Fuga a 4 zampe

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1 FUGA A QUATTRO ZAMPE un racconto per bambini scritto e illustrato da Debora Cilli

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Un parco minacciato da un'industria farmaceutica, un gruppo di bambini pronti a tutto pur di salvarlo ed un'arca di Noè di cavie da laboratorio in fuga per la libertà. Avventura, tenerezza e divertimento in una rivisitazione dell'eterna lotta tra Davide e Golia.

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FUGA A QUATTRO ZAMPE

un racconto per bambini

scritto e illustrato da

Debora Cilli

Copyright © Debora Cilli 2011 Licenza CC 2.5: siete liberi di stampare, fotocopiare, distribuire, rappresentare e utilizzare in generale quest’opera a patto che sia

sempre ben evidenziato il nome dell’autrice e la paternità del romanzo, che ciò non sia fatto a fini di lucro e che non si

modifichi il testo. www.creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it

Graphic pushup copertina: disegni originali di Debora Cilli

Potete trovare le altre opere dell'autrice a questi indirizzi: www.deboracilli.com e http://deboracilli.blogspot.com/

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Capitolo 1

In un fresco mattino di pesanti nubi grigie che incombevano con una minaccia di acquazzone, Agata balzò dal cancello principale, felice nei suoi stivaletti rossi.

“Mamma, vieni!”

Caddero due gocce, Paula alzò gli occhi alle matasse cinerine che si srotolavano alla mercé delle correnti, poi annunciò con un sorriso: “Dobbiamo volare come gabbiani tra le gocce, sei pronta?”

Ridendo forte, percorsero l'isolato, scartando le pozzanghere e scavalcando a grandi balzi le lingue di fango.

Trattenuto dagli occhielli del fiocco, un pacco regalo dondolava dalla mano destra di Agata.

Scattarono al semaforo verde della Rosenplatz e planarono sul prato Rosenmatte.

“E ora, mamma? Dov'è?”

Paula si accarezzò il mento dubbiosa, studiando la mappa sul cartellone metallico. Esaminò l'intersezione alle loro spalle, il muro di alberi che ostruiva la visuale frontale, il camino dell'inceneritore sulla destra e l'edificio incombente della Snoxtav sulla sinistra e si decise: “Di qua, credo...”

Attraversarono il prato umido e girarono in un sentiero scuro che si allungava tra due recinti paralleli.

“Guarda, mamma!” La maglia della rete metallica, che tratteneva a stento i tentacoli di una spessa siepe, si era interrotta per far spazio ad un cottage giallo. Paula ammirò i graffiti fatti con la bomboletta e riconobbe il posto che stavano cercando: “Eccoci, Agata: è il Grünwald.”

Pochi passi dopo la vista si aprì su un cortile in cui s'intrecciavano giochi di bambini e chiacchiere di adulti, riuniti

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in crocchi allegri intorno al fuoco. Il fumo della griglia si alzava a raggiungere il grigio del cielo con spirali che facevano venire l'acquolina in bocca e profumi invitanti ammiccavano anche dalla rustica casetta in legno che Paula e Agata avevano riconosciuto dall'esterno.

In cucina si rincorrevano le voci della mamma e della nonna di Maia, impegnate ad estrarre specialità dal forno e presentarle, in bell'ordine, sulla tavola apparecchiata in sala. Quella porzione di rifugio era, a dire il vero, l'unica ad avere un arredamento ed un'organizzazione dello spazio 'consueti', poiché la stravagante casetta ospitava, durante la settimana, atelier e laboratori dove giovani fantasiosi e aspiranti artisti esercitavano le loro abilità manuali.

Grembiuli da lavoro, su cui fiorivano macchie di pittura, stavano appesi in una chiazza indistinta di colori misti; un mazzo di pennelli spettinati sorgeva da portapenne di latta; rotoli di tele affollavano un angolo, gonfie e arruffate come vele pronte a salpare. Quel giorno speciale però, i vari utensili sarebbero rimasti negletti e pure le opere creative che occhieggiavano dalle pareti erano destinate solo ad offrire variopinto fondale per una festa di compleanno dei 6 anni. A dispetto di quella inconsueta immobilità, tuttavia, una sorta di vivace spiritello danzava in ogni

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stanza. Agitava i ninnoli che pendevano dai lampadari; scatenava un grappolo di riflessi attraverso i vetri delle finestre; attizzava le smorfie delle maschere che si affacciavano dal soffitto e aggiungeva vividi colpi di pennello ai dipinti che stipavano le pareti. In breve, i capolavori e quella fantastica atmosfera che li animava contribuivano gioiosamente al caleidoscopio di festoni, palloncini, cibi e bevande che avevano invaso il cottage.

Nell'attesa degli ultimi ospiti (e del pranzo...), Agata, Maia, i suoi cugini Ben e Micael, suo fratello Serdal e le amiche Emira, Mirushi e Giulia si dispersero per il parco.

Il bosco che circondava il cottage giallo sembrava una vera giungla. Gli alberi erano così alti da toccare il blu e avevano cupole di foglie screziate. Negli intrecci dei loro rami si distinguevano tutte le sfumature di chiari e di scuri, dai profondi tunnel di fogliame verde cupo alle tenere nuance smeraldine dei germogli. Le braccia nodose si allargavano a ventaglio ad abbracciare il vento.

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Agata immaginò di essere un'esploratrice sulle tracce del rifugio segreto delle fate dei boschi; sollevando gli occhi notò piattaforme di legno fissate in alto sotto gli ampi ombrelli verdi degli alberi. Li si poteva raggiungere con scale a pioli che pendevano fino a terra. Una volta su poi, si accedeva ad un intrico di liane/corde sorrette da cavi. Da qui i bambini si divertivano a lanciarsi in volo, saltando da una all'altra, dondolavano e gareggiavano a chi avrebbe raggiunto le foglie più alte. Il mondo girava tutt'intorno, scatenando nella pancia un solletico di paura e piacere che fermentava nelle bollicine frizzanti di grandi risate.

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L'allegria ed il vociare continuarono fin quando la mamma di Maia li chiamò per pranzo: una nuvola chiassosa e colorata sciamò sulla ghiaia del cortile per finire risucchiata dentro il cottage.

La compagnia, in tutte le sfumature di bianco, bruno e nero, era allegra: tintinnio di bicchieri, sbandierare di braccia che si passavano i vassoi, di mani che si allungavano per prendere fette di pizza, verdure crude, insalate miste, frutta secca... Una babele di lingue coronava quella gaia confusione, un po' come un arcobaleno che coroni un prato punteggiato di fiori multicolori.

Agata, sua madre Paula e anche Lorena, con sua figlia Giulia, parlavano italiano; Maia, i suoi genitori Pilar e Ramon e il fratello Serdal, spagnolo. I loro cugini mezzo portoghesi, Ben e Micael, ringraziarono con un timido “obrigado”, mentre Emma non poteva evitare di usare l'arabo “shukran”, in caso di bisogno.

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Mirushi, che sedeva tranquilla nel suo sari di seta, faceva ampi sorrisi con occhi di velluto. Quando gesti, sorrisi, assonanze e memorie di viaggio non bastavano più ad aiutare a decifrare i discorsi stranieri, passavano alla lingua comune che avevano adottato vivendo a Basilea: una mescolanza di dialetto locale e tedesco colto. La festa durò a lungo e raggiunse il suo culmine quando entrò in scena la torta.

Maia spense con un soffio 6 candele e un coro di auguri festeggiarono il suo anno in più. Dopo l'ultimo cucchiaino di panna montata, cioccolato, pan di spagna e granella di nocciole, i

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bambini fuggirono nel giardino incantato, lasciando gli adulti a discorsi più calmi e seri.

Alcuni secondi di silenzio chiusero la loro uscita di scena e questo momento sospeso attrasse come un magnete la curiosità di Agata, Maia e Serdal, che tornarono furtivamente sui loro passi e si accosciarono sotto la finestra aperta. Nel buio del silenzio, infatti, i monelli lo sanno, c'è abbastanza spazio per nascondere i segreti ed i ragazzi, gli adulti lo sanno, sono avidi di segreti.

