Fulvio Tirrico - Tagli capelli ricci · esperti italiani di capelli ricci e ondulati ed è il...

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Fulvio Tirrico, milanese classe 1975, è ad oggi uno dei più grandiesperti italiani di capelli ricci e ondulati ed è il fondatore del primobrand in Italia dedicato esclusivamente ai capelli ricci “I Love

Riccio”.Soprannominato da molti, grazie alla sua expertise nel taglio, nellacura e nel trattamento dei ricci, "il Re" del riccio, Fulvio oggiopera principalmente nel suo salone I LOVE RICCIO a Milano,in via Bartolini 52, dove si prende cura con passione delle tantechiome che si affidano a lui. Gestisce inoltre Il Curly Hair Tour, un percorso itinerante che lovede spostarsi in diverse città italiane per ricevere tutte le ragazzericce che richiedono i suoi consigli e il suo taglio. Non sono infatti pochi coloro che decidono di recarsi presso i suoisaloni anche affrontando lunghi viaggi dal sud al nord dell’Italia. Specializzato in tricologia e cosmetologia, ha frequentatol’accademia Vidal Sasson a Londra la LLongueras a Barcellona etutte le più importanti accademie di formazione italiane. Inoltre ha collaborato con numerosi stylist nei backstage dellesfilate e con fotografi di moda d’eccellenza, esperienza questa cheè servita per avere una visione a 360 gradi sul look femminile.Ma l’esperienza che senza dubbio l’ha formato maggiormente,contribuendo a renderlo l’esperto che è oggi, è quella diconsulente stilistico presso la Day Spa Freedom di New York.Una città, “la grande mela”, che per Fulvio Tirrico ancora oggisignifica moltissimo, sia dal punto di vista formativo, perché è lìche ha frequentato l’accademia Devachan in qualità di specialistain capelli ricci, sia dal punto di vista affettivo.Il successo del Brand è in continua ascesa e ad oggi ha raggiuntooltre 23000 fans su Facebook e più di 30000 visite mensili sul suosito. Inoltre Fulvio Tirrico, che è stato anche inserito fra i Top 15

dei migliori Curly Hair Expert, è attualmente testimonial ufficialedi L’Oreal Paris Elvive per la campagna #potereainostriricci,un progetto che ha avuto un riscontro pari a 1.400.000visualizzazioni in rete.Infine, tra le tante collaborazioni giornalistiche, solo per citare lemaggiori, ci sono quelle con magazine e riviste di successo comeMarie Claire, Gente, Chi, Tu Style, D la Repubblica, Viver

Sani e Belli, Vanity Fair, Gioia, Diva e Donna e Glamour.

Una passione insomma, quella per i capelli ricci, che l’ha portatoa girare il mondo in cerca di stili, tecniche, avanguardie e che inquesta auotobiografia ha deciso di raccontare a “cuore aperto”,rivolgendosi a tutti coloro che vorranno ascoltare la suastraordinaria storia.

FULVIO TIRRICO

CURLY COACHIl primo Curly Hair Expert d'Italia

si racconta.

A cura di Elisa Speroni

Giornalista Pubblicista e Copywriter

Tel. 340 5450639

e-mail: [email protected]

Una grande aula asettica, senza nulla di particolare. La finestraera aperta solo perché faceva un gran caldo, ma poteva essere

chiusa che nessuno avrebbe sofferto per la mancanza di quellavista. La sala dava sul parcheggio dell’Istituto Mario Negri di Milano.Non c’erano molte macchine parcheggiate, avevo trovatoposteggio in pochi minuti. “Quante lezioni di chimica avevosaltato nell’ultimo anno?”, pensavo. Davanti a me c’era unapersona che mi avrebbe valutato senza farmi nessuno sconto.Aspettai, finché non chiamarono il mio nome.

Una scrivania, un’asse di legno dipinta di bianco sostenuta da duepannelli, mi separava dal mio esaminatore. Aveva in mano unacartella contenente il mio curriculum. Sudavo. L’esaminatore michiese di fare un esercizio, un’operazione di chimica organica. Un momento di buio totale alla lavagna. La prima domanda suimiei studi di perito chimico suonò così: “Come mai ci ha messosette anni a finire l’istituto?”. Ero a disagio, la mia testa continuavaa pensare: “Lavorare in ospedale come tecnico di laboratorio: èquesto che voglio? Mi renderà felice?”.

“Felice”. Ero felice quando aiutavo mio padre dopo la scuola nelsuo salone? Felice di togliere dal pavimento tutte le ciocche dicapelli che erano state tagliate? Di lavare la testa a quella signoradal profumo speziato, sempre sorridente? Di sfogliare le rivistepiene di fotografie di attrici dal taglio impeccabile? Quando miopadre mi scompigliava i capelli, che tenevo lunghi e ricci, a finegiornata?

Mi ricordo che quando ero ragazzo non c’era nessuna legge che

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Dino Tirrico papà di Fulvio nel 1975

vietava di fumare negli esercizi commerciali. Bastava che un clientedecidesse di accendere la sigaretta che dopo un minuto fumavanotutti e una nuvola grigia ricopriva ogni cosa. L’atmosfera delnegozio di mio padre è sempre stata molto familiare. Mi ricordo cheil sabato molti si portavano il panino e venivano a mangiarlo da noi.C’era un bel clima, così tranquillo e rilassato.

Poi quella domanda arrivò: “Tuo padre che lavoro fa?”. Risposi:“Il parrucchiere”. Lui mi squadrò e poi disse: “E perché non lo faianche tu?”. L’esaminatore buttò lì quella frase senza rifletteretroppo. Forse c’era una punta di aggressività nel suo tono, maquelle parole arrivarono a scuotere qualcosa dentro. Guardavoquell’uomo come fosse un santone che mi aveva donato unagrande rivelazione. Il colloquio finì dopo poche battute. Uscii daquella stanza anonima salutando educato, con il sorriso sereno dichi sta facendo emergere una consapevolezza sepolta dentro di lui.Per qualche motivo non era mai stata così nitida.

Tornai a casa dai miei genitori. Il pensiero appena delineato stavadiventando una necessità da realizzare. Mentre cenavamo nellasala da pranzo di casa dei miei, alzai gli occhi dal piatto e dissi:“Ho deciso di fare il parrucchiere. Il mese prossimo iniziol’accademia”. Mia madre quasi svenne, tanto era turbata dallanotizia. Mio padre registrò l’informazione con la sua solitaindifferenza e, come se non volesse dare peso alla novità, continuòa mangiare. In quel momento non proferì parola, però sentivo chequalcosa era cambiato.

