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Fulvio Irace è professore ordinario al Politecnico di Milano e visiting professor presso l’Accademia di architettura di Mendrisio. Responsabile dell’architettura per la Triennale di Milano dal 2005 al 2009, ha curato le mostre: Zero gravity. Franco Albini (2006); Le città visibili: Renzo Piano Building Workshop (2007); Casa per Tutti (2008); Facecity (Biennale di Venezia 2012); Milano Mai Vista (con G. Neri, 2015); Mondi a Milano (2015); e numerose pubblicazioni, tra cui: Gio Ponti: la casa all’italiana (1987); Carlo Mollino (1989); Luigi Caccia Dominioni. Cose e case da abitare (2002); Divina Proportione (2007); Design & Cultural Heritage (2014); Essentials. David Chipperfield Architects (2015). 26,00 ISBN 978-88-430-7825-7 9 7 8 8 8 4 3 0 7 8 2 5 7 Irace Storie d’interni Carocci editore Storie d’interni L’architettura dello spazio domestico moderno Rivoluzionando il paesaggio abitato, il Moderno ha riformulato in maniera radicale anche il paesaggio domestico, facendo allineare la casa ai mutamenti dell’industria e ai modi di vita determinati dal dinamismo delle grandi città. Attraverso dieci saggi di autori diversi, il volume propone una riflessione su questi cambiamenti dello spazio della casa dalla seconda metà del xix secolo ad oggi, nella prospettiva di una storia del progetto domestico che restituisca alla nozione di interno arredato la sua organica integrazione con la disposizione degli spazi e il disegno dei volumi architettonici. Il taglio tematico di ciascun saggio attraversa le cronologie, stabilendo connessioni trasversali tra contemporaneità e frammenti del passato, in maniera da rendere evidenti continuità e rotture, riprese e salti di scala. In tal modo si identificano delle “figure” dell’abitare ancorate a una visione spirituale e politica della casa che non si esaurisce nel proprio tempo storico, ma che anzi la contemporaneità alimenta di nuove interpretazioni. Carocci editore Frecce Progetto grafico: Falcinelli & Co. In copertina: Alessandro Mendini, Stanza decorativa, 1994, disegno, Collezione Permanente del Design Italiano, La Triennale di Milano. Carocci editore Frecce A cura di Fulvio Irace

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Fulvio Iraceè professore ordinario al Politecnico di Milano e visiting professor presso l’Accademia di architettura di Mendrisio. Responsabile dell’architettura per la Triennale di Milano dal 2005 al 2009, ha curato le mostre: Zero gravity. Franco Albini (2006); Le città visibili: Renzo Piano Building Workshop (2007); Casa per Tutti (2008); Facecity (Biennale di Venezia 2012); Milano Mai Vista (con G. Neri, 2015); Mondi a Milano (2015); e numerose pubblicazioni, tra cui: Gio Ponti: la casa all’italiana (1987); Carlo Mollino (1989); Luigi Caccia Dominioni. Cose e case da abitare (2002); Divina Proportione (2007); Design & Cultural Heritage (2014); Essentials. David Chipperfield Architects (2015).

26,00

ISBN 978-88-430-7825-7

9 7 8 8 8 4 3 0 7 8 2 5 7

Irace Storie d’interni

Carocci

editore

Storie d’interniL’architettura dello spazio domestico moderno

Rivoluzionando il paesaggio abitato, il Moderno ha riformulato in maniera radicale anche il paesaggio domestico, facendo allineare la casa ai mutamenti dell’industria e ai modi di vita determinati dal dinamismo delle grandi città. Attraverso dieci saggi di autori diversi, il volume propone una riflessione su questi cambiamenti dello spazio della casa dalla seconda metà del xix secolo ad oggi, nella prospettiva di una storia del progetto domestico che restituisca alla nozione di interno arredato la sua organica integrazione con la disposizione degli spazi e il disegno dei volumi architettonici. Il taglio tematico di ciascun saggio attraversa le cronologie, stabilendo connessioni trasversali tra contemporaneità e frammenti del passato, in maniera da rendere evidenti continuità e rotture, riprese e salti di scala. In tal modo si identificano delle “figure” dell’abitare ancorate a una visione spirituale e politica della casa che non si esaurisce nel proprio tempo storico, ma che anzi la contemporaneità alimenta di nuove interpretazioni.

Carocci editore Frecce

Progetto grafico: Falcinelli & Co.In copertina: Alessandro Mendini, Stanza decorativa, 1994, disegno, Collezione Permanente del Design Italiano, La Triennale di Milano.

Carocci editore Frecce

A cura di Fulvio Irace

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Storie d’interniL’architettura dello spazio domestico moderno

A cura di Fulvio Irace

Carocci editore Frecce

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L’Editore è a disposizione per i compensi dovuti agli aventi diritto

1a edizione, novembre 2015© copyright 2015 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari

Impaginazione: Luca Paternoster, Urbino

Finito di stampare nel novembre 2015 da Eurolit, Roma

isbn 978-88-430-7825-7

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

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Indice

Introduzione 9 di Fulvio Irace

1. La casa decorata 11 di Fulvio Irace

2. La casa razionale 47 di Massimiliano Savorra

3. La casa sociale 77 di Graziella Leyla Ciagà

4. La casa liberata 113 di Francesca Serrazanetti

5. La casa prefabbricata 141 di Maria Teresa Feraboli

6. La casa in mostra 165 di Maria Teresa Feraboli

7. La casa di vetro 197 di Gabriele Neri

8. La casa d’artista 229 di Carla Mazzarelli

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9. La casa scomposta 253 di Gabriele Neri

10. La casa del futuro 283 di Maria Manuela Leoni

Note 305

Indice dei nomi 323

Gli autori 333

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3La casa socialedi Graziella Leyla Ciagà

La ricostruzione vista dall’interno

Al termine della Seconda guerra mondiale il tema della casa diventa sem-pre più centrale nel dibattito architettonico europeo: di fronte alla penu-ria di alloggi e alle distruzioni belliche, gli architetti sono infatti chiamati a mettere a punto modelli abitativi in grado di rispondere con efficacia alla difficile congiuntura nel quadro di una sostanziale penuria di risorse economiche.

Il caso italiano è emblematico. Nel 1945 il nostro paese reclamava almeno 15 milioni di vani da costruire, e per questo il dibattito sulla “casa per tutti” impegnò a lungo l’agenda politica e la cultura architet-tonica sollecitata a produrre tipologie e metodi costruttivi in grado di far fronte alle mutate condizioni sociali e alle urgenze della domanda abitativa. In questo panorama, le ricerche progettuali non si concen-trarono solamente sull’involucro edilizio, ma anche sui suoi contenuti interni, come testimoniato dalla grande pluralità di studi e proposte messe in campo. Nel 1946, ad esempio, nell’appena riaperto Palazzo dell’Arte di Milano si svolse un’importante mostra organizzata dalla rima (Riu nione italiana mostre arredamento), con l’obiettivo di illu-strare una serie di arredi economici, pratici e di “buon gusto”, da pro-dursi in serie, adatti alle prime fasi della ricostruzione. Nonostante la mostra non raggiunse in pieno il suo obiettivo – i pezzi esposti non si dimostrarono realmente producibili in serie e a basso costo1 – essa appare di notevole importanza nelle sue intenzioni e nelle esortazio-ni alla semplicità del mobile, in linea con un giusto più sobrio e con una realistica considerazione dell’aspetto economico. Ignazio Gardella, tra gli altri, progettò un alloggio per tre persone con mobili «studiati cercando di farli aderire a precise esigenze di vita ma con una certa

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flessibilità (componibilità varie delle biblioteche, reversibilità degli ar-madi, intercambiabilità dell’attrezzatura interna ecc.) che permette di adattarli a forme diverse di ambienti e a mutevoli necessità familiari»2 (fig. 3.1). Simili i principi alla base dell’alloggio per quattro persone presentato da Vito Latis (fig. 3.2), che cercavano di coniugare il con-cetto di unificazione e il sistema produttivo ancora artigianale del pae-se3. Alla mostra della rima partecipò anche il giovane Vico Magistretti, con (tra le altre cose) la sedia Piccy – redesign di una sedia in legno di faggio e tela – e una libreria a ripiani spostabili, che anticipano alcuni dei concetti da lui sviluppati in futuro (fig. 3.3)4.

L’anno successivo il tema dell’arredo è riproposto nella cosiddetta “Triennale Proletaria”, aperta il 31 maggio 1947 e coordinata da Piero Bottoni. Dedicata alla “casa per tutti”, l’viii Triennale si fece promotri-ce della costruzione del qt8 (1945-57) – Quartiere Triennale Ottava – nella zona di San Siro a Milano, offrendo così una prova tangibile dei risultati sperati. Pietro Lingeri e Luigi Zuccoli nella casa in linea alta 11 piani (1949-51) adottano un sistema distributivo a ballatoio con 10 alloggi per piano, collocando però (a differenza dello schema tradi-

figura 3.1 Ignazio Gardella, Alloggio per tre persone, mostra rima, Palazzo dell’Arte, Milano, 1946 (da Alloggio per tre persone, in “Domus”, 211, 1946, p. 7).