Cruz, l'amica di Pilar, annuì in direzione della macchina fotografica con cui Paula aveva immortalato i capolavori e angoli caratteristici più che i ritratti festanti e la incalzò:

“Approfittane finché puoi: presto demoliranno tutto.”“Che intendi dire?”“Che cosa dicono?” chiese Maia.“Fai vedere anche a me!” si lamentò Agata, saltellando per coprire la distanza che la separava dalla finestra.“Shhhhht!” Serdal le rimbrottò entrambe.“Chiuderanno il parco?” provò di nuovo Maia.“Shhht!”“Sto dicendo: niente più cottage, niente alberi, fine del parco giochi o delle feste all'aria aperta, delle mostre d'arte come degli atelier per bambini... Vogliono radere tutto al suolo e annegarlo nel cemento. Torri di uffici in vetro e acciaio e laboratori farmaceutici prenderanno il posto del bosco...”“Farma-cosa?” insistette Maia.“Non vedo nienteeeeee!” Si lamentò più forte Agata.“Ssshhhh!” Sibilò Serdal, voltandosi a destra e sinistra.La replica di Paula, “ma non possono farlo, dobbiamo fare qualcosa per fermarli!” Si sovrappose al grido di Maia e Agata che dissero contemporaneamente: “Chiuderanno il parco?! No! Ma perché?” mentre Serdal, preoccupato che i genitori li scoprissero ad origliare, agitò le mani con lo scopo di far loro abbassare la voce e infine esclamò l'ennesimo: “Shhhhhht!”

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Capitolo 2

Maia ed il fratello iniziarono a litigare e Agata, stufa di essere ancora una volta ignorata, perse interesse nella discussione e si allontanò saltellando. In due balzi fu alla gabbia dei conigli e gettò un'occhiata per scovare dove si stessero nascondendo, poi decise di strappare qualche larga foglia d'erba per dargli da mangiare. Il vociare dei suoi amici però intralciò i suoi sforzi di allettare la fiducia degli animaletti, così lasciò a terra il fascio di erbe e tornò da loro per coinvolgerli in qualche gioco. Li chiamò a gran voce: “Hey, giochiamo a 'ce l'hai'!”, poi con un movimento svelto toccò il braccio di quello che le stava più vicino e scappò con un risolino. Serdal le corse dietro e Maia li seguì. Il fondo di ghiaia e sabbia scricchiolò sotto il loro galoppo, tanto da coprire il fervore delle conversazioni che si stavano svolgendo dentro il cottage.

Paula era ancora incredula: “Non ne sapevo niente... Voglio dire... La gente dovrebbe parlarne, no? Sembrano tutti addormentati...”

Cruz obiettò: “Be' alcuni attivisti dei 'Verdi' hanno dipinto striscioni di protesta e intonato un concerto per altoparlanti lungo le cancellate della Snoxtav, ma sai com'è quando butti una moneta in un pozzo: non ti torna indietro neanche un'eco di tintinnio...”

Paula non voleva mollare l'osso: “Certo, ma una piccola folla che manifesta fuori non significa niente, avrebbero dovuto coinvolgere i media e diffondere la brutta notizia!”

La sua amica spagnola si strinse nelle spalle: “Per quanto ne so, qualcuno ha intervistato gli abitanti del quartiere che sono cresciuti in questo parco giochi e c'è stata una certa mobilitazione del vicinato, ma è stato tutto inutile...”

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Qui c'è un uomo, impeccabile nel suo gessato antracite.

Indossa un cappello che getta un'ombra lunga sul suo volto.

Non puoi vedergli gli occhi, ma non importa, ché tanto è cieco e non può apprezzare il senso del tatto e neppure quello dell'olfatto.

La smorfia di un sorriso gli deforma la faccia.

Portalo in cima ad una collina e srotola un paesaggio favoloso di verdi declivi, fiumi argentei, alberi fruscianti; aggiungi il cinguettio degli uccelli, un sole caldo ed un cielo profondo come un oceano, non muoverà un muscolo, non proverà alcuna tenerezza.

La sua anima non si scioglie alla vista della bellezza, il battito del suo cuore è accordato sulla frequenza del tintinnio dei soldi.

“Taglia, avvelena, uccidi,

sradica, disbosca, perfora

Farò un sacco di soldi,

e di fargli pagare il conto non vedo l'ora”

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“Uao guardate quelle forme!” Agata infilò il faccino tra gli intagli della barriera colorata per sbirciare cosa ci fosse dall'altra parte.

“Cosa c'è là? Sembra un parco! Ci possiamo andare a giocare?”

“No, è privato,” rispose Serdal, aspro.

“Ma non c'è nessuno!”

“Naturale...” Poi con un sussurro aggiunse: “È di quelli che vogliono sbarazzarsi del nostro Grünwald...”

“E chi sono?”

“Non lo so, Agata.”

“E perché?”

“Perché cosa? Non lo so, perché non lo so!”

“Noooo: perché vogliono prendersi il nostro parco?” Incalzò Agata.

“Per costruire nuovi uffici e un parco per la pausa...”

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“Ah, uno per i bambini!”

“No.”

“Per chi allora?”

“Per quelli che ci lavorano dentro.”

“E perché?”

“Tu ed i tuoi 'Perché'! Non posso sapere tutto!”

“La nostra mamma fuma una sigaretta fuori quando ha la pausa-caffé al lavoro...” Interruppe Maia.

“Fumare è male!” disse Agata. “E poi affumichi gli scoiattoli fuori dalle loro tane! Poverini...”

“Guardate!” Tra gli intagli del recinto riconobbero l'ombra castana del roditore e la sua soffice coda vaporosa, correre su per un albero.

“Perché i grandi usano i parchi per affumicare le sigarette?” Ad Agata non pareva giusto.

“Si dice 'fumare' non 'affumicare'! Su, andiamo, tua mamma sta chiamando... Ma che fai?”

Agata si stava avvicinando a passo leggero a quello che sembrava un mucchio di stracci.

Un vagabondo stava acquattato vicino alla recinzione con la schiena scomodamente appoggiata al metallo lavorato e lei lo aveva scambiato per un tronco contorto: la sua lunga barba pareva muschio spelacchiato, il suo cappello sudicio un nido

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d'uccelli. Era perso a recitare una sua filastrocca e non prestò attenzione alla presenza dei bambini. Per quanto la sua voce fosse spezzata, risuonava fiera:

“Le compagnie multinazionali con la mano sinistra danno

e con la destra arraffano,

di raccoglierete abbastanza prove da inchiodarli non datevi affanno.

'Doniamo medicine all'Africa!'

affermano, poi scopri che erano scadute

e la fronte dei bambini bolle di febbre malarica.

'Raccogliamo fondi per aiuti umanitari!' li sento vantare,

poi il CEO e i suoi amici scappano con i soldi

e vanno ai Caraibi a gozzovigliare.

Rubano, mentono, nascondono e dissimulano:

non sorprende se i poveracci ignari sulla nave affondano!”

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Capitolo 3

Era trascorsa una manciata di giorni ed il tema Grünwald sembrava archiviato: i bambini erano tornati, come loro abitudine, a bere dalla tazza della vita a grandi sorsate. Non è che, superficiali, avessero licenziato il tema perché 'vecchio' e quindi non più interessante, ma erano chiamati a rispondere all'urgente richiamo della loro natura bambina: divorare a morsi voraci ogni novità per insaziabile bisogno d'imparare e sperimentare.

Uno che non avrebbe dimenticato in fretta era invece Serdal. Ci sarebbe riuscito, per la verità, se non fosse stato per un frammento di discorso che aveva colto la notte stessa della festa di compleanno, passando vicino alla camera da letto dei genitori sulla strada verso la cucina e un bicchiere d'acqua.

Sebbene fosse mezzo addormentato e lo tormentasse una gola secca che gli annebbiava i pensieri, poteva giurare di aver sentito sua madre dire: “C'è una sola cosa che si può fare per fermare quelle multinazionali: buttarci una bomba. Una bomba ed è fatta!”

