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FORME A TEMPO
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA ALTA FORMAZIONE ARTISTICA E MUSICALE
Accademia di Belle Arti di Palermo Biennio Specialistico in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo
Proff. Marcello Faletra/Sergio Pausig
FORME A TEMPO
Relatore: Tesi di:
Prof. Glauco Bertola Rosaria Di Dio
________________________________________________________________________________________________
anno accademico 2008/2009
“Tutto è in formazione, trasformazione, deformazione”
Johann Wolfgang Goethe, “Faust”.
1
Io: “Mamma, cos’è questa cosa che ho trovato dentro al frigo?”
Mamma: “Quale, gioia mia? Ah! Una carota...”
Picasso diceva sempre di non cercare lontano, basta guardare sotto al proprio naso. Ed io l’ho fatto. Ho
abbassato lo sguardo ed ho scoperto un altro mondo.
Da qui inizia la mia avventura. Cerco di godere di piccoli “momenti”, che poi sono la somma della nostra
intera vita, tutta quella che ci è concessa.
2
Muffe.
Divoratori di mondi alla ricerca di nuova bellezza,
che nasca dalla trasfigurazione di questo nostro universo;
compresso, riassunto in una fragola, un limone,
messo sotto l’osservazione di una lente di ingrandimento,
per guardare le cose che di solito addirittura rifiutiamo di vedere.
La mutazione, lenta, leggera, da uno stato di vita all’altro,
a rivelare le miniere nascoste sotto la buccia,
i brillanti incastonati tra gli spicchi;
un popolo, invisibile, meticoloso, irrequieto,
occupato a estrarre il materiale
per fabbricare i gioielli della sua splendida, eterna, regina.
Ghigo
3
MUFFA s. f. T. Bot. Muffa. Pianta crittogama della famiglia dei funghi, composta di individui tanto sottili e
dilicati che un legger soffio basta a distruggere […].
MUFFIR. Figurat. Star pulcellone. Dicesi delle giovani che stanno senza marito oltre il tempo convenevole.1
1 Vocabolario parmigiano-italiano accresciuto di più che cinquanta mila voci Carlo Malaspina - 1858.
4
Ma tralasciamo l’aspetto prettamente scientifico di “ortaggi e frutta marcescenti”, accostandoci al loro
mondo magico, nascosto, e per far ciò: “Bisogna aprire gli occhi per essere attenti, per rispettare l’oggetto della
nostra indagine. Ma bisogna saper chiudere gli occhi per guardarlo meglio, per interpretarlo e comprenderlo negli
aspetti che ci riguardano. Bisogna accettare che le nostre palpebre sbattano. Allora salgono le lacrime, mentre il
visibile si nasconde dietro il sottile panneggio delle nostre palpebre. Per guardare bene – soprattutto un oggetto del
tempo – bisogna saper aprire, ma anche chiudere gli occhi”.1
1 Georges Didi – Huberman, “Ninfa Moderna. Saggio sul panneggio caduto”, Il Saggiatore, 2004, p. 112.
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E chiudendo gli occhi si inizia a viaggiare tra gli anfratti, i meandri, le fessure e i dirupi di queste “cose che
vengono scartate, che non sono buone e tutti lo sanno”1 pensava Andy Warhol. E, “come ha detto Jacques Dupin,
la mano dell’artista è intervenuta solo a raccoglierli e salvarli dall’abbandono, dalle lacerazioni, dal passo degli
uomini e da quelli dal tempo”2, divenendo, secondo Luis Aragon, “il gioielliere di materie scartate, incastonatore
di rifiuti senza impiego”, cercando di “seguire [...] le tracce degli oggetti silenziosi e di estrarre dall’abbondanza
infinita un pezzo d’esistenza, un frammento che, staccato dal disordine, diventa nuovo, puro, mai visto”.3
D’altronde Galimberti osserva che “[...] basta capovolgere l’oggetto per fargli smarrire la sua fisionomia, il suo
senso; basta mettersi con la testa all’in giù per sentire lo spazio come “contro natura”.4
1 Citato in Umberto Eco, “Storia della bruttezza”, p. 388, (La filosofia di Andy Warhol). .2 M. Faletra, “Dissonanze del tempo”, Edizioni Solfanelli, Chieti, 2009, p. 23.”3 H. Windish, “1928/29” (editoriale di Das Deutsche Lich bild, 1928).4 Umberto Galimberti, “Il Corpo”, Feltrinelli Editore, Milano, 1996, p 73..
