Foglio.29.10.2011

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IL FOGLIO ANNO XVI NUMERO 255 DIRETTORE GIULIANO FERRARA SABATO 29 OTTOBRE 2011 - 1,30 quotidiano Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1 Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO Roc k the Shabaab Il Kenya all’attacco del jihad somalo, per conto di Obama e Sarkozy Per evitare una nuova Libia, Francia e America si limitano all’appoggio aereo e “logistico” (proprio come in Libia) Il progetto di una “buffer zone” Non solo Vespa, non solo “Questo Amore”. Tutti vogliono ripetere il grande successo del conduttore di “Porta a Porta”, tutti, in- fatti, sono pronti a raccontare gli “amori” di Silvio Berlusconi che – come scrive Bru- no Vespa – “nell’arco dei suoi sessant’an- ni di vita sessuale non è mai stato mono- gamo”. Non solo Vespa, non solo “Questo Amore”. Comincia da par suo Augusto Minzolini che al best seller di Vespa oppone “Lui e l’Amore”. Un long seller destinato a una forte polemica con il collega: “Perché”, si chiede Minzolini, “Vespa racconta solo sessant’anni? Vogliamo far credere che nei primi quindici anni Lui sia stato con le ma- ni in mano?”. Non solo Vespa, anche “Lui e l’Amore”. Con uno stile freddo e sorvegliato, col con- sueto smalto da Squalo, Minzolini carpisce più di un’informazione sui trascorsi biri- chini del premier. E se questi a Vespa ave- va dato i dettagli delle cene eleganti, il combattivo direttore del Tg1, pur soave- mente tentato dal Cav. che gli ha detto: “Caro Augusto, se tu non fossi già fidanza- to, mi fidanzerei con te subito”, non ha esi- tato a raccontare “le merendine stuzzican- ti” di Berlusconi con le sue morose. Non solo Vespa, anche “Lui e l’Amore”. Forse scioccanti le dichiarazioni di Berlu- sconi incalzato da Minzolini. “Ebbene sì, erano tutte maggiorenni”. Inflessibile, Minzolini: “Dica la verità, presidente, pro- prio maggiorenni?”. Ancora più disarman- te la risposta del premier: “Ero fanciullo e timido assai. Avevo bisogno di una nave scuola”. Non solo Vespa, anche “Lui e l’Amore”. Il libro di Minzolini, a maggior gloria del mercato, entra prepotente in classifica. Ed è sempre la Mondadori ad aggiudicarsi l’o- nore della pubblicazione. Il libro di Min- zolini, infatti, esce nella collana diretta da Sandro Bondi, ormai novello Vittorio Se- reni. Non solo Vespa, anche “Lui è l’Amore”. E’ scappato un refuso ma è stato proprio Bon- di a voler sottolineare come Berlusconi sia l’amore e ad avvalorare ciò ha portato sul tavolo del comitato editoriale i messaggi di felicitazione e rallegramenti firmati dai più importanti autori del catalogo quali Angelino Alfano, Maurizio Lupi, Fabio Vo- lo e Maurizio Sacconi. Non solo Vespa, anche “Lui e l’Amore”. L’atmosfera festosa non è stata certo mac- chiata dalla vistosa assenza di un qualun- que biglietto di un qualsiasi Giulio Tre- monti ormai passato alla Rizzoli. Felicità, in compenso, per il messaggio di Andrea Camilleri: “Apprezzo il lodevole lavoro di Minzolini. L’età propria delle congiunzioni carnali è quella dei dodici o tredici anni al massimo. Non posso dimenticare le virtù di Ignazia ’a Zupparedda al mio paese e i suoi squisiti sfincioni dopo ogni incontro”. Non solo Vespa, non solo Minzolini. Cene, amori ed eleganze varie non possono sfug- gire a un viveur qual è Carlo Rossella. Ed è così che il celebrato autore di “Vodka” offre alla lettura del severissimo comitato editoriale Mondadori il suo nuovo libro. “E’ assai più meglio dei Buddenbrook”, ha subito detto Laura Donnini, direttore ge- nerale della nota casa editrice, prima ad avere il privilegio della lettura. Il titolo scelto da Rossella, di concerto con Riccar- do Cavallero, direttore del gruppo, è “Bit- terino”. Non solo Vespa, anche Carlo Rossella. Co- sì come con Vespa, Berlusconi è stato pro- digo di aneddoti anche con Rossella: “Non solo è buono il bitter. Ma fa anche benissi- mo. Abbiamo avuto riscontri ottimi con ogni sorta di accostamenti. Prenda le tar- tine guarnite con il carpaccio di beccacce, quelle cacciate da Lavitola. Ecco, il bitter è la morte sua. Meglio del Valpolicella”. Non solo Vespa, anche Alessandro Sallu- sti. Con voce rotta dalla commozione, Rena- ta Colorni in persona, direttore della pre- stigiosa collana dei Meridiani, ha dato l’an- nuncio: “Abbiamo finalmente il nuovo Tru- man Capote. Sallusti ci ha consegnato il manoscritto di ‘Colazione al Twiga’”. Gran- di applausi hanno accompagnato l’avviso mentre, sulle note di “Moon River”, una gi- gantografia di Berlusconi stampata su tela si srotolava sulla facciata esposta a sud del palazzo di Segrate. Questo è solo amore. Tutte le morose del Cav. (più merendine e sanbittèr) Le confidenze ancora inedite a Minzolini, le feste per Rossella, Sallusti vola alto Non solo V espa I ntendiamoci: il Matteo Renzi che da ieri sera ha ricominciato a mollare scappel- lotti ai vecchi volti del vecchio establish- ment del vecchio Partito democratico non nasce solo sulla spinta di quella famosa de- finizione di successo (“Rottamazione”) che negli ultimi mesi ha contribuito ad ampli- ficare ogni suo tentativo di stuzzicare, di spaventare, di incalzare e di stimolare (e a volte di fare incazzare) i grandi dinosauri del maggior partito d’opposizione. Chiun- que conosca il mondo del Pd sa che la ve- ra ragione per cui il gran rottamatore oggi può permettersi di fare la voce grossa con le vecchie glorie del suo stesso partito non va ricercata nel provocatorio lessico adot- tato dal primo cittadino fiorentino ma va individuata piuttosto in un passaggio della biografia renziana. Un passaggio spesso trascurato dai detrattori del sindaco fioren- tino ma senza il quale il Renzi, che oggi promette di tirar fuori dalla sua tre giorni di kermesse le idee giuste per dare corpo (e possibilmente anche volto) al suo big bang, non avrebbe mai trovato la forza di lancia- re la sua sfida ai “vecchi gattopardi del partito”. Quel passaggio risale a una data particolare in cui Renzi è riuscito a com- piere la stessa impresa che sta cercando di realizzare in questa fase della sua vita: can- didarsi alle primarie senza avere la certez- za di vincere le primarie, sfidare le vecchie correnti senza avere la certezza di non es- sere da loro quotidianamente cannoneggia- to e provare a sbaragliare la concorrenza sapendo che in caso di insuccesso l’unica strada che gli resterebbe da percorrere sa- rebbe quella che lo accompagnerebbe ver- so la porta d’uscita. In quell’occasione – in quel famoso 15 febbraio del 2009 in cui Renzi sfidò i vecchi apparati del Pd candidandosi contro tutti i pronostici alle primarie fiorentine, dopo un “ostruzionismo mai visto prima in vita mia”, dopo che “mi cambiarono le regole in corsa in modo scandaloso” – a Renzi riuscì il capolavoro di diventare a trentatrè anni il sindaco della seconda capitale d’Italia. Bisogna partire proprio dalla conquista di Firenze per capire il senso della marcia sul Pd di Bersani (non male tra l’altro come coincidenza che la kermesse della Leopol- da cada nell’anniversario della marcia su Roma: 28 ottobre) e bisogna partire da quello che successe nell’inverno di tre an- ni fa per comprendere qualcosa di più sul- le intenzioni del sindaco di Firenze. Per- ché nasce qui – e non tanto in televisione, non tanto nelle interviste sui giornali, non tanto nelle pagine dei libri – il profilo com- petitivo del sindaco di Firenze: nasce dal- la clamorosa rupture del 2009, dal consen- so maturato in questi anni in città (tutte le rilevazioni demoscopiche certificano un gradimento per il sindaco intorno al 65 per cento); nasce dall’intenzione di rappresen- tare in chiave moderna il pensiero del sin- daco (e quasi santo) Giorgio La Pira (sul quale Renzi ha scritto la sua tesi di laurea), e nasce soprattutto dalla stessa identica vo- glia di cavalcare un’idea che fino a oggi per Renzi si è rivelata vincente. Un’idea sem- plice: non limitarsi a raccogliere consensi nel proprio bacino elettorale ma provare ad allargare gli orizzonti per rubacchiare voti anche lontano dal proprio partito. Ren- zi sa che oggi i (suoi) sondaggi dicono che per conquistare la leadership non c’è al- tro modo se non coinvolgere nella sua cor- sa non solo i delusi dal centrodestra ma an- che molti di quegli elettori (in Italia sono circa il 40 per cento) non intenzionati a da- re il loro voto ad alcuna delle varie parti politiche in campo – e anche nel 2009, quando Renzi sconfisse alle primarie Lapo Pistelli e Michele Ventura, la forza del sin- daco fu quella di imporsi alle urne grazie a un elettorato composto per il 79,8 per cen- to da persone che in tasca non avevano al- cuna tessera di partito. Ebbene sì, si può dire che sarà questo il senso della tre giorni leopoldina di Renzi: allargare il Pd. Un concetto che verrà tra- dotto da chi non ama il sindaco e gli rim- provera la visita bipartisan a Arcore, con una frase del tipo: “Renzi si è spostato trop- po a destra per essere un candidato spen- dibile per il centrosinistra”. Ma un concet- to invece che per i vecchi sostenitori dell’i- dea che il Pd debba essere una grande ca- sa aperta, capace di attrarre tanto le ani- me del centrosinistra quanto le forze in uscita dal centrodestra, suonerà invece in un modo molto diverso: come “l’unica sal- vezza per il progetto del Pd”, come “l’ulti- ma scialuppa per il nostro partito”, o anco- ra meglio – tanto per parafrasare Bersani – semplicemente come l’unico modo “per dare ancora un senso a questa storia demo- cratica”. A ntidoti letterari all’ingaglioffimento italiano cercansi. Non rassegnati al guardonismo come programma di gover- no, al popolo viola che invoca più intercet- tazioni per tutti, all’editore Laterza che scambia le trascrizioni delle intercettazio- ni medesime sui quotidiani per patrimo- nio di “conoscenza” da difendere, al divi- smo gomorrismo come surrogato della po- litica e della letteratura; e assediati da ex cannibali democratici oggi indignati, da femministe immaginarie alla Michela Marzano, da gnostici da supermarket alla Vito Mancuso, da moralisti da San Raffae- le alla De Monticelli, invochiamo soccorso da vecchi padri e zii e zie che potrebbero salvarci, come, sia pur dubbioso, auspica- va Longanesi. Magari con qualche saluta- re choc, se non altro stilistico, e già non sa- rebbe poco. Quali letture, allora, quali lampi di stampa contro l’ingaglioffimento italiano? Quali salvagente nel grigio mare di carta, in senso letterale o formato iPad? Camil- lo Langone ha scritto sul Foglio: “Ma dav- vero in tanti leggevano Gadda negli anni Sessanta? … Leggo ‘Accoppiamenti giudi- ziosi’ (sontuosamente rieditato da Adelphi) e mi scopro dislessico, mi perdo nelle frasi, mi si incrociano gli occhi. Poi però, piano piano, applicandomi, comin- cio a gustare le parole, il vocabolario favo- loso. E il pensiero di un uomo raro, miso- gino, egoista, antisociale, un Houellebecq dei tempi suoi. Come mi piace quando de- scrive ‘la sottile estorsione degli altruisti (che così appunto si chiamano perciocché intendono beneficare gli altri con le pa- lanche degli altri)’”. Nella premessa Langone è ottimista (“Gadda negli anni Sessanta lo conosceva- no in pochissimi, credo che oggi si legga molto di più”, opina il critico Raffaele Ma- nica). Ma di certo l’Ingegnere in blu me- rita il blasone di usbergo contro i corrivi e sicura ginnastica per cervelli rattrappi- ti. Non per caso la sua bestia nera era Ugo Foscolo (poeta “andato a male”, lo defini- va) colpevole di abuso recidivo dell’agget- tivo “vergine”: “Tutte vergini per lui. Ci so- no più vergini nei versi del Foscolo che in tutta la storia della Roma antica. Nelle ‘Grazie’, poi, sono vergini anche i quadru- pedi. Vergini gli uomini, vergini le donne, vergini che si salvano a nuoto, vergini a ca- vallo, vergini le cavalle, vergine è la cer- va di Diana. E Diana stessa, e le Muse. E Minerva. Nessuno si salva dalla verginità. Però il Foscolo non pare mai voler incon- trare il martirio (coltellata del rivale per le vergini). Ha sempre tentato di adire donne maritate e soprattutto maritate di condizione agiata”. L’inclinazione a predicar bene e razzo- lar male, a immaginarsi abitatori (vergini) di Parnasi virtuosi – pronti a franare alla minima contrarietà – suggerì a Gadda an- che il breve racconto, contenuto proprio in “Accoppiamenti giudiziosi”, intitolato “La gazza ladra”. Protagonista è la signo- ra Campanini, mecenatessa e benefattri- ce, alla quale “piacevano i ragazzi intelli- genti anche quando la loro intelligenza aveva preso una brutta piega: quella, cioè, di scrivere, o peggio, di pubblicare dei versi”. L’“ospitalità di tipo intellettuale” della dama si applica con sollecitudine al bruno e nerocchiuto professore di liceo Lello Citara, accolto nel morbido e caldo salotto Campanini come nell’“anticamera della gloria”. Un triste giorno, però, in quella casa sparisce per sempre il brac- cialetto di diamanti della mecenatessa, e anche se non si può esser certi che il col- pevole sia il poeta Citara, succederà che “alla delicata e vorremmo dir fragile qua- lità de’ suoi versi” verrà meno l’indipensa- bile “patronato, anzi madrinato” della si- gnora Campanini. Gadda grande antropologo della gagliof- fagine italiana, era per questo refrattario all’incasellamento (al critico Cesare Cases, che in epoca di neoavanguardia lo arruola- va a sinistra, rispondeva: “Il Cases vorreb- be che il Gadda fosse socialista, ma il Gad- da non è socialista”). Al già citato Longane- si possono invece ricorrere le annoiate/i dal piagnisteo stile “27esima ora” (il blog del Corriere della Sera che riesce a con- centrare e incellophanare tutto il luogoco- munismo sussiegoso del femminile oppres- so, maltrattato e bistrattato, nella stessa home page in cui compaiono fondamenta- li gallerie fotografiche sugli “spacchi da brivido” delle star). La citazione è per sto- maci forti (astenersi Nadia Urbinati). “Ro- ma, 18 agosto 1944. Oh, le donne che si oc- cupano di politica. Che tristezza! che pena! Incontriamo la signora A. Ci parla della Causa, delle sezioni che crescono, del po- vero P. e piange. Non ha più un minuto di tempo; deve correre di qua e di là, non ha neppure un’ora per dormire! ‘Dio mio, so- no in ritardo! mi attendono al Partito… E voi, voi cosa fate?’ ci domanda distratta- mente, senza aspettare la nostra risposta. Scompare. ‘Che strega!’ dico. ‘Poveretta, soffre tanto’, dice Soldati. ‘Ma che ha fat- to?’ ‘Era l’amante del povero P., quello che è morto l’altro giorno’ ‘Ma suo marito non è in prigione?’’ ‘Sì, soffre anche per lui’, di- ce Soldati con molta serietà” (Leo Longa- nesi, “Parliamo dell’elefante”, Longanesi & C.). Roma. Le truppe keniote, sconfinate in Somalia da due settimane, hanno avuto ie- ri i primi scontri a terra con il principale obiettivo dell’offensiva, i jihadisti di al Sha- baab. Nel frattempo, con i suoi jet di fattu- ra americana, l’esercito di Nairobi conti- nuava la sua campagna martellante sulle posizioni dei guerriglieri islamici. La campagna anti Shabaab è iniziata il 16 ottobre, “all’insaputa” (assicurano diplo- matici americani al New York Times) del presidente Obama, che due giorni prima aveva avvisato il Congresso di un nuovo impegno mili- tare in Congo – permetten- do a Michele Bachmann l’illuminante gaffe “Obama ci ha mandato in Libia, ora vuole mandarci pure in Africa”. L’offensiva sembra una replica della campa- gna libica: dalla parte di Nairobi ci sono i droni americani – non quelli del- la nuova base segreta etiope di Arba Min- ch, dice la Casa Bianca smentendo il Wa- shington Post – e un “supporto logistico” francese. Washington e Parigi negano la presenza sul terreno (aggiungendo involon- tariamente affinità con l’operazione libica Odyssey Dawn). Se dal Pentagono ci vanno cauti – gli Shabaab sono tenaci nelle guer- re di logoramento e l’ultima volta che gli americani entrarono nel paese, devastato dalla carestia, si finì con un Black Hawk at- terrato in piena Mogadiscio – i francesi si muovono con meno rossori. Il loro interven- tismo, infatti, ha trovato una giustificazione iniziale nella necessità di liberare l’agen- te segreto Denis Allex e la paraplegica Ma- rie Dedieu, rapiti (in circostanze differenti) in Somalia. L’Eliseo ha subito allestito una piccola guerra francese, inviando una squadra del- la Direction générale de la sécurité exté- rieure (Dgse) e ordinando al Commande- ment des opérations spéciales (Cos) di per- lustrare la costa sud, vicino Ras Kamboni. Mentre i commando francesi attaccavano i rapitori di Marie Dedieu – un’operazione attribuita alla marina keniota – altri mili- tari francesi atterravano a nord in cerca dei carcerieri di Allex. Nonostante l’esito infe- lice (la donna è morta e il commando set- tentrionale è tornato sui suoi passi), le due operazioni hanno fornito un pretesto a un interventismo francese che non si è certo affievolito: come ha ammesso il colonnello Thierry Burkhard, gli aerei francesi tra- sportano tutto ciò che serve ai kenioti a ri- dosso del confine somalo. E, per quanto Pa- rigi si nasconda dietro alla distinzione labi- le tra operazioni anti pirateria e attacchi anti Shabaab, c’è chi, come il portavoce del- l’esercito somalo Emmanuel Chirchir, non riesce a non dirlo: la marina francese sta bombardando la costa, soprattutto vicino alla roccaforte jihadista di Chisimaio. Cosa vuole Nairobi Il Kenya ha un obiettivo preciso: creare una “buffer zone” a ridosso del confine, in territorio somalo. Dopo due missioni a Mo- gadiscio, i kenioti hanno incassato un as- senso di massima da parte dell’evanescen- te governo somalo (che però preferirebbe limitarsi alla messa in sicurezza del confi- ne). Per raggiungere in fretta l’obiettivo servirebbe un sostegno deciso di Francia e Stati Uniti, prima che la reazione degli Shabaab (e dell’alleata al Qaida) faccia im- pantanare il blitz keniota. Intanto, i solda- ti di Nairobi avanzano per decine di chilo- metri ogni giorno, nonostante le piogge. (segue a pagina tre) COME NASCE LA LEOPOLDA Ieri la marcia su Firenze, oggi su Roma. Il Pd a un ganzo di 36 anni? CONTRO L’ITALIA GAGLIOFFA L’incanaglimento italiano,il guardonismo come programma di governo e l’indignazione d’accatto hanno buoni antidoti letterari. Si chiamano Gadda, Valeri, La Capria, Parise, Montale, Arbasino N ICOLAS S ARK OZY Non solo è interessante e utile, il “Dizionario Analo- gico della Lingua Italiana” di Donata Feroldi e Elena Dal Pra (Zanichelli, 960 pagg., 59 euro), è anche di- vertente. Lo presenta e lo spiega benissimo Valerio Magrelli, su Repubblica: quante volte, mentre stiamo esponendo un concet- to, la parola che serve a esprimere il nostro pensiero ci sfugge, malgrado sappiamo che esista? Ed ecco appunto l’utilità dell’analo- gico, che ci aiuta a trovare quello che là per là non sappiamo, non ricordiamo, le paro- le che abbiamo sulla punta della lingua, ma sulla punta sfortunatamente restano. Cercate “Parola”, per esempio, e scoprire- te un mondo. Non solo i sinonimi come mot- to, termine, vocabolo, voce o lemma. Ma da qui, locuzione, polirematica e sintagma. E da essi, ancora, la sillaba, che il termine “Parola” lo compone, la linguistica, che la studia, il semiologo, che se ne occupa, uno strumento come il libro, che la riguarda, fi- no ai modi di dire che ne derivano, come “dare la parola”. Bello, no? C’è tutto, nel di- zionario, compresi i termini che riguarda- no le arti, le scienze, la geografia, perfino la politica. Cercando “Monti”, per esempio, a me è venuto fuori “Sòla”. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21 New York. Il concetto di stimolo contie- ne la disputa filosofica fra Keynes e Fried- man, la scommessa politica di Barack Oba- ma, i piani economici di quelli che aspira- no a disarcionarlo dalla guida degli Stati Uniti, contiene il dilemma del ruolo dello stato nell’economia ed è all’origine di tut- te le sottomanifestazioni di insofferenza al- l’assetto dell’economia e alla sua relazione con il potere politico. Il genere “don’t tread on me”, libertario e d’orientamento indivi- duale, considera lo stimolo all’economia il peccato originale di uno stato ipertrofico e dirigista che fagocita la libertà dei cittadi- ni. Meglio sarebbe stato un catartico falli- mento, argomentano molti a destra. Il ri- chiamo anarchico, primordiale e confusa- mente cialtrone di “Occupy” (Occupy Wall Street era solo l’origine, ora ci si accampa un po’ ovunque: segno che l’enfasi è più su “Occupy” che su “Wall Street”) è invece il rigurgito verso un provvedimento strimin- zito che ha restaurato lo status quo quan- do prometteva di inaugurare un new deal. Stimolo è piano emergenziale e insieme as- setto morale di un paese che di fronte alla crisi finanziaria è intervenuto da una par- te per ristrutturare il settore, dall’altra per tentare di rilanciare l’economia reale. Stimolo è l’alfa ma non l’omega di un al- fabeto – greco, per l’appunto – che si con- clude con i dati sull’occupazione, la cresci- ta del pil, i consumi, l’accesso delle impre- se al credito, il mercato immobiliare e gli altri indicatori fondamentali. Stimolo è il perno – esplicito o implicito – di qualunque argomentazione che si sia affacciata sull’a- rena pubblica dopo l’autunno terribile del 2008, sia che provenga dagli accusatori del- lo “stimolo fallito” sia che venga sbandie- rato da chi dice che senza-sarebbe-stato- peggio. Peggio di così? La disoccupazione è ferma sopra al 9 per cento, quota fatidi- ca che le previsioni della Casa Bianca di- cevano sarebbe stata contenuta nel corso del 2011. G entile direttore, bisogna stare attenti al- le parole, come sapete voi del Foglio. “Austerità” non fa parte del mio vocabola- rio. Responsabilità sì, autonomia sì, libertà sì, ma austerità no. La polemica sui “licen- ziamenti facili” è figlia di una cultura otto- centesca che ignora i cambiamenti del mer- cato mondiale ed è oltraggiosa per l’intelli- genza degli italiani: già ora nelle aziende con meno di 15 dipendenti, dove lavora cir- ca la metà degli occupati, non vige la giusta causa. E se ora il governo si propone di in- tervenire sui contratti di lavoro, seguen- do la strada indicata dal disegno di legge presentato dal se- natore dell’opposi- zione Pietro Ichino, è solo per aumenta- re la competitività del Paese, aprire nuovi spazi occu- pazionali per le donne e per i gio- vani, e garantire a chi perde il lavoro l’aiuto della cassa integrazione per trovare una nuova occupazione. Di fronte al compimento di una fase cri- tica e turbolenta, e dopo che in Europa il nostro e altri governi hanno chiesto e otte- nuto impegni finanziari a difesa dell’euro, dando assicurazioni sulle riforme e un ca- lendario impegnativo per la loro realizza- zione, si va purtroppo dipanando una cam- pagna fatta di ipocrisie e falsità, che tende a rovesciare come un guanto il senso delle cose. Ci siamo impegnati per la crescita, per lo sviluppo, per più efficaci regole di concorrenza, di competitività, di mobilità sociale, non per deprimere l’economia e ri- lanciare la lotta di classe, che come ho det- to in Parlamento è finita da un pezzo. La re- te di protezione sociale, in specie sul tema del lavoro, è tutto sommato abbastanza so- lida in Italia, e nessuno vuole sfilacciarla. Il problema è di ridurre le cattive abitudi- ni, scongiurare un’estensione abnorme del lavoro precario, offrire un futuro qualifica- to ai giovani e alle donne rimuovendo solo e soltanto le rigidità improprie che impedi- scono l’allargamento della base occupazio- nale e produttiva, per avvicinarci agli obiettivi del Trattato di Lisbona sulla par- tecipazione al mercato del lavoro, purtrop- po ancora lontani. Gli imprenditori del XXI secolo non so- no i padroni delle ferriere dell’Ottocento, non si svegliano al mattino con l’impulso di liberarsi di manodopera per gonfiare pro- fitti. E i lavoratori sono titolari di forza con- trattuale e di diritti, non schiavi sociali. Non dobbiamo sottometterci alla caricatu- ra di noi stessi. Il lavoro è cambiato. Sono cambiati i bisogni e le aspettative sociali. Il lavoro socialmente tutelato ha le sue ragio- ni, ma gli investimenti in ricerca e in svilup- po, il rischio d’impresa e il ruolo delle po- litiche pubbliche si misurano con la capa- cità di competere produttivamente in una dimensione infinitamente più grande e va- ria che nel passato, di rendere il lavoro un’utilità sociale di cui andare orgogliosi, una scala da salire per vedere meglio l’o- rizzonte, non un buco in cui ripararsi. Sono cose che anche la migliore cultura riformi- sta di una grande fi- liera di tecnici del diritto del lavoro, al di là delle diver- se appartenenze, ha sempre coeren- temente sostenuto. Siamo tutti chia- mati a un grande sen- so di responsabilità nell’interesse dell’Ita- lia e dell’Europa. Mi af- fido al senso della realtà dei sindacati, a una resipiscenza di senso comune nelle op- posizioni, e soprattutto all’intelligenza pa- ziente, tendenzialmente infinita, del nostro popolo. Abbiamo un orizzonte stretto e rav- vicinato per varare alcuni provvedimenti in favore del lavoro e dello sviluppo, capaci di rimettere in moto la produzione di ricchez- za nel manifatturiero e nei servizi, in parti- colare capace di restituire orgoglio e fidu- cia al Mezzogiorno italiano, e diciotto mesi di serio e responsabile lavoro prima del compimento della legislatura. Avvilire il tutto in manovre di concertazione corpora- tiva, in giochi di palazzo e di vecchia poli- tica, non è la soluzione auspicata dalla mag- gioranza degli italiani. Possiamo e dobbiamo fare di meglio. Sia- mo europei e liberi cittadini di un’Unione cha ha battuto un colpo sonoro nell’ultimo vertice di Bruxelles, l’Italia ha dei vincoli ma anche dei vantaggi da sfruttare. Rimet- tere in moto la macchina demagogica del catastrofismo e del pessimismo può essere l’istinto politicista di pochi, ma non deve essere la pratica dei molti, nella maggio- ranza e perfino nell’opposizione, che si rendono conto della necessità di crescere. Stimolata a dovere, in un nuovo clima di cooperazione che non ha alternative, l’eco- nomia italiana, che dipende dal funziona- mento del sistema politico e dal comporta- mento della società civile, può vincere an- che questa sfida. Io ci scommetto fiducio- so. Altro che austerità. Cordiali saluti Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dei ministri AUSTERITÀ? NO,GRAZIE Lettera al Foglio di Berlusconi. Sì a responsabilità, autonomia, libertà: austerità no. Il piano è per lo sviluppo, la tutela dei non garantiti, l’aumento della ricchezza. I “licenziamenti facili” non esistono Viaggio al centro dello stimolo La spesa di Obama non è una panacea, ma qualcosa l’ha risolto I l “fanatismo dell’Apocalisse”, come lo chiama Pascal Bruckner, nemico giurato dell’antiumanista ideologia della Terra, ha aggiunto al suo vocabolario escatologico un’altra espressione: i “licenziamenti faci- li”. Che la usino come schermo i sindacati e i partiti del no, è ovvio. Sembra invece un autogol se entra nel lessico del governo. No- ta Franco Bruni sulla Stampa: “Menziona- re la facilitazione del licenziamento dei la- voratori a tempo indeterminato è inutil- mente provocatorio”. E nella provocazione cade Tito Boeri, studioso dei mercati del la- voro imperfetti, il quale ora sostiene che ci vuole flessibilità solo “in entrata”, al con- trario di quel che hanno invocato a più ri- prese il neo presidente della Bce, Mario Draghi, e il neo governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. Errori di comunicazione, dunque, che richiedono probabilmente un vero rovesciamento di prospettiva. Perché il dibattito pubblico è viziato da un equivo- co di fondo, una debolezza analitica dalla quale derivano a cascata fraintendimenti e confusioni. Che cos’è la politica del rigore? Un percorso purificatorio che coinvolge l’intera società? Forse per i penitenti della “grande regressione ascetica”, i seguaci della decrescita felice alla Latouche. Per tutti gli altri, per la gente comune che lavo- ra, appare come un incubo da day after: il Grande gelo, l’Austerità. In realtà, si tratta di un percorso a ostacoli (ieri lo spread Btp/Bund è salito oltre i 384 punti e il ren- dimento del Btp decennale ha battuto ogni record dall’introduzione dell’euro) e per buona parte sconosciuto, il passaggio a nord ovest che apre una nuova strada, una gigan- tesca, e quindi ardua, riconversione del mo- do di lavorare, di consumare, di vivere, pro- vocata non dalla natura autodistruttiva del capitalismo, ma dal fatto che miliardi di uo- mini, usciti dalla fame e dalla sudditanza, vogliono i nostri stessi diritti e il nostro stes- so benessere. Per questo, dobbiamo produr- re cose nuove che piacciano al mondo, orga- nizzare diversamente il lavoro, rimboccar- ci le maniche. Contro il paradigma declinista Serve anche pensare fuori dagli schemi, stile Krugman o Posen (segue a pagina tre, nel box) (segue a pagina quattro) DI CLAUDIO CERASA OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO L’ILLAZIONE INGIUSTIZIE ESEMPLARI. Lelio Luttazzi aveva trasferito la sua tra- gedia in un film. Eccolo (inserto I) LODE AI DOPPIATORI, grandi clandestini di cinema e tv che escono dall’ombra (inserto IV) DI NICOLETTA TILIACOS