Era proprio sua madre, la sua tenera mamma a parlare così? Sua madre che aveva paura dei ragni e lo rimproverava ogni qual volta si lasciasse scappare “scema!” a Maia? Non ci poteva credere! E come se non bastasse, suo padre stava ridendo e le dava corda: “E come la faresti la tua bomba, Pilar, dimmi un po'...”

“Facile tesoro: Coca-Cola e Mentos e.... BOOOOM!”

Fece un passo indietro, senza fiato. Che cosa avevano intenzione di fare i suoi genitori?

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Un'altra che non avrebbe facilmente dimenticato era Paula. Aveva cercato di scacciare la notizia immergendosi nelle occupazioni quotidiane. Immaginò di essere in una gelatina ovattata: un posto distante, lontano da pensieri spiacevoli. Ma mentre galleggiava senza peso, un branco di tartarughe marine, balene e lamantini le si riunì intorno, in fuga dalla minaccia di tonnellate di pece nera, che si riversavano nell'oceano da una falla nella petroliera.

Sapevano tutti bene che quando “l'oro nero” arriva alla pelle, si appiccica; quando raggiunge i polmoni, brucia e che se inghiottita, quella morchia danneggia gli organi interni.

Una scoraggiante consapevolezza fece scoppiare la sua fantasticheria con un dato di fatto: “Sono sempre i più forti ed i più grandi [che in genere si distinguono per non avere cervello] a stritolare nella loro presa i più deboli”.

Ed è così che va il mondo.

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Questo pensiero la perseguitava, brusio di fondo, come il fremito delle ali di uno stormo terrorizzato, finché non straripò finendo per invadere ogni singolo angolo della sua coscienza.

Per dare sfogo a quel fastidioso ronzio iniziò a diffondere la notizia presso amici e conoscenti. All'inizio Paula aveva un tono casuale e vagamente distaccato, come se non stesse parlando di un probabile, triste futuro ma di un passato lontano. Al contrario di come si sarebbe aspettata, però, le persone non reagirono con apatia. Condividevano anzi il suo stesso sentimento di furiosa impotenza, ma lei scoprì presto che lo sconforto iniziale poteva trasformarsi spontaneamente nella miccia che accende un impegno appropriato.

Così dovette cambiare la sua convinzione precedente in: “I più deboli sono impotenti solo finché rimangono nell'ignoranza. Quando acquistano consapevolezza, gli sono garantite le risorse per operare.”

Ora sapeva che tutti insieme sarebbero stati in grado di contrastare quello che era sembrato l'inevitabile decorso degli eventi: “Possiamo fare qualcosa! Ma cosa?”

Anche Serdal stava meditando grandi azioni e imprese coraggiose, ma più nel senso di impedire che la sua mamma, aspirante terrorista, annegasse la sua crisi di mezz'età nella pozza del crimine.

“Ma... Come?” Mentre valutava uno scenario catastrofico dopo l'altro per testare la sua capacità di reazione, si comportava in modo scostante con i suoi amici, specialmente con Agata che non gli dava pace.

“Hey guarda qui! Guarda Serdaaaaal! Guarda cosa sono capace di fare!” Gridava mentre dava sfoggio delle sue abilità acrobatiche nel parco giochi: ora attraversava il prato facendo la ruota, ora si lasciava dondolare da una torre metallica usata come trapezio, le caviglie saldamente ancorate alle sbarre.

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Sua sorella Maia gli tirava la maglietta: “L'ha imparato alla scuola del circo, forte, eh?”

“Serda-aaaal! Guarda, senza mani!” Agata stava ancora dondolando, agitando le braccia nell'aria.

“Oh piantala tu e il tuo circ...” Ma s'interruppe perché un'idea improvvisa aveva acceso una lampadina nella sua mente. Si colpì la fronte con il palmo della mano: “Ma certo: il circo!”

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Si destò dalla sua pensierosa indifferenza e cominciò a saltellare tutt'intorno come tarantolato, in preda ad un'incontrollabile eccitazione: “Andiamo ragazze, abbiamo un sacco di lavoro da fare!”

Maia e Agata si scambiarono uno sguardo interrogativo.

Sebbene ora avesse un piano, Serdal non abbassò la guardia sul fronte dei genitori. Non aveva nessuna intenzione di lasciar perdere: se suo padre era troppo cieco o affaccendato per rendersi conto della gravità della situazione, lui doveva farsi carico del suo ruolo maschile di protezione e condurre la barca della famiglia, ora priva di bussola, su rotte sicure.

Spiare la madre divenne la sua idea fissa e cominciò a notare ossessivamente ogni incrinatura nel suo comportamento usuale. Controllarle la borsa, correre al telefono ogni volta che suonava, frugare nei suoi cassetti alla ricerca di un indizio del crimine incombente, comportava anche conseguenze irritanti, come quando trovò la nonna dall'altra parte della cornetta e fu obbligato ad assecondare le sue chiacchiere su calli e improbabili intrecci di telenovelas.

Travolto dall'ansia, prese una decisione definitiva: “Ha detto Coca-Cola e Mentos, giusto?” Il suo piano prese forma con improvvisa chiarezza: “Basterà controllare le borse della spesa, scovare le materie prime per la molotov e distruggerle!”

La sua predisposizione per il compito non si accompagnava ad un altrettanto fondata capacità organizzativa: dopo aver riempito l'intercapedine tra letto e pavimento di bottiglie di bibita e pacchetti di mentine, non sapeva più dove nascondere il bottino. Inoltre sua mamma si era fatta sospettosa di quello sconcertante aumento dei consumi domestici. Finché una volta, dando il bacio della buonanotte ai suoi bambini, sorprese una bottiglia che sbucava da sotto il letto, sollevò la coperta e scoprì il deposito.

“Che state facendo qui?”

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Lui si sentì sciocco e provò a sottrarle tutto alla vista con gesti maldestri: “Niente, mamma, niente...” Poi crollò e mugolò tra le lacrime: “Non voglio che tu faccia una bomba!”

“Di cosa stai parlando, Serdal?”

Imbarazzato, scoppiò in singhiozzi e infine confessò: “Tu hai detto che l'unica cosa da fare è buttare una bomba... Dovevo fermarti!”

“Io? Una bomba? Oh tesoro... Ma dove? Quando l'ho detto?”

“Sulla Snoxtav e il Grünwald, mamma...”

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Lei si ricordò di quel frammento di conversazione con suo marito e senti una spina di vergogna e rammarico ferirle il cuore: “Ma, amore mio, era tanto per parlare, non per davvero. Non farei mai niente del genere, dovresti conoscermi!”

“E allora perché l'hai detto?”

“Be', a volte gli adulti dicono fanfaronate, un po' come i bambini...”

Sempre tirando su con il naso lui chiese: “Ma perché?” Con un pizzico di rabbia.

“Perché a volte ci sentiamo impotenti, come piccole formiche di fronte ad una gigantesca montagna... Ci sentiamo frustrati di fronte all'ingiustizia e all'abuso, così ci sfoghiamo dicendo cose stupide. Non cambia la realtà ma ci illude di sentirci meglio, dopo.”

“Che vuol dire 'impotente'?”

“Non essere capace di trasformare qualcosa di cattivo in qualcosa di buono.”

Il battito del cuore di Serdal accelerò d'eccitata anticipazione e pensò, con un sorriso segreto: “Non ti preoccupare, mamma, c'è un modo per cambiare le cose!”

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Capitolo 4

Paula condivideva la sua convinzione. La prima cosa da fare, pensava, sarebbe stata mettere insieme tutti gli amici che avrebbero potuto aiutarla a realizzare le sue intenzioni. Negli ultimi giorni un'idea audace si era fatta largo con forza nei suoi pensieri. Cruz aveva menzionato gente del quartiere che era cresciuta nel parco Grünwald, cittadini ora pensionati il cui cuore doveva certo riempirsi di malinconia all'idea, poiché la distruzione del loro vecchio campo giochi avrebbe significato gettare nel fuoco le immagini delle loro memorie d'infanzia. Avrebbe potuto trovare alleati tra loro. Poi c'erano artisti e artigiani che lavoravano nel cottage giallo e i bambini che ora ancora lo frequentavano per giocare e imparare e fare arte (Paula inserì anche loro nella lista sotto la categoria 'aiutanti'). Avrebbe potuto anche coinvolgere gli abitanti del quartiere, meglio ancora se famiglie con bambini che sarebbero state direttamente colpite dalla perdita di un altro spazio verde.

