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FORMARSI AGGIORNARSI CONDIVIDERE

I webinar per gli insegnanti di italiano e area umanistica

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Le dolenti note: tratti in movimento dell’italiano contemporaneo

18 Febbraio 2015

Relatore: Giuseppe Patota

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Passato prossimo o passato remoto?

Giorgio Napolitano è nato a Napoli il 29 giugno 1925. Francesco Cossiga nacque a Sassari il 26 luglio 1928.

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da “la Repubblica”, 28 gennaio 2001

Maria José di Savoia

È morta colei che nella storia di casa Savoia – o almeno nei suoi momenti cruciali – ha

saputo introdurre un elemento insolito, assai poco formale o dinastico: una sorta di

scandalo. Tutto, da quel gennaio del 1930 che la vide andare sposa a Umberto di Savoia,

sembrava predisporre per lei, a rigore di logica e di anagrafe, un futuro di Regina. E tuttavia

l’immagine storica di Maria José resta quella di una “Regina per caso”, che porta in testa la

sua corona – come dire? – sulle ventitré. Questa connotazione balzana, al limite d’un gentile

paradosso, non emerse tanto nei ventisette giorni in cui a Maria José toccò di “regnare”,

sotto il segno di una patetica provvisorietà, accanto a suo marito. Era già esplosa, una simile

contraddizione, nella lunga attesa del trono. Per sedici anni, dal ‘30 appunto al ‘46, Maria

José ebbe modo di valutare, in maniera a volte drammatica, la propria impossibilità di

diventare davvero una donna di casa Savoia, come in maniera diversa erano riuscite ad

esserlo Margherita ed Elena, le consorti regali che l’avevano preceduta […]. Benché esibita

nelle cerimonie di corte e di regime, accanto al marito e ai figli, come garante di un futuro

dinastico italiano, nei fatti la figlia del Re dei belgi visse nella corte d’Italia come una

clandestina […]. (da “la Repubblica”, 28 gennaio 2001)

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da “la Repubblica”, 15 febbraio 2004

Marco Pantani

La breve vita agra di Marco Pantani detto il Pirata, nato a Cesena il 13 gennaio del 1970,

cittadino di Romagna e ciclista dalle formidabili arrampicate, si è consumata come un

assolo di sassofono, quando certe note sono così belle perché folgoranti e ti lasciano senza

fiato. Così correva lui, a lampi, a strappi, a scatti che parevano scintille. Fin da subito, però, i

suoi mirabolanti successi furono scanditi da altrettante sfortune. Come certi artisti

“maledetti” e sublimi, aveva addosso le stimmate del genio e della sregolatezza.

Amava la musica più di ogni altra cosa (e anche ballare). Il paragone del sax è suo, confidato

in una notte di malinconia, a Cesenatico: “Ho sempre sognato la maglia gialla, mi farò una

grande casa tutta dipinta di giallo. Ma mi sento più solo che mai, ora che sono diventato

famoso, ora che ho vinto il Giro e il Tour nello stesso anno. E quando mi sento solo ho voglia

di ascoltare il sax”. Lo aveva atteso, al suo ritorno da Parigi, una folla in delirio. Poi, dopo lo

scandalo del doping, dopo i processi, dopo i tentativi di ricucirsi un’immagine che non c’era

più, quella folla si dissolse come neve al sole. Lo consolava, allora, sempre e solo la musica

e purtroppo, con la musica, la droga […]. (da “la Repubblica”, 15 febbraio 2004)

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da “la Repubblica”, 31 luglio 2007