Mia madre lavorava in banca e fino all’anno prima del miodiploma i figli dei bancari avevano un accesso privilegiato a quel

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tipo di lavoro. Avevo anche preso in considerazione questaeventualità, ma le regole cambiarono giusto poco prima chepotessi decidere. Un lavoro sicuro, ben visto agli occhi della gente, ben pagato. Imiei nonni erano dello stesso avviso: per loro fare il parrucchierevoleva dire svolgere mansioni di basso livello, quello di chi nonaveva studiato.

In effetti, una volta si cominciava a lavorare in bottega a dodicianni. Per evitare che i ragazzi stessero in mezzo alla strada, igenitori pagavano il parrucchiere o il barbiere per tenere il figlioin negozio a insegnargli il mestiere dalla A alla Z. La formazioneera solo manuale, così si diventava bravissimi a lavare e tagliare,ma, non essendo andati a scuola, si rischiava di crescere comedegli adulti analfabeti. È sulla base di questo retaggio che si pensaal lavoro di parrucchiere come squalificante. In fin dei conti è unpo’ la stessa trasformazione che hanno maturato altre professioni,come ad esempio il cuoco che oggi non è più visto come la personache sta in cucina, ma come un imprenditore a tutti gli effetti.Evoluzione è anche affrancarsi da certi pregiudizi. In generale, laparola “parrucchiere” non è molto amata. Io stesso mi sento piùun esperto di capelli che non un parrucchiere. Non è solo unproblema di definizioni, a mio avviso: è proprio un altro approcciocon i clienti e con i capelli.

Ho iniziato l’accademia alla UAAMI, Unione ArtisticaAcconciatori Misti Italiani di Milano. Avevo vent’anni e mitrovavo in classe con ragazzi molto giovani, quattordicenni cheavevano deciso di iscriversi a quella scuola subito dopo aver finitole medie.

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C’è un errore diffuso, un mito duro a morire che condiziona anchela realtà dei fatti. Le persone con meno amore per lo studio siiscrivono a scuole per intraprendere lavori come parrucchiere oestetista. Eppure è un grande errore. Il lavoro artigianale fatto beneimplica una solida formazione di base. Io ce l’avevo.

Le basi di chimica e biologia sono state fondamentali per capire afondo la struttura dei capelli e per curarli adeguatamente. Studiaremi era costato tanti sacrifici, ma sentivo di padroneggiare gliaspetti più scientifici del lavoro. Dermatologia, biologia, chimicadel capello erano tutte materie che avevo già avuto modo diconoscere.

In accademia si studiavano tante materie, tuttavia la pratica erasenza dubbio la parte più divertente, ma anche quella che mi

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Fulvio ai primi concorsi interni accademici si posiziona ai primi

posti

metteva più a dura prova. Non avevo mai tenuto in mano un paiodi forbici e la prima volta che lo feci fu su una testina. Mi diederouna testa di plastica dalle sembianze femminili, una di quelle sucui ci si esercita. Dovevo solo tagliare una ciocca di capelli daquesto manichino, eppure mi sentivo così impacciato. Mi chiesise anche questo potesse essere il lavoro giusto per le mie capacità.Come sarei riuscito a esaudire le richieste di un cliente da zero,dando forma alla sua testa, se adesso la forbice mi si incastravatra le dita? Magari non ero portato.L’approccio con il taglio era molto graduale, addirittura ci

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Fulvio durante il suo percorso di formazione accademica, tra

concorsi e manifestazioni di moda

facevano tagliare delle strisce di capelli. Insomma, si partivaveramente dal basso. Anche nei lavori tecnici, ossia colorazioni,schiariture era dura: veniva richiesta grande precisione, pulizia nellavoro. Cercavo di tenere l’approccio delle mie colleghe, di granlunga più brave in questo tipo di lavori.

La manualità è di sicuro molto importante e la buona notizia è chesi può allenare: con un impegno costante, le mie mani avrebberoimparato il mestiere. Prendevo sempre più confidenza con gli strumenti del lavoro,capivo quanto ordine e pulizia nell’esecuzione fossero importanti,e, nel giro di breve, le forbici si incastrarono sempre meno, fino adiventare il prolungamento delle mie dita.

In tutto questo percorso l’occhio mi cadeva anche su altre cose,quali l’organizzazione dell’accademia, il programma dei corsi, lepubbliche relazioni, il reclutamento insegnanti, la pubblicità perl’anno successivo. Mi sembrava si potesse fare molto di più perfar conoscere questa realtà.

Mio padre era il direttore dell’accademia che avevo deciso difrequentare. Già prima che io prendessi la decisione di seguire lesue orme, lui e mia madre litigavano spesso. Le discussioninascevano quasi sempre perché mio padre rincasava molto tardidal suo salone oppure a causa dei concorsi e altri impegni legatiall’accademia. Viaggiava tanto.

Gli anni Ottanta sono stati un momento d’oro per i parrucchieri, illavoro arrivava in continuazione. Le aziende investivano perorganizzare corsi, manifestazioni, eventi, il che equivaleva ad un

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sacco di ore di lavoro aggiuntive. Quando ero piccolo seguire lastrada paterna mi sembrava l’ultima delle possibilità: troppiimpegni, troppi sacrifici, troppi litigi. Gli amici di mio padrefaticavano a farsi una famiglia, a tenerne insieme i pezzi.Sembrava un lavoro che ti porta agli eccessi.

Eppure, già durante le superiori, dopo le lezioni, aiutavo innegozio al pomeriggio e nei fine settimana. Mi capitava di seguiremio padre nelle sue trasferte. Osservarlo nel suo habitat mipermetteva di familiarizzare con gli strumenti del mestiere, con illinguaggio, con le discussioni tipiche di quel microcosmo. C’eranomolte cose che mi piacevano di quella vita. È un lavoro bello,perché si lavora tanto con le donne. Le donne parlano, ti

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Dino papà di Fulvio durante la presentazione di nuove tecniche

stilistiche presso l'accademia Uaami in Piazza Duomo a Milano

raccontano i loro desideri e, se sei bravo, li puoi realizzare.Durante i quattro anni di studi ebbi le mie soddisfazioni: sbagliavoe imparavo, diventavo sicuro di me, tanto che vinsi diversiconcorsi interni all’accademia. Capii anche quante strade sisarebbero potute aprire se avessi fatto bene il mio lavoro. Spessomi chiamavano in teatro per sistemare la chioma delle attrici, ocollaboravo durante servizi fotografici e con la televisione.Dovevo scegliere quale strada prendere.

Per qualche anno la fotografia mi entusiasmò e seguii tanti servizifotografici. Queste esperienze mi fecero vedere il lavoro sotto unaltro punto di vista. Furono una ventata di creatività. Fuori dallequattro mura del salone c’erano grandi opportunità.