Analizzando la faccenda da una prospettiva più ampia, pensò di chiamare in causa tutte le istituzioni che fossero più sensibili al problema. Prima di tutto gli enti per la preservazione dei beni culturali, dopotutto il parchetto alla Rosenmatte, fondato nel 1957, era stato il primo di tutta la Svizzera ad essere dedicato alla cura ed al tempo libero dei bambini.

In secondo luogo, quello per la protezione dell'ambiente e poi forse anche qualche attivista dei Verdi.

Quando Paula mise giù la penna, i suoi polmoni si gonfiarono d'orgoglio, si sentiva come il generale Custer nell'atto di ispezionare le diverse sezioni del suo esercito: comandante in capo (non voleva vantarsi, ma...), fanteria, artiglieria, il seguito dei carri buoi con i rifornimenti (la battaglia mette fame...), e l'asso nella manica: la cavalleria! Dopo pochi minuti il suo entusiasmo dovette ripiegare le ali e tornare con i piedi per terra: dovette, infatti, ricordarsi di essere una pacifista

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convinta e di essere sempre stata dalla parte degli indiani, se è per quello...

Nel frattempo Agata, entrata nella sua stanza, l'aveva raggiunta, senza far rumore, alla scrivania e ora si dondolava sui talloni e giocherellava nervosamente con le dita.

“Mamma?....”

“Sì, tesorino?”

“Mi faresti una torta?”

“Haha Agata, lo sai che non mi piace che mangi i dolci se non in occasioni speciali: ti fa male ai denti e anche alla pancia!”

La piccola si mordicchiò il labbro: “Ma non è per me...”“Per chi, allora?”

“Per un'altalena nuova...”

Paula si voltò a guardare, curiosa, la bambina che arrossì e continuò: “Le mamme dei miei amici fanno tutte una torta, poi le vendiamo al mercato delle pulci per comprare un'altalena nuova per il giardino...”

“Be' mi sembra un'idea magnifica, tesoro!”Decisero che l'avrebbero preparata insieme il giorno dopo perché “Ora dobbiamo andare a fare qualche intervista!” annunciò Paula sollevando Agata in aria.

Le due cacciatrici di informazioni attraversarono con la bicicletta la città in lungo e in largo, fermandosi qua e là per portare a termine il loro lavoro giornalistico. Paula ascoltò i ricordi di anziani cittadini che avevano goduto la loro infanzia al Grünwald, “Ero molto felice là,” disse uno “e mi dispiace sapere che i miei nipoti non avranno la possibilità di condividere la mia bella esperienza.” L'uomo che gli sedeva accanto, sulla panca del parco, mostrò le sue mani: “Io ho fatto il fabbro per tutta la vita e ho imparato il mio mestiere proprio in quei laboratori, da bambino. Che peccato...”

Raccolse anche le opinioni di frequentatori del parco, mentre Agata correva dietro ad una palla insieme a nuovi amici.

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“È davvero triste,” disse una mamma, cullando una carrozzina, “lo sa? Non facciamo altro che traslocare, a caccia di un po' di verde. Abitavamo di fronte ad un bel prato di alberi; dalla finestra potevo vedere i miei bambini che si divertivano nel parco, poi un giorno sono arrivate le ruspe a scavare un parcheggio sotterraneo e quel magnifico verde si è trasformato in una montagna di fango, radici spezzate rivolte al cielo e macerie. Siamo usciti fuori e abbiamo notato tanti piccoli animali che, in fuga dalla distruzione, stavano cercando rifugio sulla facciata del nostro edificio. L'intera superficie era ricoperta di grilli, lucertole, gechi, scoiattoli arrampicatori, topolini che trotterellavano, ranocchi che saltavano e uccellini che svolazzavano tutt'intorno. Un mese dopo ho deciso che non sopportavo più il sottile tappeto di prato giallo spelacchiato che copriva i garages e abbiamo cambiato casa.”

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Avevano accettato che Paula riprendesse le interviste e alcuni cittadini più anziani le avevano persino fornito vecchie foto dell'area. Così lei scoprì che quella che ora appariva come un'isola perduta, schiacciata tra giganti di cemento, nel passato era una macchia colorata in un oceano di verde, l'ombelico di un bosco.

“Se continuiamo a pavimentare la natura,” pensò Paula, “non rimarrà un solo centimetro libero per poter raccontare ai nostri nipoti com'è successo che l'avidità ha trasformato il verde in grigio.”

Raccolse fotografie, alcune ore di filmino e riempì un quaderno di annotazioni. Fece molte telefonate e trascorse qualche notte a rielaborare il materiale in una sequenza avvincente. Quando infine chiamò il suo amico, Andrea, che viveva con la famiglia a Manila, lui le disse che nelle Filippine erano le 3 del mattino!

“Oh mi dispiace, ho dimenticato il fuso orario...!”

“Non ti preoccupare: la piccola Laura ci tiene svegli questa notte... Allora qual è il problema?”

Lei gli disse del progetto e di avergli mandato un piano per montare il girato e tutto il materiale grezzo: “Ho bisogno che metti i pezzi insieme in maniera efficace: vogliamo un bel documentario forte. Mi aiuterai?”

Due giorni dopo la sua cassetta della posta elettronica pulsava l'annuncio di una nuova e-mail in arrivo: il mittente era Andrea e c'era un allegato. L'oggetto, 'Ecco, mia intrepida amica', strappò a Paula un sorriso.

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Capitolo 5

Il piano di Serdal era semplice, così semplice che quando le acrobazie di Agata gli avevano dato l'idea, era sorpreso che non gli fosse venuta prima. Certo, sapeva bene che l'unico modo per salvare il loro parco era riscattarlo dalla Snoxtav, quello che lo faceva scervellare era come trovare i soldi per la transazione. Nel suo salvadanaio aveva un solo franco svizzero (ne avrebbe avuti due, se non ne avesse speso uno per le figurine...) e per quanto ne sapeva in quello di Maia languiva un lecca-lecca dimenticato dal carnevale precedente... Ma poi si manifestò un'epifania: avrebbe messo insieme uno spettacolo circense con gli amici (ok, forse la definizione era un po' altisonante, ma non si può certo sperare di suscitare un po' di interesse ad intitolare un'esibizione 'faccio del mio meglio-show', giusto?) e avrebbe raccolto i fondi necessari vendendo i biglietti d'entrata, torte e bibite nella pausa.

Nella sua lista di 'cose da fare' segnò: chiamare la mamma di Robin, che lavora nel teatro e magari riesce a recuperare

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qualche panca, i costumi e gli attrezzi per i giochi di destrezza; scrivere gli inviti e i manifesti promozionali; distribuirli/incollarli in giro; reclutare mamme che cuociano le torte e... Ah, sì, ehm...: iniziare gli allenamenti con gli amici.

Agata arrivò alla Petersplatz ormai senza respiro, reggendo in equilibrio sul palmo delle mani la torta al cioccolato (la sua preferita e non avrebbe neppure potuto darle un morsettino, che ingiustizia!).

“Portala dentro!” le urlò Serdal, impegnato con un'improvvisata bancarella dei biglietti, sventolando il pollice in direzione del carro-magazzino-dispensa. Lei si arrampicò sui due gradini, entrò nel vagone scuro zeppo di giochi e appoggiò la torta sul tavolo, in mezzo alle altre goloserie.