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zionale) i due vani scala-ascensore in due volumi esterni. Il ballatoio è posizionato poi a quota -50 cm dal pavimento degli alloggi, al fine di garantire maggiore riservatezza con una soluzione simile a quella pen-sata da Giuseppe Terragni e Alberto Sartoris nel 1938 per il progetto delle case di tipo “estensivo alto”, studiate per il quartiere satellite di Rebbio-Como.

Ci fu anche una mostra dedicata specificamente all’abitazione, in cui si affrontava ancora il problema dello standard e dell’unificazione applicati all’arredo, con l’utilizzo di materiali poveri5. L’obiettivo era dimostrare come, anche in spazi interni molto limitati – come ad esem-pio nelle case dei reduci progettate da Magistretti –, si potessero avere ambienti dignitosi e funzionali. Nelle parole dei curatori:

L’arredamento non deve essere inteso come decorazione d’interni e ogni pezzo singolo, quando sia condizionato a uno schema di composizione di gusto pre-determinato, non soddisfa l’esigenza funzionale. Restituire al mobile un valore come pezzo indipendentemente dall’ambiente significa dargli una sua autentica fisionomia e permette di raggiungere una effettiva libertà di composizione6.

figura 3.2 Vito Latis, Alloggio per quattro persone, mostra rima, Palazzo dell’Arte, Milano, 1946 (da Alloggio per quattro persone, in “Domus”, 211, 1946, p. 10).

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Il modello esemplare dell’Unité d’habitation di Le Corbusier

Mentre alla Triennale di Milano venivano presentate le ricerche sopra esposte, in Francia Le Corbusier stava mettendo a punto un progetto di edilizia sociale che sarebbe presto divenuto un modello di riferimento imprescindibile per la cultura architettonica internazionale. L’Unité d’habitation di Marsiglia (1947-52)7 è l’esito di una serie ininterrotta di ricerche sul tema della residenza collettiva che Le Corbusier aveva elaborato negli anni Venti e Trenta (dall’Immeuble-villas agli edifici à

figura 3.3 Vico Magistretti, Libreria e sedia Piccy, mostra rima, Palazzo dell’Arte, Mi-lano, 1946 (© Fondazione Vico Magistretti, Milano).

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redants che costituiscono il tessuto residenziale dei progetti urbanistici della Ville Contemporaine e della Ville Radieuse) e che finalmente nel secondo dopoguerra giunsero a maturazione ed ebbero la possibilità di realizzarsi compiutamente in un edificio costruito (fig. 3.4). L’ambi-zioso obiettivo alla base del progetto è quello di coniugare il model-lo a bassa densità che garantisce ad ogni alloggio la giusta offerta di luce, spazio e verde (tipico delle Siedlungen tedesche degli anni Venti e Trenta piuttosto che delle più tradizionali città-giardino inglese), con il modello ad alta densità (proprio della città consolidata di matrice ottocentesca ed evocato anche dal falansterio di Fourier) che consen-te un risparmio di suolo da destinare così liberamente, come illustrato nei suoi progetti urbanistici, a parco urbano e al sistema dei percorsi pedonali e veicolari. Il punto di partenza di questo progetto ha radici lontane: nel 1907 in occasione del suo primo viaggio in Italia un giova-nissimo Charles-Édouard Jeanneret (non ancora Le Corbusier) rimane profondamente colpito dal sistema distributivo e dall’organizzazione interna delle celle della Certosa di Ema, da cui trarrà a distanza di molti anni l’idea di come concentrare un grande numero di alloggi in un uni-

figura 3.4 Le Corbusier, Unité d’habitation, Marsiglia, 1947-52. Sequenza delle logge in facciata (foto G. Neri).

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co blocco edilizio dotato di attrezzature collettive, di come conciliare la dimensione privata dell’abitare con quella sociale.

L’edificio ha in totale 17 piani con 7 strade coperte, 4 ascensori, 23 tipi diversi di appartamenti per un totale di 337 alloggi e circa 1.800 persone (dimensione che curiosamente equivale a quella del falansterio di Fourier). Al settimo e all’ottavo livello sono previsti servizi comuni (magazzini, negozi, lavanderia, uffici, ristorante, un albergo), mentre sulla copertura sono collocati la scuola materna, una palestra, una pista per correre, un solarium e un teatro all’aperto. Il sistema delle logge determina una struttura a brise-soleil, una griglia tridimensionale in cal-cestruzzo armato che filtra la luce diretta del sole, che, messa a punto nelle architetture indiane di Chandigarh (e non solo), trasforma quelle che erano le esili facciate delle architetture degli anni Venti e Trenta in complesse strutture a telaio. L’edificio è sollevato dal suolo tramite 34 pilastri accoppiati in 17 cavalletti, alcuni dei quali hanno la funzione di contenere le canalizzazioni degli impianti che dal suolo si distribuisco-no tramite una piastra tecnica ispezionabile nell’intero corpo dell’e-dificio. La piastra, i pilastri, le fondazioni e l’ossatura generale sono in calcestruzzo armato, le cellule di abitazione sono prefabbricate in costruzione leggera e inserite nell’ossatura generale tramite una strut-tura metallica.

Per ridurre i costi di costruzione a Marsiglia Le Corbusier applicò i principi della progettazione modulare, della tipizzazione del taglio degli alloggi e della standardizzazione del sistema costruttivo. L’unità-base dell’Unité è infatti costituita da tre cellule normalizzate: ingresso, cucina, zona pranzo e sala comune o vuoto del solaio; camera matrimo-niale e bagno; due camere da letto. La prima cellula da sola costituisce il monolocale, mentre aggregata alla seconda cellula l’appartamento per una coppia senza figli (o con un figlio) e la composizione delle tre cellule l’appartamento per quattro-sei persone (il tipo più diffuso che corrisponde ad una metratura di 90 mq netti); aggiungendo poi altre cellule del tipo a due camere si formano appartamenti per famiglie con sei-otto figli (figg. 3.5-3.6). Gli elementi di ogni cellula sono standar-dizzati mentre le loro combinazioni sono variabili. Tutti gli alloggi, ad eccezione del monolocale, sono in duplex a pianta rettangolare allun-gata con sezione ad L secondo il modello rielaborato dalla Maison Ci-trohan. L’altezza di ogni piano è di 2,26 m, cosicché il vuoto in corri-spondenza del soggiorno determina un’altezza di 4,80 m. La soluzione

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della doppia altezza determina un collegamento visuale tra i due livelli dell’alloggio e un notevole arricchimento delle qualità spaziali del sog-giorno che presenta un’ampia vetrata (ad occupare interamente la pa-rete esterna) con una loggia. Il serramento è studiato in modo tale che, completamente aperto durante la bella stagione, si crea una continuità con il soggiorno e la stessa soglia può essere utilizzata come una seduta. Al piano superiore la camera da letto matrimoniale prende luce, tramite il vuoto sul soggiorno, dall’apertura a doppia altezza della loggia; men-tre le camere da letto dei bambini sono separate tra loro da una parete scorrevole che, aperta, crea uno spazio giorno ad uso comune. La mo-

figura 3.5 Le Corbusier, Unité d’habitation, Marsiglia, 1947-52. Piante e sezioni di due alloggi tipo.

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dularità degli alloggi fa sì che la sovrapposizione ad incastro di due al-loggi – la parte a doppia altezza di un alloggio è al di sopra o al di sotto della parte ad altezza singola di un altro alloggio – liberi lo spazio per un corridoio centrale, che si presenta come una vera e propria “strada interna” da cui ad ogni piano si accede a tutti gli appartamenti. Molto alto è il livello d’integrazione fra l’architettura, gli interni e il sistema degli arredi che attrezzano lo spazio domestico, molti dei quali sono fissi e concepiti come semplici contenitori squadrati che Le Corbusier chiama casiers standard. Ad esempio, le pareti del soggiorno e delle ca-mere da letto sono attrezzate con vani per libri e oggetti; i parapetti delle balconate interne presentano scaffalature a giorno.

Di particolare interesse è il progetto della cucina, studiato da Char-lotte Perriand (fig. 3.7; e poi in parte modificato dall’Atelier Le Cor-busier) come un blocco preinstallato e completo di tutti gli elettro-domestici e gli arredi. Si trattava in pratica di un aggiornamento dei principi della Cucina di Francoforte studiata negli anni della Repub-blica di Weimar da Margarete Schütte-Lihotzky per le Siedlungen di

figura 3.6 Le Corbusier, Unité d’habitation, Marsiglia, 1947-52. Foto d’epoca della zona giorno.

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Ernst May, da riprodurre a scala industriale per tutti gli appartamenti. Essa era composta da tre elementi bassi a pavimento (con lavandino/frigorifero, fornelli, credenza) e da un elemento a L appeso al muro con sportelli scorrevoli. La Cucina di Marsiglia non è un ambiente a sé stante: il blocco si colloca infatti nella zona giorno ed è separato dal resto solo dall’elemento credenza, che funge anche da passavivande. I materiali utilizzati sono il legno di quercia, che definisce anche croma-ticamente la parte verso il soggiorno; l’alluminio, facilmente lavabile; il compensato, lasciato al naturale o colorato, per gli sportelli scorrevoli. Il “sistema cucina” era collegato direttamente all’esterno: il frigorifero, ad esempio, riceveva il ghiaccio dalla rue intérieure. Il prototipo finale, messo a punto dopo anni di studi e modifiche, fu presentato al xviii Salon des arts ménagers nella primavera del 19508.

figura 3.7 Le Corbusier, Unité d’habitation, Marsiglia, 1947-52. Foto d’epoca della cucina.

