldanzoso,ma rimase con un palmo di naso. Nel campo erano stateseminate rape e patate, che crescevano sottoterra; a luispettavano solo delle foglie ingiallite.Il diavolo, avrete già capito che si trattava di lui,arrabbiato disse che non si erano intesi bene ma che eraancora disponibile per altri lavori, in cambio dei quali ilprossimo anno avrebbe ricevuto tutto quanto sarebbecresciuto sottoterra, sottoterra - ripeté - non in uncampo ma in due, da segnare subito perché non ci fos-sero equivoci.Il nonno in cambio gli fece scavare un macero, chefino a qualche anno fa era visibile e in funzione. La fan-tasia popolare lo aveva battezzato: «Al masnadur adBerlech». Berlicche, lo sapete, è uno dei nomi del diavolo.Anche quella volta fu sufficiente una notte di lavoro:due grosse ruspe non avrebbero fatto né meglio néprima. L’opera era proprio completa poiché l’artista, per

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far apprezzare le sue indubbie capacità, aveva anchesistemato in bell’ordine sulle rive, alcune pile di grossisassi: quelli che dovevano servire per «affondare» lacanapa.Al momento del raccolto il diavolo provò un altrogrosso dispiacere poiché il nonno aveva seminato solograno e pomodori.Si arrabbiò moltissimo e per spaventare il malcapitatoche aveva osato prendersi gioco di lui, riprese le sue sem-bianze originali, con corna e piede caprino.- Ora voglio la tua anima - urlò con un vocionerauco. Il nonno però, essendo devoto a S. Giuseppe e aS. Michele arcangelo, non si spaventò oltre quel tanto.Gli era necessario mantenere la calma, per cercar di usci-re da quell’inghippo senza troppi danni.- Non ci si può prendere gioco di me - soggiunseBerlicche - senza pagare caro. Voglio tutto e subito!- E va bene! Ma almeno un altro lavoro dovrai purfarmelo - ribatté il nonno, mostrando un pennello ed unbarattolo di vernice.Visto che il risultato sembrava ormai raggiunto e l’ul-tima prova da superare molto semplice, il demonio sirabbonì.- Ordina - disse - e preparati a pagarmi subito.Il nonno, che aveva mangiato una bella zuppa difagioli, emise allora un bel “venticello fisiologico”; gli uscìdi corpo con una certa melodia e con un bel crescendo.

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- Ed ora - disse - pitturala di rosso…!Vergognoso (si fa per dire) per la beffa subita, il dia-volo s’infuocò tutto e fece per prendere il volo e scom-parire. Ma diavolo era e strisciò solo a lungo per terra,sollevando un gran polverone; tentò un gran salto e subi-to ricadde con un contorno di scintille e odor di zolfo einfine sprofondò sibillando in un gran buco, che intantosi era aperto nel suolo.Quando si diradò la polvere e l’acre odore, il nonnoebbe la sorpresa di vedere che la strisciata del diavolo

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aveva scavato un gran canale ai confini del suo podere,fino al fiume Savena, le cui acque ormai trovavano più-comodo iniziare un nuovo corso lungo questo passaggio.Rimaneva il buco, di cui non si riusciva a vedere ilfondo; anche facendo cadere dei sassi non si udiva alcuntonfo. I paesani lo trovarono comodo per scaricarvi den-tro il pattume. Poi arrivarono anche i bolognesi con i lororifiuti e in due secoli riuscirono a colmarlo, anzi a farvisopra una montagna di «rusco», come lo chiamano qui.Con questo gran tappo fu preclusa l’uscita deldemonio.- Per quanto sia sudicio e puzzolente, farà fatica aduscire di qua - disse qualcuno.- Qualche passaggio più facile lo deve però aver tro-vato in un’altra località: basta leggere i giornali per aver-ne conferma.E così, raccontano, il fiume Savena cambiò corso e lacittà di Bologna trovò una discarica per il pattume làdove avvenne la svolta.La montagna di «rusco» si vede bene passando perla tangenziale, nei pressi dello svincolo di S. Lazzaro diSavena.Sarà poi vero che le cose sono andate così? Gliscouts e le guide lo raccontano al fuoco di bivacco quan-do si accampano sull’«Alta». Forse lo fanno solo per spa-ventare un po’ i più piccoli!

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Quattro gomme a terra

Orte è una delle più caratteristiche cittadine medioe-vali dell’Alto Lazio.

Dietro alla cattedrale, proprio nel quartiere più anti-co, una trattoria casalinga prepara delle meravigliosecenette, secondo antichi e tradizionali menù, la cui bontàmi sarebbe difficile descrivere ma che ugualmente pro-pongo alla vostra fervida immaginazione.In quella trattoria, non per peccato di gola, ma per«una ricerca dell’ambiente» ci davamo appuntamentoogni tanto, anni addietro, con l’ex Baloo d’Italia e donMario, parroco di una chiesetta dei dintorni e gentileanfitrione di questi amichevoli incontri di studio.L’ospite ci raccontava tanti episodi della vita locale edelle passate attività degli scouts di Orte, dei quali erastato assistente fin dal tempo del loro pellegrinaggio apiedi verso Roma, durante l’Anno Santo nel 1950, con in

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testa il vescovo Mons. Massimiliani, che teneva gli scoutsin un posto privilegiato del suo cuore.Per inciso desidero ricordare che conservo ancorauna lettera con cui Mons. Massimiliani mi ringraziò diavergli procurato una delle gioie più grandi degli ultimianni della sua vita, quando lo invitai a celebrare la S.Messa solenne al Campo Nazionale del Lago di Vico.Una volta, arrivati in vista del dolce, quando stavamochiudendo in bellezza la cena, chissà come mai, il discor-so cadde su Padre Pio da Pietralcina e su una visita fattaa lui da alcuni scouts di Orte.Da qualche persona anziana avrai certamente sentitoparlere di Padre Pio, un frate francescano pugliese, mortoin concetto di santità qualche anno fa. Avrai anche senti-to parlare di fatti prodigiosi che hanno accompagnato lasua vita, di grandi opere di carità da lui realizzate e dalunghe file di penitenti al suo confessionale.Qualche volta occorreva attendere una settimanaprima che giungesse il proprio turno per potersi confes-sare; qualche altra volta invece era lo stesso Padre Pioche chiamava un fedele in mezzo la folla e gli suggerivala soluzione dei suoi problemi, prima ancora che quelloavesse aperto la bocca per presentarglieli.«Era proprio questa capacità di leggere nel pensiero chespaventava alcuni dei miei scouts più grandi - disse donMario - tuttavia quando proposi ai capisquadriglia di fareun viaggetto con la mia topolino fino a San Giovanni

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Rotondo, paese del Gargano in cui risiedeva il santo frate,la mia idea fu accolta come un piacevole diversivo perquelle giornate feriali di vacanza estiva. Attraversammocosì l’Italia, dirigendoci verso la costa adriatica, ammiran-do le bellezze dei diversi paesaggi regionali e divorandodei giganteschi panini al prosciutto.Man mano che ci avvicinavamo alla meta - era sem-pre don Mario che raccontava - cresceva la preoccupa-zione dei ragazzi. La discussione cominciò a spostarsidai futuri programmi del reparto scout alle capacità dipadre Pio». «Sarà pio vero che sa leggere nel pensiero»disse uno dei Capisquadriglia, con un certo timore.«Qualche volta l’ha fatto. Qualche volta ha rimpro-verato chi era in visita alla sua chiesa solo per curiosità».I ragazzi che viaggiavano con don Mario erano degliscouts e quindi non credo che avessero qualcosa danascondere nel loro animo e di cui doversi vergognare;in loro era piuttosto il timore di sentirsi improvvisamen-te proporre qualche soluzione particolarmente impegna-tiva per il futuro della vita, non ancora pensata o presa inconsiderazione. Avevano forse paura di vedersi capovol-gere qualche programma da quell’uomo che sembravasapesse leggere non solo il passato ma prevedere ancheil futuro. «io non credo - disse scherzosamente il capo-squadriglia Luigi, forse per rinfrancarsi un poco - chepadre Pio sappia leggere nel pensiero o faccia miraco-li.…Mi piacerebbe che me ne desse prova…magari

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facendoci rimanereora a terra con lamacchina…!».Don Mario e glialtri si misero a riderema lo fecero per pocopoiché la «topolino»cominciò subito asbandare: tutte lequattro ruote si eranosgonfiate simultanea-mente.Il più vicino paeseera…lontano e Luigi -pareva giusto - dovet-te fare tutta la strada apiedi per andare a cer-care il soccorso di ungommista.«E non vi dicocon quale paura…-aggiunse un giovanot-to che era entratonella trattoria duranteil racconto ed avevasalutato don Mario solo con un cenno della mano, pernon interrompere il suo racconto - ve lo posso assicura-

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re, perché quel Luigi sono io.È vero don Mario? E posso aggiungere che non hopiù scherzato su padre Pio, dopo quella sua dimostrazio-ne di forza. Vorrei anche aggiungere che arrivai a S.Giovanni Rotondo con ancora più timore di incontrareil famoso frate. Se mi aveva sentito, e risposto così atono, da lontano, chissà cosa avrebbe potuto dirmi aven-domi di fronte!».«E come andò a finire?».

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«Beh, in chiesa non riuscii, o forse non feci nulla peravvicinarlo, ma lui passando in mezzo alla folla, si volseverso di me, sorrise furbescamente e fece un leggerogesto di mano che certamente significava: - Birichino!Non azzardarti più a dire certe cose!».Qui finisce la storia che io non desidero né spiegarené commentare. Io sono solo un cronista che si diverte araccogliere e raccontare le leggende, i fatti strani, le cir-costanze misteriose che qualche volta si trovano nellestorie degli scouts.Al massimo posso concludere ricordando un vec-chio proverbio: «Scherza con i fanti e lascia stare isanti!».

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Sua maestà la Sacca

Certamente gli Scoiattoli delBologna 16°, mentre preparavano lafamosa sacca del materiale di squa-driglia, pensavano che le cose sarebbe-ro dovute andare nel modo seguente:

Il Signor Ministro dei Trasporti telefona al DirettoreGenerale della Motorizzazione di Bologna in questitermini:- Mi raccomando, faccia attenzione che la saccadegli Scoiattoli sia trattata come si deve…- Non si preoccupi, eccellenza, lasci fare a noi!Immediatamente viene diramato un fonogrammaaffinchè il camion che dovrà trasportare la famosa saccasia verificato a puntino, rinforzato nei molleggi, imbottitoe tappezzato di raso rosso, anzi dei colori di squadriglia.Due Commissari Centrali (così si chiamavano unavolta i «Responsabili Nazionali Scouts») sono dirottatiintanto verso Bologna e muniti di guanti bianchi, affin-chè possano convenientemente e con dignità provvede-re al carico della sacca.Tutto il materiale delle altre squadriglie viene lascia-

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to a terra, mentre le guide locali intrecciano, con mae-stria senza pari, corone e festoni di fiori di campo peradornare il camion, al centro del quale, su di un apposi-to materasso di gommapiuma, è stata collocata la sacca.All’ora stabilita, i due migliori autisti d’Italia e paesivicini, selezionati attraverso un severissimo concorso,riservato solo a plurilaureati, prendono in consegna ilcamion, mentre la polizia stradale provvede a bloccare iltraffico sulle strade e le autostrade, lungo tutto il percor-so. Dodici agenti motociclisti ed una autoradio scortanoinoltre il camion.Le popolazioni e le scolaresche, assiepate ai bordidella strada, sventolano bandierine multicolori e si sco-prono il capo al passaggio dell’automezzo:- Passa il materiale degli Scoiattoli, diretto al CampoNazionale…Non mancano neppure i sindaci dei comuni attra-versati con fascia tricolore e valletti in costume e i rap-presentanti delle locali sezioni dei donatori di sangue.Alla deviazione di Ronciglione, quando la stradadiventa polverosa, alcune autobotti si pongono in testa alconvoglio per annaffiare il terreno, mentre gli agrestilocali, rivestiti dei costumi caratteristici, stendono man-telli e coperte per attenuare al minimo i sobbalzi causatidalle buche.Al Lago di Vico un ponteradio avverte il campo delprossimo arrivo della sacca. Immediatamente tutta l’atti-

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vità viene fermata e cinquemila scouts si radunano,secondo le disposizioni da tempo comunicate, per assi-stere all’episodio storico.Lo stesso Capocampo ed il suo Vice provvedono ascaricare, con mille precauzioni, la sacca, che viene con-segnata, con breve e significativa cerimonia, ai legittimiproprietari.Solo la previsione di un simile trattamento di parti-colare favore può spiegare il modo con cui gli Scoiattoli