La gente affollava lo spazio aperto occupato da panche e sedie mentre, dall'altro lato di una tenda scarlatta, i giovani artisti, impegnati nelle prove generali, cercavano di non farsi troppo distrarre dal vociare. Agata si fermò, affascinata. Una paura bruciante le ferì il cuore, mentre sbirciava la folla: presto si

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sarebbe esibita di fronte a tutte quelle persone e la rivelazione le diede un brivido d'ansia. Riconobbe i suoi compagni dell'asilo, amici e conoscenti. C'era Joel, issato sulle spalle del padre e Samira con il cane che dava strappi inquieti al guinzaglio. Agata vide sua mamma che si faceva largo con un'andatura oscillante. Il suo sguardo miope brancolava nello spiazzo in cerca di lei. La bambina provò un impeto di affetto e, nonostante l'urlo di Serdal “In scenaaaaa!”, corse verso Paula a braccia aperte.“Ah, sei qui!” disse la mamma. “Che fortuna che ti ho trovata, mamma!” Gli occhi di Agata sorridevano. Si strinsero forte, poi Paula le stampò un bacio sulle guance e mormorò: “Divertiti là sopra!”Quando Serdal apparve sul palco con un buffo cilindro e una bacchetta nella mano destra (che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere lo scettro del mattatore), un mormorio di tenerezza e approvazione si levò dalla platea.Dall'angolo scuro in cui aveva preso posto, Agata si perse la maggior parte dell'introduzione, sentì “Signore e Signori!”, “abilità straordinaria”, “vi incanteranno”, ma i suoi pensieri correvano veloci nell'eccitazione dell'attesa. Era così persa che quando egli annunciò “che lo spettacolo inizi!” e arrotolò il sipario di velluto rosso, lei guardò il pubblico come un daino ipnotizzato dagli abbaglianti, provando uno shock da esposizione. Quella sospensione non durò molto tuttavia, perché presto si mescolò agli altri folletti colorati che saltavano, danzavano, volteggiavano e volavano sul palco improvvisato. Il pubblico emise grida di sorpresa e ammirazione, godendosi le più pure ed arcaiche dimostrazioni di abilità. Acrobati si attorcigliavano nell'aria intorno a nastri di seta, poi seguì la piramide umana e dal pubblico sorse un “OOOOHHH”

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d'incredulità, mentre applaudiva con entusiasmo abili giocolieri. Ogni esibizione si fuse alla successiva con il ritmo mozzafiato di uno spettacolo di fuochi artificiali. Un solletico di gioia invase tutti quanti, quel tipo di felicità che sorge dal bottone della pancia. Là dove stanno tutti gli umori ancestrali, un posto nascosto che gli adulti curano teneramente perché ricettacolo delle loro memorie d'infanzia e di quella propensione ingenua alla meraviglia.Lo spettacolo non fu perfetto ma tutti lo trovarono favoloso. Ogni volta che capitò un errore, gli interpreti ebbero la grazia di trasformare il punto morto in una buona occasione per far ridere il pubblico con complicità o applaudire con solidarietà. L'artista che aveva mancato una presa non cercava di affannarsi ad afferrare la palla sfuggita, pieno di ansia e vergogna. Si fermava, invece, aspettava l'ottava successiva e si univa di nuovo al concerto degli altri. E loro non lo umiliarono con sguardi di rimprovero. Al contrario, lo incoraggiavano con occhiate casuali, mentre facevano modifiche impercettibili al loro programma per facilitare il suo ritorno nella sequenza di acrobazie.Quella notte, Agata era travolta dall'ansia di articolare in un modo appropriato la matassa di sentimenti travolgenti che aveva provato sul palco. Frustrata dal suo vocabolario limitato, lasciò che le emozioni scorressero nelle sue membra. Così cominciò a saltare, danzare e correre per tutta la sua camera, come una vittima ipercinetica del morso di tarantola. Quando crollò sul letto con un ultimo rantolo di risata, Paula si piegò sulla sua fronte per darle il bacio della buonanotte e disse: “Ricorda, Agata, questo pomeriggio abbiamo imparato che non è importante raggiungere la perfezione in questo mondo, è abbastanza se facciamo del nostro meglio e, più di tutto, se lo facciamo insieme. Siamo piccole stelle di infinite costellazioni, ciascun puntino ha da soddisfare la sua orbita in armonia con quella dei vicini, così che l'intero sistema possa funzionare bene.”

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Capitolo 6

Paula aveva sentito dire che nel cosiddetto 'giorno delle porte aperte' alla Snoxtav si osservava un rigido protocollo. La prima metà della giornata era dedicata ai nuovi membri dello staff per “l'indottrinamento...” pensò con un sorriso sardonico, ricordando qualche occasione simile di cui aveva fatto esperienza nel passato. “Per dare il benvenuto,” avrebbe detto qualcun altro, “e introdurre i nuovi impiegati nel mondo di una potenza multinazionale!”

La seconda parte era per il pubblico ed i media e quella era l'opportunità che Paula avrebbe preso al volo. Riesaminò il suo piano minuziosamente, giocherellando con il DVD e accennò un sorriso obliquo: pianificare un attacco di quella natura aveva un sapore d'intrepida imboscata. Un brivido di eccitazione le fece prudere le dita. Una cosa era certa: doveva restare concentrata, fredda e pronta per qualsiasi cosa! [“Ok, non esagerare adesso...” Si disse con un sorriso indulgente.]

Quando arrivò il momento, fece scivolare il porta-CD nella borsa, prese una giacca al volo e corse fuori. Si sentiva come un super-eroe: l'aristocratico cipiglio di chi risponde al richiamo del dovere e lo sguardo drammaticamente consapevole di chi si fa carico delle responsabilità del mondo. Era pronta per grandi imprese, ma quello che ignorava era che anche Agata avrebbe avuto un ruolo nell'azione.

Quando la bambina raggiunse i cancelli della società insieme a Maia e Serdal, che teneva stretto sotto l'ascella un maialino di ceramica, i visitatori stavano affollando, gomito a gomito, il marciapiede esterno.

Agata fissò i mazzi di palloncini che dondolavano nell'aria come cascate d'uva che sfidano la forza di gravità e, strattonando il braccio di Maia, urlò: “Hey, guarda là! Pensi che possiamo averne uno?” Serdal la zittì con uno sguardo da Medusa: “Noi non condivideremo NIENTE con il nemico, è chiaro? Non gli

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permetteremo di blandirci con lusinghe a buon mercato! Mi avete capito?”“Mmmm... No.” Disse Agata, onestamente. “Non so cos'è quel blandi-coso... Posso avere il mio palloncino adesso? Lo chiedi tu al signore?” E indicò con l'indice una guardia della sicurezza con le braccia incrociate, che minacciavano di scoppiare fuori dall'uniforme. Lui le afferrò la mano, perché Agata aveva cominciato a tradurre l'idea in azione e bisbigliò a lei e alla sorella: “Ascoltate, siamo qui con una missione da compiere, va bene?” Le due fecero sì con la testa, “Ok, allora andiamo e portiamola a termine senza distrazioni, va bene?” Quando Maia chiese se fossero autorizzate a fare una pausa sgranocchiando qualcosa dai canapè, lui rispose con uno scoraggiante grugnito. Si fecero strada tra la folla finché non raggiunsero l'entrata, la sala era congestionata da ospiti che si abbuffavano di stuzzichini, ammiccanti dai lunghi tavoli. Tutti bevevano, gesticolavano, parlavano. I tre piccoli amici, in fila indiana, si fermarono davanti ad un tabellone che mostrava grappoli di nomi, la carica ricoperta da ciascuno ed il corrispondente piano e ufficio. Serdal li scorse freneticamente: stava cercando la cima della piramide, non poteva fare affari con un semplice fattorino, giusto? Quando finalmente lo trovò, lanciò un grido: “Andréas Luzzi, eccoci, è lui!” Maia e Agata lo osservarono con il rispetto dovuto ad un compagno a cui sono stati svelati i segreti della lettura.C'era solo un piccolo problema: l'ufficio a cui erano diretti si trovava all'ottavo piano... Ora che ci pensava, Serdal realizzò di non aver fatto i conti con un secondo problema: non era abbastanza alto da raggiungere il pulsante corrispondente dell'ascensore e, come se non bastasse, aveva notato una guardia della sicurezza che presidiava il lift. Afferrò le bambine per i polsi e le trascinò dietro una grossa pianta in vaso.

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“Ragazzi, abbiamo un problema...”

“Non siamo RAGAZZI!” Obiettò Maia.

Lui la congedò con un sopracciglio inarcato e continuò: “Agata, sai contare fino a 10?”

“So contare fino a 35!” Rispose lei, orgogliosa, “guarda: uno-due-tre-quattro-sette-undici-diciannove-ventuno-trentacinque!”