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Preparazione di una modella prima dello shooting

Bisognava stabilire un rapporto di fiducia con il fotografo, con glistylist, con le modelle, i make up artist... Solo avendo la loro stimail lavoro poteva crescere. Così, quando non mi chiamava la stylist,a far squillare il telefono era il fotografo, quando non era ilfotografo era la modella che mi voleva per il suo book fotografico.

Le pubbliche relazioni sono le fondamenta del nostro lavoro.Bisogna essere affidabili, il che significa, a volte, accettare unlavoro anche se bisogna sacrificare l’unica domenica libera damesi, perché hanno bisogno di noi per quel servizio fotograficoproprio quel giorno e non si può dire no. Sul lungo periodo èatteggiamento vincente, l’unico modo per creare un rapportobasato sulla fiducia. Bisogna sempre ricordarsi che non siamoinsostituibili. Per questo motivo bisogna impegnarsi, approfondire,cercare di migliorarsi sempre. Se questa mentalità viene meno, èdifficile far funzionare un’attività o arrivare da qualche parte.

Ci sono tanti lavori in cui basta usare le mani, ma spesso sono piùcomplessi di quel che sembrano a uno sguardo esterno. Il parrucchiere lavora con i capelli che vengono ridicolizzati comequalcosa di effimero, di inutile, di stupido, ma la realtà è bendiversa. I capelli sono la parte più importante di una persona, sonoil suo bene più prezioso, la completano. Un complimento suquanto siano belle un paio di scarpe non supererà mai uno sullabellezza della chioma. Le donne inizieranno a toccarseli, gliuomini arrossiranno - probabilmente.

Quanti soldi si spendono in prodotti per capelli? Quanto si soffrese il taglio risulta sbagliato e non piace? Quando si è depressi ocapita qualcosa di nuovo, non si cambia forse il taglio o il colore?

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In quest’ottica si può capire quanto è importante il nostro lavoro.Il problema è che a volte nemmeno il parrucchiere sa di esserecosì importante.

Una volta terminata l’accademia, iniziai a lavorare a tempo pienonel negozio paterno. All’inizio analizzavo i capelli dei clienti, miinteressava entrare nel merito della struttura, capire perché siperdono, perché non sono in salute. Volevo approfondire. Mi misiin contatto con diverse realtà europee, frequentando i parrucchieripiù quotati, da cui cercavo di apprendere i segreti, la gestualità, letecniche.

A venticinque anni avevo seguito un numero davvero elevato dicorsi di approfondimenti, eppure continuavo a sentirmiincompleto. Pagavo tanto per una formazione che si rivelava quasicome un costoso spettacolo teatrale: tagli assurdi e coloriimprobabili pensati solo per stupire, ma che mai avrei rifatto insalone.

Quello che le aziende mi offrivano non era all’altezza delle mieaspettative, senza contare che la formazione veniva offerta incambio di vincoli contrattuali su un grosso ordine di prodotti. Nonsentivo nessuna crescita professionale, nessuna competenza in piùda poter proporre ai miei clienti. A tanti miei colleghi questosistema piaceva: in fin dei conti, era come assistere a performance,era uno show dietro l’altro, un comodo spettacolo da godersi inpoltrona. Invece io avevo una filosofia diversa: spendo, ma voglioimparare e voglio far fruttare quello che ho imparato. Masuccedeva poche volte di tornare a casa soddisfatto e con laconsapevolezza di aver affinato la tecnica.

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Papà e figlio insieme al lavoro nel primo negozio nel 1996

Il picco massimo di disistima per questo ambiente lo raggiunsiquando una grande azienda mi chiese se volevo fare il parrucchiereper un concorso di bellezza. La mia risposta fu euforica, misembrava una bella opportunità, ma il mio entusiasmo si dissolsequando mi chiesero dei soldi per partecipare e aggiunsero che nonavrei lavorato davvero, perché le celebrità partecipanti allakermesse avevano già i loro parrucchieri personali. Quello che miveniva offerto per quella cifra era la possibilità di fare fotografieinsieme ai vip per poi esporle in negozio come fossero trofei diguerra.

Scoprii che la maggior parte delle grandi manifestazioni di modae spettacolo richiedevano grossi investimenti di soldi perparteciparvi in veste di parrucchiere delle celebrità. Come potevoaccettare di dover pagare cifre astronomiche per scattarmi unafotografia insieme a volti noti che fingevo di pettinare?Ero triste per la prospettiva poco stimolante che mi venivapresentata, eppure questo episodio mi aprì gli occhi e capii che,se fossero state le aziende cosmetiche a occuparsi della miapreparazione, non sarei mai diventato nessuno. Dovevofocalizzarmi sull’obiettivo, potevo contare solo su me stesso e soloio potevo gestire la mia formazione.

Decisi così di fare una scelta: formarmi presso le migliori aziendedel mondo. Iniziai volando a Londra e, con un budget di un quintorispetto al pacchetto che offrivano le grosse aziende, feci tutti icorsi che volevo, pagando di tasca mia. Alcuni parrucchieri midicevano: “Ma vuoi mettere andare a Londra in gruppo,soggiornare in un hotel a cinque stelle e divertirsi la sera rispettoa quello che fai tu?”.

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Queste cose non mi interessavano, io volevo imparare. Andavo aletto alle nove per alzarmi fresco e riposato al mattino. Da grandevolevo fare l’imprenditore, creare qualcosa. L’unico modo perrealizzare quello che volevo era impegnarmi, prendere tutto quelloche potevo dai maestri e lavorare sodo.

Londra è tutt’ora una “mecca” per quanto riguarda la formazioneprofessionale in questo settore, ma all’epoca il posto migliore doveformarsi era l’accademia di Vidal Sassoon. Lui aveva creato il bob,un taglio semplice e geometrico ispirato al Bauhaus.

Vissuto in un orfanotrofio da bambino, aveva lavorato nel salonedi Raymond Bessone a Mayfair e, insieme ad altri cittadini dinazionalità ebraica, aveva interrotto un incontro di simpatizzantifascisti organizzato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per questomotivo venne chiamato anche “il lottatore parrucchiere anti-fascista”. I suoi saloni furono aperti in diversi Paesi e furonocompletati da una linea di prodotti. Nella sua campagnapubblicitaria lui stesso recitava: “If you don’t look good, we don’tlook good”. Aveva inventato dei tagli rivoluzionari.

