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Introduzione Carissimi amici, la storia che state per leggere si svolge in un supermercato. Un posto strano per una fiaba, non è vero? È vero, una volta i personaggi delle fiabe si perdevano nei boschi e incontravano lupi, orchi e streghe. Oggi di boschi ce ne sono sempre di meno e chi vive in città, forse, è più facile che smarrisca la strada in un supermercato. Come ha fatto Chiara, la protagonista di queste storie. Perché Chiara si è persa? Perché in un supermercato c’è confusione, tante luci, un sacco di gente ed è facile distrarsi un attimo e non trovare più i propri genitori. Ma Chiara in realtà non si è persa, ha solo fatto un giro per il supermercato con un suo nuovo amico: Bongo. Grazie a questo amico ha scoperto che in quel supermercato non c’erano solo scatole e barattoli, ma tante storie interessanti, bastava cercarle. Così Chiara ha scoperto che ci sono bambini che vengono sfruttati e maltrattati, ma anche che si può fare qualcosa per aiutarli; che ci sono angoli del nostro pianeta, come la foresta, la montagna e il deserto che sono minacciati, ma che si può tentare di salvarli; che il tempo e il lavoro possono essere scambiati tra le persone per stare meglio. E che il cibo avesse fatto tanti viaggi prima di arrivare da noi lo sapevate? 2 Forse no, e nemmeno Chiara, ma ora lo sa. Quante volte abbiamo gettato via degli oggetti che sembravano inutili? Invece Chiara ha scoperto che una bicicletta rotta può diventare mille cose diverse, perché la diversità è la ricchezza del nostro mondo. Vi piacerebbe un mondo tutto dello stesso colore, vi piacerebbero amici tutti alti uguali, con lo stesso nome e con la stessa faccia? No, vero? Allora imparate ad apprezzare tutto ciò che è diverso. Nei suoi giri con Bongo, Chiara ha anche incontrato degli amici come Gandhi, l’omino con gli occhiali che diventava pesante. Come, non sapete chi era? Neppure lei lo sapeva, chiedete ai vostri genitori e ai vostri insegnanti, ve lo spiegheranno. Chiara è una bambina come voi, piena di curiosità e di voglia di trovare cose nuove. È stata quindi molto felice di avere incontrato Bongo e di scoprire quante cose ci raccontano gli oggetti. A noi sembrano muti perché non sappiamo interrogarli, invece quando vedete un oggetto, chiedetevi da dove viene, di che cosa è fatto, che strada ha percorso per arrivare fino a voi. Vedrete allora che comincerà a raccontarvi una storia ricca e interessante. Talvolta può anche essere una storia triste, ma non preoccupatevi, succede, in ogni caso avrete imparato qualcosa di nuovo. Ciao a tutti!

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Introduzione Carissimi amici,

la storia che state per leggere si svolge in un supermercato. Un posto strano per una fiaba, non è vero? È vero, una volta i personaggi delle fiabe si perdevano nei boschi e incontravano lupi, orchi e streghe. Oggi di boschi ce ne sono sempre di meno e chi vive in città, forse, è più facile che smarrisca la strada in un supermercato. Come ha fatto Chiara, la protagonista di queste storie.

Perché Chiara si è persa? Perché in un supermercato c’è confusione, tante luci, un sacco di gente ed è facile distrarsi un attimo e non trovare più i propri genitori. Ma Chiara in realtà non si è persa, ha solo fatto un giro per il supermercato con un suo nuovo amico: Bongo. Grazie a questo amico ha scoperto che in quel supermercato non c’erano solo scatole e barattoli, ma tante storie interessanti, bastava cercarle.

Così Chiara ha scoperto che ci sono bambini che vengono sfruttati e maltrattati, ma anche che si può fare qualcosa per aiutarli; che ci sono angoli del nostro pianeta, come la foresta, la montagna e il deserto che sono minacciati, ma che si può tentare di salvarli; che il tempo e il lavoro possono essere scambiati tra le persone per stare meglio.

E che il cibo avesse fatto tanti viaggi prima di arrivare da noi lo sapevate?

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Forse no, e nemmeno Chiara, ma ora lo sa. Quante volte abbiamo gettato via degli oggetti che

sembravano inutili? Invece Chiara ha scoperto che una bicicletta rotta può diventare mille cose diverse, perché la diversità è la ricchezza del nostro mondo. Vi piacerebbe un mondo tutto dello stesso colore, vi piacerebbero amici tutti alti uguali, con lo stesso nome e con la stessa faccia? No, vero? Allora imparate ad apprezzare tutto ciò che è diverso.

Nei suoi giri con Bongo, Chiara ha anche incontrato degli amici come Gandhi, l’omino con gli occhiali che diventava pesante. Come, non sapete chi era? Neppure lei lo sapeva, chiedete ai vostri genitori e ai vostri insegnanti, ve lo spiegheranno.

Chiara è una bambina come voi, piena di curiosità e di voglia di trovare cose nuove. È stata quindi molto felice di avere incontrato Bongo e di scoprire quante cose ci raccontano gli oggetti. A noi sembrano muti perché non sappiamo interrogarli, invece quando vedete un oggetto, chiedetevi da dove viene, di che cosa è fatto, che strada ha percorso per arrivare fino a voi. Vedrete allora che comincerà a raccontarvi una storia ricca e interessante. Talvolta può anche essere una storia triste, ma non preoccupatevi, succede, in ogni caso avrete imparato qualcosa di nuovo.

Ciao a tutti!

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Chiara si perde nel supermercato

Chiara era lì, in mezzo a quella folla di gambe. C’erano

pantaloni grigi, marroni, gonne lunghe che ondeggiavano, ma non c’era più la gonna a scacchi della mamma. E nemmeno i blue jeans del papà.

Erano lì fino a un momento prima, poi Chiara aveva lasciato la mano della mamma per accarezzare un cagnolino che allungava il suo muso nero verso di lei. Era un barboncino dall’aria simpatica. A Chiara sembrava un po’ buffo in quel suo cappottino rosso e si mise a ridere.

Ridendo gli toccò il nasino freddo. Poi il cagnolino si allontanò, tirato da un guinzaglio tenuto da una signora con un cappotto lungo e scuro.

Chiara era rimasta sola. Guardò in su per scoprire qualcosa di conosciuto in quel bosco di persone grandi, ma non vide nulla che conosceva. Non si spaventò e si mise a trotterellare verso gli scaffali pieni di prodotti.

“Chiara!”, disse una voce. Lei si girò e non vide nulla.

“Chiara!”. Niente. Non capiva da dove arrivava quella voce, che non era quella della mamma né quella del papà.

