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Francesco

Francesco Foresta1965 -2015

I love Sicilia.Numero speciale 10 gennaio 2016

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“Non c'è niente al mondo che valga un secondo vissuto accan-to a te, che valga un gesto tuo o un tuo movimento, perché niente al mondo mi ha mai dato tanto da emozionarmi come quando siamo noi, NIENT'ALTRO CHE NOI".Già, "Nient'altro che noi", la nostra canzone. Era il 1999,

l'anno in cui ci siamo conosciuti, e subito riconosciuti. Tra mille. Ci siamo scelti, voluti, innamorati e sposati. Perché tra risate, sogni e visioni simili sulla vita, abbiamo iniziato a condividere ogni attimo della nostra esistenza. Diventando tutto l'uno per l'altra. Confi-denti, punto di riferimento reciproco, amanti. Avevamo tutto, e la cosa bella è che lo sape-vamo. Non chiedevamo altro, solo noi, nel nostro tempo e nel nostro spazio. Che poteva essere casa o l'altro lato del mondo. Senza bisogno di altri, perché la nostra forza era che ci bastavamo da soli. Una famiglia, solo noi.Eppure, evidentemente, non è così che deve andare. Probabilmente per la vita terrena che ci è concessa, eravamo troppo... Troppo legati, troppo appassionati, troppo sorridenti, trop-po teneri, troppo affezionati e affettuosi, troppo espansivi, troppo completi, troppo felici. E non c'è spazio in questo mondo per tanta grandezza. Per la grandezza con la quale hai affrontato tutte le sfide della tua vita, umane e professionali. Sempre in prima linea, sem-pre leader, ma sempre con un occhio dedicato a chi amavi. Persino nella malattia. Persino solo qualche giorno prima di lasciare questo mondo. Quando mi hai accarezzato la testa chiedendomi di dormire un pò perché mi vedevi troppo stanca... Solo tu potevi, Vitamia. E sai cosa ho scoperto oggi? Che l'album di cui fa parte questa nostra canzone si chiama "Grazie Mille". Pazzesco... Grazie, come il Grazie che qui ti rivolgono gli amici per ciò che hai dato o insegnato loro. Grazie, come quello che mi hai detto con l'ultimo fiato che avevi, lo scorso 10 gennaio, "Grazie amore", con tutto l'amore di cui eri capace. E Grazie come quello che io ogni giorno rivolgo a te, ovunque tu sia, per avermi dato il pri-vilegio di averti accanto, per essere stato il marito che sei stato, e per avermi resa tua allieva privilegiata di vita. Perché solo forte dei tuoi insegnamenti, ti posso sopravvivere Pciù... dato che "non c'è nostalgia più dolorosa delle cose che non sono mai state".

Donata

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Un annosenza

Francesco

U n anno è passato. Un anno sen-za Francesco Foresta. In via Rosolino Pilo, nella “casa” che ha abitato negli ultimi intensi anni della sua vita professiona-le, dove quella che chiamava la sua “famiglia” ha proseguito la

sua opera, è stato un anno lungo, intenso. E anche difficile. Perché non era facile continuare nell'opera avviata da Francesco senza la sua guida, senza il suo genio, il suo estro, la sua contagiosa vitalità. Ma le sue testate, quelle che con coraggio visionario fondò una dopo l'altra, hanno continuato a ottenere il con-senso dei lettori. Livesicilia, il quotidiano sempre più riferimento dei siciliani, sotto la guida, come France-sco con lucidità e lungimiranza volle nei suoi ultimi giorni, del suo maestro Giuseppe Sottile. I love Sicilia, affidato alle cure di sua moglie Donata Agnello, di-rettore, e del compagno d'avventura della prima ora Salvo Toscano, condirettore; “S”, diretto da Giuseppe Sottile con vice Claudio Reale. Sono queste testate, ognuna con la sua grande per-sonalità, il lascito, l'eredità di Francesco Foresta. Un lascito che vive dopo di lui e che in questo anno è stato ancora patrimonio dei siciliani. Continua così un'avventura editoriale cominciata dieci anni fa. Nei primi mesi del 2006.Il servizio di copertina era già impaginato. Nove pagine tutte da leggere, con foto spettacolari, sul golf in Sicilia. Restava solo da realizzare la coperti-na vera e propria e poi mandare in stampa il primo

numero del “nuovo” I love Sicilia. Francesco, allora fresco quarantenne, si fermò un attimo. E la buttò lì, a modo suo: “Picciotti, ma vi rendete conto che ab-biamo un magistrato importante che ha posato per noi col grembiule da cucina? La gente non capirà più niente quando lo vedrà. È questa la copertina”. Il magistrato era Ignazio De Francisci, allora pm ad Agrigento, che aveva accettato di cucinare per noi nella prima puntata della rubrica “A tavola con”. Da allora Francesco, sempre guidato dalla stes-sa voglia di stupire, ha diretto I love Sicilia per 103 numeri. Fino all'ultimo, che fu oggetto di un'ultima riunione di redazione a casa sua, quando il male gli lasciava ormai gli ultimi giorni. E per dieci anni, I love Sicilia ha raccontato le storie delle eccellenze dell'Isola, dei siciliani di successo, quelli che ce l'hanno fatta. Di quella Sicilia da amare che sui media non finiva quasi mai, e che Francesco capì che meritava di essere narrata. Una storia di successi siciliani a cui è ascrivibile anche la sua vi-cenda umana e professionale, come scrivemmo su I love Sicilia pochi giorni dopo quel 10 gennaio 2015 quando Francesco se n'è andato, a soli 49 anni. In quella sede lo raccontammo senza la retorica della celebrazione, rifuggendo la tentazione di cadere in quello che lui col suo lessico colorito avrebbe bol-lato come, e perdonateci la licenza, un “minatone”. Provammo a tracciarne un ritratto così com’era. Vulcanico, dissacrante, spassoso. Così era Fran-cesco, scrivemmo allora, perché dopo le lacrime dell’addio, ci piaceva riacciuffare l’eco delle tante ri-

È passato un anno senza Francesco ForestaLe sue testate hannocontinuato a ottenereil consenso dei lettoriÈ questo il suo lascitoche continua a vivereanche dopo di luie che rimane un grandepatrimonio dei siciliani

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sate che hanno accompagnato l’avventura di questi anni. Risate di gioia, la cui eco è risuonata persino al suo funerale, per il quale ha voluto il vino e la musica di Frank Sinatra e Barry White.Non solo I love Sicilia. In nove anni, la creatività di Francesco partorì altre creature. Da S, l'altro men-sile di punta della nostra casa editrice, fino a Live-sicilia, il quotidiano on line che ha rivoluzionato le abitudini dei siciliani. “Si è infilato negli spazi lasciati liberi dagli altri”, ha sintetizzato, ricordandolo su Livesicilia, Riccardo Arena, presidente dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia. Sì, Francesco ha riempito gli spazi vuoti del mercato editoriale, sempre e comun-que seguendo la bussola dell’amore per il giornali-smo. E ha reso la Sicilia una terra più informata, e quindi più consapevole. E dunque più libera. Lo ha fatto riuscendo nella complicatissima arte di fare impresa in Sicilia, dove tutto costa il doppio della fatica. C'è riuscito, accanto al suo socio della prima ora Giuseppe Amato e alla sua squadra, che defini-va a ogni occasione, fino all'ultima, “il mio orgoglio”, marciando sempre a velocità supersonica. Come quando in una manciata di settimane nacque “S”. Era la fine del 2007, l'arresto di Salvatore e Sandro Lo Piccolo aveva fatto scalpore. Francesco volle tentare l'azzardo di una copertina atipica per I love Sicilia, parlando di mafia su un mensile patinato. Fu un successo straordinario in edicola. Da qui l'idea di “S”, un mensile incentrato su quei temi. “La gente vuole leggere di queste cose, e i quotidiani non han-no abbastanza spazio”, spiegò. Un altro successo,

una storia che continua da allora ed è arrivata al suo numero 86.Intuizioni, come quella che fece nascere Livesicilia. Il giornale di domani oggi. Era il marzo del 2009, si brindò in redazione, tutti contenti per mille contatti. Diventarono presto 150mila. “Se è il futuro dell'in-formazione sarà soprattutto in rete, noi ci stiamo attrezzando”, disse nel videoeditoriale che battezzò il quotidiano. Vincendo per una volta la sua pro-verbiale ritrosia nell'apparire. Non gli piaceva, così come non gli andava a genio una certa mondanità. Andava in crisi al pensiero di una cena a cui non po-teva non andare. Francesco non lo trovavi mai. A lui piaceva lavorare. Indire riunioni che non finivano mai, leggere e scovare i fatti, le notizie, le tendenze che agli altri osservatori sfuggivano. E quando an-dava in vacanza, sapevi che dovevi aspettarti al suo ritorno un quadernone dei suoi, fitto di nuove idee da sviluppare scritte a penna in bella grafia.Idee spesso geniali come quella della classifica dei 100 potenti, diventata un must, un appuntamen-to che anche quest'anno ha portato in edicola mi-gliaia di siciliani spinti dalla curiosità di conoscere i movimenti nel ranking del potere. In quest'anno senza Francesco i suoi giornali sono andati avanti. Continuando sul solco da lui tracciato. Come nel gusto del calembour nel titolo, quello che nasceva in lunghe (e divertite) riunioni di redazione (il suo grido di battaglia sulle scale, “riunioone!” ancora rie-cheggia in via Pilo), facendo a gara a chi “sparava la minchiata più grossa”.

Francesco ha riempito gli spazi vuoti

del mercato editoriale, sempre seguendo la bussola

dell’amore per il giornalismograzie alle sue ideevisionarie e genialiE ha reso la Sicilia

una terra più informatae quindi più libera

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Il suo spirito, la sua ironia mancano tanto a chi lo amava. Scherzava su tutto, tutto dissacrava per il gusto di una battuta, senza mai prendersi sul serio. Ma prendendo sempre, terribilmente sul serio la grande passione della sua vita, il giornalismo. Sem-pre alla ricerca di novità da offrire ai lettori. A partire dalle firme, cercando tra siciliani di scoglio e di mare aperto: Felice Cavallaro, Gaetano Savatteri, Daniele Billitteri, Davide Enia, Giuseppina Torregrossa, pri-ma ancora dei suoi fortunati best seller. E tantissimi altri, che riusciva a coinvolgere e ad appassionare. Scovava un pezzullo su un blog, un ritaglio di gior-nale, conservava tutto e poi si presentava in redazio-ne: “Pupetto (che tutti pupetti eravamo, ndr), questo scrive bene, cerchiamolo”. Rimpiangevamo i suoi scherzi un anno fa, ricordan-dolo su I love Sicilia. E ancora quegli scherzi ci man-cano. I ricordi sono troppi. Quando scrisse un pezzo delirante spedendolo a Roberto Puglisi spacciandosi per un collaboratore, per fargli venire i cinque mi-nuti. Quando organizzò la finta cattura di Messina Denaro una sera che Roberto Benigno aveva fretta di tornare a casa per vedere Inter-Barcellona di Cham-pions. Quando si spacciò per un noto imprenditore palermitano e chiamò un venditore che aveva chiuso il suo primo contratto dicendogli che ci aveva ripen-sato e fingendosi pazzo. Canzonava tromboni e rom-piscatole, non rinunciava mai a quella posa da ragaz-zaccio dei tempi in cui faceva il portiere di calcio. E gli piaceva che il sapore di quell'allegria si gustasse sui suoi giornali. Nacque così il mitico (e spietato) “piz-

zino” di Livesicilia, e ancora dopo di lui quei pizzini strappano un sorriso ai lettori di Livesicilia. Risate, ma anche fatica. E anche querele. “Sono cose che si possono anche mettere in conto”, disse al ri-guardo nel giugno del 2014, pochi mesi prima di sco-prire il male, ricevendo il premio Calabrò per Live-sicilia, “un giornale che rispetta tutti ma non guarda in faccia nessuno”, lo definì in quella circostanza. “Il segreto è la squadra”, disse anche in quell'occasione, raccontando il suo percorso, il suo addio nel 2008 al “posto fisso” da vicecaporedattore al Giornale di Sici-lia, il salto nel buio per inseguire il sogno di un nuovo gruppo editoriale in un panorama ingessato. Un anno dopo, quel gruppo, quel giornalismo, quella squadra, continuano il lavoro di Francesco. Sforzandosi di conservarne l'eredità. Che prima di tutto sta in un grande, inconsumabile amore per il giornalismo. Per tanto amore siamo grati a Francesco. E in queste pagine abbiamo chiesto a chi lo ha conosciuto e ap-prezzato di ricordarlo con semplicità. Anche così la grande famiglia di I love Sicilia, S e Livesicilia ricorda Francesco, con questa piccola pubblicazione. Che ha coivolto tanti amici, i cui scritti sono qui raccolti in ordine alfabetico. Un ideale abbraccio collettivo a un amico. E chissà con quale battutaccia delle sue, lui avrebbe commentato questo numero speciale...

Scovava un pezzullosu un blog, un ritaglio

di giornale, conservava tutto e poi si presentava

in redazione: “Pupetto,questo scrive bene,cerchiamolo”. Così

nasceva “la squadra”che lui riteneva

il segreto del successo

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I Love BLUe Sky

Rosamaria Alibrandi

Francesco, ti sia lieve la terra. Un sa-luto che è conclusione, quella che tocca a chi resta, a chi custodisce memorie. Ti piangono e ti rimpian-gono in molti; li conosci tutti. Tutti conoscevano te. Sappiamo così poco della vera essenza di ciascu-

no di noi che ritagliamo ricordi come si può. Io ne ho davvero pochi, pregnanti tuttavia. E riguardano il tuo modo di essere. Hai impresso il segno della necessi-tà della presenza fisica, del non rimandare, del non delegare: in una parola, di esserci quando la situazio-ne richiede che ci si spenda in prima persona, senza trincerarsi dietro scuse o controfigure. Rendevi plasti-camente l’idea di cosa può essere il lavoro quando lo si ama tanto da essere felici di fare quel che si fa, e di cosa significhi, per un consesso sociale, che ci sia la persona giusta al posto giusto. E lanciavi il cuore oltre l’ostacolo. Immaginavi. Usavi l’istinto così come vivevi, da persona piena di vitalità, unito a una cultura varie-gata, arrivando con questi strumenti alle invenzioni, quelle che producono i cambiamenti, adoperando le giuste strategie per realizzare i sogni, da conoscitore del valore delle parole, di questo mestiere dello scrive-re e dei ferri da impiegarvi. Se un certo giorno tu avessi detto ‘bene, fin qui è stato un piacere, buona fortuna’, se non avessi avuto la dote che connota il leader, saper scegliere le persone (e valorizzarle), e, soprattutto, se

tu non avessi creduto, come hai creduto, nel futuro del giornalismo online, sarei rimasta alle mie antiche sto-rie, paga di indagare il passato piuttosto che il presente o il futuro. Per sentirsi amici, in sintonia, bastano pochi secondi. In una mattina di sole offuscato da un velo di tristezza, ero stata a lungo ad ascoltarti spiegare la tua linea editoriale, il tuo approccio alla comunicazione, il tuo modo d’avvalerti di vari tipi di collaboratori e di costruire il giornale con scrupolo artigianale. Evitando l’orrenda vecchiaia, ci hai lasciati tutti tuoi eredi, ma come te non ci sarà più nessuno. Non mancherà solo il direttore, o il maestro di giornalismo, né il suscitatore di polemiche affrontate a testa alta, ma il compagno di strada, quello che era il primo a partire. Col trascor-rere del tempo s’inizia a tenere il conto di quanti ci hanno preceduto nel viaggio più lungo, tuttavia, per-dona lo stile barocco, del tuo non avrei voluto scrivere. La morte è capace di dare la stura a infinita retorica, ma devo pagarti un debito: la coscienza, data dal tuo esempio, che non si può essere avari di sé, dei propri talenti, che bisogna mettersi in gioco, nella vita come nel mestiere di scrivere. So che appena ti guarderai intorno, ovunque sarai, riorganizzerai un giornale: e, magari, qualcuno sarà pronto, già lì, a darti una mano, per pubblicare il primo numero di I love Blue Sky.

UN vULcaNoIN coNtINUa erUzIoNe

Giuseppe Amato

Dopo un anno non c'è giorno che arrivando in ufficio non saluto Cicciuzzo nella recep-tion della nostra redazione. Lui é lì che sorride nel suo primo piano stilizzato dalla matita di un illustratore e

sembra dirmi sei arrivato? Andiamo a lavorare.Lavorare per lui non era faticare ma vivere. Progettare, produrre, pianificare idee da realizzare era la sua vita. Un gigantesco vulcano in continua eruzione di magma creativo più grande dell'Etna e del Fujiya-ma con crateri tracotanti di fiumi di idee da inon-dare e infuocare tutti noi ogni giorno.L'assenza la senti nell'assenza del suo "rrriunio-neee...", megafonato dalla sua voce baritonale dal ballatoio del secondo piano dove si trova la sua stanza.Quel suono, che aspettavamo tutti noi non come convocazione al dovere ma come ora della ricrea-zione scolastica. Sì, perché cominciava, finalmente dopo ore di scrivania, telefonate, computer, nume-ri, budget ed obiettivi il vero divertimento. Si entrava nella sua stanza come nella stanza del Mago di Oz, in una fabbrica di cioccolato o nel re-gno di Santa Claus per dar vita e forma alle idee. Cominciava il "divertimentificio"...

E da lì tra il serio molto serio, il faceto, le minchiate sparate a raffica, lo sfottò e le immancabili bombo-niere Algida si programmava il lavoro ordinario e sopratutto si dava vita corpo anima e gambe alle idee dove le più brillanti erano sempre quelle del Socione.Le idee per Ciccio erano talmente facili che manco finiva di terminarne una a ramificazione ascen-dente a trascendente che ne arrivava un'altra ab-bracciata ad una liana come quelle di Alice nel pa-ese delle meraviglie illuminata e brillante, più della spada di Star wars, tanto luminosa che neanche nelle foreste animate di Disney se ne trovano.Ecco, forse uno dei suoi migliori amici in paradiso é proprio quel Walt, con cui a quattro mani staran-no scrivendo il nuovo fantasy, ovviamente futuro campione d'incassi. In fondo alla scena sicuro vedo un grande vulcano attivo che pirotecnicamente crea strabilianti spettacoli di fuochi d'artificio e tanti tanti spettatori ad applaudirlo. Cicciuzzo, sa-rai per sempe nel mio cuore.

