Ford presenta: Guida al risparmio per le Pmi - Il Sole 24...

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Ford presenta: Guida al risparmio per le Pmi In collaborazione con G ruPPo 24 ore

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Ford presenta:

Guida al risparmioper le PmiIn collaborazione con GruPPo 24 ore

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Guida al risparmio per le PmiFord presenta:

In collaborazione con GruPPo 24 ore

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Le Pmi sono la spina dorsale dell’economia italia-na ed europea, ma in questi anni hanno dovuto fare i conti con la dura realtà della recessione eco-nomica. Alla recente crisi si sovrappongono le sto-riche difficoltà per le imprese, causate dall’ecces-so di tassazione e burocrazia. In queste condizioni è d’obbligo, perciò aguzzare l’ingegno: esistono infatti moltissimi ambiti in cui le Pmi possono di-

minuire le proprie spese di gestione, per esempio nell’energia o nell’informatica. Le Pmi innovative, inoltre, possono avere moltissimo spazio di cre-scita anche in una fase difficile come quella attua-le, anche perché a sospingerle ci sono una serie di iniziative e programmi strutturali varati in questi anni da Stato e Unione Europea. Di tutto questo si parla in questa “Guida al risparmio per le Pmi”...

In collaborazione con GruPPo 24 ore

4Le Pmi dominano l’economia italiana ed europea

Un ruolo determinante per l’economia1

I nomi dei grandi manager e delle aziende mul-tinazionali sono soliti dominare le pagine eco-nomiche dei giornali e, più in generale, l’atten-zione dell’opinione pubblica. Le pubblicità e la maggioranza dei beni di largo consumo che acquistiamo, in effetti, sono prevalentemente caratterizzati da slogan e loghi di aziende mul-tinazionali.

In realtà, però, queste società rappresentano sol-tanto una parte, non maggioritaria, del nostro sistema economico: la maggioranza delle perso-ne, infatti, vive e lavora all’interno di una piccola e media impresa, ossia di una Pmi. Queste ultime, tra l’altro, spesso svolgono compiti fondamentali per le attività e il business delle grandi aziende a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza.

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75 milioni di europei lavorano presso una Pmi e il 55% della ricchezza dell’unione dipende da queste realtà imprenditoriali

Pmi (la metà in una microimpresa), contro il 67% della media comunitaria. Nel Regno Unito la percentuale scende al 46%, mentre in Ger-mania e in Francia addirittura al 39%. Altri numeri rafforzano questa sensazione di “piccolezza” del sistema produttivo naziona-le: le imprese italiane sono circa 3.750.000, di cui appena meno di tremila hanno più di 250 dipendenti. In termini di valore aggiunto, le micro imprese producono un terzo del totale nazionale, mentre in Europa il dato supera di poco il 20%. Includendo anche le aziende piccole e medie, il valore aggiunto in Italia arriva al 71,3%, men-tre nell’Ue non raggiunge il 60%. In poche parole, è evidente che il nostro siste-ma economico è fortemente legato alle alter-ne fortune delle piccole imprese che, purtrop-po, da diversi anni, anche precedentemente alla crisi del 2008, mostrano un certo affanno: nel 2011 il valore aggiunto delle aziende Ue è cresciuto di oltre il 30% rispetto al 2003, men-tre in Italia questa crescita non ha superato il 25 per cento. Questo gap è determinato anche dai ritardi in materia di innovazione, con quasi tutti gli indi-catori italiani che presentano numeri negativi, in particolare sul numero di imprese che of-frono opportunità di formazione, o di Pmi che vendono o acquistano on line; per quest’ulti-mo dato, ad esempio, la percentuale italiana è di tre volte inferiore rispetto alla media eu-ropea. Ancora troppo poco noto, però, è che l’Euro-pa ormai da diversi anni ha riconosciuto l’im-portanza del ruolo delle Pmi per lo sviluppo economico del Continente, mettendo in piedi tutta una serie di strumenti diretti e indiretti (che descriviamo nel dettaglio negli articoli successivi), per aiutarne lo sviluppo.

Poco chiaro è, spesso, capire a che cosa ci si riferisca con la sigla Pmi: secondo la defini-zione ufficiale dell’Unione europea le piccole imprese e medie imprese sono aziende che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro. L’Unione europea divide poi ulteriormente le Pmi in piccole imprese (che impiegano meno di 50 persone e il cui fatturato annuo o tota-le di bilancio non supera i 10 milioni di euro) e microimprese (meno di 10 addetti e un giro d’affari che non supera i 2 milioni di euro). Al di là delle definizioni, l’aspetto importante è il peso che questa categoria ha per l’econo-mia del Vecchio Continente: in termini nume-rici le Pmi rappresentano il 99,8% delle impre-se europee (il 91,2% sono microimprese). Inoltre, il ruolo di queste aziende è determi-nante anche in termini di contributo alla cre-scita e all’occupazione: 75 milioni di europei la-vorano presso una Pmi e il 55% della ricchezza dell’Unione dipende da queste realtà impren-ditoriali. Un ruolo, insomma, imprescindibile, ancora di più in alcuni Stati membri, tra cui figura senza dubbio l’Italia. Basti pensare che nella Peniso-la l’81% della forza lavoro è impiegato in una

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Tasse e burocrazia: un costo doppio per le Pmi italianeL’Italia al quarto posto in Europa per pressione fiscale2

Le tasse sono probabilmente la principale fon-te di preoccupazione degli imprenditori italiani: come ha confermato una recente analisi condot-ta dalla Cgia di Mestre su dati Eurostat, il peso di tasse, imposte e tributi in Italia è pari al 30,2% del Prodotto interno lordo nazionale. Il nostro Paese si piazza così al quarto posto in Europa per pressione fiscale, preceduto soltanto da Da-nimarca (47,4%), della Svezia (36,8%) e della Fin-landia (30,5%), nazioni che storicamente hanno sempre avuto un rilevante peso del fisco, ma con servizi pubblici e livelli di welfare decisamente superiori rispetto al Belpaese. I nostri principali competitor europei, al contra-rio, hanno a che fare con un livello di tassazione decisamente inferiore: nel Regno Unito la pres-sione è del 28,6%, di 1,6 punti inferiore alla no-stra, in Francia del 27,9%, minore di 2,3 punti e in Germania (23,6%) addirittura di 6,6 punti. Il dato italiano è superiore rispetto alla media del-l’Unione europea (26,5%) e di 4,5 punti a quello dei Paesi dell’area dell’Euro (25,7%). Tutte le Pmi, anche senza conoscere questi dati nel dettaglio, hanno ben presente il peso della tassazione: basti pensare che secondo uno stu-dio della Cna, una tipica piccola impresa mani-fatturiera, con tre dipendenti e un collaboratore, deve fare i conti con 70 scadenze l’anno, il che vuol dire praticamente un adempimento ogni tre giorni lavorativi. Una volta l’anno c’é Unico, la dichiarazione Irap o la presentazione del model-lo degli studi di settore. Ma l’Iva prevede ben 12 scadenze l’anno, la Tares quattro, tre l’autocer-tificazione Iva delle ritenute sugli appalti. E via dicendo fino ad arrivare a 70 appuntamenti con il fisco in un solo anno solare. Al peso della pressione fiscale, in costante au-mento proprio negli anni difficili della crisi, si deve aggiungere quello della burocrazia che, no-