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Rock the Shabaab

Il Kenya all’attacco deljihad somalo, per contodi Obama e SarkozyPer evitare una nuova Libia, Francia e

America si limitano all’appoggio aereoe “logistico” (proprio come in Libia)

Il progetto di una “buffer zone”

Non solo Vespa, non solo “Questo Amore”.Tutti vogliono ripetere il grande successodel conduttore di “Porta a Porta”, tutti, in-fatti, sono pronti a raccontare gli “amori”

di Silvio Berlusconi che – come scrive Bru-no Vespa – “nell’arco dei suoi sessant’an-ni di vita sessuale non è mai stato mono-gamo”.

Non solo Vespa, non solo “Questo Amore”.Comincia da par suo Augusto Minzoliniche al best seller di Vespa oppone “Lui el’Amore”. Un long seller destinato a unaforte polemica con il collega: “Perché”, sichiede Minzolini, “Vespa racconta solosessant’anni? Vogliamo far credere che neiprimi quindici anni Lui sia stato con le ma-ni in mano?”.

Non solo Vespa, anche “Lui e l’Amore”.Con uno stile freddo e sorvegliato, col con-sueto smalto da Squalo, Minzolini carpiscepiù di un’informazione sui trascorsi biri-chini del premier. E se questi a Vespa ave-va dato i dettagli delle cene eleganti, ilcombattivo direttore del Tg1, pur soave-mente tentato dal Cav. che gli ha detto:“Caro Augusto, se tu non fossi già fidanza-to, mi fidanzerei con te subito”, non ha esi-tato a raccontare “le merendine stuzzican-ti” di Berlusconi con le sue morose.

Non solo Vespa, anche “Lui e l’Amore”.Forse scioccanti le dichiarazioni di Berlu-sconi incalzato da Minzolini. “Ebbene sì,erano tutte maggiorenni”. Inflessibile,Minzolini: “Dica la verità, presidente, pro-prio maggiorenni?”. Ancora più disarman-te la risposta del premier: “Ero fanciullo etimido assai. Avevo bisogno di una navescuola”.

Non solo Vespa, anche “Lui e l’Amore”. Illibro di Minzolini, a maggior gloria delmercato, entra prepotente in classifica. Edè sempre la Mondadori ad aggiudicarsi l’o-nore della pubblicazione. Il libro di Min-zolini, infatti, esce nella collana diretta daSandro Bondi, ormai novello Vittorio Se-reni.

Non solo Vespa, anche “Lui è l’Amore”. E’scappato un refuso ma è stato proprio Bon-di a voler sottolineare come Berlusconi sial’amore e ad avvalorare ciò ha portato sultavolo del comitato editoriale i messaggi difelicitazione e rallegramenti firmati daipiù importanti autori del catalogo qualiAngelino Alfano, Maurizio Lupi, Fabio Vo-lo e Maurizio Sacconi.

Non solo Vespa, anche “Lui e l’Amore”.L’atmosfera festosa non è stata certo mac-chiata dalla vistosa assenza di un qualun-que biglietto di un qualsiasi Giulio Tre-monti ormai passato alla Rizzoli. Felicità,in compenso, per il messaggio di AndreaCamilleri: “Apprezzo il lodevole lavoro diMinzolini. L’età propria delle congiunzionicarnali è quella dei dodici o tredici anni almassimo. Non posso dimenticare le virtùdi Ignazia ’a Zupparedda al mio paese e isuoi squisiti sfincioni dopo ogni incontro”.

Non solo Vespa, non solo Minzolini. Cene,amori ed eleganze varie non possono sfug-gire a un viveur qual è Carlo Rossella. Edè così che il celebrato autore di “Vodka”offre alla lettura del severissimo comitatoeditoriale Mondadori il suo nuovo libro.“E’ assai più meglio dei Buddenbrook”, hasubito detto Laura Donnini, direttore ge-nerale della nota casa editrice, prima adavere il privilegio della lettura. Il titoloscelto da Rossella, di concerto con Riccar-do Cavallero, direttore del gruppo, è “Bit-terino”.

Non solo Vespa, anche Carlo Rossella. Co-sì come con Vespa, Berlusconi è stato pro-digo di aneddoti anche con Rossella: “Nonsolo è buono il bitter. Ma fa anche benissi-mo. Abbiamo avuto riscontri ottimi conogni sorta di accostamenti. Prenda le tar-tine guarnite con il carpaccio di beccacce,quelle cacciate da Lavitola. Ecco, il bitterè la morte sua. Meglio del Valpolicella”.

Non solo Vespa, anche Alessandro Sallu-sti. Con voce rotta dalla commozione, Rena-ta Colorni in persona, direttore della pre-stigiosa collana dei Meridiani, ha dato l’an-nuncio: “Abbiamo finalmente il nuovo Tru-man Capote. Sallusti ci ha consegnato ilmanoscritto di ‘Colazione al Twiga’”. Gran-di applausi hanno accompagnato l’avvisomentre, sulle note di “Moon River”, una gi-gantografia di Berlusconi stampata su telasi srotolava sulla facciata esposta a sud delpalazzo di Segrate. Questo è solo amore.

Tutte le morose del Cav.(più merendine e sanbittèr)Le confidenze ancora inedite a Minzolini,

le feste per Rossella, Sallusti vola alto

Non solo Vespa

Intendiamoci: il Matteo Renzi che da ierisera ha ricominciato a mollare scappel-

lotti ai vecchi volti del vecchio establish-ment del vecchio Partito democratico non

nasce solo sulla spinta di quella famosa de-finizione di successo (“Rottamazione”) chenegli ultimi mesi ha contribuito ad ampli-ficare ogni suo tentativo di stuzzicare, dispaventare, di incalzare e di stimolare (e avolte di fare incazzare) i grandi dinosauridel maggior partito d’opposizione. Chiun-que conosca il mondo del Pd sa che la ve-ra ragione per cui il gran rottamatore oggipuò permettersi di fare la voce grossa conle vecchie glorie del suo stesso partito nonva ricercata nel provocatorio lessico adot-tato dal primo cittadino fiorentino ma vaindividuata piuttosto in un passaggio dellabiografia renziana. Un passaggio spessotrascurato dai detrattori del sindaco fioren-tino ma senza il quale il Renzi, che oggipromette di tirar fuori dalla sua tre giornidi kermesse le idee giuste per dare corpo (epossibilmente anche volto) al suo big bang,non avrebbe mai trovato la forza di lancia-re la sua sfida ai “vecchi gattopardi delpartito”. Quel passaggio risale a una dataparticolare in cui Renzi è riuscito a com-piere la stessa impresa che sta cercando direalizzare in questa fase della sua vita: can-didarsi alle primarie senza avere la certez-za di vincere le primarie, sfidare le vecchiecorrenti senza avere la certezza di non es-sere da loro quotidianamente cannoneggia-to e provare a sbaragliare la concorrenzasapendo che in caso di insuccesso l’unicastrada che gli resterebbe da percorrere sa-rebbe quella che lo accompagnerebbe ver-so la porta d’uscita.

In quell’occasione – in quel famoso 15febbraio del 2009 in cui Renzi sfidò i vecchiapparati del Pd candidandosi contro tutti ipronostici alle primarie fiorentine, dopoun “ostruzionismo mai visto prima in vitamia”, dopo che “mi cambiarono le regole incorsa in modo scandaloso” – a Renzi riuscìil capolavoro di diventare a trentatrè anniil sindaco della seconda capitale d’Italia.Bisogna partire proprio dalla conquista diFirenze per capire il senso della marcia sulPd di Bersani (non male tra l’altro comecoincidenza che la kermesse della Leopol-da cada nell’anniversario della marcia suRoma: 28 ottobre) e bisogna partire da

quello che successe nell’inverno di tre an-ni fa per comprendere qualcosa di più sul-le intenzioni del sindaco di Firenze. Per-ché nasce qui – e non tanto in televisione,non tanto nelle interviste sui giornali, nontanto nelle pagine dei libri – il profilo com-petitivo del sindaco di Firenze: nasce dal-la clamorosa rupture del 2009, dal consen-so maturato in questi anni in città (tutte lerilevazioni demoscopiche certificano ungradimento per il sindaco intorno al 65 percento); nasce dall’intenzione di rappresen-tare in chiave moderna il pensiero del sin-daco (e quasi santo) Giorgio La Pira (sulquale Renzi ha scritto la sua tesi di laurea),e nasce soprattutto dalla stessa identica vo-glia di cavalcare un’idea che fino a oggi perRenzi si è rivelata vincente. Un’idea sem-plice: non limitarsi a raccogliere consensinel proprio bacino elettorale ma provaread allargare gli orizzonti per rubacchiarevoti anche lontano dal proprio partito. Ren-zi sa che oggi i (suoi) sondaggi dicono cheper conquistare la leadership non c’è al-tro modo se non coinvolgere nella sua cor-sa non solo i delusi dal centrodestra ma an-che molti di quegli elettori (in Italia sonocirca il 40 per cento) non intenzionati a da-re il loro voto ad alcuna delle varie partipolitiche in campo – e anche nel 2009,quando Renzi sconfisse alle primarie LapoPistelli e Michele Ventura, la forza del sin-daco fu quella di imporsi alle urne graziea un elettorato composto per il 79,8 per cen-to da persone che in tasca non avevano al-cuna tessera di partito.

Ebbene sì, si può dire che sarà questo ilsenso della tre giorni leopoldina di Renzi:allargare il Pd. Un concetto che verrà tra-dotto da chi non ama il sindaco e gli rim-provera la visita bipartisan a Arcore, conuna frase del tipo: “Renzi si è spostato trop-po a destra per essere un candidato spen-dibile per il centrosinistra”. Ma un concet-to invece che per i vecchi sostenitori dell’i-dea che il Pd debba essere una grande ca-sa aperta, capace di attrarre tanto le ani-me del centrosinistra quanto le forze inuscita dal centrodestra, suonerà invece inun modo molto diverso: come “l’unica sal-vezza per il progetto del Pd”, come “l’ulti-ma scialuppa per il nostro partito”, o anco-ra meglio – tanto per parafrasare Bersani– semplicemente come l’unico modo “perdare ancora un senso a questa storia demo-cratica”.

Antidoti letterari all’ingaglioffimentoitaliano cercansi. Non rassegnati al

guardonismo come programma di gover-no, al popolo viola che invoca più intercet-

tazioni per tutti, all’editore Laterza chescambia le trascrizioni delle intercettazio-ni medesime sui quotidiani per patrimo-nio di “conoscenza” da difendere, al divi-smo gomorrismo come surrogato della po-litica e della letteratura; e assediati da excannibali democratici oggi indignati, dafemministe immaginarie alla MichelaMarzano, da gnostici da supermarket allaVito Mancuso, da moralisti da San Raffae-le alla De Monticelli, invochiamo soccorsoda vecchi padri e zii e zie che potrebberosalvarci, come, sia pur dubbioso, auspica-va Longanesi. Magari con qualche saluta-re choc, se non altro stilistico, e già non sa-rebbe poco.

Quali letture, allora, quali lampi distampa contro l’ingaglioffimento italiano?Quali salvagente nel grigio mare di carta,in senso letterale o formato iPad? Camil-lo Langone ha scritto sul Foglio: “Ma dav-vero in tanti leggevano Gadda negli anniSessanta? … Leggo ‘Accoppiamenti giudi-ziosi’ (sontuosamente rieditato daAdelphi) e mi scopro dislessico, mi perdonelle frasi, mi si incrociano gli occhi. Poiperò, piano piano, applicandomi, comin-cio a gustare le parole, il vocabolario favo-loso. E il pensiero di un uomo raro, miso-gino, egoista, antisociale, un Houellebecqdei tempi suoi. Come mi piace quando de-scrive ‘la sottile estorsione degli altruisti(che così appunto si chiamano perciocchéintendono beneficare gli altri con le pa-lanche degli altri)’”.

Nella premessa Langone è ottimista(“Gadda negli anni Sessanta lo conosceva-no in pochissimi, credo che oggi si leggamolto di più”, opina il critico Raffaele Ma-nica). Ma di certo l’Ingegnere in blu me-rita il blasone di usbergo contro i corrivie sicura ginnastica per cervelli rattrappi-ti. Non per caso la sua bestia nera era UgoFoscolo (poeta “andato a male”, lo defini-va) colpevole di abuso recidivo dell’agget-tivo “vergine”: “Tutte vergini per lui. Ci so-no più vergini nei versi del Foscolo che intutta la storia della Roma antica. Nelle‘Grazie’, poi, sono vergini anche i quadru-pedi. Vergini gli uomini, vergini le donne,vergini che si salvano a nuoto, vergini a ca-vallo, vergini le cavalle, vergine è la cer-va di Diana. E Diana stessa, e le Muse. EMinerva. Nessuno si salva dalla verginità.Però il Foscolo non pare mai voler incon-trare il martirio (coltellata del rivale perle vergini). Ha sempre tentato di adire

donne maritate e soprattutto maritate dicondizione agiata”.

L’inclinazione a predicar bene e razzo-lar male, a immaginarsi abitatori (vergini)di Parnasi virtuosi – pronti a franare allaminima contrarietà – suggerì a Gadda an-che il breve racconto, contenuto proprioin “Accoppiamenti giudiziosi”, intitolato“La gazza ladra”. Protagonista è la signo-ra Campanini, mecenatessa e benefattri-ce, alla quale “piacevano i ragazzi intelli-genti anche quando la loro intelligenzaaveva preso una brutta piega: quella, cioè,di scrivere, o peggio, di pubblicare deiversi”. L’“ospitalità di tipo intellettuale”della dama si applica con sollecitudine albruno e nerocchiuto professore di liceoLello Citara, accolto nel morbido e caldosalotto Campanini come nell’“anticameradella gloria”. Un triste giorno, però, inquella casa sparisce per sempre il brac-cialetto di diamanti della mecenatessa, eanche se non si può esser certi che il col-pevole sia il poeta Citara, succederà che“alla delicata e vorremmo dir fragile qua-lità de’ suoi versi” verrà meno l’indipensa-bile “patronato, anzi madrinato” della si-gnora Campanini.

Gadda grande antropologo della gagliof-fagine italiana, era per questo refrattarioall’incasellamento (al critico Cesare Cases,che in epoca di neoavanguardia lo arruola-va a sinistra, rispondeva: “Il Cases vorreb-be che il Gadda fosse socialista, ma il Gad-da non è socialista”). Al già citato Longane-si possono invece ricorrere le annoiate/idal piagnisteo stile “27esima ora” (il blogdel Corriere della Sera che riesce a con-centrare e incellophanare tutto il luogoco-munismo sussiegoso del femminile oppres-so, maltrattato e bistrattato, nella stessahome page in cui compaiono fondamenta-li gallerie fotografiche sugli “spacchi dabrivido” delle star). La citazione è per sto-maci forti (astenersi Nadia Urbinati). “Ro-ma, 18 agosto 1944. Oh, le donne che si oc-cupano di politica. Che tristezza! che pena!Incontriamo la signora A. Ci parla dellaCausa, delle sezioni che crescono, del po-vero P. e piange. Non ha più un minuto ditempo; deve correre di qua e di là, non haneppure un’ora per dormire! ‘Dio mio, so-no in ritardo! mi attendono al Partito… Evoi, voi cosa fate?’ ci domanda distratta-mente, senza aspettare la nostra risposta.Scompare. ‘Che strega!’ dico. ‘Poveretta,soffre tanto’, dice Soldati. ‘Ma che ha fat-to?’ ‘Era l’amante del povero P., quello cheè morto l’altro giorno’ ‘Ma suo marito nonè in prigione?’’ ‘Sì, soffre anche per lui’, di-ce Soldati con molta serietà” (Leo Longa-nesi, “Parliamo dell’elefante”, Longanesi& C.).

Roma. Le truppe keniote, sconfinate inSomalia da due settimane, hanno avuto ie-ri i primi scontri a terra con il principaleobiettivo dell’offensiva, i jihadisti di al Sha-baab. Nel frattempo, con i suoi jet di fattu-ra americana, l’esercito di Nairobi conti-nuava la sua campagna martellante sulleposizioni dei guerriglieri islamici.

La campagna anti Shabaab è iniziata il16 ottobre, “all’insaputa” (assicurano diplo-matici americani al New York Times) delpresidente Obama, che due giorni primaaveva avvisato il Congressodi un nuovo impegno mili-tare in Congo – permetten-do a Michele Bachmannl’illuminante gaffe “Obamaci ha mandato in Libia, oravuole mandarci pure inAfrica”. L’offensiva sembrauna replica della campa-gna libica: dalla parte diNairobi ci sono i droniamericani – non quelli del-la nuova base segreta etiope di Arba Min-ch, dice la Casa Bianca smentendo il Wa-shington Post – e un “supporto logistico”francese. Washington e Parigi negano lapresenza sul terreno (aggiungendo involon-tariamente affinità con l’operazione libicaOdyssey Dawn). Se dal Pentagono ci vannocauti – gli Shabaab sono tenaci nelle guer-re di logoramento e l’ultima volta che gliamericani entrarono nel paese, devastatodalla carestia, si finì con un Black Hawk at-terrato in piena Mogadiscio – i francesi simuovono con meno rossori. Il loro interven-tismo, infatti, ha trovato una giustificazioneiniziale nella necessità di liberare l’agen-te segreto Denis Allex e la paraplegica Ma-rie Dedieu, rapiti (in circostanze differenti)in Somalia.