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rIcordo dI UN graNde deL gIorNaLISmo

Riccardo Arena

Ci manca, il Pupetto nostro. Ci manca anche perché ci “costrin-ge”, a un anno dalla sua scom-parsa, a fare un esercizio di memoria che lui avrebbe senza dubbio detestato, a ripetere tan-ti grandi o piccoli coccodrilli che

gli avrebbero fatto di sicuro storcere il naso, perché – vuoi o non vuoi – finisci con lo scadere nella retorica del banale, del trito e ritrito, dell’elogio troppo facile del morto e meno male che di questa memoria di Francesco, Ciccio o Franco Foresta - il Pupetto, per l’appunto - non si è fatto abuso con (troppi) premi postumi, quelli che ti suonano sempre beffardi, per-ché quasi si aspetta che uno muoia, per riconoscere che era bravo. E questo non va bene, anche se così va spesso il mondo, o meglio così andava nel seco-lo decimo settimo, diceva un tale che riesci persino a ricordare senza Google o Wikipedia, e così va nel ventunesimo secolo e andrà in quelli a venire.Ci manca, Ciccio. Nel doloroso adempimento del ri-cordo ti vengono in mente episodi, aneddoti, storiel-le più o meno gustose, ma si ricordano i morti e dire che lui non lo è sarebbe sciocco, non gli piacerebbe. Semplicemente, cerchiamo di dimenticarci che non c’è più, Ciccio, e lo sforzo dev’essere quello di andare oltre, di guardare al direttore e fondatore di Live Si-

cilia come se fosse ancora qui, presente, attivo, pro-positivo, col suo modo di inventarsi un giornalismo che, a pensarci bene, in realtà è di là da venire e lui lo stava costruendo dal nulla, con la mentalità dello studente del liceo linguistico un pochino lagnusu – così diceva di sé, senza mentire troppo – ma do-tato di intelligenza non comune, qualità che si tra-duceva in una notevole capacità di apprendimento senza una particolare dedizione allo studio e che, nell’età della maturità, età quanto mai difficile, per un immaturo cronico come lui, era diventata sforzo di aprirsi a ogni possibile innovazione, in una ricer-ca spasmodica di tecniche informative un tempo impensabili, nell’umiltà di farsi spiegare le cose e di impararle pian pianino ma benissimo, da bravo giornalista nato con la Olivetti e con i pezzi da calare, corretti a mano, in tipografia, e che si è poi ritrovato a progettare un giornale senza carta, che entra a casa della gente senza che la gente nemmeno debba fare lo sforzo di cliccare da qualche parte.Ciccio, il Pupetto, era forse un visionario o un veg-gente, ma anche uno studioso del futuro, uno cui piaceva rischiare, scommettere su quello che an-cora non c’è, perché non si vede. La sua invenzione, un gruppo editoriale nato dal niente, con la fiducia e l’appoggio di suoi amici danarosi e magari anche interessati (forse tanto, interessati), che hanno cre-

duto in lui, nella sua capacità manageriale, nel suo saper unire informazione, multimedialità, interatti-vità, servizio, dibattito, confronto, cazzeggio, ha am-maliato il mondo imprenditoriale, lo ha cambiato. Eppure lui, Francesco, Franco, Ciccio, il Pupetto, questa capacità di smorfiare quel che non è ancora la aveva, gli arrivava da lontano, da quando – giova-ne cronista politico del Giornale di Sicilia – aveva capito non solo chi aveva il potere ma soprattutto chi aveva le notizie e, nonostante la giovanissima età, era in grado di interagire da pari a pari con i pezzi grossi della vecchia Dc, raccontando prima di un’amministrazione comunale all’epoca dura e pura, soprattutto in senso filomafioso, poi della Regione ancora presieduta dall’ultimo, vero alfiere della Prima Repubblica, quel Rino Nicolosi anche lui scomparso giovane, quando aveva forse capito (troppo tardi) di essere stato fagocitato da un siste-ma che non gli apparteneva.Il rischio dell’ipocrisia è in agguato, a Francesco non sarebbe piaciuto essere solo elogiato: si elogiano i morti e c’era quel tale che i morti non li elogiava ma li seppelliva. Del Pupettino ci sforziamo tutti di non pensarlo morto, dunque magari qualche strizzatina d’occhio al venditore di fumo ante litteram dell’anti-mafia poco dura e soprattutto pochissimo pura, così come qualche eccesso di confidenza col potente di

turno, oggi inevitabilmente destinato ad essere inse-rito a furor di rete nel girone infernale degli impre-sentabili, la potremmo pure ricordare. Ma Ciccio nel fango non si lasciava trascinare, quando qualcuno ci scivolava dentro lui sapeva restarne fuori e raccon-tare, ancora una volta senza eccesso di partecipazio-ne personale, quel che era successo. Dovette affron-tare la prova più severa per un giornalista abituato a raccontare i guai degli altri, e non fu il solo. Eppure né lui né altri mai chiesero qualcosa: attesero, fino alla quanto mai incerta e assolutamente mancabile vittoria finale, che invece arrivò per entrambi. Sop-portò, Ciccio, maldicenze e cattiverie di ogni genere, passandoci su, perché forse era solo una deprecabile invidia. Alla fine ha vinto lui, il mondo che non c’era lui lo ha inventato, lo ha costruito, gli sopravviverà e lui sarà ricordato come i grandi non della storia ma del mestiere di giornalista in Sicilia. E in fondo era solo un Pupetto.

Ciccio, il Pupetto,era forse un visionario o un veggente, ma anche uno studioso del futuro, uno cui piaceva rischiare, scommettere su quello che ancora non c’è,perché non si vede

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UN IrreSIStIBILe mattatore

Francesco Badalamenti

Quella che avrei voluto raccontare è la storia di un genio. Un genio incompreso. O forse compreso fin troppo bene. Ma ho fatto una promessa a Donata: niente occhi lucidi né groppi alla gola, quindi scriverò solamente del meraviglio-

so lato istrionico che lo contraddistingueva e lo ca-ratterizzava, di noi che eravamo e siamo legati da un rapporto unico fatto di amicizia, stima, complicità.Trent’anni – poco più, poco meno – passati assieme. Assieme al lavoro, assieme fuori dal lavoro. Pupetti-no era un vulcano e su tutto mi piace ricordare un gioco durato pochi minuti, escogitato un pomerig-gio al Giornale per spezzare un po’ la tensione del lavoro di quel giorno.Lui aveva in mano una rivista di auto dove c’erano diverse foto di macchine d’epoca. All’improvviso una scintilla nei suoi occhi fu seguita da una propo-sta. Ciccione – mi disse – mi piacerebbe associare le nostre colleghe a una marca di auto.Subito stilai un elenco di giornaliste che frequenta-vano il Giornale di Sicilia e a ognuna di esse appiop-pammo un’auto. Io dicevo un nome e lui pronun-ciava il tipo d ’auto che in qualche maniera poteva somigliare alle colleghe. Di tutto l’elenco mi piace ricordare un affiancamen-to unico, e allo stesso tempo geniale, partorito da

Francesco: la Papa Mobile. Sono certo che leggendo queste poche righe Alessandra non me ne vorrà che le colleghe e i colleghi – anche se con nostalgia – sorrideranno.Ricordo pure una scommessa da lui persa. Non ho a mente quale difficile partita il Palermo avrebbe dovuto affrontare. “Se vinciamo mi taglio i capelli a zero” mi disse. I Rosa vinsero. Il giorno dopo ac-quistai una macchinetta taglia capelli e la portai in redazione. Francesco, senza battere ciglio, si fece ra-pare a zero da me. Davanti ai colleghi che ricordano ancor oggi le risate di quel giorno di tanti anni fa.Goliardia a parte Pupettino era un uomo che avreb-be sfondato in qualsiasi cosa si fosse cimentato. Faceva il giornalista (e lo sapeva fare) ma avrebbe potuto fare il professore di filosofia o l’ingegnere. Il medico o il pilota d’aereo. Era brillante, affascinante, ammaliatore, mattatore.L’ultima volta che l’ho visto è stato il 31 dicembre 2014. Andai ad abbracciarlo per gli auguri di Capo-danno. Lui amava i sigari. Gli portai due Cohiba Pi-ramides. Gli dissi che li avremmo fumati non appe-na si fosse ripreso. Quei sigari non sono stati fumati. Mi sono spuntatati i lucciconiBuon Anno Pupettino

QUeL rIto che NoN Smette dI maNcarmI

Roberto Benigno

L a prima telefonata della giornata era un "rito". Un rito che oggi, a un anno dalla sua morte, non smette di mancarmi. Il tempo e il piacere sono due concetti che viaggiano su binari opposti, inversamente proporzionali. Se un arco tempo-

rale di vita è piacevole sembra che si esaurisca in un attimo; se non lo è, come l'ultimo anno senza Fran-cesco, lo percepisci come interminabile.Alle nove del mattino Francesco era già un vulcano di idee in piena eruzione. Le metteva giù nel "memo" della giornata (lui l'ha battezzato così). La rotta quo-tidiana che la nostra grande nave veloce doveva se-guire per portare in porto ogni sera la nostra barca. Pronta a riprendere il mare dell'informazione il mat-tino seguente. Quel "rito" si è rinnovato, quotidiana-mente, per anni, scandendo le nostre giornate e di-ventando un gigantesco diario delle piccole e grandi imprese centrate dalla nostra squadra. Immancabile il nostro confronto al termine di ogni partita del Pa-lermo, di cui Francesco era un grandissimo tifoso. Mi prendeva in giro dicendomi di non essere abbastan-za rosanero a causa di una malattia congenita, l'inte-rismo. Per farmi arrabbiare era capace di sfoderare sfottò anti interisti che neanche il peggior juventino riuscirebbe a pensare. Ma cascava male, chi è so-pravvissuto al "cinquemaggio" può sopportare tutto.

Era il fratello maggiore che non ho avuto, Francesco. Ci siamo scelti a vicenda, al Giornale di Sicilia, dove io collezionavo contratti a tempo determinato tra lo sport e la cronaca e lui era vicecaporedattore. Dieci anni bellissimi in cui mi ha insegnato a fare questo mestiere, 10 anni al termine dei quali è nato il nostro sogno. Un giornale nostro. Nacque così I love Sicilia, una mattina di gennaio 2006 in cui io e il mio grande amico, Salvo Toscano, siamo stati chiamati da Fran-cesco che ci presentò Giuseppe Amato: "Ragazzi, facciamo un giornale nostro!". E da lì ebbe inizio tut-to. Le riunioni a qualsiasi ora. Le passeggiate per le edicole il venerdì di uscita di I love Sicilia per vede-re quanto vendeva la nostra creatura, le estenuanti prove grafiche a caccia della perfezione in copertina e al titolo più bello. Momenti indimenticabili che negli anni hanno cementato la nostra squadra. Era forte Francesco, capace di intuizioni geniali e dal fiuto sopraffino quando c'era da annusare la notizia, ma anche individuare l'uomo giusto al posto giusto. L'ultimo colpo di genio poche settimane prima della sua morte, quando chiamò un monumento del gior-nalismo come Giuseppe Sottile a dirigere Livesicilia. Un ultimo capolavoro, professionale e umano. Gra-zie Ciccio.

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QUaLcoSa dI pIù dI UN gIorNaLISta

Carlo Brandaleone

A un anno dalla scomparsa di Ciccio è difficile scriverne come una persona che non c'è più. O meglio, forse ha solo cambiato casa. Operazione che gli riusciva bene. E' difficile perchè Ciccio è una persona

che io ritenevo eterna. Tanta energia aveva in corpo. E per un po' sono convinto che lo deve avere pensa-to anche lui. E' difficile scriverne perchè tante cose sono state scritte e dette su Ciccio in occasione del suo ultimo trasloco. Tante lacrime sono state versa-te anche da chi non lo conosceva affatto, qualcuna anche da chi non lo aveva in simpatia. Perchè Ciccio aveva tanti amici ma anche pochi ma sinceri nemi-ci. Quello che è suo è suo.Dunque, avendo letto e ascoltato molte cise su Ciccio, da ogni parte della città e da ogni schieramento ideo-logico, ritenendomi una delle persone che lo conosce meglio proverò a raccontarne qualcosa che sui forum nessuno ha scritto. Sapevate per esempio che era sta-to un buon portiere di calcio? Giocò nel Villaggio Ruf-fini in Seconda Categoria ed era bravino. Ma avendo qualche problema nel distinguere i colori faceva con-fusione tra i calciatori della propria squadra e quelli avversari. Il primo giorno che mise piede al Giornale di Sicilia (fine anni Ottanta) si presentò con cappello e stivali da cowboy. Ovviamente in redazione non fu

preso benissimo, recuperò terreno accompagnando per mesi e mesi Mario Pasta a casa. Questo era il re-dattore sportivo anziano che non guidava e impone-va al collaboratore più giovane di scarrozzarlo ogni sera in via Orlandino, a Resuttana. Perchè Ciccio co-minciò proprio dallo sport. E mai lo rinnegò. Originali i suoi titoli sportivi in prima pagina quando vinceva il Palermo. “Palermissimo” titolò in occasione di un successo rosanero sulla Juventus.Poi la sua strada prese binari diversi, e Cicciò la seguì con ambizione e fantasia. Sapevate che organizzò anche un concerto di Zucchero a Palermo? Ciccio poi divenne editore, si buttò nel web, ebbe perfino l'idea di fare business con il pattinaggio su ghiaccio a Palermo. Creò aziende e posti di lavoro. Con fan-tasia e coraggio, perchè ci volle davvero tanto corag-gio a lasciare il Giornale di Sicilia, il quotidiano più prestigioso dell'Isola dove aveva compiti di grande responsabilità, per un'avventura certo più rischiosa. Sarebbe lungo l'elenco delle sue trovate e allora an-diamo al sodo. Con Ciccio, Palermo, intendiamo la città, una città in fondo pigra, ha perso una risorsa, un'intelligenza. Un ottimo giornalista ma forse qual-cosa di più, perchè la sua vita è stata tutta una start-up. A modo suo riusciva vedere dietro l'angolo.

La regoLa deLLa SINteSI

Chiara Billitteri

Mio padre mi ha sempre in-segnato che se vuoi essere un bravo giornalista la re-gola più importante è farsi capire. Francesco Foresta mi ha insegnato che se vuoi essere un eccellente gior-

nalista, un fuori classe, la regola più importante è sin-tetizzare. Trovare un titolo alla storia che vuoi scrivere ancora prima di averla raccontata ai tuoi colleghi, al tuo capo. Un giorno di luglio bussai alla porta di un’emit-tente televisiva nazionale per un colloquio. Ero volata a Roma senza dirlo a nessuno, neppure a lui. Io, giovane ragazza di Palermo alle prime armi. Mentre salivo di corsa le scale che conducevano alla stanza dove avrei incontrato il mio potenziale futuro capo riuscivo ad immaginare solo di entrare e trovare Francesco chino sul suo quadernone a scrivere qualche appunto con quella grafia un po’ stampatello un po’ corsivo. Tempo di attenzione che mi avrebbe concesso: trenta secondi. Il tempo variava in base alla situazione. Se lo trovavo al-legro e rilassato, piedi sulla scrivania e sigaro in bocca, il tempo a mia disposizione poteva arrivare addirittura ad un minuto. Metà del quale lo avrebbe usato lui per sfottermi. Per come ero vestita, perché avevo fatto tardi, perché mi vedeva sovra pensiero o anche solo perché entravo nella sua stanza sfoderando sorrisi ammalianti che speravo mi avrebbero concesso qualche secondo

in più. E subito: “Che hai da ridere?”. Diversamente an-dava quando lo trovavo mediamente annoiato: trenta secondi. E così a scendere. Nervoso e indaffarato: quin-dici secondi. Giù di morale: cinque secondi. Arrabbia-to: meglio non entrare. Nel minuto e mezzo che ci misi a percorrere i corridoi dell’ufficio romano pensavo solo a questo: al tempo che avrei avuto a disposizione se avessi avuto davanti lui e al sorriso che lo avrebbe addolcito. Il colloquio durò circa tre minuti. Io dissi tut-to in un minuto e mezzo.Un mese dopo ero in redazione ed entrai nella sua stanza: lo trovai stanco. Vederlo così per me era un’esperienza del tutto nuova. Cercavo il suo sorriso beffardo ma non lo trovavo. La sintesi, pensai. E fuori il rospo: “Mi hanno offerto un lavoro”. A lui ci vollero un paio di secondi per dire quello che pensava: do-vevo accettare immediatamente. Il secondo dopo mi stava prendendo in giro, quello ancora dopo mi di-ceva “amunì, ora mettiti a scrivere”. Io avevo gli occhi lucidi. Francesco era così: aveva la capacità di sdram-matizzare tutto. Non ignorava il dolore o la nostalgia. Le sfotteva. Allo stesso modo ha sfottuto la morte. Come faceva con me, ogni mattina mentre saliva le scale: mi guardava, io sfoderavo il mio sorriso, e lui mi faceva un gestaccio.