nostante le misure di semplificazione adottate dai vari governi in questi ultimi anni, continua a penalizzare le imprese attraverso un spaventoso aumento dei tempi e, dunque, dei costi, tali da scoraggiare anche gli investimenti esteri nella Penisola. Secondo un’altra indagine della Cgia Mestre, la burocrazia incide sui bilanci delle Pmi soprat-tutto per gli adempimenti relativi al lavoro e alla previdenza: la tenuta dei libri paga, le comuni-cazioni legate alle assunzioni o alle cessazioni di lavoro, le denunce mensili dei dati retributivi e contributivi, l’ammontare delle retribuzioni e delle autoliquidazioni costano al sistema delle Pmi complessivamente 9,9 miliardi all’anno (6,9 miliardi in capo al lavoro, 3 miliardi riconducibi-li alla previdenza e all’assistenza).La sicurezza dei dipendenti nei luoghi di lavoro ( valutazione dei rischi, il piano operativo di sicurezza, la for-mazione obbligatoria del titolare) pesa sul siste-ma imprenditoriale per altri 4,6 miliardi di euro. L’area ambientale, invece, costa alle piccole im-prese 3,4 miliardi di euro l’anno. Le nostre azien-de, infatti, devono affrontare oneri legati alle au-torizzazioni per lo scarico delle acque reflue, alla

una tipica piccola impresa manifatturiera, con tre dipendenti e un collaboratore, deve fare i conti con 70 scadenze l’anno

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documentazione per l’impatto acustico, nonché i permessi per le emissioni in atmosfera. Di tutto rispetto anche il costo amministrativo che le aziende devono “sopportare” per far fron-te agli adempimenti in materia fiscale. Per le dichiarazioni dei sostituti di imposta, le comunicazioni periodiche e annuali Iva, etc, si sborsano complessivamente 2,7 miliardi di euro. Gli altri settori che incidono sui costi ammini-strativi delle Pmi sono la privacy (2,6 mld di €), la prevenzione incendi (1,4 mld di €), gli appalti (1,2 mld di €) e la tutela del paesaggio e dei beni culturali (0,6 miliardi di €).

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Pmi, l’accesso al credito è vitaleAlla caccia di nuove opportunità3

Come abbiamo scritto anche in altri articoli, il consiglio che viene fornito alle Pmi da parte di esperti, istituzioni e associazioni di categoria è, fondamentalmente, quello di evolvere e di an-dare a caccia di nuove opportunità. Un’opera-zione, però, tutt’altro che facile da mettere in atto in assenza di adeguate risorse finanziarie che permettano di mettere concretamente in atto idee e progetti innovativi. Dal momento che è difficile che le Pmi possano disporre di ingenti capitali accumulati, l’acces-

so al credito è vitale per favorire un maggiore dinamismo dei “piccoli” dell’economia. Come però tutti gli imprenditori sanno, la storia di questi anni è fatta di un’eccessiva rigidità da parte del mondo bancario verso le Pmi e i loro progetti. Il perché è facile da spiegare: le ban-che, nonostante i bassi tassi d’interesse, dopo la crisi sono ancora più restie a prestare i propri capitali, soprattutto per progetti proposti da attori che – giocoforza – non possono avere ga-ranzie clamorose da offrire.

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In tutta europa gli Stati sono intervenuti con l’attivazione di appositi fondi di garanzia, pensati proprio per sostenere lo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese

due dichiarazioni fiscali) e che l’eventuale per-dita registrata nell’ultimo esercizio approvato (o dichiarazione fiscale) non sia superiore al 10% del fatturato. Recentemente il Governo Letta con il noto “De-creto del Fare” ha previsto l’attivazione di un ulteriore canale di finanza agevolata, a favore delle società che intendono rinnovare i processi produttivi, acquistando nuovi macchinari e beni strumentali. La Cassa depositi e prestiti assicu-rerà risorse pari a cinque miliardi di euro, uti-lizzabili per un finanziamento massimo di due milioni per azienda.A livello europeo, invece, la Commissione eu-ropea finanzia il Fondo Europeo per gli investi-menti, un attore fondamentale per lo sviluppo del venture capital in Europa. Sempre a questo scopo è stato concepito il Programma quadro per la competitività e l’innovazione (CIP) per il periodo 2007-2013, all’interno del quale un terzo dei fondi (più di un miliardo di euro) è de-dicato alla previsione di strumenti per favorire l’accesso al credito e al capitale di rischio da parte delle Pmi. Altri strumenti comunitari sono il programma JEREMIE (“Joint European Resources for Micro to Medium Enterprises Initiative”), che offre aiuti a sostegno delle piccole aziende e ai pro-getti di start-up. C’è poi anche il programma JASMINE (“Joint Action to Support Micro-fi-nance Institutions in Europe”), che promuove lo sviluppo del micro-credito a favore delle Pmi e delle categorie disagiate che intendono diven-tare imprenditori o lavoratori autonomi. Un’iniziativa più recente è, infine, rappresenta-ta dal nuovo strumento di microfinanza (25.000 euro) Progress, per fornire prestiti alle Pmi e alle persone che hanno perso il lavoro e intendono avviare in proprio una piccola impresa.

Per sbloccare questo circolo vizioso, un po’ in tutta Europa gli Stati sono intervenuti con l’at-tivazione di appositi fondi di garanzia statali, pensati proprio per sostenere lo sviluppo del-le micro, piccole e medie imprese. Di fatto gli imprenditori che hanno bisogno di un finanzia-mento possono chiedere alla banca di garantire l’operazione mediante la garanzia pubblica. Con l’intervento del Fondo il finanziamento, in relazione alla quota garantita, è a rischio zero per l’istituto di credito che, in caso di insolven-za aziendale, viene risarcito dal Fondo cen-trale di garanzia e in caso di eventuale esauri-mento di fondi di quest’ultimo, direttamente dallo Stato. In Italia la procedura più semplice per accedere al Fondo è quella prevista per il cosiddetto microcredito, che non richiede la valutazione sulla base dei modelli di scoring e che permette di garantire finanziamenti fino a 100 mila euro. Per accedere al microcredi-to è sufficiente che l’impresa presenti un utile d’esercizio in almeno uno degli ultimi due bi-lanci approvati (o in almeno una delle ultime

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Lo Small business act mette al centro le Pmi europeeCreare condizioni favorevoli alla crescita4

L’economia mondiale è cambiata profonda-mente negli ultimi 20 anni, con l’irruzione sul mercato dei Paesi emergenti e una serie im-pressionante di mutamenti tecnologici. Una rivoluzione che, ovviamente, riguarda anche le Pmi: è chiaro che soprattutto gli impren-ditori dinamici saranno in grado di cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione e dell’accelerazione tecnologica e non soltan-to di patirne le conseguenze, come purtrop-po accaduto troppo spesso in questi ultimi anni. In questo senso va l’iniziativa adottata dall’Unione europea nel 2008 denominata Small Business act che, innanzitutto, mira a creare condizioni favorevoli alla crescita e alla competitività sostenibili delle piccole e medie imprese europee. Al centro dello Sba c’è la convinzione che un contesto veramente favorevole alle piccole im-prese dipenda innanzitutto dal riconoscimento degli imprenditori da parte della società. In po-che parole, l’obiettivo della Ue è che le persone comuni considerino attraente la possibilità di avviare una propria impresa e siano convinte del fatto che le Pmi assicurino un contributo sostanziale alla crescita dell’occupazione e alla prosperità economica. Se pensiamo a quello che avviene in casa nostra, con una serie conti-nua di leggi, balzelli e ostacoli che interessano l’attività quotidiana dei piccoli imprenditori, è chiaro che queste condizioni “ideali” sono an-cora molto lontane. La percezione nell’Unione europea del ruolo degli imprenditori e la disponibilità ad assumer-si rischi, devono dunque cambiare, così come le politiche comunitarie e nazionali, che devono tenere maggiormente conto del contributo del-le Pmi alla crescita economica e alla creazione di posti di lavoro.