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avevano preparato la sacca.Le cose invece andarono diversamente.Due robusti rovers, incaricati dei servizi logistici delCommissariato Provinciale, presero la sacca e la carca-rono al volo sul pullman. Dopo una breve traiettoria lasacca piombò in mezzo ad altro materiale e fu costretta,dal successivo rapido arrivo di altri carichi, ad assumerela forma che più si adattava alle sporgenze e alle rien-tranze dei colli vicini.Quando i due rovers poterono, con coscienza tran-quilla, mettere la scritta «completo» sul cristallo dellacabina di guida, il pulman finalmente partì, con un gemi-to prolungato di balestre ed un cigolio di bulloni sottosforzo.Naturalmente durante il viaggio il carico subì unnaturale assestamento, a tutto vantaggio del materialepiù robusto e meglio imballato.All’arrivo, l’operazione di scarico fu facilitata da unalegge fisica che aiuta le traiettorie di lancio rivolte versoil basso.Gli Scoiattoli riuscirono ad identificare la loro sacca,non certo dalla forma primitiva, completamente mutatadurante il viaggio, quanto piuttosto dalla inequivocabileindicazione di un apposito cartellino, con contrassegnidella squadriglia, appeso ad un manico, con brillantesoluzione del magazziniere.Gli Scoiattoli presero dunque la loro sacca e si porta-

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rono velocemente sul terreno di campo della squadriglia.Si trattava ora di togliere i sigilli, ma con precauzio-ne, poiché il materiale, data le compressione, potevaanche ucire con forza, esplodere.Finalmente, con abile mossa, il magazziniere potéafferrare il fondo della sacca e girarlo di sotto in su pervuotare il contenuto sul terreno.Per dieci minuti buoni nessuno osò dire qualcosa. Ilsilenzio fu rotto poi dalla voce del Caporeparto, che pas-sava per caso di lì:- Perché avete raccolto tutto il pattume del campo in quelposto? Non ci sono gli appositi bidoni?…Non c’era malizia nelle sue parole. D’altra parte lacosternazione degli Scoiattoli era tanta, da togliere ognipur vago desiderio di reazione a questa interpretazioneottimistica dei fatti.Non rimaneva che nominare un comitato ristretto disalute pubblica, che tentasse il ricupero del materiale piùnecessario. Tre persone, il Csq. il Vice ed il magazzinie-re si misero subito al lavoro; gli altri, più giovani, furonofatti prudentemente allontanare.I materiali ferrosi e legnosi data la loro particolareconsistenza, non avevano subito grandi danni, ma piutto-sto li avevano provocati. Al passivo bisognò annotare unadentiera completa per le accette ed una pentola prodito-riamente trafitta da un piccozzino malvagio e cattivo.Non tutti i mali vengono per nuocere: poiché il cola-

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pasta era rimasto tranquillo nel magazzino di squadriglia,a più di duecento chilometri di distanza, gli Scoiattolidecisero che piuttosto di far compiere quel viaggio diandata e ritorno al magazziniere, era meglio moltiplica-re e perfezionare la foratura della ex pentola per poterlatrasferire, con tranquillità di coscienza, al nuovo nobileruolo di scolino.I danni peggiori erano stati subiti dal materiale ausi-liario di cucina, dalle lanterne, dalla cassetta di Prontosoccorso, dal materiale delle specialità e da alcune riser-ve mangerecce, aggregate all’ultimo momento, dopo unprofondo ed accurato esame del più recente calmiere deiprezzi del 7° C.N.Il recupero del materiale di mezza misura, come pic-chetti, posate attrezzi e punte, fu condotto a termine con

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una certa tranquillità. In definitiva si trattò di una sceltanon difficoltosa e di un buon lavaggio per togliere leincrostazioni di maionese e le macchie di tintura di jodio,onde evitare possibili confusioni col materiale delle altresquadriglie, a causa di queste ambigue colorazioni.Maggiore difficoltà sollevò invece la divisione delmateriale di piccola pezzatura e di quello polveroso. GliScoiattoli decisero di utilizzare all’uopo la famosa pento-la retrocessa all’incarico di scolapasta, entro la qualeriversarono un insieme di vetri, detersivo, sale, pillole epastiglie, caffè e generi vari che i poco delicati vicini disacca avevano fatto fuoriuscire dai rispetti involucri erecipienti, passati a miglior vita.Scuotendo abilmente la pentola fecero cadere ildetersivo, il sale ed il cacao sull’ex telo-tenda-copertura-cucina, ormai rovinato, invalido e ridotto al pietoso elagrimevole stato di straccio, dal taglio non protetto diuna accetta, compagna di viaggio.La polvere ricuperata, potenziata dai frammenti piùsottili dei recipienti di vetro rotti, poteva ancora servireper pulire le stoviglie. Anzi su di esse, a corvé ultimata,sarebbe rimasto un simpatico velo dolce, per via delcacao. Il pericolo d’infezione per eventuali tagli era com-pensato da un piccolo quantitativo di polvere emostati-ca, pure presente nel composto.Con la tecnica del cercatori d’oro, i tre Scoiattoli riu-scirono poi a dividere il caffè dalle aspirine e dalle pasti-

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glie purgative, ma poi decisero di gettare via tutto per l’i-possibilità di arrivare alla successiva suddivisione di que-sti generi dalla maionese, dalla vegetallumina e dal mer-curio del termometro di massima e minima, di cui risul-tavano tenacemente spalmati.Furono ricuperati, infine, sul fondo alcune spille disicurezza e, incredibile a dirsi, la grossa medaglia dibronzo dorata, guadagnata dalla squadriglia nelle olim-piadi provinciali di due anni prima e misteriosamentescomparsa alcuni giorni dopo.L’imprevisto ritrovamento del cimelio sevì a rassere-nare l’atmosfera, anzi a ridare un senso d’euforia allasquadriglia.- Meno male! - disse il vicemagazziniere aggiunto,convocato subito insieme agli altri esclusi, per rimirare iltrofeo - non tutti i mali vengono per nuocere! Chissà dovesi era nascosta quella medaglia? Eppure il nostro magazzinoè sempre in ordine…

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Il novizio fatato

L’Esploratore» pubblicò molti anni fa una graziosa leg-genda scout, che è diventata ormai un classico nel suo genere.Chi l’avrà scritta? Stranamente non fu firmata, ma forseanche questa omissione è uno degli aspetti misteriosi che contri-buiscono a dare un certo tono di leggenda a tanta storia scout.O forse è vero che qualche volta nello scautismo è possibi-le incontrare una fata o…un mago.

Ivano, il Csq. dei Gatti, incontrò la fata uscendo di casa.Non ebbe alcuna difficoltà a convincersi che era unafata, poiché ella, grazie al suo potere magico, glienediede la certezza.La fata era una giovane ragazza della buona borghe-sia, abbigliata con eleganza, ma senza esagerazione. Eraa capo scoperto ed aveva i capelli piuttosto bruni, il chemeravigliò Ivano che aveva sempre immaginato tutte le

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fate bionde.Egli si fermò educatamente.- Buongiorno, Signorina, mi scusi un certo imbarazzoche ho nel parlarle; sono molto felice ed emozionato nelvedere una fata. Capirà, è la prima volta che mi accade.- Oh, no! Non è così - rispose la fata. - Il fatto è chenormalmente non ci si accorge di nulla, mentre questavolta ti ho avvertito.- Che cosa posso fare per Lei? - domandò Ivano,che non aveva ancora fatto la sua B.A. Se lei fosse unavecchia Signora, con un fagotto, in una foresta, potreiproporle di portare il carico fino alla Sua casupola, malei non è vecchia, non ha un fagotto e siamo in mezzoad una via cittadina. Non saprei proprio come render-mi utile.- Non invertire le parti - disse la fata - sono io che

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debbo aiutare te, poiché sono una fata. Che cosa desideri?- Sono molto imbarazzato nel risponderle, poiché miha preso all’improvviso.Ho sempre avuto il desiderio di molte cose: vedereattraverso le porte chiuse, essere forte nelle gare, volarenell’aria, avere un portamonete inesauribile, nuotaremolto bene il crowl e vincere dei campionati, possedereun’auto che funzioni ad acqua, leggere nel pensiero allagente, saper usare il laccio come i cowboys.Ivano riflettè un istante, poi aggiunse ancora:- E desidererei molto che la mia squadriglia vincessele gare di zona domenica prossima, cosa che è quasiimpossibile con un novizio così maldestro come Alberto!- È evidente - disse la fata.- Ma come, lei è al corrente? - chiese con meravi-glia Ivano.- Certamente - disse la fata - poiché io sono una fata.- È vero - esclamò Ivano - mi scusi.Camminarono un momento in silenzio. La fata infi-ne soggiunse:- E se Alberto si ammalasse alla vigilia delle gare,non si potrebbero forse aggiustare le cose? Basterebbe unpiccolo raffreddore, nulla di grave.- Non sarebbe molto gentile verso di lui - mormoròIvano - e d’altra parte ci squalificherebbero perché nonsaremmo in sette.- Potrei rimpiazzarlo io - disse la fata con decisione.

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- Può star sicura che la riconoscerebbero subito!- Non temere - disse la fata - io prenderò le sembianzedi Alberto. Non ho nemmeno bisogno di domandarti illuogo di ritrovo perché lo conosco già.La fata si guardò attorno: la strada era deserta. - Nonvorrei farmi notare sparendo troppo improvvisamente -aggiunse ella - ma poiché siamo soli non ho questapreoccupazione. A domenica! E sparì.La domenica successiva, sul piazzale della stazione,la squadriglia era quasi al completo all’appuntamento.Mancava solo Alberto. Ivano era molto nervoso.

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Attorno ai Gatti, diciannove altre squadriglie, in pic-coli gruppetti, attendevano l’inizio delle gare, sorveglian-do il gruppo dei Commissari e dei Capi, che cammina-vano in su e in giù lungo l’altra estremità della piazzaridendo e scherzando, quasi non si rendessero conto chele gare di zona sono una cosa seria per le squadriglie.Nell’attesa i Gatti sbirciavano gli altri esploratori cercan-do di scoprire quanti fossero i Capisq. di 1a classe (unadelle mete del Vecchio Sentiero scout) e quanti gli scoutsricchi di brevetti. Questa esplorazione dette qualchedispiacere ai Gatti e destò in loro qualche inquietudine equalche dubbio sulla possibilità di vincere le gare.- Ah! Ecco Alberto! - esclamò improvvisamenteGiacomo, il Vcsq.- Non muoverti - disse Ivano - gli vado incontro io.Dopo avere stretto la mano al caposquadriglia,Alberto gli domandò:- Hai messo gli altri al corrente?- No, Signorina - rispose Ivano.- Preferisco così. Sarebbe meglio che da questomomento ci dessimo del tu.E non chiamarmi signorina…- Bene - disse Ivano - Lei mi…tu mi metti in unasituazione imbarazzante.- Attenzione! Controllati, andiamo.L’onore della squadriglia è in gioco.E come arrivarono all’altezza degli altri squadriglieri,

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la fata disse:- Per poco, sai, non sono rimasto a casa; questa mat-tina credevo di avere un potente raffreddore.- Spero che non sia nulla di grave - disse amabil-mente Ivano, che si era ripromesso d’indirizzarsi allafata in modo indiretto, per non essere costretto ad usareil «tu».Dopo aver salutato tutti, Alberto annunciò con enfasi.- Sono abbastanza pronto. Ho messo a punto la miatecnica, farò scintille, vedrete.- Andiamo bene - sospirò Giacomo - con un similepolentone c’è da aspettarsene di tutti i colori!- Sii gentile - disse fermamente il Csq.Un ondeggiamento si produsse tra i ragazzi raduna-ti, che, bruscamente ma in silenzio, si voltarono verso ilpiccolo gruppo dei Capi: il Vice CommissarioProvinciale stava suonando con un corno la chiamata deiCapi Squadriglia. Le gare avevano inizio: ciascun CapoSquadriglia ricevette un messaggio segreto il cui testodava le indicazioni per la partenza.Ivano ritornò verso i Gatti agitando il messaggio.- A prima vista io non sono riuscito a comprenderenulla - disse egli - potrebbe essere del morse mascherato.- No, senz’altro no - disse il novizio.- Che ne sai tu? - domandò Cavalletta, il terzo disquadriglia.- Potrebbe aver ragione - intervenne Ivano allarmato.