Quest’accademia era incentrata sulla geometria del taglio, laprecisione delle linee. Era quasi una scuola di scultura. Frequentaiassiduamente i corsi e presi tutte le certificazioni.Gli insegnamenti ricevuti presso l’accademia di Vidal Sassoonfurono fondamentali per concepire X-Curl, il mio metodo di taglio.In apparenza, i due metodi sembrano molto diversi, ma lo sonosolo a prima vista. Quando qualcuno mi guarda tagliare i ricci, misento chiedere spesso se sto tagliando a caso. Mi sposto da unaparte all’altra della testa come una farfalla, mi muovo, prendo le

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ciocche, le giro, le alzo, le abbasso, taglio singoli ricci. Tuttoquesto deriva da una profonda conoscenza delle tecniche di base,geometriche e precise che Vidal Sassoon mi ha dato in quegli anni.Le proporzioni, i volumi, il capire come una ciocca si muoverà setagliata in quella posizione, come cadrà intorno al viso: tutto èfrutto di un’analisi geometrica tipica del metodo inglese, di cui X-Curl è un’evoluzione. Quello che tuttora s’insegna all’accademia di Vidal Sassoon è unconcetto. È importante conoscerlo e va assimilato, ma la tendenzaattuale va in un’altra direzione: non più bob precisi e bloccati sullatesta, ma tagli spettinati e morbidi intorno al viso, leggeri evoluminosi.

Dopo l’Inghilterra fu la volta della Spagna. Lluís Llongueras è unestroverso ed eclettico parrucchiere e artista catalano. Dallaprecisione inglese alla creatività spagnola stavo prendendo

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Fulvio durante la sua formazione a Londra presso la Vidal Sas-

soon Academy

confidenza con le diverse anime del lavoro. La mia vena artisticatrovava più spazio e potevo apprezzare il diverso approccio suicapelli e sui colori. Ognuno di questi maestri mi metteva a contattocon la sua interpretazione di uno stesso lavoro.

Dopo questa esperienza mi concentrai sull’Italia per un periodo.Aldo Coppola era il numero uno all’epoca. Seguii alcuni dei suoishow e ne rimasi affascinato. Non era più un uomo giovane, maera pieno di energia. Mi ricordo l’ultima volta che lo vidi, qualchemese prima che morisse. Era sul palco davanti a duemilaparrucchieri e, dopo aver tagliato i capelli di una modella statuaria,si mise a soffiare una marea di brillantini argento su questa testameravigliosa. Aldo Coppola fu per me un esempio da seguire apiù livelli.

Questo tipo di corsi mi stimolavano a migliorarmi e vedevo subitoi risultati. “Rubavo” sempre un’idea, una tecnica, unatteggiamento per poi reinterpretarli secondo i miei canoni. Mac’era anche un mondo che non mi piaceva e che non mi aiutava acrescere. Decisi di alleggerirmi da tutte quelle aziende cosmeticheche proponevano trattamenti assurdi, da tutte quelle scuole chenon vedevo adatte ai miei obiettivi e anche della stessa Accademia,che cominciavo a vedere, per certi versi, troppo rigida eautoreferenziale. Programmai così le prossime mosse, fino alviaggio che mi cambiò la vita.

A ventisette anni decisi che era ora di andare oltre oceano. Ne parlai con mio padre, dato che all’epoca già lavoravamoinsieme, e lui non si oppose. In quegli anni internet non aveva tuttii super poteri che ha oggi e così dovevo superare il primo scoglio

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iniziale: dove vado e da chi? Preparai cento curriculum e li inviaiad altrettanti saloni a caso sparsi per gli Stati Uniti. La miarichiesta era molto precisa: «vorrei lavorare da Lei, gratis, per tresettimane». Desideravo entrare in stretto contatto con una realtàche mi incuriosiva.

Mi risposero circa venti saloni, alcuni dal Texas, altri dallaCalifornia ma, senza troppi indugi, poi optai per l’unico salone diNew York che mi contattò. Quella città era per me una specie diossessione. La proprietaria di quel posto era italo-americana e siprese a cuore la mia idea di fare questa esperienza. Mi scrisse chepotevo dormire a casa sua, a Long Island, e la mattina saremmoandati insieme in negozio. Sull’onda dell’entusiasmo prenotaisubito il volo. Mi sentivo come negli anni Trenta, quando gliitaliani emigravano in America a cercare fortuna.

Atterrai al JFK e trovai Albert, il marito della proprietaria, che miaspettava con un cartello su cui c’era scritto “Fulvio - italian hairstylist”. La cosa mi imbarazzò tanto, ma fui anche molto colpitodal suo modo di fare. Mi accolse come se ci conoscessimo dasempre, con quell’informalità tipica degli americani che mettesubito a proprio agio. Il viaggio in auto fu emozionante e terminòin una casa meravigliosa sul bordo dell’oceano. Rina, moglie diAlbert e proprietaria del negozio, mi accompagnò in quella chesarebbe stata la mia camera per quelle settimane e mi disse che ilgiorno successivo avrei cominciato nel loro salone. Appena entratoin stanza pensai: “Da domani lavoro in un salone in America! ANew York!”, e questo pensiero non mi abbandonò per ore, tantoche quella sera non chiusi occhio.La mattina semplicemente presi un caffè per strada, impossibile

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da bere tanto era bollente. Salimmo in macchina e subito partì unacanzone di Andrea Bocelli. Mi sentivo come in un film.Arrivato in negozio, venni presentato ai collaboratori di Rina. Sitrattava di una decina di persone circa e la mia mattinata iniziòosservando come si svolgeva la loro vita lavorativa. Sentiiimmediatamente che il mio livello di preparazione andava oltre.Nella maggior parte delle loro azioni infatti faticavo a vedere latecnica, il gusto e l’estetica. Inoltre notai che, quando i clientiscoprivano che venivo dall’Italia, solo per quel motivo, volevanofarsi pettinare da me. Così smisi di essere un semplice osservatoreper cominciare seriamente a lavorare nel salone. Ricevevo dellemance incredibili.

Dopo soli due giorni di lavoro, mi era già stato chiesto di fareformazione al personale la sera, dopo l’orario di chiusura. Avevomolto da insegnare a livello tecnico e stilistico, ma, ben presto, miresi conto che avevo anche tanto da imparare. Rina riusciva asviluppare un business molto più importante del mio sullarivendita dei prodotti e anche la gestione aziendale era ad un altrolivello. Quando mi disse quanto spendeva all’anno in corsi dimarketing e management rimasi senza fiato.

La prima lezione che imparai fu: “il business non lo si fa solo conle mani”. Il successo con il pubblico si raggiunge vendendo unconcept, ragionando in grande, facendo l’adeguata pubblicità. InAmerica, già vent’anni fa, questa era la regola base di qualsiasiimpresa.

Il terzo giorno mi portarono a visitare un parrucchiere italianomolto rinomato a Manhattan e capii che cosa voleva dire fare

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impresa nel nostro lavoro. Tutto girava intorno alla capacitàgestionale, alle pubbliche relazioni, alla comunicazione, tuttecompetenze che nessun parrucchiere aveva mai considerato inItalia. E mentre da noi era la formazione pratica a rappresentaretutto, da loro tutto girava intorno ad un’assidua formazionemanageriale. Nei loro saloni ogni cosa era in vendita, compresele poltrone e le luci, e tutto era computerizzato. Stiamo parlandodel 1999.