Serdal si colpì la fronte con il pugno poi, con un tono disperato, si rivolse alla sorella: “E tu?”

Lei si fece petulante, occhi bassi e maniere ostinate.

“Oh andiamo!”

Lei gli lanciò un'occhiata birichina e rispose: “Te lo dico se mi lasci giocare con le tue figurine...”

Lui sospirò profondamente: “Ufff, va bene!”

“Uno-due-tre-quattro-cinque... dieci!”“Grande!”

“Anche io voglio fare qualcosa!” Si lamentò Agata.

Serdal aveva un piano e glielo bisbigliò nell'orecchio, la bambina annuì con un sorriso, si liberò dall'ombra delle foglie e iniziò a simulare un pianto sconsolato:

“Voglio la mammaaaaaaa! Portami dalla mia mammaaaaaaaa!” Singhiozzò.

Serdal, fingendo imbarazzo e urgenza, fece goffi tentativi di calmarla ma lei si era già lanciata in direzione della sentinella. Serdal si rivolse con grandi occhi all'omone e disse umilmente: “Dobbiamo raggiungere la mamma, sai... Il suo ufficio è al piano di sopra...” Quello gli liberò il passaggio e i tre scomparvero nell'ascensore. Qui Serdal si caricò Maia sulle le spalle e la sollecitò a premere il bottone: “Uno e zero: dieci.”

Agata gli strattonò la maglietta: “Come sono andata?”

Serdal sollevò il pollice in segno di approvazione.

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Paula s'incanalò nell'entrata affollata e rubò un boccone dal vassoio delle tartine al salmone. Un guizzo di senso di colpa le attraversò il viso. Controllò l'orologio e lanciò un'ultima occhiata al programma: il tempismo era fondamentale in un piano come il suo... Stirò con le mani le pieghe della giacca e mise da parte ogni paura con una scrollata della sua capigliatura selvaggia, poi avvistò una donna in tailleur che avrebbe potuto assomigliarle. Paula prese un bicchiere d'acqua dal buffet e con un'andatura oscillante si fece strada in direzione del suo obiettivo.

“Accidenti! Mi dispiace...” Commentò con finta innocenza, dopo aver urtato il suo bersaglio. Mentre si scusava, annaspava con le mani nell'apparente tentativo di asciugare l'acqua schizzata sul vestito della sua vittima. In tutto quello scompiglio le riuscì di sottrarre con destrezza, alla malcapitata, il badge della Snoxtav. Si liberò dall'incontro forzato e allungò il passo verso l'area dei media, ostentando la sua nuova spilla identificativa e lanciando sorrisi sicuri tutt'intorno.

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Il suo amico Urs le aveva raccontato di un cinema dentro l'edificio, dove erano soliti proiettare documentari auto-celebrativi. Quei video pubblicitari consistevano in una rassegna degli alti ranghi dell'azienda, la lista dei successi nel commercio globale e un rosario di azioni encomiabili nel campo dell'impegno umanitario, della protezione ambientale, della beneficenza... Il tutto presentato con, rispettivamente: dissimulato orgoglio, falsa discrezione ed ipocrita riluttanza.

“È arrivato il momento di mostrare cosa nasconda sotto il tappeto il grande benefattore...” Ammiccò Paula.

Si erano fatte le sei di sera e gli organizzatori stavano cercando di deviare il groviglio di persone via dal buffet. Come cani-pastore riuscirono ad ammassare gli ospiti nell'auditorium.

Paula trovò la stanza dei tecnici video e si fermò per un attimo fuori, travolta dall'ansia e dai dubbi: “E che faccio adesso?” Mise a punto un ardito piano dell'ultimo minuto e corse via a raccattare un paio di oggetti che l'avrebbero aiutata nella recita. Quando tornò, portava un vassoio con tazze di caffè bollente e bussò discretamente alla porta dell'ufficio audio-video. Al grido “Avanti!” s'infilò dentro con un ampio sorriso.

“Ciao a tutti, pensavo che qualcuno avesse bisogno di un po' di carburante qua su!”

I due uomini ruotarono sulle loro sedie per guardarla in faccia. La esaminarono con sospetto per qualche secondo, poi si arresero alle coppe fumanti.

Paula lanciò occhiate frenetiche tutt'intorno e quando vide sul tavolo il DVD etichettato “giorno del benvenuto”, soffocò un sospiro di sollievo. Decise di riprovare il vecchio trucco che aveva avuto successo con la loro collega e finse di inciampare. Il vassoio galleggiò nell'aria per un istante, poi atterrò sulle magliette dei ragazzi.

Lei recitò la parte di un'imbarazzata pasticciona e si profuse in mille scuse. I due saltarono in piedi lanciando pesanti imprecazioni e abbandonando il campo in direzione del bagno. Paula li accompagnò per un tratto con un teatrale: “Mi

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dispiaceeeeeee!” poi tornò di corsa nella stanza, tirò fuori dalla borsa il suo DVD, lo liberò dalla custodia con uno colpo secco e lo sostituì al disco originale, che giaceva sul tavolo. Fatto.

Si precipitò fuori, il cuore che martellava selvaggio.

Il CEO Andréas Luzzi sentì bussare alla porta. Si accigliò, ma non smise di digitare al computer. Al secondo tonfo sordo, chiuse il portatile con un gesto irritato e spalancò la porta.

“È questo il modo di...” Con sua costernazione, non gli stava di fronte nessuno. “Che diav... ?”

Serdal si schiarì la gola, obbligando l'uomo ad abbassare gli occhi finché mise finalmente a fuoco tre bambini che lo fissavano con occhi sbarrati.

Li guardò torvamente per un lungo momento, ma poiché non era riuscito a spaventarli, disse finalmente: “Avete perso la mamma?”

Le parole si stapparono fuori dalla gola di Serdal come un getto di schiuma effervescente esplosa da una bottiglia di spumante.

“Vogliamo riprenderci il nostro parco, qui ci sono i soldi,” e allungò il maialino di ceramica.

Maia annuì: “Sicuro, il Grünwald, sai no...”

“Sbattilo, Serdal,” intervenne Agata, “così può sentire che è pieno!”

Il signor Luzzi restava impalato, sbalordito, la mano destra ancora appoggiata alla maniglia.

Agata diede di gomito al fianco di Serdal e mormorò: “Te l'avevo detto che i soldi non sono abbastanza...”

Maia obiettò: “Come può dirlo? Non c'era scritto il prezzo sul cancello del parco!”

Il CEO scoppiò a ridere, poi iniziò a farsi beffe di loro con un tono insolente: “Voi credete davvero di poter venire qui a riscattare quel posto merdoso?”

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Agata tirò la maglia dell'amico: “Hai sentito? Ha detto 'merdoso'...”

Serdal le scacciò la mano e disse, freddamente: “Lei è scortese, signore, noi siamo qui per affari.”

Le sue parole furono soffocate dalla risata isterica dell'uomo. Il ragazzino sentì la rabbia montargli e stava per dire qualcosa di sgradevole quando squillò un telefono. Mentre ancora si asciugava gli occhi da tanto sbellicarsi, il signor Luzzi tirò fuori il telefono cellulare dalla tasca interna della giacca e rispose. La sua faccia si fece grigia: “COOOOSA?”

Quando i due ingegneri video tornarono dal bagno con le magliette macchiate l'ufficio era vuoto e in disordine, ma loro avevano da recuperare il tempo perduto, e si concentrarono sulla proiezione. Infilarono il DVD nel lettore e lo aprirono con un programma di riproduzione.

Attraverso una soprafinestra, che si allungava ad altezza sguardo lungo la parete laterale, potevano gettare un'occhiata obliqua alla platea affollata del cinema: sibili casuali che invitavano al silenzio correvano sulle teste del pubblico, per zittire le isole di mormorii. I due ragazzi si lasciarono cadere sulle loro poltrone, pronti a rilassarsi mentre gli spettatori erano impegnati con la proiezione.

Rappresentanti dei media gremivano il perimetro della sala nel buio, sistemando telecamere e cavalletti.

Quella foresta di teste, microfoni e macchine fotografiche era quasi tutto quello che Paula riusciva a vedere, sbirciando dagli oblò di due pesanti porte girevoli.