Lo “Small Business Act” si basa su dieci principi destinati a guidare la formulazione delle politi-che comunitarie e nazionali. 1) Dare vita a un contesto in cui imprenditori e imprese familiari possano prosperare e che sia gratificante per lo spirito imprenditoriale. 2) Far sì che imprenditori onesti, che abbiano sperimentato l’insolvenza, ottengano rapida-mente una seconda possibilità. 3) Formulare regole conformi al principio “Pen-sare anzitutto in piccolo”. 4) Rendere le pubbliche amministrazioni per-meabili alle esigenze delle Pmi. 5) Adeguare l’intervento politico pubblico alle esigenze delle Pmi. 6) Agevolare l’accesso delle Pmi al credito e sviluppare un contesto giuridico ed economico che favorisca la puntualità dei pagamenti nelle transazioni commerciali. 7) Aiutare le Pmi a beneficiare delle opportunità offerte dal mercato unico. 8)Promuovere l’aggiornamento delle compe-tenze nelle Pmi e ogni forma di innovazione. 9) Permettere alle Pmi di trasformare le sfide am-bientali in opportunità. 10) Incoraggiare e sostenere le PMI perché be-neficino della crescita dei mercati. Per tradurre questo elenco di buoni propositi in realtà il Governo italiano nel 2010 ha rivisto in chiave nazionale gli obiettivi dello small bu-siness act: particolare attenzione è incentrata sull’imprenditorialità femminile (tenuto conto del basso tasso di occupazione di genere in Italia) e giovanile. Alcuni interventi auspicati potrebbero dav-vero cambiare la vita dei piccoli imprenditori italiani: ad esempio c’è il proposito di “Assi-curare che i testi normativi aventi riflessi sul-le Pmi siano redatti con disposizioni chiare e

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facilmente comprensibili”, nonché quello di “Ridurre il livello delle spese e delle commis-sioni richieste dalla P.A. per registrare un’im-presa, ridurre il tempo necessario per fondare un’impresa a meno di una settimana; limitare a un mese il tempo per il rilascio di licenze e permessi necessari per l’avvio dell’attività di impresa”. Più in generale l’Italia punta a spingere con lo Sba l’internazionalizzazione tra le Pmi e la col-laborazione (reti d’impresa/cooperazione).

l’obiettivo della ue è che le persone comuni considerino attraente la possibilità di avviare una propria impresa e siano convinte del fatto che le Pmi assicurino un contributo sostanziale alla crescita dell’occupazione e alla prosperità economica

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L’export fa bene alle piccole imprese Guardare lontano per resistere alla crisi5

Dall’inizio della crisi economica del 2008/2009 il mercato interno nazionale langue, pratica-mente per tutti i settori. È perciò evidente che la via di sbocco per eccellenza è quella di guar-dare all’estero, in quei Paesi dove l’economia tira di più o dove, comunque, possono esserci delle opportunità interessanti. Non si deve però commettere l’errore di pensare che le strategie di internazionalizzazione siano appannaggio solo delle grandi aziende. In realtà, già prima dell’esplosione della gravis-sima recessione, il contributo alle esportazioni proveniente dalle imprese piccole e medie era pari al cinquanta percento del totale, con punte anche del 60% nella maggior parte dei settori, tradizionali e non. Vero è che questo dato è in-fluenzato dalla particolarità del nostro tessuto imprenditoriale, fatto in buona parte di picco-le e medie aziende; nel caso delle imprese con almeno dieci dipendenti, la propensione al-l’export è però davvero notevole e sviluppata. La piccola dimensione, infatti, permette spesso una maggiore flessibilità, intesa come abilità nell’inseguire i mutamenti della composizione geografica della domanda mondiale. Così, anche in questi anni difficili, le Pmi votate all’export sono quelle che hanno saputo resiste-re meglio. L’interesse verso i mercati esteri è te-stimoniato anche da un’indagine della Simest, la finanziaria pubblico privata di supporto al-l’internazionalizzazione, che ha recentemente reso noto che il numero di imprese supporta-te (con strumenti di equity e finanza agevola-ta) ha superato quota 7.000, di cui circa il 64% del totale costituito da aziende medio-piccole. Ovviamente non bisogna neanche commette-re l’errore opposto, cioè pensare che l’ingresso nei mercati esteri sia una cosa facile e priva di rischi. A parte il primario ostacolo economico

(ossia avere le risorse o il credito insufficien-te) esistono una serie di difficoltà di accesso ai mercati esteri, che sono state oggetto di analisi da parte della Commissione europea. Un ostacolo molto importante è rappresentato dalle barriere tariffarie: benché di recente molte siano state superate da appositi negoziati mul-tilaterali, le tariffe elevate rappresentano an-cora un ostacolo per molti esportatori europei. Spesso i nostri imprenditori hanno a che fare con onerose procedure doganali per l’impor-tazione, l’esportazione e il transito, alle quali si uniscono barriere fiscali e pratiche commerciali scorrette o discriminatorie. Non di rado, poi, le Pmi devono fare i conti con valutazioni tecni-che, norme e procedure di accertamento della conformità non in linea con le prescrizioni del-l’Organizzazione mondiale del commercio su-gli ostacoli tecnici agli scambi. Per non parlare delle restrizioni spesso imposte da alcuni Stati all’accesso alle materie prime, per non parlare di vere e proprie barriere alle esportazioni che comportano un aumento dei prezzi e pratiche di doppia indicazione dei prezzi.

Nel caso delle imprese con almeno dieci dipendenti, la propensione all’export è davvero notevole e sviluppata

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Altro ostacolo che spesso scoraggia i nostri im-prenditori nelle avventure all’estero è la scarsa protezione dei diritti di proprietà intellettuale, comprese le indicazioni geografiche e la man-canza di una corretta attuazione delle norme esistenti. In generale ci possono essere tenta-zioni protezionistiche nei Paesi extra Ue, che possono porre ostacoli alla circolazione dei ser-vizi e agli investimenti diretti esteri, introdurre norme restrittive sulla partecipazione ad appal-ti pubblici, nonché utilizzare in modo improprio aiuti di Stato e altre sovvenzioni che creano barriere per l’accesso ai mercati.