Se in quegli anni in Italia avevi un sito internet eri un pioniere.Provai una sensazione strana: le mie certezze stavano crollando,sostituite dalle nuove evidenze che si presentavano ai miei occhi.In tre giorni avevo capito come fosse facile per chiunquemigliorare la propria situazione lavorativa, ma, in balia dellegrosse aziende cosmetiche, ritenevo che gran parte dei mieicolleghi fosse come “annebbiato”.

Tornavo a casa la sera in treno e andavo a letto presto per poteralzarmi in forma il giorno dopo. Volevo capire bene, volevoapprendere tutto, ogni minima cosa. Volevo tornare in Italia connovità e con un nuovo modo di vedere il mio lavoro.Nel salone di Rina la presenza di clientela afro-americana eramolto numerosa. Non avevo mai avuto a che fare con tutti queicapelli ricci, e tantomeno li avevo mai toccati. Capelli afro, riccidi tutte le forme. Era tutto nuovo per me.

Notai subito che il loro approccio verso questa tipologia di capelliera totalmente diversa da quella a cui ero abituato. Li tagliavanoda asciutti, come se li stessero scolpendo, utilizzavano prodotti“strani” per ammorbidirli: olio, burro, essenze. Li asciugavano in

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modo diverso, senza spazzole, piastre. Insomma, un mondodavvero diverso dal mio.Ero abituato a tagliare i capelli da bagnati. Il cliente entra innegozio, lo si porta al lavatesta, si fa shampoo e balsamo, e poi siinizia a tagliare i capelli. Qui era tutto al contrario. Capii subito ilperché di questo modo di lavorare. Il capello riccio veniva tagliatoseguendo la sua naturale ondulazione, analizzando i suoi volumi,le sue direzioni, assecondando l’effetto molla. Invece da bagnatosi riduce in uno stato informe, pesante, tutto uguale e allungato.Capii quindi perché molti dei miei clienti dai capelli ricci silamentassero sempre del fatto che avevo tagliato i loro capelli piùcorti di quello che mi avevano chiesto. In effetti, da bagnati i riccisono più lunghi, ma da asciutti si ritirano.

Questa cosa mi incuriosì tantissimo e fece scattare in me la vogliadi approfondirla. Chiesi dove avevano imparato quella tecnica emi dissero che a Manhattan c’è un’accademia chiamata Devachanspecializzata in capelli ricci. Non potevo andarci subito, perchéstavo per rientrare in Italia, ma mi ripromisi di organizzare unnuovo viaggio per scoprire tutti i segreti del riccio.

Tornato in Italia, avevo la testa piena di novità. Volevo realizzarecosì tanti progetti che questi pensieri non mi facevano chiudereocchio la notte. Eppure mi sentivo un alieno. Provate a spiegareai parrucchieri, uomini e donne abituati da anni ad avere un certoapproccio, che i capelli ricci si tagliano da asciutti, che non siusano spazzole o pettini, che spesso non si usa lo shampoo. I riccisono un altro mondo. È difficile trovare parrucchieri preparati inquesta materia, perché la formazione è in mano alle aziendecosmetiche che sono focalizzate sul liscio. Chi ha i capelli ricci

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può gestirli in autonomia: una volta che la forma del taglio è aposto, non ci vogliono molti prodotti per sentirsi in ordine. Eccoperché alla maggior parte delle aziende non interessa il capelloriccio. Ci vuole un nuovo modo di concepire i capelli. L’Americami aveva fatto riflettere molto, mi sentivo su una pagina diversarispetto a quando ero partito, ma in Italia le cose seguivano il loroconsueto ordine.

Avevo capito che per andare avanti non bastava far andare le manicome un robot, ci volevano idee valide e il coraggio di farequalcosa di nuovo. Decisi che era il momento di dire “basta” aquesti colpi di sole, a questi corsi di moda che poi di modaavevano ben poco. Ormai sempre più mi apparivano come degli“show” piuttosto che come dei veri e propri eventi formativi. Lascena che più mi infastidiva era quando vedevo il parrucchiere diturno sforbiciare all’impazzata, mozzando ciocche in manieraindiscriminata e colorando di rosso, blu, arancione i capelli dellapovera modella. Per me quella non era moda, era soloun’esibizione fine a se stessa, volta a “spettacolarizzare” unaprofessione tutt’altro che superficiale. Le povere clienti deiparrucchieri che partecipavano a questi show spesso uscivano daisaloni con frangette storte verdi e gialle o tagli a volte cosìasimmetrici da sembrare si fossero bruciate i capelli, “vittimeinconsapevoli” di un parrucchiere che magari aveva anche spesoduemila euro per seguire quel corso. Per me era una vera e propriasofferenza restare inerme senza poter far nulla che cambiasse inmeglio la situazione.

Constatai di persona che il sistema non funzionava. Avevo amicie colleghi molto bravi con le forbici ma che avevano chiuso

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l’attività dopo poco. Fu la conferma che solo con le mani non siva da nessuna parte.Cominciai a esplorare le opportunità che poteva darmi internet.Aprii quasi per gioco il mio primo blog, dove postavo fotografiedei miei tagli e raccontavo alcuni aneddoti della mia giornata dilavoro. Ogni giorno postavo qualcosa. In pochi mesi avevo già unbuon numero di seguaci. Internet e visibilità andavano a braccetto,lo avevo capito.

L’anno successivo tornai a New York per frequentare l’accademiadi Devachan. Mi trovavo nel tempio dei capelli ricci, doveimparare i segreti per domarne ogni tipologia, dall’afroall’ondulato. Sapevo come dare volume a una testa e cometoglierglielo: era come essere diventato un mago. Vedevo entrarenel salone delle ragazze ricce con delle teste crespe, gonfie, senzaforma, e le vedevo uscire con chiome lucide, definite e dai volumiproporzionati. Avevo trovato la mia strada.

Ancora nessuno aveva pensato a quella nicchia di mercato in Italiae io volevo distinguermi e, per farcela, avrei dovuto approfondiretutto quello che potevo riguardo questa tipologia di capelli.Comprai diversi libri, dalla tricologia alla cosmetologia, mi iscrissia tutti i forum specializzati in capelli ricci, presi contatti con tuttii partecipanti del mio corso a New York e ci tenemmo sempreaggiornati su nuovi prodotti e nuove tecniche. Avere una comunitàdi riferimento aiuta: è una cerchia sicura in cui si parla la stessalingua e si affrontano le stesse problematiche. In tutti questi anniho capito che da soli non si va da nessuna parte. Bisogna creareuna squadra in grado di mantenersi da sola. Tornai a New Yorkanche l’anno successivo e quello dopo ancora.