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“Qui, Chiara, qui!”. Girò su sé stessa fino a perdere l’equilibrio e cadde per terra. Rimase lì, con lo sguardo perso, mentre la bocca iniziava a piegarsi nelle smorfie del pianto.

Non aveva ancora emesso il primo strillo che sentì la voce vicina: “Non piangere, sono io!”.

La voce arrivava da dietro a un mucchio di scatole di pomodori. Era un omino piccolo, come lei, con un nasone lungo, i capelli a molla e due grossi occhi a palla. Sembrava una melanzana di peluche, però si muoveva e parlava.

Chiara rimase ferma. Aveva un po’ di paura adesso, ma aveva smesso di piangere. Guardava quel coso che voltava la testa di qua e di là, come se fosse inseguito. Poi fece un salto e si sedette vicino a Chiara. Aveva la pelle proprio come i pupazzi di peluche ed era tutto blu, forse era caduto dentro un barattolo di vernice.

“Ciao”, disse, facendo una capriola. Chiara si mise a ridere: “Ciao”, rispose, salutando con

la mano. “Io mi chiamo Bongo, vivo qui, nel supermercato”. Chiara guardava i suoi capelli a molla e rideva. Poi gli

accarezzò la pelle, ma quello fece un salto all’indietro.

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“Non mi fare il solletico, se no te lo faccio anch’io”. La foresta di gambe era sempre più folta, ma nessuno

sembrava far caso a quei due esserini seduti per terra. “Vieni, ti porto a vedere delle cose che forse non

conosci”. “Dove?”. “Qui negli scaffali - disse Bongo. - Sai che dietro a queste

scatole e contenitori colorati ci sono un sacco di fiabe?” “Davvero?” “Non ci credi? vieni a vedere!” Si infilarono tra file di scatole e contenitori colorati,

passarono tra profumi e saponi, scivolarono tra montagne di carta, poi arrivarono in mezzo a mucchi di maglie e sciarpe.

Bongo correva veloce e Chiara gli trotterellava dietro per non perderlo di vista in mezzo a quel groviglio di gambe e piedi.

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Fiaba delle dita nei tappeti

“Che grandi questi tappeti!”. “È vero, sono proprio grandi, eppure a farli sono

bambini piccoli piccoli”. “Piccoli piccoli?”. “Sì. Guarda bene quei tappeti, poi chiudi gli occhi e

prova a immaginare una casa in Pakistan, un paese pieno di montagne grandissime. Ci riesci?”.

Chiara chiuse forte gli occhi e si mise a pensare alle montagne.

“Ci riesci?”. “Sì”. “Ecco, vedi quegli uomini con la barba che si guardano

attorno con aria sospetta?”. “Sì”. “Brava. Ora prova a entrare in quella casa laggiù. Piano

piano, mi raccomando, sennò quegli uomini ti vedono e prendono anche te”.

“Piano, piano”. “Cosa vedi adesso?”. “Mani. Tante mani veloci che intrecciano fili colorati”. “Come sono?”. “Sono rovinate. La pelle è a pezzi. Sembrano le mani dei

vecchi”. “E invece guarda bene. Sono bambini. È stata la lana a

rovinare le loro mani”. “Poverini!

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“Già. Vedi quello con i capelli più lunghi?”.

“Sì”. “Si chiama Iqbal. E

adesso continua a guardare. Non c’è bisogno che ti racconti questa storia. Puoi raccontarla tu”.

Chiara guardò Bongo con aria sorpresa: “Come

faccio a raccontarla io, se non la so?”. “Guarda e prova, vedrai che non è difficile. Dimmi cosa

vedi”. “Ecco, nella stanza fa caldo e ci sono odori cattivi. Un

uomo scuro entra gridando e inizia a prendere a calci i bambini che lavorano ai telai. L’uomo urla di fare in fretta, più in fretta. Ecco, adesso Iqbal si infila con gli altri in un buco”.

“Vai con Iqbal e vedrai”. “Sì. Iqbal! Iqbal!, aspettami, vengo con te!”. “Shhh” dice Iqbal e la prende per mano. Entrano in un

buco del pavimento e si rannicchiano lì. “L’hanno scavato i compagni dell’uomo scuro”, mi dice

Iqbal. Fuori arrivano dei poliziotti, che escono da una nuvola

di polvere e saltano giù dalla jeep. Entrano di corsa e trovano solo una stanza puzzolente e deserta. Due anziani fanno finta di trafficare svogliatamente attorno alle matasse di lana che sono ammucchiate in un angolo.

I telai abbandonati sembrano dei grandi ragni seccati dal sole. Le corde vibrano appena. Non c’è nessun rumore.

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Gli uomini stanno dietro ai poliziotti, lo scuro dietro a tutti, in silenzio. I poliziotti si arrabbiano via via che frugano negli angoli dell’edificio senza trovare altro che mucchi di lana sporca, corde sfilacciate, rottami impolverati e bastoni macchiati di coloranti.

“Con quei bastoni lì - dice Iqbal - ci picchiano quando non facciamo tutti i tappeti che vogliono loro”.

“Ma perché rimani qui?”. “Come faccio a scappare? Ci sorvegliano tutto il giorno

e di notte ci chiudono a chiave. Ci dicono che se ci prende la polizia ci uccide, ma sono loro che hanno paura della polizia”.

“È tanto tempo che sei in questo posto?”. “Sono tre anni”. “Ma tu sei di qui?”. “Shh. Silenzio che si avvicinano”. I poliziotti passano vicino al nostro buco, ma non ci

vedono, perché stiamo schiacciati schiacciati, senza respirare.

“No, io sono di un villaggio lontano, ai piedi delle montagne. La mia famiglia è molto povera. Un giorno è arrivato un uomo ben vestito, con una bella macchina e si è messo a parlare con mio padre. Non so cosa gli ha detto, ma quando lui è andato via mio padre era triste. Guardava in basso e non parlava più con nessuno. Tutte le sere però si riuniva con gli altri uomini del villaggio, i padri dei miei amici, e discutevano fino a tardi.

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Dopo un po’ di giorni l’uomo ritornò. Non aveva più la bella macchina di prima, ma un camioncino. Parlò con gli uomini e disse che, se volevano, i bambini potevano partire con lui. Li avrebbe portati nel suo laboratorio per imparare a lavorare come tessitori. Per questo avrebbe dato a tutte le famiglie tre sacchi di riso e ai ragazzi un piccolo salario. Le nostre famiglie sono povere e hanno accettato. Con quei sacchi di riso si dava da mangiare ai nostri fratellini più piccoli.

Siamo saliti piangendo sul camion e, invece di finire nel laboratorio, ci hanno portato qui, lontani da casa. I nostri genitori non sanno nemmeno dove siamo e qui ci fanno lavorare 12 anche 15 ore al giorno per 20 centesimi. Ci sono dei giorni che vorrei morire”.