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IL prINcIpe degLI INNovatorI

Maurizio Carta

Quando penso a Francesco Foresta il primo pensiero è la tristezza per la sua mancanza, poi si affianca a lenirla l'orgoglio di averlo conosciu-to e, infine, prende il sopravvento la felicità di vedere il suo lascito forte, vivo, trasferito nelle persone che ha

allevato, guidato e amato. E questa sinfonia di sentimenti, talvolta apparentemente dissonante, è stata frequente in chi conosceva Francesco: passavi dal conflitto di idee e opinioni, ma sempre corretto anche quando aspro, al ri-fiuto (sì, alcuni non lo hanno mai capito), dalla fratellanza al rispetto, dall'avversità alla complicità. Io, che lo cono-scevo pur senza frequentarlo assiduamente, ero più im-mune di altri dal contrasto di sentimenti che suscitava: a me restituiva “empatia”. Si era questa la sua più importante caratteristica, una empatia selettiva, una capacità di entra-re in risonanza con le persone che gli piacevano e con tut-to quello che faceva. Nell’attivare la sua empatia usava un rigore al limite della ruvidezza, ma anche una generosità che sempre sfociava in amore. Francesco amava tutto quello che faceva e amava le persone con cui lavorava (lui avrebbe detto di non aver mai lavorato un solo giorno, ma sempre divertito), dedicandosi a loro con l'attenzione di un padre, con la cura di un marito, con la complicità di un fratello e con l'impertinenza di un figlio.Ho seguito Francesco Foresta nelle sue ultime avventure culturali, solo apparentemente editoriali, ma a chi sapeva

leggerle svelavano la precisa intenzione di cambiare pro-fondamente la cultura, la percezione, la visione di futuro di Palermo e della Sicilia. Ed egli stesso era principe di in-novazione, non percorreva mai la stessa strada, non si cul-lava nelle consuetudini. Quando una strada era tracciata e percorsa con successo, lui ne apriva un'altra, e un'altra ancora: perché tutto deve cambiare, sempre! Francesco amava la Sicilia e non sopportava di vederla statica, af-franta, ripiegata in se stessa, sbranata. E combatteva per modificarla dall'interno, a partire dai suoi abitanti a cui ha fornito un immaginario di bellezza e ha potenziato gli anticorpi dell'impegno civile e politico. Eh sì, Francesco faceva politica in un modo mirabile, perfetto, agendo sulle coscienze e sulla costruzione di un pensiero collettivo che sconfiggesse il nostro dannato individualismo. Per questo mi piaceva e lo ammiravo. E anche quando ha saputo di essere malato ha usato la sua empatia per trasferire il più possibile di sé ovunque potesse. Sapendo di non poter essere ancora per molto fra noi, come un albero fertile ha sparso semi ovunque potessero germogliare: eponimo, da albero si è fatto "foresta" per poter continuare, trascen-dendo la dimensione corporea. Se non fosse per il dolo-re che ha lasciato la sua perdita, direi che è stato un atto d'amore trasferirsi nell'Olimpo degli innovatori, dei visio-nari, dei mentori. Accidenti quanto ci manchi!

moderNo e creatIvo

Andrea Cassisi

Ho conosciuto Francesco Fo-resta. L'ho incontrato, nel-la stanza della redazione, poco dopo essere entrato a far parte della famiglia di Live Sicilia. Con curiosità mi domandò di descriver-

gli la situazione della città da cui scrivevo come collaboratore del giornale. Una chiacchierata che seppe subito portare a toni confidenziali, contraddistinguendosi in espressioni delicate e premurose. Mentre parlavo, lui scriveva. Appun-tava su un'agenda tascabile. Riuscendo a sbir-ciare, ne notai la calligrafia, così ordinata, così leggibile. Lo ricordo il suo sorriso. Mi fece subito sentire di casa, in quell'ambiente a me nuovo, moderno e luminoso. Com'era lui, d'altronde, se-condo quanto era riuscito a trasmettermi. Lo incontrai poche altre volte. Ma il ricordo è ni-tido, mentre sale e scende le scale degli uffici, al telefono o in compagnia, gettando l'occhio alle postazioni, con orgoglio e fiducia. Sono le descri-zioni degli amici e dei colleghi a parlarmi di #cic-cioforesta (come qualcuno scrisse di lui): dalle mail del giornale, dalle lacrime dei colleghi, dal-le biografie che ho letto, dalle parole dei padri del giornalismo siciliano, suoi amici e colleghi, vie-ne fuori il ritratto di un professionista innovativo

e avanguardista, moderno e creativo. Dal suo testamento, invece, mi ha donato una straordinaria quanto sorprendente originalità. Foresta è stato un dono per la Sicilia e per le sue inedite storie che ha raccontato e fatto racconta-re con un'ingegnosa rivoluzione. Ho conosciuto chi, di fatto, ha cambiato il volto dell'informazione sull'isola. Ho conosciuto Francesco Foresta.

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pUpetto, tUtto a poSto?

Salvo Cataldo

La giornata iniziava con un fischio appena percettibile e un’aggiu-statina ai capelli, bagnati anche in pieno inverno (come facesse a non beccarsi un malanno alla settimana resta un mistero), poi gli occhiali neri a goccia e le cin-

que parole di rito, sempre uguali: “Ehi pupetto, tutto a posto?”. La risposta imparai a calibrarla col tempo, anche perché la risposta quasi sempre la sapeva già. Quella frase era semplicemente il suo rito giornaliero, lo stesso che lo portava a dire “ci vediamo dopo” quando scendeva la sera dalla sua stanza. “Dopo? Ma perché a che ora torna?”. Vai a capire che per lui non esisteva un dopo, nel suo mondo non c’era spazio per un distacco tra lui e il lavoro. Il primo ad aprire bottega al mat-tino e l’ultimo a chiudere la porta alla sera. Il suo ‘memo’ quotidiano era una specie di Piano trien-nale delle opere pubbliche e quando qualcosa a fine giornata restava fuori niente paura, sarebbe spuntata puntualmente l’indomani in cima alla li-sta del nuovo ‘memo’ del giorno. Un nuovo giorno passato a rincorrere le notizie di sempre, quelle che hanno reso famoso LiveSicilia, accanto alle sfumature, ai dettagli, alla curiosità scovata chis-sà dove. Francesco, capace di ripescare nella sua memoria nomi e storie di Sicilia sconosciuti ai

più, così come di scovare un refuso nel penulti-mo pezzo di colonna sinistra. Il tutto condito con ironia e leggerezza sfornati in quantità industriale soprattutto nella riunione della sera, la sua pre-ferita. Noi, con un piano già in mente delle cose da fare, lui che si divertiva a smontarlo. Amava le sorprese, i colpi di scena, acerrimo nemico della routine e della consuetudine. Fiero di quanto co-struivamo giorno dopo giorno, ma sempre pronto a tenere alta l’attenzione sul lavoro dei concorren-ti, di ogni ordine e grado.Alla mia prima riunione lo vidi salire le scale con il piglio del generale che passa in rassegna le truppe. Ascoltai impietrito e in silenzio un serio-so punto della situazione e dopo venti minuti di annotazioni, sottolineature con evidenziatori di almeno tre colori diversi e richiami a mille cose “ancora da fare” gli spuntò un sorriso canzonato-rio: “Mi sa che domani non vieni”. L’indomani ero lì. “Ehi pupetto, tutto a posto?”.

cI ha meSSo La FaccIa

Felice Cavallaro

Si può campare cent’anni e non lasciare un segno. Ma la vita in qualche caso può essere scippata nel pieno delle energie senza scalfire la grandezza di un’esperienza destinata a restare come esempio. E’ il caso di un maestro mai salito in cattedra, capace di costruire

un progetto editoriale tirando su una squadra di cronisti liberi di raccontare e denunciare con distacco dal po-tere, duri se necessario, capaci comunque di sfoderare un’ironia che non diventava mai livore.Ancorato al sacro scoglio della notizia, con le sue rigi-de regole legate all’esistenza e al riscontro della stessa, Francesco Foresta non è mai scivolato lungo la china di quelle campagne di stampa in cui si sono distinti an-che grandi giornali decisi nel nostro Paese ad orientare le opinioni più che a raccontare i fatti, a cominciare dai settori più esposti, politica ed economia.Se non ci fossero stati e se non ci fossero quei giornali forse il Paese non sarebbe migliore. Ma la vita pubblica, ammettiamolo, è stata anche drogata in qualche caso da campagne di stampa talvolta deviate da pregiudizi e fis-sazioni, ridotte a battaglie personalistiche. Con l’effetto di alimentare quel retropensiero che porta a dubitare della stessa indipendenza di chi scrive da torrette di redazioni militarizzate.Come la moglie di Cesare che deve anche apparire, oltre che essere seria, ai giornali si imporrebbe quel

distacco capace di evitare ogni dubbio sulla propria indipendenza. Ed è questo che mi piace ricordare ad un anno dalla scomparsa di questo cronista di razza trasformatosi da autodidatta in imprenditore edito-riale. Capace di dare un input ai suoi cronisti, sempre lasciandoli liberi, limitandosi a suggerire la tecnica, ad alimentare un dialogo, senza la pretesa di modellarne a sua immagine stile e contenuti. Implacabile, spesso, ma sempre fuori dall'idea del giornale-partito dedito a pilo-tare e organizzare il consenso o la controinformazione, geloso piuttosto di una netta visibilità di quel distacco capace di confortare il lettore sulla indipendenza della fonte che offre la notizia. Perché il rischio è di non essere creduti quando, ripetuti a raffica gli attacchi, ne scatta uno che magari ha ragion d'essere ma che viene mal interpretato, ridotto a tassello di una tattica avversaria, quasi un giornale fosse, appunto, un pezzo di partito o il cemento di una coalizione, nuova o vecchia poco im-porta. C'è un termine moderno che Francesco non ha mai utilizzato, endorsement, come si dice utilizzando la radice dell’inglese “to endorse”, che sta per mettere la fir-ma dietro, a supporto di qualcuno o di qualcosa. Ecco, Francesco la firma l’ha sempre messa davanti. Con la sua faccia. Come dovranno continuare a fare i giovani che vorranno ancora considerarlo il loro maestro.

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QUeL momeNtodI eterNItà

Salvo Cincimino

Guarda caso, è per lavoro che ci siamo conosciuti. Presentati da un comune amico più di tre lustri addietro, abbiamo subi-to condiviso comuni interessi. Il primo tra tutti, la gioia di vi-vere. Coetanei, abbiamo vissu-

to nello stesso tempo, parallelamente, due Palermo differenti. Tu a scorrazzare con la Cagiva per seguire le partite di calcio di serie minori, inviato del Giorna-le di Sicilia, io tra i libri, affascinato dall’economia e dalle variabili che ne spiegano i differenti modelli. Ne son venuti fuori il giornalista con lo spirito e l’indole dell’Imprenditore, e il commercialista/aziendalista che aiutava a tradurre, decodificandoli, in realtà i tuoi ambizioni sogni. Affrontavamo i nu-merosi problemi e le questioni importanti con modi semplici, con interventi agili ed efficaci. Ma le nostre frequenti, intense, conversazioni si riempivano di molti altri contenuti. Ripercorrevamo i tratti delle nostre vite, e tornava la Palermo vissuta parallela-mente. Non smettevamo di prenderci in giro, discu-tendo con quella leggerezza che ci consentiva di po-ter mantenere un costante distacco da tutto ciò che per noi fosse griffato di stupidità e comunque privo di valore. Condividevamo il reale senso della vita, ossia la dedizione verso gli altri.Per te il valore più importante nel lavoro e nella vita è

sempre stato quello di “costruire una squadra”. L’hai sempre voluta e l’hai sempre realizzata, con persone pronte a seguirti, determinate e consapevoli dei tuoi buoni intenti. A loro hai sempre tenuto e le hai costan-temente difese e tutelate. Anche in questo hai sempre dimostrato di essere uno con una marcia in più. Di squadra ne hai costruita una anche negli ultimi giorni della tua preziosa e breve esistenza terrena. Attorno, e a difesa, dei valori più importanti che hai comunicato alle persone a te più care, nel testa-mento che hai lasciato a ciascuno di noi.Non c’è in questo mondo bene materiale più pre-zioso del dono che tu mi abbia potuto lasciare. Mi sono tuffato nelle sofferenze tue e di Donata, viven-do quanto più intensamente potessi quegli ultimi giorni in cui il tuo corpo straziato da un ignobile male non riusciva più a reagire alla tua sempre enorme volontà. Ti ringrazio, Francesco mio, per avermi fatto vivere quel momento di Eternità che adesso, meritoria-mente, Ti contiene.E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allo-ra incomincerete a salire.E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente. (Kahlil Gibran)

vIve deNtro dI NoI

Andrea Cottone

Di sicuro c’è solo che non è morto, perché chi ci lascia per sempre non va via del tutto, deposita dentro ognuno un qualcosa e attraverso questo continua a vivere. Francesco è nelle note che mando ai

miei, nelle cazziate costruite per far sorgere una reazione, nella cura della composizione della noti-zia, nella ricerca della domanda ulteriore, nella so-luzione dei problemi pratici e anche nella sdram-matizzazione dissacrante di chi crede di avere un problema e invece è solo una minchiata. C’è nello scanzonato modo di trattare questioni serissime, nell’azzardo della mossa a sorpresa, nel perculare le persone fino allo sfinimento ma anche nell’es-sere netto rispetto a certe scelte. Nel comprendere quando non ne vale la pena, nell’odiosa imperfe-zione nel dettaglio di un prodotto, nelle chiamate nella pagina e nel morire pazzo. C’è anche nel non perdere la testa quando le incombenze diventa-no spesse e pesanti, nel fatto che a lavoro si deve scherzare e in quei piedi sulla scrivania che non mancano mai a fine giornata. Nella consapevolez-za che quasi tutte le sfide non sono impossibili e che, quasi per una magia, alla fine si riesce a fare tutto. C’è nella comprensione che tutti possono sbagliare, che nessuno si condanna a prescindere.

Che tutto – o quasi – può essere scritto semplice-mente. Nel dare la possibilità a tutti di parlare, di essere ascoltati, anche se non si vale niente. E in quel cinismo che è solo estremo senso pratico, non distacco. C'è nel percorso che mi ha portato dove mi trovo adesso. Il tempo bastardo non mi ha dato tempo. La di-stanza fisica è stato una barriera insormontabile. E queste cose qui le saprà da questo opuscolo. Così come che sono fiero di essere della “scuola Foresta” e quando ne ho l’occasione me ne fregio pure. Di una squadra di compagni mai più assemblabile e di un periodo irripetibile in cui sono diventato (si fa per dire) grande. Al termine del quale Francesco mi disse che era giusto che tornassi a sognare. L’ho fatto e ora non riesco più a smettere.

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IL proFUmo deLLe Idee

Giovanna Cirino

Era il 2006, I Love Sicilia imperava in edicola ed io non mi ero persa un numero. Una nuova rivista dal forte appeal, un prodotto editoria-le che partiva da un’idea semplice e vincente: raccontare i siciliani. Quelli belli, testardi e romantici,

che arrivano al successo senza dover fare le valigie; quelli fuori dallo stereotipo del malaffare scaltro e becero. Poteva essere difficile in una terra che dona e sottrae senza pietà, che spesso porta a credere che la possibilità di una quotidianità leggera possa esistere solo fuori dai suoi confini. Volevo far parte di quel pro-getto, essere tra i collaboratori di Francesco Foresta. Mi sono presentata da lui una mattina di fine settem-bre, mi sembra di sentire ancora l’odore che si per-cepiva entrando nella stanza, veniva dai suoi capelli, un profumo di fresco sulla testa umida, che sapeva di vivacità. Un profumo brioso, inteso come contrario di stantìo. Ho detto poco, solo: “Vorrei lavorare con te”. Ricordo che stava scrivendo qualcosa, silenzioso ed enigmatico, e mentre i secondi mi sembravano un’eternità, io pensavo che forse avrei dovuto dire qualcosa in più, presentarmi, dato che era la prima volta che ci incontravamo. Francesco ha smesso di fissare il foglio e mi ha detto: “Te la senti di scrivere di architettura, della Biennale e dei nuovi designer sici-liani? Aspetto il tuo pezzo”. È iniziato tutto così, senza

fronzoli e giri di parole. Nell’accompagnarmi alla por-ta mi ha sorriso e dato un buffetto sulla guancia, poi e si è immerso nei suoi pensieri. Nel numero 15 del 27 ottobre 2006 di I Love Sicilia, Foresta ha pubblica-to il mio servizio “Architetti una matita per cambiare il mondo”, nove pagine che mi riportano indietro in un tempo che sembra ieri. Invece sono passati dieci anni, l’ultimo dei quali senza di lui. Dieci anni di pas-sione e fatica con uno dei suoi “figli di carta”, ragione d’orgoglio e di appartenenza per chi ci lavora come me. É difficile non farsi prendere dalla nostalgia e da quel pensiero costante del “come sarebbe stato se”. Preferisco pensare che Francesco - direttore capace di tenere insieme la squadra con la frusta e con la dolce babbiata, come diciamo noi messinesi (per chi non lo fosse significa sfottere) - faccia parte di quella ristretta categoria di eletti carismatici che muoiono giovani per essere ricordati per sempre, come James Dean, Ayrton Senna, Jim Morrison, quelli cui la vita dona e sottrae senza pietà. Il day after, sembra insu-perabile per chi li ha amati, ma un dopo deve esserci proprio per ricordarne la memoria. Mi consolano le parole di Morrison. “Se la mia poesia cerca di arrivare a qualcosa, è liberare la gente dai modi limitati in cui vede e sente”. Proprio come ha fatto Francesco.

capì e amò cataNIa

Antonio Condorelli

In Sicilia diritti e doveri sono costretti ad un angolo mentre spadroneggiano i pri-vilegi, concessi dal sultano di turno che gestisce la cosa pubblica per il tornacon-to dei propri clientes. Francesco ha con-sentito a una nuova generazione di cro-nisti di esercitare il dovere di informare

senza entrare nel sistema dei privilegi concessi dal-la politica. Lo ha fatto fondando Livesicilia, il men-sile S, I Love Sicilia e, nel 2012, LivesiciliaCatania insieme a una pattuglia di giornalisti.Il sorriso, la sua grinta e la condivisione di quella splendida notte del 28 ottobre 2012 hanno dato il via a una nuova pagina nel mondo dell'informazio-ne in una città storicamente attanagliata dal mono-polio di Mario Ciancio. Una notte indimenticabile in cui tutto sarebbe cambianto. Per sempre.Come non ricordare quei lunghissimi minuti che hanno preceduto il lancio di LivesiciliaCatania, con gli articoli da pubblicare e quel “Buongiorno Catania” che abbiamo salutato brindando insieme con Francesca, Laura, Melania, Anthony, Carlo e Maddalena. Da quel giorno la squadra dei collaboratori si è ar-ricchita e numerosi cronisti, grazie alla direzione di Francesco, hanno contribuito alla crescita del giornale completando il praticantato per l'iscrizio-ne all'albo dei giornalisti pubblicisti. Non è poco in

una città in cui le porte, per i giornalisti non racco-mandati, sono rimaste sempre chiuse. Con la città è nato un rapporto molto stretto, Fran-cesco aveva imparato a capirla e ad amarla, a noi insegnava a raccontarla, senza tralasciare alcun particolare. Dalle inchieste sui piani alti del pote-re a quelle sulla mafia militare. È nato un rapporto simbiotico con i catanesi, che lo hanno abbraccia-to il 20 giugno del 2014 conferendogli il premio Domenico Calabrò per il giornalismo d'inchiesta insieme a Mauro Casciari de Le Iene di Italia 1. In-dimenticabile anche quella serata al Castello Ursi-no, al suo fianco, sempre, Donata e le sue parole, sul palco, che resteranno sempre scolpite nel mio cuore. Informare senza accanirsi, senza essere di parte, chiedere sempre la replica e non scrivere per tesi precostituite, così ogni giorno rivendichiamo il di-ritto-dovere di fare i giornalisti. E pensando a Fran-cesco tentiamo di vincere la battaglia per l'unica cosa che non ha prezzo, in questa terra, la dignità. Grazie Direttore.