6
Spazio mentale
Ciò che rappresentoè immagine visibiledel mio pensiero. Del pensiero che vedee si riconoscein ciò che già è.Coincidenze di posizionefisica e mentale.D’essere e spazio.Luoghi di transizione.interno ed esterno.Opposizione complementared’antagonisti ubiqui.Svelo il mondodel non veduto.Rappresento ciò che non so.1
1 Per la mostra di Silvio Wolf, Milano 1981. Arturo Carlo Quintavalle, “Messa a fuoco”, Feltrinelli Editore, milano, 1983, p. 486.
7
Divengono nuove vite, nuovi soggetti, strappati alla morte, alla
distruzione, all’oblio, come gli oggetti ritrovati da Brassaï e ritratti
in “…un gruppo d’immagini straordinarie, corredate da didascalie
scritte insieme a Salvador Dalí, che recano il titolo Sculture involontarie.
Gli archivi Brassaï conservano le lastre di lavorazione – prove stampate
a contatto e incollate su cartone – che mostrano perfettamente come
un artista moderno si costruisca un archivio di forme miserabili
per estrarne “la bellezza misteriosa che la vita umana vi mette
involontariamente”.1
“Le immagini di Dalí e Brassaï rappesentano volgari pezzi di carta,
come biglietti di teatro che arrotoliamo in tasca in piccoli cilindri,
o i frammenti di gomma che modelliamo inconsapevolmente - ed è
l’ingrandimento prodotto dalla macchina fotografica a essere pubblicato
come scultura involontaria”.2
1 Georges Didi – Huberman, op. cit. p. 107.2 Rosalind Krauss, “Teoria e storia della fotografia”, Bruno Mondadori Editori, Milano, 1996, p 121.
Rivista “Minotaure” n. 3-4 del 1933 “Sculptures involontaires” di Brassaï.
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E da sempre gli scatti fotografici “aprono nel visibile quotidiano universi inattesi che ispirano artisti e scienziati.
Con l’aiuto della macchina fotografica Blossfeldt vede meglio, di più e qualcosa di inaspettatamente originale. Egli
prova che da tempo immemorabile il corpo della pianta parla la lingua dei diversi stili dell’arte”.1
“L’erbario fotografico di Blossfeldt rappresenta in primo luogo una formidabile raccolta di forme vegetali sospese tra arte e natura ed emerse grazie alle nuove capacità d’ingrandimento della macchina fotografica, uno strumento che non tutti saprebbero utilizzare morfologicamente, come scrisse lui stesso nel 1929: “... Osservare, vedere e trovare le forme, questo lo possono fare solo pochi”, tra cui senza dubbio lui. Le piante protagoniste delle sue foto non crescono in natura, ma sono state ottenute attraverso una minuziosa manipolazione dei soggetti - raccolti, lavorati e successivamente fotografati in studio secondo un procedimento rimasto invariato in oltre trent’anni d’attività. Il risultato è un organismo cristallizzato, fermato in un momento del suo sviluppo, ridotto alle sue linee essenziali ed estraneo alla sfera del vivente”.2 Le sue piante soddisfacevano la condizione [...] di registrare l’oggetto chiaramente senza alcuna trasformazione artistica comunicando con la sua presenza il significato oggettivo di se stesso e svelando un mondo non soggettivo, transitorio e accidentale, ma reale e persistente”.3
1 Elena Canadelli, “Icone organiche. Estetica della natura in Karl Blossfeldt ed Ernst Haeckel” Mimesis Edizioni, Milano, 2006, p. 10.2 Elena Canadelli, op. cit. p. 13-14.3 Elena Canadelli, op. cit. p.16 - 17.