L’Eliseo ha subito allestito una piccolaguerra francese, inviando una squadra del-la Direction générale de la sécurité exté-rieure (Dgse) e ordinando al Commande-ment des opérations spéciales (Cos) di per-lustrare la costa sud, vicino Ras Kamboni.Mentre i commando francesi attaccavano irapitori di Marie Dedieu – un’operazioneattribuita alla marina keniota – altri mili-tari francesi atterravano a nord in cerca deicarcerieri di Allex. Nonostante l’esito infe-lice (la donna è morta e il commando set-tentrionale è tornato sui suoi passi), le dueoperazioni hanno fornito un pretesto a uninterventismo francese che non si è certoaffievolito: come ha ammesso il colonnelloThierry Burkhard, gli aerei francesi tra-sportano tutto ciò che serve ai kenioti a ri-dosso del confine somalo. E, per quanto Pa-rigi si nasconda dietro alla distinzione labi-le tra operazioni anti pirateria e attacchianti Shabaab, c’è chi, come il portavoce del-l’esercito somalo Emmanuel Chirchir, nonriesce a non dirlo: la marina francese stabombardando la costa, soprattutto vicinoalla roccaforte jihadista di Chisimaio.

Cosa vuole NairobiIl Kenya ha un obiettivo preciso: creare

una “buffer zone” a ridosso del confine, interritorio somalo. Dopo due missioni a Mo-gadiscio, i kenioti hanno incassato un as-senso di massima da parte dell’evanescen-te governo somalo (che però preferirebbelimitarsi alla messa in sicurezza del confi-ne). Per raggiungere in fretta l’obiettivoservirebbe un sostegno deciso di Francia eStati Uniti, prima che la reazione degliShabaab (e dell’alleata al Qaida) faccia im-pantanare il blitz keniota. Intanto, i solda-ti di Nairobi avanzano per decine di chilo-metri ogni giorno, nonostante le piogge.

(segue a pagina tre)

COME NASCE LA LEOPOLDAIeri la marcia su Firenze, oggi su Roma. Il Pd a un ganzo di 36 anni?

CONTRO L’ITALIA GAGLIOFFAL’incanaglimento italiano, il guardonismo come programma

di governo e l’indignazione d’accatto hanno buoni antidoti letterari.Si chiamano Gadda, Valeri, La Capria, Parise, Montale, Arbasino

NICOLAS SARKOZY

Non solo è interessante eutile, il “Dizionario Analo-gico della Lingua Italiana”di Donata Feroldi e ElenaDal Pra (Zanichelli, 960pagg., 59 euro), è anche di-

vertente. Lo presenta e lo spiega benissimoValerio Magrelli, su Repubblica: quantevolte, mentre stiamo esponendo un concet-to, la parola che serve a esprimere il nostropensiero ci sfugge, malgrado sappiamo cheesista? Ed ecco appunto l’utilità dell’analo-gico, che ci aiuta a trovare quello che là perlà non sappiamo, non ricordiamo, le paro-le che abbiamo sulla punta della lingua,ma sulla punta sfortunatamente restano.Cercate “Parola”, per esempio, e scoprire-te un mondo. Non solo i sinonimi come mot-to, termine, vocabolo, voce o lemma. Ma daqui, locuzione, polirematica e sintagma. Eda essi, ancora, la sillaba, che il termine“Parola” lo compone, la linguistica, che lastudia, il semiologo, che se ne occupa, unostrumento come il libro, che la riguarda, fi-no ai modi di dire che ne derivano, come“dare la parola”. Bello, no? C’è tutto, nel di-zionario, compresi i termini che riguarda-no le arti, le scienze, la geografia, perfino lapolitica. Cercando “Monti”, per esempio, ame è venuto fuori “Sòla”. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21

New York. Il concetto di stimolo contie-ne la disputa filosofica fra Keynes e Fried-man, la scommessa politica di Barack Oba-ma, i piani economici di quelli che aspira-no a disarcionarlo dalla guida degli StatiUniti, contiene il dilemma del ruolo dellostato nell’economia ed è all’origine di tut-te le sottomanifestazioni di insofferenza al-l’assetto dell’economia e alla sua relazionecon il potere politico. Il genere “don’t treadon me”, libertario e d’orientamento indivi-duale, considera lo stimolo all’economia ilpeccato originale di uno stato ipertrofico edirigista che fagocita la libertà dei cittadi-ni. Meglio sarebbe stato un catartico falli-mento, argomentano molti a destra. Il ri-chiamo anarchico, primordiale e confusa-mente cialtrone di “Occupy” (Occupy WallStreet era solo l’origine, ora ci si accampaun po’ ovunque: segno che l’enfasi è più su“Occupy” che su “Wall Street”) è invece ilrigurgito verso un provvedimento strimin-zito che ha restaurato lo status quo quan-

do prometteva di inaugurare un new deal.Stimolo è piano emergenziale e insieme as-setto morale di un paese che di fronte allacrisi finanziaria è intervenuto da una par-te per ristrutturare il settore, dall’altra pertentare di rilanciare l’economia reale.

Stimolo è l’alfa ma non l’omega di un al-fabeto – greco, per l’appunto – che si con-clude con i dati sull’occupazione, la cresci-ta del pil, i consumi, l’accesso delle impre-se al credito, il mercato immobiliare e glialtri indicatori fondamentali. Stimolo è ilperno – esplicito o implicito – di qualunqueargomentazione che si sia affacciata sull’a-rena pubblica dopo l’autunno terribile del2008, sia che provenga dagli accusatori del-lo “stimolo fallito” sia che venga sbandie-rato da chi dice che senza-sarebbe-stato-peggio. Peggio di così? La disoccupazioneè ferma sopra al 9 per cento, quota fatidi-ca che le previsioni della Casa Bianca di-cevano sarebbe stata contenuta nel corsodel 2011.

Gentile direttore, bisogna stare attenti al-le parole, come sapete voi del Foglio.

“Austerità” non fa parte del mio vocabola-rio. Responsabilità sì, autonomia sì, libertàsì, ma austerità no. La polemica sui “licen-ziamenti facili” è figlia di una cultura otto-centesca che ignora i cambiamenti del mer-cato mondiale ed è oltraggiosa per l’intelli-genza degli italiani: già ora nelle aziendecon meno di 15 dipendenti, dove lavora cir-ca la metà degli occupati, non vige la giustacausa. E se ora il governo si propone di in-tervenire sui contratti di lavoro, seguen-do la strada indicatadal disegno di leggepresentato dal se-natore dell’opposi-zione Pietro Ichino,è solo per aumenta-re la competitivitàdel Paese, aprirenuovi spazi occu-pazionali per ledonne e per i gio-vani, e garantire achi perde il lavorol’aiuto della cassa integrazione per trovareuna nuova occupazione.

Di fronte al compimento di una fase cri-tica e turbolenta, e dopo che in Europa ilnostro e altri governi hanno chiesto e otte-nuto impegni finanziari a difesa dell’euro,dando assicurazioni sulle riforme e un ca-lendario impegnativo per la loro realizza-zione, si va purtroppo dipanando una cam-pagna fatta di ipocrisie e falsità, che tendea rovesciare come un guanto il senso dellecose. Ci siamo impegnati per la crescita,per lo sviluppo, per più efficaci regole diconcorrenza, di competitività, di mobilitàsociale, non per deprimere l’economia e ri-lanciare la lotta di classe, che come ho det-to in Parlamento è finita da un pezzo. La re-te di protezione sociale, in specie sul temadel lavoro, è tutto sommato abbastanza so-lida in Italia, e nessuno vuole sfilacciarla.Il problema è di ridurre le cattive abitudi-ni, scongiurare un’estensione abnorme dellavoro precario, offrire un futuro qualifica-to ai giovani e alle donne rimuovendo soloe soltanto le rigidità improprie che impedi-scono l’allargamento della base occupazio-nale e produttiva, per avvicinarci agliobiettivi del Trattato di Lisbona sulla par-tecipazione al mercato del lavoro, purtrop-po ancora lontani.

Gli imprenditori del XXI secolo non so-no i padroni delle ferriere dell’Ottocento,non si svegliano al mattino con l’impulso diliberarsi di manodopera per gonfiare pro-fitti. E i lavoratori sono titolari di forza con-trattuale e di diritti, non schiavi sociali.Non dobbiamo sottometterci alla caricatu-

ra di noi stessi. Il lavoro è cambiato. Sonocambiati i bisogni e le aspettative sociali. Illavoro socialmente tutelato ha le sue ragio-ni, ma gli investimenti in ricerca e in svilup-po, il rischio d’impresa e il ruolo delle po-litiche pubbliche si misurano con la capa-cità di competere produttivamente in unadimensione infinitamente più grande e va-ria che nel passato, di rendere il lavoroun’utilità sociale di cui andare orgogliosi,una scala da salire per vedere meglio l’o-rizzonte, non un buco in cui ripararsi. Sonocose che anche la migliore cultura riformi-

sta di una grande fi-liera di tecnici deldiritto del lavoro,al di là delle diver-se appartenenze,ha sempre coeren-temente sostenuto.

Siamo tutti chia-mati a un grande sen-so di responsabilitànell’interesse dell’Ita-

lia e dell’Europa. Mi af-fido al senso della realtà dei sindacati, a

una resipiscenza di senso comune nelle op-posizioni, e soprattutto all’intelligenza pa-ziente, tendenzialmente infinita, del nostropopolo. Abbiamo un orizzonte stretto e rav-vicinato per varare alcuni provvedimenti infavore del lavoro e dello sviluppo, capaci dirimettere in moto la produzione di ricchez-za nel manifatturiero e nei servizi, in parti-colare capace di restituire orgoglio e fidu-cia al Mezzogiorno italiano, e diciotto mesidi serio e responsabile lavoro prima delcompimento della legislatura. Avvilire iltutto in manovre di concertazione corpora-tiva, in giochi di palazzo e di vecchia poli-tica, non è la soluzione auspicata dalla mag-gioranza degli italiani.

Possiamo e dobbiamo fare di meglio. Sia-mo europei e liberi cittadini di un’Unionecha ha battuto un colpo sonoro nell’ultimovertice di Bruxelles, l’Italia ha dei vincolima anche dei vantaggi da sfruttare. Rimet-tere in moto la macchina demagogica delcatastrofismo e del pessimismo può esserel’istinto politicista di pochi, ma non deveessere la pratica dei molti, nella maggio-ranza e perfino nell’opposizione, che sirendono conto della necessità di crescere.Stimolata a dovere, in un nuovo clima dicooperazione che non ha alternative, l’eco-nomia italiana, che dipende dal funziona-mento del sistema politico e dal comporta-mento della società civile, può vincere an-che questa sfida. Io ci scommetto fiducio-so. Altro che austerità.

Cordiali salutiSilvio Berlusconi,

presidente del Consiglio dei ministri

AUSTERITÀ? NO, GRAZIE Lettera al Foglio di Berlusconi. Sì a responsabilità, autonomia, libertà:

austerità no. Il piano è per lo sviluppo, la tutela dei non garantiti,l’aumento della ricchezza. I “licenziamenti facili” non esistono

Viaggio al centro dello stimoloLa spesa di Obama non è una panacea, ma qualcosa l’ha risolto

Il “fanatismo dell’Apocalisse”, come lochiama Pascal Bruckner, nemico giurato

dell’antiumanista ideologia della Terra, haaggiunto al suo vocabolario escatologicoun’altra espressione: i “licenziamenti faci-li”. Che la usino come schermo i sindacatie i partiti del no, è ovvio. Sembra invece unautogol se entra nel lessico del governo. No-ta Franco Bruni sulla Stampa: “Menziona-re la facilitazione del licenziamento dei la-voratori a tempo indeterminato è inutil-mente provocatorio”. E nella provocazionecade Tito Boeri, studioso dei mercati del la-voro imperfetti, il quale ora sostiene che civuole flessibilità solo “in entrata”, al con-trario di quel che hanno invocato a più ri-prese il neo presidente della Bce, MarioDraghi, e il neo governatore di Bankitalia,Ignazio Visco. Errori di comunicazione,dunque, che richiedono probabilmente unvero rovesciamento di prospettiva. Perchéil dibattito pubblico è viziato da un equivo-co di fondo, una debolezza analitica dallaquale derivano a cascata fraintendimenti e

confusioni. Che cos’è la politica del rigore?Un percorso purificatorio che coinvolgel’intera società? Forse per i penitenti della“grande regressione ascetica”, i seguacidella decrescita felice alla Latouche. Pertutti gli altri, per la gente comune che lavo-ra, appare come un incubo da day after: ilGrande gelo, l’Austerità. In realtà, si trattadi un percorso a ostacoli (ieri lo spreadBtp/Bund è salito oltre i 384 punti e il ren-dimento del Btp decennale ha battuto ognirecord dall’introduzione dell’euro) e perbuona parte sconosciuto, il passaggio a nordovest che apre una nuova strada, una gigan-tesca, e quindi ardua, riconversione del mo-do di lavorare, di consumare, di vivere, pro-vocata non dalla natura autodistruttiva delcapitalismo, ma dal fatto che miliardi di uo-mini, usciti dalla fame e dalla sudditanza,vogliono i nostri stessi diritti e il nostro stes-so benessere. Per questo, dobbiamo produr-re cose nuove che piacciano al mondo, orga-nizzare diversamente il lavoro, rimboccar-ci le maniche.

Contro il paradigma declinistaServe anche pensare fuori dagli schemi, stile Krugman o Posen

(segue a pagina tre, nel box)

(segue a pagina quattro)

DI CLAUDIO CERASA

OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO

L’ILLAZIONEINGIUSTIZIE ESEMPLARI. LelioLuttazzi aveva trasferito la sua tra-gedia in un film. Eccolo (inserto I)

LODE AI DOPPIATORI, grandiclandestini di cinema e tv cheescono dall’ombra (inserto IV)

•DI NICOLETTA TILIACOS

Caro Francesco, hai diritto di dire latua di cattolico fervente e intelligen-

te e intransigente, in ogni senso tridenti-no, hai diritto anche al tono aspro dell’in-vettiva. I giornali che si dicono laici com-minano silenzio, oscuramento e isola-mento a posizioni come questa che tuesprimi; un giornale laico senza bisognodi dirlo può e deve invece darti la giustaospitalità. E una risposta in dissenso.

Ho una piccola consuetudine con ilcardinal Ravasi, niente di impegnativoper lui, e lo stimo. Ha intensi rapportid’ufficio con la vanità del mondo, nonpuò non rischiare perfino qualche frivo-lezza, qualche sofisma letterario, qual-che semplificazione che crede utile allacausa. Ma è un uomo di chiesa e di cul-

tura che lavora con il Papa e per il Papa,forte delle sue idee e, credo, consapevo-le della distanza fra dibattito e magiste-ro. Però il magistero non è e non può es-sere una prigione. E non esistono proto-colli di un saggio dialogo rispettoso deldogma. A me il dogma, la teoria dell’og-gettività del dogma, sembra nel mondo dioggi una risorsa di libertà, come a te. Lavanificazione della ragione e dell’ontolo-gia, della percezione stessa della realtàdell’essere, è una moda filosofica vestitadi varie acconciature fenomenologiche,di molti metodologismi che portano cer-ti intellettuali atei a dire le stupidagginiche tu imputi, non senza ragione, ad alcu-ni testi della Kristeva e di Bodei. Ma Ra-vasi spiega bene, nel saggio introduttivo

alla raccolta sul “Cortile dei gentili” ap-pena edita da Donzelli, lo spirito di fron-tiera che lo anima.

Hai la bontà o la distrazione sufficien-ti per accostarmi a Marcello Pera, ben al-tri titoli accademici e ben altro percorsopersonale. Lasciami da solo, e tieni con-to che per me in generale essere invita-to o non essere invitato è lo stesso, maga-ri con una leggera preferenza per la se-conda variante. Mio fratello, che è spiri-toso, una volta che ero di malumore, midisse: “Caro Giuliano, non ti invito più acena perché vedo che ti offendi”. Ma que-sto è solo un piccolo particolare persona-le. Seguirono e seguiranno numerose ce-ne.

Per il resto, è comprensibile che tu ti

senta adirato, e che scagli contro il car-dinale la tua pietra cristiana, ma doven-do parlare e ascoltare, e lo si deve in cer-te delicate funzioni intellettuali al servi-zio della cattolicità, non si può parlarecon il solo Jürgen Habermas e ascoltaresolo lui. Anche le persone mostruosa-mente erranti sotto il profilo a noi carodella morale cattolica o dell’etica razio-nale, su temi come l’eugenetica o l’abor-to, possono detenere tesori o comunquepatrimoni di cui una chiesa che non è delmondo, ma nel mondo agisce e predica,deve tenere conto con vigile capacità per-cettiva. Figuriamoci noi che siamo laicinon consacrati. Stammi bene con tutta latua splendida energia, e beata perfidia.

Giuliano Ferrara

Gentile dottor Robert Mapplethorpe, le scri-vo in merito alla sua richiesta di fotografarminudo su un piedistallo d’acciaio dopo esserestato dipinto d’oro come quella che muore in

“Goldfinger” a gambe aperte ripresa di schie-na. A parte il fatto che ho sentito il dermato-logo che mi diceva che la pittura d’oro può pro-vocare eritemi e gravissime forme di disidrosi equindi vorrei una copertura assicurativa, aparte questo io quel giorno lì non posso. Puòspostarmi al 22? Cordiali saluti Gene Gnocchi

Gene Gnocchi, “L’invenzione del balcone”

L’arte contemporanea di una madre pre-vede anche luminose idee sui travestimen-ti per Halloween dei propri figli, affinchénon sfigurino alle feste con banali abituc-ci da vampiro, ma esprimano tutta la lorooriginalità con costumi stupefacenti, pen-sati e meglio se cuciti dalle mamme nei mo-menti di quiete (dentro l’ascensore che siè bloccato fra un piano e l’altro, di solito),e biscotti appena sfornati a forma di fanta-sma, pipistrello, fiotto di sangue. Per que-sto quando ho letto dell’ingorgo per l’aper-tura di un negozio qui a Roma, a Ponte Mil-vio, con la gente nei sacchi a pelo dalla not-te prima, ero certa fossero tutte madri de-terminate, in fila per un vestito da schele-tro ballerino, da mummia bohémienne, dasposa cadavere, da disoccupato furioso (inAmerica hanno venduto molti costumi dasfollati della Grande guerra). Si compranoi vestiti, spendendo qualunque cifra, ma inincognito, si corre a casa, ci si chiude inuna stanza e si staccano tutte le etichette,poi si scuciono lievemente gli orli, si ag-giunge un pezzetto di filo che spunta, ci sisiede accanto alla macchina da cucire (senon ne avete una, noleggiatela), si spargonoritagli di stoffa per terra (potete tagliuzza-re qualche vestito vecchio, o anche nuovonon importa) e si chiamano i bambini: te-soro caro, vieni a provare il vestito amore-volmente fatto a mano dalla mamma. E’ im-portante che la farsa venga messa in attofin dall’inizio, per evitare figuracce con lemadri falene che svolazzano intorno ai fi-gli delle altre per fare il terzo grado e de-nunciarne abitudini scandalose (tipo: il pe-sto pronto, la televisione a qualunque ora,il biberon a cinque anni, e altre simili mac-chine del fango, tipiche del circo materno-giudiziario). Dopo il vestito, si tratta solo difingere di avere appena sfornato, gorgheg-giando e chiamando gli uccellini sul davan-zale, ognuno per nome, dolcetti a tema:quindi fare sparire lo scontrino e il cel-lophane e bruciacchiare i dolcetti lieve-mente con la funzione grill del microonde.Ero quindi sinceramente convinta che la fi-la da Trony fosse una fila femminile e car-bonara di madri inadeguate in cerca di uncostume da lupo mannaro americano aLondra a cui strappare il segno della taglia,invece ho scoperto che era una “ressa dischiavi” in fila per l’iPhone scontato. Gen-te omologata, conformista, pecoroni, faccetristi, senza luce negli occhi, gente sbaglia-ta, succube degli oggetti, dormivano in pie-di come i cavalli, fermi ore e ore in fila perun Ipad (alcuni più fantasiosi almeno finge-vano di svenire per passare avanti). Gentesenza futuro, presa solo dalle offerte, daiconsumi, dal bisogno di possedere per esi-stere, poveretti, che orrore, stupide com-parse di una vita non loro (cose ascoltate elette in giro, giudizi scandalizzati, magariscritti con un Mac a prezzo pieno, su quel-le diecimila persone in fila, paragonabilisoltanto al disprezzo che le madri faleneprovano per le madri che scongelano lasa-gne pronte il venerdì sera). Ma Steve Jobsnon era un genio? L’uomo del futuro, un ri-voluzionario, la fame, la voglia, la follia, unguru, un faro, un eroe, una leggenda, la me-la, la semplicità, e facciamo tutti parte diuna grande comunità, e con l’iPod nelleorecchie ci verranno grandi idee. Cercaredi avere un pezzo di sogno con un po’ me-no soldi, evidentemente, non va bene. O lisi possiede per nascita, i sogni, oppure l’ef-fetto è quello cafone di noi madri-Trony al-le feste di Halloween: il premio per migliorcostume da mostro lo vincono le nostre na-turali occhiaie.

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG 2 IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

Lettere rubateVincere l’incubo del costumedi Halloween senza incorrerenel circo materno-giudiziario

Vite paralleleAdrian diventò famoso dopo

un villaggio dei Paranà, Jamesdiede l’esempio sul politeismo

Adrian CowellNacque il 2 febbraio 1934. Nacque a

Tangshan, la città nel nord della Cina chesarebbe stata colpita dal più disastroso ter-remoto del XX secolo. Il padre era un uo-mo d’affari. La famiglia rientrò in Inghilter-ra alla vigilia della guerra. A Cambridge,dove studiava, Adrian fondò una gioiosa so-cietà dedicata al vino e al cibo. Nel 1956 siimbarcò in un’impresa congiunta dellecittà universitarie di Cambridge e Oxford,

la Far Eastern Expedition, che siproponeva di raggiungere pervia di terra in Land Rover laBirmania. Adrian si assunse ilcompito delle riprese cinema-

tografiche. David Attenborough,al ritorno, gli insegnò come montare

il materiale girato. Fu quello uno dei pri-mi documentari trasmessi dalla televisio-ne, per i quali la Bbc sarebbe diventata fa-mosa. Adrian Cowell aveva scoperto unavocazione e trovato una professione. Partìper documentare in Amazzonia l’opera deifamosi e avventurosi fratelli Villas Boas,Orlando e Claudio, difensori degli indios.Con loro penetrò in zone della foresta do-ve gli uomini bianchi non erano mai stati,documentò la vita degli indios in un film in-titolato “The Heart of the Forest”(1960).Trasmesso in mezzo mondo, il film contri-buì al primo successo politico dei VillasBoas, che l’anno successivo riuscirono a fa-re dichiarare riserva intangibile la regio-ne del fiume Xingu. Poi fu di nuovo l’orien-te. Nel 1964, da un passo a quota cinquemi-la penetrò in Tibet con un missionario at-tivista, l’operatore Chris Menges e un grup-po di guerriglieri anticomunisti tibetani.Nel film “Raid in Tibet” documentò l’imbo-scata a un convoglio militare cinese. Anco-ra con Mengs visse in Birmania con il popo-lo shan e il suo esercito popolare. In duedocumentari avrebbero denunciato il coin-volgimento dei militari birmani nelle raffi-nerie e nel traffico dell’eroina. Intanto ri-chiamato in Brasile dai Villas Boas entròcon loro in un villaggio dei Paranà, il po-polo che non aveva avuto contatti con ibianchi se non con un esploratore ingleseche non era soravissuto per raccontare lasua avventura. I Paranà si mostrarono vigi-li ed elusivi. Con il documentario “La tribùche si nasconde” Cowell vinse una serie dipremi importanti. La causa degli indios eradiventata la sua causa. In una serie di filmimpressionanti raccontò il processo di di-struzione della foresta. In “Mountains ofGold” lasciò il mondo civile senza fiato se-guendo i cercatori d’oro nella loro vita dainsetti sulla Serra Pelada. E’ morto a set-tantasette anni.