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- Qui potrebbe esserci uno spostamento di lettere suun numero di tre cifre - rispose il novizio fissandoCavalletta con una viva insistenza. Questi assunse subitoun aspetto stranamente pensieroso e pronunciò con unavoce lontana, come distaccata:- Dammi il foglio, Ivano. Grazie. In alto nel foglio c’èil segno (pi greco), cioè 3,1416 o 3,14. Probabilmentebisogna scalare la prima lettera di tre posti nell’alfabeto,in avanti o indietro.- Certamente in avanti, disse con autorità il novizio.- In avanti, - ripetè docilmente Cavalletta - e poi sca-lare la seconda lettera di un posto, la terza di quattro ecosì di seguito.- Sei sicuro? - domandò Ivano a Cavalletta.- Sì! - rispose al suo posto il novizio.- La chiave era proprio 314 e il messaggio tradottosuonava così:«Andate alla Quercia della Difesa. Per la strada rac-cogliete delle foglie che vi permettano, con la prima let-tera del loro nome, di formare la parola Joannes».- In cammino - disse Ivano.Come furono nella foresta dovettero preoccuparsi diraccogliere le piante.- È l’«J» che è difficoltoso trovare - osservòGiancarlo, il botanico di squadriglia.- Eccolo! - disse il novizio indicando un arbusto.- Ebbene? Quello è pungitopo; Joannes non ha la «p»

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mio caro Alberto.- Il resto della squadriglia si espresse con un coro dirisatine ironiche, salvo nauralmente Ivano.- Lo so. Ma quello serve per l’«J» non per la «P» -precisò Alberto - Quell’arbusto anticamente veniva chia-mato Jeromirto. Al giorno d’oggi questo nome non si usaquasi più ed è diventato una voce arcaica, tuttavia suldizionario Palazzi è ancora riportato.- Che cos’è questa novità? - disse stupito Giancarlo.- Sei ben sicuro di tutto ciò? - chiese Ivano pieno disperanza.- Si - rispose il novizio - sono sicuro.- Il novizio conosce il nome arcaico delle piante1 Mada dove tiri fuori tutta questa scienza? - domandòGiacomo.- Avevo uno zio che si interessava molto di botanica;era un mag… - la parola gli si troncò di colpo sulle labbra.- Mago, forse? - soggiunse ridendo Giacomo.- No, Magistrato - riprese Alberto con un tono unpo’ precipitoso.Poco prima della Quercia della Difesa, Giancarlocontrollò la raccolta:- Tutto va bene - disse Jeromirto (hum!), Olmo,Acacia, Noce, Edera e Sambuco. Dannazione! Nel nomeci sono due «N» ed occorrono quindi due piante diversecon questa iniziale. Andrebbero bene delle foglie di noc-ciuolo, ma qui è impossibile trovarle.

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- Ma tu le hai - osservò il novizio.- No, sono foglie di noce.- Guarda bene, le hai tutte e due.- No, ho raccolto per sicurezza due rami di noce -affermò Giancarlo. E per sostenere le sue ragioni presein mano i due rami. Come li mise a confronto aggrottòle sopracciglia, impallidì leggermente e disse con vocetremante:- Non riesco a capire. Li ho raccolti dal medesimoalbero ed ecco che mi trovo in mano del noce e del noc-ciolo. Eppure sono ben capace di distinguerli.

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- Il noce si è trasformato in nocciolo, ecco tutto! -disse ridendo il novizio.- Come per incanto! - aggiunse Ivano, che subito sipentì di questa battuta.Ma si rassicurò tosto poiché non notò che gli altri l’a-vessero rilevata.Il Capo, addetto al posto di controllo della botanicasi meravigliò di ciò che la squadriglia sapeva sul pungi-topo e si complimentò per questo con essa.Era necessario raggiungere il posto n. 2 seguendouna pista molto complicata.Il novizio aveva l’aria di andare a caso, ma era sem-pre il primo a scoprire le tracce più difficili.Il percorso prevedeva anche un ostacolo difficile: unmuro alto 3 m. da superare senza alcun mezzo da partedi tutta la squadriglia. Naturalmente un Capo era làpronto a cronometrare il tempo impiegato. Ivano deciseche il novizio sarebbe passato per ultimo. Quando Piero,l’atleta dei Gatti a cavalcioni sulla cima del muro, sichinò per tendere la mano al novizio, non lo vide più.- Alberto, dove ti sei cacciato? - gridò un po’ inner-vosito.- Qui - rispose una voce dall’altra parte del muro. Ilnovizio aveva superato l’ostacolo senza aiuto e senza chenessuno se ne accorgesse.- Ah! Ma… tu sei passato attraverso il muro! - dissescherzando Piero.

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- Sì - rispose semplicemente il novizio.- Al posto n. 2 una funicella era tesa ad un metro dalsuolo: bisognava tagliarla con la fiamma di un fuoco chela squadriglia doveva accendere sotto.La vigilia era piovuto, ma il novizio non ebbe alcunadifficoltà a portare subito un gran fascio di ramoscellisecchi ed asciutti. Castoro, cuciniere e pioniere di squa-driglia, aveva però scelto male il posto per il fuoco: ilvento deviava la fiamma molto lontano dalla funicella.- Alberto, aiutami a spostare il fuoco - gridò Castoro.- È inutile - rispose il novizio - guarda…Il vento, effettivamente, stava cambiando direzione ela funicella cominciava a bruciare.- Bravi, Gatti: voi avete conquistato il record! - disseil Capo del posto n. 2 - ed ora avete cinque minuti ditempo per improvvisare un travestimento da fuoco dibivacco: mi presenterete uno di voi travestito da fata.- Cavalletta truccherà Alberto - decise Ivano.- Com’è una fata? - domandò un po’ imbarazzatoCavalletta.- In questo momento come il novizio dei Gatti! -rispose ridendo Alberto. - Spicciamoci!Alberto si drappeggiò con una coperta, tolta dal suozaino che pareva vuoto, prese a prestito dei foulard, sifece una corona e dei braccialetti con fiori di campo,tagliò una bacchetta magica ed infine sollecitò il pareredegli altri.

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- Che vene pare?- Veramente coi fiocchi! - disse sinceramente Ivano.- Vedrai - concluse il novizio mentre si avviava perpresentarsi al Capo della prova. Questi espresse la pro-pria ammirazione con un fischio:- Straordinario! Questo mantello, questa veste fiora-ta, e le trecce e i gioielli! Bravi, Gatti. Io sono veramenteincantato, sì, sì, veramente incantato!- Volete permettermi, Capo, di trasformarmi in unazucca con un colpo di bacchetta magica? - domandò ilnovizio agitando il rametto che teneva in mano.Ivano si sentì agghiacciare il sangue; «Ella» era bencapace di farlo, pensò con un vivo sentimento di contra-rietà e con la triste previsione della catastrofe cui sareb-be andata incontro la sua squadriglia. Sarebbe stata squa-lificata e ci sarebbero state delle noie a non finire quan-do si fosse risaputo che il Vice Commissario Provincialeera stato trasformato in una zucca.Il Capo della prova si mise a ridere e disse:- No! Inutile spingere la prova fino a quel punto!Durante tutto il percorso delle gare, il novizio fuabbagliante. Diede prova di brillante competenza tecni-ca, affascinò i Capi che controllavano le prove, sciolse ledifficoltà come un facile gioco, ristabilendo all’ultimomomento una situazione che all’inizio pareva gravemen-te compromessa.Gli squadriglieri, compreso Giacomo, pur meravi-

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gliandosi non poco della virtuosità del novizio, glielariconobbero ed ebbero fiducia in lui: anch’essi eranosotto l’incantesimo.Quella fu una giornata magnifica per il prestigio e lagloria della squadriglia dei Gatti, che conquistò il primoposto nelle gare di zona con un vantaggio veramentenotevole sulle altre.Quando, al termine della giornata, i ragazzi si sepa-rarono, felicitandosi ancora una volta l’un l’altro per lavittoria conseguita, Ivano, il Capo squadriglia, cercò dirimanere solo con il novizio.- Ebbene! - gli disse - Non mi resta che ringraziarla,Signorina: Non so come provarle la mia riconoscenza.Potrebbe accettare di essere nominata Gatto onorario?- Grazie, ti sono riconoscente per questa offerta -disse la fata - se vuoi posso subito trasformarmi in unvero gatto.Prima ancora di avere una risposta, il novizio entrònel portone più vicino, per uscirne, appena due secondidopo, sotto la forma di un gatto che accompagnò Ivanoper qualche metro, zufolando dolcemente il canto dellasquadriglia dei Gatti.Poi sparì nella notte.Nelle riunioni e nelle uscite seguenti, Alberto, il novi-zio, si meravigliò molto sia della considerazione inattesache gli dimostrarono tutti gli squadriglieri, sia delle allu-sioni numerose sulla sua brillante condotta nelle gare di

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Commissariato. Non si formalizzò però molto su quellache considerava una facezia collettiva, certo non moltopiacevole. Ebbe modo, d’altronde, di constatare che ilsuo prestigio era veramente reale: tutto ciò che facevaera approvato dagli altri; e spesso gli domandavano con-siglio anche i più anziani della squadriglia.Gli stessi gesti e le stesse considerazioni, che in altrecircostanze avrebbero suscitato l’ilarità di tutta la squa-driglia, erano ora accolti col più grande rispetto.

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Alberto non cercò mai di scoprire il mistero di que-sto comportamento.Pensò che si trattasse di una consegna di Ivano,anche perché l’atteggiamento del Capo squadriglia eraun po’ diverso da quello di tutti gli altri.Ben presto Alberto acquistò una grande fiducia nelleproprie capacità.Egli si sentiva incoraggiato dai successi: le vittorie

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chiamarono le vittorie.Sicuro di essere molto forte in tecnica scout, egli sene interessò con entusiasmo fino a diventare veramenteimbattibile in molti campi.Lusingato perché le sue opinioni erano tenute inconsiderazione, si applicò per migliorarle; contento perla fiducia che gli si accordava, si sforzò per esserne sem-pre degno.Tanto fece , e così bene, che alla fine dell’anno funominato Vice Caposquadriglia, poiché si era resovacante il posto lasciato da Giacomo, salito al Clan conIvano.Quando ripensava alla sua carriera tanto rapida, quan-to inesplicabile, egli diceva fra sé con modestia:- Ciò che mi è capitato è un vero racconto di fate…

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Senza frontiere

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La Squadriglia di nessun luogo

Il Jamboree di Moisson in Francia, nel 1947, è stato certa-mente il più spettacolare e segnò il rientro dell’Italia nellagrande fraternità scout mondiale.Le squadriglie francesi partecipanti furono scelte in basead una gara d’imprese.In tutta la Francia ci fu un fiorire di attività di squadri-glia, alcune delle quali di elevato livello tecnico o di grandeoriginalità. Non mancarono anche le imprese realizzate nel

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vasto campo delle Buone Azioni scout.L’eco di quelle realizzazioni giunse in Italia alimentan-do un grande entusiasmo e il desiderio di imitarle. Fu stam-pato anche un magnifico libretto intitolato «Imprese e gestadi squadriglia».Una squadriglia francese non riuscì a classificarsi ed allo-ra escogitò...una superimpresa, degna davvero di essere ricor-data quasi come una leggenda.

C’è una Squadriglia di cui non si comprende la lin-gua.

- Quale lingua?- Appunto, il male è che non si sa quale! - Allora cer-chiamo l’interprete Svedese. Quello Norvegese dice chequelli non parlano Norvegese.Un momento dopo anche lo Svedese dice che nep-pure sono Svedesi. Si cerca qualcuno che parli il Turco.- Questi non sono Cinesi, si vede subito!…- Non è un dialetto nero?- No, sono bianchi!- Ah lo so: sono Arabi!- E i loro distintivi?