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In Italia iniziavo a crearmi il mio target e, senza fare tantapubblicità sulla mia scelta di specializzarmi in questo tipo dicapello, con il solo passaparola, la clientela riccia in saloneaumentava sempre di più. Decisi di dare un’impronta forte a questamia scelta di lavoro, creando il brand “I love riccio”, un insiemedi parole semplici che racchiudono tutto quello che voglioraccontare: «amo i capelli ricci».Capivo che se volevo offrire il massimo ai miei clienti non potevocontinuare a utilizzare prodotti delle case cosmetiche italiane chenon erano adatti a soddisfare le esigenze di circa nove tipologiedi capelli ricci più nove sotto-categorie. Ci volevano prodottispecializzati. Li cercai in Europa e in America e, una voltaindividuati, li importai cominciando già a pensare una linea tuttamia e a un mio brand. Sentivo di avere tra le mani qualcosa: la tecnica, la clientela fedele,il brand, i prodotti giusti. Mescolando tutto insieme il progetto

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Fulvio mentre effettua il taglio X-curl

esplose come una bomba. I seguaci sui social network crescevano,venivo citato sempre più spesso da giornalisti e blogger, venivocontattato da colleghi che volevano imparare a gestire questatipologia di capelli.

Cominciai a lavorare con una clientela sempre più variegata,proveniente da tutta Italia. Certo, era una clientela molto esigente:avevano girato testando diversi parrucchieri, senza mai trovarequello giusto, quello che fosse in grado di capire le esigenze delcapello riccio in questione. Davanti a me, i clienti sentivano diessere capiti. Finalmente. Questa clientela così difficile divenne ilmio zoccolo duro, la più affezionata, quella che mi faceva piùpubblicità, che non mi avrebbe mai abbandonato.Nel frattempo non mi fermavo un secondo: continuavo a volarein America per seguire nuovi corsi, cercando di tessere relazionipersonali e professionali con i colleghi oltre oceano.

Era un giorno dell’estate 2015, doveva essere una domenica.Come tutte le mattine, accesi il cellulare per vedere se ci fosseronotizie o email in arrivo. Vidi l’icona di Messenger al centro deltelefono con la fotografia di un volto che non conoscevo. Nonvolevo aprire il messaggio: avevo voglia di fare colazione e magaritornarmene a letto, ma per curiosità diedi un’occhiata. Lessi tuttod’un fiato e poi di nuovo, per conferma. Ero stato inserito neiquindici migliori parrucchieri specializzati in capelli ricci delmondo. Insieme a Ouidad e Lorraine Massey di Devachan.Pensavo fosse uno scherzo.

Nel giro di qualche ora mi arrivarono e-mail di congratulazionedai miei colleghi americani, da direttori di aziende che volevano

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collaborare con me, da sconosciuti. Non potevo credere fosse tuttovero! Mi spiegarono che NaturallyCurly.com aveva indetto unsondaggio online. Era un sondaggio a voto popolare a cui personedi tutto il mondo potevano partecipare con lo scopo di valutare iparrucchieri specializzati in capelli ricci. C’erano vari indicatoritra cui l’impegno del parrucchiere nel portare avanti il progetto, irisultati ottenuti, il grado di soddisfazione della clientela e il livellodi professionalità raggiunto.Grazie a questo riconoscimento ebbi la conferma ufficiale chestavo percorrendo la strada giusta.

Sapete cosa ho imparato in vent’anni di lavoro? Ho imparato chela gente è curiosa, vuole sapere di te, vuole conoscere quello chele stai facendo, vuole essere informata su tutto. Non le interessanulla del gossip, come invece si crede. Non ricordo l’ultima voltain cui ho parlato di gossip con una mia cliente, forse nel ‘99.Uomini e donne vengono in salone solo per i loro capelli, per laloro immagine. Stanno spendendo soldi, hanno delle aspettative,hanno amici e compagni che li aspettano a casa curiosi delcambiamento. Pettegolezzi e calcio non interessano proprionessuno. Invece quando si parla di progetti, i clienti si sentonopartecipi e, in effetti, lo sono. È grazie a loro che lavoriamo tanto,è grazie a loro se giriamo l’Italia e ogni tappa è sold out. Nonbisogna mai tradire le loro aspettative. È   un impegno moltogrosso, perché l’errore è sempre dietro l’angolo e noi siamo umanie non robot, è vero, ma l’attenzione deve essere sempre ai massimilivelli. Io considero le giornate di lavoro come delle giornate incui devo fare delle performance e per avere un’ottima performanceci vuole equilibrio, freschezza e spensieratezza. Qui entra in giocola sfera privata.

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Ho conosciuto bravissimi colleghi bruciati da vizi vari. Non puoiessere un professionista serio se quando finisci di lavorare non faiuna vita regolare. Come puoi essere attento ai clienti, dal primoall’ultimo, se non sei mentalmente fresco? Io mi sono creato unostile di vita equilibrato, l’unico modo per essere sempre attento atutto.

Mi chiedo se sarò in grado di mantenere sempre un livello diservizio così alto, mi sento come uno chef stellato che ogni annospera di fare meglio del precedente e, allo stesso tempo, vive nelterrore che possano togliergli tutti i riconoscimenti.

Fulvio con i suoi 2 figli, Martina e Lorenzo

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In vacanza ad Alassio

La performance deve essere sempre al massimo. Certo, lapressione è molto alta: sei sempre sotto la lente d’ingrandimento,sei sempre osservato, valutato, giudicato, non puoi permetterti unminimo errore. “Più l’albero è grande, più attira il vento”, dice unproverbio giapponese. Convivo con questa pressione addosso: avolte vince lei, a volte io, ma la guerra è sempre aperta. La miafamiglia è la mia difesa.

Io e Laura siamo insieme da vent’anni. Ci siamo conosciuti suibanchi di scuola, quando studiavo da perito chimico. Avevoripetuto due anni di scuola. Mi ricordo che le ragazze guardavanonoi ripetenti come se fossimo degli “orchi” o degli specie di“dannati”, senza voglia di fare niente. Quando l’ho vista nei

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Un momento di relax domenicale

corridoi della scuola, non avevo dubbi. Era la più dolce e indifesadella classe, mi piaceva tantissimo. Un pomeriggio accettò diuscire con me. Avevo già la patente, e questo giocò a mio favore,credo. Da quel pomeriggio non ci siamo più lasciati. Dopo ottoanni insieme, io e Laura ci siamo sposati e subito dopo sonoarrivati i bambini, Lorenzo e Martina. Sono la mia gioia ed ègrazie a loro tre che riesco a lavorare anche quindici ore al giornosenza pensieri. Una donna forte che ti capisce e ti comprende è ungrande aiuto psicologico e fisico. Spesso le domandano se non ègelosa del mio lavoro, se si fida di me, viste le mie continuetrasferte in Italia e all’estero. La sua risposta è così semplice dalasciare senza parole: sì. Un consiglio che posso dare a tutti èquesto ed è molto basico: curate prima la vostra famiglia, poi ilvostro lavoro. Fare le cose al contrario non funziona. Avere vicinouna donna che ti sprona ad andare avanti, che ti aiuta nel realizzarei tuoi progetti che ti sostiene nei momenti in cui sei giù èfondamentale.