I poliziotti se ne sono andati sbattendo le porte. E lo scuro inizia a gridare ai bambini di uscire, che bisogna rimettersi al lavoro.

“E adesso vai via, Chiara, — dice Iqbal - scappa, se no anche a te rimangono le dita impigliate nei tappeti e ti prendono. Vai via e racconta a tutti come viviamo. Digli di aiutarci!”.

“Lo farò Iqbal”. “Che storia triste che mi ha fatto raccontare Bongo!”,

disse Chiara e cominciò a piangere, mentre Bongo l’abbracciò con le sue braccia morbide di peluche.

“Non piangere, piccola”. “Iqbal ha detto che possiamo aiutare lui e i suoi amici”. “È vero”, “E come? Sono così lontani e quegli uomini così

cattivi!”.

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“E allora? Perchè quegli uomini fanno lavorare i bambini? Per fare i tappeti a prezzi più bassi. Cosa dobbiamo fare noi? Smettere di comprarli. Se noi non comperiamo più quei tappeti, loro smetteranno di produrli e i bambini saranno finalmente liberi”.

“È vero!”, disse Chiara battendo le mani. “Lo so, possiamo sempre fare qualcosa”. “Ma i grandi sono sempre così cattivi?”. Bongo rimase un attimo in silenzio a pensare. “Non tutti sono cattivi, Chiara, non tutti. Sai, avevo un

amico, che veniva da un altro pianeta, un pianeta piccolo, piccolo...”.

“Come noi?”. “Sì, come noi. Questo amico diceva sempre che tutti i

grandi sono stati bambini, ma a volte non se lo ricordano”. Chiara rimase lì a guardare quel suo naso lungo e buffo.

Sembrava triste e anche lei si sentiva triste. “Che bella cosa diceva quel tuo amico!”.

ATTIVITÀ: schede 1-a, 1-b, 1-c e 1-d

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Fiaba della bicicletta nel fosso

“Vieni, andiamo a cercare altre fiabe!”. “Troviamone una bella però!”. “Hai ragione, quella di prima era triste”. Bongo teneva Chiara per mano. Davanti ai loro occhi

passavano giocattoli di ogni tipo. “Ti piacerebbe sentire una fiaba ancora da accadere?”. “Cosa vuoi dire?”. “Che racconta una storia che non è ancora successa”. “Che bello, raccontamela!”. “Ecco, la vedi questa bicicletta?”. “Bella, tutta colorata!”. “Ecco, allora ci sarà una volta.., un bambino bianco che

avrà questa bicicletta. Un giorno, mentre pedala in una stradina, la ruota finisce su un sasso e il bambino cade. Non si fa molto male, ma la ruota davanti della bicicletta si rompe.

Il bambino la guarda, poi la getta in un fosso. “Me ne compro un’altra” dice, e torna a casa arrabbiato. La bicicletta sta ora in fondo al fosso, sola, triste e

bagnata perché la pioggia è iniziata a cadere. Il giorno dopo arriva un bambino verde. Vede la bici nel

fosso e si ferma a guardarla.

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“Chissà chi è che l’ha gettata via? - dice il ragazzo. - A me serve proprio un manubrio, perché il mio è rotto”,

Così smonta il manubrio dalla bici nel fosso e lo monta sulla sua.

Il giorno dopo ancora arriva un bambino blu. Anche lui vede la bicicletta nel fosso.

“Manca il manubrio — dice — ma è quasi nuova”. Così smonta i pedali e li mette al posto di quelli della sua bici che sono un po’ arrugginiti.

Mentre torna a casa incontra un bambino giallo, con una bici senza fanalino.

“Perché non vai a prenderlo a quella bici che sta nel fosso?”, gli dice. Il bambino giallo lo ascolta e va anche lui a prendere il pezzo che gli serve.

La bicicletta nel fosso non è per niente triste, anzi sorride ogni volta che gli smontano un pezzo. Credeva di finire lì, buttata via, solo per una ruota rotta, invece continua a vivere su tante altre biciclette.

Ogni giorno arriva un bambino di colore diverso e prende un pezzo per la sua bici, fino a quando rimane solo la ruota rotta.

La bicicletta nel fosso ora è un po’ triste: “Mi è rimasta solo una ruota rotta. Nessuno la prenderà. Non serve a nessuno”.

Due giorni dopo arriva un vecchietto.

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Vede la ruota tutta storta e la prende in mano. Fa per ributtarla nel fosso, quando gli viene in mente che può servirgli per aggiustare una vecchia carriola.

“La raddrizzerò”, dice. Così la prende e se la porta a casa.

La bicicletta ora è felice: viaggia dappertutto, il manubrio con il bambino verde, i pedali con quello blu, il fanalino con quello giallo, la ruota con la vecchia carriola del nonno e tutti gli altri pezzi con tanti bambini colorati: perché il mondo è bello quando è pieno di colori!

ATTIVITÀ: scheda 2

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Fiaba del chicco di caffè

“Che bella questa fiaba!” “Dai, vieni, andiamo a cercarne altre!”. Chiara e Bongo fecero una gran corsa tra barattoli e

sacchetti, fino a raggiungere lo scaffale del caffè. “Vedi quanti barattoli?”. “Tantiiiii!” “Sono belli, colorati, non è vero?”. “Siiiii!”. “Ecco, guarda questo barattolo qui, come ti sembra?”. “E un po’ meno bello”. “Sai cosa c’è scritto?”. “No”. “COMMERCIO EQUO SOLIDALE. Siediti qui che

bussiamo”. “Bussiamo dove?”. “Nel barattolo”. “E chi c’è”. “Adesso vedrai”, disse Bongo;

e toc toc, bussò sul coperchio del barattolo di caffè. “Chi è?”, disse una vocina dal di dentro.

“Io, Bongo, puoi aprire?”. Si sentirono dei passi

nel barattolo. Dopo un po’ il coperchio si aprì e apparve un chicco di caffè con i baffi,

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che sbuffava. “Ciao, come stai Pedro?”, disse Bongo. “Abbastanza bene e tu? – rispose il chicco,

stropicciandosi un po’ gli occhi. — Scusa, ma ho fatto un viaggio lungo per arrivare fino qui”.

“Lo so, senti, io e Chiara siamo venuti a sentire la tua storia. Hai tempo per raccontarcela?”,

“Sì, sì, volentieri, ma poi torno a dormire”. Il chicco uscì dal barattolo, si sedette vicino a Chiara e cominciò a raccontare.