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L’uso del termine unité, o meglio unité d’habitation de grandeur con-forme, fa riferimento al fatto che doveva trattarsi di un elemento di una serie, e infatti l’edificio di Marsiglia costituisce un frammento di un progetto più generale che doveva comprendere otto unità per un totale di 20.000 abitanti. Dopo Marsiglia saranno realizzate le Unité di Nan-tes (1953-55), Berlino (1957), Briey-la-Fôret (1958-61) e infine di Firminy (1965-67).

Robin Hood Gardens

Tra le tante riflessioni sviluppate tra gli anni Cinquanta e Settanta sul tema del social housing in Europa, un caso studio particolarmente inte-ressante, per le sue implicazioni architettoniche e sociali, è quello del Robin Hood Gardens, complesso realizzato da Alison e Peter Smithson nella zona di Poplar, a Londra, tra il 1966 e il 19729. In questo progetto, da inquadrarsi nel contesto del welfare State inglese, si possono ritrovare i temi caratterizzanti l’Unité: il rapporto tra la dimensione architetto-nica e territoriale, lo studio delle relazioni tra gli spazi comuni di di-stribuzione e le singole abitazioni, l’organizzazione dello spazio interno (figg. 3.8-3.9).

Il complesso è definito da due stecche allungate di sette e dieci pia-ni, non parallele tra loro, di stampo neobrutalista, che vanno a formare una corte-giardino interna di forma trapezoidale, con al centro una col-lina artificiale. L’eredità e la reinterpretazione del progetto di Le Cor-busier sono evidenti nel sistema distributivo: anche in questo caso è un unico corridoio che percorre longitudinalmente gli edifici, tuttavia esso non è posto al centro ma in facciata, diventando quindi un lungo balla-toio di considerevole ampiezza. Ispirato al principio della street deck, la “strada-ponte” – già teorizzato nei decenni precedenti in progetti come quello per Golden Lane (1952) – in teoria questo ballatoio sarebbe do-vuto diventare uno spazio comune a disposizione degli abitanti dei 213 appartamenti, rievocando l’atmosfera della vita di strada dei quartieri operai tradizionali. Su questi temi, e in particolare sui risvolti antropo-logici della cultura popolare e sull’idea di abitazione, gli Smithson aveva-no infatti lavorato molto negli anni appena successivi alla guerra, insieme al fotografo Nigel Henderson e allo scultore Eduardo Paolozzi. Ancora

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una volta emerge dunque il principio di complementarità tra ambien-te interno, prettamente domestico e privato, e spazio esterno collettivo, surrogato della “vecchia” vita di quartiere. Le difficili condizioni sociali degli abitanti vanificarono, tuttavia, la costituzione di una vera e propria comunità tenuta insieme dall’architettura, portando il complesso ad un notevole stato di degrado e alla decisione – ad oggi fermata da alcune pe-tizioni – di demolirlo. L’organizzazione interna degli appartamenti del Robin Hood Gardens si basa – anche in questo caso citando l’Unité – sul sistema del duplex, con scale interne che collegano in due piani. Tale disposizione si traduce in facciata in un’alternanza tra piani con e senza la street deck.

figura 3.8 Alison e Peter Smithson, Robin Hood Gardens, Londra, 1966-72. Collage con sezione prospettica dell’alloggio.

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I quartieri popolari in Italia nel secondo dopoguerra

Anche in Italia furono diversi i tentativi di definire un modello con-vincente di housing come comunità o villaggio, nel quale insomma la grande dimensione non eliminasse il senso di appartenenza, ma anzi favorisse la socialità tra i vari abitanti. Influenzati dalle ultime esperien-ze europee, molti architetti diedero vita a soluzioni in cui gli elementi dell’Unité d’habitation venivano reinterpretati fondendosi con model-li tipologici tradizionali – ad esempio lo schema distributivo a ballatoio della tradizione lombarda o il tipo della casa a corte – e in cui è forte

figura 3.9 Alison e Peter Smithson, Robin Hood Gardens, Londra, 1966-72. Vista prospettica generale.

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il tentativo di far interagire lo spazio interno privato e quello esterno comune.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, per fare fronte alla drammatica ca-renza di alloggi a basso costo – determinatasi in seguito alla guerra e so-prattutto al massiccio fenomeno dell’inurbamento di popolazione dalle campagne alle città a seguito del “boom economico” – si avviò il più im-portante programma di costruzione di quartieri di edilizia sociale che il nostro paese abbia mai conosciuto. Il Piano ina-Casa (1949-63) portò, nell’arco di 14 anni, alla realizzazione di 355.000 alloggi (con un ritmo di 500-700 alloggi alla settimana per un totale di 1.920.000 vani) desti-nati a operai (63%) e impiegati (37%), occupando 40.000 lavoratori edili all’anno10. La finalità della legge 43/1949, da cui il Piano prese avvio e dal titolo emblematico Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia agevolando la costruzione di case per lavoratori, era infatti anche quella di far fronte alla grave disoccupazione dei ceti popolari. Una strategia che se dal punto di vista quantitativo si rivelò efficace e vincente, impedì nei fatti l’industrializzazione del settore edile (come invece stava avvenendo in altri paesi) e determinò una bassa meccanizzazione del cantiere con il rafforzamento di un sistema costruttivo di tipo tradizionale incentrato sull’impiego di mano d’opera non specializzata. Un sistema costruttivo che nelle case basse (fino ad un massimo di 3 piani) prevedeva murature portanti con solai in latero-cemento, mentre nelle case alte (oltre i 4 piani) l’ossatura portante a travi e pilastri era in calcestruzzo armato gettato in opera, sempre con solai in latero-cemento. Questi sistemi costruttivi sono stati perfezionati in tutte le loro declinazioni e hanno prodotto un’am-pia gamma di articolazioni e varianti con inevitabili ripercussioni anche sugli aspetti distributivi e figurativi dell’architettura. Fu infatti scartata la soluzione forse più semplice, ovvero quella di elaborare progetti tipo standardizzati sul piano tipologico e si procedette, invece, alla formazione (tramite concorsi) di un albo di progettisti che portò al coinvolgimento di circa 1/3 degli architetti e ingegneri italiani nella realizzazione dei nuovi quartieri popolari.

La Gestione ina-Casa fornì comunque delle indicazioni e delle norme per la predisposizione dei progetti – a cui lavorò molto Adalberto Libera (responsabile dell’Ufficio Architettura dell’ina-Casa fino al 1952) – che prevedevano dal punto di vista insediativo l’applicazione di principi ra-zionalisti quali la bassa densità (inferiore ai 500 ab/ettaro), la giusta di-stanza tra gli edifici, la presenza di spazi verdi e il rifiuto dell’isolato chiuso

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e dell’allineamento lungo il filo stradale; a questi se ne affiancarono altri come la varietà nella composizione, il riferimento alle tradizioni costrutti-ve locali e l’attenzione al paesaggio che si proponevano, invece, di superare la rigidità degli impianti insediativi e dei tipi edilizi di matrice razionalista, di cui le Siedlungen tedesche hanno rappresentato la massima espressione. L’obiettivo dichiarato era infatti quello di dare una risposta ai

bisogni spirituali e materiali dell’uomo, dell’uomo reale e non di un essere astrat-to: dell’uomo, cioè, che non ama e non comprende le ripetizioni indefinite e mo-notone dello stesso tipo di abitazione fra le quali non distingue la propria che per un numero; non ama le sistemazioni a scacchiera, ma gli ambienti raccolti e mossi al tempo stesso11.

Con il motto “costo a vano uguale per tutti, ma case tutte diverse” fu così varato un programma per la costruzione di abitazioni che, a parità

figura 3.10 Mario De Renzi, Salvatore Muratori, Mario Paniconi, Giulio Pediconi, Fernando Puccioni, Unità d’abitazione a Valco San Paolo, Roma, 1949-51: a) pianta tipo di una torre stellare; b) piante tipo di una casa continua (da L. B. Anguissola, a cura di, I 14 anni del Piano ina-Casa, Staderini, Roma 1963, p. 341).

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di investimento, garantissero forte varietà di esiti tipologici e formali e quindi l’elaborazione di un nuovo concetto di quartiere più variato nel-le sue risultanze urbanistiche e architettoniche e più attento al benessere psicologico dei suoi abitanti: «niente case-ricovero costruite in serie. La pianificazione doveva rispettare l’individualità, perché ciascun assegnata-rio fosse in grado di riconoscere da lontano, fra tutte le altre, la propria casa, ed entrandovi si trovasse a suo agio, in un ambiente adatto alle sue esigenze, e vi acquistasse il gusto delle cose ben fatte e la gioia di vivere in famiglia»12.

I progettisti erano chiamati a comporre soluzioni planivolumetriche che prevedessero tipi edilizi diversificati – case a schiera a un piano, case a schiera a due piani con alloggi in duplex, case in linea a tre piani, case

figura 3.11 Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi (coordinatori), Complesso residenziale Tiburtino, Roma, 1949-54. Planimetria generale (da Anguissola, a cura di, I 14 anni del Piano ina-Casa, cit., p. 255).