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I taccUINI coLoratIdeL dIrettore

Miriam Di Peri

Ti sembra di sentirlo ancora il suo fischiettare, entrando in redazione in via Rosolino Pilo. E non importava se fosse il giorno di chiusura di uno dei mensili. Non importava nem-meno se fosse incazzato nero

con te, perché aprendo i giornali si era accorto che avevi preso un buco dalla concorrenza. Lui entra-va e fischiettava. “Pupetta, tutto a posto?”. Poi ti cazziava. “Che è successo in assessorato? Non lo sai? Manco io lo sapevo, prima di aprire i giorna-li”. Passava avanti, fischiettando. E non ti rivolge-va più la parola tutto il giorno. Nessun altro direttore mi ha insegnato un decimo di quello che ho imparato da lui. E lo ha sempre fatto in una battuta, in una mezza frase, senza pipponi da “Quando il cronista ero io…”. No. A lui la notizia scorreva nelle vene. E ti trasmetteva quella passione senza dire una parola. Se sono ri-masta innamorata del mio lavoro anche quando il mio lavoro mi ha tradita, è stato grazie a Fran-cesco Foresta e alla straordinaria squadra che è riuscito a mettere in piedi.Oggi è esattamente un anno dall’ultima volta che l’ho sentito. È stato per gli auguri del Natale 2014. “E la pupa come sta? Questa, senti a me, viene su più crasta di te”. Quant’è vero, capitano mio capitano.

Ti piaceva il Natale, anche se ti sforzavi di non darlo a vedere. Ci regalavi i taccuini, ogni anno. E ridevi del tuo essere daltonico: “Di che colore è capitato il tuo?”. L’ultimo taccuino è ormai usu-rato, ma lo uso ancora, restano appena un paio di pagine da riempire. Aprendolo si legge il tuo inconfondibile “Metti a scrivere”. Ne ho già uno nuovo, preso per Natale per onorare la tradi-zione. L’ho pagato alla cassa e me lo sono fatto incartare. Non importa chi sia andato a prender-lo, sappiamo tutti e due chi lo ha mandato. Ps quest’anno è rosso.

IN FoNdoNoN Se N’è aNdato

Anthony Distefano

Non gli resistevi, semplicemen-te. Una sua idea si trasforma-va subito in un atto rivoluzio-nario. Una sua improvvisa irrequieta intuizione era la conferma che il lavoro e la de-dizione stavano concedendo

un’altra chance ad un giornalismo stanco e mal-trattato e che era in attesa di essere risognato dac-capo. Francesco Foresta, il Direttore Francesco Foresta, non è stato semplicemente una guida (a sua insaputa) per tanti di noi: ma è stato, anzitut-to, il volto sicuro e sincero di una libertà di infor-mazione che ha sparigliato le carte. “Che si dice a Catania? Tutto bene?”, erano le due domande volutamente retoriche e ripetute ad ogni occasio-ne che celavano il suo senso di protezione e di cu-riosità. Dopodiché, ipad in mano, tornava in giro a raccogliere quasi involontariamente notizie in incontri e appuntamenti che erano incastonati uno appresso all’altro nell’arco di una giornata passata alle falde dell’Etna. Capita a tutti, in un momento di nostalgia, di ri-guardare gli album di famiglia e cominciare il gioco tenero dei ricordi. In questi giorni è stato inevitabile riprendere quelle immagini che im-mortalano una embrionale ed intimidita futura redazione catanese di Live Sicilia allo scoccare

della mezzanotte di quell’ultima domenica d’ot-tobre del 2012: settimane di lavoro per il lancio di quello che è oggi livesiciliacatania.it. In quelle foto riecheggiano le “dritte” del direttore, i suoi rim-proveri, il suo metodo di lavoro informale e mai ingessato ma sempre incredibilmente produttivo, il suo stato d’animo fermo ma inquieto per quella che sarebbe stata la nuova scommessa: l’ultima prima di tante altre. Ma il gioco dei ricordi ha un difetto: quello di ri-schiare di banalizzare tutto con le parole. E la verità è che Francesco Foresta, il Direttore Fran-cesco Foresta, non se n’è mai andato. Lo dice uno stile di lavoro che non è cambiato; una fame di no-tizie che era la sua; quella sua curiosità che oggi è anche la nostra. Ecco perché un anno fa come anche oggi “Non mi porrò alcuna domanda sul perché sia così, dev’es-serci una porta aperta da cui tu possa tornare”. E in fondo, Direttore caro, quella porta è sempre lì ad un passo da noi.

30 ILOVE

mI maNchI, dIrettore

Laura Distefano

Mi manchi direttore. Lauretta si sente persa. Inutile dire bugie: sen-to crollare un pezzo di cemento ogni giorno che passa. Non è più lo stesso, non sarà più lo

stesso. Io sono l’ultima arrivata, quella che ti ha conosciuto meno, che ha potuto respirare la tua genialità solo per pochi giorni e per poche ore. Una scintilla che però porto sempre sulle dita mentre batto i tasti per scrivere un articolo che sarà pubblicato sulle pagine di Live. Perché tu devi essere orgoglioso. Mi manchi direttore. I tuoi occhi erano sempre qui, non ti sfuggiva una sbavatura. Sapevi sgri-dare, sapevi ringraziare, sapevi dire “brava”. Rivoglio le urla dalla cornetta, rivoglio i memo mattutini, rivoglio il tuo profilo con il sigaro tra le dita. Invece il tempo è inesorabilmente scadu-to. Mi manchi direttore. Molte volte ho paura di non essere all’altezza. Di non avere le capacità che tu cercavi. Tremo all’idea di deluderti. Mi manchi direttore. Sei andato via senza che abbia avuto il tempo di dirti grazie. Grazie per-ché hai permesso a questa “signora nessuno” di entrare in una squadra dove tutti erano già nomi

e firme del giornalismo. Colossi che grazie alla tua guida mi hanno accolto senza mai mettersi su un piedistallo. Grazie Francesco Foresta per aver creduto in me. Mi manchi direttore. La tua follia, la tua grandez-za, il tuo sorriso contagioso. Sento ancora l’eco della tua risata quando arrivavi in redazione. Il ricordo gioioso della tua voce molte volte solleti-ca la mente, lo fa soprattutto nei momenti in cui sono stanca perché non ho più un faro da guar-dare. E allora ripasso. Rileggo le tue mail piene di saggezza e mi rimetto in carreggiata. Mi manchi direttore. Lauretta

32 ILOVE 33ILOVE

IL rIcordo dI UN aBBraccIo

Davide Enia

Questo è ciò che c’è prima del ricor-do: era l’inverno di quattro anni fa, stavo camminando lungo via Libertà accanto a Silvia, scen-dendo verso la Statua, mentre tu e Donata stavate acchianando in senso opposto, verso il Massimo,

ed eravamo all’altezza di via Mazzini quando la tua voce, Ciccio, si impose sul frastuono del traffico e dei pensieri, perché fosti tu a vedermi per primo, ma solo perché eri parecchio più alto di me. Questo è l’antefatto. Quello che accadde subito dopo, invece, è il ricordo. È qui, intatto nello schermo della mia memoria. Fu un momento al contempo inatte-so, comico e duci. Tu che mi avevi avvistato mi iccà-sti una voce, chiamandomi come spontaneamente avevi deciso di chiamarmi, fin dal secondo momen-to che ci vedemmo: «Bambolo!». Sapìddu da ùnne ti vinni, ma io per te ero «Bambolo», sempre, in qual-siasi occasione. Mi piaceva Bambolo, era un sopran-nome completamente assurdo, ci stava. Cose serie. Torniamo al ricordo, adesso. Tu urlasti «Bambolo» e, per quel miracolo di sospen-sione del tempo che si verifica indipendentemente dalla nostra volontà, io percepii il tempo attorno a me cristallizzarsi, rallentarsi come se stesse diven-tando di ghiaccio. Ricordo tutto di quella scheggia di tempo, Ciccio. Incontrai in principio la reazione di Silvia a quel «Bambolo»: si era girata a guardarmi di scatto perché aveva capito, magia tutta femmini-le, che quello chiamato con quel soprannome ero

io. Nella linea che le era comparsa sulla fronte c’era però qualcosa che indicava un dubbio. No, non un dubbio. Una sorpresa, ecco. Una sorpresa pronta a diventare una crassa risata.Lasciamo un attimo Silvia mentre mi sta osservando in via Libertà e andiamo al controcampo del mio ri-cordo. Davanti ai miei occhi sei apparso tu, Ciccio, la tua chioma fluente e indomabile, gli occhi vispi che mi hanno riconosciuto e le labbra che già mi sorri-dono. E ‘u lato attìa c’è Donata, che ti sta osservando con gli occhi sgranati e sulla fronte una linea simile a quella che ho appena visto in Silvia, solo che la li-nea è incerta se diventare gioia o drammone. «Ma ha detto Bambolo o Bambola?», sta pensando. Qual-cosa anche a lei non torna. Il pensiero che adesso si impossessa di Silvia e Donata è questo: «ma cu min-chia è che ti chiama\ma cu minchia è che chiami Bambolo\a in piena via Libertà con me accanto?».Ecco. È esattamente questo il mio ricordo di te, Cic-cio. Questa irrisoria frazione di tempo, questo minu-scolo attimo di niente. Poi il mio ricordo accelera, la realtà torna calda e la scultura di ghiaccio comincia a sciogliersi, infatti ci sono io che faccio un passo in avanti e Silvia lo fa con me, e ci sei tu che mi vieni incontro e spalanchi le braccia facendo tremare la linea sul viso di Dona-ta che si volta verso di me con un principio di furia e fiamme nelle pupille, poi mi vede e mormora «Davi» - così mi ha sempre chiamato, con l’oblio dell’ultima sillaba - e resta con la bocca spalancata, proprio come Silvia accanto a me, perché ci siamo noi due che ci

abbracciamo in via Libertà come si abbraccerebbero due fratelli, tu sei il più grande, Ciccio, perché sei più alto e pesi molto più di me, e io sugnu il piccirìddo an-che perché tu ripeti «Ciao, Bambolo», mentre attorno a noi Palermo riprendere a scorrere con il normale flusso del tempo, tra clacson, sirene della polizia e ra-gazzini che abbannìano al telefono. Silvia e Donata intanto si presentano da sole, noi indugiamo nell’ab-braccio e ridiamo perché abbiamo intuito che qual-cosa di divertente è appena accaduto. Non ricordo altro di quella giornata, Ciccio. Quando appresi che tu ormai non c’eri più, mi tro-vavo a New York. Andai subito da Silvia. «È morto Francesco Foresta», le dissi. Ti chiamai per nome e cognome. Il dolore a volte segue sentieri sconosciu-ti. Silvia mi passò la mano sulla nuca. Ha una mano bellissima, Silvia, dita lunghe piene di cura. Con un movimento gentile e costante portò la mia fron-te vicina alla sua. Avevo gli occhi gonfi di lacrime quando Silvia mi disse: «Ma chi, Bambolo?». Tu eri diventato per lei quel mio soprannome, «Bambolo». E questo è stato il ricordo che il mio corpo comin-ciò a ripresentarmi, l’inverno in via Libertà e tu che, fottendotene di tutto – della città attorno a noi, del giudizio del mondo, del senso del ridicolo - gridi il soprannome che avevi inventato per me, felicissimo di incrociarmi in quel mondo che si ostinava a esi-stere anche fuori dalla tua redazione. La memoria è bizzarra, Ciccio. Seleziona episodi in modalità random. Ecco perché mi manchi ma non riesco a straziarmi pienamente. Questo è il mio pri-

mo ricordo di te. Alla fine dei conti, in me il sorriso ebbe la meglio sul pianto. Caro Ciccio, a volte mi chiedo quale sarà mai il ri-cordo che noi lasciamo, se saremo ricordati come coloro che compirono quel gesto sbruffone e spen-sierato o magari saremo le figure di contorno, quelle che svaniscono in controluce, persone di cui non ci si ricorda più neanche il nome. Magari resteremo per sempre nella memoria di qualcuno come chi si è macchiato di un gesto sgarbato che proprio non si era riusciti a trattenere. Oppure esistiamo nell’esi-stenza di qualcuno, per grazia ricevuta, come una traccia gentile. Non lo so se la nostra memoria ali-menterà un sorriso o provocherà un moto di rabbia, non ne ho idea. Non saprei neanche da dove comin-ciare. Il nostro pensiero comunque è figlio della sin-tesi, e questo processo condiziona ogni altro recu-pero di ricordi, colorando con la memoria primaria tutti i ricordi successivi, determinando il sentimento di base con cui racconteremo il legame tra noi e la persona che non c’è più. Ecco perché provo sempre un impulso felice quando ti penso, Ciccio, anche se so che sei morto troppo presto e questo mi annièrba, ma la rabbia e il dolore scampano subito via perché in testa mi risuona il tuo vocione che urla «Bambo-lo» e tutta la città ci osserva mentre ci abbracciamo, perché la nostra era una azione pienamente dotata di senso in quella Palermo ferita e triste.

Caro Ciccio, a voltemi chiedo quale sarà mai il ricordoche noi lasciamo.Io provo sempreun impulso felicequando ti pensoanche se so che sei mortotroppo prestoe questo mi annierba

34 ILOVE

maI preNderSI troppo SUL SerIo

Roberto Immesi

La cosa per me più difficile da fare, con Francesco Foresta, era riassu-mere situazioni politiche comples-se e astruse in pochissime parole. Ogni volta che in riunione comin-ciavo a parlare per spiegargli cosa volevo scrivere, mi guardava storto:

non amava i discorsi lunghi, voleva sapere tutto e subi-to. E io cominciavo a sudare freddo. Un atteggiamento che, se da un lato denotava il suo grande fiuto per le notizie, la sua capacità di soppesare al volo un argo-mento, dall’altro ti obbligava a sintetizzare facendo di necessità virtù. È forse questa una delle due più grandi lezioni che sono riuscito ad apprendere, in questi anni, da Francesco: bisogna catturare l’attenzione, trovare in una storia quel particolare, quell’aspetto che possa colpire il lettore e farlo appassionare. Altrimenti, per quanto una notizia sia teoricamente appetibile, non farà breccia e sarà come non averla scritta.Le riunioni, del resto, erano un rito a cui era impossibi-le sottrarsi: quando squillava il telefono bisognava in-terrompere tutto e salire nella sua stanza. Non erano ammessi ritardi, né defezioni. Una volta ero andato a seguire una manifestazione e mi fece rientrare appo-sta, perché alla riunione non doveva mancare nessu-no. Tutti attorno alla sua scrivania, tutti pronti a pren-dere appunti: ma non si trattava di un “one man show”, non eravamo dei semplici esecutori. Francesco aveva

la rara dote di amare il confronto, di chiederti idee, opi-nioni, impressioni: poi magari decideva da solo, per-ché alla fine è anche questo il compito di un direttore, ma ti faceva sentire un componente dell’ingranaggio. Sono stato per diverso tempo l’ultimo “arrivato”, ma questo a Francesco importava poco: se eri in riunione contavi come gli altri, avevi diritto di parola e di critica. Anche a costo di ricevere qualche rifiuto o qualche “rispostaccia”. Ma Francesco era anche altro. Non era solo professionalità, bravura, intuito. Era soprattutto ironia. Un’altra dote di cui spesso la nostra categoria è sprovvista. Amava ridere e scherzare su tutto, anche su quello che all’apparenza poteva sembrare “politica-mente scorretto” e anche nelle situazioni in cui magari per te c’era poco da ridere. Certe volte le nostre risate si sentivano fino al piano inferiore, magari intervallate da qualche urlo di rimprovero. Ed è questa la seconda lezione che ho imparato da lui: mai prendersi troppo sul serio, affrontare tutto con il sorriso sulle labbra e la battuta pronta. Perché un attimo della vita passato senza ridere è un’occasione persa e questo il direttore lo sapeva bene. Certe volte, davanti a una situazione, mi fermo a pensare a cosa avrebbe detto, alla battuta che avrebbe fatto, al modo in cui mi avrebbe preso in giro. E un sorriso mi si dipinge sul volto.

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tare e coniugare le straordinarie potenzialità dei moderni mezzi di comunicazione con l'entusiasmo e la competenza di un giovane ed operoso gruppo di lavoro, oggi largamente orfano di un riferimen-to professionale tanto autorevole quanto amato, esempio singolare e raro nel composito panorama dell'informazione siciliana. Nell'ultimo editoriale di Francesco, pubblicato su LiveSicilia, si ritrovano, intatte, la integrità del Suo amore per il lavoro e la fondata speranza, condita da consapevoli bugie sul Suo futuro, che il Suo im-pegno sarebbe stato onorato e continuato dai com-pagni di viaggio, oggi chiamati ad aggiuntive e mag-giori responsabilità: professionali verso la comunità; affettive verso il loro indimenticato mentore. Anche noi, Suoi amici, proseguiamo il nostro cam-mino, coscienti che a tutti noi,dal piccolo pertugio di cielo dal quale ci osserva sornione, Francesco conti-nua a chiedere di lavorare e di impegnarci per una Sicilia migliore,con semplicità e coraggio. Proprio come Lui!