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Esistono anche esempi pittorici: “In Dirt Painting (for John Cage) del 1953 di Robert Rauschenberg il quadro
contiene terra e muffe. Qui il materiale non ha niente di gerarchico, è il più comune e abbondante, letteralmente
“umile” e inutile (la terra con la muffa non ricorda la coltivazione). [...] Certamente c’è una radicalizzazione del
“già”, del “trovato” del ready - made, dell’object trouvée, quindi un riferimento a suo modo storico al già stato del
Dada: cosa c’è di più “trovato” della terra? Si tocca il pregiudizio della verticalità del quadro-finestra: cosa più
orizzontale della terra? Si mette in gioco la creatività: in un pezzo di terra con muffa c’è più varietà, maggiore
quantità e densità di differenze materiali, di combinazioni, di quanto possa fare un pittore “geniale” con il pennello
e la tavolozza”.1
“I suoi quadri [...] confermano l’adagio che Freud cita”: sporcizia è roba nel posto sbagliato. “[...] l’opera di
Rauschenberg è una grande celebrazione del rifiuto non dialettico, inarticolato”.2
1 Luigi Ruggiu e Francesco Mora, “Identità, differenze, conflitti”, Mimesis Edizioni, Milano, 2007, p. 308. 2 Yve-Alain Bois, Rosalind Krauss, “L’informe”, Bruno Mondadori Editori, 2003, p. 51.
10
“[...] Rudolf Arnheim cita questi ricordi di Jean Arp: “[...] Anche la polvere e gli insetti sono efficaci per la
distruzione. La luce consuma i colori. Il sole e il caldo producono vesciche, [...]. L’umidità crea muffa. L’opera va a
pezzi, muore. La morte di un quadro non mi spingeva più alla disperazione. Aveva stretto il mio patto con il suo
trapassare, con la sua morte, e ora essa era per me parte del quadro. Ma la morte cresceva, e smangiava il quadro
e la vita. Questo dissolvimento avrebbe dovuto esser seguito dalla negazione di ogni agire. La forma era diventata
informe, il Finito l’Infinito, l’Individuale il Tutto”.1
1 Yve-Alain Bois, Rosalind Krauss, op. cit. p. 209 - 210.
11
155 “E perciò, quando avremo veduto che nulla nasce dal nulla,
156 allora già più agevolmente di qui noi potremo scoprire
157 l’oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza,
158 e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi.
215 [...] la natura disgrega di nuovo ogni corpo
216 nei suoi elementi essenziali, ma non può annientarlo del tutto.
217 Se ci fosse qualcosa di mortale difatti in tutte le sue parti,
218 ogni corpo perirebbe, d’un tratto rapito allo sguardo:
219 E non ci sarebbe bisogno, in tal caso, di alcuna violenza
220 che disgreghi le parti di esso e ne sciolga i legami.
221 Ma invece, poiché tutte le cose consistono di eterni elementi,
222 fino a che sopravvenga una forza a frustarle di colpi,
223 o vi penetri dentro nei vuoti e alfine le scinda,
224 la natura non lascia vedere la fine di alcuna”.1
1 Tito Lucrezio Caro, “DE RERUM NATURA, la natura delle cose”, traduzione di Luca Canali, Edizione Mondolibri S.p.a., Milano, 1997.
12
“La forma del vivente, quando cessa di vivere, partorisce qualcosa che non è l’informe per semplice negazione - per
semplice scomparsa, per semplice privazione – ma l’informe per sopravvivenza, l’informe dotato della capacità
di proliferare, manifestato dalle colonie di microbi, dai mucchi di vermi brulicanti, dagli sciami di mosche o dalle
brigate di fantasmi”.1
In-forme dunque, (incomposto, sconcio), dove il prefisso funge da negativa e “forma” equivale alla
figura esteriore che si trans-forma, guarda al di là di essa, per poi de-formarsi, creando allontanamento,
mancanza.