James HillmanNacque il 16 aprile 1926. Nacque ad

Atlantic City, nel New Jersey. A diciotto an-ni prestò servizio nei reparti sanitari dellamarina degli Stati Uniti. Nel 1946 incomin-ciò un lungo percorso di studi in Europa.Dal Trinity College di Dublino passò allaSorbona di Parigi, per approdare all’Uni-versità di Zurigo e al C. G. Jung Institute,della quale prestigiosissima e settaria isti-tuzione divenne in pochi mesi un diretto-re. Nel 1966 cominciò a prendere parte at-tiva ai convegni di Eranos ad Ascona, sullago Maggiore dove da decenni si raduna-vano i maggiori studiosi delle religioni, al-la ricerca di una visione sincretistica e, sul-la scorta degli insegnamenti junghiani, ar-chetipica della civiltà. Presto si rese peròconto di essere uscito dall’ortodossia. Jungnon era più il maestro assoluto, ma un mae-stro, l’ultimo di una lunga teoria di pensa-tori che partendo dai presocratici erano ve-nuti elaborando l’idea stessa di una psico-logia archetipica. Le posizioni irritaronogli junghiani. Nel 1969 Hillman lasciò l’isti-tuto di Zurigo per dedicarsi attraverso allaSpring Publications alla propagazione del-la sua concezione politeistica della realtà.Gli archetipi erano i modelli più profondidel funzionamento psichico, come radicidell’anima che governavano le prospettiveattraverso cui gli individui vedevano sestessi e il mondo. Erano i modelli su cui sifondavano i miti che ancora vivevano e agi-vano nella psiche. Il ritorno di Hermes, Pane compagnia fu molto gradito ai lettori . Nel1978 si risolse a tornare negli Usa dove ivecchi dei parevano più arzilli. A Dallas, inTexas, fondò l’Institute of Humanities andCulture. E’ morto giovedì 27 ottobre.

DA ANNALENA

Roma. Non per niente due mesi fa a Ve-nezia Gianni Pacinotti, nel suo film “L’ulti-mo terrestre”, ha scelto il Tg3 per annun-ciare l’arrivo dei marziani sulla terra, conMaria Cuffaro che recita se stessa. E nonper niente Sandro Curzi, il direttore dellostorico Tg3-Telekabul – telegiornale di par-te, sì, ma viva la faccia – un giorno del 1992decise di intrattenere i telespettatori conl’aneddoto della sonda spaziale che toh,guarda caso, aveva dallo spazio rilevatosulla Terra, e solo sulla Terra, “segnali diintelligenza” – e Curzi aveva lanciato l’au-gurio che “l’intelligenza si diffondesse sem-pre più e prendesse il sopravvento sullabarbarie”. E insomma il Tg3 è di fatto unpo’ marziano (mezzanotte spaccata di com-mento ai fatti, non più notiziario e non an-cora talk show) e un po’ terrigno (lavorato-ri, caschetti e minatori, scuole, studenti esindacati). E chissà che barbarie extrater-

restre dev’essere sembrata, al Tg3, non tan-to l’accusa di faziosità lanciata in Vigilan-za dal pidiellino Alessio Butti – ché a But-ti si potrebbe dire, come ha fatto una voltaBianca Berlinguer all’Università di Saler-no, che “nessuno di noi potrà mai essereobiettivo, pur cercando di essere corretto”– quanto la frase buttata lì dal presidenteRai di centrosinistra Paolo Garimberti, giàpilastro di Repubblica e già bersaglio perun Pd che gli ha rimproverato il silenzio suivari tormentoni Rai (Santoro, le nomine, letelefonate tra Mauro Masi e Silvio Berlu-sconi). “Esiste un problema Tg3, lo ammet-to”, ha detto Garimberti, “un problema chesi pone in termini di distinzione tra opinio-ni e notizie, ma non in termini di comple-tezza di informazione”. E ti credo che Bian-ca Berlinguer si è detta “stupefatta”. “Opi-nioni e notizie”: e allora forse bisognereb-be far notare a Garimberti, quando parla di

“lanci non obiettivi”, che l’opinione, oggi,sempre più spesso fa notizia più della no-tizia. E se è vero che, come ha detto Bian-ca Berlinguer a sua discolpa, “il Tg3 hasempre dato spazio a tutte le opinioni”, èpure vero che per fortuna non si è mai vistaBianca Berlinguer nascondere l’opinioneche si era fatta – e pazienza se Ignazio LaRussa si offende, si toglie il microfono e sene va, e se lo stesso fa Antonio Di Pietro.

Antonio Di Bella, ex direttore del Tg3,aveva scommesso sul notiziario che si face-va approfondimento notturno senza prolis-sità, e oggi il Tg3 di Bianca si muove sicurotra un ospite non scontato (e a volte scono-sciuto), il libro del giorno e un collegamen-to con Giovanna Botteri (imitata a “Parlacon me”, l’anno scorso, per la sua “obama-mania”). “Problema”, il Tg3, dice Garimber-ti, ma non si capisce come possa essere pro-blema un tiggì che va all’incasso negli ascol-

ti e che, in maggio, nel dopo elezioni, sfio-rava il 13,82 per cento di share. Il direttoreBianca, allora, passeggiava per lo studiocon il suo “passo da generale d’armata”, co-me ha scritto Stefano Di Michele, e si capi-va che la sua formula – “per un pubblico at-tento alla politica” – non aveva bisogno dipatenti (ipocrite) di imparzialità.

Non è più il curziano “tg della gggente”,il Tg3, ma è al filo rosso con Curzi che il Tg3rende omaggio, tanto che, a un certo pun-to, nell’edizione della sera, arriva semprein video qualche faccia da piazza. E in que-sti giorni amari è come se si vedesse aleg-giare in redazione, sorridente, il Curzi chefumava la pipa e allegramente rivendicavail suo essere Telekabul.

(In questo quadro non sembrerebbe co-sì importante un’esemplare punizione deldirettore del Tg1 Augusto Minzolini, ndd).

Marianna Rizzini

Quanto ci piace il Tg3 non imparziale, ma alla Curzi, di Bianca B.

Giudizi e morali lasciano il tempo chetrovano, dal momento che la tv è come

un dinosauro che quando ha fame mangiaquel che trova, senza andare per il sottilee se da qualche parte il cibo abbonda, cimette le radici e ci torna, con tutta la pa-chidermica pesantezza. Stiamo parlandodella morte in tv, che in buona sostanza,nei pur virtuali indici d’ascolto della tele-visione italiana d’inizio stagione, ha sbara-gliato la concorrenza, ha generato una ri-sonanza formidabile nelle nostre comunirelazioni – da bar o da salotto – diventan-do argomento principe, luogo del confron-to, repertorio del citazionismo. E soprattut-to ha praticamente sancito un nuovo gene-re televisivo, potente e inizialmente sel-vaggio, come capita quando il fenomenoavviene per induzione e non per prepara-zione. E’ la tv post mortem, non la stessache a lungo s’era vaticinata nelle traccedel fanta-showbiz, quando s’immaginavache prima o poi la materia assoluta e ter-ribile sarebbe diventata quello della spet-

tacolarizzazione della morte, dell’omici-dio-suicidio in diretta, insomma della tvserial killer, carnefice per spietati motivid’ascolto. Previsione miope, in effetti, intempi nei quali il filtro del politicamentecorretto è uno dei più facili da sbandiera-re da chiunque voglia proporsi come pala-dino del public interest, difensore deiprincipi basilari della dignità e dell’edu-cazione. E dunque lo spettacolo splatterdella morte in diretta appartiene a unaconcezione “reality” della tv come imita-zione esasperata della vita nelle sue pos-sibili manifestazioni – cretine o dramma-tiche che siano – che si sta rapidamentesclerotizzando, per come progressivamen-te prende meccanicità, prevedibilità e ba-nalità. Invece qui si parla dal basso, si par-la del tiranno giustiziato davanti ai telefo-nini di barbari ribelli che sfogano l’ira, siparla dell’esoterico guru dell’era tecnolo-gica che si accommiata in un’apparenteascensione al cielo, si parla del giovanis-simo e scatenato campione di motocicli-

smo che per un atroce scherzo del destinofinisce maciullato dai colleghi e istanta-neamente esplode come modello trasver-sale sotterraneo dell’ultimo possibile for-mato d’individualismo italiano, quello ingroppa al cavallo rombante. Il voyeurismodeflagrato subito al cospetto di questi treeventi ravvicinati è sì quello dell’“attimofatale”, dello sbrindellato fotogramma cheimmortala “come muore” una celebrity, co-me passa dalla sua condizione di potere al-la disarmata caducità della sua fine espo-sta. E’ sì il looping di poche immagini, ri-proposte migliaia di volte secondo la stes-sa logica di ripetizione additiva che, adesempio, governa il climax della technomusic. Ma quello è il momento scatenante,è il “contenuto” della notizia destinata atrasformarsi in ossessione per 48-72 ore. La“forma”, il suo dispiegarsi estetico, la suaaccessibile consumabilità, sta tutta nel do-po la violenza del distacco, dell’esecuzio-ne, dell’incidente, del trapasso. Sta nelladecenza dell’addio, nella composizione e

descrizione del dolore, nella rappresenta-zione di come gli interessati, coloro chehanno voce in capitolo, interpreteranno lapartecipazione alla teatralizzazione delleesequie. E’ la trionfale televisione dei fu-nerali, che batte con distacco quella lentae appiccicosa dei Grandi Matrimoni. Da-vanti a telecamere che gareggiano nell’in-scenare il corretto, rispettoso distacco, lamorte in tv diventa un lungo fiume tran-quillo a cui devolvere pomeriggi, versan-do lacrime nei momenti opportuni (quan-do parte la canzone di Vasco per Simoncel-li, ad esempio), spiando come la morte cirenda tutti più simili anche tra noi vivi,nell’imbarazzo con cui si destreggiano leproprie espressioni e la propria presenza.Ed ecco che la tv così si reinventa, sullaspinta tutta dal basso dei bisogni popola-ri, come formidabile fattore di pacificazio-ne. Che poi, secondo chi l’ha studiata, èuno dei motivi per cui è titolare della for-tuna che non smette di alimentarla.

Stefano Pistolini

Morti violente e funerali compassati in diretta. E’ la nuova tv post mortem

Al direttore - Da tempo il cardinal Ra-vasi porta avanti il celebre Cortile dei

gentili. Con successo mediatico non indiffe-rente. Il cardinale non troverà mai sullasua strada oppositori urlanti e giornalistiacidi. Flirta con il mondo, nel senso evan-gelico del termine, e questo gli procuraamici, a destra e a manca. Non è, lui, comealtri, un cattolico “oscurantista”. Poco fa alCorriere si tifava per la sua elezione a car-dinale di Milano. Come successore di quelcardinal Martini che piace tanto in via Sol-ferino perché contrario alla “Humanae vi-tae” e alla disciplina bimillenaria dellachiesa. Ravasi insomma, “piace alla genteche piace”.

Il perché si può capire facendo un saltonel sito dedicato al Cortile dei gentili, incui campeggia una citazione di padre Tu-roldo, quel prete che un giorno stracciò inpubblico il rosario, perché, a suo dire, su-perstizione del passato. Eccola: “FratelloAteo, nobilmente pensoso, alla ricerca diun Dio che io non so darti, attraversiamoinsieme il deserto. Di deserto in desertoandiamo oltre la foresta delle fedi, liberi enudi verso, il Nudo Essere e là dove la pa-rola muore abbia fine il nostro cammino”.

Non ho nulla da dire contro il “fratelloateo”, anche se non userei la maiuscola;moltissimo, però contro l’idea che Dio si siarivelato, a me, credente, perché io non ab-bia nulla da dire su di Lui. Moltissimo con-tro un confuso irenismo che sacrifica Cristostesso dietro termini astrusi, fintamentepoetici, ma chiaramente non cristiani.

A me sembra che se i preti e i cardinalinon additano Cristo, non servono a niente.

Ma andiamo al sodo. Il 27 aprile, duran-te la giornata di Assisi, che forse il pove-rello che partì per convertire il Sultano,stenterebbe a comprendere, Ravasi ha in-vitato degli atei, su suggerimento di Bene-detto XVI.

Idea interessante se è per dire che ciòche può essere terreno di confronto non so-no le fedi – chè quella cristiana è in un Dio“geloso” e ben differente dagli “dei dellegenti” –, ma la comune umanità che ci ca-ratterizza tutti. Però, tra atei ed atei, ci so-no comunque differenze.

Ravasi, giustamente, le fa. Però, a miomodo di vedere, all’opposto di come do-vrebbe. Ha invitato, per esempio, non Mar-cello Pera o Giuliano Ferrara, che un belpo’ di strada insieme ai credenti la hannofatta e la fanno di continuo, con l’uso dellaragione, ma Julia Kristeva e Remo Bodei.

Perché Ferrara e Pera, direbbe subitoqualcuno, sono schierati politicamente.Sbagliato: anche Bodei e Kristeva lo sono,e molto apertamente: a sinistra. Non è que-sto, dunque, il punto.

Il fatto è che per Bodei e Kristeva Rava-si nutre una certa simpatia che per gli al-tri soggetti citati non ha. Dovuta a cosa? Uncardinale, con degli atei, difficilmente con-corderà su Dio. Però potrebbe trovare pun-ti di accordo, almeno, sull’uomo.

La relazione della Kristeva ad Assisi, in-fatti, porta un titolo eloquente: “Regole perun nuovo umanesimo”. Peccato solo chequell’umanesimo contempli la “liberazio-ne sessuale”, il divorzio, l’aborto e “la bio-logia che emancipa le donne”. Tutte coseche per un credente sono l’esatto contrariodi un vero umanesimo. Nella lunga tratta-zione della Kristeva, in pellegrinaggio ver-so che cosa non si sa, compaiono l’elogiodel materialista Diderot, del feroce anticri-stiano Voltaire, di Rousseau, persino delmarchese de Sade e del femminismo dellade Beauvoir. Conditi, è vero, con citazionidi Dante, san Francesco e santa Teresa d’A-vila, purtroppo non compresi e storpiati.Compaiono poi affermazioni esilaranti, deltipo: “Non c’è più un Universo; la ricercascientifica scopre e indaga continuamente

il Multiverso”. A cui si aggiunge la conclu-sione, anch’essa molto dogmatica e defini-tiva: “non dobbiamo avere paura di esseremortali”. Kristeva quindi dà per certo cheesista il Multiverso (pura ipotesi filosofica,sperimentalmente indimostrabile, sortacon l’unico fine di negare Dio) e che inve-ce sia una sciocchezza l’immortalità dell’a-nima. Infine la Kristeva afferma che tale“Multiverso”, certamente spoglio di Dio edi senso, sarebbe “circondato di vuoto” (co-me tutta la nostra esistenza).

Nessuna possibilità di dialogo, dunque:la Kristeva ha le idee molto chiare e leesprime senza tentennamenti e senza queidubbi che tanto gli piacciono nei credenti.

Andrà meglio, si può pensare, con RemoBodei. Mi sono cercato un po’ dei suoi scrit-ti, per capire da dove partire, se un giornomai mi invitassero ad Assisi come esponen-te del vecchio “cattolicesimo pacelliano”,come avrebbe detto Giovanni Guareschi.Non ho trovato nulla. Neppure un chiodi-no cui appendere una piccolissima speran-za. Bodei, infatti, non solo è ateo; ma è an-che favorevole all’aborto, soprattutto neipaesi in cui “il problema è di limitare lenascite”, causa una presunta “bomba de-mografica”.

Bodei è uno che mette spesso i puntinisulle i: per esempio insiste spesso sullamalvagità degli “atei devoti che strumenta-lizzano la religione”, in quanto dimostranointeresse verso di essa (Avvenire, 22 otto-bre 2011). In una lunga intervista sull’Unità,del 19/6/2005, poi, attaccava violentementel’espressione ratzingeriana “dittatura delrelativismo”, per affermare: “Una tale dit-tatura non c’è, né potrebbe essere impostaa qualcuno”. La verità, continuava Bodei,è che la chiesa è folle a opporsi alla sele-zione della specie, schierandosi contro l’a-borto e la diagnosi pre impianto: “La cul-tura laica vanta delle ottime ragioni e mal-

grado tutto non deve lasciarsi mettere nel-l’angolo. Deve passare all’offensiva, comedicono Giorello e Salvadori. Senza atteggia-menti beceri o contundenti verso la chiesa,che fa il suo mestiere. Ma il punto è que-sto: la chiesa invade uno spazio neutro cheè a garanzia di tutti. Perciò bando alle ti-midezze dei laici, via via divenuti subalter-ni o addirittura devoti. Quello che non sicapisce nella posizione di questi ultimi, maanche in quella dei cattolici, è il rifiuto delbuon senso. Ad esempio, come si fa a rifiu-tare la diagnosi prenatale? Non si può ob-bligare una donna a far nascere da un em-brione un figlio gravemente malformato”.

Se un bambino è malformato, insomma,bisogna ucciderlo. Fa parte dell’umanesi-mo, contro il cattolicissimo “rifiuto delbuon senso”. Vogliamo continuare? Per Bo-dei gli “atei devoti” Pera, Ferrara e Falla-ci, per quanto riguarda la loro posizionesul referendum del 2005, sono “patetici” edarroganti; “proibire la ricerca sulle stami-nali embrionali (leggi: uccisione di embrio-ni umani, ndr) è un atto di oscurantismo”;la chiesa è sempre indietro, come dimostrail Sillabo (bellissimo documento che con-dannava il comunismo ben prima che fa-cesse oltre 100 milioni di morti), per cuiquando occorre, bisogna combattere dove-rose “battaglie”; la chiesa, ormai, non piùfrenata dalla Dc, “tracima” aiutata dall’“at-tivismo dei devoti neocon”…

Se incontrassi Bodei, sempre che non sia“all’offensiva”, mi sa dire caro cardinale,da dove partire, nel dialogo? Perché io, miperdoni, sono un cattolico senza “buon sen-so”, che, per dirne una, non ucciderebbemai suo figlio, sano o malato che fosse, siaperché crede in Dio, sia perché lo ha vistocon quello strumento laicissimo che sichiama ecografo. Basterebbe questo, se hocapito bene, per farlo imbestialire…

Francesco Agnoli

Io, cattolico pacelliano, dico al card. Ravasi che ad Assisi ha sbagliato atei

Ma questo è lo spirito di frontiera della corte dei gentili

Manca poco – due settimane, un paio dimesi – poi anche la parola “indignati”,

con il suo succedaneo internazionale, “in-dignados”, andrà riposta tra le care memo-rie. Laddove, come in una poesia gozzania-na, giacciono “girotondi” e “onda” e “pan-tera” e infinite altre (“casta”, quanto anco-ra durerà?) – le parole si consumano, e sistanno consumando proprio quando tuttisembrano usarle. E così, bla-bla-bla, si leg-ge che il nuovo album dei Negrita è “indi-gnato” e che i poliziotti della Dia, in (sacro-santa) protesta alla Camera, si autodefini-scono ironicamente “in-Dia-gnados”: quan-do una parola si fa troppo di massa, finiscecol non indicare quasi più niente. Perciòl’epica degli “indignati” volge lessicamenteal termine. Allora occorre attrezzarsi in an-

ticipo – per gli “indignati” tutti – e per i me-no “indignati” pure. Possibili alternative?Il passaggio logico sarebbe quello – restan-do ferma l’indignazione – a “furibondi”. “Ifuribondi” assediano il Parlamento”, peresempio, è già un titolo facile da immagi-nare su Repubblica. Magari, con astutastrategia mirante a creare scompiglio nelcampo avverso, potrebbero figurare come i“furiBondi”, così da costringere l’ex mini-stro, in versi o in prosa, a uscire allo scoper-to e a precisare che lui, con la faccenda,nulla ha da spartire. Naturalmente, comesuccede a sinistra, ogni disputa lessicaleappassiona più di una reale: perciò, se gli“indignati” di gran rabbia si faranno “furi-Bondi”, quelli bersaniani dovrebbero opta-re per un più riflessivo “stizziti”, anche se

non è escluso, a quel punto, che gli ex popo-lari di Fioroni, considerando troppo estre-ma la parola d’ordine, e magari d’intesa conBonanni, potrebbero per la loro componen-te scegliere la felice definizione di “secca-ti” – e vien facile immaginare la titolazio-ne, in un momento di scontro particolar-mente accesso nel Pd: “I seccati contro glistizziti: siamo indignati”. I finiani dovreb-bero – nel doveroso superamento della si-gla Fli, onestamente più evocativa di un ru-binetto che gocciola che di una forza all’at-tacco – planare sui “risentiti”, con il sensotanto di moderazione quanto di autoconsi-derazione che li contraddistingue; quelli diCasini, elegantemente accompagnati aLCdM, saprebbero in tutta tranquillità pre-sentarsi in piazza quali “crucciati”. Ma a

questo punto, a vetero “indignati” supera-ti, non è esclusa la sorpresa più grande. Ri-messa un po’ di benzina nel motore, decisoa seppellire lontano dal mausoleo di Arco-re la salma dell’infelice Pdl, il Cav. sta ma-turando il colpo di genio: rifondare il par-tito – un Forza Gnocca buono anche di gio-vedì, così, per togliersi dai piedi un’incom-benza, per poi entrare maoisticamente nelgrande fiume del risentimento e dell’indi-gnazione nazionale. E dunque da par suo(non volendo l’alleato bossiano contaminar-si con l’idioma nazionale, si accontentereb-be di un virile e padano “gulp!” – gulpianipadani: meglio non si può) gettare nella mi-schia le squadrette esacerbate dei militan-ti del centrodestra: i “cribbios!”. Ovviamen-te, con Stracquadanio alla testa. (sdm)

Quando gli “indignados” saranno invecchiati toccherà ai “cribbios” del Cav.

Gentile Corrado Formigli,dopo l’improvvisa ed esuberante

citazione del mio nome nell’ultima par-te della scorsa “Piazza Pulita” mi pre-me solo informarla che non sono libero,ma tuttora detenuto (benché a domici-lio, e con un guinzaglio ormai lasco).Cordiali saluti.

PICCOLA POSTAdi Adriano Sofri

Mea culpa, però minimaculpa. Un paio di settimane fa ho cam-biato abitudini potatorie: non cominciopiù a bere alle undici (ora della letturadei giornali) bensì all’una (ora di pran-zo). Ed ecco che un troppo tempestivostudio del Censis segnala la diminuzio-ne dei consumi di alcol. Non proclamodi essere innocente, mi limito a chiede-re le attenuanti: il mio contributo allacausa si è leggermente ridotto ma restasenz’altro superiore alla media. Gli ita-liani bevono meno e bevono peggio: me-no vino e più beveroni. Sapendo da Ro-ger Scruton che il vino corrisponde al-la civiltà (“La distinzione fra paesi civi-lizzati e non civilizzati corrisponde aquella fra i luoghi in cui si beve vino equelli in cui non se ne beve”) risulta evi-dente che siamo di fronte all’ennesimosegnale di entropia e imbarbarimento.E’ una crisi epocale, non so che cosa far-ci, a parte versarmi un bicchiere extra.