Michelangelo Antonioni Con Michelangelo Antonioni, morto ieri sera nella sua abitazione nella capitale, a 94 anni, assistito fino all’ultimo dalla moglie Enrica Fico – non se ne va solo uno dei grandi vecchi del cinema italiano e internazionale, amato e celebrato in tutto il mondo, come dimostra l’Oscar alla carriera ricevuto nel 1995. Con lui scompare anche uno stile davvero unico, all’interno della settima arte: quello di un regista che ha sempre fatto dell’occhio – quello della cinepresa, spesso apparentemente impassibile, e quella dell’autore che silenziosamente la muove – il centro della sua visione poetica. In cui emergono l’incomunicabilità tra le persone, l’insufficienza delle parole, la solitudine. E poi, per contrasto, il potere dello sguardo, la perfezione dell’immagine. Un modo di concepire, realizzare e “vedere” i film creata non solo con intenti estetizzanti, ma anche per far venire fuori, senza inutile retorica, l’interiorità e la psicologia dei personaggi. Con un tratto così particolare, e così coerente, da rendere vani i pur numerosi tentativi di imitazione. E senz’altro più adatto a una fruizione critica, o cinefila, che al grande pubblico. Una singolarità che Antonioni – autore di tanti e a volte controversi capolavori, a cominciare dagli eterni cult Blow up e L’avventura – ha tenuto ferma fino alla fine. A dispetto della malattia che negli ultimi anni gli ha impedito di parlare, ma non di comunicare attraverso le sue opere. Classe 1912, ferrarese, una laurea a Bologna in Economia e commercio, Antonioni si accosta al cinema attraverso l’attività di critico per i giornali. Poi il trasferimento a Roma, dove frequenta il Centro sperimentale di cinematografia. Collaborando con autori del calibro di Roberto Rossellini.

>>> segue

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Ma è nella sua terra d’origine che realizza il suo primo documentario, il cui titolo dice già tutto: Gente del Po, anno 1947. In quello stesso periodo, lavora anche come sceneggiatore, in pellicole importanti: Caccia tragica, di Giuseppe De Santis (1946), Lo sceicco bianco di Federico Fellini (1952). Il primo film che porta interamente la sua firma è Cronaca di un amore. Un’opera prima, ma già molto personale nei temi e nello stile: uno spunto quasi giallo, personaggi borghesi indagati nei loro moventi psicologici, una certa asciuttezza. A questo esperimento, riuscito, seguono poi I vinti (1952) sulla crisi della gioventù europea; La signora senza camelia (1953), ambientato proprio nel mondo del cinema; Le amiche (1955) e Il grido (1956). Ed è alla fine degli anni Cinquanta che arriva il suo primo, vero capolavoro, il film che molti cinefili, ancora oggi, considerano il suo migliore: L’avventura (1959). Pellicola così diversa dalle altre, così particolare, così raffinata, da suscitare, nella sua passerella a Cannes, reazioni assai contrastanti: forse per la lentezza, per il suo affidarsi alle immagini e agli sguardi, senza badare al ritmo. E che ha tra i protagonisti Monica Vitti, suo amore e sua Musa in questa fase della carriera. E infatti, dopo L’Avventura, arrivano La notte (1960) e L’eclisse (1962), sempre con la Vitti. Così come Deserto rosso, anno 1964: il primo film in cui Antonioni accetta la sfida del colore, dopo tante produzioni in bianco e nero, e che gli vale il primo Leone d’Oro della Mostra di Venezia (il secondo, alla carriera, è del 1983) […]. E adesso – nello stesso giorno in cui si spegne un altro gigante, Ingmar Bergman – la fine: serena, in casa sua, accanto alla moglie. Domani in Campidoglio la camera ardente, dopodomani, nella sua Ferrara, i funerali.

(da “la Repubblica”, 31 luglio 2007)

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da “la Repubblica”, 31 luglio 2010

Suso Cecchi D’Amico

Si è spenta a Roma all’età di 96 anni Suso Cecchi D’Amico, pseudonimo di Giovanna Cecchi,

sceneggiatrice di alcuni dei più celebri film italiani, come Ladri di biciclette e Morte a Venezia.