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- Dei distintivi bizzarri, con un dragone che mangiaun fiordaliso e poi dei galloni dorati. Simile a noi nonhanno che il fiordaliso.Per due ore il Capo della misteriosa Squadriglia noncessò di storpiare cose incomprensibili, ma che sem-bravano severe critiche per la deficiente organizzazionedel Jamboree.Il Capo addetto alla sistemazione gemette: - Ma ionon ho il tempo di occuparmi di una Squadriglia! Neho a migliaia sulle braccia! Mettete loro sotto il nasouna carta del mondo: vorranno bene indicarvi da dovevengono!Questa prova diede un risultato decisivo. Con undito preciso il Capo squadriglia indicò l’Himalaia.- Non vi sono Scouts lassù! E se fossero scesi lo sisarebbe saputo!Tuttavia la notizia che la Squadriglia di nessun luogoin definitiva veniva dall’Himalaia, decise l’alto responsa-bile delle sistemazioni a scomodarsi di persona. Si pote-va temere qualsiasi complicazione.L’alto responsabile riconobbe che, effettivamente,questi ragazzi, almeno il solo Capo Squadriglia, il sololoquace, parlavano una ben misteriosa lingua. Mostròloro la carta d’identità che i partecipanti del Jam dove-vano possedere.Gli altri, annoiati, risposero con segni che non com-prendevano affatto. Allora furono destinati al «Campo

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degli Ospiti di passaggio». Mancando l’interprete adattofurono destinati due «Z» (gli scouts di servizio addettiall’accoglienza) alla «Squadriglia di nessun luogo».- Soprattutto siate pieni di premura! E restate a lorodisposizione!- Accidenti! Disse Titi l’altro «Z». Ci si diverte conquesti ragazzi ed il loro dialetto!- Tu trovi che parlino qualcosa? A parte il CapoSquadriglia che biascica senza posa ed un altro che l’ac-compagna di tanto in tanto, essi non aprono bocca!Ma un fatto nuovo non tardò ad accadere... Unodegli «Himalayani» si spazientì ed espresse il suo dolorein questi termini: - Ah! Accidenti!I due «Z» si guardarono. Tutti gli Himalayani si guar-

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darono. Il loro Capo tenne un discorso prolungato di cuisi distingueva questa parola che ripeteva senza posa -Zulator.… zulator… zulator…

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- Probabilmente è una parola della loro lingua, disseTiti.- Io non trovo troppo chiaro tutto questo, replicò ilsuo amico. Andiamo a riferirlo.Quando tornarono col Capo del Campo degli Ospitidi passaggio, non trovarono più gli «Himalayani».La Squadriglia di nessun luogo aveva deciso di tron-care il suo gioco. Era andata a trovare il Capo delSottocampo «Bretagna».- Bisonti del 14° Rennes!, aveva detto il CapoSquadriglia. Il nostro «esploit» non era stato giudicatosufficiente perché fossimo selezionati. Soltanto, noisiamo Bretoni e Bisonti per giunta, doppiamente testar-di… Allora abbiamo deciso di fare un «esploit» formida-bile: accamparci al Jam senza essere iscritti. Ci siamo riu-sciti: siamo alloggiati come principi ed abbiamo due «Z»a nostra disposizione. È una impresa sufficiente per esse-re ammessi al Jam, Capo? Tu comprendi, Capo, io parlomolto bene il Bretone ed il terzo della mia Squadrigliadice qualche parola, ed allora…Gli Himalayani erano ridiventati i Bisonti del 14°Rennes. Il vecchio Capo si portò la mano alla testa; chiavrebbe avuto il coraggio di scacciare quei Bisonti?

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Un sorriso scout.

Anche un sorriso scout puòdiventare qualche volta leggenda.

Il 13° Jamboree mondiale verrà forse ricordato come ilJamboree del ciclone anche se nella storia dello scauti-smo ci sono stati altri esempi di Jamboree bagnati.Basterebbe ricordare - solo nel dopoguerra - iJamboree mondiali del Canada e dell’Inghilterra. Questavolta però siamo usciti dai limiti della decenza per entra-re nelle dimensioni della calamità naturale, nel caso diemergenza. Per due giorni ed una notte , sovvertendoanche il calendario meteorologico, l’acqua continuò acadere a vasche ed il vento a soffiare a più di cento chi-lometri all’ora. La precipitazione eguagliò quella mediaitaliana di un anno. Pur essendo il Campo distante otto-cento chilometri dall’occhio del ciclone ci ritrovammotutti bagnati, infangati ed allagati. Il sacro monte Fuji, aipiedi del quale campeggiavamo, è un vulcano, uno deipiù famosi del mondo. Il terreno del Jamboree era quin-di nero, polveroso, già fastidioso col bel tempo.

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Figuratevi con la piog-gia! Si trasformò in unfango vischioso, tena-ce, che imprigionavale scarpe e le risuc-chiava, che ti inzac-cherava irrimediabil-mente fino ai capelliche si trasformava dia-bolicamente in riga-gnoletti neri, pronti ascendere con matema-tica precisione dall’al-to dei tendoni sul tuocollo, quando meno telo attendevi, ed apenetrare, freddi, tra lacamicia e la pelle, finoall’ombelico. Nulla po-tè resistere a tantafuria naturale: i portalifurono irrimediabil-mente distrutti, abbat-tute molte antenne edaltre costruzioni. Gliscouts giapponesi conla tristezza nel cuore

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dovettero smontare, in un clima di disfatta, i grandi ten-doni che avrebbero potuto in casi normali servire comeriparo e rifugio, ma che ora stavano irrimediabilmentelacerandosi e riducendosi a brandelli. Sembrava di vive-re in una palude, spazzata dal vento impetuoso. Acquadi sopra, acqua di sotto, acqua di fianco portata dalle

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raffiche improvvise e micidiali della burrasca.Per rimettere all’asciutto gli scouts, immersi fino alcollo in tale pantano, la direzione del Jamboree decretòl’emergenza e decise saggiamente di sfollarli con tutti imezzi, almeno per una notte, nelle caserme, nelle scuo-le, nelle «bonzerie» del circondario. Iniziò così il grandeesodo che per i più pessimisti sembrava ormai senzaritorno. Possibile che il Jamboree dovesse finire doposolo tre giorni?Noi del Quartier Generale Italiano fummo alloggiati,insieme con un altro migliaio di scouts, in un college perl’aggiornamento dei giovani professionisti. Fu una speciedi invasione delle formiche, c’erano scouts ovunque, intutte le stanze, in tutti i servizi, in tutte le aule. Gli Scoutsdel Reparto italiano con i loro capi furono invece tra-sportati in una caserma.Cercammo invano di sapere dove fosse questa caser-ma, per poter ristabilire qualche contatto ma ogni cosapareva essersi disciolta nell’acqua. Le nubi impazzite cor-revano basse nel cielo, sfumando ogni contorno dietrocortine d’acqua filacciosa. Che cosa ci fosse al di là eramistero, mistero d’oriente: panorami che si rinnovavanocontinuamente, dimensioni che mutavano plasticamentecome le nubi del cielo. Col fatalismo tutto orientale deci-demmo di attendere, incapaci ormai di formulare qual-siasi previsione. Stendemmo i nostri sacchi-letto perterra e ci avviammo verso il refettorio, l’unico ambiente

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capace ormai di riportarci ad una visione reale e concre-ta della situazione. I giapponesi avevano fatto miracolimettendosi in condizione di alimentare tutti con unacena calda. Occorreva fare la fila perché l’ambiente erasproporzionato all’invasione, ma il successo era assicura-to. Ci sentivamo molto Coolies in paziente attesa di unpugno di riso dopo una giornata di duro lavoro maanche ormai sufficientemente asciutti per considerarel’avvenire con una creatività tutta occidentale. Io credoche certo fatalismo orientale dipenda proprio dal fatto divivere continuamente in un clima umido, in un ambien-te bagnato, in mezzo a fiumi e a risaie. Un uomo con lemutande bagnate perde le sue capacità di reagire, dicomportarsi normalmente; la sua visione dinamica dellavita sfuma in un pessimismo paralizzante, che lo appiat-tisce e lo rende timoroso verso gli «asciutti», vera castasuperiore.Io e Sandro, il commissario centrale della BrancaEsploratori di GEI, stavamo dunque attendendo conpazienza orientale ed ottimismo occidentale, il nostroturno di cena, quando fummo scossi da un grande colpo,quasi una esplosione, prodotto alle nostre spalle. Alcolpo seguì la carettistica sinfonia di una grande vetratache cade per terra, distrutta in mille pezzi. Un piccoloscout filippino, correndo verso il refettorio, era passatoattraverso la vetrata chiusa, demolendola ed ora giacevaa terra, a dir poco intontito ma forse pure lui demolito

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dal tremendo urto. Io e Sandro ci precipitammo in suosoccorso, cercando di immaginare rapidamente, durantei cinque metri che ci separavano da lui, tutte le soluzionidi emergenza possibili, compreso l’eventuale funerale.Fortunatamente il caso non era poi così grave: moltepiccole ferite ancora piene di frammenti di vetro ma nes-suna profonda, ed un grosso stordimento per la potente«capocciata». Con grande delicatezza cominciammo atogliere i vetri infilati nella pelle ed a controllare che nonci fosse nessuna frattura.Dopo pochi istanti l’infortunato riprese pienacoscienza, spalancò tanto d’occhi e, vedendoci chini sudi lui per soccorrerlo, non trovò per il momento altromodo di esprimerci la sua gratitudine che di spalancareanche un largo sorriso. Scout che sorride, male chepassa! Tirammo tutti un sospiro di sollievo dimentican-do le angustie nere che per un attimo avevano albergatoin un angolo del nostro animo. Partite le angustie, arrivòun capo australiano, medico, che si prese in caricol’infortunato lasciando capire in modo palese che essoavrebbe usufruito in modo privilegiato di tutte le suecompetenze professionali, ben superiori alle modeste edilettantistiche nozioni di pronto soccorso del medioscout mondiale, alla cui categoria il sottoscritto si onoradi appartenere. Noi modestamente ci rimettemmo in filain attesa del nostro riso. La mattina successiva cercammo un locale per la

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celebrazione della S.Messa. Non eracosa facile, perchél’istituto era pienocome un uovo, tut-tavia la nostrabuona volontà fupremiata. Trovammo unastanzettina che eraquasi libera perchédestinata ad infer-meria. Non liberadel tutto perché inun angolo, su di undivano, giaceva,fasciato come unamummia, Ernesto, ilgiovane scout filip-pino rompivetro. Isuoi occhi, sempremolto espressivi, siilluminarono quan-do vide che stava-mo apprestandol’altare su di unbasso tavolino.

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Sorridendo ci pregò di aggiungere una particola ancheper lui perché, essendo cattolico, desiderava parteciparealla S. Comunione. Durante la Messa fu obbligato arimanere sdraiato per via delle fasciature, tuttavia prestògrande attenzione e quando Don Franco gli si avvicinòcon l’Eucarestia spalancò il miglior sorriso del suo reper-torio, perché stava ricevendo Gesù.Come Ernesto abbiamo incontrato al Jamboreemolti esploratori, sereni, semplici e sorridenti, con losguardo limpido e la Legge scout dipinta sul volto,ragazzi capaci di portare un raggio di sole anche nelpieno di un tifone.

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Manoli

Il Jamboree della Grecia ebbe un grande significato perl’Italia. Si trattava di riallacciare un vincolo di fraternità,dopo una tragica guerra, tra due popoli che hanno avutoun’antica storia comune ed una comune civiltà.Andammo in Grecia come giovani ambasciatori di pace eil significato della nostra presenza fu calorosamente compresodalla popolazione greca che nei nostri confronti usò una sim-patica espressione:«Stesso viso, stessa razza!»Sembrava quasi che i greci si fossero accordati per ripe-

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terci questa frase, tanto significativa di un legame riannoda-to. Anche l’opinione pubblica italiana capì il significato delnostro viaggio e ci aiutò a realizzarlo. Andammo con duenavi trasporto della Marina Militare partendo da Taranto.Commovente fu il passaggio del canale che taglia la città eunisce il Mar Piccolo con il Mar Grande: secondo la tradi-zione della Marina, eravamo schierati con gli equipaggi sulponte delle due navi, che procedevano lentamente, mentre lapopolazione sulle due rive applaudiva.Sugli spalti del castello aragonese, sede del comandoMarina, a fianco della bandiera nazionale, era schierata laguardia con banda. Sulla torre erano un sottosegretario in rap-presentanza del governo, il vescovo, il sindaco e l’ammiraglio.Nel momento in cui la nostra nave passò all’altezza delponte girevole, la banda militare intonò l’inno di Mameli, cuifece seguire subito, con nostra grande sorpresa, le note dell’in-no nazionale dell’ASCI «Passa la gioventù». La nostra gran-de avventura iniziava.Io vorrei ricordare un episodio particolare che riguarda lapreparazione di quel Jamboree.In Gennaio di quell’anno stampammo un numero specia-le de «L’Esploratore» (la rivista degli esploratori ASCI) consessantaquattro pagine tutte dedicate alla Grecia e alJamboree che si stava allestendo. Proprio in quei giorni gliorganizzatori greci erano andati un po’ in crisi a causa diun’alluvione che aveva distrutto tutti i lavori già affettuatinella piana di Maratona. La nostra rivista, con l’interesse

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alla grande manifestazione che essa testimoniava, restituì lorotutto l’entusiasmo necessario per riprendere il lavoro. Con untelegramma inviato subito e con una targa consegnataci uffi-cialmente durante il campo testimoniarono la loro riconoscen-za alla nostra rivista, per il contributo da essa dato al succes-so della grande manifestazione scout.Durante tutto l’anno precedente “L’Esploratore” dedicòmolte pagine per preparare la nostra partecipazione alJamboree. Tra l’altro pubblicò il seguente commovente racconto:

Il 28 ottobre 1940, il regime fascista, che allora «gover-nava» l’Italia, attaccò improvvisamnete la piccolaNazione greca col solo intento di accaparrarsi una gloriamilitare, che poi le mancò perché aveva mandato a com-battere soldati privo di ogni equipaggiamento modernoed armati quasi soltanto del loro valore.Per questo i nostri soldati per poco non furono ricac-ciati in mare, dopo aver dovuto ripiegare in Albania, ecaddero a migliaia tra le nevi dell’Epiro, colpiti ancor piùdal gelo che dalle armi. Fu in quell’occasione che gli alpi-ni della «Julia» scrissero pagine di sacrificio e gloria. Amigliaia caddero anche giovani greci per difendere laloro terra.L’Italia, con l’aiuto determinante della Germania, riu-scì poi ad entrare in Grecia e le sofferenze di quel popo-lo continuarono, soprattutto a causa della fame. È veroche i soldati italiani, in molte occasioni, seppero divide-

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re il loro pane con la popolazione locale, ma è anchevero che la causa di tante sofferenze era stata la guerrascatenata dal Fascismo. Ciò nonostante, quando l’Italiafirmò l’armistizio, i Greci seppero dimenticare, divisero illoro già scarsissimo pane con i nostri soldati sopraffattidalle armate tedesche. E li aiutarono a sfuggire alla pri-gionia.Leggete che cosa scrive uno che visse quei momen-ti tragici:«I Tedeschi ci incolonnarono sulla banchina avvian-doci verso Atene, una baionetta per metro, con qualchecalcio nella schiena per chi era più debole.La gente di Atene era scesa sulla strada, a salutarci.Pareva che una parola d’ordine fosse corsa per la città.Era giunta loro l’eco della nostra tragica vicenda, ederano venuti a dirci la loro solidarietà. A noi, quello spet-

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tacolo di spontaneo affetto da parte di coloro che, finoad ieri, ci erano stati nemici, a noi - inariditi dalle priva-zioni - quel gesto aveva riempito il cuore di speranza e gliocchi di lacrime. Gli ateniesi ci amarono in quel tiepidomattino di dicembre e anoi parve di aver incontrato deifratelli.Erano scesi sulla strada con pane ed acqua (avevanocerto capito che stavamo per morire di stenti). Qualcunonella nobiltà del suo caritatevole gesto fu raggiunro epicchiato dalle sentinelle tedesche. Le donne ebberofrantumati tra le mani i vasi pieni d’acqua e gli uominifurono bastonati per averci gettato pane e fichi. Un bam-bino che correva ad una fresca fontana con le nostre bor-racce vuote fu gettato a terra e malmenato.Le sentinelle sparavano a cinque centimetri sopra lafolla. Ma in quel mirabile corpo a corpo fra chi ci odiavae chi ci amava, vinse l’amore, più intrepido dell’odio, edognuno di noi ebbe, presto o tardi, lungo il lunghissimotragitto di quattro ore di marcia, un sorso d’acqua, unaparola di conforto e di incoraggiamento.Ci fecero percorrere tutte le strade principali dellacittà, dovevamo evidentemente servire, con la nostramiseria e la nostra stanchezza, di efficace propaganda alpotente esercito tedesco della Wehrmacht.Ma la gente, assiepata sui marciapiedi, applaudì aiseimila di Leros, forse perché avevano vittoriosamentecombattuto l’ultima, la più difficile battaglia della nostra

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guerra, quella dell’onore.Ci rinchiusero nel campo di Euchita, ai margini dellacittà, campo immenso e desolato, punteggiato di luridebaracche.La gente venne ai reticolati e gettò ancora pane sottole fucilate delle sentinelle tedesche.Verso la sera un piccolo greco, Manoli, cadde sulreticolato col cuore spezzato da una fucilata, mentreporgeva ad uno di noi, con semplice gesto, tutta la suaricchezza, un tozzo di pane nero. La gente fuggì terro-rizzata ed il piccolo martire rimase lì piegato su se stes-so come un fiore spezzato sullo stelo. Chiesi all’ufficialedi poterlo seppellire, perché pensavo di mettere unacroce sulla sua tomba e, forse non aveva né babbo némamma. Ma mi fu impedito e lo portarono via su unacamionetta militare. Invece Manoli aveva la mamma. Ela mamma venne (era già notte, perché forse un po’ loaveva aspettato) al reticolato e lì pianse e implorò conl’urlo di una belva ferita a morte. Qualcuno di noi fuggìnelle baracche perché era troppo straziante il pianto.Poi fu allontanata».Gli scouts italiani, andando in Grecia al Jamboree,cercheranno di rintracciare la madre di Manoli per tri-butarle una solenne manifestazione di affetto a nome ditutti i ragazzi e di tutte le madri d’Italia, affinché non siadimenticato il gesto generoso di un ragazzo che offrì ilsuo pane e la sua vita, perché tutti gli uomini tornassero

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ad essere fratelli.Durante il Jamboree cercammo di rintracciare la mammadi Manoli, ma senza risultato.Il regalo simbolico che avevamo preparato, rimase pertutto il tempo sull’altare del nostro campo, a fianco di unvasetti di fiori mantenuti sempre freschi.Durante il ritorno le nostre navi si fermarono in queltratto di mare in cui avvenne la battaglia di Capo Matapan.Con una cerimonia ricordammo tutti i caduti: dopo la Messalanciammo in mare due corone d’alloro, una per gli italiani euna per gli inglesi, mentre i marinai salutavano sparandoalcuni colpi.Con le corone gettammo anche il ricordo che avremmo

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voluto consegnare alla mamma di Manoli, accomunando così,in un medesimo ricordo, tutti i giovani morti a seguito di even-ti bellici, che ci auguriamo non abbiano mai più a ripetersi.

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Tempi difficili

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Una fibbia scout

Sam Andreucci, quand’eraresponsabile regionale scout del-l’Emilia Romagna, una sera rac-contò al fuoco di bivacco il seguenteepisodio:

Campo di prigionia - 1943.Desolata attesa della

libertà nostra, ma più di tuttodella liberazione della nostraPatria martoriata. Eravamo incinque ufficiali sotto la tenda aimargini del deserto africano,bagnato dal nostro sangue intanti anni di guerra.Stavamo coricandoci, quan-do un capitano, vedendo la cin-ghia di cuoio con la fibbia degliscouts che mi toglievo spoglian-domi, mi chiese. «Anche tu seistato esploratore?» e, senzaattendere la mia risposta ,

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seguitò:- Io conoscevo poco quel movimento quand’eroragazzo e in Italia c’erano gli esploratori, sentivo qualchecosa che mi pareva straniero nella foggia delle uniformie nella mentalità dei giovani iscritti che avevo conosciu-to; ne diffidavo… Poi passarono gli anni, più non li vidie li dimenticai. Ora ti dirò come dopo tanto tempo misono ricreduto della mia convinzione.Avevo il comando di una compagnia a Mareth; fragli ufficiali c’era un tenente, alto, bruno, di una forza e diuna resistenza alla fatica rare a trovarsi. Era semprecalmo e sereno, ed era molto ben voluto dai soldati: sole-va dire che gli Italiani sanno morire solo per amore edessere benvoluti dai soldati significava poterli portaredove si voleva. Usava una cinghia di cuoio con la fibbiadegli scouts, proprio come la tua, e quando era in mani-che di camicia durante la giornata, la teneva bene invista. Un giorno, quasi per stuzzicarlo, gli chiesi il signi-ficato di quel fiordaliso e di quel motto in latino: egli miparlò di promessa, di antichi cavalieri, di un programmameraviglioso per un giovanetto; io poco capii e lasciaicadere la conversazione.Una volta fummo attaccati da un battaglione inglesedei Granatieri della Regina, bei soldati davvero.Contrattaccamo; tornammo sulla nostra posizione, ilcontrattacco non era riuscito.Mancava il tenente. Due dei suoi soldati uscirono a

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cercarlo verso il luogo dove doveva essere caduto. Lotrovarono… Accanto a lui un soldato inglese era inginocchio e, in silenzio, gli teneva il capo sollevato. I sol-dati ristettero timorosi di turbare il morente. Egli tentòdi sollevarsi, fece cenno di volersi alzare, poi lentamentesi tolse la cinghia e la donò all’Inglese, poi in silenzio glistrinse la mano… e trapassò sorridendo: sembrava colsorriso rievocare visioni lontane della fanciullezza, visio-ni di una fratellanza resa più vera nell’ora del trapasso.I due soldati rientrarono col corpo del tenente e rac-

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contarono che il soldato inglese, dopo aver composto ilcadavere dell’ufficiale italiano caduto, aveva salutato contre dita della mano destra riunite… e ripeterono il salu-to che io avevo visto fare agli esploratori.- Capitano, - gli dissi - gli scouts di tutto il mondohanno una legge che fra l’altro dice: «Lo scout è amico ditutti e fratello di ogni altro scout». Perciò il fratello ingle-se ha assistito il fratello italiano nell’ora estrema… Fra gliscouts si realizza quella fraternità che gli uomini tutti cer-cano.Gli altri compagni di tenda e di sofferenze dormiva-no. Dopo un lungo silenzio, il capitano esclamò:- Se è così, è bello.Quella sera pensai al soldato inglese, all’ufficialecaduto, ai nostri mille reparti, ai campeggi lassù suimonti della nostra Patria, quando eravamo esplorato-ri…e mi parve, la tenda della mia prigionia, la tendanostra di esploratori.

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Lo «Scouting for Boys» gli salvò la vita.

Nel 1947 l’opera di ricostruzione dellla nazione, usci-ta distrutta dalla guerra, era ormai avviata; occorrerà

ancora tempo ma le ferite più gravi si stavano rimargi-nando. Non bastava però ricostruire solo i ponti, le fab-briche e le case, occorreva ancora ridare coraggio edignità ai cittadini. Si erano formati i partiti, si sviluppa-vano le libere associazioni, prolificava la stampa marimanevano ancora larghe sacche del territorio naziona-le in cui imperava la paura.La lotta civile nell’ultimo anno di guerra era stataviolenta e spietata, intere famiglie erano scomparse, levendette non si erano fermate al termine del conflittomilitare, alcune forze politiche speravano ancora dipotersi imporre in modo totale e nelle zone in cui sierano conquistate una grande influenza cercavano dicostringere al silenzio gli avversari, col timore e la velataminaccia.

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Occorreva spezzare questo cerchio pericoloso, primache si stringesse in modo definitivo, e mettere il cittadi-no in condizioni di potersi ovunque esprimere libera-

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mente; occorreva mostrare che c’erano altri, molti esenza paura, che non la pensavano allo stesso modo. Atutti doveva essere riconosciuto il diritto di scenderesulle piazze a manifestare il proprio pensiero senza esse-re derisi, senza essere segnati in pericolosi libri neri orossi, e senza paura di ritorsioni.Per questo i movimenti giovanili cattolici, coordinatidall’Azione Cattolica, decisero di organizzare una gran-de riunione a Bologna, considerata la roccaforte e ildominio esclusivo di alcune forze politiche di sinistra.Occorreva dimostrare che nessuno doveva essere consi-derato cittadino di «serie C» e che il progresso ed i gio-vani non erano patrimonio esclusivo di uno o due parti-ti alleati, al di fuori dei quali sembrava che dovessero tro-var posto solo le suore, i sagrestani e le vecchiette.Da tutta l’Italia settentrionale e con ogni mezzo, con-vennero a Bologna migliaia di giovani. Piazza Maggiorenon fu sufficiente a contenerli; gridarono la loro gioia ela loro speranza in un mondo libero e sereno, cantaronoi loro canti e sventolarono le loro bandiere, celebraronotutti insieme l’Eucarestia e percorsero in corteo le prin-cipali vie cittadine. In testa a tutti erano migliaia discouts. La città si meravigliò, si scosse , applaudì; chiaveva timore si rincuorò, chi sperava ancora nella pre-potenza come mezzo di persuasione dovette fare unesame di coscienza. La libertà stava vincendo, la cappadi piombo della paura cadeva a pezzi e i «triangoli della