PREGHIERAdi Camillo Langone

Con amore estremo edestremo amore Marco Simon-celli è salito sul podio più al-

to scrivendo, senza volerlo, una dellepagine più romantiche, drammatiche ecommoventi del nostro costume nazio-nale. L’altro ieri, a Coriano, la megliogioventù italiana, quella che ha decisodi sostituire la (anti)politica con le pas-sioni, le emozioni e i sentimenti, ha da-to l’ultimo saluto al suo messia laico, aquel ragazzo dolce e diverso da tutti glialtri che, sacrificando se stesso in unapista di vibrazioni e sensazioni senza li-miti, ci ha restituito il più grande inse-gnamento cristiano: la morte serve a re-suscitare i vivi. E così sia. E così è sta-to. Marco è volato in cielo, in punta dipiedi, neanche una esitazione, un avver-timento, un urlo, perché stavolta da las-sù gli è stata commissionata la sua ulti-ma partita, quella per ricongiungersi al-la destra del padre. Una partita che, segiocata con coraggio e consapevolezza,si trasforma magicamente in testimo-nianza, in esempio, in verità. L’altro ie-ri, a Coriano, in nome e per conto diMarco, è risorta una generazione di ra-gazzi e ragazze che in alcuni modelli di-sinvolti e puliti del talento italiano rico-nosce se stessa e la sua leadership.

Il piccolo principedi Pierluigi Diaco

EEDDIITTOORRIIAALLII

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG 3 IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

Roma. “Non sono costretto a dimetter-mi”: al finto Umberto Bossi che interveni-va su Radio 24, Lorenzo Bini Smaghi ha ri-sposto come avrebbe fatto al vero Senatùr.

Il parere dei servizi giuridici della Bce nonlascia adito a dubbi: “Il mandato scade il 31maggio 2013. Le dimissioni devono essere ilrisultato di un esercizio di libera volontà,non influenzato da qualsivoglia pressionepolitica”. La forma conta e formalmente laposizione di LBS è ineccepibile. Senza di-menticare il criterio dell’indipendenza,scritto nero su bianco nei trattati, al qualesi aggiungono “reputazione e credibilitàagli occhi dell’opinione pubblica e deimercati”, secondo i legali dell’Eurotower.Dunque, Bini Smaghi ha ragione in puntadi dottrina e di etica professionale. Anchese qualche dubbio sulle regole resta legit-timo, perché la Bce nasce con un peccatooriginale, consumato nella notte del 3 mag-gio 1998, con il patto della staffetta. Al ver-tice, la Francia voleva fin dall’inizio unproprio uomo. E’ l’eredità dell’accordo traFrançois Mitterrand e Helmut Kohl: la se-de in Germania, il comando a un francese.Wim Duisenberg aveva gestito bene la tran-sizione, era il candidato naturale, appog-

ble, nomina in un batter d’occhio il suo fi-dato consigliere Jörg Asmussen, nonostan-te abbia la fama di socialdemocratico. E il16 febbraio, quando Axel Weber, orripilatodalla deriva lassista che sta prendendo asuo parere la politica monetaria in Europa,se ne va sbattendo la porta della Bunde-sbank per non diventare complice (e met-tersi in pista per la plancia di comando inDeutsche Bank), Angela Merkel sceglie sen-za colpo ferire il suo ascoltato consigliereJens Weidmann.

Nicolas Sarkozy non può sopportare chenessun francese faccia parte del comitatoesecutivo. Non è solo orgoglio, ma difesa de-gli interessi nazionali: la Francia spera chel’accordo tra il premier Silvio Berlusconi eil presidente francese Nicolas Sarkozy sulcaso Bini Smaghi venga rispettato al piùpresto possibile, hanno detto ieri fonti di-plomatiche francesi. I capricci di Sarko e isospetti tedeschi aumentano la pressione.A questo punto, è in gioco l’equilibrio in-terno e la capacità operativa della banca,proprio nel momento in cui passa nelle ma-ni di Mario Draghi. E il rigoroso rispettodella forma, nella sostanza, rischia di di-ventare una ripicca.

Bini Smaghi sostiene che non avrebbepotuto accettare la posizione di direttore

generale della Banca d’Italia, una chiaradiminutio. Le dimissioni possono essere so-lo volontarie, argomenta LBS, se vengonochieste per onor di patria, ebbene quelsenso di responsabilità va tenuto in ade-guata considerazione. E tuttavia, il model-lo francese non è esattamente un compor-tamento ideale. Tanto meno attaccarsi allapoltrona per avere solo e soltanto quella digovernatore. I parlamentari lo fanno? Nelloro caso (ragioni di opportunità o di eticapersonale a parte) il mandato nasce da unvoto popolare. Per un public servant pro-viene da una nomina governativa (come haricordato senza mezzi termini Silvio Ber-lusconi a “Porta a Porta” e ribadito ieri suCanale 5, “Bini Smaghi lasci”, ha detto ilpremier), anche se irrevocabile fino al ter-mine del mandato.

Bini Smaghi, dunque, ha ragione a metà.La norma è dalla sua parte, la realtà giocacontro di lui. E poi c’è quella telefonata del18 giugno scorso con il presidente francesee l’incauta promessa. “Roma rispetti gli im-pegni”, dice Parigi. I patti vanno mantenutianche quando sono “scellerati”? Un dilem-ma morale irrisolvibile. Tanto più se si ac-cetta la realpolitik che guida le relazioni in-ternazionali e gli uffici pubblici, un mondoin cui i problemi vanno risolti, non creati.

giato dai tedeschi. Ma Jacques Chirac bat-te i pugni e l’olandese viene costretto a di-chiarare che a metà mandato, nel 2003,“per ragioni personali”, lascerà il testimo-ne a Jean-Claude Trichet, governatore del-la Banque de France.

Certo, una colpa per quanto grave nonbasta a marchiare per sempre l’istituzione.Eppure, proprio l’esperienza di questo de-cennio ci mostra quanto opaca sia la realtà.Nel 2000 la magistratura parigina apreun’inchiesta sul crac del Crédit Lyonnais, ilpiù grave scandalo bancario europeo, un in-treccio di politica e finanza. Dov’era Tri-chet? Nel gennaio 2003 viene rinviato a giu-dizio, proprio quando è matura la staffettacon Duisenberg. E con Christian Noyer, vi-cepresidente della Bce, destinato a pren-dere la poltrona di Trichet all’Hôtel de Tou-louse a Parigi. I due grand commis si eranogià scambiati il posto di direttore generaledel Tesoro nel 1993, entrambi uomini vici-ni al centro liberale di Valéry Giscard d’E-staing e protetti di Edouard Balladur. Tec-nici sì, però non apolitici.

Ma veniamo all’attualità. Il 9 settembrescorso, quando Jürgen Stark getta la spugnadi fronte all’acquisto di titoli di stato deipaesi in difficoltà (tra i quali i Btp italiani),il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäu-

per tornare a camminare. Il premio NobelPaul Krugman è stato ed è il più vocianteoppositore “interno” del piano di Obama:“E’ largamente diffusa l’opinione che con-siderazioni di carattere politico abbianoreso il piano debole e con più tagli fiscalidel necessario. Un compromesso che Oba-ma ha accettato nella speranza di ottenereun consenso bipartisan”. In altre parole: ilpresidente non si è fidato degli economisti

e ha approvato un piano senza arte né par-te soltanto per sfoggiare la grisaglia dell’u-nità nazionale.

La seconda ragione per cui Krugman habacchettato l’Amministrazione è il salva-taggio delle banche: l’economista di Prin-ceton si è fatto in quattro per spiegare cheil bailout, il consolidamento finanziario, laristrutturazione dell’edificio di Wall Streetè una cosa molto diversa da un piano di ri-sanamento dell’economia reale, nonostan-te Obama abbia presentato – per motivisquisitamente politici, sospetta Krugman –le due manovre come intimamente connes-se. E’ il concetto che “la coscienza dei li-beral” ha ribadito anche ieri sul New YorkTimes in versione islandese, smontando ilmito dell’austerità.

I tagli fiscali erano il fumo negli occhi

per l’ortodossia keynesiana, fermamenteconvinta che la spesa diretta generi lavoroe ricchezza, mentre il surplus nelle taschegenerato dai tagli alle tasse tenda, in tem-pi di emergenza, a finire più nei risparmiche negli investimenti. Il mastodontico ca-po del National Economic Council, LarrySummers, diceva alla fine del 2008 che “inquesta crisi fare troppo poco è molto più ri-schioso che fare troppo”; anche dopo il suo

ritorno a Harvard, in ogni intervista o in-tervento pubblico non ha mai mancato diricordare quanto piccolo, troppo piccolosia stato lo stimolo. “L’ironia della crisi fi-nanziaria consiste nel fatto che è stata cau-sata dall’eccesso di confidenza, dai troppiprestiti e dalla spesa eccessiva, e sarà ri-solta soltanto accrescendo la confidenza, iprestiti e la spesa”, ha scritto di recente.

Il chiaroscuro del dibattito fra analisti èlo specchio del clima che si è creato nellaformazione originaria della squadra eco-nomica della Casa Bianca, una line up chesi è sgretolata nel tempo. Chi ha concepitoil piano di risanamento non è più alla Ca-sa Bianca: non c’è Romer, non c’è Summers,non c’è Peter Orszag, non c’è nemmeno Au-stan Goolsbee. Tutti hanno lasciato per ra-gioni plausibili, ma, come scrive Ron Su-

(segue dalla prima pagina)Doveva essere l’occupazione, appunto, il

segno che l’elettrochoc dello stimolo fir-mato da Obama nel febbraio 2009 aveva ria-nimato il paziente e questo riprendeva acamminare da solo. La primavera e poi l’e-state hanno portato soltanto sintomi di re-cessione “double-dip” e altri malanni, leg-germente alleviati dai dati sulla crescitaeconomica del terzo trimestre dell’annopubblicati giovedì: da luglio a settembrel’economia è cresciuta del 2,5 per cento, da-to modesto in assoluto, ma si tratta pursempre di una velocità doppia rispetto aquella proiettata sulla base dei dati del tri-mestre precedente. La grande domanda po-litica ed economica a questo punto è: lo sti-molo ha funzionato? Oppure, con la formu-la inversa preferita dalla Casa Bianca: i 787miliardi di dollari recuperati fra spesapubblica e tagli fiscali hanno arginato unacrisi che sarebbe stata anche più deva-stante? In questo bivio si apre il conflittodelle interpretazioni economiche (le con-troprove di un’ipotetica ricetta differentenon ci sono) ma si dipana anche il giudiziosulla presidenza Obama: è sulle scelte dipolitica economica che il presidente pas-serà, nel bene o nel male, alla storia.

I conti del Congressional Budget Officedicono che in due anni e mezzo al solo sti-molo vanno attribuiti fra 0,6 e 2 milioni dinuovi posti di lavoro, una forchetta che laCasa Bianca conferma con una certa enfa-si, dicendo che nei fatti i posti di lavoro to-tali creati sono 3 milioni e mezzo. Vale a di-re poco meno dei 3,65 milioni previsti dalcapo designato del consiglio economicopresidenziale, Christina Romer, e da JaredBernstein, referente di Joe Biden per l’e-conomia, dieci giorni prima che il tickets’insediasse alla Casa Bianca. Nella curvadisegnata dall’ufficio del Congresso il 2011doveva però essere l’anno ruggente, quellodove lo stimolo avrebbe dovuto produrre loscatto decisivo per poi mettere i conti suuna china di lenta ma costante ripresa; nonè andata esattamente così e infatti il datoeffettivo sull’occupazione non collima conle visioni del Congresso, che a oggi preve-devano una diminuzione del tasso di di-soccupazione dell’1,3 per cento: nel feb-braio 2009 era di poco superiore all’8 percento, ora è oltre il 9.

In un paper entusiasticamente intitolato“La fine della grande recessione”, AlanBlinder, economista di Princeton e consi-gliere economico di Clinton, diceva che ladisoccupazione nel 2011 sarebbe stata at-torno al dieci per cento, ma senza lo sti-molo sarebbe stata oltre il 16. Il keynesianoBlinder nell’agosto del 2009 scriveva sulWashington Post che l’America ormai ve-deva la luce in fondo al tunnel: “Quella chesei mesi fa sembrava un’economia in cadu-ta verso l’abisso ora è un’economia che ten-de al miglioramento. E allo stimolo va at-tribuita almeno una parte del merito”. Dueanni più tardi Blinder si è unito al vasto co-ro di chi già dalla prima ora considerava laspesa una cosa buona e giusta, ma quellostimolo in particolare troppo piccolo perdare all’economia tramortita gli strumenti

I benefici dello stimolo fermi al bivio fra economia e banche

Le ragioni e i torti di Bini Smaghi e le attese di Cav. e Sarko

Paul Krugman è stato il più vociante oppositore “interno” del piano dellaCasa Bianca. La confusione fra il bailout delle banche e lo stimoloall’economia reale ha gettato un’ombra sull’intera operazione, ma l’austeritànon era la via. I paper che dimostrano che cosa ha funzionato

skind in “Confidence men”, il libro più di-scusso dell’anno a Washington, il “presi-dente ha sviluppato una sua teoria econo-mica”. E mano a mano che questa teoria siscontrava con i numeri dei suoi adviser,questi hanno iniziato ad abbandonare lanave.

Nella disputa fra i modelli macroecono-mici non è semplice quantificare quantiposti di lavoro e quale fetta dei consumi siada attribuire al piano di risanamento, manon si può negare che lo stimolo qualcosaabbia prodotto. Semmai i problemi deriva-no dal modo in cui lo stimolo è stato speso.Se si esce dall’impalpabile terreno dellamodellizzazione e si esplora sul campo ilprodotto della stimolazione emerge tutta laconfusione dell’iniziativa obamiana. Le piùaccurate ricognizioni empiriche sono statefatte dagli analisti del think tank Mercatus(nomen omen) Garett Jones e Daniel Roth-schild, che hanno messo in luce le miopie ele inefficienze di un programma di risana-mento che dipinto sulla carta appare sal-vifico e applicato hic et nunc mostra brut-ture ben circostanziate. Nei report dei dueeconomisti ci sono progetti aziendali gon-fiati a dismisura per ricevere sovvenzionipiù alte, inefficienti divisioni del lavoroper poter dichiarare un maggior numero didipendenti, soldi che possono essere spesisoltanto per materiali superflui e altri sot-terfugi che ricordano la famosa battutapronunciata da Milton Friedman davanti aun cantiere: “Se sono i posti di lavoro quel-lo che volete, dovete dare a questi operaidei cucchiai, non dei badili”. Attraverso1.300 interviste a imprenditori che hannogoduto dello stimolo, Jones e Rothschildhanno dedotto che soltanto il 42 per centodei beneficiari di soldi pubblici hanno ef-fettivamente assunto disoccupati. La mag-gior parte delle aziende ha semplicemen-te attinto dai competitor.

A questo va aggiunta l’assenza di un pia-no strategico che facesse presa sul tessutoeconomico reale. Il caso Solyndra, aziendadi pannelli solari finanziata dallo stato epoi fallita miseramente, è solo uno dei tan-ti esempi di business del settore energeti-co che hanno incamerato denaro pubblicoa suon di miliardi restituendo soltanto po-che migliaia di posti di lavoro. Il settore au-tomobilistico è andato decisamente meglio,perché ha saputo trasformare il rapportofra soldi pubblici e iniziativa privata in unavirtù. L’Amministrazione è stata debole an-che sugli strumenti che ha creato per ren-dere più fluido il mercato del lavoro: comeha notato il Wall Street Journal, il portalejobs.gov, creato per far girare meglio e piùvelocemente le offerte è soltanto l’anacro-nistica e collosa copia di quello che il pri-vato monster.com fa da dodici anni. Il di-battito sugli approcci economici e sullasensatezza teorica dello stimolo è ben lon-tano dall’essere concluso; ma le discre-panze dei dati dell’economia reale sugge-riscono una verità semplice spiegata daglianalisti di Mercatus: “C’è un gap enormefra la teoria e la pratica”. E per Obama lecose non sono andate lisce su nessuno deidue fronti.

PER I LIBERAL IL PIANO DI OBAMA ERA DEBOLE, PER I CONSERVATORI HA FALLITO. LA FILOSOFIA ALLA PROVA DEI NUMERI

La faccia triste della primavera araba

Nec sine te, nec tecum vivere possum.Il ministro dell’Economia che pren-

de le distanze dalla politica economicadel governo di cui fa parte, ma non pren-de nemmeno in considerazione l’ipotesidelle dimissioni; e il presidente del Con-siglio che isola il suo ministro dell’Eco-nomia, lo costringe in una imbracatura lecui corde si chiamano Renato Brunetta ePaolo Romani, eppure non intende (o nonpuò) licenziarlo. Giulio Tremonti e SilvioBerlusconi sono seduti sulla stessa mon-tagna di guai e di responsabilità, dunquenon si sopportano ma non si lasciano, nonpossono separarsi ma nemmeno riesconoa convivere pacificamente. Il paradosso è,a suo modo, una categoria della politica,ma anche i paradossi politici, pretendono,prima o poi, un risarcimento logico.

Se il neurologo Oliver Sacks avesse co-nosciuto il ministro dell’Economia chenon vota la legge di bilancio che pureporta la sua firma – com’è capitato a Tre-monti non troppi giorni fa – forse neavrebbe fatto uno dei suoi celebri casiclinici: dall’uomo che scambiò se stessoper un cappello, al ministro che scambiòse stesso per il suo nemico. Un dettaglioautodistruttivo, materia da analisi freu-diana: l’atto mancato, il lapsus d’azione.Berlusconi, che sarà pure un’anomalia,ma da funzionalista qual è rispetta som-mamente i principi elementari della lo-gica, mantiene Tremonti nella sua posi-

zione perché sa di dover rispettare gliequilibri di potere che la politica gli im-pone nel rapporto con il suo fedele e in-dispensabile alleato leghista, UmbertoBossi. Ma a quale categoria codificatadalla psicanalisi appartiene il ministroche – invece di piegarsi o dimettersi – fatelefonare nelle redazioni dei giornali af-finché si sappia quanto poco egli condi-vida le scelte di indirizzo economico cheentro pochi giorni i suoi stessi uffici tec-nici saranno chiamati a trasformare inprovvedimenti di legge?

L’accordo di Bruxelles è stato firmatosenza di lui (e suo malgrado), si sa. Eppu-re il ministro – che governa Bilancio, Te-soro e Finanze – resta il personaggio de-cisivo per attuare gli impegni presi daBerlusconi con l’Europa. Senza di lui nonsi fa niente. E il suo atteggiamento, i suoidinieghi, si prestano a ogni interpretazio-ne. Se non è materia per Oliver Sacks, al-lora viene il dubbio che possa essere ve-ro quanto gli attribuiscono i malevoli. Tre-monti coltiva un progetto malsano: rima-nere da solo, oggi, in piedi tra le macerieper sedere lui, un domani, sul trono di Pa-lazzo Chigi. Chissà. Il mistero rimane, co-me pure il paradosso. Ma con una diffe-renza: se il mistero potrebbe anche resta-re per sempre insoluto, il paradosso, inquanto tale, non può durare per sempre.Nec sine te, nec tecum vivere possum, inpolitica, non funziona.

Licenziamenti facili” è l’espressionesintetica e allo stesso tempo terroriz-

zante utilizzata per aizzare l’opinionepubblica contro un’annunciata riformadel mercato del lavoro. L’espressione,smaccatamente falsa e grettamente con-servatrice, fa parte del solito armamen-tario retorico catastrofista: quello per cuile Borse non “scen-dono” ma “crolla-no” sempre, per cuiuna razionalizzazio-ne della spesa pub-blica da record di-venta più cupamen-te “austerity”, e lenorme per rafforza-re la contrattazioneaziendale si trasfor-mano in regole per“trasferire i dipen-denti scomodi” (co-me da titolo della Stampa dopo l’appro-vazione dell’articolo 8 della manovra), etutto insomma concorre a fare “macelle-ria sociale”. Ma che sia falsa la storia del“licenziamento facile”, brandita ieri inpiazza dalla Cgil, è evidente: nella lette-ra di impegni inviata dal governo ai lea-

der dell’Ue si annuncia “una nuova re-golazione dei licenziamenti per motivieconomici nei contratti di lavoro a tem-po indeterminato” per le aziende in cri-si. Non è una proposta da marziani, in unpaese che secondo l’Ocse ha un tasso di“protezione” dei lavoratori più alto del-la media, e addirittura inusitato per le

grandi imprese(quelle in cui valel’articolo 18). La po-lemica anti riformaè poi conservatricedi uno status quoche tutti, da Banki-talia agli economistipiù liberal, nonmancano di definiredisastroso. Senzaflessibilità in uscita,infatti, le impresehanno ovviato

alle rigidità aumentando il turnover dilavoratori a tempo determinato. Risulta-to: il divario tra ipergarantiti (perlopiùanziani) e iperflessibili (giovani) è enor-me. Garantire più mobilità sociale è og-gi l’unico modo per fare fiducia alle for-ze vitali del paese e creare ricchezza.

Sidi Bouzid, la città in cui ha avuto ini-zio la rivoluzione tunisina, è sotto as-

sedio: in fiamme il municipio, la sede delgovernatore, assaltate la caserma dellapolizia e la sede di Ennahda, coprifuoco.E’ la prima “rivolta contro la rivolta ara-ba”. La scintilla della protesta è stata ladecisione dell’ufficio elettorale di can-cellare sei seggi al partito Petizione po-polare per la libertà (Ppl), il terzo nelleurne dopo Ennahda, “per irregolaritànei finanziamenti dall’estero”. Il leaderdel Ppl, il tycoon televisivo HachmiHamdi, ha ritirato i suoi 19 deputati re-stanti dalla Costituente (alcuni hanno di-sobbedito) e ha chiamato a manifesta-zioni contro Ennahda. A eccitare i mani-festanti è l’originale creatura di HachmiHamdi, che non s’è mai mosso da Londrama ha costruito il successo della sua lista

incrociando trasmissioni infuocate dellasua Tv Libre con l’alleanza con i signo-rotti locali del partito di Ben Ali. A SidiBouzid ha raccolto 48 mila voti, contro i16 mila di Ennahda, sommando il popu-lismo alla rete clanica degli ex gerarchilocali, sotto la copertura dell’ideologialaica della tradizione. Questo nella Tu-nisia più profonda, a parziale smentitadel ruolo portante di Internet e a confer-ma, invece, della centralità politica del-le emittenti private. Potrebbe succedereanche in Egitto: l’esplosione del consen-so nei confronti dei partiti dell’islam po-litico non risolve, ma anzi rende dram-matico, il problema della riconversionepolitica dei referenti locali dei regimi,che hanno gestito il territorio per mezzosecolo. Un’operazione che vede i partitilaici del tutto sprovveduti.

Le balle facili

Il Cav. e il paradosso Tremonti

La sfida per la mobilità sociale e la solita retorica catastrofista

Dopo il viaggio al termine della nottedi Bruxelles, Nicolas Sarkozy che ta-

ceva da otto mesi ha parlato: giovedì,un’intervista di un’ora e un quarto su Tf1e France 2, un’operazione verità vista da11 milioni di francesi. E’ in ottima forma,ha ritrovato la comunicativa di un tempo,a tratti ancora convince. Ma non l’ha det-ta tutta. E’ difficile confessare al popoloche per un secolo ha avuto con la Germa-nia relazioni tumultuose che è finita quel-la pari dignità che poteva esserci fra DeGaulle e Adenauer, fra Giscard e Schmidt,fra Mitterrand e Kohl e che il motore fran-co-tedesco, oggi, ha cilindri e potenza mol-to più oltre il Reno che al di qua. In Eu-ropa si è imposta la linea della Kanzlerinconfortata dalla schiacciante maggioran-za incassata al Bundestag: Sarkozy non hapotuto che prendere atto che il giganteeconomico è anche gigante politico. Havoluto lo stesso presentarsi come salvato-re dell’euro e dell’Europa: per essere cre-dibile ha dovuto evocare la Merkel e “les

amis allemands”, dire che insieme i dueleader condurranno processi di armoniz-zazione e convergenza fiscale, costruiran-no una vasta area economica in grado dicompetere in tutto il mondo. Persa la bat-taglia perché la Bce fosse prestatrice diultima istanza e leva per la crescita,Sarkozy si è inchinato all’egemonia ancheculturale della Germania. Di suo Sarkozyha aggiunto un soprassalto di spirito eu-ropeista, l’Unione è una famiglia, la ca-duta di Atene avrebbe spinto la specula-zione ad attaccare l’Italia nella convin-zione che neanche lei sarebbe stata dife-sa con conseguenze esplosive. Per il restoSarko non sarebbe stato nemmeno tantomale. Ha detto che per difendere il mo-dello sociale europeo serve ritrovare lacrescita, combattere l’assistenzialismo, in-vestire in innovazione e ricerca. E chemai bisogna cedere alle pressioni dellastrada. Del suo personale destino, non haparlato. Ma in realtà ha detto tutto: scal-pita per essere rieletto. E si vede.