14L’efficienza energetica aiuta le Pmi

Una voce rilevante all’interno del fatturato aziendale6

Se sino a pochi anni fa le Pmi guardavano al-l’energia come un dato di fatto, una costante da saldare ogni bimestre senza grandi possibili-tà di interventi, negli ultimi anni le cose stanno profondamente cambiando. L’aumento continui dei prezzi di elettricità e gas, ancora più cari in Italia rispetto alla media dei Paesi Ue, ha spinto molte imprese a inte-ressarsi attivamente per la riduzione dei propri

consumi energetici. L’energia può infatti rap-presentare una voce rilevante all’interno del fatturato aziendale, anche per quelle Pmi che non operano direttamente nei settori industria-li. Basti pensare anche a una qualsiasi attività d’ufficio, che in inverno implica ingenti spese per il riscaldamento degli ambienti, mentre in estate ci sono quelle altrettanto importanti per il condizionamento. Per non parlare dei consumi

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Nonostante tutti i possibili vantaggi, molte Pmi sono ancora restie a investire in progetti di efficienza energetica

Nonostante tutti i possibili vantaggi, molte Pmi sono ancora restie a investire in progetti di effi-cienza energetica. La ragione principale è, pro-babilmente, di tipo culturale: al contrario delle grandi aziende che dispongono di Energy ma-nager, ossia di figure addette all’analisi del fab-bisogno energetico, le piccole imprese non pos-siedono risorse dedicate. La spesa per l’energia, dunque, rischia di passare in secondo o terzo pia-no nella frenetica attività di lavoro quotidiana. In secondo luogo, gli interventi a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza presentano un costo d’investimento, che si ripaga generalmente in alcuni anni. È evidente che, in una situazione di crisi come quella attuale, gli imprenditori sono poco propensi ad accollarsi una spesa che può dare i frutti solo nel lungo termine. Un’alternativa all’investimento aziendale è quella proposta dalle Esco, che assumono gli oneri economici dell’iniziativa di efficienza energetica; i benefici economici vengono poi ripartiti tra il cliente e la stessa Esco. Altra carta in mano alle Pmi per accorciare i tempi di payback sono gli incentivi: la diminu-zione dei consumi energetici è uno dei pilastri della strategie Ue in materia di ambiente, dun-que esistono numerosi programmi comunitari che la sostengono economicamente, il più fa-moso dei quali è Life+. In Italia, invece, a partire da dicembre 2012 le imprese di qualsiasi settore possano accedere al meccanismo dei Certificati bianchi, i titoli di efficienza energetica, purchè provvedano alla nomina del responsabile per la conservazione e l’uso razionale dell’energia. I Certificati bianchi sono titoli che certificano il conseguimento di un determinato livello di efficienza energetica, che possono poi essere rivenduti nell’apposito mercato di scambio.

degli impianti di illuminazione, computer, ecc. Quel che spesso le Pmi non sanno che è possi-bile intervenire per limitare al massimo i consu-mi e risparmiare in bolletta, con soluzioni ormai proposte da quasi tutte le società energetiche e dalle Esco (Energy saving company). L’impresa è sottoposta prima a un vero e proprio check up energetico che permette di scoprire quali sono le falle nell’attività produttiva che determinano un eccessivo livello di consumi. Le ragioni degli sprechi variano, ovviamente, a seconda del settore di riferimento. Nel caso del-le attività industriali buona parte del fabbisogno è determinato dai motori elettrici, che possono essere sostituiti con apparecchi più efficienti. In altri casi l’introduzione di un cappotto termico permette di isolare lo stabile e ridurre le spese di riscaldamento e condizionamento, mentre l’utilizzo dei Led consente di abbattere le spese dell’illuminazione. Quasi sempre, in realtà, è necessario lavorare sulle formazione dei dipendenti, istruendoli al corretto uso energetico delle apparecchiature di lavoro (banalmente, evitando di lasciare gli apparecchi in standby).

16Le energie rinnovabili sono un’opportunità per le Pmi

Una alleato potente arriva dall’ambiente7

Una rivoluzione che sta ormai prendendo sempre più piede in Italia e nel mondo è quella delle energie rinnovabili, ossia fonti di produ-zione energetica (elettrica e termica) in grado di funzionare senza fare ricorso agli inquinanti combustibili di origine fossile (carbone, gas, petrolio, ecc). Quello che forse non è ancora perfettamente chiaro alle piccole imprese è che questa risor-

se non sono solo appannaggio delle grandi aziende o delle società energetiche: anche le Pmi hanno infatti l’opportunità di installare presso i propri centri produttivi delle tecnolo-gie di produzione rinnovabile.La più diffusa è, ovviamente, il fotovoltaico: negli anni scorsi era in vigore un sistema di incentivazione molto generoso, il Conto ener-gia, i cui fondi sono terminati definitivamente

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Ancora oggi il solare può garantire alle Pmi con un tetto libero un buon ritorno dall’investimento, grazie soprattutto all’autoconsumo

Le bioenergie, invece, possono costituire un business molto redditizio per le Pmi del set-tore agricolo: la produzione di energia termi-ca ed elettrica può essere assicurata dai sot-toprodotti dell’agricoltura e dell’allevamento (scarti agricoli, reflui zootecnici, ecc), dalle colture dedicate (soprattutto mais) nonché dalle biomasse legnose. I vantaggi sono più o meno gli stessi di quelli garantiti dallo sfruttamento della risorsa so-lare (autoconsumo energetico e risparmio in bolletta), a cui si aggiunge la presenza di sus-sidi statali per la produzione di energia elet-trica e la cogenerazione (energia termica più elettrica). Anzi, il nuovo sistema di incentivazione entra-to in vigore all’inizio del 2013 sembra essere stato studiato a misura di Pmi: sono favoriti, infatti, gli impianti di taglia più piccola e la riu-tilizzazione degli scarti. In questo modo le im-prese agricole, oltre all’incentivo, beneficiano della valorizzazione di materiali che altrimenti andrebbero smaltiti, con i problemi logistici ed economici che questa operazione normal-mente comporta. Dal 2008 a oggi la produzione di energia da biomasse agroforestali è cresciuta a un ritmo del 60% l’anno, ma nei prossimi anni i tassi di sviluppo dovrebbero essere ancora più soste-nuti: secondo i dati della Cia (Confederazione italiana agricoltori), entro il 2020 il 45% delle rinnovabili italiane arriverà dalle campagne. Con vantaggi che non sarebbero solo per le Pmi ma anche per il sistema Italia: fino a 20 miliardi di euro di risparmio in termini di costi (per la mancata importazione di risorse fossili dall’estero) e 240 milioni di tonnellate in meno di CO2 nell’aria nei prossimi dieci anni.

lo scorso luglio. Anche oggi però, il solare può garantire alle Pmi con un tetto libero un buon ritorno dall’investimento, grazie soprattutto all’autoconsumo: l’elettricità assicurata dai pannelli fotovoltaici consente di fare a meno (almeno parzialmente) della corrente elettrica prelevata dalla rete, gravata da bollette ten-denzialmente sempre più care. Le Pmi possono poi ancora beneficiare del meccanismo dello scambio sul posto, che per-mette di ottenere una compensazione econo-mica per l’energia consumata in un periodo differente da quello in cui avviene la produ-zione. Il solare termico, invece, che garantisce la produzione di acqua calda sanitaria, gode da alcuni mesi dell’incentivazione diretta del Conto energia termico, garantendo la coper-tura di circa il 40% delle spese d’installazione. Il sole, però, non è l’unica energia alternativa a disposizione delle Pmi, anche se eolico e idro-elettrico si prestano poco allo sfruttamento da parte delle piccole imprese, causa gli ingenti costi di investimento e le particolari modalità ambientali necessarie.