“Mio padre si chiamava Pablo e anche lui faceva il chicco di caffè. Fin da quando era piccolo aveva vissuto nei campi di caffè con tutti i suoi parenti. Erano amici con Manuel, il contadino, che è un po’ il padre di tutti noi chicchi. È lui che ci prepara la terra. Tutti i santi giorni di tutte le sante settimane stava là, sul suo campo insieme a sua moglie a zappare e a raccogliere. Però guadagnavano poco. Poveri erano nati e poveri erano rimasti. A noi dispiaceva vederli tristi, perché gli volevamo bene. Ogni anno, quando noi chicchi eravamo maturi, ci ammucchiavano dentro dei sacchi lungo la strada. Stavamo lì, stretti stretti. Poi arrivavano i signori delle Compagnie e si mettevano a discutere con Manuel sul prezzo. Ogni anno pagavano sempre meno, perché, così dicevano loro, il caffè doveva poi essere tostato da altri, lavato da altri ancora, macinato da chissà chi, poi messo nei barattoli e spedito in Europa e allora loro dovevano spendere un sacco di soldi.

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Si lamentavano sempre, e Manuel con i suoi vicini di casa, che erano anche loro padri di altri chicchi come noi, dovevano stare lì ad ascoltare le lamentele di quegli uomini delle Compagnie.

Intanto io ero cresciuto e piano piano avevo cominciato anch’io a fare ogni anno quel viaggio dal campo fino ai negozi d’Europa. Però non mi piaceva tanto. Finché era Manuel a raccogliermi, a tenermi nella sua mano sporca di terra, a mettermi nel sacco, ero contento, perché sentivo che lui ci voleva bene. Poi però arrivavano quegli altri e non mi piaceva come mi trattavano. Passavo da una mano all’altra, ma nessuno mi guardava, nessuno mi accarezzava, nessuno mi diceva che ero un bel chicco, come faceva Manuel. A quelle mani non importava niente di me e poi puzzavano sempre di soldi.

Un giorno arrivarono al villaggio due giovani dall’aria simpatica. Chiesero di poter parlare con gli uomini che coltivavano il caffè. Si radunarono tutti sulla piazza, anche Manuel, e i giovani iniziarono a spiegare che non era giusto che loro guadagnassero così poco, mentre quelli delle Compagnie si arricchivano. Non erano forse loro che faticavano tutto il giorno su quei campi? Gli uomini ascoltavano a testa bassa e noi chicchi eravamo tutti lì, con le orecchie ben aperte per sentire cosa dicevano quei ragazzi. I due spiegarono che in Europa stavano aprendo delle botteghe che vendevano il caffè comperandolo direttamente dai contadini, senza passare per altre mani e che invece di dare soldi a

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quelle altre mani, li davano tutti a chi coltivava il caffè. Gli uomini discussero un po’, poi decisero di provare.

Quando noi chicchi fummo maturi ci vendettero a quei giovani e guadagnarono meglio di prima. Anche noi eravamo più felici per loro e quando arrivarono quelli delle Compagnie rimasero a bocca asciutta, perché ormai ci avevano già imbarcati sulla nave.

Anche nelle botteghe si sta meglio di prima, la gente che ci compra parla sempre degli uomini del villaggio, chiedendo se stanno bene. Non so come fanno a conoscerli, ma quando prendono il barattolo, dicono “speriamo che serva ad aiutare quei poveri contadini!”.

Così adesso faccio questo viaggio una volta all’anno, ma ora sono più contento e anche gli altri chicchi sono felici. Sulla nave cantiamo tutto il tempo. Questa gente ci vuole bene, si sente dalle loro mani!”.

“Che bella storia!”, disse Chiara. “Ti è piaciuta?”, le chiese Bongo accarezzandola. “Proprio bella”. “Sono contento - disse Pedro - e ora scusatemi, torno a

dormire perché muoio dal sonno”. “Ciao Pedro, buonanotte!”, disse Chiara e lo accarezzò

con la manina. Pedro si allungò e le diede un bacino sulla guancia,

pungendola un po’ con i suoi baffi: “Anche tu mi vuoi bene. Lo sento dalle mani”.

ATTIVITÀ: scheda 3

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Fiaba della spiga di grano

“Sono contenta per Pedro!”, disse Chiara. “Chissà, forse, se tutti lo aiutiamo, i suoi amici contadini

potranno stare sempre meglio…”. “Speriamo! E i campi saranno sempre pieni di tanti

colori!”. “Già, è bello quando ci sono tanti colori, eppure tanta

gente dice che fanno confusione”. “Ma non è vero!”. “Lo so, ma non tutti la pensano allo stesso modo”. “Ma... la campagna sarebbe brutta, se fosse tutta di un

colore solo!”, disse Chiara imbronciandosi. “È vero, ma sai che la gente è strana. A volte ha paura di

tutto quello che è diverso”. “È un peccato”. “Sì. La sai la storia della spiga di grano che si sentiva

sola?”. “No, dai, racconta!”. “Vieni, andiamo vicino allo scaffale del pane. È là che

c’è quella storia”. “Bongo — disse Chiara, mentre l’altro già partiva di

corsa. — Ma le storie non sono dovunque?”. “Sì, ma spesso la gente non le vede. Allora, deluse, se ne

ritornano dove sono nate. Così bisogna andare a cercarle. Ci

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sono tante storie nel mondo, come i colori, ma te l’ho già detto, spesso la gente vuole sentire sempre una storia sola, sempre la stessa”.

“E non si possono raccontare dovunque?”. “Sì, si può, ma è meglio andare dove ci sono i

personaggi, così loro rivivono e sono più contenti”. “Allora andiamo!!!”, gridò Chiara e partirono di corsa,

mentre un barboncino spaventato si mise ad abbaiare nel vedere passare quei due piccoli di corsa davanti al suo naso.

“Ecco, vedi quelle pagnotte?”. “Sì”. “Sono fatte con il grano”. “Sì”. “Lo sai davvero o mi dici così tanto per dire?”, “Lo so, lo so!”, disse Chiara offesa. “Bene. C’era una volta una spiga di grano che viveva in

un campo di grano. Non stava male, cresceva, diventava bella bionda, poi gli uomini le tagliavano il gambo, ma l’anno dopo lei ricresceva, sempre nello stesso campo. Ormai conosceva tutte le altre spighe e le piaceva chiacchierare con alcune di loro. Alcune le erano antipatiche, altre le erano amiche. Però, con il passare del

tempo, la spiga cominciò ad annoiarsi, a parlare sempre delle stesse cose, con le stesse spighe. La vita nel campo diventava monotona.

La spiga ricresceva ogni anno nello stesso campo, ma non nello stesso posto. Così accadde che un anno si trovò a crescere al bordo del campo. Lì poteva guardare al di

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fuori e vide che non era tutto uguale come il suo campo: c’erano fiori, ortiche, alberi, cespugli, un sacco di piante diverse!