Aveva ben compresoFrancesco, rischiando

anche in prima persona, comefosse divenuto

irrinunciabile interpretare,in modo nuovo e non

convenzionale, le complessee contorte dinamiche

della vita pubblica dell'Isola

UNa voce coraggIoSaaL ServIzIo deLLa SIcILIa

Roberto Lagalla

Proprio un anno fa,nello stesso giorno in cui, oggi, sono chiamato a fissarne il ricordo, ricevetti da Francesco la sua ultima telefo-nata. Era una di quelle belle gior-nate che soltanto il sole e la luce di Sicilia sanno regalare anche

nel periodo natalizio. Nonostante lo stato avanzato della malattia - la cui drammatica gravità conosceva sin dall'esordio - Francesco aveva voluto strappare al mostro che lo assediava una pausa di apparente normalità e ritrovare,per un fugace attimo di sospe-sa felicità, l'impalpabile leggerezza dell'essere. Così, insieme all'amata Donata, ci chiamavano da Mon-dello dove la provvida mitezza del clima e la molle bellezza invernale della borgata marinara si offriva-no, comprensive e complici,alla dolorosa tenerezza di quell'ultima passeggiata insieme: è facile imma-ginare sguardi intensi e silenzi profondi,interrotti da confortanti e consolanti parole ispirate ad un impossibile ottimismo e da preziose carezze, rubate sull'orlo vorace della fine. Sarebbe arrivata poche set-timane dopo quella maledetta ed immatura fine alla quale Francesco,sempre lucido e previgente,si stava

già preparando con apparente distacco: me ne aveva parlato più volte,suscitando in me, ancorché aduso ai drammi della vita, imbarazzate risposte e profon-da tristezza. Una tristezza vissuta come dolorosa at-tesa del distacco precoce ed ingiusto al quale tutti ci preparavamo,con la personale consapevolezza che quella imprevista cesura avrebbe reciso un'amicizia gratificante ed intensa,cresciuta negli anni, lascian-do il posto ad un vuoto e struggente ricordo. Nello sforzo inevitabile della elaborazione del lut-to e nel tentativo, forse velleitario,di immaginare cosa sarebbe stato oggi se Francesco non fosse volato via, cresce - oltre il rimpianto dei familia-ri, degli amici, dei lettori - il convinto rammarico per la perdita di una voce coraggiosa e libera nel-lo stigmatizzare il degrado politico e civile della nostra Sicilia alla quale l'Uomo ha dedicato le sue migliori e più generose energie.Aveva ben compreso Francesco, rischiando anche in prima persona, come fosse divenuto irrinuncia-bile interpretare, in modo nuovo e non convenzio-nale, le complesse e contorte dinamiche della vita pubblica dell'Isola.Per raggiungere l'obiettivo, aveva saputo sperimen-

38 ILOVE 39ILOVE

UN graNde croNIStaFeroce e dISSacraNte

Riccardo Lo Verso

“Se lo dici tu per me va bene. Scrivi”. Francesco me lo disse all'inizio della nostra avventura. Esisteva solo la rivista S. Livesicilia era ancora nei pensieri suoi e di coloro

che ci hanno creduto. Non ci fu bisogno di aggiun-gere altro, né allora né negli anni a venire. Io por-tavo una notizia, ne parlavamo, ci scontravamo se necessario, ma alla fine scrivevo. Sempre e comun-que. Piena fiducia, il massimo per un cronista.Nelle nostre interminabili riunioni di redazione - con ampio spazio riservato al cazzeggio - la cro-naca giudiziaria occupava meno spazio di altri temi. L'intesa era sempre a portata di mano. Per-ché Francesco Foresta era un grande cronista. Gli bastava una manciata di secondi per capire la no-tizia e non dovevi perdere tempo a spiegargliela. Niente fronzoli. Ti offriva, però, sempre lo spunto per guardare oltre il fatto. Per farti concentrare su un aspetto che altri non avrebbero battuto. È stata la sua forza: offrire al lettore ciò che si aspettava di leggere, anche le cose più ovvie che spesso, però, altrove non avrebbe trovato. Non era solo intuito. Era capacità di capire gli umori trasversali della gente. Cronista, ma anche uomo squadra persino quan-

do eri certo che le cose - accade in una redazione come nella vita - non stessero girando nel verso giusto. Francesco era schietto e diretto. Non le mandava dire. E così anche quando il confronto si faceva aspro e spigoloso, stai sicuro che una sua frase avrebbe stemperato la tensione. Potevi star-ne certo: all'indomani sarebbe arrivato al lavoro - il suo fischio ne avrebbe anticipato la figura dai capelli perennemente bagnati al mattino - per ri-partire come se nulla fosse accaduto. Perché nulla era accaduto.Last but not least: la sua grande ironia. Era feroce e dissacrante. Memorabili i pizzini che solo la regola della continenza - la nostra più che la sua sua - ci ha impedito di pubblicare. Sarebbero stati sì feroci e dissacranti, ma terribilmente divertenti.

UN graNde maeStrocapace dI rIdere

Eliana Marino

Ci sono sensazioni che non si possono evitare. Esistono e ba-sta. E ci sono ricordi che non è possibile cancellare. Possono solo accompagnarci, giorno dopo giorno. Anche quando fanno male. Anche quando ci

mettono davanti all’ingiustizia di una morte giun-ta troppo presto. E non basta fare “come se” niente fosse successo perché la vita continui come prima. Perché, spesso, niente può più essere come prima. Il vuoto resta come una ferita profonda pronta a riaf-fiorare alla prima occasione. E oggi, caro Francesco, a distanza di un anno, non riesco ancora ad accetta-re il fatto di non vedere più quel sorriso travolgente e quegli occhi furbi che lasciavano sempre il granitico dubbio di essere presi per i fondelli, face to face.Ogni volta che t’immagino, e capita spesso, ti rivedo sempre così: capelli bagnati (eri folle diciamolo… re-frattario al phone anche in inverno), camicia appena stirata con le maniche svoltate, jeans, cartella a tracollo e un gran sorriso. Quel sorriso sornione che racchiu-deva un mondo. Il tuo mondo. Nel quale continuavi a muoverti con la stessa capacità di stupirsi che un bambino ha di fronte ad un giocattolo nuovo. Perché qualsiasi cosa facessi, la facevi con entusiasmo. Un entusiasmo che è sempre stato la cifra del tuo essere grande. Un grande giornalista. Geniale. Capace, come

amavi raccontare, di lasciare la comoda poltrona da viceredattore capo del Giornale di Sicilia e reinven-tarti a quarant’anni imprenditore-giornalista. Impossibile starti dietro. Perché quando finivi di mettere a punto una cosa eri già proiettato su quella successiva (ti annoiavi con una velocità degna di un centometrista). E meno male. Perché se così non fosse stato non saresti riuscito, nel poco tempo che hai avu-to a disposizione, a creare tutto quello che hai creato.Puntiglioso, ordinato, insaziabile. Pronto a fiutare una notizia a chilometri di distanza. Sognatore. Ma con la capacità di trasformare i sogni in realtà. Cini-co a dismisura con i potenti o pseudo tali, refrattario come non mai alla mondanità, appassionato per un lavoro che era la tua stessa vita. E ironico. Perché non c’era nulla che non meritasse una risata. Niente o nessuno che non meritasse di diventare “vittima” di uno dei tuoi scherzi. Una persona speciale, un uomo capace di creare, un fedele servitore di due cose: la notizia e i lettori. Un maestro per tanti di noi. Ma soprattutto un uomo capace di ridere della vita. Fino alla fine. Ciao Francesco e grazieP.s. Una curiosità: ma oltre al caffè Lavazza, Lassù hai trovato anche la connessione?

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vIvo NeLLa SUa SQUadra

Piero Messina

Caro Francesco, non c’è tri-stezza, non c’è rammarico nel ricordarti un anno dopo. Con tutti i limiti della mia fragilità, provo a seguire il tuo esempio. Tu hai riempito la vita e il mestiere di gioia,

addentando voracemente ogni secondo, ogni at-timo che ti è stato concesso. Ed è andata come è andata perché comunque il tempo non ti sareb-be mai bastato. La tua presenza è ancora viva e costante, il "messaggio" scorre sulle lettere di-gitali che ogni giorno la tua squadra manda in rete. Una squadra di eccellenze, uomini e donne forgiati nella difficile arte di raccontare fatti e no-tizie. Di questa terra sapevi e comprendevi tutto. Il professionista, con la sua competenza e le sue conoscenze, dovrebbe lasciare un vuoto incol-mabile. Ma il vuoto non esiste. Così è ancora possibile verificare la tua presen-za, negli scritti politici di Sabella, nei pensieri di Puglisi, nei racconti noir di Reale e nelle analisi di Toscano. “Nulla di grave” ci hai detto nella tua lettera di commiato. Come darti torto? Oggi tut-to è più chiaro, perché se la carne è morta, le idee sono rimaste online. Ed è da questa prospettiva che voglio pensare ancora a te. Da una precisa visuale: quella di uomo che ha avuto il coraggio

di abbandonare una prestigiosa sedia, perché si era stancato di ruminare notizie sulla carta, e così tentare una sfida nuova, con regole diverse e rinnovati obiettivi. Antesignano di un giornalismo immateriale che rinuncia al mezzo per far diventare i fatti e le no-tizie il mezzo stesso, ti sei tuffato con coraggio nell’informazione liquida, senza mai trasfor-marla in informazione liquefatta. E non era faci-le. Oggi sono in molti a doverti dire grazie. E io con loro.

UN compagNodI ScorrIBaNde

Giulia Noera

Francesco era, prima di tutto, un mio compagno di scuola al liceo. Intra-prendente e brillante da sempre, ma comunque mai 'allineato' (come me, del resto!), aveva ottenuto il permes-so di farsi ospitare nel balcone della mia classe (lui era di un'altra sezione)

quando faceva i temi di italiano perché "Prof, da voi bat-te il sole ed io mi sento più ispirato". Era così, Francesco, cristallino, solare e con una risata disarmante. Diverso da tutti gli altri ragazzi. Con quella sua faccia da guasco-ne, naturalmente bravissimo in tutte le materie in cui il dono della scrittura e della parola poteva aiutarlo, un po' meno nelle altre, ma pazienza. Poi, dopo la maturità, per quattro anni ci perdemmo di vista, lui subito a scrivere, io invece all'università. Ci ritrovammo, infine, con la stessa passione fra le mani, lui già un giornalista quasi 'fatto', io invece una che ave-va bruciato le tappe, sempre affamata di esperienze differenti. E ci riconoscemmo. "I due folli", ci chiamava-no. Facevamo scorribande notturne in cerca di notizie di tutti i tipi, il giorno stavamo sempre in via Lincoln a scrivere (io al piano di sopra in televisione), il lavoro era il nostro divertimento, aspettavamo con ansia che 'il giornale' uscisse e di notte ci soffermavamo nei pressi della redazione, fra una chiacchiera e un cornetto, per prenderlo prima degli altri e vedere l'effetto che aveva il nostro articolo sulla pagina.

Era l'inizio degli anni '90. Non è durato moltissimo que-sto periodo fantastico, quasi un paio di anni, ma io temo di averlo dilatato nella mia mente, proprio per la bellez-za e la passione di quei momenti condivisi. Poi io sono partita per la Capitale, inseguendo sempre la mia voglia di cambiamento e ritornai dopo qualche tempo. Trovai Francesco già ai posti di 'comando', e mi propose di lavorare per lui come ufficio stampa. Chiaramente ac-cettai, e ci facemmo sempre un sacco di risate insieme. Ma eravamo destinati ad essere 'diversi': così lui mollò il giornale per dare inizio 'alla sua creatura' (così chia-mava I Love) ed io ripartii. Ero certa che il suo sogno di creare una redazione di gente curiosa e intraprendente, 'sopra le righe' e fuori dal coro, si sarebbe avverato. E così fu: I Love Sicilia (per il quale, tra l'altro, ho scritto anche io per un po' di tempo) e, in seguito, Livesicilia, diventa-rono un punto di riferimento importantissimo dell'edi-toria siciliana e non solo. Al mio rientro, le nostre strade lavorative non si incontrarono più, presi com'eravamo dall'inseguire i nostri piccoli grandi sogni, ma quando ci vedevamo, era come se non ci fossimo mai allontanati: eravamo rimasti i due compagni di scuola 'discoli' dei tempi passati. E continuavamo sempre a farci un sacco di risate prendendo in giro tutti, dal pulpito delle nostre 'follie' e della nostra felice diversità.

42 ILOVE 43ILOVE

La StoFFa deL Leader che Scommette SUI SogNI

Mariella Pagliaro

Mi chiedo se sia il tempo la misura della perdita, se gli anniversari sul calendario non siano semplicemente l'eco delle assenze di chi ci è caro. Forse più sempli-

cemente frammenti di noi viaggiano nell'etere in universi paralleli e fanno capolino in un sorriso, in uno sguardo, in un gesto di sconosciuti. Il ricordo di Ciccio è per me una via a Palermo. Via Rosolino Pilo dove al numero 11 c'è l'edificio di “I love Sicilia”. La attraversavo ogni mercoledì per an-dare alla vicina scuola di tango ed era il mio pen-siero gioioso. Ciccio, che da visionario coraggioso quale era, aveva messo su la sua impresa, il suo giornale, la sua squadra di giovani giornalisti pron-ti a seguirlo, lasciando la certezza di un posto fisso e un incarico di prestigio da vice caporedattore al “Giornale di Sicilia”. “Bravo Ciccio, che hai saputo scommettere sui tuoi sogni ”, mi dicevo tra me e me ogni mercoledì e sempre mi ripromettevo di chiamarlo per un caf-fè e due chiacchiere. Quante volte mi sono pentita di non avere composto il numero, quando non era troppo tardi. I mercoledì dopo il 10 gennaio sono il mio pensiero triste, quando riattraverso la stes-sa strada e rivedo l'elegante facciata a vetri con la

consapevolezza che non è più tempo. E ripenso a quante risate e frecciatine mi lanciava, quando a fine a turno, mi vedeva uscire dai bagni della reda-zione “allicchittata” per andare a ballare. Una volta gli ho anche fatto provare gli otto passi, primo co-dice dei tangueri. Lui ha sorriso: “Mi sa che verrò a ballare, prima o poi”. Il mistero della morte e della vita impone pudore e silenzio anche ai giornalisti che di parole viviamo o sopravviviamo. Con Ciccio abbiamo cominciato giovanissimi, ap-pena ventenni. L'età dell'incanto. Era il mio capo e lo era davvero perchè aveva la stoffa da leader: non aveva bisogno di alzare la voce o di rivendicare ruoli, semplicemente era rassicurante e capace. E umano. La sua umanità traspariva ben oltre l'ironia e il sarcasmo con i quali se ne andava in giro per il mondo. A me non l'ha mai data a bere. E a tanti altri. Ne sono certa.

paradIgma e paradoSSo

Gery Palazzotto

Un’assenza è vuoto e silenzio. E il vuoto e il silenzio quando si parla di informazione sono brutte bestie. Francesco Fo-resta non c’è più da un anno e sembra impossibile. Impos-sibile che non ci sia più, im-

possibile che sia passato un anno, impossibile che il mondo giri senza di lui. Ci sono spazi di vuoto e lande di silenzio nella no-stra informazione, dopo che lui se n’è andato. E non perché manchi il mestiere o latitino le professionali-tà, ma perché non c’è e non ci sarà mai più un altro come lui. I migliori, cresciuti sotto le sue ali di mae-stro giovane eppure navigato, sono quelli che cerca-no di muoversi nel solco da lui tracciato. I peggiori sono quelli che tentano di imitarlo tardivamente, confidando nella memoria corta dei lettori meno attenti. C’è differenza tra seguire e imitare: lui che seguiva un paio di grandi maestri ma non imitava nessuno, questa differenza la conosceva bene.Francesco era paradigma e paradosso. In principio non capiva nulla di web, di computer. E da furbo qual era non faceva nulla per mascherarlo, quindi chiedeva, si informava. Prendeva appunti con quel-la sua scrittura ordinata, mancina, e ogni consiglio lo assorbiva come fosse preziosa regola di vita. Fu così che diventò un innovatore: ascoltando gli altri, lavo-

rando sodo, concedendosi il lusso di sbagliare da solo. E rischiando. In tal senso era paradigma, mo-dello di riferimento: il prodotto Foresta era giornali-sticamente non replicabile e assurgeva a modello di riferimento non solo a Palermo e in Sicilia. Il suo innato senso della notizia lo guidava nell’olim-po del paradosso, sfidando i luoghi comuni con ef-fetti sorprendenti. Mentre il giornalismo popolare dei parrucconi dell’editoria siciliana scriveva ciò che pensava la gente, lui invitava i suoi lettori a pensare qualcosa di diverso. E quasi sempre ci azzeccava. Perché era un gran professionista convinto che nul-la è impossibile se solo si riesce ad alzare l’asticella delle nostre ambizioni. La punta estrema del suo senso pratico lo faceva sembrare cinico, ma era solo un modo per nascondere una bontà d’animo per la quale probabilmente provava imbarazzo. Era affet-tuoso di nascosto, ti aiutava di soppiatto, ti faceva un complimento facendo finta di parlar d’altro.E poi rideva, rideva di gusto. Più la situazione era im-probabile e più rideva, rideva dandoti manate sulle spalle. Ricordandoti che nel suo dizionario, “ridere” era “voce del verbo nonostante tutto”. Che anno inutile, quello che è passato.