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Formazione, le Pmi possono fare di più L’apprendimento è sempre più importante per poter competere8

Le abilità, le capacità e la motivazione dei la-voratori sono da sempre requisiti fondamen-tali per il successo, la produttività e l’innova-zione delle imprese. Rispetto al passato, però, i cambiamenti nel sistema economico avven-gono sempre più frequentemente: basti pen-sare alla rivoluzione informatica che ha inve-stito (chi più, chi meno) l’attività produttiva di tutti gli imprenditori. È chiaro che, in un contesto di questo tipo, l’ap-prendimento dei dipendenti e degli imprendi-tori sono ancora più importanti per competere rispetto al passato. A maggior ragione per le Pmi che, non potendo disporre degli asset e delle risorse finanziarie delle grandi imprese, devono “aguzzare l’ingegno”. Tuttavia, tutte le statistiche dimostrano che gli impiegati che lavorano nelle Pmi hanno inferiori possibilità di accedere a formazione continua e qualifiche rispetto a coloro che la-vorano nelle grandi aziende. Recenti indagini condotte a livello europeo hanno evidenziato divari significativi nei tassi di partecipazione dei lavoratori alle iniziative di formazione a seconda delle dimensioni dell’azienda. Certo, le statistiche ufficiali non riescono a te-nere conto della formazione condotta sotto forma di sviluppo informale di competenze e abilità sul posto di lavoro ma, in generale, la qualificazione professione è più diffusa nelle imprese più grandi. Allo stesso tempo, esistono forti differenze tra i diversi Paesi europei: gli stati nordici re-gistrano i tassi più elevati mentre la formazio-ne è meno diffusa nell’Europa meridionale e centro-orientale. Le Pmi, d’altronde, hanno a che fare con un paradosso: non di rado, gli ad-detti su cui maggiormente si è investito in for-mazione, lasciano l’azienda per delle posizioni

maggiormente retribuite all’interno di grandi imprese. Altri problemi nascono dal fatto che le offerte e i programmi formativi esistenti sono normalmente progettati e organizzati dal punto di vista delle grandi imprese e sem-plicemente non risultano adeguati alle esi-genze organizzative delle aziende più piccole. Senza contare che per le Pmi è più difficoltoso reperire le risorse finanziarie necessarie a ga-rantire la formazione per i propri dipendenti. In effetti le piccole aziende difficilmente pos-sono fare da sole in questo campo così delica-to, anche se esistono moltissimi attori profes-sionali o pubblici (camere di commercio, ecc) che possono fornire sostegno. Senza contare che a livello locale, nazionale e comunitario esistono numerose opportunità per le Pmi nell’ambito dell’apprendimento e della for-mazione. In Italia è da diversi anni operativo il Fondo di Formazione Pmi (Fapi), che ha per l’appunto lo scopo di promuovere lo sviluppo e la crescita delle imprese del territorio italiano puntando tutto sulla formazione di imprendi-tori, datori di lavoro e lavoratori.

Le statistiche dimostrano che chi lavora nelle Pmi ha possibilità inferiori di accedere a formazione continua e qualifiche rispetto ai dipendenti delle grandi aziende

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Il Fondo di Formazione per le Pmi è suddiviso sulla base di un modello regionale, allo scopo di semplificare la gestione degli interventi di supporto. Ogni azienda del territorio italiano può sce-gliere di aderire al Fapi senza particolari limi-tazioni, se non ovviamente quella di essere una realtà aziendale piccola o media. Subito

dopo l’adesione, le imprese possono usufrui-re dei finanziamenti messi a disposizione dal Fapi, in misura non proporzionale ai contributi versati. Il Fondo, infatti, può contare sulle ri-sorse derivanti dal gettito del contributo dello 0,30% sul salario dei lavoratori che le impre-se versano automaticamente all’Inps secondo quanto stabilito dalle disposizioni di legge.

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L’ecosostenibilità è un’opportunità per le PmiProdotti “verdi” sempre più attraenti per il mercato9

Le parole sostenibilità e ambiente ancora oggi non entusiasmano la maggioranza dei picco-li imprenditori, che fanno subito riferimento a tutti gli (ingenti) adempimenti di carattere nor-mativo che caratterizzano l’attività di impresa. Eppure oggi è sempre più possibile fare ecoin-novazione, che non significa (soltanto) adozio-ne di energie alternative, quanto, piuttosto, l’utilizzo di prodotti, processi, sistemi gestio-nali, servizi o procedure attraverso cui si conse-gue, lungo tutto il ciclo di vita, una riduzione di

fattori di pressione sull’ambiente (diminuzio-ne dei flussi materiali, del consumo di energia, dell’inquinamento, ecc) e sulla società, rispetto alle pratiche correnti. Questa definizione, coniata dai recenti Sta-ti generali della green economy, permette di capire che ci possono essere differenti tipi di ecoinnovazione: dallo sviluppo di nuovi pro-cessi “puliti”, con ridotto utilizzo di risorse e ridotti impatti ambientali, all’implementazio-ne di nuovi prodotti più ecocompatibili lungo

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oggi è sempre più possibile fare ecoinnovazione, che non significa (soltanto) adozione di energie alternative, quanto, piuttosto, l’utilizzo di prodotti, sistemi, servizi o procedure attraverso cui si consegue una riduzione di fattori di pressione sull’ambiente

una forte spinta al cambiamento della propria struttura produttiva. Difatti, secondo una re-cente indagine di Fondazione impresa, ben il 25% delle piccole società manifatturiere italia-ne ha introdotto negli ultimi due anni tecnolo-gie o sistemi finalizzati alla riduzione dell’im-patto ambientale e il 28,6% intende farlo nei prossimi due anni. Per spendere al meglio (ver-so il mercato e i consumatori) gli investimenti effettuati nella ecosostenibilità è necessaria una certificazione, una delle più importanti del-le quali a livello europeo è l’Emas. Si tratta di uno strumento ad adesione volontaria istituito dall’Ue che permette alle imprese di valutare il proprio rendimento ambientale secondo una procedura standardizzata e di impegnarsi per migliorarlo. Le aziende che vogliano prendervi parte devono effettuare un’analisi dell’impat-to delle proprie attività e dei propri prodotti e servizi, istituire un sistema di gestione con obiettivi definiti, effettuare regolarmente au-dit ambientali e produrre dichiarazioni che at-testino il proprio rendimento. L’Emas III pone una particolare enfasi sulle piccole e medie imprese: in particolare i verificatori ambienta-li devono effettuare i controlli in modo tale da non imporre oneri superflui alle organizzazioni di piccole dimensioni, mentre la frequenza del-le registrazioni può essere estesa sino a quattro anni. Altro sistema di certificazione su base vo-lontaria è l’Ecolabel, che permette ai consuma-tori di identificare agevolmente i prodotti verdi contrassegnandoli con il”fiore europeo”. L’ul-timo regolamento adottato, anche in questo caso, cerca di incoraggiare le piccole e medie imprese a partecipare al sistema, attraverso di-ritti speciali, procedure di consultazione aperte e requisiti delle prove e delle verifiche adeguati alle capacità delle Pmi.