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morte» potevano esser ormai considerati, con sollievo,solo un triste ricordo. Le cose stavano finalmente cam-biando: il timore di aver solo cambiato regime, dal neroal rosso, si dissolveva; i cittadini riprendevano il corag-gio delle proprie idee e la fiducia in un vivere civile edemocratico.La vecchia mentalità totalitaria, ereditata dal fasci-smo, respirata per decenni, faceva tuttavia ancora faticaa tramontare. Troppi erano coloro che avevano sempli-cemente cambiato casacca con la speranza di poter con-tinuare a usare gli stessi sistemi; molti si illudevano chela libertà spettasse solo al loro partito e servisse a mette-re in silenzio tutti gli altri, considerati in blocco cattivi ereazionari. E i cattivi erano da punire, magari con lebombe, poiché anche allora c’era chi credeva di poterconvincere gli avversari con questi sistemi fragorosi eviolenti.Spesso l’avversario da punire era il prete, responsabi-le di togliere alle organizzazioni del «partito» tutta unaserie di ragazzetti, che preferivano ritrovarsi all’ombradel campanile per respirare malsane ed antiquate ideolo-gie o per giocare ai «Boy scouts».Ed anche quel giorno, 23 di Settembre, mentre aBologna si riunivano migliaia di giovani cattolici, qualcu-no, per ritorsione, pensò bene di mettere una bombadavanti alla porta della canonica di Ceretolo, una frazio-ne qualche chilometro oltre Casalecchio di Reno. Lo

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scoppio ferì a morte un ragazzo e ne mandò all’ospeda-le un altro ed il parroco.I due ragazzi, Cesarino, un Aspirante di A.C. eRoberto, un giovane scout, avevano servito Messa al par-roco e poi si erano fermati a parlare con entusiasmo delconvegno che stava iniziando a Bologna.In quei tempi non si andava in villeggiatura sulleDolomiti; una casa di campagna, anche vicino aBologna, era già una grande occasione di svago e lacanonica del paese era il naturale punto d’incontro deglistudenti in vacanza. Si serviva Messa, si ripassava lagrammatica di latino con il parroco, si leggeva il«Vittorioso» con i cineromanzi di Jacovitti, si disputavauna partita a ping pong…Quel giorno, in clima di entusiasmo per il convegnodi Bologna, Cesarino stava raccontando a Roberto le sueesperienze con i Grest, i famosi gruppi estivi degliAspiranti di Azione Cattolica e il suo interlocutore, pernon essere da meno, sfoderava il ricordo delle sue avven-ture al campo estivo scout. Don Guerrino faceva damoderatore in questo nobile confronto, sorridendo perl’entusiasmo e lo spirito di corpo dei suoi giovani amici.Ad un certo momento, Roberto si ricordò che nellabiblioteca del parroco c’era il volume di Baden Powell:Scautismo per ragazzi edito da Salani.«Voglio farti leggere la Legge scout che deriva da quel-la degli antichi cavalieri», disse a Cesarino, e si alzò per

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recarsi nel locale accanto.Si era appena allontanato di qualche passo, quandouna tremenda esplosione sventrò la porta e gettò a terratutti e tre. Per Cesarino, il giovane aspirante di A.C., labomba aveva aperto anche la porta del Paradiso. DonGuerrino, colpito pure lui in pieno, riuscì a salvarsi anchese le gravi ferite lo resero invalido e i loro postumi favo-rirono poi, a distanza di qualche anno, l’insorgere di un

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male incurabile che lo portò a raggiungere Cesarino inParadiso.Roberto, essendosi allontanato ormai di qualchepasso, fu ferito ma non in modo gravissimo e riuscì acavarsela con un lungo periodo d’ospedale.Gli amici scouts che lo visitarono non trovaronostrano che tenesse sempre sotto il cuscino una copiadello Scouting for boys.

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Il prezzo della libertà

Quand’ero ragazzo, le proposte politiche rivolte a noigiovani erano tutte a senso unico: fasciste.

Chi avrebbe potuto parlare in termini diversi preferi-va stare zitto, per paura o per non essere definito unsuperato.In qualche momento era sufficiente girare per piazzacon «L’Osservatore Romano», che spuntava dalla tascadella giacca, per essere per lo meno derisi, se non insul-tati e picchiati dalle squadrette giovanili di moda.La stragrande maggioranza degli adulti aveva ormaiaccettato come soluzione storica inevitabile l’avventodell’ «ordine nuovo» fascista.I grandi strumenti di diffusione delle idee, anche loroper essere all’avanguardia, da tempo avevavo sposato ilnuovo corso,e ne erano stati i fautori. Stampa, spettaco-lo, cultura e scuola suonavano tutti a meraviglia un’uni-

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ca sinfonia: «il vecchio sistema marcio e superato avevafinalmente lasciato il posto ad un ordine nuovo, più giu-sto, più moderno, più consono alla dignità della nazionee dei suoi cittadini!».Tutti si erano lasciati catturare da queste idee e leavevano di buon grado accettate come segno dei tempi.L’opinione pubblica era ormai convinta della validità sto-rica di questi pseudo ideali.Non si può certamente dire che negli anni trenta ilfascismo si sia retto con la forza. Si resse col consenso

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delle masse popolari che, illuse da una ben orchestratapubblicità di progresso, andavano in piazza ordinata-mente a sfilare e a manifestare. Tutti salutavano fiera-mente con il braccio alzato, sia che passasse una bandie-ra o un funerale.Salvo qualche irriducibile, ormai emarginato o com-patito dagli amici, tutti gli altri italiani si erano convintiche quella fosse l’unica soluzione nazionale valida, giustaed entusiasmante. Poi, dopo la caduta del Duce, gliItaliani si scoprirono tutti irriducibilmente da sempreantifascisti. Può darsi che qualcuno lo fosse anche, macertamente fino a quel momento ebbe grande capacità didissimularlo e una grande abilità nel girare fieramente incamicia nera per non farsi scoprire.Solo qualche barzelletta sul regime rompeva bona-riamente la monotonia del generale consenso.Con entusiasmo generale anche la guerra fu accetta-ta come mezzo per portare il nuovo corso della storia adun mondo di nazioni demo-pluto-giudaico, ecc. ecc.ormai in disfacimento morale e politico.Ci vollero i rovesci e i disastri dei campi di battagliaper aprire gli occhi agli italiani e specialmente ai giovani,che non avevano avuto fino a quel momento altra espe-rienza diversa da quella fascista.In quel generale dissesto e sconquasso di valori, ci fufinalmente qualcuno che cominciò a parlare ed a pensa-re ad un futuro diverso.

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Il 25 Luglio del ‘43, con la caduta del fascismo, ci fuun confuso entusiasmo ed timido fiorire di qualche con-creta iniziativa, subito contratta poi dall’armistizio.L’iniziativa vera nacque dopo l’occupazione tedescae la nascita della repubblica sociale di Salò che impose-ro un’azione di resistenza nei loro confronti.Occorreva uscire da quella situazione disperata. Unacosa era ormai certa: lasciato dietro alle spalle un perio-do storico, occorreva arrivare alle soglie di uno nuovo eciò era possibile solo acquistando innanzitutto la libertà.Ecco: gli Italiani ebbero finalmente una bandiera percui battersi: la libertà. Fu un ideale comune, anche sevisto con ottiche diverse, poiché pian piano si stavanostrutturando le diverse formazioni politiche. Per i comu-nisti, ad esempio, era forte la tentazione di considerare lalibertà soprattutto come l’occasione propizia per iltrionfo del partito secondo quegli schemi che furono poiapplicati all’Europa orientale.In quel momento urgeva soprattutto l’azione, manon si trascurò nemmeno l’ideologia, perché la libera-zione doveva sfociare in una soluzione politica. Eccoperché gli uomini di pensiero, giovani ed anziani, siaffiancarono a chi conduceva la resistenza armata.Nella mia brigata partigiana avemmo così, oltre alleazioni armate, al salvataggio dei perseguitati e degliebrei, al trasferimento dei materiali e rifornimenti, anchela stampa clandestina e le riunioni ideologiche per porre

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le basi di un’azione politica futura.L’Azione Cattolica e soprattutto la FUCI, alcuniordini religiosi e il clero secolare fornirono gli uominipreparati. Molti di essi, che nel periodo precedenteerano rimasti chiusi nei loro studi, finalmente comincia-rono ad uscire e a mettere a disposizione dei più giova-ni la loro competenza. Perché non parlarono prima?Perché alcuni di loro si illusero di poter cambiare il fasci-smo da dentro. Anche oggi d’altronde c’è qualcuno checrede di poter battezzare o benedire tutto…Nel 1944 la libertà era ormai a portata di mano maoccorreva conquistarla, pagandola con l’azione e colsacrificio. Per noi giovani tutto ciò che sapeva di libertàaveva finalmente un fascino irresistibile e per essa

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rischiavamo la vita ogni giorno nella resistenza.Fu proprio in quel periodo che sentii parlare in ter-mini convenienti dello scautismo.In città, la nostra brigata partigiana aveva uno deisuoi punti di riferimento nella sede della FUCI. Un inno-cuo Gruppo del Vangelo, diventava, al termine della let-tura della Parola di Dio, l’occasione per incontrarci, perfare piani d’azione o per approfondire argomenti socialie politici.Un giorno, proprio nella prospettiva della libertà cheavremmo finalmente raggiunto e per la quale combatte-vamo, parlammo di Scautismo. Uno di noi, un giovanis-simo laureato, venne alla riunione con una copia delloScautismo per ragazzi (la vecchia caratteristica edizione diMario di Carpegna) e ci parlò con entusiasmo di quesometodo valido per una vera educazione dei ragazzi allalibertà. Non a caso Padre Forestier, uno dei massimi«maestri» dello scautismo che varrebbe la pena di risco-prire, ha scritto un capolavoro di libro intitolato:Scautismo, una strada di libertà.Quella presentazione dello scautismo, quella finestraaperta al di là del tragico panorama in cui vivevamo, midiede in quel momento un’ulteriore ragione di speranzanella vita e nel prossimo. Dovevamo arrivare ad ognicosto a quegli orizzonti.Dovevamo conquistare quelle montagne, al di làdelle quali finalmente avremmo potuto correre la nostra

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avventura di uomini liberi. Dovevamo conquistare quel-la possibilità d’avventura per tanti ragazzi che uscivanodal tunnel del fascismo.Quando nel 1947 gli scouts italiani entrarono nell’a-rena di Moisson per l’inaugurazione del Jamboree dellaPace, il primo del dopoguerra, il loro rientro nel cerchiodei popoli liberi fu sottolineato con un grande applausoche ci riempì tutti di gioia e di commozione e ci diede lacertezza che l’obiettivo era stato raggiunto.Quella sera in cui sentii parlare dello scautismo, iomisi quel fiore (quel fiordaliso) all’occhiello e mi ripro-posi di arrivare a quelle praterie in cui crescevano inabbondanza.La situazione intanto peggiorava e la lotta diventavapiù aspra. L’azione partigiana ci imponeva delle regoledure e spietate. In città occorreva adottare la tattica deipiccoli gruppi, per impedire che l’eventuale scoperta dialcuni compromettesse gli altri. Per varie settimane persidi vista quel giovane; io ero in un altro settore della città;lui ospite presso dei frati che conosceva.Un brutto giorno scoppiò il fattaccio: i tedeschipenetrarono in quel convento e, a seguito di un’accurataperquisizione, scoprirono un deposito d’armi, accurata-mente celato in un pozzo asciutto. In quei casi la«Feldgerdarmerie» faceva pochi complimenti.Venneroradunati tutti i frati per essere caricati su di un camion. Aquesto punto si presentò lui ed all’ufficiale che coman-

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dava i tedeschi si autoaccusò come l’unico responsabiledell’occultamento delle armi.I frati furono subito rilasciati e sul camion al loroposto, con un mitra puntato alla schiena, salì lui solo.Fu condotto prima in un campo di concentramen-to italiano tristemente noto, da cui tentammo inutil-mente di farlo uscire, poi fu trasferito in Germania. Nontornò più.Era sua la responsabilità delle armi? Non si è maisaputo. Certo agì - come diremo noi - da scout anche seper la sua giovane età non poteva aver appartenuto allavecchia ASCI.Il Fiordaliso cominciava a rifiorire.

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Lo stile scout

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La campana della Bastiglia

Certamente tutti avrete sentito parlare della Bastiglia edella sua distruzione, avvenuta a furor di popolo il 14 luglio1789. Nessuno però potrebbe immaginare che quell’episodio,lontano da noi quasi due secoli, abbia un qualche legame conuna storia scout, una storia che sembra una leggenda, anche seinizia solo poco più di quaranta anni fa, subito prima dellaSeconda Guerra Mondiale.