44 ILOVE 45ILOVE

UN graNde Lavoroche NoN aNdrà perdUto

Vincenzo Paradiso

Perché manchi? A chi manchi?A me manchi.Caro amico dei pochi che si in-contrano in tutta una vita, sicu-ramente, il più vero.Solo un anno è passato da quan-do proprio in questi giorni ti di-

vertivi nel prendermi in giro raccontandomi di tut-te quelle persone che commentavano con malizia, quasi con piacere, il fatto che lasciavo la Sicilia.Tu, invece, ti apprestavi a lasciare questo mondo e non permettevi a nessuno commenti, umane com-miserazioni, continuavi a occuparti di tutto, macro scenari e piccole miserie siciliane, vita familiare e organizzazione dei tuoi ragazzi in ufficio, unica de-roga leggere insieme R. M. Rilke, poche rime, pochi minuti, ma quanta eternità.In una Sicilia impoverita e distratta, nell’ultimo de-cennio, hai rappresentato e sostenuto, attraverso gli strumenti che hai creato, riviste, sito web, luo-ghi di intrattenimento, un continuo e quotidiano momento di confronto e soprattutto di giudizio, spero con ragionevole certezza che tutto ciò non andrà perduto, anzi che troverà ulteriore impulso nelle persone che con te hanno condiviso in questi anni tutte queste esperienze. Oggi più che mai la nostra terra ha bisogno di svegliarsi di prendere in mano il proprio destino e di intraprendere nuovi

percorsi. Chi è rimasto lo faccia! Avrà la stima e il sostegno, in qualche modo, di chi se n'è dovuto, in ogni modo, andare.Nel luogo dove ci hai preceduto, caro amico mio, attendi con pazienza, aspettami, un sigaro, un rum per te, un whisky per me e un volume di poesie, non avremo bisogno di altro perché come dice Guccini:

….ci andremo di forza, senza pagare il fiodi coniugare troppo spesso in Dionon voglio mescolarmi in guai o problemi altruima a questo mondo ci ha schiaffato Lui.

E quindi ci sopporti, ci lasci ai nostri giochicosa che a questo mondo han fatto in pochi.Voglio veder chi sceglie con tanti pretendentitra santi tristi e noi più divertentiveder chi è assunto in cielo pur con mille ragionifra noi e la massa dei rompi coglioni

Ciao

La dIFFIcILe aLchImIaper eSSere UN capo

Salvatore Peri

Via Pilo, un weekend al desk del giornale in pieno inverno. Squilla il telefono e dall’altra parte dell’apparecchio c’è lui “Che dici pupo, tutto ok?”, “Sì direttore - rispondo io col ti-more malcelato di chi spera di

non aver combinato qualche errore marchiano - si procede come da memo”. “Ma quell’incidente l’ab-biamo messo? Ok, ti è piaciuto il pizzino che ti ho mandato stamattina (risatina)? Ricordati di mette-re il taccuino prima di chiudere”.Di Francesco Foresta, adesso che si fatica a credere che sia passato già un anno dacché non fa più par-te del nostro mondo, si celebra, giustamente, il suo indiscusso talento nella ricerca delle notizie che per molti, a prima vista, potevano sembrare banali o, più schiettamente, difficili da reperire, oppure la sua capacità di mantenere costantemente sulla corda, grazie a quella sua indefessa tempra da lea-der nato, un gruppo di grandi giornalisti. Per me, entrato a far parte della famiglia di Live-Sicilia come uno fra i tanti giovani carpentieri che aspirano ad imparare il mestiere da chi invece gua-dagna quotidianamente la pagnotta col proprio talento, la sua figura è stata cruciale sin dai primi passi mossi in quella realtà forte e dinamica. Le ore, i giorni, i mesi, gli anni possono però essere

riassunti in quella chiamata di pochi secondi de-scritta sopra. Perché essere a capo di una testata non vuol dire soltanto sbraitare ordini, pretenden-do efficienza dai propri dipendenti ma, al contra-rio, saper dosare dosi di fermezza e candore nel giusto mix, e Francesco questa alchimia altroché se sapeva applicarla alla lettera. Il giorno in cui scomparve mi trovavo nella stesso posto in cui ero solito ricevere le sue segnalazioni al telefono, lo stesso posto in cui, qualche anno pri-ma, proprio lui decise di mettermi. Difficilmente dimenticherò quel giorno in cui fui costretto a dare la notizia più brutta della mia giovane carriera, at-traverso quella che era la sua creatura professio-nale più riuscita. A volte mi fermo però a pensare come, con il suo incrollabile e contagiante umori-smo, sarebbe riuscito a sdrammatizzare anche una situazione di tale gravità: “Eh vabbè pupo non ti preoccupare, spicciati a pubblicare che bruciamo la concorrenza”.

46 ILOVE 47ILOVE

IL FaNcIULLINo dIetro Lo SBerLeFFo

Roberto Puglisi

Una volta Francesco mi dis-se: “Amo mia moglie, voglio bene ai cani e ai bambini”. “E non mi vuoi bene?”, gli domandai, sorseggiando un caffè alla torrefazione di Luca. Lui mi guardò, con un

ghigno di trionfo. Infine, esplose: “Tu mi fai schifo-ooooo!” (le 'o' sono effettivamente tutte quelle che pronunciò). Ecco, Francesco era così. Aveva certe uscite che pensavi di mollargli un cazzotto, o di af-fibbiargli un fendente di scimitarra alla Sandokan (dove si trovano le scimitarre al giorno d'oggi?). Però poi sorrideva. Allora capivi che dietro lo sber-leffo c'era un fanciullino, non molto pascoliano in verità, che si divertiva a prendere in giro il mondo. E non è che ci fosse bisogno di perdonarlo, però c'era l'urgenza di volergli bene. Sì, Francesco Fore-sta era così. Aveva un baule di motti salaci, di scher-zi gaglioffi, di battute al vetriolo. E sotto, ben nasco-sta, brillava una pepita d'umanità. Era in fondo un uomo fragile, Francesco: no, non ho detto debole. La fragilità sta sul lato opposto della debolezza, è la vera forza dell'amore e della vita che ha il pudore di mostrarsi, che un po' si vergogna della sua pre-ziosa magia. Francesco, per come l'ho conosciuto io, portava a spasso la sua bellezza con un vestito timido, da ragazzino. Non aveva paura di donarti

la sua generosità, tuttavia temeva la gratitudine, accettava l'affetto con parsimonia, indossava una corazza che lo proteggeva dai pugni, lasciandolo inerme davanti alle carezze. Quanti caffè abbiamo preso insieme, alla torrefazione di Luca, in via Ro-solino Pilo, dove c'è la sede di LiveSicilia. Quante volte siamo arrivati a un pelo dallo schianto fronta-le - “Roberto, hai un caratteraccio”, aveva il coraggio di dirmi – per scoprire che volevamo soltanto ab-bracciarci e che la presunta lite era uno stratagem-ma per farlo, senza apparire troppo sinceri, senza scoprire un centimetro di fragilità sotto la corazza. Un anno dopo, mi mancano quei caffè, quella sua camminata da pistolero dei magnifici sette, a gam-be larghe, sempre con la mano alla fondina, anche se una fondina non c'è mai stata. Quanto mi man-ca quel suo “mi fai schifo” che voleva dire “ti voglio bene, amico mio. Resta ancora un po' qui, accanto a me”.

L'eNergIa che NoN SI SpegNe

Alessia Randazzo

Il 10 gennaio 2015 furono in tanti, gior-nali blog e agenzie, a scrivere che si era spento. Francesco Foresta, spento. La grammatica, frasi come queste, le de-finisce ossimori. E non a torto. Non essendo una giornalista, una sua parente, un ex compagna di scuola e ne-

anche una millantata amica, io, Francesco Foresta, non sapevo neanche che faccia avesse. Avevo letto, come molti, i suoi articoli sul Giornale di Sicilia dove si era distinto fino a farsi notare da Indro Montanel-li. Per fare poi da padre al mensile I love Sicilia, alla rivista S e noto per aver traghettato i siciliani verso la lettura di un quotidiano on line, Live. Cose con le pampine. Un siciliano con un cervello di stazza in una terra di “testantallaria” .Una sera di dicembre dell’anno scorso, del tutto inaspettatamente, me lo sono ritrovata davanti il dr. Foresta, in una camera dove era degente e dove ero stata incaricata di recapitare una carezza a Donata, persona che individuare semplicemente come “la moglie”, mi sembrò subito riduttivo. Il dolore è una dimensione privata, che non va mai sfiorata né riferita. Credo tuttavia di poter affermare con probabilità prossima alla certezza che, in quei giorni, lo stato avanzato della sua malattia, le com-plicanze che stavano per scatenarsi e l’impotenza tatuata negli occhi dei chirurghi non lo impensie-

rissero minimamente. Lui non voleva separarsi da Donata, lasciare la sua orbita, questo c’era scritto in circa 30 battute ben visibili nei suoi occhi. Nessun at-teggiamento di maniera, nessuna posa snob, sorriso ampio e a tratti beffardo, tuta grigia, probabilmente molto dimagrito rispetto all’originale, animo naviga-to, profondo conoscitore di ogni umana fragilità. Si percepiva che così giovane, aveva già fatto la for-tuna di molti, grati e meno grati, che ammaestrava talenti come gli Orfei educano le tigri. Energetico, di un intelligenza élitaria, contagioso nella fiducia, brillante nello spirito.Francesco Foresta, spento. Così scrissero.Spento per chi soffriva troppo la sua luce, forse.Connesso, con 4 giga al mese, per quelli a cui prudo-no ancora i polpastrelli e che ci tengono a lasciare un segnale del maestro nelle sue creature, all’uscita dalle rotative o prima che passino per la fibra.Luce a basso consumo, per chi avrà il piacere di ri-leggerlo. Lume di candela, per chi saprà ancora ri-cordarlo intimamente. Luminaria a mille luci per la Sicilia che ha lasciato tanto orgogliosa di Lui.A LED, per lei. Perché, manco a farlo apposta! Lei E’ Donata, il dono che ha affidato a noi. Nel segno, solo luminoso, della continuità.

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IL coraggIo dI camBIare Sempre

Claudio Reale

La prima immagine è una sugge-stione: le luci al neon di via Lincoln 21, l'ora di cena, 'sto tizio capelluto che tutti chiamano Commissario con un foglio in mano. Antipatico, perché non è che Francesco faces-se di tutto per mettere a suo agio

un ragazzetto troppo timido. Contiene, quel foglio, le trenta righe che a quel punto credevo di sapere già scrivere sull'intervento a un convegno di un ex pm di Mani pulite. “Pupetto – mi fa, usando una paro-la che più tardi imparerò a riconoscere – 'sto pezzo parla solo di cose di dieci anni fa, non serve a nien-te”, e “niente” è, ovviamente, solo una perifrasi delle parole reali. “Metto le agenzie – mi attacca – così la prossima volta fai finta di essere un giornalista”.La seconda immagine è sulla stessa scena. Adesso Francesco Foresta lo conosco bene, lavoro con lui da anni e subito dopo uno sciopero che ci ha visti su fronti avversi mi ha appena stupito: non ostilità, ma la richiesta di scrivere per la sua creatura, “I love Sicilia”. Nella sua stanza al Giornale di Sicilia c'è un altro foglio di carta, un altro pezzo. Stavolta si parla di cose recenti, eh? Non va bene: “È grigio, da quoti-diano. Non fa sognare, non serve a un mensile”. Fai finta di sapere usare le parole.L'ultima scena è in un'altra sua stanza. È un lunedì mattina, “I love Sicilia” è già diventata grande e una

copertina sulla mafia ha appena registrato il tutto esaurito. Con me ci sono Salvo Toscano e Roberto Benigno, e l'idea di Francesco è dare vita a una nuo-va pubblicazione. Un instant book, in prima battuta, poi un settimanale, poi la proposta definitiva: un mensile, quello che diventerà il più letto in Sicilia. Sono, come quasi sempre, un bastian contrario: non è meglio, non ha più senso aggiungere contenuti alla rivista che già c'è, invece di farsi concorrenza da soli? Perché cambiare qualcosa che funziona? Sarà la storia a darmi torto. Qualche settimana fa, quando Francesco era già morto da mesi, un collega che ha iniziato da noi e poi è diventato un grande giornalista mi ha fatto una domanda a bruciapelo: “Qual è la cosa più impor-tante che hai imparato da lui?”. Ci ho riflettuto un po', ma neanche troppo: la lezione, in fondo, è chia-ramente che quando hai imparato a fare una cosa, quando credi di averla capita, è già diventata noiosa, banale, prevedibile. Che il nostro è un mestiere ripe-titivo, con la routine dietro l'angolo, e quindi l'unico antidoto possibile è cambiare tutto, cambiare sem-pre. Facendo finta di, o più probabilmente avendo il coraggio di, essere un giornalista.

IL corrIere deL paradISo

Alessio Ribaudo

Intorno alle 15, per circa dieci anni, sul-lo schermo del mio telefonino appariva un numero: 336892... L'attesa era come quella immaginifica dei bimbi che san-no di dover entrare al circo, entro pochi minuti, a vedere gli animali esotici. Per me, invece, si trattava puntualmente di

capire chi dovevo intervistare quel giorno. Mi chie-deva sempre personaggi "facili": il sindaco di Mila-no, il procuratore capo, il ministro, ecc. Quando mi andava bene mi chiedeva un pezzo con molti vir-golettati dove occorreva la rubrica della batteria del Viminale. Se gli facevo notare che era impossibile, la risposta era: "Alessiù camurria, pupetto, proprio tu non mi puoi tradire". A quel punto iniziavo a in-sultarlo: " Tu non dovevi essere assunto ma scrittu-rato se volevi uno fedele non dovevi chiamare me ma il 112". Ridevamo, sempre, mentre i suoi telefo-ni squillavano all'impazzata. Ho spesso sospettato, a buon ragione, che mentre mi chiamava - piedi sulla sua scrivania sgombra e ordinata come un tavolo chirurgico - avesse davanti qualche "com-pagno di merende" con cui avevano sghignazzato sino a qualche istante prima: "Chiamiamo Ribaudo a Milano e gli chiediamo di intervistare Borrelli che quello ci ammucca sempre". Così iniziava il mio pomeriggio di "passione". Sapeva perfettamente che alle 19 l'avrei richiamato: "Il titolo è questo ma

ora devi trovarmi almeno 60 righe!". Ciccio rideva sornione. Ecco, se chiudo gli occhi e penso a lui, lo immagino così: sorriso sulle labbra e telefonino incorporato all'orecchio. Proprio come in una foto scattata da Tullio Puglia nel piazzale antistante San Siro prima di un Inter-Palermo di qualche anno fa. Nelle settimane precedenti, ogni santo giorno che Dio mandava in Terra, mi diceva: "Alessiù vedi che se per Donata trovi un biglietto scarso significa che non conti niente a Milano". Alla fine della partita i nostri sguardi si sono incrociati e non scorderò mai la sua felicità perché Donata si era divertita "respirando" l'erba del "Meazza". Poi, una stupida incomprensione ci aveva allontanato. Un amico comune, capendo che lui stava perdendo l'uni-ca partita della sua vita mi ha telefonato: metti da parte l'orgoglio e fate pace. C'ho messo un attimo e mi dispiace molto non averlo saputo prima. Ora, io non so se esiste "Il Corriere del Paradiso" ma se esiste sono certo che Ciccio starà pensando come titolare questo mio ricordo e, sorridendo, starà im-precando: "Pupetto dovevi proprio raccontare an-che questo retroscena? Sei una camurria con que-sta mania delle esclusive". Del resto, me lo ripetevi sempre: "Ogni riga una notizia". Ciao Ciccio.

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UN metodo vINceNte

Gianluca Rubino

All’inizio fu un rapporto alla lontana. La prima settimana neppure mi rivolse la parola. Poi, gradualmente, cominciò a chiedermi, a mandarmi in giro, a informarsi su di me. E per qualche giorno si convinse

che mi chiamassi Iacona. Ne fece un tormentone ur-lato alla sua maniera, utilizzato per punzecchiarmi quando voleva di più. Mi fece girare come una trot-tola durante la campagna elettorale per le comunali del 2012. Una quarantina di conferenze stampa in un mese e mezzo. Mi mandò ai cortei, mi fece spe-rimentare la nera, la bianca, la politica regionale, mi diede una telecamera in mano con l’ordine di non tornare sino a quando non avessi avuto in mano una notizia. Poi mi affidò il desk della pagina di Palermo, a cui teneva in maniera particolare. Per me era tutto nuovo, dopo un incipit di mestiere dedicato mera-mente allo sport. Ovvero, una delle tante passioni di Francesco. Proprio dallo sport è partito il suo straordinario per-corso professionale e sempre lo sport è stata l'ultima creatura, in ordine di tempo, che ha lasciato in ere-dità a un giornale nato come una scommessa e tra-sformato in pochi step nel quotidiano di riferimento dell'Isola. Dallo sport allo sport, per l'ideale chiusura di un cerchio al cui interno brillano innumerevoli

successi. E allo sport mi riportò, dopo alcuni anni dedicati a tutt’altro. Durante la prima riunione della neonata redazione sportiva, Francesco espresse un desiderio: quello di narrare l’agonismo regionale in maniera non convenzionale. "Dobbiamo raccontar-lo a modo nostro", ripeté a più riprese. Da qui l'idea di dare voce non soltanto al calcio, ma anche a ba-sket, volley, nuoto, pallanuoto, rugby, auto, moto, ciclismo, tennis, atletica, calcio femminile, calcio a 5 maschile e femminile, boxe. E a tante altre realtà ingiustamente considerate di serie B. Senza lasciare indietro niente e nessuno. Storie di passione, di appartenenza, di obiettivi rag-giunti per merito di un impegno quotidiano mai venuto meno. Storie di siciliani come lui. Un uomo autentico, costantemente animato dal bisogno di scovare, scavare e riportare in maniera altrettan-to autentica ogni dettaglio. Chiedersi, domandare, scoprire, valutare, scrivere, divulgare, e poi magari riderci sopra: credo fosse questo il metodo indivi-duato da Francesco per lasciare la propria impronta in un mondo spesso alla ricerca di un’originalità di facciata, sino a sconfinare nella banale forzatura. Un metodo rivelatosi vincente, che non smette di fare scuola. Ciao, direttore.