tutto il ciclo di vita e così via. La cosa più im-portante per le Pmi è che la sostenibilità, per un’impresa di qualsiasi dimensione, consente oggi di acquisire un vantaggio competitivo e ritrovarsi nelle migliori condizioni per vincere le sfide del mercato. La sostenibilità ambientale, infatti, sta diven-tando sempre più importante per l’opinione pubblica, tanto che ormai esiste una larga fetta di consumatori disponibile a pagare di più per l’acquisto di prodotti o servizi “ecologici”. Sen-za dimenticare il ruolo delle amministrazioni pubbliche: normative comunitarie e nazionali, infatti, ormai favoriscono di chiaramente negli appalti pubblici quelle aziende che propongono prodotti e processi ecocompatibili. Considerato che la Pubblica amministrazione spende circa 2 trilioni di euro l’anno in Europa (equivalenti al 19 % del Pil dell’Ue), è chiaro che già da alcuni anni le imprese stanno ricevendo

22Anche le Pmi possono fare ricerca e sviluppo

Innovazione come volano per la crescita10

Le grandi aziende multinazionali possiedono vari asset dedicati alla ricerca e sviluppo e pos-sono contare su decine di dipendenti dedicati a queste attività. La partita per le Pmi nell’in-novazione, allora, è persa in partenza? Non proprio: basti pensare a quello che è av-venuto e tuttora avviene nell’Ict. I big del set-tore (Apple, Google, Microsoft, ecc) erano in origine delle Pmi, spesso avviate da un paio di soci e gestite in garage o piccole stanze. Le innovazioni di cui questi piccoli imprendi-tori sono stati capaci sono risultate il volano della loro crescita successiva e, ancora oggi,

questi giganti mantengono le loro posizioni di leadership anche attraverso la continua acqui-sizione di Pmi innovative. Qualcuno potrebbe pensare che queste siano storie “americane” ma, in realtà, anche alle nostre latitudini, le Pmi sono uno dei motori con cui si creano e si diffondono l’innovazione e la conoscenza. In alcuni settori, specialmen-te in quelli a più alta intensità di conoscenza come l’informatica o le biotecnologie, il con-tributo delle piccole aziende alla creazione di nuovi prodotti e processi, o al miglioramen-to di quelli esistenti, è più che proporzionale

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I big dell’Ict settore (Apple, Google, Microsoft, ecc) erano in origine delle Pmi, spesso avviate da un paio di soci e gestite in un garage

tivi stanziamenti sono: il Settimo Programma Quadro (54 miliardi di euro di stanziamenti per il periodo compreso tra 2007 e 2013), il Pro-gramma quadro per la competitività e l’inno-vazione (3,6 miliardi di euro), il Lifelong Lear-ning Programme (6,2 miliardi di €) e Life + (2,1 miliardi di €). Altri tre programmi comunitari hanno un impatto indiretto sulle politiche per l’inno-vazione: sono i programmi Trans-European Networks, Marco Polo e IDABC/ISA per l’e-go-vernment. In particolare, nell’ambito del setti-mo Programma Quadro (FP7) per ricerca e svi-luppo, è stata posta una particolare attenzione alle norme che favoriscono le Pmi, soprattutto quelle ad alta intensità di conoscenza. In effet-ti le regole dell’FP7 prevedono che le piccole imprese possano ricevere un finanziamento comunitario fino al 75% dell’ammontare del progetto, a differenza delle grandi aziende, per le quali la soglia massima di finanziamen-to è del 50%. Nella categoria “Cooperazione”, che raggrup-pa il 60% dei fondi del settimo Programma quadro, la Commissione si è posta l’obiettivo di erogare alle Pmi almeno il 15% del totale delle somme stanziate. Oltre ai programmi comunitari in senso stret-to, molto rilevanti sono i fondi per l’innovazio-ne messi a disposizione dalla Banca Europea per gli investimenti. A supporto dell’innovazione, nell’ambito dell’iniziativa “i2i”, la Bei ha stanziato 50 mi-liardi di euro per il periodo 2010-2020. Inoltre, la Bei gestisce tre iniziative dedicate esplicita-mente alle Pmi: Risk Capital, gli stanziamen-ti nell’ambito del Programma quadro per la competitività e l’innovazione e il Risk sharing finance facilities (Rsff).

rispetto al loro peso. Al contrario, nei settori maturi (chimica, meccanica, ecc), caratterizza-ti da grandi economie di scala e alta intensità di capitale, l’innovazione avviene soprattutto all’interno delle grandi organizzazioni. Que-sto vantaggio, secondo alcuni studiosi, dipen-derebbe anche da una maggiore capacità di sfruttamento delle esternalità prodotte delle università e dei centri di ricerca del territorio. In linea generale la ricerca e sviluppo delle Pmi tende a produrre delle innovazioni di prodotto (soprattutto per mercati di nicchia) piuttosto che di processo, che sono soprattutto incre-mentali, anche se talvolta i miglioramenti in-trodotti sono radicali e dirompenti. L’investi-mento delle Pmi nella ricerca e sviluppo ha bisogno, però, di qualche stimolo, altrimenti la spinta all’innovazione rischia di perdersi tra le incombenze dell’attività quotidiana. Un grande contributo può arrivare dagli incen-tivi presenti a livello europeo: si stima che il 16,5% dell’intero bilancio comunitario sia spe-so in attività in qualche modo correlate alla promozione dell’innovazione e alla diffusione della conoscenza. I principali programmi di finanziamento ge-stiti direttamente dalla Commissione e i rela-

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Pmi, tutte le strade per diventare più grandiAttivarsi in reti per creare sinergie12

Essere Pmi rappresenta spesso un vantaggio: il limitato numero di addetti consente spesso di sopravvivere meglio alle turbolenze di merca-to o di modificare in tempi più rapidi la propria struttura organizzativa rispetto alle grandi im-prese. È evidente, però, che ci sono dei casi e delle si-tuazioni in cui sarebbe utile ingrandirsi o, perlo-meno, poter fare affidamento su collaborazioni o alleanze con altre aziende. L’esempio tipico è quello dei nuovi investimenti, che spesso risul-tano difficili da effettuare per una piccola azien-da, causa la limitata disponibilità di capitale e credito finanziario. Il modello di crescita classico è quello che avvie-ne per linee interne, attraverso processi di in-tegrazione orizzontale e/o verticale e il conse-guente incremento di investimenti, fatturato, dipendenti, ecc, che conduce la piccola impresa verso la medio-grande dimensione. Uno sviluppo di questo tipo, però, presuppone spesso aggregazioni forzate o l’apertura del capitale a finanziatori esterni, tutte modalità spesso indigeste a un tessuto di imprese fami-liari come il nostro e, comunque, prevede tempi piuttosto lunghi. Una strada alternativa è quella legata all’atti-vazione di reti, alleanze e partnership con al-tre aziende per ottenere sinergie di costo e di ricavo che sarebbero impossibili da raggiun-gere unicamente con le proprie uniche forze. Nel caso italiano il modello classico di alleanza tra imprese è quello del distretto industriale: si tratta di un grappolo di Pmi, tutte operanti nello stesso settore e localizzate in un territorio limitato, riconosciuto e in una certa misura sup-portato dallo Stato. Questo modello ha funzionato in modo eccel-lente in un sistema economico limitato ai con-