L’inchino di SarkoLe mezze verità del presidente sullo strano abbraccio all’amica tedesca

Né con lui né senza di lui. E’ poesia, ma in politica conta la logica

La rivolta nel sud della Tunisia è un segnale grave per la transizione

Letterato cresciuto alla scuola di Un-garetti e di Giuseppe De Robertis,

Leone Piccioni raccoglie in questa anto-logia curata da Alfiero Petreni alcuni sag-gi su autori che negli anni hanno acquisi-to lo statuto di classici o che lottano tra lelusinghe del mercato editoriale. Ci sono igrandi come Carlo Emilio Gadda, che il 10maggio 1950 si confessa “gratissimo delgentile e profondo interessamento accor-dato ai suoi libri”, e di un “giudizio chesembra peccare di scarsa severità”. Pic-cioni ne aveva fatto un ritratto esempla-re: “Chi abbia con lui familiarità lo de-scrive timidissimo e riguardoso fino alloscrupolo, cerimonioso e schivo; chi leggecerte sue pagine avverte il tumultuoso di-sordine di una macchina ad altissimo po-tenziale, o l’ira distruttrice ma persuasi-va di un vulcano in eruzione”. C’è Tom-maso Landolfi, altro grande scrittore om-broso e sprezzante, uno che diceva “maiavuto la forza di tollerare gli altrui sbalzidi umore”, un genio surreale che nel 1962escogitò per le copertine dei suoi libri il“risvolto bianco per desiderio dell’Auto-re”. Riscattato dal giudizio di Sapegno ePancrazi, che ne avevano bollato “il gio-co dell’intelligenza arida”, Landolfi vieneesaltato da Piccioni per la chiave ironica

e allucinata che fa da contrappunto allacrudeltà dei suoi racconti. E poi c’è EnnioFlaiano, altro sarcasmo contro la dispe-razione, Mario Luzi, l’ermetico di verachiarezza, Eugenio Montale, che si com-muove alle poesie della figlia del coman-dante del suo battaglione, morto sul fron-te, e accetta nel 1972 di andare in tv, pur-ché i suoi versi di “Satura” fossero letti daPiccioni. C’è Emilio Cecchi, “scrittore ar-dito e nuovo” oggi completamente dimen-ticato, e Anna Maria Ortese, che si crede-va dimenticata e invece si scopre “ric-chissima”. Piccoli saggi critici sono dedi-cati a Piero Chiara o a Marta Morazzoni,senza dimenticare Domenico Rea, La Ca-pria, Tobino, Comisso, Delfini e Quaran-

totti Gambini, tutti autori di prima gran-dezza ma di varia tenuta e diversa soli-dità. Piccioni non eccede mai nel giudizio.Conserva sempre una sua pacata bonomiada divulgatore di qualità, da sacerdotedella cultura di massa. Una vera chiccasono poi le “Memoriette” di Piccioni, mi-ni antologia di racconti e apologhi in qua-rantadue pagine, stampata dall’editorefiorentino Pananti in trecento esemplari.Cercate di procurarvele se avete voglia digustare alcune battute memorabili. Tro-verete Montale, che di Ungaretti diceva“non lo leggo sennò mi sciupo”; o Vincen-zo Cardarelli che non voleva essere chia-mato “maestro” e che un giorno, giocan-do a carte con Vincenzo Talarico, decretò:“Lei, Talarico, coltiva per lo scopone unamore non corrisposto”; riaffiora CarloCarrà che, trasandato com’era, a Cortinafu preso per un barbone e si trovò in ma-no un obolo. Alberto Burri, malato di en-fisema in una villa sul mare in Costa Az-zurra, confessa di aver provato a dipinge-re il paesaggio, “ma il quadro mi è venu-to tutto nero”. Mentre un galante Giusep-pe Ungaretti, alla studentessa che glichiedeva l’età durante una festa ad Har-vard, replica: “Dipende dall’intenzionecon la quale me lo chiede”.

LLIIBBRRIILeone Piccioni

VECCHIE CARTE E NUOVE SCHEDE (1950-2010)

Nicomp, 224 pp., 16 euro

(segue dalla prima pagina)Un tale cambiamento passa attraverso

un nuovo patto sociale visto che quellosottoscritto dai baby boomer non reggepiù: il posto fisso con salario sempre cre-scente, appartiene al passato, come lepensioni e gli ammortizzatori sociali pa-gati da operai e impiegati che un tempoerano la maggioranza della società. Undiscorso analogo si dovrebbe fare per letasse, perché le tre riforme, del lavoro,delle pensioni e del fisco, sono intima-mente collegate.

In questa grande transizione, occorrepensare fuori dagli schemi e lacerare ilvelo del déjà vu. Ieri sul Corriere dellaSera, anche sulla scorta di provocazioniintellettuali come quella di Adam Posen– eccentrico banchiere americano chesiede nel board della Banca centrale in-glese –, Lucrezia Reichlin, già capo eco-nomista della Bce, ricordava che “laBanca centrale europea mantiene unruolo relativamente marginale e quindi(…), rimane assente quello che esiste inaltri sistemi finanziari, cioè un garantedi tutto il debito dell’area monetaria”.Invece Paul Krugman, premio Nobel perl’Economia, nella sua colonna sul NewYork Times, ieri esaltava il coraggio de-gli islandesi che hanno lasciato fallire la

loro banca e non per questo sono finiti inrovina, al contrario. Naturalmente si puòsorridere dell’esempio lillipuziano. Enon esistono ricette valide per tutti. An-che se la crisi bancaria dei primi anni 90in Scandinavia (caso studiato in tutte lescuole), dimostra che la discontinuità, acosto di subire pesanti perdite momen-tanee, è preferibile allo sterile continui-smo: meglio far pulizia che gettare lapolvere sotto il tappeto. La Svezia ha ti-rato la cinghia, ha nazionalizzato le ban-che e, una volta purgate, le ha rivendu-te, ha tagliato a metà la copertura dellepensioni e dello stato sociale, poi è tor-nata a crescere, realizzando la piena oc-cupazione e aumentando la ricchezzapersonale e nazionale. Gli scandinavinon si sono fatti assordare dalle trombedel giudizio. E non si fanno incantaredalle sirene della crescita zero, neppu-re gli americani, quanto meno quelli cheriescono a sfuggire al circo mediatico.Nonostante tutte le previsioni di Cas-sandra Roubini, gli Stati Uniti non sonoricaduti in recessione, anzi stanno ri-partendo di nuovo. Vedremo se dura e sebasta, ma questa è una valutazione ra-zionale, non il delirio autodistruttivo cheannebbia le menti e inaridisce gli spiri-ti. (s.ci.)

Contro il paradigma declinista

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La sfida sul lavoro“La consapevolezza (…) della necessità

di dare risposte convincenti e tempestive inprimo luogo a chi, come i lavoratori menogarantiti e le generazioni più giovani, vedemesse in discussione le prospettive del pro-prio futuro, rappresenta oggi una sfida pertutti ineludibile”.

Giorgio NapolitanoDal messaggio letto ieri in apertura del

VI Congresso nazionale del PdCI

DI STEFANO CINGOLANI

Al direttore - Per Bini Smaghi sarebbepronta una soluzione ponte. A Messina.

Maurizio Crippa

Al direttore - Il Cavaliere se la è cavataun’altra volta. La lettera di intenti approva-ta dalla Unione europea può essere, nello stes-so tempo, un programma di fine legislaturaoppure un manifesto elettorale, robusto echiaro, se si andrà a votare in primavera. Esoprattutto servirà a dimostrare che unaeventuale maggioranza di centrosinistra(sempre più ostile alle indicazioni di Bruxel-les) porterebbe il paese in rotta di collisionecon la strategia europea. E quindi diretta-mente al default.

Giuliano Cazzola

Sì. Ha fortuna e si è anche messo ad aiu-tarla. Era ora.

Al direttore - Le mando quanto scrisse nel1982 Joseph Ratzinger nel suo saggio “Elemen-ti di teologia fondamentale” (Morcelliana, ri-stampa 2005, pagina 79). “La Chiesa patisce

oggi per il contrasto dei partiti, delle idee chein essa si agitano, e per i cristiani sarà semprepiù difficile orientarsi, distinguere i veri dai fal-si profeti. Il nostro problema è intimamente le-gato al discernimento degli spiriti. Uno dei me-todi fondamentali per riuscire a distinguere po-trebbe essere così espresso: là dove non c’è lagioia e si spegne l’humour, certo non v’è lo Spi-rito di Gesù Cristo. E, viceversa: la gioia è unsegno della grazia. Chi è sereno dal fondo delsuo cuore, chi ha sofferto e non ha perso lagioia, non può essere distante dal Dio dell’evan-gelium, la cui prima parola, alla soglia dellaNuova Alleanza, suona così: rallegrati”.

Ugo Sergio Ravalico

Formidabile maestro di buonumore.

Al direttore - “Berlusconi si deve dimettereimmediatamente”. Il Times di Londra non usamezzi termini nel suo editoriale di prima pa-gina e spara ad alzo zero contro il presidentedel Consiglio italiano. “L’Europa è nauseatada questo clownesco primo ministro la cuinoncuranza, irresponsabilità e codardia politi-

ca ha tanto esacerbato la crisi attuale”. Fareb-be bene ad andare a farsi una risata anche aPorta Pia (ambasciata UK), prima che le loroghignate, unite a quelle francesi e tedesche, cisommergano definitivamente.

David Tornabene

Il Times è di Murdoch, che ha i suoi pro-blemi. Perdoniamoli. Ho parlato l’altra se-ra al telegiornale di Jon Snow a Channel 4.Dopo una passatina di un secondo sulle di-missioni che non arrivano, abbiamo discus-so di questioni serie. Non si preoccupi.

Al direttore - Se Lei va in onda su RaiDue alposto di Santoro pago il canone e lascio la

mancia. In bocca al lupo!Stefano Cicetti

Al direttore - Mi trovo spesso in auto adascoltare “Prima Pagina” per avere una pano-ramica delle notizie dai quotidiani di ogni ten-denza politica. In realtà i conduttori della tra-smissione sono per la maggior parte di sinistracon una visione di parte veramente insoppor-tabile dai microfoni di una emittente pubblica.Alla consueta parzialità ieri mattina la gior-nalista della Stampa Antonella Rampino haaggiunto un pizzico di censura nei confrontisuoi e del suo giornale. Un ascoltatore chiedecosa significhi la foto pubblicata sul Foglio, ela giornalista risponde pressappoco così: nor-malmente non leggo gli articoli di GiulianoFerrara perché sono dei sogni accattivanti ver-so il suo editore Berlusconi, leggerli significhe-rebbe perdere tempo.

Domenico Ciappelloni

La signora è delusa per la scarsa atten-zione nei suoi confronti. Perdonia-mola. La noia genera scortesia.

La signora è delusa per la scarsa attenzione verso di lei

Weekend a Lodi. Festa col tout-Milandella tv per il vernissage di Giorgio Re-stelli. Belle foto americane alle pa-reti. Bellissime fanciulle in sala.

Alta Società

Caro Francesco Cundari, ma perché? In-sieme con il nuovo direttore dell’Unità,

Claudio Sardo, avete impresso al quotidia-no fondato da Antonio Gramsci una svoltache gli ha restituito autorevolezza e perso-nalità. Ma non tutte le svolte portano nelladirezione giusta e c’è qualcosa, nella nuovaversione, che suscita domande. Ne é unadimostrazione molto esplicita l’editorialecon cui, ieri, attaccavi (attaccavate) dura-mente la lettera del Cav. all’Europa, la qua-le a vostro avviso – ben lungi dall’essereuna dichiarazione d’intenti – è l’equivalen-te di una chiamata alle armi elettorale, unostrumento di riposizionamento del Pdl nelsolco di una “destra radical-liberista all’a-mericana”. Ora, se l’invettiva è diretta alcentrodestra, essa colpisce obliquamentelo stesso centrosinistra e tradisce la tenta-zione di resuscitare una sorta di “old La-bour”. Perché nella lettera c’è ammiccan-te sintonia con una serie di proposte che lostesso Pd ha fatto proprie e che, alla nasci-ta del partito, ne hanno addirittura defini-

to l’identità, attraverso parole d’ordinequali “merito”, “competizione”, ed “Euro-pa”. Ed è proprio l’Europa il perno della ri-flessione che Cundari impone al Pd: quel-l’Europa rispetto alla quale i democraticisi sono sempre fatti un vanto di essere in-terlocutori credibili (più credibili, dicono,del Cav.), interpreti sinceri (più del Cav.), ein fondo padri legittimi (ché in Europa cisiamo arrivati con Prodi, Ciampi e compa-gnia, mica con il Cav., è il ragionamento).Dunque, il “contrordine compagni” del no-stro caro Cundari è questo: non più l’Euro-pa come orizzonte politico, ma l’Europa co-me grimaldello della Bce e delle destre(copyright Stefano Fassina, responsabileEconomia del Pd).

Forse una piccola rinfrescata alla me-moria può essere utile. Parliamo di merca-to del lavoro: è “estremismo neoliberista”la proposta del parlamentare pd PietroIchino, che nella sostanza supera l’attualedualismo proprio con la flessibilità in usci-ta? O la proposta del radicale Marco Bel-

trandi, anch’egli eletto nelle file del Pd, dialzare da 15 a 30 dipendenti la soglia del-le imprese investite dall’articolo 18, sca-gionando dunque molte pmi italiane? Edè liberismo l’emendamento Morando sul-la spending review per censire e tagliarela spesa pubblica, fatto proprio – orrore –dallo stesso centrodestra? E’ “teaparti-smo” alzare l’età pensionabile, liberalizza-re i servizi pubblici come voleva fare il go-verno Prodi col ddl Lanzillotta, riconosce-re la natura industriale del servizio idricoe cercare l’apporto dei privati come con-sentirebbe la proposta depositata dal Pd,primi firmatari Bersani e Franceschini, anovembre 2010? E’ peccato liberalizzaregli orari dei negozi, incluse domeniche efestivi, o “consentire l’avvio immediato distabilimenti produttivi con autocertifica-zione e controlli ex-post”, come sta scrittonelle “idee e proposte per la crescita” delfebbraio 2011? Perché se tutto questo del-le due l’una: o il liberismo è giavazziana-mente di sinistra, oppure il Pd pullula

d’infiltrati. In entrambi i casi, il dibattitomeriterebbe l’attenzione – che non trova,per esempio, sull’Unità. Sul vostro quoti-diano, per dire, non vi è stata traccia nédei “giovani curdi”, i trentenni giavazzia-ni del Pd, né del manifesto di idee riforma-trici di Nicola Zingaretti (pubblicato duegiorni dal Foglio). Insomma: non sembraesserci interesse, anzi sembra esserci fa-stidio, per quel pezzo di Pd che si definisceriformista. Se davvero l’obiettivo cultura-le della vostra Unità è quello di un Pd “oldlabour”, allora la cosa meriterebbe di es-sere resa esplicita. Ricondurre il Pd sui bi-nari dei Ds – una prospettiva implicita-mente accarezzata da Bersani nell’intervi-sta di ieri sul Messaggero, quando solleci-ta un confronto coi moderati riconoscendo-li, così, lontani dal suo partito – è una pro-spettiva politica legittima. Ma, ci permet-tiamo di dire, è anche una prospettiva ri-schiosa per il Pd e per tutto il paese.

Roma. E due. Dopo l’ambizione espres-sa di recente da Alberto Bombassei a suc-cedere a Emma Marcegaglia alla presiden-za di Confindustria, ieri è stato GiorgioSquinzi a svelare, in un’intervista al Sole 24Ore diretto da Roberto Napoletano, la di-sponibilità a guidare la confederazione diviale dell’Astronomia. In verità sono in bal-lo pure Andrea Riello e Riccardo Illy, can-didati rispettivamente dalla federazionedel Veneto e del Friuli, anche se non sonoal momento tra i favoriti.

A sostenere Squinzi c’è in particolareMarcegaglia, che anche negli scorsi giorniha organizzato incontri informali per soste-nere il patron della Mapei ed ex presiden-te di Federchimica, mentre la strutturaconfindustriale s’è dichiarata neutra ri-spetto ai contendenti in alcuni incontri in-terni. Bombassei invece può contare al mo-mento sull’appoggio dell’associazione diTorino presieduta da Gianfranco Carbona-to (vicino al Lingotto) e di quella del Pie-monte capitanata da Mariella Enoc, oltreche sulle federazioni di Bergamo, Varese,Verona e Cremona. Il patron di Brembo hapure il sostegno di Luca Cordero di Monte-zemolo e Franco Bernabè (presidente diTelecom). L’incognita maggiore è l’influen-te Assolombarda, presieduta da AlbertoMeomartini, che non è schierata ma pro-penderebbe per la soluzione Squinzi. Nul-la è deciso comunque a Milano, così comenella capitale: il presidente degli impren-ditori di Roma e del Lazio, Aurelio Regina,e Luigi Abete non hanno ancora esternato.C’è però chi dice che Regina conti di ave-re una vicepresidenza nel caso di vittoriadi Squinzi, mentre Abete non disdegnereb-be la soluzione Bombassei. Le scelte, però,devono ancora essere compiute.

La partita avrà anche un carattere poli-tico, o meglio sindacale. L’ex presidente diFederchimica, Squinzi, pur essendo accre-ditato di vicinanze con il centrodestra, hasempre cercato la collaborazione dellaCgil: la firma di contratti unitari nel setto-re chimico sono la testimonianza di questapolitica, scarsamente apprezzata dal mini-stro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Il mini-stro, invece, su questi aspetti trova maggio-re sintonia con Bombassei, che una voltaalla presidenza di Confindustria potrà la-vorare a un eventuale rientro del gruppoFiat nel sistema confindustriale.

In ampi settori della base associativa, ol-tre ad assistere a un’altra uscita di pesodalla confederazione come quella di Enri-co Bracalente di Nero Giardini, si nota“spaesamento e frammentazione”, dice uncomponente del nord-est al vertice di Via-le dell’Astronomia: “Si mutuano pratichetipiche della politica di palazzo come quel-la di dichiarare più ai giornali che alla ba-se”. Il riferimento è sia a Squinzi che aBombassei.

Michele Arnese

Valzer industriale/2

Milano. Liberista, liberale, marchionnia-no. Si presenta così Dino Fenzi, milanese,classe 1941, presidente (l’amministratoredelegato è il figlio) di un’azienda leadermondiale nei sigillanti per la lavorazionedel vetro. Ma anche presidente di Federva-rie, l’associazione che raggruppa categorieindustriali di vario genere sotto il cappel-lo di Confindustria nonché presidente diVitrum, la fiera di un settore dove il madein Italy, crisi o non crisi, tiene botta.

Liberale, liberista, e con il gusto di vota-re contro. Fu l’unico, a metà anni Novanta,a votare contro l’euro in Confindustria: “Ei fatti mi danno ragione. Come potevamopensare di competere alla pari con i tede-schi senza garantire la libertà d’impresa?”.Fenzi fu anche l’unico a votare contro l’e-lezione dell’attuale presidente, Emma Mar-cegaglia, ora in scadenza del mandato: “Mi-ca ce l’avevo con lei. Gran brava ragazza,ma senza sprint”.

Beh, ora qualcosa ha combinato. O no?“Per me non si è mica resa conto del pastic-cio che ha combinato sull’articolo 8 dellamanovra che ha allargato il campo dei con-tratti aziendali. Lei aveva una sola preoc-cupazione: riportare al tavolo la Cgil di Su-sanna Camusso. E così ha accettato l’accor-do così come gliel’hanno scritto loro. Mar-chionne ha ragione. Bisognava rompere iltabù dei contratti nazionali. Ma ci volevacoraggio”. Ma è così che la pensano gli in-dustriali? “Bisogna distinguere: ormai Con-findustria è sempre più una sorta di Con-fimpresa, dopo che ha accolto, anche permotivi di budget, le società di servizi, pub-bliche e private. Ma la base resta manifat-turiera. E quella base è molto vicina a Mar-chionne”, il capo azienda di Fiat che ha la-sciato la confederazione degli industriali,abbandonata giovedì anche da Enrico Bra-calente di Nero Giardini.

Il futuro di Confindustria? “Io penso chenon si può fare assieme lobby e dirigerel’oggetto delle pressioni della lobby. Il no-stro lavoro dev’essere un altro”. Quale?“Far capire alla gente che un paese come ilnostro ha un futuro solo se mantiene viva lasua capacità di far manifattura e di compe-tere”. Parla così Dino Fenzi della Fenzispa: un migliaio di dipendenti, nove stabi-limenti in sette paesi (tra cui Cina e Cana-da oltre a mezza Europa), 250 milioni di fat-turato quasi tutti, l’86 per cento, fuori Italia.Ma almeno una volta avrà chiuso in rosso?“Mai. Mi viene male solo a pensarlo”. An-che nel 2009, l’anno nero di LehmanBrothers, una crisi superata facendo nuoviinvestimenti, in Russia e in Cina. A debi-to? “Mai preso una lira dalla banca”.

Ugo Bertone

Cara Unità, ma perché dai spazio solo a una versione del Pd?

(segue dalla prima pagina)Insopportabile? Benissimo, allora ecco

Franca Valeri, in “Toh, quante donne!”(Lindau), soave e perfido antidoto al piagni-steo femmi-conformista: “Io farei meglio atapparmi la bocca quando vado in giro. Ie-ri in un luogo di riunione ho detto una co-sa esageratissima. Si parlava delle cose chefanno più tristezza e chi diceva i funeraliche partono dagli ospedali, chi l’ediliziaperiferica, specie com’è adesso, chi le regiedei classici e io ho detto ‘una comunità fem-minile’. Allora una signora si è proprio in-fastidita e ha strillato che farei meglio anon fare la spiritosa. Ha detto anche chetante mie colleghe, attrici intendeva, han-no cominciato a prendere coscienza e ha ci-tato la ragazza Fonda, Jane. Sono i casi incui viene spontaneo dire ‘bella forza conquel fisico, quel padre, quel fratello e tut-to sommato anche quell’ex marito… ’. Er-rore: la donna è sola, le parentele non con-tano e il fisico è abolito, del resto Jane for-tunatamente si è imbruttita (effettivamenteadesso è meglio il padre bell’e vecchio, an-che se dal mio punto di vista viziato è sem-pre stato meglio…”.