UN gIorNaLISta LIBero

Pippo Russo

Eravamo entrambi giovani quan-do ci siamo conosciuti, Fran-cesco ed io, all'alba della mia esperienza politica con la Rete di Leoluca Orlando, nel lontano 1989. A seguire, ci fu il periodo terribile delle stragi di mafia, e

anche allora esisteva una immensa questione mo-rale con una moltitudine di deputati siciliani inqui-siti. Era tutto così maledettamente straordinario, nella sua tragicità da un lato, con i martiri massa-crati da Cosa Nostra, e immoralità dall'altro, con le vergogne di una cattiva politica da cui non riuscia-mo a liberarci, da essere stati costretti a crescere in fretta. Francesco da cronista attento, curioso, originale, io da politico ai primi passi, provenien-te dal volontariato, convinto di potere cambiare il mondo. Ci sentivamo spesso, eravamo al fronte, non sempre andavamo d'accordo, ma certamente si era creato tra di noi un clima di reciproco rispet-to e di stima, divenuta affetto, rimasto immutato. Ci riconoscevamo uniti dai medesimi valori non negoziabili, ognuno nel proprio ruolo. Poi è iniziata l'affascinante avventura di I Love Sicilia e di Livesicilia, un'ulteriore sfida. Non mi meravigliai della “sfrontatezza” con cui aveva ab-bandonato comode certezze economiche e di carriera per dare corpo al suo sogno: esplorare

nuovi orizzonti facendo il suo lavoro, in piedi, mai piegato. Era allergico alle lusinghe del Palazzo. Lui si sentiva un giornalista libero e libero voleva rimanere, magari rifiutando, se questo era il con-to da pagare, prebende e contributi pubblici. Era a servizio dei lettori, non dei potenti di turno cui non faceva sconti. Ancora oggi non mi rassegno alla sua innaturale mancanza. Mi sorprendo spes-so a pensarlo, ricordando la sua dedizione, la sua straordinaria generosità camuffata da falsa rudez-za, la convinta disponibilità nei miei confronti. Mi consola la certezza che lui è vivo. Non me lo dice solo la fede, me lo dice pure la grande eredità di in-novativo e coraggioso giornalismo che ha lasciato. Me lo dice l'amore sempre vivo della sua Donata. Me lo dicono i bravissimi giornalisti di Livesicilia, adesso diretti da Giuseppe Sottile, uno dei maestri di Francesco, che continuano a lavorare come se lui fosse fisicamente in redazione, accanto a loro con il suo accattivante sorriso di monello impeni-tente. Grazie Francesco, grazie per tutto.

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UN Uomo daI mILLe coLorI

Accursio Sabella

“Pupo metti una cravatta e va’ all’Ars. Ma se non tro-vi dieci notizie non ti ri-presentare qui”. Fu uno dei compleanni più im-portanti della mia vita. Uno dei più nervosi, cer-

tamente. Per quel nodo a cui non ero abituato, per la confusione che facevo ancora tra Palazzo d’Orleans e Palazzo dei Normanni, per quella richiesta giunta dal mio direttore. Quel pazzo di Francesco Foresta che il 15 giugno di qualche anno fa, pescò dal maz-zo della mia redazione la carta del più inesperto, in-vestendolo di un compito fuori portata: “Da oggi sei un cronista politico”. A pensarci bene, quello è il più grande regalo che abbia mai ricevuto. Perché se un aspirante giornalista potesse esprimere un deside-rio, uno soltanto, non dovrebbe avere alcun dubbio: incontrare qualcuno che creda in lui. Soprattutto quando non c’è alcun motivo per farlo.Anche questo era Francesco Foresta. Anche. Per-ché Francesco era tante cose. Che spesso riusci-vano a trovare posto in una sola giornata. Di cui tu avvertivi subito il colore, la mattina, dal suo fischio all’ingresso in redazione e dalla temperatura del suo sguardo. Quando la giornata era nera, lo capivi subito. Ma Francesco era uomo dai mille colori. Che cambiavano tra una riunione e l’altra. Tra cazziate

furibonde che volgevano in risate cameratesche. Tra confronti durissimi che in pochi minuti, lascia-vano il posto a scherzi per il malcapitato di turno.Se di questo lavoro ho imparato qualcosa, me l’ha insegnata lui. Ci incontravamo la mattina. Ci la-sciavamo la sera. Spesso molto tardi, al telefono, in qualche occasione speciale in cui chiedeva: “Pupo, novità?”. Lui amava le novità. Viveva per le novità. Amava sorprendersi e sorprendere, quel pazzo di Foresta. Lo ha fatto fino all’ultimo. E non mi riferi-sco alla lettera lasciata per il suo funerale. Chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo lo ha ritrovato interamente, e vivo, in quello sfottò alla morte. No, non parlo di quel giorno. Parlo di qualche giorno prima. Parlo di me e di lui. Il 2015 era entrato da poco, quando ormai sfinito, volle sorprendermi per l’ultima volta. La prese larga, avvisandomi (come fa-cesse, non l’ho mai capito, specie da un letto, a pochi giorni dalla fine) che qualcosa “bolliva” in commis-sione bilancio. Poi le sue parole cambiarono aspetto. Per la prima volta, in tanti anni, mi apparvero nude. Francesco era andato a pescare ancora una volta nell’inedito. Nell’inaspettato. Tirando fuori dopo tanti anni le parole che non mi aveva mai detto. Le ultime, ovviamente: “Pupo, ti voglio bene”.

UN SegNo proFoNdo

Loredana Santangelo

Un foglio bianco, pensieri che si affollano. Non trovano ordine, incastrati e dispersi tra mille altri che, sovrap-ponendosi e sedimentan-dosi, hanno poco per volta celato, offuscato, confuso.

Quando pensi di aver superato quel nodo che ti stringe la gola, che non ti consente di parlare sen-za che ti si annebbi la vista, quando riesci a ricor-darlo come voleva, con un sorriso sulle labbra, ecco che succede qualcosa che ti fa rivivere un momento che credevi dimenticato per sempre. Una luce e tutto riemerge all'improvviso. Una luce accesa, in quella stanza dove fatichi ad en-trare perché colma di assenza. La stanza che re-stava sempre accesa, segno di un lavoro febbrile, incessante, che non conosceva limiti e orari, che teneva il passo con il ritmo incessante delle noti-zie dell'ultimora, dove ci si incontrava, si discu-teva, si rideva e si dibatteva, tra lunghe riunioni, incontri e scontri che portavano sempre ad una nuova, entusiasmante attività. Nel segno di una "visione" che man mano si andava delineando, ma che non riuscivi a comprendere appieno, se non al raggiungimento dell'obiettivo, che poi si rivelava sempre un nuovo inizio. La squadra di-scuteva, si opponeva talvolta, si consolidava e si

divideva, per poi seguire all'unisono il proprio "capitano", certa della forza che lo animava. Man mano che il disegno prendeva forma, si andava modificando, aggiustando, correggendo, per passare poi al progetto successivo, animato da un nuovo, energico entusiasmo. Quella luce d'improvviso si è spenta. Troppo presto e troppo in fretta per riuscire a consenti-re di trovare una chiara indicazione sulla nuova strada da seguire. Quella stessa luce, che credevi persa per sempre, viene ritrovata, un giorno, così per caso. Poco per volta tutto riprende forma, trovando un nuovo senso nel solco del passato. Perché ciò che era ha lasciato un segno così profondo da non poter essere cancellato. Solleticando appena la super-ficie del tempo, si può riscoprire e riabbracciare con quell'energia che si era persa tra le lacrime di un dolore inaspettato.

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Lo Scherzo è rIUScIto

Gaetano Savatteri

Pupetto, una volta ti ho visto da lon-tano all’aeroporto di Fiumicino. Ma non eri tu. Prima dell’estate, mi è sembrato di riconoscerti lungo il Decumano dell’Expo, perché la tua camminata è inconfondibile, ma non ce l’ho fatta a raggiungerti

perché sono stato bloccato da uno scocciatore che voleva mandarmi il manoscritto di un suo romanzo. A Palermo sono stato a una festa di amici comuni, ma tu eri appena andato via. La verità, pupetto, è che da un anno sento sempre parlare di te. Eppure, non so perché, non riesco più a incontrarti. Quando passo dalla redazione di via Rosolino Pilo, mi dicono che sei in riunione oppure fuori per un appuntamento. Non ti ho visto nemme-no quel giorno – ed eravamo tanti, e tutti parlavano di te e molti piangevano e alcuni ridevano parlando delle tue battute – quando a villa Filippina ci siamo ritrovati a sentire l’ultimo pezzo che avevi scritto, dove avevi una carezza e una sberla per ciascuno.È successo pure che qualche volta mi è venuta una buona idea per un articolo, allora ho provato a chiamarti. Ho aspettato in linea il tuo proverbiale “Pupetto, che dici?” – pupetto era il nostro modo di chiamarci, identità di una feroce scuola di mestiere al Giornale di Sicilia dei nostri primi anni – ma non

rispondevi mai. Si è fatto importante, pensavo, e con una certa stizza chiudevo la chiamata. Chiamavo al-lora Peppino Sottile o Salvo Toscano o Claudio Re-ale che seppure incasinati rispondono sempre, no come te che mandi un messaggio tre giorni dopo. Ma nemmeno messaggi hai mandato.E allora, pupetto, mi sono fatto una convinzione. Sic-come anche altra gente mi ha detto che da un po’ non riesce a vederti né a sentirti, eppure dappertutto ci sono premi dedicati a te, politici che parlano di te, appuntamenti pubblici che si aprono con le tue foto e le tue frasi, mi sono fatto persuaso che ci stai tiran-do il più grande scherzo mai organizzato. A pensarci bene, è abbastanza nel tuo stile. Dopo tan-ti anni passati a stare dietro le quinte, a fare il regista di iniziative editoriali, a scovare firme e trovate giornali-stiche, ma con la discrezione di chi non amava stare sulla home page o nei talk show televisivi, hai messo in piedi questa genialata. Hai fatto finta di scompari-re perché tutti potessero chiedersi: hai visto pupetto? Ma dove si è nascosto? Ma perché non si fa vedere? Certo, qualcuno si è offeso, ritenendo che gli avessi tolto l’amicizia. Uno di cui non faccio il nome, l’altro giorno mi ha detto: “Sai, non me l’aspettavo da Fran-cesco Foresta. Gli ho mandato tre mail con il mio curriculum per collaborare a Livesicilia e nemmeno mi ha risposto con una frase di circostanza”. Ho do-

vuto difenderti, spiegare che non sei il tipo da frasi di circostanza. “Vedrai, prima o poi ti chiama. È solo questione di tempo”.Ora, pupetto, se tu fossi un erudito, che non sei, po-trei immaginare che ti sia ispirato a Elena Ferrante, la scrittrice senza volto che scala le classifiche o, an-cor meglio, a J.D. Salinger, l’autore del Giovane Hol-den, che a trentasei anni cominciò a nascondersi dal mondo, finendo per non mostrarsi più in pubblico né a pubblicare nuovi romanzi. Ma tu sei pupetto, e quindi fai le cose a modo tuo. Non credo che la tua sia una mossa pubblicitaria o un attacco di misan-tropia, ritengo piuttosto che sia la più grande presa per il culo che stai tirando ai tuoi amici, colleghi e a tutti quelli che ti vogliono bene.Certo, sarebbe bello capire perché lo stai facendo. Ma un giorno ce lo spiegherai, perché lo scherzo è bello quando dura poco. Spunterai da qualche par-te – magari a una festa, a una cena, al gate di un ae-roporto o a un aperitivo a villa Filippina, con la tua camminata sulle punte, il sorriso guascone – e come se niente fosse, con quella faccia da impunito, dirai: “Cucù, chi lo vuole? Eccolo qui”. Non ti offendere se quel giorno reagirò male, magari ti tiro una timpulata sul cozzo o una pedata nel se-dere, perché i tuoi scherzi hanno la capacità di fare saltare i nervi a tutti. E infatti quel giorno di un anno

fa avevamo tutti i nervi a fiori di pelle mentre tu face-vi leggere a quella vittima di Salvo Toscano – vittima o complice? Ormai diffido di chiunque – i tuoi appa-recchiamenti per l’aldiqua e l’aldilà. Mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente? Rispetto ai dubbi di Nanni Moretti in Ecce Bombo tu hai fatto molto di più. Da un anno organizzi feste e incontri dove tutti parlano di te, ma tu non ci sei mai. Da un anno fai pubblicare pezzi su di te – e ora perfino questo libro – promettendo di essere presente, ma all’ultimo momento trovi una scusa per mancare l’appuntamento. Pupetto, mi sono un po’ stancato di questa storia. Non sei più un ragazzino, ormai hai cinquant’anni anche se, a differenza di noi, non invecchi mai. Mi sono scocciato di questi capricci. Lo scherzo è riu-scito, va bene: ora puoi uscire fuori. L’altro giorno ti ho visto da lontano a Roma, davanti alla gelateria Giolitti: stavi con qualcuno che non ho riconosciuto, poi mi è passata davanti una comitiva di turisti giapponesi e ti ho perso di vista. Ti è andata bene, perché la prossima volta che ti acchiappo, giu-ro, te la faccio pagare.

Un giorno spunterai da qualche parte, magari a una festa o al gate di un aeroporto,con la tua camminata sulle punte, il sorriso guascone e come se niente fosse, con quella faccia da impunito, dirai: “Cucù, chi lo vuole? Eccolo qui”

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La mIa teSI per LUI

Alan David Scifo

Sembra assurdo ma non ho mai co-nosciuto di persona Francesco Fo-resta. Arrivando in un momento in cui la situazione sarebbe precipi-tata da lì a poco, ho avuto pochis-simo tempo a disposizione per far tesoro di una persona con la quale

riuscii a parlare soltanto a telefono. Nonostante ciò ho pian piano scoperto (troppo tardi) cosa c’era dietro quell’uomo e quel grande giornalista, documentandomi come si fa dopo essere venuto a conoscenza di uno scrittore del quale è possi-bile leggere soltanto le sue opere. Come quando conobbi le canzoni di Rino Gaetano solo quan-do era morto, scoprendo in lui un precursore dei tempi, così cominciai a rivedere le interviste di questo uomo che ha cambiato il giornalismo, a leggere i suoi articoli a farmi raccontare da colo-ro che lo avevano conosciuto bene, da coloro che con lui avevano litigato chi era Francesco Foresta, scoprendo che se è morto è solo perché era già avanti cento anni con le sue idee. I più grandi non muoiono mai, ma vivono nel mito e nel ricordo che gli altri avranno ancora di loro per sempre. La sua vita fu per me così grande che gli dedicai la tesi di laurea, facendo nel mio piccolo un piccolo passo per imprimere su carta ciò che è stato Francesco Foresta. Sembrerebbe

retorico dire che è stato un uomo che ha dato vita a qualcosa di grande, ma niente è quanto di più vero di queste parole: a vivere per lui sono adesso le sue idee, i suoi allievi e quelli che ancora ver-ranno, io compreso, che vedo in lui il motivo per non smettere di lottare in un mare così tempesto-so qual è il mondo del giornalismo. Se dovessi descriverlo in una parola direi sorpren-dente, un aggettivo che ben si addice ad ogni ope-ra da lui compiuta, compreso il suo funerale, dove tra le lacrime è riuscito a strappare sorrisi sui volti scuri di coloro che più lo amavano. Sorprenden-te, come la sua vita e il suo amore per Donata. Lo ricorderò con il sorriso, con quel sorriso ironico che caratterizza le sue foto, portandolo sempre nel cuore.

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La SmISUrata FIdUcIa NeLLa NotIzIa

Giuseppe Sottile

Certo, avremmo dovuto trasfor-mare il nostro amatissimo Livesicilia nel primo giornale della Sicilia, forte e invincibile come un eroe della mitologia greca, intransigente e disarma-to come un profeta dell'Antico

Testamento. Ce lo aveva chiesto lui, Francesco, nei giorni più atroci della nostra amicizia, quando la morte lo aveva già artigliato per il collo e aveva chiuso le porte a ogni speranza. Ce lo aveva chiesto senza mai cedere alla rassegnazione nè alla dispe-razione. Anzi: furbescamente e amorevolmente spalmava sui nostri discorsi quel suo sorriso sbi-lenco, fatto per metà di gioia e per metà di pianto, con il quale puntualmente appannava ogni tristez-za e ogni malinconia.Ci aveva chiesto tante cose Francesco Foresta, giornalista di raffinato mestiere ed editore di bril-lanti intuizioni, strappato un anno fa ai suoi affetti, ai suoi sogni, alla sua giovinezza, alle sue legittime ambizioni. Ma ci aveva chiesto soprattutto di tener-ci lontani dalle arroganze, dalle presunzioni e dalle placide infamie che giornali e giornalisti spesso fi-

niscono per portare dentro ogni racconto, dentro ogni storia, dentro ogni fatto di cronaca. Professionalmente Francesco veniva da una gran-de scuola di libertà: mal sopportava le velleità dei cronisti che credono di avere capito tutto il bene e tutto il male del mondo; e, conseguentemente, si guardava bene dall'impartire fumose lezioni sull'obiettività dell'informazione o su quelle stuc-chevoli geometrie dell'equilibrio che, secondo i venerati maestri del quieto vivere, dovrebbero so-vrintendere alla pura e semplice narrazione delle cose che accadono. Più semplicemente si limitava a manifestare una smisurata fiducia nella notizia, elemento primario e insostituibile del nostro lavo-ro, e una naturale ripugnanza per quella banalità che, di fronte alla durezza di certi avvenimenti, rie-sce a trasformare ogni interrogativo in un pensiero comodo per chi scrive e altrettanto comodo per chi legge. Era forse per questo che prima di mo-rire ci aveva pure chiesto, e Dio solo sa con quale insistenza, di non anteporre le nostre certezze ai dubbi degli altri e di non lasciarci mai incantare dalle formule magiche - come rivoluzione, come antimafia, come società civile - dispensate a pie-

ne mani, particolarmente in Sicilia, dagli impostori della politica e dai moralizzatori senza morale. Ci aveva chiesto tutte queste cose, Francesco Foresta. E ce le aveva chieste con il tono e lo sguardo di chi cerca in fondo alla strada un balsamo per alleviare il dolore di una sofferenza maligna o per allontana-re la pena di una fine beffarda perché improvvisa, perché impietosa e immatura.Per un anno noi siamo stati qui, senza di lui. Ma non siamo ancora in grado di dire se abbiamo mantenuto fede a tutte le promesse, se le nostre parole sono state scritte sull'acqua o sulla pietra, se abbiamo ricondotto in porto tutte le navi che lui aveva spinto coraggiosamente nei mari più alti. Abbiamo però la coscienza di avere fatto, con la decenza delle nostre forze, tutto quello che c'era da fare. Non ci sarebbe stato altro modo, del resto, per rendere onore alla sua memoria. La morte di un amico, ci ricorda il libro delle nostre mestizie e dei nostri rimpianti, si sconta solo vivendo.

Per un anno noi siamo stati qui, senza di lui.