fini regionali o nazionali, mentre ha patito più difficoltà nell’attuale fase di apertura dei mer-cati. Il distretto produttivo, però, non prevede regole per la collaborazione tra imprese, al con-trario del contratto di consorzio, che è la for-mula tradizionale con la quale più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese. Più recentemente, invece, sono state istituite delle nuove discipline giuridiche per regola-mentare le alleanze tra aziende, più flessibili e meno legate all’aspetto territoriale. Il con-tratto di rete, in particolare, rappresenta uno strumento che permette alle imprese di colla-borare alla realizzazione di progetti e quindi al conseguimento di comuni obiettivi strategici, nonché di scambiarsi informazioni o prestazio-ni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica. Rispetto al consorzio, le modalità di governan-ce sono minori e l’autonomia delle singole so-cietà resta più tutelata. Ulteriormente flessibile è la modalità dell’associazione temporanea di

Nel caso italiano il modello predominante di alleanza tra imprese è quello del distretto industriale, riconosciuto e sostenuto dallo stato

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imprese (Ati), che rappresenta un accordo di cooperazione occasionale e temporanea fra più aziende senza che le stesse costituiscano un’organizzazione comune. Con l’Ati, le impre-se s’impegnano a realizzare congiuntamente un’opera complessa che, in quanto tale, va ol-tre le capacità operative di ciascuna di esse (ad esempio partecipazione a un bando di gara). Per le medie imprese che, invece, volessero fare da sé e trovare nuove risorse, un’alternativa su cui da tempo le istituzioni cercano da spingere è quella della quotazione in Borsa: in effetti, se-

condo la Consob, le Pmi, che pure costituiscono la parte preponderante del tessuto produttivo del nostro Paese, continuano a rappresentare, infatti, solo una percentuale ridotta (appena il 16,4%) delle società quotate, risultando forte-mente sottorappresentate in Borsa rispetto al loro ruolo nell’economia. Recentemente è stata presentata l’iniziativa “Più Borsa”, che mira anche a ridurre il grado di incertezza - spesso lamentato dalle imprese interessate alla quotazione - in merito agli oneri diretti e indiretti.

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Il cloud può permettere di tagliare i costi informaticiDiminuire i costi dell’It per concentrarsi sul business13

Spendere parole su quanto l’utilizzo dei moder-ni strumenti di comunicazione informatica sia fondamentale per il business delle Pmi è pro-babilmente superfluo. La lezione, però, è stata sinora appresa soltanto parzialmente dai nostri piccoli imprenditori, secondo quanto racconta una recente rilevazione dell’Istat. Anche se oggi ben il 95,7% delle imprese con almeno 10 addetti dispone di una connessione a Internet, solo il 26% di queste dichiara di di-sporre di velocità nominali pari o superiori a 10

Mbps. Inoltre, se è vero che il 64,5% del cam-pione dispone di un sito web, appena il 10,6% dichiara di offrire su questi portali servizi per ri-cevere ordinazioni o prenotazioni on-line. In linea generale, le differenze tecnologiche tra grandi e piccole aziende restano accentuate, nonostante i progressi degli ultimi anni: supe-ra i 30 punti percentuali la differenza in attività quali l’adozione di competenze specialistiche Ict (interne o esterne), la connessione mobile a Internet in banda larga, l’invio on-line di moduli

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Se è vero che il 64,5% delle Pmi dispone di un sito web, appena il 10,6% dichiara di offrire su questi portali servizi per ricevere ordinazioni o prenotazioni on-line

re e software, che spesso risultano eccessivi rispetto all’effettivo utilizzo. Inoltre, poiché la gestione informatica è drasticamente ridotta, le Pmi possono vedere diminuire i costi rela-tivi al personale di supporto It e concentrarsi completamente sul business quotidiano. Senza contare che, dal momento che i dati sono ar-chiviati in data center di grandi dimensioni, ci possono essere vantaggi anche da un punto di vista della sicurezza, è sicuramente maggiore rispetto al caso classico di dati memorizzati su un computer portatile o in un server dell’ufficio. L’accesso ai programmi aziendali, poi, è pos-sibile da qualsiasi device connesso alla rete. In linea generale, maggiore è l’incidenza dei costi dell’IT rispetto ai costi complessivi, maggiori saranno i benefici per le imprese nell’adottare il cloud computing. Anche la variabilità del business nel tempo (come la stagionalità) è favorita dai servizi “pay-as-you-go” tipici della “nuvola”, che per-mette di eliminare i costi fissi informatici. Anche attività che si basano molto sulla condi-visione di informazioni tra le persone (esempio, uno studio architettonico) possono beneficiare dei servizi cloud, che ormai sono offerti, in di-verse modalità, da tutte le principali aziende informatiche. Come tutte le cose, però, anche il cloud presen-ta degli svantaggi: poiché la tecnologia è legata alla disponibilità della connessione Internet, i programmi non funzionano in caso di problemi di rete o lavorano male quando quest’ultima è lenta o poco affidabile (caso non raro in Italia, specie nelle aree rurali). Inoltre, poiché l’ap-proccio del cloud è prevalentemente generali-sta, non è sempre possibile l’integrazione con applicazioni aziendali molto personalizzate o specializzate.

compilati alla P.A., lo scambio di informazioni in formati standard, l’utilizzo di software adegua-ti alla condivisione di informazioni all’interno dell’impresa (Erp) e il commercio elettronico. I costi di adozione di un apparato informatico al passo con i tempi, in effetti, possono essere difficilmente sostenibile per le Pmi, specie in un momento di difficoltà economica come quello attuale. Un’alternativa che si sta affermando in questi ultimi anni, che sempre ritagliata apposita-mente per le piccole imprese, è quella del cloud computing: diversamente dal software tradi-zionale che viene eseguito su un Pc locale, nel cloud (nuvola in inglese) le applicazioni lavora-no tramite Internet. Il vantaggio non è da poco per le piccole azien-de, poiché consente loro di accedere a servizi che in precedenza risultavano troppo comples-si o costosi da acquistare. Generalmente, infatti, le applicazioni per il cloud computing si pagano su base mensile per utente attivo, dunque non c’è bisogno di soste-nere in anticipo i costi per l’acquisto di hardwa-

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Innovazione fa rima con startupPiccole grandi imprese capaci di stare sul mercato14