Dopo un paio di fotogrammi, però, tutti, dai papaveri in prima fila all'ultimo cameraman incuneato nelle retrovie, capirono che sullo schermo non c'era il genere di documentario che si supponeva dovessero guardare. Paula sogghignò, non vista.

Poi tutto accadde molto in fretta: i membri dello staff direttivo balzarono in piedi e cominciarono a sventagliare le braccia in direzione della piccionaia.

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Gli ingegneri, appollaiati lassù, tradussero simultaneamente quegli inconfondibili gesti: “Presto! Taglia!” Ma non avevano fatto i conti con l'avidità dei giornalisti che, avendo fiutato una notizia appetitosa, si buttarono sulla squadra in doppiopetto e cominciarono a lanciare una raffica di domande sotto la luce dei flash.

Gli ospiti, gente ordinaria che era venuta a saccheggiare il buffet e non nutriva in realtà il minimo interesse in qualsivoglia impresa multinazionale, si mosse verso l'uscita in gruppi storditi e caotici. Uno squillo di voci esagitate che latravano ordini ed un calpestio concitato condivano la scena. Paula notò un giovane lasciato indietro dalla sua squadra. Immaginò un aspirante giornalista, dotato ma non abbastanza aggressivo, più incline a fantasticare che ad assalire una fonte. Provò compassione e gli si avvicinò.

“Qualcosa che non va?” Gli chiese a voce bassa.

Lui si strinse nelle spalle. “Ho perso la prima grande occasione della mia carriera...”

Con una rapida smorfia accattivante continuò: “Ma coglierò al volo la prossima, lo giuro, dovessi...”

Paula gli restituì il sorriso pacatamente e fece un gesto che smorzasse le sue spacconate: “Forse potrebbe essere questa...” Disse, mentre gli allungava una copia del DVD.

Il ragazzo la guardò con aria interrogativa.

“Io però lo metterei via...” aggiunse lei, prima di scomparire.

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Capitolo 7

Si arrivò ad un punto in cui tutti sembravano correre in quell'edificio labirintico, come icone lampeggianti di un video-game, dandosi la caccia l'un l'altro, Paula, i bambini e altra gente che per vari motivi stava percorrendo corridoi, precipitandosi giù dalle scale, attraversando stanze, che germogliavano una dall'altra come infinite matriosche. I nostri eroi (inconsapevoli gli uni degli altri) stavano cercando di trovare una via d'uscita, mentre le guardie della sicurezza marciavano a grandi falcate per catturare una donna che aveva rubato un badge (che qualcun altro aveva poi trovato sotto un tavolo da buffet, peraltro) e sembrava essere responsabile di scambio di DVD. Paula poteva sentire il rombo dei pesanti passi dietro la sua schiena e per un attimo si immaginò intrappolata in quell'incubo

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per sempre, “Lorena mi aveva detto che ci vuole una bicicletta se non una macchina per coprire l'intera area”, pensò disperata.

Serdal, Maia e Agata si erano nascosti nella nicchia stretta di un corridoio, spaventati dai passi pesanti in martellante avvicinamento. Agata respirava rumorosamente, alla mercé di paura e spossatezza quando riconobbe il profilo della madre che correva via. Urlò: “Hey!” con un impeto di sollievo e un secondo dopo Serdal era uscito dal buco per tirar Paula dentro al loro rifugio.

Si abbracciarono e Agata scoppiò a piangere: “Avevo così paura, mamma! Che fortuna che sei qui anche tu!”

Paula cercò di calmarla, decidendo di rimandare le spiegazioni ad un momento più propizio, per la verità credeva che sua figlia fosse sana e salva a giocare nel giardino dei vicini...

Una truppa di guardie passò vicino al loro nascondiglio senza notarli. Dopo che se ne furono andati, i quattro saltarono fuori dall'ombra e si misero a correre nella direzione opposta. Andarono però a sbattere contro un ritardatario che gli si era piantato davanti per impedirgli il passaggio.

Agata sollevò le sopracciglia in signorile costernazione e commentò: “Questo non è davvero gentile, signore!”

“Ti senti grande e forte a minacciare i bambini, eh?” Andò a darle man forte Serdal.

“Facile maltrattare qualcuno più debole, eh?” rincarò la dose Maia.

“Prenditela con mia mamma se hai il coraggio!” fanfaronò Agata.

Paula agitò la mano in un gesto di diniego: “Noooo, non è il caso...” Poi la sua bambina si mise addosso un'espressione alla 'non cercare di provocarmi' e gli diede un pizzicotto.

“Maledizione! Mi ha pizzicato il culo!”

“Bada a come parli!” Lo redarguì Paula.

“Ma...”

“La guerre c'est la guerre, monsieur!”

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Mentre correvano via Agata chiese alla madre cosa intendesse con quella frase [era francese, tra l'atro?] Paula abbassò gli occhi per accarezzare la sua bambina con uno sguardo e replicò: “Significa che per togliersi da brutte situazioni, qualche volta bisogna essere coraggiosi. Ma pizzicare il sedere alla gente non è comunque carino...”

“Ma lui faceva il prepotente, mamma!”

“Vero, ma rispondere con prepotenza non è il comportamento giusto.”

Agata arrossì, vergognosa: “Va bene, mamma...”

I ragazzini guidavano la corsa precipitosa lungo il corridoio, poi deviarono a sinistra e sbucarono in un'ampia sala dove riconobbero, seppure nel buio, i profili di tavoli metallici e dei miagolii.

“Cos'è?” Chiese Maia. A Paula la gola si strinse di pietà. Quando accese la luce, attrezzi chirurgici brillarono dai vassoi asettici su cui erano stati ordinati. Cominciarono ad aggirarsi con curiosità sospettosa, “non toccate niente, bambini, per favore.” Paula li avvertì.

A dispetto delle terrificanti immagini che l'ambiente scatenava nella loro fantasia, quello che attirò la loro attenzione era la realtà di centinaia di occhi che li fissavano da dietro le sbarre. I bambini si mossero verso le strette gabbie come ipnotizzati. Per prima cosa notarono solo lunghi musi sconsolati, che fiutavano l'aria con occhi assenti, mucchi di penne, orecchie pelose, nasi baffuti e una zampa o una coda. Poi ad una seconda occhiata ciascuna tessera trovò la sua collocazione nel quadro completo e riconobbero ratti, cavie, piccioni, topolini, gatti, cani e primati. Un misto di dolore e compassione gli ferì il cuore e tutti condivisero l'impulso irresistibile di abbracciare stretti quei poveri amici animali ingiustamente incarcerati.

“Perché sono qui, mamma?” Interrogò Agata. Paula tirò un lungo sospiro e guardò con tristezza davanti a sé cercando le parole giuste, poi disse: “Perché ci sono posti dove fanno dei test, esperimenti sugli animali.”

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“Come qui?”

“Sì, cara. Usano queste povere creature per testare certi prodotti prima di metterli sul mercato.”

“Come quali per esempio?”

“Come medicine, spray per capelli, cosmetici, prodotti chimici...”

Serdal intervenne, timido: “Non capisco... Cosa fanno di preciso?”

Paula gli accarezzò la guancia: “Versano certe sostanze sulla pelle di questi animali, o gliele iniettano dentro per vedere come reagiscono.”

“Fa male?” chiese Maia.

“A volte sì, molto. Altri esperimenti riguardano la psicologia umana, così usano queste cavie per dedurre paradigmi generali sul funzionamento del nostro cervello.”

“Funziona molto male se questo è quello che facciamo a dei poveri animali!” Obiettò Serdal con gli occhi lucidi.

“Hai ragione, è davvero una cosa crudele.” Concordò Paula.

Agata la guardò con occhi imploranti: “Dobbiamo fare qualcosa, mamma.”

Paula sorrise: “Non pensavo che avremmo dovuto organizzare un'evasione, sono impreparata...” Ma il suo cuore faceva già capriole all'idea di far qualcosa che avrebbe posto fine alle torture di quelle creature.

Serdal stava armeggiando con il pannello comandi e all'improvviso gli sportelli delle gabbie si aprirono di scatto.