In quel tempo nello scautismo si parlava molto di cava-lieri, di imprese cavalleresche ed ogni scout, in fondoin fondo si sentiva, sia pur simbolicamente, rivestito diuna corazza e di un cimiero e pronto a lanciarsi in aiutodei deboli e dei bisognosi. Perfino le decorazioni dellesedi scout erano intonate allo stile dei castelli medioeva-li e le cerimonie erano tutte ispirate a rituali cavallere-schi. Evidentemente, se questo era lo spirito, la B.A. non

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poteva non essere uno dei cardini fondamentali dellostile e delle attività scout.Mentre in Italia, ove lo scautismo era proibito, iragazzi si addestravano con il moschetto «balilla», nellealtre nazioni e in Francia particolarmente gli scouts cer-cavano di rivivere le belle gesta dei cavalieri della TavolaRotonda e dei Paladini. La fantasia sognava scalpitii dicavalli e orifiamma al vento ma nelle attività si sapevapoi scendere al pratico, e realizzare qualcosa di concre-to, secondo quel nobile spirito di altruismo e generosità.«Che buona azione potrei fare - pensò Michel - ilCapo è un po’ che ne parla ed io non sono ancora riu-scito a trovarne una consistente!”. Mentre stava così pen-sando, con il naso schiacciato contro il vetro della fine-

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stra, sulla strada passò, con andatura frettolosa, unasuora di San Vincenzo. I rossi riflessi di un tramontoottobrino si dipingevano sull’ala bianca del suo ondeg-giante cappellone a vela. L’attenzione di Michel non fucolpita da quel passaggio rapido ma l’immagine forseentrò ugualmente nel gioco della sua fantasia, tanto èvero che di lì a poco, il nostro scout riuscì a sfoderareuna magnifica idea: le suore dell’ospedale avrebberopotuto suggerirgli una soluzione al suo problema e quin-di domani sarebbe andato a trovarle.Suor Domitilla, in particolare, avendolo preparatoqualche anno prima alla Santa Comunione, nutriva perlui una simpatia quasi materna, accresciuta dalla soddi-sfazione di vedere quel ragazzetto perseverare, permezzo, della vita scout, nella via del bene. Tanto bastavaper rallegrare quella buona suora, soprattutto dopo il suotrasferimento come Superiora all’ospedale, ambiente cer-tamente di minor soddisfazione per una suora abituata astare in mezzo ai bambini.Michel era un ragazzo sereno e quindi gli bastò quel-la brillante idea per mettersi il cuore in pace; mise inpace anche lo stomaco con un abbondante panino spal-mato di marmellata e scese in cortile, tranquillo e beato,per sgranchirsi le gambe con gli amici. Ad ogni giorno lasua preoccupazione: quella odierna era già stata supera-ta, i compiti inoltre erano terminati, e quindi c’eranotutte le ragioni per giocare serenamente.

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Il giorno successivo, puntuale come l’appetito di unragazzo della sua età, Michel andò a parlare con suorDomitilla. Per uno strano processo di intuizione, che inun ragazzo desideroso di fare il bene funziona come unradar, la direzione scelta da Michel si rilevò quella giusta.Nell’ospedale era degente un ragazzo destinato a rima-nere ricoverato alcuni mesi per una lunga cura. La suafamiglia abitava lontano, in campagna, e poteva permet-tersi solo rare visite a quel figliolo. L’offerta di assistenza

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di Michel fu accolta - lo potete ben immaginare - comeuna vera manna dal cielo e diede inizio ad una simpati-ca amicizia che doveva continuare nel tempo.Regolare come un pompiere, due volte alla settima-na Michel si recava a trovare il suo amico René, per far-gli compagnia, per raccontargli le sue avventure scola-stiche e scout e per portargli libri e giornaletti. Poi i mesipassarono e René, rimesso in sesto, ritornò a casa. I dueragazzi mantennero viva la loro amicizia, soprattuttocon una frequente corrispondenza, finché i tragici even-ti bellici sconvolsero la Francia facendo loro perdere icontatti.Passò finalmente anche la guerra, passarono altrianni e i due amici, diventati adulti, si erano ormai affer-mati nella vita, ognuno nella propria professione: Renécome agricoltore e Michel come studioso di storia.Fu proprio quest’ultimo particolare che permise aidue di ritrovarsi.Il nome di Michel comparve, infatti, su un giornale aproposito di certi studi e ciò permise a René di rintrac-ciarlo dopo tanti anni.Anzi, proprio quell’articolo gli suggerì l’idea di unregalo. Durante il periodo bellico, vuotando una vecchiasoffitta per cercare del cuoio utile a riparare le scarpe,aveva scoperto una vecchia campana, capitata là chissàcome e chissà quanti anni prima. Certamente dovevaessere un oggetto storico e quindi chi meglio di Michel

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avrebbe potuto apprezzarlo? Michel si vide dunque reca-pitare, a nome dell’amico, una grossa cassa contenentequella grossa campana e immaginate quale fu il suo stu-pore nello scoprire, leggendo le scritte in rilievo sul bron-zo, che si trattava proprio della campana dell’orologiodella Bastiglia. Dalla distruzione di quella fortezza sisalvò ben poco, e pochi sono quindi i cimeli storici chela ricordano, eppure quella campana dopo aver scanditole lunghe ore dei carcerati e le ultime ore dei condanna-ti a morte era sfuggita alla distruzione ed era arrivata,chissà come, laggiù in quella soffitta di campagna. Orasolo il caso fortuito aveva permesso il suo ritrovamento:la Buona Azione di uno scout e i suoi successivi studiproprio su quel turbinoso periodo storico della Francia.Un altro, quasi certamente, non avrebbe potuto indi-viduare in quella campana un cimelio tanto importante.Dice un vecchio adagio popolare: «Da cosa nascecosa!». Noi potremmo concludere dicendo: «Chi sa checosa può nascere anche da una semplice B.A. si unragazzino scout di buona volontà?». Proprio per questomi auguro che non si abbia a perdere la sana abitudine

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della buona azione, così caratteristica e simpatica tra gliscouts. Un grande albero nasce sempre da un piccoloseme!A Bracciano, nel terreno del Campo ScuolaNazionale AGESCI, in ricordo della B.A. di Michelabbiamo montato una campana. L’abbiamo sistemata sulmonumento che ricorda una grande B.A. compiuta dagliscouts a Longarone, subito dopo la tragedia del Vajont.Durante i campiscuola, ogni mattina, la campana suonaper ricordare le buone azioni che in quel giorno gliscouts e le guide di buona volontà di tutta Italia compi-rono generosamente per essere degni del nome e deldistintivo che portano. Suonerà certamente anche per latua buona azione!

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La leggenda del Vajont

Sono passati molti anni daquando, in una terribile notte autun-nale, un’immensa ondata d’acqua,uscita dalla diga del Vajont nelBellunese, spazzò via quasi comple-tamente la cittadina di Longarone.

Gli scouts di varie regioni d’Italia, poche ore dopo lasciagura erano sul posto, per collaborare all’opera

di soccorso e di pietosa ricerca delle salme.Arrivarono con le loro tende ed il loro equipaggia-mento perché in simili circostanze è fondamentale esse-re autonomi.Quasi tutti i soccorsi erano diretti a Longarone; gliscouts si fermarono invece più a valle dove non c’eraquasi nessuno e grande invece era la necessità di inter-vento, soprattutto per il recupero delle salme trasportatedalle acque del Piave.Gli scouts si misero subito al lavoro, in collaborazio-ne coi sindaci, con qualche vigile del fuoco e qualchealtro volontario. Non si trattava solo di recuperare lesalme, spesso irriconoscibili, ma anche di ricomporle,vestirle e sistemarle in sacchi di plastica e nelle bare.

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Poi iniziò la triste processione dei parenti, addolora-ti, sconvolti, che cercavano i resti dei loro cari. Eranecessario accoglierli, in qualunque ora del giorno edella notte, specialmente nel cimitero di Cadola, accom-pagnarli tra le bare per facilitare la ricerca, consolarli.Per la sepoltura dei morti le autorità decisero dicostruire un grande cimitero a Fortogna. Le scavatrici simisero subito all’opera ma mancavano gli uomini per lasistemazione delle bare. Arrivarono allora gli scouts adare il cambio agli unici quattro stradini comunali chenon ne potevano più dalla stanchezza.

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Forse più della metà del lavoro di Fortogna lo com-pirono gli scouts: scaricarono le bare dai camion, le siste-marono nelle fosse, le riaprirono più volte per permette-re ai parenti angosciati un eventuale riconoscimento,dotarono ogni tomba di una croce ed aiutarono i dipen-denti comunali a compiere le formalità richieste.A questo punto, ricordato il quadro generale di quel-la grande catastrofe nazionale, ha inizio la nuova storiache potremmo veramente definire «ai confini dellarealtà». Ecco perché nel titolo ho parlato di «Leggenda»del Vaiont.Un Clan di Rovers trevigiani era impegnato nellaricerca delle salme lungo il fiume ingombro di legname,proveniente dalle costruzioni demolite dall’acqua, ed oraaccatastato nel più spettrale dei modi.A mezzogiorno il Capo invita a sospendere i lavoriper una breve sosta ma poiché i rovers avevano ormaiaffrontato una catasta di legname formatasi lungo un’an-sa del fiume, di comune accordo si decise di proseguireancora un po’ per terminare lo sgombero e di rimanda-re di un’ora il pasto: una scatoletta di carne e un po’ dipane.Fu proprio verso le tredici che sotto tutto il legnametrovarono il corpicino di un bambino dall’apparente etàdi cinque sei anni. Certamente la catastrofe lo aveva rag-giunto nel sonno e l’acqua lo aveva trasportato via cosìcom’era.

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Ora non gli rimaneva che una magliolina di lanarivoltata stranamente sul viso. Quando la rimisero aposto comparve un bel visino per nulla maltrattato dallosballottamento lungo il fiume, come purtroppo lo eranoinvece le altre salme. Sembrava che continuasse il suosonno tranquillo, per nulla disturbato da quanto eraaccaduto. I rovers raccolsero con cura religiosa il poverocorpicino e lo trasportarono al cimitero di Fortogna, spe-rando di poter mettere un nome sulla sua croce. Lo rive-stirono per bene ed attesero qualche giorno prima diseppellirlo.Invano: nessuno si presentò per dargli una identitàed allora furono costretti a calarlo nella fossa e a rico-prirlo di terra.Sembrava che seppellisero un soldato ignoto o unmartire delle catacombe. Forse la sua famiglia era statatutta distrutta: proprio per questo i rovers, pur abituatidalla tragica circostanza ad una confidenza con la morte,piansero come se stessero seppellendo uno di famiglia:un loro fratellino più giovane.Quella notte stessa, il rover che lo aveva ritrovatoper primo, se lo sognò pieno di vita in mezzo ad un belprato.Nel sogno si avvicinò a lui e si mise gioiosamente agiocare come aveva fatto tante volte con i lupetti del suoBranco. Dopo una bell’ora di salti e di corse il bambinolo salutò ma prima che la sua immagine sfumasse nelle

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nuvole del sogno, il nostro rover riuscì a domandargli:«Come ti chiami?…».«Arrivederci, oggi no, ma in una prossima occasione,quando ci ritroveremo a giocare, te lo dirò…» promise ilbambino scuotendo i riccioli.Al risveglio del mattino il rover raccontò il sogno enon ci fu difficoltà da parte di tutti a spiegarlo e a giusti-ficarlo. L’impressione, il sentimento, la fatica della gior-nata avevano ricreato tutte quelle immagini in un alonedi poesia, di sogno.«Capita! Capita...!» fu il commento unanime.Spiegazione più che ovvia per un sogno se esso non sifosse ripetuto esattamente la notte successiva.

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In questa seconda occasione, al termine dei giochi, ilbambino mantenne la promessa: «Mi chiamo - disse - …».Voi al posto dei puntini immaginate un nome ed uncognome tipicamente locali, che io per promessa fattanon posso ora rivelare.Il rover - a suo dire - non aveva mai sentito primad’allora quel cognome e quindi non poteva essergli riaffio-rato da qualche angolo della memoria.Nessuno dei suoi compagni ebbe questa volta la spie-gazione facile, anzi nessuno si azzardò nemmeno a faredelle ricerche su quel cognome: quel bimbo si chiamavaormai così! Se malauguratamente si fosse scoperto chequel nome non esisteva a Longarone si sarebbe disciol-to nel nulla un sogno a cui tutti ormai con commozionedavano credito.Certo siamo ai confini della realtà poiché io che nonavevo gli scrupoli di quei rovers, le ricerche le ho fatte edho scoperto che un bimbo di quell’età, con quel nome equel cognome a Longarone c’era. Posso dire di più: la

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sua famiglia fu tutta distrutta dal cataclisma.In un angolo del camposcuola di Bracciano, sottoun’immagine Mariana, posta a ricordo del servizio com-piuto dagli scouts al Vajont, è fissata una piccola biciclet-ta tutta contorta, ritrovata dai rovers poco lontano dalcorpicino di quel bambinello. A questo punto potremmoanche pensare che sia stata la sua.