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isolate con al massimo cinque piani (poi esteso fino a undici piani) ecc. – e ulteriori effetti di varietà e di movimento attraverso le rotazioni dei vo-lumi, gli slittamenti delle superfici, gli aggetti dei balconi, i vuoti delle logge ecc.

Per quanto riguarda poi nello specifico il taglio e l’organizzazione in-terna degli alloggi, le prescrizioni erano molto precise e coniugavano gli studi scientifici sull’alloggio di matrice razionalista con una grande atten-zione al benessere individuale e al nucleo familiare: superfici di 30, 45, 60, 75 e 90 mq per alloggi di 1, 2, 3, 4 e 5 stanze utili (più servizi), doppia esposizione, disposizione a nord solo degli ambienti di servizio (e una sola camera in presenza almeno di altre due), rapporto aeroilluminante pari a

figura 3.12 Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi (coordinatori), Complesso residenziale Tiburtino, Roma, 1949-54. Foto d’epoca di una casa continua (da Anguissola, a cura di, I 14 anni del Piano ina-Casa, cit., p. 255).

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1/6, presenza di balconi o logge, riduzione al minimo di corridoi e disim-pegni. Quindi

ogni alloggio dovrà essere costituito da un locale di soggiorno, da una o più stanze da letto e da accessori; questi ultimi comprenderanno la cucina, il bagno, l’in-gresso, i disimpegni, almeno un ripostiglio ed eventuali vani per armadi a muro. Dovrà inoltre provvedersi ad una adeguata attrezzatura per il servizio, singolo o collettivo, di lavatura e stenditura dei panni. Ogni stanza da letto dovrà essere prevista in modo da accogliere non più di due letti per adulti oltre ad una culla in quelle matrimoniali13.

Le diverse abitudini di vita, in particolare, si riflettevano nel rapporto tra gli ambienti cucina-soggiorno-pranzo: cucina isolata (pranzo-soggiorno a parte), cucina-pranzo (soggiorno a parte), cucina in alcova con locale uni-co di pranzo e soggiorno. Le funzioni elementari erano così raggruppate da Adalberto Libera: ciclo del cibo, ciclo degli indumenti, gruppo delle

figura 3.13 Adalberto Libera, Complesso residenziale Tuscolano iii, Roma, 1950-54. Particolare planimetrico dell’unità (da Anguissola, a cura di, I 14 anni del Piano ina-Casa, cit., p. 261).

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funzioni individuali, gruppo delle funzioni collettive, cura della persona, cura della casa. Partendo dalla considerazione che «l’abitazione è un orga-nismo vivente; muro e mobile, anche se realizzati in tempi o per iniziative differenti, devono essere progettati in una sola volta, quali elementi di uni-tà inscindibile»14 per ogni gruppo di funzioni erano analizzate le funzioni elementari, gli oggetti d’uso e gli elementi d’arredo, e quindi la loro sintesi nella stanza.

Queste argomentazioni erano suffragate anche da elaborati grafici con esempi di quartieri anglosassoni e scandinavi e dei primissimi quartieri realizzati dall’ina-Casa, tra cui il quartiere Valco di San Paolo a Roma (1949-51), presentato come esempio virtuoso di articolazione di diversi tipi edilizi. Mario De Renzi e Salvatore Muratori nell’immediata periferia meridionale della capitale in un terreno di circa 5 ettari tra la via Ostiense e la via Olimpica, hanno realizzato case continue (a pettine e a schiera) di 3-4 e 5 piani e 4 case a torre di 8 piani. Di particolare interesse sono gli schemi “a stella” delle case a torre e a T delle case a pettine che consentono di disimpegnare 3 alloggi per piano con un solo vano scala. Nelle case a torre i tre bracci hanno misure diverse in relazione al taglio degli alloggi

figura 3.14 Luigi Figini, Gino Pollini, Gio Ponti (progetto insediativo), Complesso re-sidenziale Harar-Dessiè, Milano, 1951-55. Foto d’epoca (da G. Baratelli, C. Gioni, M. Mat-tioni, L’edilizia popolare a Milano. Il quartiere Harar, tesina dattiloscritta, corso di storia dell’Architettura del prof. Carlo Perogalli, Politecnico di Milano 1965, vol. ii, p. 62).

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che presentano (nei bracci più lunghi) la ripetizione alternata del mede-simo schema: la cucina (con loggia) e l’ambiente soggiorno-pranzo (con loggia-balcone) disposti sullo stesso lato, mentre la zona notte (tre camere da letto, bagno e corridoio di disimpegno) sull’altro. Nelle case a pettine il vano scala è posto al centro della composizione a cavallo tra due loggiati da cui prendono luce anche le cucine (figg. 3.10).

Sempre a Roma, ma nel quartiere Tiburtino (1949-54), Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi lavorano su una composizione planimetrica molto più complessa in cui le diverse tipologie edilizie – case a torre di 7-8 piani (nei tipi di 2 alloggi per scala, 3 alloggi per scala, 4 alloggi per scala), case in linea di 3-4-5 piani e case a schiera di 2 piani – sono tra loro connesse da un articolato sistema di percorsi fatto di scale, passag-gi e strade interne che coniugandosi con l’uso di materiali e tecniche costruttive tradizionali (tetti a falda, finestre verticali, mattoni pieni e forati, ringhiere in ferro, coperture in coppi ecc.) avevano l’ambizione di ricreare un ambiente pittoresco, definito dagli stessi progettisti da “strapaese”15, che fosse cioè percepito come familiare dai nuovi abitanti del quartiere, in gran parte di provenienza contadina (figg. 3.11-3.12).

figura 3.15 Luigi Figini, Gino Pollini, Edificio residenziale, Complesso residenziale Harar-Dessiè, Milano, 1951-55. Sezione trasversale di un alloggio tipo (Fondo Figini e Pol-lini, © mart, Archivio del ’900, Rovereto).

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Questa linea progettuale sarà seguita anche da altri, senza però raggiun-gere gli stessi livelli di rigore e coerenza del Tiburtino che quindi ne rappresenta il modello esemplare.

Nel quartiere Tuscolano (iii lotto) Adalberto Libera propone una di-versa tipologia insediativa basata su un tessuto a bassissima densità di “case a patio” di derivazione romana e mediterranea con un parco centrale, una unità abitativa orizzontale (destinata agli alloggi minimi) e un blocco per i servizi posto all’ingresso dell’insediamento (fig. 3.13). Gio Ponti già negli anni Trenta aveva lavorato molto sul tema della casa a patio declinandola come casa unifamiliare e aprendola verso il paesaggio, Libera la reinterpre-ta coniugandola con uno schema compositivo tipicamente lecorbuseriano e cioè combinando tra loro quattro alloggi ad L con patio. Il risultato è una matrice ripetuta di quattro alloggi ad L (di dimensioni diverse) combinati tra loro in modo tale che tre patii formino a loro volta uno spazio centrale aperto a L, mentre il patio del quarto alloggio per ragioni di orientamento è rivolto verso la strada interna. In maniera coerente rispetto al modello introverso della domus romana a cui si ispira, quasi tutte le aperture de-gli alloggi sono rivolte verso il patio, garantendo la massima riservatezza. All’interno di questa matrice si colloca un sistema minuto e articolato di percorsi pedonali animato da pensiline, aperture sui patii e panchine per la sosta.

L’idea di realizzare un tessuto residenziale a bassa densità di ispirazione mediterranea è declinato anche da Luigi Figini e Gino Pollini nel quartiere milanese Harar-Dessiè16, dove quattro trame di “insulae”17 – così sono chia-mate dai due progettisti le case unifamiliari in duplex con copertura ad una

figura 3.16 Franco Albini, Ignazio Gardella, Edificio in linea, Quartiere Mangiagalli, Milano, 1950-52. Pianta del piano tipo (Archivio Aler, Milano).

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falda inclinata – si articolano intorno a nove “grattacieli orizzontali” d’ispi-razione lecorbuseriana (alti 5 piani con lunghezza di 120-140 m e profondità tra gli 8 e gli 11 m) di cui sei disposti ortogonalmente a coppie con orienta-menti contrapposti nord-sud ed est-ovest a delimitare uno spazio centrale destinato ai servizi collettivi. Gli architetti impegnati nella progettazione dei nove grattacieli orizzontali sperimentano quattro diverse soluzioni ti-pologiche: a corpo doppio per gli edifici con esposizione est-ovest; a corpo semplice con servizi a nord per esposizioni nord-sud (con o senza ballatoio); ad alloggi duplex disimpegnati da ballatoi18 (figg. 3.14-3.15). In alcuni casi nello stesso edificio sono utilizzati diversi schemi distributivi per ottenere degli effetti di varietà nella composizione del prospetto e quindi rompere la lunghezza del blocco in linea: Alberto Rosselli innesta su una sequenza di alloggi orientati nord-sud e disimpegnati, a due a due, dai vani scala una serie di alloggi con ballatoio in modo tale da interrompere la scansione verticale dei vani scala con una successione di piani orizzontali. Gio Ponti e Antonio Fornaroli combinano tra loro due schemi distributivi sovrapponendo alla sequenza degli alloggi ad un unico piano un volume emergente dalla linea di gronda che contiene otto alloggi in duplex.