Era nata nella capitale il 21 luglio del 1914, figlia del letterato Emilio, personalità di spicco della

borghesia intellettuale d’inizio secolo che la introdusse alla cultura inglese e la iscrisse al liceo

francese di Roma, e della pittrice Leonetta Pieraccini. Durante la guerra Giovanna trovò rifugio

nella casa di campagna dello zio, poi primo sindaco della Firenze liberata. Temperamento ribelle,

antifascista per formazione nonostante avesse trovato impiego al ministero delle Corporazioni

per interessamento del gerarca Giuseppe Bottai, la futura sceneggiatrice mosse i primi passi nel

mondo della celluloide all’indomani della guerra, scrivendo per Renato Castellani il copione di

Mio figlio professore (1946). Nel frattempo aveva sposato il musicologo Fedele d’Amico e aveva

messo al mondo i primi due figli (ne avrà tre, Masolino, Caterina e Silvia). I suoi primi compagni

di lavoro furono Ennio Flaiano (uno degli amici più cari), Alberto Moravia, Ugo de Benedetti,

Piero Tellini e anche due grandi attori come Aldo Fabrizi e Anna Magnani. Furono proprio loro,

si narra, a metterla in contatto con Cesare Zavattini che la volle al suo fianco per Ladri di

biciclette (è sua l’invenzione del furto della bicicletta), Miracolo a Milano, Le mura di Malapaga. >>> segue

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Suso Cecchi D’Amico attraversava stili, idee, personaggi ed epoche cruciali con una coerenza

che rimarrà esemplare. La sua elegante presenza nel panorama del cinema italiano ha

caratterizzato dunque più di un’epoca e la sua femminilità discreta e intransigente è stata la

migliore risposta al maschilismo della grande Cinecittà e dell’Italia (o Italietta) degli anni

Quaranta. Nel 1947 vinse il primo Nastro d’argento con Vivere in pace di Luigi Zampa e

sebbene il suo contributo sia visibile nel cinema di molti tra i massimi autori italiani, soprattutto

l’Antonioni del primo periodo, è con Luchino Visconti che stringe un sodalizio umano e artistico

incomparabile. I due si incontrano per il copione della Carrozza del santissimo sacramento,

poi realizzato da Jean Renoir e nel 1951 realizzano Bellissima. Da allora lavorarono sempre

insieme fino al copione di La Recherche, il sogno incompiuto di Visconti. Fu la più grande

donna di Cinecittà [..]. Aveva modi da gran signora ed eloquio spiccio ‘risciacquato in Arno’

come diceva, amava le lunghe estati nella sobria casa di Castiglioncello e le lunghe sere a

discutere di cinema e vita insieme ai figli e ai loro amici. Amava avidamente la vita e ne

guardava le ricorrenti follie con ironico distacco intriso di elegante umorismo. […] I funerali si

svolgeranno lunedì alle 11, nella chiesa di Santa Maria del Popolo, a Roma.

(da “la Repubblica”, 31 luglio 2010)

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da “la Repubblica”, 29 marzo 2013

Enzo Jannacci

Vincenzo Jannacci, detto Enzo, nato a Milano il 3 giugno 1935, è morto nella sua città. Aveva

77 anni. Dopo aver lottato con la malattia che lo opprimeva da anni. Si è spento nella clinica

Columbus di Milano, dove era ricoverato da alcuni giorni. Malato di cancro, negli ultimi giorni le

sue condizioni di salute erano peggiorate, per questo motivo era tornato in clinica. Stasera se

n’è andato intorno alle 20,30. Con lui, in ospedale, c’era tutta la famiglia. Jannacci è stato un

cantautore, cabarettista, attore e cardiologo italiano. Cinquant’anni di carriera senza schemi

fissi, oltre confini. Dopo aver registrato quasi trenta album, alcuni dei quali indimenticabili, è

ricordato come uno dei pionieri del rock and roll italiano, insieme a Celentano, Tenco, Little

Tony e Gaber, con il quale formò un sodalizio durato più di quarant’anni. Basta dire Gaber e

Jannacci per evocare una Milano che non c’è più, quella della nebbia, già grande città ma non

ancora metropoli, una Milano romantica, popolata di personaggi bizzarri e poetici. Di madre

pugliese e padre lombardo, Jannacci la sua Milano l’ha sempre portata addosso. Come Gaber,

che aveva conosciuto a scuola, all’Istituto classico Alessandro Manzoni. Alla sua morte, il

dottore cantautore, riuscì a dire soltanto “ho perso un fratello”. >>> segue

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Il 19 dicembre 2011 Fabio Fazio conduce uno speciale su di lui in cui amici di lungo corso del

musicista milanese, presente in studio col figlio Paolo, lo omaggiano interpretando suoi brani.