Come tutti quelli che lavorano con passione spesso mi capitanoanche momenti di sconforto. Basta poco: un commento o unarecensione negativa e vado in paranoia, non ci dormo la notte.Cerco di capire com’è potuto succedere e la spiegazione è semprenella mancanza o nella cattiva comunicazione. Per questo, anchese a volte immagino che cosa desidera il cliente, voglio sentirmelodire, voglio instaurare un rapporto comunicativo. I clienti che nonparlano, magari per timidezza o riservatezza, mi creano grossiproblemi e un senso di frustrazione.

Il nostro lavoro è molto difficile perché ogni persona è diversa eva compresa. Entrare in contatto con le sue paure e le sue esigenze

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può avvenire solo con una buona comunicazione.

Il problema principale di avere a che fare con i ricci è la varietà.Quante tipologie di capelli ricci ci sono? Quando si parla di ricciuno pensa di parlare di una sola tipologia come se fossero tuttiuguali, ma non è così.

Abbiamo la categoria 2, ovvero i capelli ondulati, che si dividonoin 2a, 2b e 2c in base all’onda. Io considero questa tipologia la piùdifficile da trattare. Il capello leggermente mosso tende a esserepiù delicato, a non tenere la piega, a essere più fragile. Inoltre chipossiede questa tipologia di riccio vorrebbe tanto volume, unapiega che dura nel tempo. Io stesso sono un 2c. Lottiamo semprecon il volume e la definizione, se sbagliamo la scelta di unprodotto ci troviamo con i capelli pesanti, grassi, mosci. Le donnesono molto sensibili, si vedono sempre spettinate, con i capelli chenon tengono. Ho approfondito molto l’argomento e mi sono resoconto che la cosa più importante è essere chiari e onesti. Non puoiilludere nessuno dicendogli che dopo quel trattamento avrà unatesta da leone. Bisogna solo cercare di tirare fuori il meglio dailoro capelli, cercando di valorizzarli il più possibile ed evitare tuttiquei trattamenti aggressivi che stenderebbero ancor più il riccio.Inoltre, le persone con un capello di categoria 2 non amanol’effetto bagnato, perché hanno l’impressione di avere menocapelli e meno volume. Sono tutte considerazioni da fare prima diconsigliare un prodotto. Il taglio deve essere calibrato in modo taleda non svuotare troppo i punti laterali ed evitare l’effetto codaposteriore. Il metodo di taglio X-Curl prevede tutte questeaccortezze. Spesso alcuni clienti hanno delle ciocche più lisce dialtre che bisogna cercare di uniformare.

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Inizialmente, tagliavo i ricci con il metodo tradizionale. Li tagliavoda bagnati, separavo i capelli con le pinze in modo geometrico,ma il risultato era troppo finto, troppo squadrato. Così ho iniziatoa togliere certe cose al metodo tradizionale. Ho tolto il pettine, eho visto che lavorare solo con le mani era più difficile all’inizio,ma ha il pregio di mettermi più a contatto con la materia: li tocco,li muovo, li sento scorrere tra le dita, senza questo fastidiosointermediario tra il riccio e le forbici che è il pettine. Ho toltol’acqua: come avevo visto fare in America, tagliavo i ricci daasciutti, così riesco a capirne i volumi, le proporzioni, la densitàdei capelli, la direzione delle ciocche. Ho tolto le divisioni: taglioi ricci nella loro posizione naturale, senza raccoglierli in gruppiartificiali. Con queste accortezze il risultato era esattamente quelloche desideravo ottenere: nella sua imperfezione era quello chevolevo: era naturale, semplice da portare, bello. All’inizio nonavevo capito che la bellezza stava proprio nel fatto di vedereciocche più lunghe e più corte. Così la testa era in movimento enon statica. Arrivavo da quindici anni di metodo inglese, dove icapelli vengono scalati con una precisione millimetrica. Riprovaiad applicare il metodo inglese in modo meno rigoroso per vederese il risultato cambiava, ma le teste erano troppo finte e squadrate.Avevo deciso: il metodo giusto era X-Curl. La X è il segnoimmaginario che visualizzo quando inizio a tagliare, è la mia lineaguida.

La tipologia 3 che si suddivide in 3a, 3b e 3c è la più semplice dagestire. Il volume spesso è già presente, il riccio è elicoidale.L’errore che spesso si fa è di trattarlo troppo, pensando che,essendo un capello grosso, si possa fare di tutto. Il risultato è chesi rischia di esagerare con tinte, decolorazioni e mèches che poi

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fanno inaridire il capello, stirandolo e rendendolo crespo eindefinito. Addirittura a volte il suo volume viene visto come unqualcosa da “annientare” e così i ricci si sfoltiscono o si sfilano.Tutto questo porta però a perdere il riccio. Se il taglio è sbagliato,i volumi si posizionano in modo anomalo intorno al viso: piattisopra e gonfi sui lati, oppure voluminosi sotto e piatti ai lati, etante altre forme geometriche strane. Chi ha questo tipo di riccioha vissuto da piccolo momenti difficili, perché il gonfiore e ilcrespo dominavano e non si è capaci di gestirli. Ho sentito parlaredi mamme che, pettinando tutte le sere le loro bambine,conferivano ai loro capelli un “effetto nuvola” decisamenteantiestetico, oppure mi hanno raccontato di code di cavallostrettissime che rendono senza forma i capelli, o ancora, distirature effettuate con piastre o agenti chimici. Insomma una vastagamma di “torture” che ho cercato di impedire sconsigliandole dinetto. Inoltre l’effetto stirato dura ben poco perché il riccio vincesempre, basta un minimo di umidità nell’aria, perché ostinarsi,quindi? Solitamente solo verso i vent’anni si comincia adapprezzare questa tipologia di capelli e farlo diventare il propriopunto di forza.