L’uso del ballatoio è un elemento ricorrente nell’architettura milane-se della casa sociale del secondo dopoguerra e assume diversi significati:

figura 3.17 Franco Albini, Ignazio Gardella, Edificio in linea, Quartiere Mangiagalli, Milano, 1950-52. Foto d’epoca (Archivio Aler, Milano).

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da un lato evoca le tipiche e popolari case a ringhiera lombarde e quindi rappresenta un elemento di continuità della tradizione storica locale, sep-pure riproposto in un linguaggio moderno, perfettamente in linea con i dettami dell’ina-Casa senza tuttavia cadere in riprese stilistiche; dall’altro costituisce un cruciale espediente sul piano distributivo e funzionale che consente economie di costi e un ricco campionario di soluzioni figurative e spaziali nel declinare le relazioni all’interno del singolo edificio tra il sistema distributivo e il corpus degli alloggi.

Franco Albini e Ignazio Gardella nell’edificio in linea al quartiere Man-giagalli (1950-52)19 reinterpretano ulteriormente lo schema distributivo a ballatoio con un vano scala esterno a disimpegnare due alloggi per pia-no tramite due passerelle a ponte inclinate di 45° rispetto al piano della facciata (figg. 3.16-3.17). I due alloggi sono tra loro speculari con blocco ingresso-cucina ruotato di 45° rispetto alle passerelle, soggiorno con dop-pio affaccio e loggia-balcone poligonale, camere da letto orientate sulla facciata opposta al vano scala. I due progettisti utilizzano poi tutta una serie di elementi architettonici – tetti a falda, cornici aggettanti, grondaie, finestre ad andamento verticale – che rimandano alla tradizione costrutti-

figura 3.18 Enrico Cerutti, Pietro Lingeri, Vito Latis, Giulio Minoletti, Mario Mo-rini, Mario Tevarotto (capi gruppo), Complesso residenziale Vialba i, Milano, 1957-60. Planimetria generale (da Anguissola, a cura di, I 14 anni del Piano ina-Casa, cit., p. 223).

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va lombarda, reinterpretandola in un accurato studio dei dettagli, e quindi derogando a quel rigore razionalista che sostanzia invece l’edificio di Lin-geri al qt8.

Questa versione “umanizzata” della casa popolare più attenta ai va-lori dell’ambiente e della storia si ritrova anche nei quartieri Vialba i (1957-60) e Villaggio Cesate (1951-54), caratterizzati dall’uso di mate-riali poveri (le coperture in coppi, i serramenti in legno, il laterizio a vista, gli intonaci colorati in pasta, le ringhiere in ferro ecc.) coniugati con l’impiego di alcuni tipici elementi architettonici (i tetti a falda, le finestre verticali, il portico con negozi ecc.) e dalla sperimentazione di diversi tipi edilizi. Nel quartiere Vialba i, Lingeri e Cerutti lavorano su un impianto insediativo e tipologico di edifici in linea di notevole lun-ghezza (altezza massima 3 piani) con conformazioni “in curva” ottenute accostando con opportuni slittamenti volumi rettilinei modulari; questi corpi con andamenti a zig-zag, forme a “ferro di cavallo”, ripiegamenti

figura 3.19 Franco Albini, Case a schiera (tipo A) nel complesso residenziale Cesate, Milano, 1951-54. Pianta del piano terra e del primo piano (Archivio Aler, Milano).

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su se stessi, strutturano gli spazi aperti creando delle vere e proprie uni-tà di vicinato (fig. 3.18). Il quartiere di Cesate rappresenta una vera e propria sperimentazione sul tema della casa a schiera (progetti di Franco Albini, Gianni Albricci, Ignazio Gardella e i bbpr)20 con alloggi in du-plex e orti privati. Albini, ad esempio, definisce le schiere attraverso la giustapposizione di alloggi ad L in duplex ad angoli smussati e ruotati di 45 gradi (figg. 3.19-3.20).

Nel 1954, mentre fervono i cantieri edili e si inaugura il secondo set-tennio del Piano ina-Casa, si assiste a una promozione dei principi abita-tivi della “casa sociale” attraverso le esposizioni milanesi della Triennale, come già accaduto con la casa popolare di Griffini e Bottoni nel 1933 e come verrà ripreso nel 1960. Emblematici sono gli allestimenti di allog-

figura 3.20 Franco Albini, Case a schiera (tipo A) nel complesso residenziale Cesate, Milano, 1951-54. Foto d’epoca della loggia d’ingresso (Archivio Aler, Milano).

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gi ina-Casa realizzati dagli Architetti Associati, Gregotti-Meneghetti-Stoppino, in occasione della x Triennale di Milano e della xii: il primo è un alloggio studiato per una famiglia operaia che vive in città, mentre il secondo è pensato per il salariato agricolo della Bassa Novarese, area ben conosciuta dai tre progettisti (figg. 3.21-3.22). Il primo, inoltre, è presen-tato in un contesto di allestimenti destinati al social housing: dall’allog-gio unrra Casas del gruppo guidato da Gnecchi Ruscone alle diverse soluzioni degli alloggi Borsalino del gruppo guidato da Ignazio Gardella, già autore delle case Borsalino ad Alessandria (1949-52). L’appartamen-to di Gregotti-Meneghetti-Stoppino è basato sulla pianta di un alloggio ina-Casa esistente, realizzato da Irenio Diotallevi. I progettisti, però, ri-fiutano il concetto di flessibilità totale, preferendo piuttosto arredi fatti di elementi spostabili e componibili, e quindi facilmente adattabili a dif-ferenti soluzioni planimetriche. Al centro del soggiorno si trova un mo-bile articolato in quattro moduli che può essere ricomposto a parete: su un analogo principio di trasformabilità si basano gli arredi per la camera da letto. Completamente diverso, invece, è il concetto applicato nell’al-loggio rurale dove gli arredi sono concepiti secondo un’ottica di stabili-tà e in parte ricavati nella parete muraria. La distribuzione planimetrica,

figura 3.21 Architetti Associati (Gregotti, Meneghetti, Stoppino), Alloggio per una famiglia operaia, x Triennale di Milano, 1954 (Archivio Fotografico ©La Triennale di Milano).

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questa volta progettata dagli architetti, si articola intorno a un grande soggiorno-cucina ed è volta a rispecchiare le abitudini contadine, elevan-done tuttavia la qualità di vita.

Con il passaggio dal i al ii settennio di attuazione del Piano ina-Casa, inoltre, si verifica una progressiva crescita delle dimensioni degli edifici (soprattutto in altezza con la diffusione del tipo a torre) e dell’estensione degli stessi quartieri (ad esempio a Milano i 32 ettari nel quartiere Comasi-na e i 123 ettari nel quartiere Gallaratese) che diventano “autosufficienti” e funzionalmente autonomi rispetto al centro urbano. Questo almeno nelle intenzioni progettuali, che tuttavia furono spesso disattese nei fatti dalla cronica mancanza di servizi (asili, scuole, negozi ecc.) e di collegamenti con il centro della città.

La casa sociale in Italia negli anni Settanta

Rispetto alla grande stagione degli anni tra le due guerre, in cui non esi-steva un’industria del mobile e dunque i progettisti erano direttamente costretti a disegnare soluzioni d’arredo specifiche per i loro edifici, in Italia

figura 3.22 Architetti Associati (Gregotti, Meneghetti, Stoppino), Alloggio per un salariato agricolo, x Triennale di Milano, 1954 (Archivio Fotografico ©La Triennale di Milano).

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negli anni Settanta esiste ormai in maniera compiuta e consolidata un’in-dustria del mobile. Sul mercato sono quindi presenti dei “sistemi d’arre-do”, modulari e standardizzati, applicabili alle diverse parti ed esigenze della casa di tutti gli italiani. Con la produzione a catalogo, esposta soprat-tutto nelle fiere e al Salone del mobile (nato nel 1961), la progettazione ad hoc dell’arredo non è più dunque un obbligo, ed avviene solo in alcune e più sofisticate occasioni. Per questo, l’analisi dello spazio domestico dei grandi progetti di edilizia sociale di questo periodo non è da compiersi sulle singole soluzioni d’arredo, ma sul taglio degli spazi e sulle questioni tipologiche determinate dagli architetti.

L’idea del quartiere autosufficiente evolve verso l’ideologia della “gran-de dimensione” che segna il passaggio dal quartiere inteso come composi-zione di diversi tipi edilizi (che fanno riferimento ad attrezzature, servizi, spazi collettivi e soprattutto residenziali) al quartiere condensato in un’u-nica grande architettura articolata a scala urbana e territoriale che riassu-me in sé anche la dimensione urbanistica. Negli anni Cinquanta-Sessanta la definizione dei tipi edilizi scaturiva da un accurato studio degli alloggi e delle loro diverse possibili combinazioni (secondo una progressione di scala di matrice razionalista) e poi dall’articolazione nello spazio degli edi-fici (riconducibili a tipologie codificate, quali la casa a schiera, la casa in linea, la casa a torre ecc.) discendeva la composizione urbanistica del quar-tiere. Negli anni Settanta la sequenza si ribalta: il punto di partenza è la morfologia dei luoghi (reale o reinterpretata) e la continuità dei percorsi è lo strumento fondante della composizione generale cui aggregare tutti gli elementi edilizi (anche standardizzati e ripetuti). In quest’ottica l’alloggio è inserito in un palinsesto architettonico le cui ragioni si trovano a scala territoriale.