Ma non siamo ancorain grado di dire

se abbiamo mantenutofede a tutte le promesse.

Abbiamo però la coscienzadi avere fatto

tutto quello che c'era da fare

60 ILOVE 61ILOVE

L'atteNzIoNe per Le perSoNeIN cUI credeva

Melania Tanteri

Penso a Francesco, il direttore, ogni mattina quando entro in redazione. Anche se oggi stiamo in un posto diverso da quello che, ormai più di tre anni fa, ci ha visto nascere, uniti e raccolti intorno a lui.

Che c’è sempre stato per noi. Quando chiamava, la mattina, per rimproverare o per dirci bravi, o per fare il punto, e rispondevo io al telefono, mi dice-va che ero la sua preferita. Io lo sapevo che non era vero, ma in quel momento mi sentivo felice, “la sua preferita”. Mi sentivo valorizzata, fortunata. Quest’uomo aveva scommesso su di me. Lui, un grande giornalista, un grande professionista, aveva visto in me qualcosa, e io di questo lo ringrazierò sempre. Quando non c’è stato più, quelle parole hanno iniziato a mancare, come se le avessi sen-tite tutta la vita. “Melaniuccia, tutto bene”?, diceva con quel suo inconfondibile accento palermitano. “Avanti che sei la mia preferita”. Anche quando il tono della comunicazione era diverso – e a ben donde, date le corbellerie che ogni tanto ho com-binato – la telefonata terminava sempre con una battuta, uno sfottò, un sorriso. Sono in debito di riconoscenza verso Francesco, e lo ringrazio ogni volta che firmo un articolo. Ogni volta che mi sforzo di fare il meglio di quello che

sono in grado di fare. Perché lui mi ha insegnato questo. Mi manca il direttore. Mi mancano i suoi memo mattutini, le cazziate – quelle mancano un po’ meno, in effetti, ma mancano. Ma soprat-tutto mi manca la sua voce, l’attenzione che aveva per noi, per la sua squadra, per le persone in cui ha tanto creduto. Prima di conoscerle e poi dopo averle conosciute. Come ci ha sempre stimolato, incoraggiato, rimproverato e coccolato, sapendo perfettamente quale fosse il suo ruolo. Facendo di noi quello che siamo oggi. Creando questa famiglia allargata che da Palermo a Catania continua ad an-dare avanti. Un anno è passato e manca ancora tanto, come se lo avessimo salutato ieri, come se quel magnifico e indimenticabile funerale fosse solo argomento di una riunione di redazione.

BattUte e cazzIateda vero capo

Elvira Terranova

“Bionda, ma mi spie-ghi come ci è finita in questa gabbia di matti una che è nata e cresciuta in Ger-mania. Tira fuori le unghie e inizia a cer-

care notizie. Altrimenti te ne torni in Germania. Ora corri e portami notizie". Io sgranai gli occhi e mi limitai appena ad annuire timidamente. Lo salutai e andai via. Ecco il mio primo impatto con Ciccio. Lui era fatto così. Ti spronava fin da subito a dare il meglio di te. Ti metteva alla prova. E si diver-tiva a metterti in difficoltà. Il modo migliore per im-parare questo mestiere. Ma questo l'ho capito solo dopo qualche anno. Ti stava con il fiato sul collo. Se non portavi la notizia, ti faceva un cazziatone sen-za alzare la voce. Non ne aveva bisogno, lui. Era la fine del 1991 e io avevo appena vinto, a 21 anni, la borsa di studio 'Antonella De Stefani' del Giornale di Sicilia. Il mio primo impatto con la redazione fu terribile. Non conoscevo nessuno ed ero intimi-dita davanti a quella mastodontica macchina che era la redazione del 'Sicilia'. Fu lui a presentarmi tutti i colleghi in redazione. Mi accompagnò e per ognuno di loro aveva una battuta pronta, alcune delle quali irripetibili. Non era tenero, Ciccio, no. Quando prendevo un 'buco' o scrivevo qualche

corbelleria, era capace di farti sentire piccolo pic-colo. Ma poi ti spiegava come scrivere una notizia, come evitare errori in futuro. Come fanno i veri capi. Io lasciai nel 1997 il Giornale di Sicilia perché fui assunta in un quotidiano piccolo, 'Oggi Sicilia' si chiamava. Ero indecisa se accettare perché volevo restare 'a casa mia', al Giornale di Sicilia. Andai da lui e gli chiesi cosa fare. E Ciccio, anche quella vol-ta, fu molto pragmatico. E affettuoso. "Elvira, tu hai stoffa, vai, fatti assumere e cerca di farti valere. Te lo dico da fratello". E così feci. Poi se ne andò anche lui dal Giornale. Ma i nostri rapporti continuarono ad essere sempre affettuosi. Quando, nell'estate del 2014 seppi della sua malattia non riuscivo a crederci. Ma ero convinta che potesse farcela. Di-cevo che lui non poteva andarsene. Purtroppo è accaduto. Come è successo, poi, pochi mesi dopo, alla mia migliore amica, una brava collega, Cristia-na Matano. Ciao, Ciccio. E grazie di tutto. Anche delle tue cazziate.

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IL maeStro che Sapeva aScoLtare

Salvo Toscano

A me non sembra che sia pas-sato un solo anno da quando Francesco se n'è andato. Il tempo trascorso da quando non lo sento più ogni giorno mi sembra molto più lungo. Ma allo stesso modo anche gli

anni vissuti fianco a fianco, quotidianamente, prima in via Lincoln e poi immersi nella grande avventura cominciata con I love Sicilia, anche quelli mi sem-brano più numerosi di ciò che effettivamente fu-rono. Forse perché li abbiamo vissuti sempre a un ritmo indemoniato. Il suo ritmo. Quel passo da fuo-riclasse che era difficile tenere. Quanta fatica a starti dietro, Commissario.Troppe cose si affollano nella mente quando penso a Francesco. Mi è impossibile parlarne con la lucidi-tà e il distacco che un articolo imporrebbe. Rileggo incredulo quello che scrissi nei giorni della sua mor-te, un anno fa, su Livesicilia e I love Sicilia. Allora ci riuscii, malgrado le lacrime e gli occhi gonfi. Oggi, un anno dopo, paradossalmente mi riesce più difficile. Quasi quanto fu difficile leggere la sua ultima lette-ra a Villa Filippina quella mattina di gennaio di un anno fa.Mi manca la forza di Francesco. Quelle sue spalle larghe che ti davano un senso di sicurezza. Quel suo brio guascone, antipatico a volte, ma antipatico da

spaccargli proprio la faccia, pure quello mi manca. Mi manca quel suo amore contagioso per il giornali-smo, amavo e ammiravo la sua capacità di trasmet-tere entusiasmo per questo mestiere, l'efficacia del suo esempio che ti faceva capire quale privilegio sia fare davvero il nostro lavoro. E poi mi manca la no-stra amicizia. Che era l'amicizia di due persone com-pletamente diverse, quasi agli antipodi, che però te-nevano tanto l'uno all'approvazione dell'altro. Lui, il maestro, visionario, folle e affamato. Io, l'allievo, ma più prudente e riflessivo, “la mia coscienza” mi chia-mava, quando cercava la mia approvazione per l'ul-tima trovata del momento. E chiedeva consigli. Lui che mi aveva insegnato più o meno tutto di questo mestiere. Anche lì stava la sua grandezza. Quella che non aveva bisogno di ostentare, che non necessitava pose, perché era lampante e sotto gli occhi di tutti. Pure sul suo funerale mi chiese un consiglio negli ultimi giorni. Mi strappò anche in quell'occasione una risata, colma di tenerezza. Gliene fui molto gra-to. Gli sono grato per un sacco di cose. Ho un baule colmo di ricordi di noi due. Me li tengo stretti, come ho fatto in questo primo anno, troppo lungo, senza di lui. Ciao Ciccio.

cI vedIamo QUaSSù...

Connie Transirico

“Che ci fai qui, allora è stato solo un brutto sogno?”“No, Connie, sei tu che adesso stai so-gnando. O meglio, ho trovato la con-

nessione e ti ho raggiunta. Però, funziona..”.“Come sono felice di vederti! Raccontami, dimmi. Vedo che non sei solo”“Ah, certo scusa. Ho portato un amico, beh, posso proprio dirlo, cavolo. Ti presento Robin Williams, sai 'L’attimo fuggente'... Che figata, è un colpaccio che in tutta questa sterminata nuova famiglia mi si sia avvicinato lui. Simpatico, che risate. E mi ha spiegato un sacco di roba filosofica, che certo non era il mio forte. Peccato che non possa proporgli una bella intervista, che scoop sarebbe stato. Ma, quando parla, io prendo appunti, appunti menta-li, qui funziona tutto così. Da pensiero a pensie-ro, niente penne o registratore. Ascolto, imparo e capisco che morire non è poi così male. Che dici, Robin? Ah, mi ha citato una frase dal film: 'La gente spesso definisce impossibili cose che semplicemente non ha mai visto'. Sai, è vero. Non credevo di potermi sentire 'diversamente' vivo. È inspiegabile. 'In un momento tutto il film della mia vita mi è ripassato davanti agli occhi. E io non

ero nel cast!', la battuta è di Woody Allen, ma ci sta a pennello. Però, è successo ed ero arrabbiato, all’inizio. Poi, la finestra sul mondo si è riaperta e vi ho visti tutti piangere e ridere pensandomi, con affetto, tanto affetto. Bellissimo, è stato bellissi-mo. Questo sentimento, l’amore, è una cosa forte, l'unica rimasta uguale. Eterna, sempre lì”.“Ma cosa hai tra le mani?”.“È una lettera, Robin mi ha aiutato a scriverla: deve arrivarle, vedi come puoi fare. Ci riuscirai, perchè so che tu hai rispetto dell’amore e lo capi-sci a fondo”.A Donata: “Mi dispiace, piccola, ci sono delle cose che devo dirti e mi restano solo pochi momenti. Mi dispiace per tutto ciò che non potrò mai dar-ti.Volevo soltanto invecchiare insieme a te come due vecchie tartarughe che ridono contandosi le rughe insieme, al capolinea. Abbiamo molto da perdere: libri, pisolini, baci e litigi, o Dio ne ab-biamo avuti di straordinari dei quali ti ringrazio e grazie di ogni gesto gentile. Grazie per la tua forza, per la tua dolcezza, per come eri e come sei. Ma ama, ama, ama. Questa è la vita, baby”. Con grande nostalgia. Connie.

64 ILOVE 65ILOVE

IL rIcordo dI UN SorrISo

Andrea Tuttoilmondo

Quando mi cimento nello scrive-re qualcosa a cui tengo partico-larmente, ho la sensazione che debba squillare il telefono, e che dall’altro lato ci sia Francesco. A timpulata. Come ai vecchi tempi, quando dal trillo della cornetta

capivi se era in arrivo un mega cazziatone, o una ri-sata delle sue.Non credo siano tanti i ricordi che hanno il privile-gio di radicarsi nella memoria al punto che senza di essi, sarebbe impossibile concepire persino se stessi. Sono ricordi d’argilla. Quelli che negli anni torniamo a rimodellare con la mente, per cercare di trovare, attraverso di loro, la forma di ciò che sia-mo oggi. Nei miei ricordi d’argilla, ritrovo alcuni dei momenti più cari legati a Francesco. Allo straordinario univer-so di cui lui fu artefice. Il periodo in cui I Love Sicilia vedeva la luce, dieci anni fa. Quando gli echi dei va-giti del “nostro” giornale facevano da sottofondo ai pomeriggi e alle notti in redazione. Pionieri di un’esperienza nuova ed affascinante, le incertezze venivano dissipate da un comandante che con un sorriso, uno sguardo o una battuta, in-dicava ai suoi uomini la direzione della nave. A volte con piccoli accorgimenti della rotta, altre volte con improvvise sterzate del timone, Francesco aveva il

dono di farci sentire davvero il “suo” equipaggio. Era l’identità stessa di quel mondo, in cui ci si specchia-va e della quale ci si nutriva. Per carpirgli un trucco, un punto di vista, una magia stilistica. Per cercare di capire come si facesse ad essere Francesco Foresta. Anche se Francesco Foresta non ci si sarebbe mai potuti improvvisare. Era lui e basta. E lui si lasciava attraversare, consapevole del suo spessore e del suo carisma. Ma soprattutto del momento di crescita che molti di noi stavano vivendo in quei giorni. La sera che andò via, sebbene le strade di alcuni di noi avessero seguito corsi differenti, ci ritrovammo accanto a lui. La sua ultima magia: i “suoi” ragazzi erano lì. E non ci sarebbe stato nessun altro posto al mondo in cui avremmo voluto e dovuto essere. Cu-stodisco gelosamente i suoi messaggi, e ogni tanto li rileggo per sentirlo ancora vicino. Il suo ultimo è quello al quale sono più legato. “Andrea mio, sto lottando col sorriso perche' questa e' sempre stata la mia filosofia di vita. Cosciente che sto lasciando un gruppo di ragazzi, te compreso, che mi riempie di orgoglio e che so continuera' in ogni caso il mio lavoro. Cambiando la storia giornalistica di questa di terra. Ti voglio bene”.

IL pIacere deLLa coNdIvISIoNe

Daniela Vitello

“Dany, devi solo ri-spondere al tele-fono” è la frase che hai pronunciato 15 anni fa convincen-domi, dopo una mia titubanza iniziale, a

gettarmi in un’avventura che mi avrebbe plasmato per sempre. Mi bastarono pochi secondi per capire che di tutto si trattava fuorché di rispondere al telefo-no. Quando ti conobbi, lavoravi al “Giornale di Sicilia” ma era chiaro che quello che indossavi era un vestito troppo stretto rispetto a quanto ti frullava in testa. E così, in prima battuta, decidesti che quello dell’im-prenditore sarebbe stato il tuo secondo mestiere. Ov-viamente per tre ore al giorno, perché all’ora di pranzo venivi risucchiato dal portone di via Lincoln. Ed è lì che cominciavo a mettere in pratica quello che parto-rivi durante le riunioni del mattino misurandomi con me stessa e con le mie forze: “Dobbiamo organizzare il concerto di Elisa”, “Incatenati al Comune perché non è normale che paghino dopo cinque anni”, “Manda il comunicato stampa e assicurati che esca”, “Per la con-ferenza stampa è tutto a posto?”. Essere i tuoi occhi e il tuo braccio destro, strapparti una smorfia di consenso (il “brava” solitamente era uno sfottò) e concretizzare le tue idee è stato un onore oltre che una gratificazio-ne senza eguali. Nel mezzo, cazziatoni memorabili,

pranzi, cene, matrimoni, weekend saltati all’ultimo minuto senza alcun rimpianto. Perché, come accade a pochi, ad animarmi ogni singolo giorno era la pas-sione per il lavoro che tu riuscivi a trasmettermi con l’ entusiasmo, il genio e l’amore che mettevi in ogni cosa in cui credevi. Il destino ha voluto che, come nei titoli di coda di un film senza lieto fine, oggi io sia qui a ringraziarti giusto per un po’ di cose. Tanto per comin-ciare, per avermi insegnato che i limiti esistono per essere superati e che il cambiamento non è sinonimo di fallimento ma di intelligenza e coraggio. Quello che più mi manca sono i tuoi “Dobbiamo resistere” nei momenti di difficoltà accompagnati dalla tua incon-fondibile risata e quel “Pupa, futtitinni” che mi faceva tirare un sospiro di sollievo davanti ad un problema apparentemente insormontabile. E perché no, anche quelle interminabili riunioni durante le quali condi-videvi le tue idee pazze e al tempo stesso geniali con tutti noi. Perché il piacere della condivisione era più grande della stessa pensata. Di te mi rimane la dedica sul tuo libro. Mi ringrazi per essere stata l’unica a non averti interrotto mentre lo scrivevi e questa cosa mi fa sorridere. Perchè sono io che ringrazio te. Anche per Perizona, l’ultimo dono che mi hai fatto regalandomi un nuovo entusiasmo e una nuova passione.

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IL gIorNaLISta che Sapeva gUardare oLtre

Fulvio Viviano

Si cade sempre nel retorico quando si parla di chi non c’è più. È facile lodare anche se poi, in realtà, si pensa una cosa diversa da quella che si dice in pubblico. Per questo io non voglio lodare il Francesco Foresta uomo. Non lo conoscevo

così a fondo. Non posso arrogarmi il diritto di dire quanto fosse un buon compagno di vita, un buon padre. È una cosa, questa, che do per scontata. Se così non fosse stato al suo funerale non ci sarebbe-ro state così tante lacrime che, sono certo, lui non avrebbe voluto vedere.Francesco Foresta nel suo piccolo, che poi tanto piccolo non era, era un visionario. Non amo i para-goni. Non dirò che Francesco Foresta sta all’infor-mazione regionale come Steve Jobs stava all’infor-matica e al marketing. Non lo farò. Ma lo penso. Lo penso davvero.Ha saputo creare dal nulla un sito di informazio-ne ed una rivista (anzi due) che sono diventate un punto di riferimento per molti di noi. Per tantissimi addetti ai lavori che spesso, ahimè, copiano e non citano. Leggono, riportano e non danno il merito a chi lo ha. Ha messo su una squadra di ragazzi (perché è questo che siamo, ragazzi) che il pelo sullo stomaco lo avevano ma che se lo sono fatti crescere seguendo i suoi consigli. Il suo spirito. La

sua capacità di guardare oltre la notizia. Perché la notizia spesso è dietro a quella che notizia sembra alla maggior parte di noi.Francesco Foresta per me, che lo guardavo da fuo-ri e da addetto ai lavori, è stato questo. Uno che ha saputo guardare oltre. Ha avuto il coraggio di “ri-schiare” e di imbarcarsi per un’avventura che alla fine si è rivelata vincente.Io c’ho anche lavorato con Francesco, al Giornale di Sicilia. E ci siamo mandati a quel paese. Se fos-se qui oggi, e se dovessimo confrontarci ora come allora, sono certo che ci manderemmo di nuovo a quel paese. Perché è così che fanno i giornalisti. Si mandano a quel paese se non la pensano alla stes-sa maniera. Ma farlo con classe non è da tutti.

“Ho sempre difeso con forza la nostra passione per

questo meraviglioso mestiere"

Francesco Foresta