” Per Bataille l’informe era la categoria che poteva permettere di decostruire tutte le categorie. Nel Dictionnaire
della rivista “Documents” lo paragonava allo sputo, deleterio nel suo stato fisico informe, [...]. Bataille, allergico
alla nozione di definizione, non esplicita tanto il senso di informe, preferisce invece imporgli un compito, quello
di disfare le categorie formali, di negare che ogni cosa abbia una forma propria, di immaginare il senso diventato
senza forma, come una ragnatela o un verme schiacciato sotto il piede. [...] Bataille non vuole che le frontiere
prodotte dai termini siano trascese, ma che siano semplicemente trasgredite o fatte a pezzi, creando un’assenza di
forma attraverso la corruzione, la putrefazione o l’imputridimento”.2
17 Georges Didi – Huberman, op. cit. p. 91.2 Rosalind Krauss, op. cit. p. 176 - 177.
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“Chi può sapere se il vivere non sia morire e il morire non sia vivere? Forse la nostra vita è in realtà una morte. Del
resto ho già sentito dire, anche da uomini sapienti, che noi ora siamo morti e che il corpo è per noi una tomba”.1
1 Platone, Gorgia, 492e-493
14
Come un collezionista ho frugato dietro il bancone del fruttivendolo, nel frigorifero, come un “cercatore
di perle, colui che si cala nelle profondità vertiginose del mare per cogliere perle e coralli in cui anche la morte è
diventata qualcosa “ di ricco e di strano”. Il collezionista è certamente questo “pescatore di perle”. E certamente
il suo coraggio non si limita ad affrontare le profondità del mare, e l’enigmatico sorriso in cui, nella cosa, morte e
bellezza si confondono. Egli deve sfidare anche i decreti che vorrebbero questi gioielli sepolti per sempre. Egli deve
infrangere questa legge. L’amore che lo spinge dev’essere dunque un amore distruttivo.
[...] Recupera oggetti di indicibile e inquietante bellezza e oggetti di straordinaria e repellente bruttezza, che
egli trasforma, con il suo tocco, nel frammento di una verità e di una bellezza nuove, ancora sconosciute, ma che
iniziano qui a mormorare il loro oscuro messaggio”.1
Una prima “Estetica del brutto” fu elaborata da Karl Rosenkrantz, nel 1853, dove “traccia un’analogia
tra il brutto e il male morale. Come il male e il peccato si oppongono al bene, di cui sono l’inferno, così il brutto è
“l’inferno del bello”.2
Charles Baudelaire, sette anni prima scriveva delle massime consolanti sull’amore: “Per certi spiriti più
curiosi e disincantati, il piacere del brutto proviene da un sentimento più misterioso, che è la sete dell’ignoto e il
gusto dell’orribile.”3
1 Franco Rella, “Metamorfosi, Immagini del pensiero”, Feltrinelli, Milano, 1984, p. 47 - 48. 2 Umberto Eco, op. cit. p. 16.3 Citato in Umberto Eco, “Storia della bruttezza”, p. 352.
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Orribile, brutto ma soprattutto macabro, di cui “L’etimologia del termine (macabro), abbastanza recente,
rimane controversa (forse viene dall’arabo o dall’ebraico, forse da un nome di persona come Macabrè) e
probabilmente il rito nasce a causa dei terrori diffusi dalla grande peste nera del XIV secolo, [...]”.1
[...] Il macabro e il mostruoso pervade i moduli figurativi seicenteschi dove il corpo sezionato, aperto, immagine
di perfezione e disfacimento insieme, diventa il più genuino momento mori del tempo, misura di un’umanità
semidivina e del suo limite biologico, del suo ineluttabile destino di corruzione”.2
Nelle opere di Zumbo, scultore ceroplasta siracusano del Seicento “la morte avvolge ogni forma e distrugge
ogni senso di bellezza, con una rappresentazione scrupolosa tipica della scienza dell’anatomia che coglie il processo
di disfacimento della carne. L’artista diviene il traduttore della morte che distrugge la vita. Il tutto caratterizzato
dalla cultura del Manierismo e della prima età barocca, rappresentata dagli sfarzi, dalla miseria e dai forti
contrasti sociali”.3
Ma “le desiderabili giovani morte dell’abate Zummo, dai seni scoperti e dalle forme flessuose, sono proprio il
simbolo del suo amore per la vita e la bellezza, il compianto della bellezza naturale che muore e si decompone sotto
la tragica legge interna della stessa natura”.4
1 Umberto Eco, op. cit. p. 67.2 Paolo Giansiracusa, “Gaetano Giulio Zumbo”, Fabbri Editori, Milano, 1988, p. 59.3 Stefano Zuffi, “La Natura morta”, Mondadori Electa S.p.A., Milano, 2006, p. 12.4 Paolo Giansiracusa, op. cit. p. 68.