I grandi quartieri che appartengono a questa nuova stagione e che la rappresentano in modo emblematico sono il quartiere Forte Quezzi di Daneri a Genova (1956-68), il quartiere Matteotti a Terni di Giancarlo De Carlo (1969-75) e soprattutto il complesso residenziale Monte Amia-ta di Carlo Aymonino e Aldo Rossi nel quartiere Gallaratese (1967-74) a Milano, il complesso residenziale iacp a Corviale di Mario Fiorentino a Roma (1973-81) e il quartiere residenziale iacp Zen di Vittorio Gregotti e Franco Purini a Palermo (1969-73)21.

Nel complesso Monte Amiata il luogo è ignorato in maniera delibe-rata dai due progettisti in quanto privo di elementi caratterizzanti (ter-reno piano con strade ed edifici di fattura modesta) e allora l’impianto

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generale è studiato a partire dall’uso della geometria elementare come elemento ordinatore della composizione con uno schema costruito sulle figure di due triangoli isosceli: cinque corpi di fabbrica di altezze e pro-fondità diverse sono correlati tra loro sia all’esterno che all’interno da elementi di collegamento orizzontali e verticali (rampe, passaggi aerei, ballatoi, scale, piazze ecc.) (fig. 3.23). Lo studio progettuale si sposta dall’analisi tipologica degli alloggi (obbligata del resto dalla rigida nor-mativa del programma gescal e dei regolamenti edilizi comunali) alla definizione del sistema dei percorsi intesi come una vera e propria in-telaiatura spaziale all’interno della quale si collocano i diversi elementi architettonici. Così si esprime Aldo Rossi parlando della genesi del suo edificio: «io ho pensato ad una strada porticata, a una serie di percorsi aerei, di ballatoi dove la gente potesse circolare come appunto in una strada. Le scale diventano così degli elementi architettonici che caratte-rizzano la strada, come stazioni della metropolitana o altri elementi. La scelta è quindi in questa tipologia costituita da un grande porticato e da strade sopraelevate»22.

Le dimensioni del quartiere Corviale realizzato su progetto di Fio-rentino alla periferia di Roma sono enormi (fig. 3.24): si tratta di un organismo edilizio che si estende per circa un km e che ambisce ad es-sere un pezzo di città lineare sulla scorta del Piano Obus per Algeri di

figura 3.23 Aldo Rossi, Edificio D, Complesso residenziale Monte Amiata nel quartie-re Gallaratese 2, Milano, 1967-74. Pianta del secondo e del terzo piano, prospetto ovest, pianta del piano terreno e prospetto est (da L. Monica, a cura di, Gallaratese Corviale Zen, fae Edizioni, Parma 2008).

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Le Corbusier e nello stesso tempo avendo a modello le grandi archi-tetture romane: «questo presentarsi dell’edificio così perentorio e solo nel paesaggio della periferia disaggregata ai margini della campagna [...] richiama alla memoria gli acquedotti e i grandi ruderi del paesag-gio romano»23. In questo senso il Corviale è «l’affermazione dell’idea di architettura fondata su un principio insediativo come fondamentale matrice di lettura del paesaggio in quanto geografia e storia [...] Nulla a che vedere con la tradizione dei grands ensembles francesi, oggetti fuori scala posati nel paesaggio in modo indifferente»24. Rispetto all’ipotesi iniziale di costruire sui 63 ettari a disposizione un quartiere “tradizio-nale” fatto di case in linea, case a torre, case a schiera, Fiorentino ha in maniera deliberata scelto di contrapporsi sia alla dispersione e alla frammentazione della periferia, sia alla separazione funzionalista tra re-sidenza e servizi, puntando sulla massima concentrazione possibile del costruito (solo il 30% dell’area è occupata) e sulla complessità dei per-corsi e delle relazioni.

La grande struttura lineare è composta da un corpo principale arti-colato in due edifici sovrapposti (due blocchi di appartamenti a canone sociale e un “piano libero” con ambienti da destinare ad attività terziarie con affitti sul libero mercato) e uno secondario con una strada di distri-buzione interna su cui sono agganciati i servizi elementari (tre scuo-

figura 3.24 Mario Fiorentino (coordinatore generale), Complesso residenziale iacp a Corviale, Roma, 1973-81. Sezioni trasversali (da Monica, a cura di, Gallaratese Corviale Zen, cit., p. 75).

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le materne-asili e al centro un teatro all’aperto e un ristorante); sono presenti cinque nodi-piazza d’ingresso, da cui si accede ai 55 vani scala con ascensori, che corrispondono a cinque unità condominiali e ai set-te “tranci” in cui si articola il “serpentone”. Sul lato opposto si estende un parterre verde con il centro-servizi, gli impianti sportivi e il centro parrocchiale e su cui si innesta un altro corpo lineare a destinazione residenziale con giacitura diagonale. Il sistema distributivo è estrema-mente complesso con lunghi percorsi che non consentono agli abitanti di identificare il proprio alloggio e con corti interne piuttosto strette e buie; oltre a questo il fatto che la maggior parte dei servizi non sono stati realizzati o terminati e che non è mai stato messo in campo quella gestione di comunità che Fiorentino riteneva essenziale per la buona riuscita dell’intervento, ha determinato un degrado sociale dell’intero quartiere.

Situazione simile negli esiti sul piano sociale, ma diversa nei pre-supposti insediativi e tipologici, è quella del quartiere Zen di Gregotti e Purini (figg. 3.25-3.26). Qui i progettisti milanesi, a differenza dei colleghi romani, ripropongono il tema dell’isolato a corte, della strada interna e dell’unità di vicinato: 18 “insulae” (tutte orientate con il lato

figura 3.25 Vittorio Gregotti, Franco Purini, Franco Amoroso, Salvatore Bisogni, Hi-romichi Matsui, Quartiere residenziale Zen, Palermo, 1969-73. Planivolumetrico (Fondo Gregotti Associati, ©casva, Comune di Milano).

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lungo in direzione nord-sud) sono disposte su 3 file parallele (a cui cor-rispondono tre diversi livelli del terreno) di 6 “insulae” ciascuna a co-stituire una griglia rigorosa e asimmetrica come fosse una vera e propria “città murata” su cui si innestano il centro del quartiere (mai realizzato) e altri servizi di tipo commerciale, produttivo e sportivo (anch’essi mai realizzati). Ogni “insula” è un edificio a corte, alto in media 4 piani (una scala distribuisce due alloggi secondo lo schema tradizionale) e ogni appartamento ha una loggia molto ampia; tutti gli spazi pubblici interni alla griglia destinati al giuoco dei bambini e alla sosta sono pe-donali.

L’eccessiva densità di popolazione (8.000 abitanti al Corviale con una densità abitativa di 70 mc/ab e 15.700 abitanti allo Zen con una densità di 73 mc/ab) pone comunque – a prescindere anche dalla mancata o scar-sa realizzazione e incapacità di gestione (a seconda dei casi) dei servizi a

figura 3.26 Vittorio Gregotti, Quartiere residenziale Zen, Palermo, 1969-73. Vista prospettica di una “insula” (Fondo Gregotti Associati, ©casva, Comune di Milano).

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supporto della residenza – la necessità di un ripensamento radicale nei confronti dell’ideologia della “grande dimensione” che ha affascinato sul piano intellettuale una generazione di progettisti, che a livello europeo subiva il fascino delle megastrutture teorizzate da Banham e dei proget-ti degli Archigram e dei metabolisti giapponesi, ma che ha perso di vista la scala umana e le esigenze fisiologiche e spirituali di chi abita la casa, il quartiere e la città.

L’eredità dell’Unité d’habitation nel terzo millennio

Le difficili condizioni abitative e sociali di complessi come il Corviale, il Robin Hood Gardens e il quartiere Zen – a cui si potrebbero aggiungere casi emblematici come il complesso Pruitt Igoe a St. Louis (Missouri) rea-lizzato su progetto di Minoru Yamasaki nel 1950-54 e demolito nel 1972 in seguito al profondo degrado, oppure quello delle Vele di Scampia a Na-poli (Franz Di Salvo, 1962-75), simbolo di Gomorra – hanno portato a un affievolimento delle ricerche macrostrutturali nel campo dell’edilizia sociale negli anni Ottanta e Novanta. Alla grande dimensione, la cultura architettonica ha infatti preferito per anni la ricerca di modelli insediativi a densità limitata, come il caso del New Urbanism americano dimostra in maniera emblematica.