Tra cui Dario Fo, Ornella Vanoni, Fabio Fazio, Cochi e Renato, Paolo Rossi, Teo Teocoli, Roberto

Vecchioni, Massimo Boldi, Antonio Albanese, J-Ax, Ale e Franz, Irene Grandi e altri.

Enzo Jannacci compare nell’ultima parte dell’evento cantando due sue canzoni. Si capiva che

stava male, che stava morendo, ma mostrava dignità e coraggio di fronte alla malattia. Capiva

da medico che il suo corpo stava cedendo, ma lo spirito era sempre lo stesso e anche la voglia

di cantare e ironizzare, col figlio Paolo, nato dal matrimonio con Giuliana Orefice, che gli dava

le mani per suonare. Enzo Jannacci è stato uno dei più grandi interpreti della canzone italiana

e protagonista della musica italiana del dopoguerra. Dalle canzoni di grande successo come

“Vengo anch’io, no tu no” e “Ci vuole orecchio” o “E la vita, la vita” scritta con Cochi e Renato,

ma anche “Quelli che” o “El portava i scarp del tennis”, “Vincenzina e la fabbrica”, “Andava a

Rogaredo”, “Ho visto un re” e mille altre. Dalla laurea in medicina al cabaret, dalla scrittura

impegnata al teatro. Mattatore milanese che adorava la sua città, scriveva gran parte dei suoi

brani in dialetto.

(da “la Repubblica”, 29 marzo 2013)

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da “la Repubblica.it”, 10 gennaio 2015

Francesco Rosi Ha raccontato l’Italia del dopoguerra, con capolavori del calibro di Mani sulla città con cui vinse

il Leone d’oro e “Il caso Mattei” che gli valse la Palma d’oro al Festival di Cannes e ora il cinema

italiano deve dire addio al suo lucido genio. È morto a 92 anni a Roma il regista Francesco

Rosi. Nato a Napoli il 15 novembre del 1922, nel 1946 Rosi inizia la sua carriera nel mondo dello

spettacolo come assistente di Ettore Giannini. Sulle orme di Visconti e Rossellini segna la storia

del cinema italiano con Carlo Lizzani e Franco Zeffirelli. Inaugura il filone dei film d’inchiesta,

ripercorrendo la vita di un malavitoso siciliano attraverso una serie di lunghi flashback in

Salvatore Giuliano. Negli anni Settanta torna ai temi di sempre rappresentando l’assurdità della

guerra con Uomini contro, parla della scottante morte di Enrico Mattei in Il caso Mattei e Lucky

Luciano, tutti con grandi prove di Gian Maria Volontè. Sempre dietro la macchina da presa,

instancabile osservatore della realtà italiana ma non solo, gira negli anni ‘90 Dimenticare

Palermo. Nel 2012 fu insignito del Leone d’oro alla carriera (nella foto) alla 69 Mostra

internazionale del cinema.

(da “la Repubblica.it”, 10 gennaio 2015)

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Ipotesi dell’irrealtà nel passato / 1

Se me lo dicevi, venivo prima. Se me lo dicevi, sarei venuto prima. Se me lo avessi detto, venivo prima.