Ci sarebbero poi Giuseppe Prezzolini,Ennio Flaiano, Mino Maccari. Cattivissimia prescindere, fin troppo tirati per la giac-ca da ogni parte, pozzi di san Patrizio di undisincanto a rischio di macchiettismo. “Eallora rischiano di non funzionare più, per-ché cose che nascono come deflagranti –nota ancora Manica – si trasformano in fi-gurine innocue, come le puttane tettone diFellini”. Eppure non resistiamo e segnalia-mo, sollecitati da recenti fatti di cronaca,una delle “Modeste proposte scritte persvago di mente, sfogo di sentimenti e ten-tativo di istruzione pubblica degli italiani”di Prezzolini (Sellerio). In particolare, la“Sesta modesta proposta per un premio achi distrugge di più durante le pubblichedimostrazioni”: “L’altro giorno una dimo-strazione antifascista nella capitale hamesso in frantumi le vetrate della libreriae bruciato un’automobile in Piazza Colon-na. Il ripetersi di queste insufficienti azio-ni di politica democratica mi ha suggeritoche siano dati dei premi agli autori, pur-troppo incogniti, di queste manifestazionidi libertà e di cultura politica. E’ infatti in-credibile che dopo vari anni di avvertimen-ti di questo genere, dati dal popolo fremen-te di giustizia sociale ai vili possessori diautomobili e agli impertinenti proprietaridi negozi, che ancora non hanno chiesto diessere nazionalizzati e trasformati moder-namente in impiegati dello Stato, vi sianoancora delle persone che osano lasciaresulle piazze il segno oppressivo della lororicchezza in forma di automobile, e abbia-no l’impudenza di pubblicare e di venderedei libri per diletto e istruzione delle clas-si privilegiate invece che dei libri per l’i-struzione delle masse”. Speriamo che nes-suno lo prenda sul serio.

Va invece presa sul serio la mite invetti-va di Raffaele La Capria contro “il concet-tismo di sinistra e di destra, quello estremi-sta e quello terzomondista. Il concettuale-se sessantottesco, femminista gay o ecologi-co. Il concettume letterario, sociologico epsicologante. La concettistica tardopopuli-sta, e vetero-protestataria. La concettositàneoanticapitalista e quella post-antimoder-nista, e così via…” (“La mosca nella botti-glia”, Rizzoli).

Ma forse lo scrittore italiano più ontolo-gicamente “scorretto” è Goffredo Parise.La Capria, che per la raccolta “Gli irregola-ri” (Liberal libri) fece un ritratto dell’auto-

re dei “Sillabari” a partire dal racconto“Antipatica”, descrive così il Parise refrat-tario al canone dell’impegno, nei suoi stes-si anni rappresentato da Pier Paolo Paso-lini (sono consigliati, il racconto di Parise eil saggio di La Capria, prima e dopo la let-tura del manifesto della Generazione TQ,scrittori trenta-quarantenni vogliosi di“guerriglia intellettuale, artistica e politi-ca, in piazze, librerie, luoghi di transito,con: letture, interventi multimediali, confe-renze e seminari, azioni simboliche”). Scri-ve La Capria: “Cosa si dicono il personag-gio-Parise e il personaggio-Pasolini nellafinzione del racconto? Quest’ultimo chiamaParise al telefono, dice che si rivolge a luicome ‘persona notoriamente progressista’(l’espressione è chiusa da virgolette), sicu-ro che non avrebbe rifiutato un contributoper alcuni fuggiaschi spagnoli che si trova-vano in Italia perché perseguitati dal regi-me franchista. Così facendo avrebbe da-to una mano al ‘processo di rivo-luzionarizzazione’ che si com-piva in quel Paese. Anche‘processo di rivoluziona-rizzazione’ è chiuso dal-le virgolette… Parisevoleva attraverso l’u-so di questi luoghicomuni esprimeretutta la sua ‘anti-patia’, appunto,per una menta-lità e un mododi pensare al-lora (e spessoancor oggi)molto diffusi,e la sua irrita-zione nel vede-re che anche unintellettuale del li-vello di Pasolini vi siadeguava. L’insofferenza per il linguaggiodi questo tipo era, in Parise, non solo uma-na, ma artistica… Perciò, mentre il perso-naggio-Pasolini esprime così la sua richie-sta al telefono, il personaggio-Parise ‘provòantipatia immediata’, e replica, per dispet-tosità e provocazione, che lui non si consi-dera ‘progressista’, non s’interessa di poli-tica e non crede che ogni azione umana èun’azione politica, e perciò non intende da-re alcun contributo ad alcun fuggiasco.‘Guarda, pensaci, perché questo è tipico la-psus; significa che tu sei qualunquista, pernon dire fascista’, risponde l’altro, ed è larisposta prevista, e direi quasi attesa alvarco dal perfido Parise, che a sua volta ri-batte ‘con voce semplice e quasi umile’ (ecioè, con perfida compunzione): ‘Può dar-si, non me ne intendo’… Ce ne voleva di co-raggio, negli anni Settanta, quando fu scrit-to questo racconto… a scrivere ‘non me neintendo’”.

Parise è un toccasana per chi voglia tro-vare sollievo da certi progressismi corrivi.Dalle sue risposte ai lettori del Corrieredella Sera (tra il 1974 e il 1975), ecco alcu-ni esempi, ancora attuali. Al lettore Ra-vaioli di Faenza, che sembra MargheritaHack e che lo ringraziava per il suo “libe-ro pensiero, libero da chiese di tutti i tipi,specialmente quella di preti e monache pa-rassiti la cui presenza rende triste l’Italia”,Parise risponde: “Anch’io come come lastragrande maggioranza degli italiani, sonobattezzato, signor Ravaioli. Sono laico, mabattezzato. Come dire: di mamma ce n’èuna sola. Dunque ‘preti e monache’, inclu-se campane domenicali e vecchie che van-no a messa all’alba non soltanto mi piaccio-

no ma mi danno allegria, guardi un po’.Perché questo è il mio Paese, con preti, mo-nache, campane domenicali e vecchie chevanno a messa all’alba”. Alla signorina diPavia, anticipatrice di Corrado Augias, che,avendo letto il libro inchiesta “Sesso inconfessionale” (uscito nel 1973, autori Nor-berto Valentini e Clara Di Meglio, quel li-bro nasceva da centinaia di registrazioni dicolloqui tra finti penitenti e sacerdoti) vuo-le denunciare “l’ignoranza, l’arretratezza ela volgarità del nostro clero”, Parise ri-sponde: “Io invece l’ho trovato un’ignobilespiata. Vede, signorina, spiare è sempreuna cosa orribile: dovrebbero averglielo in-segnato. Da orribile diventa miserabile se,dentro il confessionale essendo in due, unosa di spiare e l’altro non sa di essere spia-to. Ancora più miserabile se il frutto dellaspiata viene reso pubblico e venduto colnome (certamente non bello) di ‘Denuncia’.Da queste porcherie ne escono male tutti;

il confessore allocco, la spia e anchechi legge. Ma la spia peggio di tutti.

Che cosa tremenda”. E a un’altra let-trice che lo compulsa sul “problemadel sesso”, lo scrittore risponde che“del ‘problema del sesso’ rimbombail mondo e il rumore è banale, tan-

to più banale e noioso in quantoartificiale e coatto (come si di-

ce in psicoanalisi). E’ noio-so soprattutto perché il

‘problema del sesso’non è un proble-

ma, ma uno slo-gan che inven-

ta il proble-ma e che,in millemodi, con lascusa di ri-

solverlo, fa fiorire un’immen-sa e ramificata e volgarissima industria.Poi è noiosissimo perché il sesso non è af-fatto un ‘problema’ (cioè qualcosa che sipuò risolvere) bensì un mistero. E i miste-ri, o non si risolvono affatto o si risolvonoda sé senza alcuna applicazione e in modo,appunto, misterioso”.

Più classico è l’esercizio proposto dalcritico Alfonso Berardinelli, il quale diceche “da quando esistono il capitalismo e laborghesia la migliore cultura italiana è an-timoderna”. Come antidoto all’ingaglioffi-mento italiano propone quindi l’antimo-derno Montale, “un classico della poesiache è stato l’idolo della sinistra ma che inrealtà era un liberale che non credevanemmeno nella libertà. In ‘Auto da fé’, laraccolta dei suoi saggi critici uscita nel1966, Montale va contro lo sviluppo, la cre-scita, il progresso, perché sente lo svilup-po dell’industria culturale e della demo-crazia di massa come una minaccia radica-le per l’individuo. Montale viene celebrato.Ma chi ha voglia di discutere e di prende-re sul serio, cioè alla lettera, le sue idee?Individualismo, tradizionalismo difensivo,pessimismo apocalittico, aristocratismoculturale, diffidenza per lo sviluppo delletecnologie comunicative e per la democra-zia culturale: Montale è scorretto da tutti ipunti di vista”. Non in “Auto da fé” ma in“Diario del ’71 e del ’72” (Mondadori) sce-gliamo la poesia intitolata “Al Congresso”,perfetta per i darwinisti di MicroMega: “Sel’uomo è l’inventore della vita / (senza di luichi se n’accorgerebbe) / non ha l’uomo il di-ritto di distruggerla? // Tale al Congresso ildetto dell’egregio / preopinante che maimosse un dito / per uscire dal gregge”. L’e-gregio che non esce dal gregge è ossimoro

riservato al tipo del laicista militante, cheMontale non digeriva. In un’intervista aGiulio Nascimbeni, citata sempre nel “Dia-rio”, il poeta genovese puntualizza che “illaicismo, in sé rispettabile, quando è inte-so come religione diventa una sciocchezza,è gonfio di superbia”.

Agli occupanti del Teatro Valle, il centrosociale più chic d’Europa, se non del mon-do, sentiamo di dover segnalare questaconsiderazione di Nicola Chiaromonte sucinema e teatro assistiti dallo stato: “Qui lostato non fa altro che ripetere una situazio-ne corporativa, che è la stessa creata a suotempo dal regime fascista e che si perpetuanel clima di mafia totale in cui viviamo:una perpetua connivenza di bande politi-che, sociali, artistiche, letterarie”.

Più lievemente ma non meno feroce-mente, Alberto Arbasino – anticorpo infal-libile contro l’ingaglioffimento – scrivevanel 2000 su Repubblica, a proposito di sov-venzioni alla cultura (è puramente volutoogni riferimento alla pièce parigina di Ro-meo Castellucci, “Sul concetto di volto nelfiglio di Dio”, con un immenso Cristo diAntonello da Messina che fa da sfondomaltrattato a un vecchio incontinente, ri-petutamente pulito dal figlio sempre piùinfastidito): “Il sindaco di New York, Ru-dolph Giuliani, dopo aver visto al Museo diBrooklyn la foto artistica di una ‘UltimaCena’ con dodici apostoli neri intorno auna Gesù nera e nuda, si propone di forma-re una commissione per sorvegliare le sov-venzioni di fondi pubblici a queste formedi speculazioni commerciali. In Californiala storia si ripete da anni, col famoso Cro-cefisso a bagno nella pipì d’arte, con le Ma-donne d’arte che mostrano il sedere, con iCristi d’arte alla moda sadomaso da porno-shop di cultura. E nel mondo della canzo-ne, non passa giorno senza provocazioni etrasgressioni sempre su Gesù Cristo, la Ma-donna e il Papa. Il Papa spesso anche nel-le installazioni e negli allestimenti, in po-sizioni per lo più imbarazzanti. Quanti de-cenni sono passati, da quando Paolo Polifaceva Rita da Cascia al cabaret, mentre leborchie piramidali sui nastri di pelle ne-ra non si usavano in tutte le sfilate di prêt-à-porter per la casalinga… Ora si parla so-lo di sovvenzioni e di finanziamenti.Sennò, niente trasgressioni. Né galleristi,né ‘curators’, né iniziative, né cooperative,né eventi da non perdere. Soldi, soldi. (…)Se qualche artista di speculazione si pro-vasse a provocare scandali da reddito consberleffi alla religione islamica o ebraica,lo Stato e le Regioni e le Province e i Co-muni sarebbero tenuti a sovvenzionare leoperazioni? O il Ministero e gli Assessora-ti riceverebbero qualche protesta dalle co-munità non cattoliche? (…) Ma se gli arti-sti e i cantanti trasgressivi facessero leprossime trasgressioni su Buchenwald o suMaometto, per fare cassetta, e mettesseroun gran rabbino o un imam al posto del Pa-pa, nelle provocazioni, come regolarsi colPolitically Correct e coi soldi?”.

Per finire in bellezza, allora, niente dimeglio, come livre de chevet in questi tem-pi noiosi, degli arbasiniani “Paesaggi ita-liani con zombi” (Adelphi). Dal dizionariet-to finale prendiamo, a caso, la voce “Cene”:“Attenzione alle cene. Pericolosissime.Una volta erano tutt’al più ‘delle beffe’, evenivano anche sbeffeggiate. Però, manmano, molti ‘momenti conviviali’ si sono ri-velati micidialissimi: sauté e soufflé d’affa-ri finiscono per intercettazioni e tribunali.Vi costeranno carissimi”.

Nicoletta Tiliacos

Come salvarsi da noiosi TQ ed egregi vari mai usciti dal gregge

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

Ieri una donna anziana miguarda e mi fa: “Sa che lei haproprio l’aspetto di un noma-de, ma di quelli proprio com-pleti?”.

Io: “La ringrazio, ma questo non è raz-zismo?”.

Lei: “Non penso, anzi è il contrario:io sono fidanzata con uno del Leonca-vallo”.

Io: “Come si chiama?”. Lei: “Carlone”. Io: “Lo lasci, è dei servizi segreti”. A

quel punto il tram si è fermato e quellalinea è stata soppressa. Pochi passegge-ri? Non penso, il tram era pieno.

La Giornata* * *

In Italia

IL CAV. SULL’EURO: “E’ LA NOSTRAMONETA, LA NOSTRA BANDIERA”. Ilpremier in una nota ha fatto sapere: “E’ perdifendere l’euro dall’attacco speculativoche l’Italia sta facendo pesanti sacrifici.L’euro è l’unica moneta al mondo senza ungoverno comune, senza una banca di ultimaistanza, per questo è oggetto di attacchispeculativi”. In precedenza, agli stati gene-rali del commercio estero, aveva detto, fral’altro: “L’euro non ha convinto nessuno”.Poi la precisazione: “Le mie parole sonostate interpretate maliziosamente”.

Il premier sulle misure presentate in Eu-ropa: “L’opposizione non potrà sottrarsi dalsostenerle. La polemica sui licenziamenti èfiglia di una cultura ottocentesca”.

* * *Napolitano ha incontrato Bini Smaghi,

membro del Comitato esecutivo della Ban-ca centrale europea, pur specificando dinon aver esercitato “alcun pressing” per ledimissioni del banchiere richieste dallaFrancia. Anche Berlusconi in mattinataera tornato a chiedere un passo indietro diBini Smaghi: “E’ una situazione spiacevole.Il governo non ha responsabilità”.

Il leader della Lega, Umberto Bossi, haincontrato il sindaco leghista di VeronaFlavio Tosi, che ha detto: “Con Bossi nonc’è mai stata guerra”.

* * *Il pm del caso Mills denuncia Berlusconi.

Alfredo Robledo ha chiesto cinquecento-mila euro di risarcimento per le dichiara-zioni del premier nel 2006. Berlusconi dis-se che la procura milanese era inerte eparlò di “pervicace volontà accusatoria” edi “uso politico della giustizia”.

* * *La progettazione del Ponte sullo Stretto

non si fermerà dopo la mozione che ha can-cellato i finanziamenti pubblici. Lo ha fat-to sapere la presidenza del Consiglio.

* * *Borsa di Milano. FtseMib -1,78 per cento.

L’euro chiude in ribasso a 1,41 sul dollaro.

Nel mondoUN ISLAMISTA ATTACCA L’AMBA-

SCIATA AMERICANA A SARAJEVO. L’uo-mo, vestito con una tuta mimetica, ha feri-to due poliziotti, prima di essere fermato earrestato. Secondo alcuni testimoni, avreb-be gridato “Allah Akbar”. Il leader politi-co musulmano Bakir Izetbegoviç ha dettoche “nessuno ha il diritto di danneggiare lenostre buone relazioni con l’America”.

* * *Il tribunale dell’Aja contatta Saif al Islam

“attraverso intermediari”. Il procuratorecapo Luis Moreno-Ocampo potrebbe ferma-re un volo con cui “il secondogenito diGheddafi raggiungerebbe un paese africa-no che non aderisce allo statuto di Roma”.

* * *E’ stato designato l’erede al trono saudita.

E’ il principe Nayef bin Abdul-Aziz al Saud,già vicepremier e ministro dell’Interno.

Il presidente americano, Barack Oba-ma, si è congratulato con il re Abdullah perla scelta dell’erede al trono di Riad.

* * *Cambia la legge di successione inglese. Il

vertice del Commonwealth, a Perth, ha de-ciso che gli eredi avranno pari diritti per lacorona, finora riservata al primo erede ma-schio, e che si potrà diventare monarca an-che qualora si sposi una donna cattolica.

* * *In Tunisia, iniziano le consultazioni per la

nascita di una coalizione di governo. Alpartito islamico Ennahda mancano 19 seg-gi per poter governare da solo.

Editoriale a pagina tre

* * *“Vogliamo una no fly zone in Siria”. Lo ha

chiesto l’opposizione durante una manife-stazione nella città di Kafr Nabl.

Secondo l’opposizione siriana, i militaridi Damasco hanno ucciso ieri 37 persone.

* * *Il nipote di Stalin querela un giornalista

russo, Vladimir Pozner, per aver detto in te-levisione che il massacro di Katyn, nel1940, era stato autorizzato da suo nonno.

Niente male che il Santo Pa-dre chieda scusa per le Crociate. Manon l’ha fatto certo per gareggiare inprogressismo, ogni giorno ne arriva unanuova ma vogliamo sperare che abbiaprevalso la memoria del sangue e maga-ri abbia svegliato quel passo di “Uma-no troppo umano”, precisamente quel-lo che così recita: “I crociati combatte-rono qualcosa di fronte a cui sarebbestato più conveniente per essi prostrar-si nella polvere – una civiltà rispetto al-la quale persino il nostro secolo Dician-novesimo potrebbe sembrare povero,molto ‘tardo’”. Niente male, il vecchioNietzsche, vero?

IL RIEMPITIVOdi Pietrangelo Buttafuoco

Valzer industriale/1

Candidati, grandi elettori e outsider per la successione a Marcegaglia. Nomi e novità

Io, confindustriale disilluso,sto con Marchionne.

Parla l’imprenditore Dino Fenzi

IL FOGLIO

INNAMORATO FISSOdi Maurizio Milani

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

L’ILLAZIONE

L’unico indizio contro di lui poteva es-sere “Una zebra a pois”, la canzone

composta per Mina nel 1960. In effetti iltesto pareva scritto sotto acido, l’Lsd chedicono facesse volare elefanti rosa davan-ti agli occhi dell’assuntore, ma sono coseche a quell’altezza cronologica succede-vano forse in California, certo non a Ro-ma, e poi bastava informarsi meglio e sisarebbe scoperto che Lelio Luttazzi dellapsichedelica canzoncina aveva scritto so-lo la musica mentre il testo (“Una zebra apois / me l’ha data tempo fa / uno stranomaragià”) era da addebitarsi a Dino Ver-de, paroliere napoletano che di lì a pocosi sarebbe inventato il “Dadaumpa” del-le gemelle Kessler. Erano tempi in cui lafantasia non dipendeva da carburantiproibiti, per prendere la tintarella di lunae vedere il cielo in una stanza bastavanodroghe tradizionali quali Stefania San-drelli, caffè, sigarette, vino. Soprattutto vi-no per quanto riguarda il triestino Luttaz-zi, che invece i ventisette giorni di carce-re che gli spezzarono la vita se li fece perdella cocaina che non aveva mai visto néconosciuto.

Chi sapeva che Lelio Luttazzi nel 1972aveva girato un film? Non voleva ricordar-selo nemmeno lui. La moglie Rossana sco-prì la pellicola durante un trasloco, den-tro una scatola di latta, e il marito mini-mizzò: “E’ una cosa di qualche anno fa.Non se ne è mai parlato perché è una sto-ria contro un giudice”. Di fronte alle insi-stenze alzò la voce come non era solito fa-re: “Lo sai che cosa mi ricorda. Non par-larmene più”. “L’illazione” tornò nellascatola dove dormì per decenni: qualchemese fa lo hanno riesumato, restaurato aBologna con la supervisione di Cesare Ba-stelli, storico direttore della fotografia di

Pupi Avati (l’intera parabola di Luttazzisembra un soggetto avatiano), così doma-ni, 30 ottobre, alle 17 sarà proiettato per laprima volta, al Teatro Studio dell’Audito-rium di Roma. La sera stessa, ore 22, verràprogrammato su Rai Cinque e anche lon-tano dalla capitale si potrà vedere un filmche è, più che una storia contro un giudi-ce, una storia contro tutti i giudici.

Io l’ho visto in Dvd. Se fossi ostile al per-sonaggio parlerei di cinematografia data-ta ma essendo un simpatizzante parlerò divintage. E’ cinema da camera ma non è Po-lanski, per dire un altro che ha visto il so-le a sbarre. Per la lentezza svagata, la re-citazione straniante, il cip cip degli uccel-lini, i primi minuti possono far venire inmente certi film di Rohmer girati nellaFrancia del sud e sarebbe un bel compli-mento però il 1972 è soprattutto l’anno del“Fascino discreto della borghesia” e laparte del giudice sembra scritta per Fer-nando Rey. Insomma uno si aspetta il Lut-tazzi di Antonello Falqui e si ritrova unLuttazzi stile Luis Buñuel. Potere di queimaledetti ventisette giorni “in una cellafetida, col cesso che aveva un buco cosìpiccolo che dovevi prendere la mira”. Aparte l’inizio dalle parti di un Foro Itali-co circondato dal verde come credevo fos-se possibile solo nell’anteguerra, tutto sisvolge in una campagna romana anch’essanon ancora urbanizzata ma in procinto di.Il regista e protagonista compare subitoed è quasi irriconoscibile, con la barbabrizzolata, le camicie d’epoca e un pigliopolemico molto settantiano che obbliga arivedere l’idea corrente di un Luttazzi di-simpegnato e frivolo, spesso coltivata daLuttazzi stesso. Aldo Grasso ha scritto che“nell’interpretazione dell’“Avventura” diAntonioni non c’entrava niente, nulla ave-va da spartire con gli intellettualismi delregista”. Non aveva ancora visto “L’illazio-ne” dove invece gli intellettualismi nonmancano, si parla di Camus, si fanno bat-tute sulla psicanalisi, si scrive a macchi-na sotto il manifesto esistenzialista di Ju-liette Gréco. E non c’entra il calarsi nelruolo perché qui il ruolo non esiste, il filmè senz’altro autobiografico e Lelio è Decio(lo stesso numero di lettere, le ultime dueidentiche) anche nei dettagli: gli occhialo-ni da vista, la propensione naïf per il vi-no, con l’elogio di quello senza bisolfito equindi puzzolente ma tanto genuino, lacompiaciuta pigrizia di un uomo che si èsempre definito oblomoviano, refrattarioalla fretta, alla competizione. Dice la sua

donna cinematografica: “Ama l’azione: be-re e fare l’amore”. Gli attori sono poco oper nulla conosciuti, probabilmente amici(il film è a basso costo), l’unica faccia no-ta ai non cinefili potrebbe essere quella diMario Valdemarin, bel tenebroso nato ecresciuto nella Venezia Giulia e allora

probabilmente un amico pure lui. La mu-sica è del vecchio sodale Gianni Ferrio.Esiste una foto dove sono insieme, il vi-centino a qualcosa che somiglia a un or-gano elettrico, il triestino al pianoforte,mentre eleganti e sorridenti accompagna-no la cantante Jula de Palma. Luttazzi ad-dirittura fuma, cosa oggi impensabile inqualsivoglia studio (chi è stato l’ultimo afumare in televisione? Marco Pannella?).Erano quindi gli anni della libertà e del-la gioia di vivere, prima dei ventisettegiorni e della barba lunga. Erano anchegli anni dei bei soldi, che nelle tasche delnostro eroe cominciarono ad affluire mol-to presto, copiosi e non troppo sudati (d’al-tronde, si è mai visto un Oblomov che su-

da?). Solo diciannovenne ovvero nel 1942,in pieno conflitto, al Politeama Rossetti diTrieste partecipò in qualità di pianista odirettore d’orchestra (dell’episodio circo-lano varie versioni) a un varietà organizza-to dal Guf, il Gruppo universitario fascista.Stella della serata era il cantante ErnestoBonino, quasi coetaneo (l’Italia era unpaese per giovani), che a fine spettacologli chiese un brano da inserire in reperto-rio. Detto fatto. Luttazzi, studente di giuri-sprudenza, buttò giù le parole sul manua-le di diritto privato e subito dopo aggiun-se le note. Era nato “Il giovanotto matto”che Bonino incise nel ’44. Nel ’45 in Italiale cose non funzionavano poi così male,nonostante le bombe e le invasioni arrivòa casa Luttazzi una busta con dentro un as-segno: 350.000 lire di diritti d’autore, gros-so modo 13.000 euri di oggi. Notare che al-la Siae non era nemmeno iscritto, il desti-natario della simpatica somma: quandonon esistevano i computer le chiacchiereandavano più lente epperò le concretezzecorrevano più veloci, bastò mettere unafirma per incassare i soldi, sbarazzarsi deilibri universitari e diventare musicistaprofessionista. “L’illazione”, dicevo, ha co-lonna sonora firmata da Gianni Ferrio an-che se avrebbe potuto pensarci benissimoil padrone di casa che negli anni prece-denti aveva musicato Risi, Monicelli, Pie-trangeli, Mattoli, Mastrocinque, ma ormai