Tuttavia, sul finire del secolo, un numero consistente di progettisti ha rivalutato le potenzialità dei modelli abitativi ad alta densità, anche a fron-te dell’inevitabile consumo di territorio derivato dallo sprawl urbano a bassa densità (figg. 3.27-3.29). In Olanda, ad esempio, macroedifici come il silodam (1995-2003) dello studio mvrdv hanno mostrato la possibili-tà di reinterpretare il principio dell’Unité d’habitation senza tuttavia ab-bandonare una caratterizzazione singolare della singola cellula abitativa. Ubicato nella parte occidentale del porto di Amsterdam, il silodam è stato infatti progettato con riferimento a un mercato immobiliare molto dinamico, che penalizza soluzioni standard e premia la varietà delle solu-zioni abitative e lavorative. Come da programma, l’edificio – un grande parallelepipedo di 10 piani – contiene alloggi (in affitto e in vendita), spazi pubblici, uffici e spazi commerciali. Gli appartamenti, 157 in tutto, si diffe-renziano per taglio, costo e layout interno, e sono raggruppati in “gruppi” di 8-12 in modo da razionalizzare l’intero processo costruttivo e logistico. Questo sistema, simile a un Tetris fuori scala, genera l’estrema varietà degli

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ambienti interni, che si differenziano per l’affaccio (sul giardino pensile, su un corridoio ecc.), per la disposizione (duplex, con doppia esposizione, affaccio singolo ecc.), per la presenza di spazi aperti (balconi, logge, patio) ecc. Queste differenze sono svelate in facciata anche dall’utilizzo di diversi

figura 3.27 mvrdv, silodam, Amsterdam, 1995-2003 (©mvrdv).

figura 3.28 mvrdv, silodam, Amsterdam, 1995-2003. Schema della distribuzione interna (©mvrdv).

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materiali dai toni accesi, che ricordano l’immagine di un porto commer-ciale fatto di cumuli di containers. Come a Marsiglia e in un certo senso anche a Poplar, la tipologia duplex rimanda al modello della tradizionale abitazione unifamiliare su più piani.

Modello ikea

Nel variegato panorama sociale e culturale degli ultimi decenni, in cui le tradizionali divisioni e definizioni di ceto e classe si sono fatte più incer-te e flessibili, appare difficile stabilire esattamente quali siano i modelli di spazio domestico riferiti specificamente alle classi meno agiate. Emer-ge però, ormai da tempo, l’influenza generalizzata di alcuni fenomeni determinanti il carattere della dimensione abitativa, dei quali l’ikea rap-presenta forse quello più influente su scala globale, con risvolti estetici,

figura 3.29 mvrdv, silodam, Amsterdam, 1995-2003. Vista interna (©mvrdv).

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economici, sociologici ecc. di notevole interesse. Il modello ikea parte infatti proprio dalla constatazione della frammentazione delle classi so-ciali, e quindi delle relative fasce di mercato, proponendo casistiche di arredi per il single, la giovane coppia, lo studente fuori sede, la seconda casa, lo studio professionale, la casa in affitto ecc.: situazioni in cui il disegno e la scelta dell’ambiente domestico – e nello specifico dell’arre-do – avviene in maniera più flessibile e con prospettive a medio o bre-ve termine. Con una rete sempre più folta di punti vendita, e-commerce e prezzi concorrenziali dati dall’elevata produzione, la multinazionale fondata in Svezia nel 1943 da Ingvar Kamprad ha dunque portato, da un lato, alla democratizzazione di una certa versione dell’arredo “moderno”; dall’altro, ha però anche provocato una certa omologazione (per alcuni, al ribasso) dell’interno domestico in base a una gamma ben riconoscibile di prodotti. Significativo è stato anche il tentativo da parte di ikea, dal 1997, di progettare non solo sistemi di arredo ma anche vere e proprie abitazioni (the BoKlok concept) che rispecchiano la filosofia dell’azienda e che ricordano anche la tradizione delle kit-houses americane del secolo scorso25.

Tra i molti casi studio che recentemente hanno riguardato il problema della definizione dell’interno domestico a basso costo, merita un accenno il sistema di arredi “Hartz iv Moebel” messo a punto qualche anno fa da Van Bo Le-Mentzel a Berlino (fig. 3.30). Il giovane designer tedesco, di origini asiatiche, ha infatti progettato una serie di mobili economici che non devono essere comprati ma autocostruiti in base alle indicazioni da lui messe online gratis. Sfruttando la logica, il linguaggio e le possibilità di internet – Va Bo ha pubblicato il suo primo libro26, dal titolo Build More Buy Less, recuperando le risorse finanziarie necessarie attraverso un crowdfunding online – questi arredi possono essere realizzati da tutti con pochi attrezzi, poco materiale e dunque pochi soldi. I modelli sono ispirati direttamente ad alcuni pezzi storici del Bauhaus: il tavolo costruito da Breuer per l’appartamento di Erwin Piscator; la poltrona di Josef Albers ecc.

In modi molto diversi – e su scala molto diversa – l’esempio di ikea e di “Hartz iv Moebel” si riferiscono a un concetto di casa fai-da-te a basso costo, scelta e strutturata a catalogo, con una soluzione che paradossalmente sembra ridar fiato alla tradizione ottocentesca americana dell’home delivery. In realtà si potrebbe interpretare il fenomeno anche secondo un’altra ottica, forse non meno paradossale: se la casa sociale come proposta architettonica non ha più una sua precisa fondazione tipologica, per l’entrata in crisi del concetto stes-

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so di “sociale” come sinonimo di basso costo e di mancanza di individualità, entra in crisi la sua specificità ma rimangono le ragioni della facilità di accesso e di economicità. Dunque il tema progettuale si sposta dall’hardware dell’ar-chitettura (anche un edificio recuperato dal patrimonio storico può diventare alloggio sociale) al software, cioè al sistema delle attrezzature che la rendono confortevole e abitabile, ossia al mondo dell’arredo, di cui ikea o Hartz iv si presentano – con gradi e scopi diversi – come una sorta di democratizzazione a portata delle tasche di tutti.

figura 3.30 Van Bo Le-Mentzel, Sistema di arredi “Hartz iv Moebel”, Berlino, 2012.

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cura di), Espressionismo e Nuova Oggettività. La nuova architettura europea degli anni Venti. Catalogo della mostra, Electa, Milano 1994, p. 152.

3 La casa sociale

1. Cfr. E. N. Rogers, Divagazioni attorno a una mostra di arredamento, in “Domus”, 211, luglio 1946.2. Alloggio per 3 persone, in “Domus”, 211, luglio 1946, p. 7.3. Alloggio per 4 persone, in “Domus”, 211, luglio 1946, p. 10.4. Cfr. F. Irace, V. Pasca, Vico Magistretti architetto e designer, Electa, Milano 1999.5. Cfr. A. Pansera, Storia del disegno industriale italiano, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 111.6. Cit. ivi, p. 112.7. Cfr. J. Sbriglio, Le Corbusier. L’unité d’habitation de Marseille et les autres unités d’habitation a Reze-les-Nantes, Berlin, Briey en Foret et Firminy, Fondation Le Cor-busier, Paris 2004; A. Janson, C. Krohn, Le Corbusier. Unité d’Habitation. Marseille, Axel Menges, Stuttgart 2007; M. Talamona, L’Italia di Le Corbusier. Catalogo della mostra, Electa, Milano 2012.8. Cfr. Kitchen Unit, in A. Rüegg, Le Corbusier: Furniture and Interiors 1905-1965, flc – Scheidegger & Spiess, Zurich 2012, p. 327. Cfr. anche la relativa bibliografia.9. Oltre a M. Risselada, P. Smithson, A. Smithson (eds.), Alison & Peter Smithson: A Critical Anthology, Ediciones Poligrafa, Barcelona 2011, e H. Webster, A. Smithson, P. Smithson (eds.), Modernism without Rhetoric: Essays on the Work of Alison and Peter Smithson, Academy Press, London 1997, cfr. il documentario The Smithsons on Housing di B. S. Johnson (1970).10. Cfr. L. Beretta Anguissola, I 14 anni del Piano ina-Casa, Staderini Editore, Roma 1963; M. Grandi, La politica del quartiere, in M. Grandi, A. Pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1980, pp. 251-78; F. Irace, Milano, in F. Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il secondo novecento, Electa, Milano 1997, pp. 58-81; S. Poretti, La costruzione, in Dal Co (a cura di), Storia dell’ar-chitettura italiana, cit., pp. 268-93; F. Oliva, L’urbanistica di Milano, Hoepli, Milano 2002, pp. 385-97; R. Capomolla, R. Vittoriani (a cura di), L’architettura ina Casa (1949-1963). Aspetti e problemi di conservazione e recupero, Gangemi, Roma 2003, pp. 8-19; R. Pugliese (a cura di), La casa popolare in Lombardia, Unicopli, Milano 2005.11. Piano incremento occupazione operaia, Case per lavoratori, 1. Suggerimenti, norme e schemi per l’elaborazione e presentazione dei progetti. Bandi dei concorsi, Roma 1949, p. 29.12. Beretta Anguissola, I 14 anni del Piano ina-Casa, cit., p. xvii.13. Ivi, p. 414.14. A. Libera, La tecnica funzionale e distributiva dell’alloggio, 1943-46 (pubblicato in Il ciclo dei cibi. Tecnica funzionale e distributiva dell’alloggio, in “Strutture”, 3-4, dicembre 1947-gennaio 1948).