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Ipotesi dell’irrealtà nel passato / 2

“E ben si ritrovò salito a tempo, che forse nol facea, se più tardava” (Ariosto, Orlando furioso, XVI 83, 1-2)

“e se non era doppio e fin l’arnese, feria la coscia ove cadendo scese” (Ariosto, Orlando furioso, XVII 101, 7-8)

“ed era lor quel luogo anco mal forte, con ogni proveder che vi si faccia […] , se non venia la notte tenebrosa, che staccò il fatto, et acquetò ogni cosa” (Ariosto, Orlando furioso, XVIII 161, 3-8)

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Ipotesi dell’irrealtà nel passato / 3

“Ahi fiera e maledetta disaventura! non ti bastavano le ingiurie

che per lo adietro fatte m’avevi a ciascun passo della mia vita

così dispettose, così gravi, se tu ancora quella ferita non mi

davi, della quale nessuna più profonda potevi darmi né più

mortale non uccidendomi, e se colui, il quale solo, e le averse

cose in mio luogo sottentrando mi facea più leggiere, e le liete,

che poche tuttavia ho vedute, alla loro parte venendo mi

tornava più soavi, nel fiore della giovinezza non mi toglievi.”

(Pietro Bembo, Lettere, in Trattatisti del Cinquecento I, a c. di Mario Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1978, p. 378)

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Il congiuntivo fra elogi e necrologi C’era una volta il congiuntivo C’era una volta il congiuntivo. Incubo degli scolari, idolo dei pedanti, fiore all’occhiello dell’epistolografia amorosa [...]. Nei salotti i ben pensanti e i ben parlanti tremavano nell’affrontare la desinenza d’un congiuntivo, sbagliarla era una gaffe imperdonabile, peggio che indossare scarpe marrone (sic) con lo smoking... A cent’anni di distanza è morto anche il congiuntivo, ucciso da quegli strumenti di comunicazione che in anglo-latino si chiamano mass media e in italiano mezzi di comunicazione di massa.

(Cesare Marchi, Morte del congiuntivo, in Impariamo l’italiano, Milano, Rizzoli, 1984)

La semplificazione della lingua Non sono un linguista, ma una recente conversazione con uno studente di Lettere mi ha indotto a riflettere sull’uso del congiuntivo. Che non ha, ai nostri tempi, grande fortuna. Ricevo lettere in cui lo si rimpiange, perché lo si usa sempre meno; e in cui si esorta a salvarlo, prima che sparisca del tutto. Ma perché è in crisi? Abbiamo riflettuto, lo studente e io, sull’evoluzione della lingua, che tende a semplificarsi [...]. L’agonia del congiuntivo è dovuta [...] alla semplificazione della lingua, e questa semplificazione, è dovuta a sua volta all’attenuazione, presto alla scomparsa, delle classi sociali.

(Piero Ottone, Il club esclusivo di chi usa il congiuntivo, “Venerdì di Repubblica”, 17 ottobre 2008)

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Connettivi con congiuntivo obbligatorio / 1

1) a condizione che, ammesso che, a patto che, casomai, laddove, nell’eventualità

che, ove, qualora, purché, sempreché (o sempre che):

Casomai (oppure ammesso che, laddove, nell’eventualità che, ove, qualora) Carla non

possa, andrò io a comprare i biglietti per gli Uffizi.

2) affinché, acciocché, a che (con lo stesso valore si usa anche la congiunzione perché,

sempre seguita dal congiuntivo):

I rappresentanti di tutte le religioni, riuniti ad Assisi, pregheranno insieme affinché (perché)

il mondo non conosca altre guerre.

3) benché, malgrado, malgrado che, nonostante, nonostante che, per quanto,

quantunque, sebbene, seppure:

Non mi sembra che quel ristorante sia eccellente, benché (oppure nonostante, nonostante

che, quantunque, sebbene) tutti ne parlino bene.

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Connettivi con congiuntivo obbligatorio / 2

4) come se, quasi, quasi che, (come):

Ogni volta che viene a Roma, Guido ammira i monumenti della città come se (quasi che)

non li avesse mai visti.

5) a meno che (non), eccetto che, fuorché, salvo che, tranne che:

Bisogna comprare il latte, a meno che non lo abbia già preso tu ieri.

6) senza che:

L’autobus mi è passato davanti senza che me ne accorgessi.

7) prima che:

Andiamocene, prima che sia troppo tardi.