L’innovazione in economia può arrivare ed es-sere proposta da tutti i tipi di imprese, ma in ambito Pmi è più probabile che arrivi da so-cietà avviate da poco tempo, spesso costituite appositamente per sfruttare economicamen-te un’idea o un progetto. Tutto quello di cui queste aziende hanno biso-gno è di capitali, mentori e collaboratori per sviluppare queste idee, portarle allo stadio di prototipo, sperimentarle e arrivare infine a vendere un prodotto o un servizio innovativo. Se queste condizioni si verificano, queste pic-cole, nuove aziende innovative possono tra-sformarsi in imprese capaci di stare sul merca-to. Certo, non mancano i fallimenti ma, in ogni caso le startup (come sono definite in inglese queste imprese) generano esperienza, cultura imprenditoriale, conoscenza, creano nuova occupazione, esplorano nuove possibilità, in poche parole rendono dinamica l’economia. Il fenomeno è in netta crescita: basti pensare che le startup, negli ultimi dieci anni hanno creato tre milioni di posti di lavoro negli Usa, che non sembrano certo volersi fermare qui. Dopo il lancio da parte del presidente ameri-cano, Barack Obama, di Startup America, il settore privato statunitense ha sviluppato un partenariato tra imprenditori, multinazionali, università, fondazioni, leader di varia natura capace di mobilitare in meno di un anno l’equi-valente di un miliardo di dollari a disposizione di un network nazionale, che offrirà servizi a centomila startup nei prossimi tre anni. Perché questa scommessa? Negli Usa è diffusa la consapevolezza che il 40% della ricchezza americana di oggi è prodotta da imprese che trent’anni fa non esistevano nemmeno. E in Italia? È evidente che l’economia del nostro Paese, decisamente più asfittica e ingessata di

quella a stelle e strisce, avrebbe bisogno come il pane della carica delle Pmi innovative che, però, rischiano di essere frenate dai lacci e lac-cioli tipici della nostra burocrazia, nonché dal difficile accesso al credito. Qualcosa, però, sta cambiando: con la legge 221/2012, che ha convertito il Dl Crescita 2.0, è stata introdotta per la prima volta nell’or-dinamento del nostro Paese la definizione di startup: per questo tipo di azienda è stato pre-disposto un quadro di riferimento articolato e organico a livello nazionale che interviene su materie differenti come la semplificazione amministrativa, il mercato del lavoro, le age-volazioni fiscali, il diritto fallimentare. L’obiettivo è rendere l’Italia un Paese più ospi-tale per le startup - siano esse digitali, indu-striali, artigianali, sociali, legate al commercio o all’agricoltura, o ad altri settori dell’econo-mia -, così da tentare di innescare un’inversio-ne di tendenza in fatto di crescita economica e di occupazione, in particolare giovanile. Un recentissimo provvedimento del ministero dello Sviluppo economico va proprio in questa direzione: startup innovative e incubatori cer-tificati potranno d’ora in poi accedere gratui-tamente, in via prioritaria e secondo modalità semplificate, alla garanzia sul credito bancario concessa dal Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese. Il Fondo potrà concedere garanzia diretta su finanziamenti delle banche fino al l’80% dell’ammontare del l’esposizione per capitale, interessi, contrattuali e di mora. L’importo massimo garantibile, per singola startup innovativa o incubatore certificato, è pari a 2,5 milioni di euro. L’unico adempimento richiesto è la presenta-zione di una dichiarazione sostitutiva di atto di

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notorietà che attesti l’iscrizione nella sezione speciale del Registro delle imprese per le star-tup (oggi figurano circa 900 aziende) o in quel-la per gli incubatori.

Per le start up è stato predisposto un quadro di riferimento articolato e organico a livello nazionale che interviene su semplificazione amministrativa, mercato del lavoro e agevolazioni

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Il brevetto, la strada per difendere la proprietà intellettualeUn elemento nodale per la crescita e l’occupazione 15

Molte opportunità di business si basano su una nuova idea, un’invenzione intelligente o un modo innovativo di vendere un prodotto o servizio, messi a punto da parte delle imprese attraverso felici intuizioni o investimenti consi-stenti. È evidente che se queste idee o vantaggi potes-sero essere replicati da parte delle aziende con-correnti il vantaggio di mercato si azzererebbe e ci sarebbe, dunque, ben poco interesse a inve-stire nell’innovazione o nella ricerca e sviluppo. La difesa della proprietà intellettuale, ossia di ogni tipo di creazione (che possa essere valu-tata economicamente) alla base della quale ci sia un processo intellettivo umano, è perciò una necessità assoluta per tutte le aziende; eppure in molte, soprattutto tra le Pmi, non investono abbastanza tempo e risorse su questo aspetto, magari cercando di tutelare le proprie innova-zioni per mezzo del classico “segreto azien-dale”. Una tattica che, però, troppo spesso si rivela insufficiente e comporta gravi rischi: se si verifica una divulgazione, la conoscenza non protetta è utilizzabile liberamente dai terzi. La strada maestra per difendere le proprie in-novazioni è il brevetto: fondamentalmente si tratta di un contratto nel quale il richiedente si impegna a mettere l’invenzione a disposizione del pubblico dopo un congruo periodo di tem-po, mentre lo Stato gli concede un diritto di esclusiva per lo sfruttamento. Con il deposito di una domanda di brevetto si è legalmente protetti dal giorno effettivo di de-posito, indipendentemente dalla successiva co-noscenza da parte di terzi della soluzione bre-vettata. Questo spiega perché, a livello globale, i Paesi con il miglior rendimento innovativo ab-biano anche un elevato livello di brevettazione ed è proprio per questo motivo che la tutela dei

diritti di proprietà intellettuale costituisce un elemento nodale delle iniziative dell’Ue per la crescita e l’occupazione. Come detto in precedenza, la protezione legale derivante da brevetto è soggetta a limiti tem-porali (20 anni per il brevetto industriale, che possono essere portati a 25 solo per i brevetti in campo farmaceutico) e geografici (la tutela è limitata alla/e nazione/i in cui si è depositata la domanda). Proprio quest’ultimo aspetto rappresenta il vero limite dei brevetti, soprattutto in un’epoca di globalizzazione. In teoria, per avere una pro-tezione globale completa, le imprese dovreb-bero registrare ovunque i propri brevetti. In re-altà esiste la strada del brevetto internazionale, detto PCT (Patent Cooperation Treaty), che consente di “prenotare” il brevetto praticamen-te in tutto il mondo, tramite la presentazione di un’apposita domanda alla Wipo, l’Organizza-zione Mondiale della Proprietà Intellettuale che ha sede a Ginevra. La procedura è, però, molto complessa , poi-ché dopo una fase unitaria il processo si scinde

La difesa della proprietà intellettuale, ossia di ogni tipo di creazione alla base della quale ci sia un processo intellettivo umano, è perciò una necessità assoluta per tutte le aziende

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a livello nazionale. Altra strada capace di offri-re una copertura legale perlomeno nel Vecchio Continente è il brevetto europeo, che si ottiene a seguito di una procedura unificata di deposi-to, esame e rilascio. Tale procedura consente di registrare un bre-vetto nei seguenti Stati: Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gre-cia, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo,

Paesi Bassi, Portogallo, Principato di Monaco, Regno Unito, Spagna, Svezia, Svizzera, Alba-nia, Lituania, Lettonia, Romania e Slovenia. I brevetti europei conferiscono al titolare, una volta espletata la procedura di convalida na-zionale, i medesimi diritti che deriverebbero da un brevetto nazionale ottenuto in questi stessi Stati. La durata del brevetto europeo è ventennale.