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note 311

15. Unità residenziale al km 7 della Via Tiburtina a Roma (1950), in “Casabella-Con-tinuità”, 215, 1957.16. Progettisti: Luigi Figini, Gino Pollini, Gio Ponti, Piero Bottoni, Paolo Antonio Chessa, Antonio Fornaroli, Luigi Ghò, Vito Latis, Mario Morini, Gianluigi Reggio, Alberto Rosselli, Mario Tedeschi, Mario Tevarotto, Tito Varisco, Carlo Villa.17. Cfr. Milano: Quartiere in via Dessié, in “Urbanistica”, 7, 1951, pp. 17-8; L. Mariani, G. Praderio, Intervista con gli architetti Figini e Pollini, in “Edilizia popolare”, novem-bre-dicembre 1959, pp. 42-3; S. Protasoni, Il quartiere e la nuova scala della città. Figi-ni e Pollini in via Dessiè a Milano, in P. Di Biagi (a cura di), La Grande ricostruzione, Donzelli, Roma 2001, pp. 309-20.18. Cfr. Il Quartiere ina-Casa in via Dessiè a Milano, in “Domus”, 270, maggio 1952, pp. 9-15; C. Villa, Alloggi “duplex” in edificio ina-casa al quartiere Harar in Milano, in “Edilizia popolare”, 15, marzo-aprile 1957, pp. 28-9.19. Cfr. F. Bucci, Franco Albini, Electa, Milano 2009.20. Cfr. Quartiere residenziale in Comune di Cesate degli arch. F. Albini, G. Albricci, L. B. Belgiojoso, I. Gardella, E. Peressutti, E. N. Rogers, in “Casabella-Continuità”, 216, giugno 1957, pp. 16-35; Case a schiera a Cesate, in F. Buzzi Ceriani (a cura di), Ignazio Gardella. Progetti e architetture 1933-1990, Marsilio, Venezia 1992; A. Piva, V. Prina, Franco Albini 1905-1977, Electa, Milano 1998, pp. 15-20, 274-8; M. Giambruno (a cura di), Una “galleria” di architettura moderna: il Villaggio ina-Casa di Cesate. Costruzio-ne, vicende, prospettive di conservazione, Alinea, Firenze 2002.21. Cfr. L. Monica (a cura di), Gallaratese Corviale Zen. I confini della città moderna di-segni di progetto degli studi Aymonino, Fiorentino, Gregotti, Festival Architettura, Parma 2008.22. A. Rossi, conferenza al Symposion Das Pathos des Funktionalismus. Arkitektur und Design 1920-1930. Reaktionen der Gegenwart, Berlin, 12 settembre 1974, cit. in V. Savi, L’architettura di Aldo Rossi, FrancoAngeli, Milano 1976, pp. 70-6.23. M. Fiorentino, Considerazioni su Corviale, in Id., La casa. Progetti 1946-1981, Edi-zioni Kappa, Roma 1985, pp. 271-3.24. V. Gregotti, I progetti dal 1973 al 1981, in Fiorentino, La casa. Progetti 1946-1981, cit., pp. xix-xxi.25. Cfr. ad esempio J. Schnapp, L’abitare mobile americano, in F. Irace (a cura di), Casa per tutti. Abitare la città globale, Electa, Milano 2008, pp. 49-60.26. Cfr. Van Bo Le-Mentzel (hrsg.), Hartzivmoebel.com: Build More, Buy Less = Kons truieren statt konsumieren, Hatje Cantz, Ostfildern 2012.

4 La casa liberata

1. Pubblicato in A. Loos, Ins Leere gesprochen Trotzdem, Herold, Wien-München 1962 (trad. it. Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972, pp. 217-28).2. Cfr. S. von Moos, Le Corbusier and Loos, in M. Risselada (ed.), Raumplan versus Plan Libre: Adolf Loos and Le Corbusier, 1919-1930, Delft University Press, Delft 1988, pp. 17-26.

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Gli autori

fulvio irace è professore ordinario presso la Scuola di Design del Politecnico di Mila-no e visiting professor all’Accademia di architettura di Mendrisio. È stato coordinatore nazionale del progetto prin 2008 dal titolo Il design del patrimonio culturale fra storia, memoria e conoscenza. L’Immateriale, il Virtuale, l’Interattivo come “materia” di progetto nel tempo della crisi, coordinando gruppi di ricerca di Politecnico di Milano, Universi-tà di Genova, Università di Bologna, Università di Palermo. Dal 2005 al 2009 è stato membro del Comitato scientifico della Triennale di Milano e curatore del settore Archi-tettura e Territorio. Fa parte del comitato scientifico della Fondazione Vico Magistretti (Milano) ed è nel Board of Trustees della Fondazione Piano (Genova). Tra i fondatori dell’associazione nazionale aaa-Italia (Associazione archivi di architettura), è stato an-che tra i promotori della sezione Architettura e Design del casva (Centro alti studi e valorizzazione delle arti) del Comune di Milano, per cui ha curato numerosi cataloghi di archivi di architettura. Nel 2012 è stato invitato alla Biennale d’Architettura di Venezia dove ha curato l’installazione della mostra di disegni FaceCity. Dal 1986 è opinionista d’architettura per il supplemento domenicale del “Sole-24 Ore”. Tra i suoi lavori più re-centi: Dimenticare Vitruvio (2001 e 2008); Le città visibili: Renzo Piano (2006), Divina Proporzione (2007), Gio Ponti (2009), Carlo Mollino (2011), Emilio Ambasz. Invencio-nes (2011), Writing on the Walls (2012), Franco Albini (2013), Triennal 1951: Post-War Reconstruction and “Divine Proportion” (2013), Design and Cultural Heritage (2014).

graziella leyla ciagà è architetto, specializzata in Restauro dei monumenti e PhD in Conservazione dei beni architettonici e ambientali. Dal 2008 è ricercatore e professore aggregato di Storia dell’architettura presso il Dipartimento di Design del Politecnico di Milano. Ha insegnato Storia dell’architettura alla Facoltà di Inge-gneria dell’Università di Bergamo. Svolge attività di ricerca nell’ambito della storia del design e dell’architettura contemporanea, con particolare attenzione ai proget-ti inerenti alla valorizzazione del patrimonio culturale. Ha coordinato nel 2011/12 la ricerca Gli archivi di architettura, design e grafica in Lombardia. Censimento delle fonti, finanziata dal Politecnico di Milano, dalla Soprintendenza archivistica per la Lombardia e dal casva di Milano. Ha partecipato alla ricerca finanziata dal miur nel 2008, Il design del patrimonio culturale fra storia, memoria e conoscenza. L’Imma-teriale, il Virtuale, l’Interattivo come “materia” di progetto nel tempo della crisi. Tra i

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suoi lavori: Luciano Baldessari e Milano (2005), La case nella Triennale. Dal Parco al qt8 (2005), Alessandro Mendini (2011), Gli archivi di architettura design e grafica in Lombardia. Censimento delle fonti (2012), Archivio animato (2013).

maria teresa feraboli è architetto, specializzata in Restauro dei monumenti al Politecnico di Milano. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’architet-tura presso il Politecnico di Torino e, nel 2015, l’abilitazione nazionale al ruolo di professore associato. Afferisce alla Scuola del Design e di Ingegneria edile-Architet-tura del Politecnico di Milano, dove è professore a contratto. Nel 2005 ha ricevuto il premio per la ricerca storica di aaa-Italia (Associazione archivi di architettura). Da anni partecipa a progetti di ricerca universitaria e collabora alla descrizione degli archivi del progetto con il casva del Comune di Milano, la Soprintendenza archivi-stica della Lombardia e il Sistema archivistico nazionale (san). È autrice e curatrice di pubblicazioni sull’architettura e sul design contemporanei, tra cui: De Pas-D’Urbino-Lomazzi. Opere e progetti (2013) e Cose d’archivio. I modelli di design e architettura presso il casva (2015). È stata relatrice a numerosi congressi internazionali e appartie-ne al consiglio direttivo di Docomomo Italia.

maria manuela leoni ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’archi-tettura e dell’urbanistica al Politecnico di Torino, partecipando con la propria tesi a un progetto di ricerca internazionale sulla figura di Pier Luigi Nervi. Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Design del Politecnico di Milano, si è occupata del censimento delle architetture realizzate in Lombardia dal 1945 ad oggi (Architet-tura in Lombardia dal 1945 ad oggi. Selezione delle opere di rilevante interesse storico-artistico, in corso di pubblicazione) e partecipa alle attività didattiche delle scuole di Design, Ingegneria edile-Architettura e Design&Engineering. Ha collaborato alle attività del casva del Comune di Milano, per cui ha riordinato archivi di architetti, designer e grafici quali Roberto Sambonet, Andrea Disertori (L’archivio dell’archi-tetto Andrea Disertori presso il casva, 2014) e Fiorenzo Ramponi. Ha realizzato pro-getti e mostre per diverse istituzioni, tra cui la Fondazione Vico Magistretti di Mila-no (Architetture in posa. Le opere di Vico Magistretti a Milano, 2014). Ha pubblicato articoli, saggi e monografie dedicati all’architettura italiana del secondo Novecento e al rapporto tra storiografia architettonica e nuove tecnologie (Mappature digitali, 2013). Attualmente lavora al progetto di riordino e valorizzazione dell’archivio sto-rico dell’azienda Molteni&C.

carla mazzarelli è docente di Storia e teoria del museo all’Accademia di archi-tettura e di Storia dell’arte moderna all’Istituto di studi italiani dell’Università della Svizzera italiana. Ha studiato Storia dell’arte moderna e Museologia all’Università di Roma Tre e all’Università di Firenze; è stata borsista della Fondazione di studi di storia dell’arte “Roberto Longhi”, dell’Accademia di San Luca-British Academy e dell’Accademia dei Lincei presso il Courtauld Institute a Londra; ha conseguito il PhD in Storia e conservazione dell’oggetto d’arte e architettura presso l’Università di