La spiga attaccò discorso con un fiore giallo che stava lì vicino e chiacchierarono del più e del meno.

Ogni tanto il fiore doveva alzare la voce, perché le api che venivano a prendergli il polline ronzavano troppo forte: “Glielo dico sempre di non fare tutto quel zzz zzz — diceva il fiore — ma niente, non capiscono. Però mi aiutano, se non fosse per loro, sarei da solo”.

Poi la spiga si mise a parlare con un’ortica: “È un po’ triste essere ortica, perché tutti ti girano alla larga, però ci sono anche dei vantaggi: nessuno ti viene a strappare il gambo”.

Lì vicino c’era anche un orto dove crescevano cipolle, pomodori, fagioli e altre verdure. Era un ambiente allegro, gli ortaggi scherzavano sempre tra di loro e si prendevano in giro allegramente. I fagioli ridevano dei pomodori, così panciuti e tondi.

“Sarete belli voi! Secchi, secchi, lunghi e magri”, rispondevano i pomodori.

“Guarda che orecchie ha quell’insalata! Ah, ah, ah!”. “Guardate il vostro nasone a punta, carote dei miei

stivali!”. E tutti ridevano a crepapelle. Alla spiga piaceva quell’ambiente e iniziò a scherzare anche lei e anche a essere presa in giro.

“Chi è quella bionda lì?», diceva una cipolla un po’ invidiosa.

“E una nuova, è carina!”. “Macché carina, non vedi com’è magra? Guarda io che

fianchi che ho!”. E giù tutti a ridere della cipolla che faceva il verso alle fotomodelle.

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La spiga era contenta perché stava scoprendo un mucchio di cose nuove e si era fatta tanti amici divertenti e simpatici.

Alcune delle altre spighe la guardavano male: “Quella lì sta sempre a chiacchierare con quella gente! - dicevano, - Ma sono piante diverse da noi! Come si fa a parlare con quelle? Cosa vuoi che abbiano da dire?”.

Un giorno arrivarono alcuni uomini vestiti bene e si misero a parlare con il contadino.

“Bisogna produrre più grano - dicevano — e lasciare perdere il resto. Rende di più”. Il contadino si grattava la testa. Lui ci teneva alle sue patate, ai suoi fagioli, ma anche ai fiori e alle ortiche, anche se non raccoglieva mai né gli uni né le altre.

I signori benvestiti però offrirono dei soldi e il contadino, che doveva comperare un trattore nuovo, perché il suo era vecchio, alla fine accettò.

Così un giorno, con il suo trattore nuovo, iniziò ad arare il terreno vicino al campo di grano.

“Addio”, disse il fiore giallo alla spiga, mentre veniva schiacciato dal trattore.

“Addio”, disse l’ortica prima di essere strappata via dal terreno.

“Ahi”, fece l’albero con voce triste, prima di essere tagliato e cadere per terra. Uno per uno la spiga vide sparire tutti i suoi amici.

“Ben le sta — dicevano le altre spighe invidiose. — Così la smetterà di parlare con chiunque!”.

Dopo un po’ di mesi, nel terreno vicino a lei c’erano centinaia di spighe, uguali a lei. Le spighe invidiose iniziarono subito a fare amicizia con le nuove spighe e a spettegolare. Anche la nostra spiga si era fatta delle amiche

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tra le nuove arrivate, ma era triste, perché i discorsi erano sempre uguali, sempre le stesse storie, la stessa tiritera.

Pensava sempre ai suoi vecchi amici, ai loro colori, alla loro forma. Intanto il tempo passava e le spighe diminuivano e crescevano sempre più distanti tra di loro. Erano sempre di meno nel campo e a volte per parlarsi dovevano urlare.

Anche il contadino se ne era accorto, non era più un bel campo come prima. Le spighe erano diventate più piccole e magre. Si grattò la testa per un po’ e si mise a pensare cosa non andava.

“Il concime l’ho messo, l’acqua l’ho messa nei canali, la pioggia è stata buona, il sole caldo”. Non c’era niente che non andava, eppure quel grano non era mai stato così striminzito.

“Non sarà mica che tutto un terreno con le stesse piante diventa più povero?”, si chiese il contadino.

Aveva ragione. Quando i signori benvestiti arrivarono per comperare il grano dissero che era un raccolto da poco e lo pagarono perciò molto poco.

Allora il contadino decise di fare di testa sua. Seminò di nuovo il grano nel primo campo, fece un piccolo orto e lasciò un terreno libero di fianco. Così, dopo alcuni

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anni, nel prato tornarono a crescere fiori, ortiche, cespugli, cipolle e fagioli.

“Avete visto che si sta meglio con gente diversa?”, disse la spiga a quelle invidiose e queste si convinsero che un mondo vario è un mondo più ricco.

ATTIVITÀ: scheda 4

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Fiaba del tempo

nei barattoli Chiara camminava, ma era pensosa. Bongo se ne accorse

subito: “Cos’hai, piccola?”. “Pensavo a quegli uomini trisporici: loro avevano più

tempo di noi!”. “Preistorici, Chiara, si dice preistorici. Comunque sì,

avevano più tempo di noi”. “E perché?”. “Perché ... perché noi il tempo lo abbiamo venduto”. “Tutto?”. “Quasi”. “Peccato, ma non si può comperarne un po’? Vendono

di tutto qui dentro!”. “E vero, ma il tempo non c’è sugli scaffali. Però un

modo ci sarebbe. Vieni sediamoci qui che ti racconto”. “Che bello, un’altra storia!”. Si erano messi a sedere dietro a uno scaffale pieno di

bottiglie e, piccoli com’erano, nessuno li poteva vedere. “Immagina, Chiara, un negozio come questo, ma senza

una cassa dove si paga”. “Allora si può prendere quello che si vuole?”.

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“Non proprio, ascolta: sugli scaffali ci sono barattoli come questi, ma invece di esserci dentro delle cose da mangiare, c’è del tempo.

Se guardi le etichette sui barattoli c’è scritto TEMPO DI MURATORE, TEMPO DI MAESTRO, TEMPO Dl CUOCA. Insomma ci sono tutti i tempi della gente”.

“E come mai sono finiti dentro i barattoli?”. “Ti racconto la storia di Homo. E’ uno che c’era già nella

preistoria ed è ancora vivo oggi. Magari è qui, al supermercato come noi.

Homo una volta lavorava i campi e aveva il tempo per sedersi sotto un albero a chiacchierare con i suoi amici. E’ parlando che si diventa uomini, non lavorando sempre, da soli, in silenzio. Gli uomini diventano persone solo quando parlano tra loro.