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Tra la vita e la morte

Al Jambore di America mi rac-contarono la storia di Patrizio LaRose, uno scout di Paramus nel NewJersey (USA). La storia, molto com-movente, mi fece del bene e per que-sto proposi di farla conoscere.Dobbiamo infatti mettere fraterna-mente in comune il bene che posse-diamo o conosciamo perché tutti pos-sano trarre vantaggio da esso.

Patrizio, o meglio Pat, come lo chiamavano confiden-zialmente gli amici, con quel tipico gusto che hanno

gli americani di abbreviare i nomi propri, era un ragazzocome te, sveglio, entusiasta della vita, deciso a sfruttarebene l’energia dei suoi quasi quattordici anni, lancian-dosi in pieno nelle belle imprese delle attività scout.Ormai non era più un «piede tenero» ed aveva al suoattivo una bella esperienza di vita all’aperto.La tragedia scoppiò proprio il giorno del suo quat-tordicesimo compleanno, il 28 settembre 1953. Quelgiorno invece di essere di festa, come Pat si immaginavada tempo, fu il primo di un lungo periodo di malattia,una terribile malattia, la poliomielite, che difficilmente

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avrebbe abbandonato la sua preda. Un attacco improv-viso, inaspettato e violento lo immobilizzò nel letto. Patforse si rese conto della gravità della sua situazione soloquando, terminato il trambusto del trasporto d’urgenzaall’ospedale, si trovò prigioniero nella cassa d’acciaio delpolmone artificiale.Per lui erano forse terminate per sempre le bellecorse all’aria aperta, le imprese con la squadriglia, i campinegli sterminato boschi americani.Non avrebbe più potuto, come sognava, scendere ifiumi in canoa o tentare di avvicinarsi, non visto, agli ani-mali selvaggi per studiare i loro movimenti.«Perché proprio a me? - esclamò con angoscia - checosa ho fatto?» L’infermiera che lo assisteva, una donna

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che evidentemente sapeva il fatto suo, invece di conso-larlo dolcemente, ebbe il coraggio e la saggezza dirispondergli:«Se parli ancora così, toglierò il Crocefisso che c’ènella tua stanza, perché Lui non si è rifiutato di soffrireper te!».Gesù aveva aspettato quel momento per parlare aPatrizio, come mai aveva fatto, nemmeno durante le sug-gestive messe al campo o al termine del fuoco di bivac-co, quando la preghiera sorge spontanea.Patrizio lo ascoltò!È nel dolore che si fortificano le amicizie: Patrizioseppe trasformare il suo sacrificio nel mezzo più efficaceper dimostrare il suo amore a Gesù. Da quel giorno nonsi lamentò più.«Sai - disse un giorno al babbo - sono contento diessere ammalato di polio perché attraverso la mia malat-tia ho imparato veramente a conoscere ed amare Gesù».La sua sofferenza seppe offrirla per tutti, ma in parti-colare per le missioni, per i profughi e per gli sforzi chein quel tempo di gravi tensioni internazionali, le NazioniUnite compivano per allontanare lo spettro della guerra.Gli scouts del reparto che andavano spesso a trovarlo,confessavano sinceramente che chi traeva più vantaggioda queste visite erano proprio loro che le compivano.Pat, infatti, era ritornato allegro come un tempo, sorri-dente e comunicava a tutti il suo altruismo ed il suo otti-

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mismo: aveva ripreso a studiare ottenendo dei voti eccel-lenti negli esami che naturalmente sosteneva in ospeda-le con procedura straordinaria. Per tutti era un motivo dibuon esempio.Il suo medico confessò che in quarant’anni di profes-sione non aveva mai incontrato un malato così ottimista.«Sapete - disse un giorno Pat ai suoi amici di squa-driglia - noi pensiamo troppo a star bene. Questi anni dimalattia sono un nulla a confronto del Paradiso».Dopo la sua morte si imparò che il suo ideale era didiventare sacerdote e missionario.Purtroppo la polio fu inesorabile. Erano ormai pas-sati tre anni e mezzo, Pat seppe dare sempre sorridendoanche l’addio alla vita che gli sfuggiva. Morì proprio il

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giorno del suo onomastico, il 17 marzo 1957, festa di S.Patrizio.Purtroppo rileggendo questo mio articolo, mi accorgo dinon aver saputo trovare tutte le parole adatte per ricordare nelmodo più conveniente questo nostro fratello scout, che nonabbiamo conosciuto personalmente, ma il cui ricordo è oraugualmente nel nostro cuore.La sua sofferenza, il suo sorriso, il suo esempio ci diconoche al di là delle belle tecniche scout, delle imprese e delle mis-sioni, dei campi e dei bivacchi, ci sono cose che valgono ancordi più e che quindi ogni esploratore deve possedere in misurasempre più abbondante: lo spirito scout, l’amicizia con Gesù.Normalmente si raggiungono attraverso le attività scout manon è indispensabile seguire questa via soprattutto se le circo-stanze lo proibiscono. Si possono vivere e perfezionare infattianche stando rinchiusi in un polmone d’acciaio: l’importante èconquistarle seguendo il piano che Iddio ha tracciato per cia-scuno di noi, perché sono tra gli strumenti più efficaci permigliorare il mondo. Non è forse vero che dopo aver letto la sto-ria di Pat ci sentiamo migliori?

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PER CONCLUDERE

Sembra che i ragazzi in età esploratori e guide abbia-no oggi scarsi interessi e molto banali. In genere dimo-strano scarsa fantasia. Forse la scuola media e la televi-sione li hanno appiattiti e resi poco sensibili agli stimolie all’originalità.Accade così anche a te?La tua dovrebbe essere una età d’ideali e di fantasia.

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Come potresti altrimenti iniziare a delineare il tuo pro-getto per il futuro?Qualcuno lo ha chiamato «Progetto uomo» (e natu-ralmente «Progetto donna»). Hai già delle idee precise?Hai cominciato a pensare quali possano essere le lineeportanti di questo disegno che dovrà realizzarsi nella tuavita, per dare ad essa un significato grande, così comeDio l’ha originalmente pensata proprio per te fin dall’e-ternità?La scuola media, nata per essere «vocazionale», cioèper aiutare i ragazzi a scoprire la loro strada per la vita,molto spesso è costretta ad arrendersi e a portare avanticon rassegnazione una massa incolore di studenti, che siaccontentano di un quasi sufficiente.La televisione poi ha spiazzato il gusto della lettura edella conversazione.Sandokan e lo zio Zeb televisivi sono uguali per tuttie lasciano ben poco spazio alla fantasia individuale, alcontrario della lettura. Mi spiego: se tu leggessi un librodi Salgari saresti costretto a svegliare la fantasia perimmaginare la figura di Sandokan e l’ambiente in cui simuove. La descrizione scritta dei personaggi, della loroazione e degli scenari lascia necessariamente spazioall’immaginazione del lettore e lo obbliga anzi a rico-struire, a interpretare, quei particolari in modo originalee personale.

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Potremmo fare un paragone con quanto accade adun pittore: egli si impone di fronte alla realtà ma non laritrae freddamente, come farebbe una macchina fotogra-fica; la vede e la interpreta con gli occhi e i sentimentisuoi e quindi la dipinge in modo diversoda quanto fareb-be un suo collega. Diverso lo stile, diversa l’interpreta-zione ma non la realtà. Anche il maestro di musica ha ilsuo modo di interpretare lo spartito. Il giornalista ha ilsuo punto di vista da cui guardare i fatti e un suo stile nelraccontarli o presentarli.E perché non parlare anche del regista e degli attorinei confronti dell’opera teatrale?Se tu leggi un libro sei costretto a vedere con gli occhidella tua fantasia e a «partecipare» all’avventura.Se tu invece ti poni di fronte al televisore, nella mag-gioranza dei casi percepisci senza fatica solo delle imma-gini fotografiche prefabbricate, che non richiedono alcu-na elaborazione personale.Sandokan televisivo è uguale per tutti, con la stessaespressione, lo stesso vestito, lo stesso panorama.Tu assisti dal di fuori e difficilmente entri in quelmondo, perché la tua immaginazione è lasciata a riposo.Anche i sentimenti hanno ben poco da spartire con tantispettacoli televisivi. La televisione arricchisce l’uomo di immagini foto-grafiche, ma lo impoverisce di fantasia. Il colpo finaleviene poi dalla pubblicità diretta e indiretta che cattura la

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tua intelligenza e la imbalsama.Non solo lo spettatore non è invitato ad una interpre-tazione personale ma è addirittura spersonalizzato, perchéviene catturato da quelle immagini e subdolamente solle-citato ad imitarle. Fonzie è uguale per tutti e fa moda, sti-

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mola cioè ad una ricopiatura passiva del suo stile da partedegli spettatori.Lo scautismo si è sempre vantato di voler aiutare ilragazzo a sviluppare la propria personalità e la propriavocazione e non a diventare un figurino, fotocopia del-l’eroe televisivo di moda.Per questo deve continuamente valorizzare la fanta-sia e saper parlare al cuore, suggerendo anche degli anti-doti alla standardizzazione della gioventùattuale. Loscautismo non può seguire le mode.Devi costruire la tua avventura se vuoi vivere la tuavita. Per questo scopri il gusto dell’esplorazione, delgioco avventuroso, apri gli occhi sui grandi spettacolidella natura, sempre mutevoli ma anche sempre fedeliai ritmi delle grandi leggi che li governano. Impara ascoprire la realtà con cui devi misurarti, sapendolavedere con occhi incantati da artista e di poieta, inter-pretandola con gioia, con ottimismo, con il gusto delbello e dello sforzo.Sappi uscire dalle formule consuete e scolorite su cuisi adagiano tanti ragazzi e tante ragazze della tua età.Chiediti come puoi valorizzare il tuo tempo e impe-gnati a fare le cose con competenza e in modo comple-to. Disdegna le banalità di certe idee, la scarsità tecnica,i giochi sempre uguali, la sede in disordine, i bivacchisempre più monotoni e improvvisati, le uscite senzasignificato.

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Se nel tuo Reparto le cose dovessero funzionare cosìa scartamento ridotto,combatti con le armi della compe-tenza e della fantasia per cambiare in meglio.Ricorda che competenza e fantasia salvo casi ecce-zionali sono il frutto della cultura e dell’esperienza.Abbi il gusto di leggere, di documentarti, di provaree riprovare. Abbi il gusto della professionalità.Lo scout e la guida debbono possedere l’orgoglio disaper vedere quello che ad altri passa inosservato, disaper giudicare con intelligenza ricca di giudizio e di fan-tasia,di saper agire con competenza adatta a convenien-temente risolvere molte situazioni e di essere capaci digettare generosamente… il proprio cuore oltre l’ostaco-

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lo, quando c’è del bene da fare al prossimo.Dicevamo una volta che «Lo scout e la guida sonopassabili in una festa da ballo ma indispensabili in unnaufragio!»

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Nota Bibliografica

Don Annunzio Gandolfi è nato a Bologna nel 1926.Entrato nella resistenza durante l’occupazione nazista,ha partecipato a due campagne di guerra partigiana. Nel1945, alla liberazione, pronuncia la promessa scout ed ècapo del reparto Bologna 16° fino al 1948, quando entrain Seminario. Ordinato sacerdote nella diocesi diBologna nel 1952 diviene assistente ecclesiastico didiversi reparti cittadini e del Comitato regionale.

Tra il 1968 ed il 1974 è assistente centrale della bran-ca Esploratori ASCI e per più di 20 anni curerà la reda-zione della rivista di branca “L’Esploratore”. Sarà poiassistente ecclesiastico del Lazio e di vari reparti romaninonché dei settori scout nazionali di “protezione civile”,“specializzazioni” e “nautico” ed infine, della regioneEmilia Romagna del MASCI. Nel 1974 partecipa allafondazione del “Centro Studi ed Esperienze ScoutBaden-Powell” e dal 1984 coordina la redazione di“Esperienze e Progetti”, la rivista del Centro. Ha parteci-pato ad otto Jamboree mondiali. Ha insegnato religionein varie scuole di Bologna e Roma. Dal 1975 è parrocodi S. Ambrogio di Villanova Castenaso (BO). Altre pub-blicazioni: A occhi aperti (ed. Borla), Avventura all’aperto(ed. Borla), Avventure nei boschi (ed. Ancora),L’Esploratore per il novizio (Branca Esploratori ASCI), Illibro di caccia (Branca Esploratori ASCI), Il sentiero di Dio(ed. Centro Studi B.-P.). Ha redatto 68 Sussidi Tecniciper la branca Esploratori ASCI.

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Finito di stamparenel mese di settembre 2002

presso ilCentro Poligrafico Romanovia Dorando Petri, 20

00011 - Bagni di Tivoli (Roma)

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