16
Anche Peter Joel Witkin mostra i resti delle caduche membra umane. Come in un macabro circo egli gioca
con le deformità e la Morte, riprendendo “deliberatamente il tema della vanitas barocca. Le sue macabre figure,
smembrate, ferite, decapitate, ridotte a “nature morte”, rientrano in quell’espansione metonimica che elegge il
particolare a motivo generale dell’immagine”.1
Spesso si è avuta occasione di “osservare nature morte che alludono al trascorrere inesorabile del tempo, alla
fugacità delle cose terrene o alla brevità della vita. Tali soggetti in realtà fanno capo a un tipo particolare di natura
morta, la vanitas vanitatum che ricorda l’inutilità dei beni terreni e dei lussi mondani di fronte all’ineluttabilità
della morte”.2
1 M. Faletra, op. cit. p. 42.2 Stefano Zuffi, op. cit. p. 245.
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Un giorno, una mia amica, guardando le mie foto, mi disse che le ricordavano il film di Peter Greenaway
“Lo Zoo di Venere” che “racconta la vicenda di due personaggi che, di fronte al dolore, all’inesplicabilità della
morte stessa, sono spinti ad occuparsi in modo ossessivo dell’origine della vita sulla terra [...]”.1
Sono tanti i temi che si intrecciano nel film. Quello della decadenza, della putrefazione, e la straordinaria
intuizione che il cinema, arte del tempo, che lavora “nel” tempo, debba riuscire a rendere conto del procedere
del tempo. Il cinema si srotola nel tempo, filma frammenti di tempo, perciò deve interrogarsi sul tempo, sulla
trasformazione nel tempo delle cose e degli esseri viventi. Sul fallimento della permanenza, sull’inanità del
tentativo di capire il senso del deteriorarsi, del non-permanere, del non eternarsi”.2
Greenaway riesce a “filmare la morte non “al lavoro”, ma dopo. Quando lascia il lavoro agli spazzini. Filma, per
così dire, la vita dei cadaveri, la loro perdita irrevocabile di tutto ciò che erano stati da vivi”.3
“Imperniato sui due concetti di decomposizione e di riproduzione, “Zoo” coniuga morte e vita. [...]lo spettatore
arriva a sentire come inevitabile che in questa catena di necessità - evolversi come specie, nascere come individuo,
morire, decomporsi - ci sia anche lui”.4
1 Giovanni Bogani, “ Peter Greenaway”, Editrice Il Castoro, Roma, 1995, p 71 - 72.2 Giovanni Bogani, op. cit. p. 74.3 Giovanni Bogani, op. cit. p. 76.4 Giovanni Bogani, op. cit. p. 79.
18
“[...] il tempo si vive alla giornata”.1
“Il tempo infatti è qualcosa di mobile, che si manifesta insieme alla materia in movimento, e scorre sempre senza
trattenere nulla, simile a un vaso di Nascita e di Morte [...]. Non c’è nella condizione umana nulla di stabile e nulla
di realmente eistente”.2
“Destinato a scomparire” ci ricorda Occhipinti e continua dicendo che “la natura [...] obbedisce anch’essa al
destino del reale, al cosmico vento: in quella compressione all’inizio del ciclo, in quella frazione minima di tempo
stanno le ragioni”.3
1 M. Faletra, “Dissonanze del tempo”, Edizioni Solfanelli, Chieti, 2009, p. 48.2 Plutarco.3 Giovanni Occhipinti, “la maschera e la metamorfosi”, Edizioni Università Popolare, Ragusa 1987, p. 55.