Ora lavora tanto, ma ha poco tempo per pensare. Ha una bella casa, ha tante cose, ma è completamente assorbito dal lavoro, come tutta la gente. Il tempo libero si trovò ad essere sempre più solo. Nessuno andava più a trovarlo: tutti erano sempre impegnati a lavorare. Così lui se ne stava in un angolo, solo e senza amici”.

“Poverino!”, disse Chiara.

“Già. Un giorno passò di lì una donna e lo vide più triste che mai che piangeva, “Cos’hai piccolo?”, disse la donna.

“Sono sempre solo, nessuno mi

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vuole come amico, nessuno viene a trovarmi”. “Ma perché?”. “Perché hanno altri amici, la gente esce con il lavoro, il

tram, l’auto, la spesa e per me nessuno ha mai tempo”. “Hai ragione - disse la donna - Come ti chiami piccolo?”. “TEMPO LIBERO, signora”. “Bene, qui bisogna fare qualcosa”. “Qualcosa ha già fatto!”. “Cosa?”.

“Lei è stata qui a chiacchierare con me per dieci minuti e io sono già più contento”.

“Si può fare di meglio, vedrai TEMPO LIBERO”.

La signora tornò a casa e disse a suo marito: “Da domani ogni giorno dedicheremo un’ora ad andare a trovare un amico che si chiama TEMPO LIBERO”.

“E chi è?”, chiese il marito. “Domani, lo conoscerai, è

simpatico. Anzi invitiamo anche i nostri amici”. Così da quel giorno tutti andavano a trovare il piccolo,

che ora non piangeva più ed era sempre più felice. La voce si sparse e sempre più gente andava da TEMPO LIBERO. Qualcuno si fermava anche più di un’ora e allora lui gli raccontava un sacco di storie belle e interessanti.

Le persone, con la scusa di andare a trovare l’amico, diventavano anche loro amiche e scherzavano, si

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raccontavano storie, proprio come ai tempi di quando Homo e i suoi amici erano felici.

TEMPO LIBERO non era mai stato così contento e un giorno, mentre era in mezzo a moltissimi amici, ebbe un’idea.

“Sentite! - disse. - Perché invece di ritrovarci solo per divertirci, non pensiamo anche a darci una mano uno con l’altro?”.

“E come?”, chiesero tutti in coro. “È semplice — disse TEMPO LIBERO. — Tu, cosa fai di

lavoro?”, disse indicando uno dei primi della fila. “Il muratore”. “Bene, e quanto sei stato qui con noi oggi?”. “Due ore”. “Ecco, prendiamo queste due ore e le mettiamo in un

barattolo”. “In un barattolo?”, chiesero tutti stupiti. “Sì, e tu cosa fai?”. “La cuoca”. “Ecco anche le tue due ore le mettiamo in un barattolo”,

disse TEMPO LIBERO, scrivendo sull’etichetta “Tempo di cuoca”. Continuò così per tutti quelli che erano lì e riempì un sacco di barattoli con tempi di tutti i tipi.

“Allora adesso facciamo questo gioco: tu maestro, di cosa avresti bisogno?”.

“Maah, a dire il vero io avrei bisogno di dipingere i muri di casa mia, ma non ho mai tempo”.

“E perché non hai mai tempo?”. “Perché devo lavorare”.

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“Tu lavori per guadagnare soldi per poi pagare uno che ti vernici i muri, vero?”,

“Sì, adesso è così”, disse il maestro. “Bene, da domani si può cambiare. Tu vieni qui, nel

nostro negozio e ti prendi il barattolo del tempo dell’imbianchino e lui verrà a casa tua a dipingere i muri, ma alla fine del lavoro tu non lo pagherai con del denaro”.

L’imbianchino, che era lì vicino guardò TEMPO LIBERO e disse: “Come sarebbe non mi paga!”.

“Non ti paga con denaro, ma tu potrai prendere il barattolo del tempo del maestro, senza spendere una lira e lui verrà da te gratis”.

“A dire il vero mi farebbe comodo, se insegnasse un po’ di cose a mio figlio”, disse soddisfatto l’imbianchino.

“Vedete, se tutti mettono un po’ del loro tempo in un barattolo e lo mettono a disposizione degli altri, lo si può scambiare quando si vuole. Così il maestro avrà la casa dipinta, il figlio dell’imbianchino andrà meglio a scuola, il sarto avrà la macchina aggiustata e il meccanico un bel vestito. La gente si incontrerà sempre di più, dovrà lavorare di meno e avrà più tempo per

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parlarsi e conoscersi”. “Bello! - esclamò Chiara -. Possiamo anche noi fare

così?”. “Certamente che possiamo, basta mettere un po’ del

nostro tempo in un barattolo e portarlo in questa specie di negozio”.

“Un negozio senza soldi”. “Sì, più che un negozio sembra quasi una banca”. “Una banca? Cos’è?”. “Un posto dove tutti mettono i soldi, qui invece

metteranno il tempo. Una BANCA DEL TEMPO, pensa che bello!”.

“Che bella storia che mi hai raccontato!”. “Ti è piaciuta?”. “Sì, tanto!”. “Sono contento. Vieni ora, andiamo a cercare altre

fiabe”, disse Bongo e prese Chiara per mano.

ATTIVITÀ: scheda 5

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Fiaba di nonno Penn

Mentre camminavano, sentirono un rumore che si

faceva sempre più vicino, strap, strap, strap. Poi udirono una voce che diceva: “Cattivi! Via! Via di qui! Cattivi!”.

Chiara sbarrò gli occhi perchè appena dietro al bancone dei formaggi videro spuntare un bambino che sferrava colpi a destra e a sinistra, strappando i sacchetti di plastica e urlando: “Via! Via! Cattivi!”.

“Cosa fai?”, chiese Bongo al bambino. “Oh, scusatemi, non vi avevo visti. Mi chiamo Alex”. “Ciao, ma perchè strappi i sacchetti?”. “Perchè fanno morire mio nonno! Cattivi!”, gridò,

strappandone un altro. “Tuo nonno?”. “Sì, non ci credete? Venite a vedere”. I due seguirono Alex attraverso un passaggio tra scatole

e scatoloni e si trovarono su di un sentiero. Stava diventando buio e si vedeva appena.

Il sentiero iniziò a salire piano piano. “Dove sta tuo nonno?”, chiese Bongo ad Alex. “Un po’ più in su, ma non è lontano”.

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Continuarono a salire per un po’, poi Chiara e Bongo sentirono un lamento debole, come di uno che respirava a fatica.

“Chi è? — diceva la voce, che sembrava quella di un vecchio — chi è?”.