I capelli afro vanno dal 4a al 4b al 4c. Questo è un altro mondo,bellissimo, dove cultura, sociologia e tradizioni si mescolano. Finoa quindici anni fa anche in America le donne afro stiravano i lorocapelli. Era visto come un segno di benessere, ma spesso eranoutilizzate stirature chimiche dannosissime sia per i capelli sia perla salute in generale.

Oggi invece il movimento Nappy, acronimo di NAtural haPPY, èfortissimo e le nuove generazioni portano con grande orgoglio i

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propri capelli afro. La cura di questi capelli è molto complessa,richiede l’utilizzo di oli, creme, per ammorbidire e idratare uncapello che, a differenza di quello che si pensa, è sottile e fragile.Mi capita spesso di spiegare alle mamme, specialmente quellemeno abituate a questa materia, come gestire questi capelli e comefarli apprezzare ai loro piccoli.

Oggi ci sono molti forum e siti specializzati in rete dove prenderespunto per curare e trattare i propri ricci. Il problema è che ognunaporta la propria esperienza, dunque essendoci così tante variabilinel capello riccio spesso questi consigli fanno perdere solo tempoe denaro.

Qualche anno fa esplose la moda per le donne ricce di sottoporrei capelli a prodotti anti-crespo e a stirature. Se andavi dalparrucchiere e avevi un accenno di riccio, la prima cosa che tiproponevano era l’anti-crespo, un prodotto considerato naturaleche avrebbe mantenuto il riccio, rendendolo solo più morbido edefinito. L’altra possibilità era la stiratura. Questo accadeva dalmomento che, visto che pochi parrucchieri sapevano trattare icapelli ricci al naturale, valorizzandoli, l’alternativa era stirarli conl’illusione di avere capelli sempre in ordine: uscivi dalla doccia econ un semplice colpo di phon andavano a posto, lisci come laseta. Inoltre, nei casi dell’utilizzo di prodotti importati dai paesisudamericani, il risultato era più simile al seguente profilo: capellidanneggiati, sempre crespi, né ricci né lisci. Insomma per anni hovisto arrivare in salone donne con dieci centimetri di ricrescitariccia e trenta di stiratura. Cose incredibili, capelli mummificati,che facevano impressione al tatto, sembravano di plastica, eservivano anni per sistemarli.

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Avere a che fare con i ricci è un’attività particolare. Si lavora comeil marmista che, dalla materia informe, ricerca le tracce delsoggetto che vuole fa affiorare. Il riccio è un capello difficile daconoscere, perché è poco prevedibile, quindi il lavoro sulla materiadeve essere millimetrico. Se tagli una ciocca riccia da bagnata èfacile che, una volta asciutta, si ritragga più di quanto pensato. Cisono tante valutazioni da fare, come lo scultore quando ha davantile nervature del marmo e deve decidere come far emergere ilsoggetto. Una seconda possibilità non è contemplata. La mia sfidaè iniziata tanti anni fa e continua ancora oggi.Oggi giorno metto in pratica quello che ho imparato, e non parlosolo della mia formazione. Mi succede spesso con le ragazze piùgiovani, quelle che arrivano in salone con un misto di tristezza edisperazione addosso. Entrano in salone timide, sulle loro. Alleprime domande, iniziano a raccontare le disavventure legate ailoro ricci. Lo fanno prima in modo discreto e poi entrano neidettagli. Provo un vero senso di malessere fisico. Poi subentra larabbia. All’inizio verso la malcapitata di turno, perché mi chiedo- e le chiedo - come mai si è affidata al primo che ha trovato,perché non si è informata prima di scegliere a chi affidare la suachioma. Perché prima di andare al ristorante si fanno millericerche, si chiede in giro per fare un controllo incrociato e poi siprenota? Perché prima di comprare una macchina si valuta ogniminima cosa? E i capelli? Perché quelli vengono affidati al primoche capita? Poi la sensazione di rabbia passa perché mi rendoconto che la ragazza era semplicemente in buona fede.

Chi mi conosce sa le storie che mi sono passate fra le mani, donnee uomini bellissimi con capelli completamente rovinati,impresentabili, secchi, in una parola: distrutti. È facile dire: “basta

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che li tagli”. Per chi è abituato a portarti lunghi è un bel trauma, ècome rinunciare alla propria identità, subire un cambio diimmagine, invece di sceglierlo. Quando vedo arrivare persone chehanno fatto più di mille chilometri per venire a farsi sistemare latesta da me, che cosa significa? Ho diverse clienti che una, duevolte all’anno prendono un aereo da Palermo in direzione Milanoper venire al mio salone. È ovvio che sono felice di essere statoscelto, ma mi immedesimo anche in chi deve fare un’attraversatadel genere. Spesso non lo raccontano a nessuno, neppure agliamici, per paura di essere derisi, vivono questo viaggio in solitaria,sperando di ritrovare il sorriso. Sono orgoglioso di essere scelto,non posso deludere queste persone. Tutto questo è la mia vita, ilmio mondo, la mia missione.

Quante volte mi sono visto abbracciare dai clienti che uscivanodal mio negozio? È una sensazione incredibile: sentivo di averfatto qualcosa di importante per loro e non un semplice taglio dicapelli. Ma vi rendete conto? Per quali cose voi abbraccereste unapersona dopo solo un’ora che la conoscete? Provate a pensarci ecercate di capire il valore di questi abbracci.Quando ho preso la decisione di specializzarmi nel riccio, hannoprovato a scoraggiarmi in tutti i modi. Mi dicevano che l’Italianon era pronta a questo tipo di lavoro, ma io sono testardo e vogliolavorare facendo quello che mi piace davvero. La mia passionesono i capelli ricci.Quello che mi stupisce oggi, a distanza di tanti anni di lavoro, è laconfidenza che ho preso con questa tipologia di capelli. Quandoentra per la prima volta un cliente potrebbe anche stare in silenzioche riesco già a capire cosa vorrebbe e quali sono stati i suoiproblemi fino a oggi. Me ne stupisco anch’io.

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2016 nel nuovo salone

RINGRAZIAMENTI

Volevo ringraziare tutto lo Staff che lavora con me e che misegue in tutti i miei progetti ed obiettivi che sono sempre tanti

ed ambiziosi.

Un caloroso grazie anche a tutte le nostre followers, della nostra pagina Facebook e Instagram

che ci seguono da anni condividendo con noi i nostri successi e la nostra crescita professionale.

Grazie di cuore, spero di potervi conoscere tutte prima o poi..

Fulvio Tirrico è nato a Milano il 3 Settembre 1975, oggi è il primo Curly Hair Expert d'Italia. Ha collaborato con le più importanti aziende cosmetiche per perfezionare e posizionare nuovi prodotti specifici per capelli ricci sul mercato.Tra i suoi obiettivi futuri, c'è quello di aprire un'accademia per formare ed istruire i parrucchieri a questo meraviglioso mondo.