19
“Naturale è la morte per vecchiaia, quella che tutti accettiamo perché è l’unica che ubbidisce a quell’itinerario bio-
logico che è poi il modello con cui la scienza ci ha abituati a pensare il nostro corpo. Ma proprio perché siamo così
persuasi della “naturalità” di questa sopravvivenza che ogni giorno, grazie alle tecniche mediche, guadagna la vita
sulla morte, la terza età perde senso, se non diventa addirittura un “peso morto”, al contrario di quanto accadeva
presso i primitivi dove il vecchio era un’espressione simbolica fondamentale per il gruppo”.1
1 Umberto Galimberti, op. cit. p. 52.
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SOCRATE - Allora, se un uomo ama il corpo di Alcibiade, non ama Alcibiade, bensì una delle cose che gli
appartengono. [...] Ma chi ama il tuo corpo non ti abbandona forse quando sfiorisce? [...] Ecco, io sono colui che non
ti abbandona, ma rimane quando il tuo corpo sfiorisce, mentre gli altri si sono allontanati”.1
1 Platone “Alcibiade I o maggiore”.
21
“...tutte le mattine ci disegniamo per recitare la nostra parte nella quotidiana commedia dell’esistenza: se siamo
deboli ci disegniamo per recitare la parte dei forti, se siamo poveri ci disegniamo per recitare la parte dei ricchi, se
siamo ricchi qualche volta ci disegniamo per recitare la parte dei poveri. Qualche volta ci disegniamo per sembrare
come pensiamo di essere”.1
1 Ettore Sottsass, “Foto dal finestrno”, Adelphi Edizioni, Milano, 2009, p. 29.
22
Inesplorato.
Bello alla vista, poco considerato inverità.Si apprezza solo ciò chesi decide.Sognare solo ciò cheil sogno permette...Travalica, ma non troppo...Fiorisce, ma non troppo.Figlio della natura,ma destinato a morire,solo pochi si accorgeranno.Pochi hanno la capacitàdi ascolto...
L’animasi compiace...Rubando, il temporegala piaceri...mondi da scoprire,mondi diversi,da capire.
Antonella.
23
Bibliografia
Giovanni Bogani, “ Peter Greenaway”, Editrice Il Castoro, Roma, 1995.
Yve-Alain Bois, Rosalind Krauss, “L’informe”, Bruno Mondadori Editori, 2003.
Elena Canadelli, “Icone organiche. Estetica della natura in Karl Blossfeldt ed Ernst Haeckel” Mimesis
Edizioni, Milano, 2006.
Georges Didi – Huberman, “Ninfa Moderna. Saggio sul panneggio caduto”, il Saggiatore, 2004.
Umberto Eco, “Storia della bruttezza”, Bompiani, Borgaro Torinese, 2007.
Marcello Faletra, “Dissonanze del tempo”, Edizioni Solfanelli, Chieti, 2009.
Umberto Galimberti, “Il Corpo”, Feltrinelli Editore, Milano, 1996.
24
Paolo Giansiracusa, “Gaetano Giulio Zumbo”, Fabbri Editori, Milano, 1988.
Rosalind Krauss, “Teoria e storia della fotografia”, Bruno Mondadori Editori, 1996.
Tito Lucrezio Caro, “De Rerum Natura, la natura delle cose”, traduzione di Luca Canali, Edizione
Mondolibri S.p.a., Milano, 1997.
Andrea Pinotti, “Estetica della pittura”, Il Mulino Edizioni, Bologna, 2007.
Arturo Carlo Quintavalle, “Messa a fuoco”, Feltrinelli Editore, Milano, 1983.
Franco Rella, “Metamorfosi, immagini del pensiero”, Feltrinelli Editore, Milano, 1984.
Luigi Ruggiu e Francesco Mora, “Identità, differenze, conflitti”, Mimesis Edizioni, Milano, 2007.
Ettore Sottsass, “Foto dal finestrino”, Adelphi Edizioni, Milano, 2009.
25
Stefano Zuffi, “La Natura morta”, Mondadori Electa S.p.A., 2006.
26