“Sono io, nonno Penn”. “Aah, meno male che sei arrivato Alex, guarda cosa mi

hanno fatto”. Chiara e Bongo non capivano da dove venisse quella

voce e guardarono Alex con occhi meravigliati. “È lui, mio nonno, sta male”, disse Alex — indicando i

pendii scuri della montagna. “Tuo nonno è una montagna?”, “Sì. Nonno Penn, ho portato due amici con me, sono

venuti a salutarti”. “Grazie Alex, ma ti prego, toglimi quel sacchetto, che mi

manca il fiato”. Alex girò attorno alla montagna e tirò via un sacchetto di plastica gettato lì da qualche passante e che si era infilato in un ruscello, facendo uscire tutta l’acqua.

“Grazie, meno male, mi mancava il fiato”, disse con voce più sollevata nonno Penn, anche se faceva ancora fatica a respirare.

Chiara si chinò sull’erba e la accarezzò con dolcezza. “Che bello! — disse il vecchio, — Chi è quella bambina

che mi accarezza?”. “È Chiara,

nonno”. “Meno male

che c’è ancora qualcuno che mi vuole bene”.

“Perché stai

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male, nonno?”, chiese Bongo. “È una storia lunga. Tu adesso mi vedi vecchio e

malandato, ma una volta ero forte, fortissimo. Non mi batteva nessuno. Gli uomini mi camminavano sopra, senza ferirmi. Erano leggeri, anche se avevano gli scarponi. Mi spettinavano un po’, ma erano gentili. Ogni tanto mi graffiavano un po’ con le loro zappe, ma non faceva male e le ferite guarivano in pochi mesi. Poi mi facevano bello, mi coprivano di piante e fieno. Mi rubavano un po’ d’acqua, ma non tanta e io li lasciavo fare”.

Chiara e Bongo ascoltavano in silenzio. “Poi, non so perché, sono cambiati. Io non gli ho mica

fatto niente, ma loro sono diventati più cattivi e pesanti. Hanno cominciato a fare graffi sempre più profondi e a ricoprirmi di plastica e di cemento. Gli ho chiesto perché, ma nessuno rispondeva, erano sempre di corsa a scavare e a tagliarmi gli alberi di dosso. “Non fatelo”, dicevo, che è pericoloso, ma niente.

Così un giorno non ce l’ho più fatta a trattenere i miei fianchi e a valle sono cadute pietre e terra, che hanno sommerso le case e portato via tutto. Non volevo, ma non riuscivo proprio più senza piante addosso.

Speravo che avevano capito e avrebbero smesso. Invece niente, dopo un po’ di tempo erano di nuovo lì a tormentarmi.

Ero ormai diventato calvo, senza alberi e la neve cadeva, stava un po’ attaccata ai miei fianchi, poi giù a valle e distruggeva le case degli uomini. E la pioggia, si fermava appena nei miei ruscelli, poi giù anche lei a riempire i fiumi della pianura e via! Altre case distrutte. Intanto loro continuavano a coprirmi di plastica e cemento. Alla fine mi

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sono ridotto così, un vecchio senza voce, senza fiato e senza amici”.

“Ma noi ti vogliamo bene!”, dissero Chiara e Bongo assieme,

“Grazie, grazie, anche Alex mi vuole bene”. “Sì, nonno”. “Adesso voi siete leggeri, ma riuscirete a esserlo quando

sarete grandi?”. I due bambini e il pupazzo si guardarono perplessi.

“Dovete mantenervi leggeri, capire che tutto quello che vi sta sotto i piedi non è vostro. È di tutti”. Il vecchio si mise a tossire e i suoi fianchi tremarono tanto che i tre dovettero aggrapparsi a dei cespugli lì vicino per non volare via.

“Scusate, non volevo, ma sono così mal ridotto che anche quando non voglio faccio danni. Alex, per favore, toglimi quei due sacchetti dietro alla schiena”.

Alex, Chiara e Bongo partirono di

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corsa e si misero ad andare su e giù per i prati che coprivano i fianchi del vecchio, raccogliendo tutti i sacchetti, la plastica, le lattine e ogni oggetto che trovavano, per liberare il nonno.

Il vecchio era stanco e, mentre i tre correvano a liberare i ruscelli, si addormentò, russando piano piano.

Chiara lo accarezzò ancora una volta e gli diede un bacino su un sasso che spuntava lì vicino.

“Andiamo, torniamo giù”, disse Alex e si incamminarono per il sentiero.

“Ha ragione il nonno, bisogna essere leggeri - disse Alex. - Camminare leggeri, per non fare male alla terra”. I tre si avviarono giù per la discesa con il passo più leggero che potevano. Non parlavano nemmeno, per non infastidire il vecchio.

“Sentite. Se state in silenzio, si può ascoltare il respiro del nonno”,

“È vero”, disse Chiara. Cammina cammina erano ritornati nel cortile poco

illuminato del supermercato.

ATTIVITÀ: scheda 6

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Fiaba dell’omino con gli occhiali

“Bongo, ma qui dentro ci sono solo storie tristi?”. “No, vieni che ti faccio vedere un angolo dove ci sono

delle fiabe che finiscono bene”. “Dai!”. “Ti ricordi cosa diceva Alex?”. “Diceva, diceva ... che bisogna essere leggeri”. “Brava!”. “Ora ti racconto la storia di un omino leggero leggero,

che però sapeva diventare pesante, quando voleva”. “Dai!”. “Era un omino piccolo, magro, con gli occhiali tondi e la

testa pelata”. “E come faceva a diventare pesante?”. “Ecco, per esempio, a quell’epoca c’erano gli schiavi.

L’omino diceva che non è una vergogna essere schiavi, è una vergogna avere degli schiavi. Capisci?”.

“Un po’ ”. “L’omino voleva dire che se c’è ancora tanta gente che

sta male al mondo è perché tanti hanno troppe cose. Lui viveva in un grande paese dove c’erano tanti poveri, e occupato da stranieri.”

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“Cosa vuole dire occupato?”. “Che questi stranieri erano arrivati lì con le armi e si

erano messi a comandare. Come se un giorno arrivasse uno a casa tua e si mettesse a fare quello che vuole e a comandare tua mamma e tuo papà”.

“Ho capito”. “Un giorno l’omino andò in un negozio e chiese quanto

costava un vestito. Il negoziante disse che costava tanto, perché la gente del posto coltivava il cotone, però poi i vestiti li facevano in Europa e li rimandavano lì. Così i soldi andavano tutti a quegli stranieri che comandavano il suo paese. L’omino ci pensò un po’, poi si grattò la testa pelata e disse ‘Ci penso io’. Andò da un contadino, comprò un po’ di cotone da lui, tornò a casa e si mise a farsi il vestito da solo.