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Frasi che in alcuni casi richiedono il congiuntivo

il congiuntivo può essere usato per… esempi

formulare una domanda indiretta Mi chiedo chi sia quel signore.

esprimere una causa Non sono qui perché mi sia pentito delle mie parole.

esprimere una conseguenza Il programma va preparato con cura, in modo che nessuno protesti.

esprimere una condizione in un’ipotesi Se non fosse tardi, potremmo uscire.

Potete entrare, purché paghiate il biglietto.

costruire una frase comparativa Era più simpatica di quanto avessi creduto.

esprimere un limite Che io sappia, non si è mai mosso dal suo paese.

costruire una frase relativa Non c’è qualcuno che sappia lo spagnolo?

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Verbi, nomi e aggettivi che richiedono l’indicativo dopo la congiunzione che

L’indicativo si ha dopo verbi, nomi o aggettivi che esprimono la constatazione o

la percezione di un fatto.

1) Verbi: accorgersi, affermare, confermare, constatare, dichiarare, dimostrare, dire,

giurare, insegnare, intuire, notare, percepire, promettere, ricordare, rispondere, sapere,

scoprire, scrivere, sentire, sostenere, spiegare, udire, vedere ecc.:

2) Nomi: certezza, conferma, constatazione, dimostrazione ecc.

3) Aggettivi: certo, consapevole, sicuro ecc.

Attenzione: se questi stessi nomi e aggettivi si trovano in frasi negative (e quindi

esprimono non certezza ma, al contrario, dubbio e incertezza), allora richiedono che + il

congiuntivo.

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Verbi, nomi e aggettivi che richiedono il congiuntivo dopo la congiunzione che / 1

1) Il congiuntivo si ha dopo verbi o nomi che esprimono un’opinione o una convinzione

personale (a) e dopo verbi costruiti alla terza persona che esprimono apparenza (b):

a) verbi: credere, dubitare, giudicare, immaginare (immaginarsi), mettere (nel senso di

‘supporre’, ‘fare un’ipotesi’), negare, pensare, presumere, prevedere, ritenere, supporre.

a) nomi: convinzione, credenza, dubbio, idea, impressione, ipotesi, opinione, sospetto ecc.

b) verbi: sembra, pare, appare.

2) Il congiuntivo si ha dopo verbi o nomi che esprimono un atto della volontà (che può

essere un ordine, una preghiera, una richiesta, l’accettazione di qualcosa, un permesso):

a) verbi: accettare, chiedere, decidere, disporre, esigere, impedire, lasciare, ordinare,

ottenere, permettere, pregare, pretendere, raccomandare (raccomandarsi), suggerire, volere.

b) nomi: consiglio, norma, ordine, regola, voglia

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Verbi, nomi e aggettivi che richiedono il congiuntivo dopo la congiunzione che / 2

3) Il congiuntivo si ha dopo verbi, nomi o aggettivi che esprimono un sentimento personale (desiderio, timore, illusione o finzione, piacere, dispiacere, gioia):

a) verbi: amare, aspettare (aspettarsi), attendere (attendersi), augurare (augurarsi), desiderare, dispiacere (dispiacersi), illudersi, preferire, rallegrarsi, sperare, temere, volere.

b) nomi: attesa, desiderio, finta, paura, pericolo, speranza, timore, voglia c) aggettivi: ansioso, attento, felice, lieto, impaziente, timoroso.

4) Il congiuntivo si ha dopo alcuni verbi alla terza persona che esprimono necessità o convenienza: basta, bisogna, conviene, importa, occorre, serve, vale la pena ecc.

5) Il congiuntivo si anche ha dopo alcune espressioni impersonali formate dalla terza persona del verbo essere + un aggettivo: è normale, è logico, è desiderabile, è doveroso, è

importante, è indispensabile, è inutile, è meglio, è necessario, è ovvio, è preferibile, è indubbio, e infine nell’espressione Non è Che (= ‘non sembra che’, ‘non si può dire che’)

6) Il congiuntivo si ha, infine, se la frase introdotta da che precede la frase principale,

indipendentemente dal tipo di verbo, nome o aggettivo reggente

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