Paula ebbe un'idea improvvisa, si mise a tastare nella borsa alla ricerca del telefonino e digitò il numero della sua amica, che lavorava per l'Ente Protezione Animali: “Ciao Lara, ascolta: A b b i a m o b i s o g n o d e l t u o a i u t o . . . ”E allora successe qualcosa di straordinario.

I bambini si avvicinarono agli animali e li aiutarono con cautela ad uscire dalle gabbie. Forse era il calore delle loro mani, la

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purezza dei loro sguardi, il loro odore (un misto di cannella, fiori e biscotto, ancora inconsapevole della malizia crudele dei grandi), ma le bestiole gli si affidarono senza un briciolo di sospetto o paura.

Paula chiuse la telefonata e annunciò: “Ok gente, andiamocene da qui!”

“Correre come gabbiani tra le gocce, mamma?”

“Ancora meglio, Agata: questa volta dobbiamo essere aquile nella tempesta.”

Carichi del leggero peso dei nuovi amici, si presero per mano, condividendo un coraggioso sorriso complice, pronti a gettarsi nella fuga.

Si precipitarono giù per le scale con scimmie sollevate sulle spalle, conigli che spuntavano dagli zainetti, topolini arrotolati nelle tasche. Agata portava due gattini miagolanti, Serdal reggeva una rana tremante sul palmo delle mani, Maia incoraggiava alcuni cani che le correvano a lato e Paula indicava la strada al volo dei piccioni, sperando che non le lasciassero cadere la loro gratitudine sulla testa... Tutti gli altri che non erano stati capaci di prendere in braccio, li seguivano saltellando, zampettando, ciondolando.

Sbucarono infine all'aria aperta di una fresca notte. Le voci degli inseguitori risuonavano minacciose, ma abbastanza lontane da dar loro la forza di domare la paura. In ogni caso ora erano chiamati a garantire un rifugio sicuro ai loro indifesi amici e questa grande responsabilità li faceva sentire più coraggiosi di quanto non fossero.

Questo è il trucco segreto dell'Amore. Quando brucia, inietta vigore ai muscoli, puro ossigeno ai polmoni, pensieri positivi alla mente e salda speranza al cuore. Scalda il tutto e ci rende invincibili.

La parata surreale di bambini, cuccioli domestici e animali selvatici che marciavano insieme alla luce della luna era diretta ad un furgone parcheggiato dall'altra parte della strada.

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Lara saltò giù dal posto di guida e corse ad aprire il portellone laterale. Dopo che l'ultima coda fu chiusa dentro l'improvvisata arca di Noé, se la filarono con una sgommata. Al primo semaforo incrociarono le macchine della polizia che acceleravano nella direzione opposta, verso la torre di acciaio e vetro della Snoxtav, in un viluppo di sirene, luci dardeggianti e stridio di freni.

Viaggiarono placidamente attraverso il tramonto urbano. L'abitacolo pieno dei versi di animali.

Dopo che ebbero affidato i loro amici a 2 e 4 zampe alla cura dei veterinari, Paula ed i bambini rimasero in piedi, in complice silenzio, sulla strada silenziosa, contemplando ciascuno i suoi pensieri.

Serdal, le braccia incrociate, lo ruppe menando calci al marciapiede con le pesanti scarpe da ginnastica: “Abbiamo fatto tutto per niente!”

“Perché dici così?” Chiese Paula, compatendo la sua frustrazione.

“Abbiamo liberato gli animali,” ammiccò Agata compiaciuta “e Lara ha detto che possiamo andare a trovarli quando vogliamo, finché rimangono sotto contr...”

“Non parlo di quello!”

“Serdal? Sono stanca, voglio la mamma...” Sbadigliò Maia.

“Che lagna che sei!” Sputò fuori il fratello, poi si voltò verso Paula e le allungò il maialino di ceramica che si era portato dietro per tutto il pomeriggio.

“Qui,” spiegò “ci sono i soldi che abbiamo raccolto per riscattare il nostro Grünwald, ma quell'uomo non ha neanche voluto controllare, ha riso!”

I suoi occhi erano umidi ora.

Paula si accovacciò per parlare ai bambini da un'altezza più equa.

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“È questo che volevate fare, eh? Ora capisco...” Disse con un sorriso tenero.

“Siete stati molto coraggiosi, ragazzi, vi siete messi a combattere per qualcosa in cui credete.”

Serdal fece spallucce, come se non gli importasse.

Paula continuò: “Questo è quel che significa 'crescere', Serdal.”

“So cosa vuol dire!” Interruppe Agata: “Quando sono grande posso usare la bicicletta di mia mamma, vero mamma?”

“Sì, tesoro,” Paula le scompigliò i capelli “ma c'è una parte del crescere che è ancora più importante che avere gambe più lunghe, ha a che fare con quello che avete qui,” disse puntando l'indice al cuore. “Oggi è stata una giornata importante e credo che dovreste essere orgogliosi di voi stessi: non molti adulti avrebbero osato rischiare così tanto per seguire i loro sogni.”

“Ma non siamo riusciti a salvare il parco, però...” borbottò Serdal.

“Non lo sappiamo ancora...” Ammiccò Paula. “È ora di andare a casa, bambini.” I piccoli, stanchi morti, cominciarono a lagnarsi.

“Va bene, sapete che facciamo? Camminiamo al passo di... Fatemi pensare... Una rana!” Paula saltellò via gracidando e Maia, Agata e Serdal la seguirono a balzelloni con grandi risate.

“Adesso scelgo io!” propose Maia: “Al passo di scimmia!” Tutti cominciarono a dondolare le braccia a destra e sinistra.

“Tocca a me!” disse Agata: “Ora di gabbiano!”

Si girarono tutti con uno sguardo interrogativo poi scoppiarono a ridere forte.

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Fine alternativa

Al notiziario della sera il giornalista annunciò il reportage-bomba di uno sconosciuto inviato che elencava nel dettaglio le malefatte di cui si era macchiata la Snoxtav.

Passaggi di un video che mandò in onda (quello che una strana signora gli aveva fatto scivolare in mano nel cinema della multinazionale) raggiunse due milioni di visite in 3 giorni, su u-tube.

Venne fuori che internet pescò persino il Mercato della Borsa nella sua rete a strascico: quella settimana le azioni dell'impresa toccarono il minimo storico.

Durante la conferenza stampa, un CEO a labbra strette, Andréas Luzzi, garantì che non ci sarebbero più stati esperimenti sugli animali in nessuna filiale, branca, laboratorio o qualsivoglia reparto dell'industria che rappresentava.

Quando qualcuno dalla folla di giornalisti internazionali chiese aggiornamenti sul parco Grünwald, lui staccò un assegno in bianco per finanziarne la protezione.

Con il denaro che avevano guadagnato con lo spettacolo circense, Maia, Serdal e Agata pagarono le cure mediche degli animali maltrattati.

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Epilogo

Un tale lieto fine avrebbe lasciato la traccia di un sorriso sul mio faccino addormentato, quando, da bambina, sognavo al barlume del mio abat-jour. Gli 'happy end' hanno però avuto il difetto di viziarmi: da adulta continuo ad essere la stessa visionaria senza speranza, che nutre grandi aspettative.

Perciò ora comincio a credere che alla zuppa romantica della finzione, sarebbe forse da aggiungere un briciolo di sale della vita. I 'buoni' non vincono sempre ed i 'cattivi' non scompaiono sempre perché sconfitti o redenti.

Mentre la finzione bisogna che abbia senso, la realtà raramente mostra la compiacenza di averlo.

Questo non significa però che dobbiamo smettere di combattere. Al contrario. Serve solo ad ammonirci a non perderci d'animo se non riusciamo a mandare la palla in rete al primo tiro.

Le cause giuste meritano lotte che durano tutta una vita, a volte.

Quando iniziamo ad inseguire un buon sogno, smettiamo di essere un viso bianco nella folla, diventiamo un “Io”. Diversi “Io” insieme possono cambiare il mondo. Per il meglio.

È per questo che gli eroi di questa piccola storia, che ci hanno provato, meritano di emanciparsi dagli ovali anonimi che li avevano caratterizzati finora e guadagnarsi visetti personali, distintivi.

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