La gente lo guardò stupita. Gli stranieri si misero a ridere, cosa poteva mai fare quell’omino da solo? Che si facesse pure il suo vestito. Era un omino piccolo, leggero, ma mentre filava quel cotone diventava sempre più grande e pesante. Tutti cominciarono a pensare che forse aveva ragione lui, che non era giusto che altra gente si arricchisse con il loro cotone e che bisognava farsi i vestiti da soli.

Quando videro le strade piene di gente che filava il cotone e che si tesseva gli abiti, gli stranieri iniziarono a preoccuparsi. I loro negozi rimanevano vuoti, nessuno

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andava più a comperare da loro e così dovettero abbassare i prezzi.

Un po’ di giorni dopo la moglie dell’omino si accorse che non aveva più sale per la minestra. ‘Puoi andare tu a comprarne un po’?’, disse al marito. Lui si mise il suo bel vestito bianco, fatto con le sue mani, e uscì di casa. Arrivato al negozio scoprì che il sale era diventato più caro.

‘Gli stranieri hanno aumentato le tasse sul sale’, disse il negoziante. L’omino si grattò di nuovo la testa pelata e uscì dal negozio. Vedendolo arrivare a mani vuote la moglie gli chiese cosa era successo.

‘Non bisogna più comperare il sale da quegli stranieri!’. ‘E come la faccio io la minestra?’. ‘Abbi pazienza e vedrai’. Prese il suo bastone e uscì di

casa. Per strada la gente gli chiedeva ‘Dove vai?’, ‘A prendere il sale’. ‘Ma il negozio è dall’altra parte’. ‘Non vado al negozio, costa troppo caro’. ‘E dove vai a prenderlo?’. ‘Dove sta il sale?’. La gente pensò un po’, poi uno disse: ‘Nel mare’.

‘Ecco, io vado là’. ‘Ma è lontano di qui!’. ‘Basta camminare.

Nessun posto è abbastanza lontano se vuoi arrivarci’.

‘Vengo anch’io!’, disse uno.

‘Anch’io!’, disse un altro e dopo un po’ dietro all’omino si formò una coda di gente che

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camminava verso il mare. Gli stranieri rimasero a bocca aperta. Quell’omino

diventava sempre più pesante e grande. Uno disse: ‘Mettiamolo in prigione!’.

‘Non si può mettere in prigione un uomo solo perché non vuole comprare il sale’, disse un giudice. Così rimasero lì, con i loro sacchi di sale nei magazzini, mentre l’omino e i suoi amici andavano a prenderselo al mare.

Nessuno comprava più sale, vestiti, nulla, e gli stranieri cominciarono a pensare che era meglio parlare con quell’omino.

‘Forse avete cominciato a capire che è ora di smettere di arricchirvi sulle spalle del nostro popolo.

Qui la gente non ha neppure il necessario per vivere e voi siete ricchi. Chi ha più del necessario è un ladro. E voi fate faticare la gente di questo paese per arricchirvi sempre di più. Dio ha creato l’uomo perché si procurasse il cibo con il lavoro e disse che chi mangiava senza lavorare era un ladro. Se ognuno vivesse con il sudore della propria fronte, la terra diverrebbe un paradiso. Ricordate che un paese può fare a meno dei suoi miliardari, ma mai del lavoro e che è ora che ve ne andiate di qui, perché i veri governanti sono i milioni di uomini e donne che faticano!’.

Gli stranieri guardavano quell’omino minuscolo, pelato, che diventava sempre più grande mentre parlava.

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Dopo un po’ si sentirono schiacciare dal peso dell’omino e non riuscirono più a resistere. Presero i loro bagagli e se ne andarono.

Mentre erano sulla nave, uno degli stranieri disse a un suo compagno: ‘Non capisco come fa a diventare così pesante quell’uomo’.

‘È il peso delle sue parole’.

L’omino stava sulla riva del mare a guardare la nave che partiva. Si pulì gli occhiali, li infilò sul naso e salutò con la mano gli stranieri.

‘Sembra un passerotto, eppure!’.

‘Eppure ha la forza di un’aquila’.

L’omino si grattava la testa pelata e sorrideva”.

“Che bella storia!”, disse Chiara raggomitolandosi sulla pancia morbida di Bongo.

“Sono contento che ti sia piaciuta. Non devi mai

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dimenticare le parole di quell’omino”. Mentre Bongo le accarezzava i capelli, Chiara piano

piano si addormentò. Sognò un mare pieno di pesci, una foresta grande grande e con tanti animali e piante diversi che crescevano insieme, sognò bambini che giocavano e tutti che mangiavano. Sognò anche l’omino con gli occhiali che le parlava e le diceva tante belle cose.

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Un nuovo amico “Eccola!”. Era da un po’ di tempo che la mamma di

Chiara girava per il supermercato in cerca della bambina e finalmente l’aveva trovata. Era lì, rannicchiata sotto lo scaffale dei peluche che dormiva,

“Chiara! Chiara!”, chiamò la mamma, ma la bambina continuava a dormire.

“Chiara, svegliati!”. Chiara aprì gli occhi e vide la mamma che le sorrideva. “Mamma!”.

“Piccola, dov’eri finita? Credevo di averti persa”. “Ero con un amico”. “Chi era? Un bambino che hai incontrato qui?”. “No, era... come una

melanzana, ma parlava e sapeva tante cose”.

“Piccolina, avrai sognato. Vieni che andiamo a casa”.

“Aspetta, devo salutarlo”. “Dai che è tardi”. “Noo, aspetta!”. Chiara alzò

gli occhi e lo vide lassù, sullo scaffale, immobile come gli altri pupazzi.

“Eccolo, mamma, è lui”. “Lui chi?”. “Bongo, il mio amico”.

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“Ma quello è un pupazzo”. “Ma no, sembra un pupazzo, ma parla, cammina e sa un

sacco di storie”. “Dai, andiamo, che viene tardi”. Chiara continuava a torcersi il collo per guardare

all’indietro, verso lo scaffale, mentre la mamma la tirava per la mano verso l’uscita.

Chiara puntava i piedi, non voleva lasciare Bongo da solo lassù. A quel punto sentì che qualcun altro le prendeva l’altra manina. Chiara si voltò e vide un bambino biondo, con una sciarpa al collo.

“Vieni, Chiara, vieni. Sai, a volte i grandi non capiscono. Sono stati anche loro bambini, ma non se ne ricordano mai”.

“Ma tu sei quell’amico di Bongo, quello che diceva delle belle cose”.

“Sì, sono io, ma adesso andiamo”. Erano vicini all’uscita ormai e quando già stava per

perdere di vista lo scaffale, Chiara si voltò per l’ultima volta e vide che il pupazzo le strizzava l’occhio e con la mano le faceva un segno che voleva dire: “Ci rivedremo, Chiara, ci rivedremo”.

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