Oblomov aveva preso il sopravvento. Ognitanto nel casale dove si svolge la storia,nel soggiorno dove si raccoglie il gruppet-to eterogeneo nella prospettiva di unacompravendita immobiliare, risuonanoanche i dischi di Louis Armstrong, che algiudice non piace: “La solita storia dei ne-gri oppressi”. Sorpresa: l’odioso, losco, in-sinuante magistrato è un destro, un razzi-sta, un uomo d’ordine che ce l’ha con i“sovversivi”. Noi da almeno vent’anni sia-mo abituati ai giudici di sinistra ma altempo di Luttazzi i giudici erano di destra.Non cambia nulla: ecco quello che mi hainsegnato o forse semplicemente ricorda-to “L’illazione”. Non cambia nulla: fasci-stoide o comunistoide la carcerazione pre-ventiva sempre carcerazione preventivarimane. Non cambia nulla: e se non cam-bia nulla significa che il problema non èpolitico bensì umano. Non umano dal pun-to di vista del carcerato, che pure, ma daquello del giudice, disumanizzato dallaterrena onnipotenza che la legge e la con-suetudine gli assegna. Non avere nessunosopra di sé, se non, e solo formalmente,quell’ente inutile rispondente al nome diConsiglio superiore della magistratura, fa-rebbe perdere la testa a chiunque. Saràun caso ma “Il giudice” di Fabrizio De An-dré è degli stessi anni del film. “Fu nellenotti insonni / vegliate al lume del ranco-re / che preparai gli esami / diventai pro-

curatore / … / giudice finalmente, / arbitroin terra del bene e del male”. Si sa che ipoeti vedono dentro la realtà meglio dichiunque altro e chi ha ascoltato anche so-lo una volta la tristissima canzone ispira-ta all’“Antologia di Spoon River” non po-trà mai entrare sereno nell’aula di un tri-

bunale, neanche disponendo di un alibi diferro o di un reo confesso come contropar-te. Per cui non sono troppo d’accordo conLuttazzi quando nel film rovescia contro ilgiudice spregevole un testo di GiuseppeBerto: “E’ una mia vecchia idea che tutticoloro che abbiano responsabilità sociali,insegnanti, medici, sacerdoti, poliziotti,magistrati e via dicendo, andrebbero psi-canalizzati prima di venir immessi nellaprofessione. Una psicanalisi addiritturadiscriminante perché certe tendenze ne-gative che fanno parte della natura di cia-scuno di noi, sadismo, volontà di potenza,narcisismo, esibizionismo, alle volte cispingono a scegliere professioni dove pos-sano meglio soddisfarsi”. Emerge una fi-

ducia questa sì davvero datata nella psi-coanalisi mentre più di Berto ci sarebbevoluto De Maistre: “L’innocenza è rara, edè il timore della pena che permette all’u-niverso di godere della felicità che gli èdestinata”. Siamo tutti potenzialmente sa-dici, narcisisti ed esibizionisti, e quandoabbiamo la sensazione che per il nostrocattivo comportamento nessuno ci puniràecco che lo diventiamo effettivamente. Deigiudici il problema è quindi l’irresponsa-bilità che una Costituzione non saprei sepiù maligna o più idiota ha garantito loro(articolo 101, “I giudici sono soggetti sol-tanto alla legge”, ovvero a niente, perché“le leggi son, ma chi pon man ad esse?”).Come finisce il film? Mica l’ho capito. A uncerto punto spunta una villa misteriosa,del fumo che non doveva esserci, musi-chette da thriller, episodi di trance perchénegli anni Settanta la seduta spiritica fuo-ri porta era di moda, ci andava pure Ro-mano Prodi. Per sbrogliare la matassaprovo a leggermi il soggetto che però risul-ta molto differente dal girato. Diciannovepagine battute a macchina che più delfilm raccontano l’autore, un imprevistoLuttazzi intellettuale di sinistra, ebbenesì. Il vocabolario è inconfondibile e ine-quivocabile: il giudice, l’odiato giudice,viene definito “un marito repressivo e ot-tuso” capace di “affermazioni stronzamen-te conservatrici e retrive”. Ritrovo l’amatoLuttazzi da smoking solo quando descriveun personaggio femminile come “donnada letto”. Da quant’è che non sentivo que-sta magnifica espressione?

Estratto il Dvd, chiuso il soggetto, mi èvenuta una gran voglia di rivedere il Lut-tazzi del sabato sera, cravatta nera e fioreall’occhiello. Per fortuna adesso c’è You-Tube dove digitando “Studio Uno 1966”saltano fuori tre minuti e trentotto secon-di di un numero strepitoso con le Kesslerche ci si domanda: anche l’avesse usata,

questa cocaina, embè? Un musicista-umo-rista (alla bisogna anche ballerino) di ta-le ineguagliato livello doveva andare inonda a prescindere. L’eleganza è bellezza,lo stile è bellezza, e la bellezza esiste peressere ammirata, non per essere invidiata,quindi faccio mie le parole di Papa PaoloIII: “Gli uomini come Benvenuto, unicinella lor professione, non hanno da esse-re obbligati alle leggi”. E nel caso di Cel-lini si ipotizzava un reato ben più grave: disangue, non di polvere. Luttazzi, unico nel-la sua professione, doveva essere lasciatoin pace pure se fosse stato un trafficantedi droga, invece un uomo incapace di am-mirazione fece esattamente il contrario: losbattè in galera anche se non trafficava inniente. Ventisette giorni di isolamento aRegina Coeli a cui sono seguiti qua-rant’anni di autoisolamento perché qual-cosa gli si era rotto dentro. Scarcerato eprosciolto in fase di istruttoria, non ci funemmeno bisogno del processo per con-statarne l’innocenza: bastava ascoltare be-ne le intercettazioni (allora già in auge peril torbido piacere di guardoni e ascoltoni).“E’ una mattina del 1970, mi alzo molto tar-di e la mia governante mi dice che mi hacercato Walter Chiari, un amico carissimo.Ha telefonato da Bologna e mi prega dichiamare un numero di telefono, lui è tan-to che ci prova ma non riesce a farlo. Al-zo il telefono, dall’altra parte rispondeuna voce roca: Pronto… E io: Qui Luttazzi.Ha detto Walter di chiamarlo perché luida Bologna è tanto che ci prova. Risposta:Va bene. Ha bisogno di qualche cosa? E io:Di che cosa? E lui: Lo chieda a Walter.Chiudo. Dopo due mesi vengo arrestato”.Walter sniffava davvero e di giorni se nefece settanta ma reagì meglio. Emargina-to dalla Rai si buttò nelle prime televisio-ni private, pur di lavorare accettò ingaggidi ogni tipo, si fece nuovi amici, conquistònuove donne, non si diede per vinto. Lelioinvece era troppo innocente, troppo per-bene, troppo figlio di una maestra elemen-tare che dopo essere rimasta anzitempovedova lo aveva cresciuto sul Carso in undecoro certo non alieno da sacrifici, e iltrauma non lo superò mai. “L’illazione” èla lingua che batte dove il dente duole.Avrebbe dovuto smettere di rimuginarci,doveva fottersene, godersi la Siae, guarda-re avanti e suonare il pianoforte come luisapeva fare, meravigliosamente a orec-chio. Non avrebbe dovuto farsi condizio-nare per il resto dei suoi giorni dall’erro-re di un intercettatore sordo.

Sorpresa: l’odioso, losco,insinuante magistrato è un destro,un razzista, un uomo d’ordineche ce l’ha con i “sovversivi”

“Studio Uno 1966”, unnumero strepitoso con le Kessler.E ci si chiede: anche l’avesse usataquesta cocaina, embè?

Un Luttazzi stile Buñuel. Ilregista e protagonista comparesubito: è quasi irriconoscibile, conbarba brizzolata e camicie d’epoca

Più che una storia contro ungiudice, una storia contro tutti igiudici. Sarà proiettato per laprima volta domani a Roma

Un magistrato che male interpreta un’intercettazione, un innocente che finisce in galera,una vita che si spegne. Lelio Luttazzi aveva trasferito la sua tragedia in un film. Eccolo

Sanremo 2009, Lelio Luttazzi al pianoforte con la cantante Arisa sul palco del Teatro Ariston nella serata dei duetti

di Camillo Langone

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

IL RUSSO ESTREMOIdolo dell’underground sovietico, barbone a New York, capo del Partito

nazional-bolscevico. Ritratto di Eduard Limonov, poeta maledetto

Emmanuel Carrère ha appena scritto unlibro formidabile su un formidabile

soggetto, Eduard Limonov (“Limonov”, P.O. L. Éditeur). Carrère è ben noto al letto-re italiano: pubblica da Einaudi (“L” peròuscirà con Adelphi), è un autore superbranché, si divide con successo tra la lette-ratura e il cinema (il film pirandelliano“La moustache” è stato premiato a Cannesnel 2005), è abile a stuzzicare le corde del-l’erotismo, come sa chi ha apprezzato ilvertiginoso racconto “Facciamo un gioco”,pubblicato sul Monde nel 2002. E’ proba-bile invece che, a quello stesso lettore, ilnome di Limonov dica assai meno, e co-munque è difficile che se ne sia fatto un’i-dea precisa: per alcuni, infatti, è un tipopoco raccomandabile, un provocatore, unfascista, difensore delle cause politichepiù torbide – per altri il più geniale scrit-tore russo vivente, una sorta di Louis-Fer-dinand Céline del comunismo e del postcomunismo. Per Carrère, come minimo,deve trattarsi di una delle personalità piùinteressanti in circolazione, visto che gliha dedicato un libro di quasi 500 pagine.

E’ difficile che uno scrittore scriva – pergiunta con tanta empatia – su un altroscrittore. Tra i casi recenti può venire inmente Saul Bellow e il suo affettuoso ri-tratto di Allan Bloom (“Ravelstein”), maquella era la storia di un’amicizia tra dueuomini che avevano condiviso idee edesprit de finesse. Qui si tratta di altro. Quic’è uno scrittore francese, palesemente in-soddisfatto del senso comune ideologico

dentro il quale si è accomodata la propriacultura, che vorrebbe dire ai suoi contem-poranei: guardate che le cose – chi sono ibuoni e chi sono i cattivi – sono più compli-cate di come le vedete voi. Impressionatodalla lettura, sono andato a trovare a Mo-sca il vecchio Limonov, che mi ha confer-mato: “Mi sembra che Carrère abbia volu-to fare con me qualcosa di simile a ciò cheJean-Paul Sartre, negli anni Cinquanta,aveva fatto con Jean Genet: l’apologia diun uomo che l’opinione dominante consi-derava un criminale. Parlando di me, inrealtà ha inteso porre qualche problemaai francesi e mostrare che è legittimo unpunto di vista diverso dal loro”.

Poi, magari, ci sono anche ragioni più in-time. Carrère la Russia, sovietica e post so-vietica, ce l’ha nel sangue: non solo la co-nosce, ma la “sente”, avendo a lungo vissu-to a contatto con quel mondo. Sua madre,infatti, è la celebre storica (e accademicadi Francia) Hélène Carrère d’Encausse,uno dei maggiori studiosi di storia e cultu-ra russa. E quando Emmanuel scrive di co-se russe, come è già successo in passato, sipercepisce la civetteria di chi ha familia-rità con gli aspetti esotici dell’argomento.Su di un intellettuale parigino, per di più,che ha il sentimento un po’ malinconico divivere in una parte di mondo dove da tem-po sembra non succedere granché, la figu-ra di Limonov, la sua vita romanzesca e av-venturosa – “teppista in Ucraina; idolo del-l’underground sovietico; barbone e poimaggiordomo di un miliardario a Manhat-tan; scrittore alla moda a Parigi; soldatoperduto nei Balcani; e ora, nell’immensobordello del post comunismo, vecchio capocarismatico di un partito di desperados” –esercita la fascinazione del barbaro che haenergia da vendere.

Se c’è una vita davvero spericolata, infat-ti, è quella di Eduard Savenko, in arte Li-monov, nato cittadino dell’Urss dalle partidi Kharkov sessantotto anni fa. In questosenso, è stato un uomo fortunato: ha avutoil destino che ardentemente sognava neisuoi vagabondaggi giovanili, quando imma-ginava di combattere, armi in pugno, perqualche causa estrema, rivoluzionaria ocriminale. Dopo avere abbandonato labohème newyorchese e parigina, che avevafatto di lui il più atipico degli esuli sovie-tici, si è immerso in una frenetica attivitàpolitica e militare, con l’intento di crearela propria leggenda. E’ andato a combatte-re a fianco dei serbi nell’ex Yugoslavia, deiseparatisti russi in Moldavia, degli abcha-zi nel Caucaso. E poi, in qualità di fonda-tore e presidente del Partito nazional-bol-scevico, uno dei tanti gruppuscoli di oppo-sizione che hanno agitato la scena post so-vietica, si è messo a organizzare giovani at-tivisti in nome di un’ideologia che combi-nava socialismo e nazionalismo, aggiungen-do al proprio curriculum anche due anni dicarcere per traffico d’armi. Ma soprattuttoEdichka Limonov è riuscito a evitare ciòche più gli ha sempre ripugnato: diventare

di Massimo Boffa

un rispettabile signor scrittore, magari diquelli con l’aura mondana del ribelle.

“Gli scrittori non sono gente interessan-te”, ama dichiarare, “e il romanzo è un ge-nere defunto”. Eppure Limonov è uomo dilettere fino al midollo. Nella sua vita hascritto un migliaio di poesie, una quindici-na di libri che oggi sono tra i più letti dal-l’irrequieta gioventù del suo paese e chehanno innovato la lingua letteraria russa,svariati saggi, reportage giornalistici. Enon lascia praticamente passare giornosenza riempire di note e appunti i suoiquaderni. “Se mi si chiedesse il modello diuno scrittore veramente serio, direi GiulioCesare: ha fatto cose molto interessanti ene ha scritto sulla base della propria espe-rienza”. Anche Limonov non scrive che disé. I suoi “romanzi”, tutti in prima persona,compongono un esuberante diario della

sua vita, dei suoi pensieri e soprattutto deisuoi umori.

Del resto, quello della fusione dell’artecon la vita è il mito letterario per eccellen-za, soprattutto quando si incarna nel sovra-no disprezzo riservato alle piccole soddi-sfazioni del mestiere. In una recente mo-stra sui protagonisti dell’underground mo-scovita degli anni Sessanta, si poteva vede-re una foto del giovane Eduard, poco piùche ventenne, in una posa da Rimbaud ap-pena sbarcato dalla provincia alla conqui-sta di Parigi: sguardo trasognato e, al tem-po stesso, una smorfia di sufficienza indi-rizzata verso il grand’affaccendarsi dei col-leghi. Certo, c’è sempre il rischio di soprav-vivere al proprio mito e questo pericolo

deve avere sempre accompagnato Limo-nov nella sua continua ricerca di nuovereinvenzioni di sé come personaggio. Ecco,ad esempio, cosa scriveva, nel 1998, ormaifamoso, nell’introduzione a una raccoltadelle sue opere (cito dal bel libro di Mau-ro Martini “Oltre il disgelo”): “All’iniziodella mia attività letteraria nel lontano1966 in qualità di giovane poeta, mi propo-nevo di lasciare dopo di me un unico, ge-niale volumetto in brossura. Volevo esse-re un oscuro Lautréamont, vivere segreta-mente e morire giovane, il diavolo sa se ditifo o di qualche altra schifezza (…). Ed ec-comi qui, alla venerabile età di cinquanta-cinque anni, costretto a scrivere l’introdu-zione alle ‘Opere scelte’. Che orrore”.

Limonov lascia l’Urss nel 1974, comeAleksandr Solgenitsin. Ma che differenza:uno era già il più famoso dei dissidenti,espulso dal proprio paese su decisione delPolitburo; l’altro se ne va perché la vitamoscovita comincia a stargli stretta e sma-nia confusamente per qualcosa di diverso.Era appena stata approvata una legge checonsentiva agli ebrei di espatriare eEduard, che ebreo non è, come molti altririesce a farsi confezionare dei documentifalsi. Del resto, dissidente non lo è statomai. L’underground degli anni Sessanta èuna rivolta esistenziale, non politica: ci sirifiuta di entrare in una delle tante carrie-re sovietiche, si disdegnano i funzionaridell’Unione degli scrittori, meglio leggerele proprie poesie nei vari circoli informa-li, ci si ubriaca, si organizzano delle sera-te musicali, si vive in un sottosuolo di “fal-liti” che non pubblicheranno mai, non in-cideranno dischi, non esporranno i propridipinti in una vera mostra, ma si manter-ranno “integri e onesti”. Ha imparato a cu-cire pantaloni e tanto gli basta per sbarca-re il lunario.

Si esagera molto quando si dipingono co-me “totalitari” gli anni di Breznev. L’Urssa quell’epoca era piuttosto un grande bor-

dello dove, con un po’ di furbizia e pur dinon prendersela direttamente col regime,si poteva facilmente navigare negli intersti-zi e cercare di sfuggire al destino mediocreche la società offriva a tutti. Eduard si im-magina come un dandy: è giovane, sfronta-to e ha appena soffiato a un apparatcik del-la cultura la ventenne Elena, che passa peressere la ragazza più bella e sofisticata del-la città. “Elena e lui, per alcune stagioni –scrive Carrère – sono i re della bohème mo-scovita. Se mai è esistito, verso il 1970, nelpiù grigio del grigiore brezneviano, qualco-sa come un ‘glamour’ sovietico, i due ne so-no stati l’incarnazione”.

Sbarcheranno insieme a New York, maElena finirà presto vittima delle proprie il-lusioni: book fotografici, impresari senzascrupoli, fiumi di cocaina, passerà da unletto all’altro senza riuscire a sfondare nénella moda né nel teatro né nel cinema.Quanto al povero Edichka, per lui sarannocinque anni di vita miserabile e sublime.Non ama i mostri sacri del dissenso ed ècordialmente ricambiato dalla tribù degliesuli russi: Solgenitsin è per lui un “vec-chio rincoglionito”; quando Andrej Sacha-rov riceve il premio Nobel, scrive chel’Urss è sì un posto grigio e noioso, ma nonquel campo di concentramento descrittodagli avversari; quanto a Josif Brodskij, in-vidia il suo status “immeritato” di poeta disuccesso e, dopo la sua scomparsa, nel “Li-bro dei morti”, ne scriverà con pateticasoddisfazione: “Lui è congelato per sem-pre nella medesima forma, mentre io con-tinuo a raccogliere stranezze nella miabiografia”.

La sua discesa agli inferi newyorcheseè raccontata nel più straziante dei suoi li-bri, “Sono io, Edichka”, un autoritratto po-litico-sentimentale, dove ce n’è per tutti:per l’America, per il capitalismo, per il jetset di Manhattan, per le fisime dei liberale dei radical, nei cui party si imbuca perfare il guastafeste, mentre conduce una vi-

ta da clochard e si umilia nei lavori piùservili – fino alla scena madre in cui il suoardente bisogno di tenerezza lo conduce atrovare, nei bassifondi della luminosacittà, l’amore di uno sconosciuto proletarionero che, mentre lo scopa, gli sussurra al-l’orecchio: “Baby, my baby, you are mybaby”. Farà fatica a trovare un editore:MacMillan rifiuta il manoscritto, che giudi-ca troppo negativo (effettivamente, un li-bro la cui ultima frase è: “Affanculo tut-ti!”), Lawrence Ferlinghetti vorrebbe un fi-nale più spettacolare, tipo l’omicidio diqualche personalità famosa. Finalmente lopubblica, nel 1980, il francese Jean-Jac-ques Pauvert, con il titolo che lo renderàfamoso nel mondo: “Il poeta russo preferi-sce i grandi negri” (in Italia uscirà da Fras-sinelli nel 1985).

Ormai arrivato alla notorietà, Eduard si

trasferisce a Parigi, dove trascorrerà il de-cennio più tranquillo della propria vita.Scrive quasi un libro all’anno, tra cui ilbellissimo “L’adolescente Savenko”, ro-manzo autobiografico di formazione am-bientato nella provincia sovietica (tradottoin italia da Salani nel 2005 col bizzarro ti-tolo “Eddy-baby ti amo”). Si guadagna davivere collaborando con il giornale “L’idiotinternational”, accanto a rompiscatole ditalento come Jean-Edern Hallier e MichelHouellebecq. E si getta a capofitto nellatormentata storia d’amore con la cantanteNatasha Medvedeva, sorta di Amy Wi-nehouse russa, morta anni dopo per over-dose (nel 2003 le dedicherà un libro, “Do-mare la tigre a Parigi”). Edichka è infatti

anche un grande seduttore. La sua vita ècostellata di passioni ardenti e patetiche,senza contare le decine di ragazze, semprepiù giovani, che entrano ed escono dal suoletto, soddisfacendo per qualche tempo lasua inesauribile brama di affetto, lascian-dolo poi invariabilmente solo a contempla-re il proprio ego ferito (“Non ho paura del-le donne difficili. Le scelgo apposta”).

Il crollo dell’Urss è la svolta della suaesistenza. Eduard però non è mai stato un“democratico”: nel 1989, mentre tutti salu-tavano la primavera dei popoli, ha prefe-rito scrivere un toccante testo sui piccoligesti d’amore che Elena e Nicolae Ceause-scu, mano nella mano, si scambiano nel ce-lebre filmato del loro processo-farsa segui-to dalla fucilazione. Tornato a Mosca, trovail paese demoralizzato e in balia degli spe-culatori. I caotici anni di Boris Eltsin, lamiseria, l’ascesa degli oligarchi, l’umilia-zione della grande potenza e delle sue glo-riose memorie gli appaiono una catastro-fe insopportabile e decide di buttarsi inpolitica. Nel 1994 fonda il giornale Li-monka (la granata) e il Partito nazional-bolscevico, all’estrema destra (o all’estre-ma sinistra?) del panorama russo: i “naz-bol” sono qualche centinaio di giovani, for-se un migliaio o due, e Limonov li guida inmanifestazioni patriottiche per le strade diMosca e San Pietroburgo; non sono i vecchinostalgici del comunismo, sono ragazzi in-quadrati secondo uno stile militare e punk,che manifestano tutta la loro avversionecontro i nuovi ricchi e contro la politica fi-lo occidentale del paese. Nella sua passio-ne per le cause perse, Limonov andrà an-che a combattere al fianco dei serbi, prima

a Vukovar poi a Sarajevo. Tutta quell’ideo-logia occidentale dell’esportazione dei di-ritti umani gli appare infatti come una rie-dizione del colonialismo d’antan: le stessebuone intenzioni, gli stessi imbrogli (eCarrère, alla faccia di BHL, commenta:“Questo argomento relativista non mi in-canta, ma non ho niente di solido da oppor-gli”).

Naturalmente è difficile immaginare unpersonaggio più irritante. Con le sue poseistrioniche, la sua scrittura perennementeesibizionista, le sue intemperanze politi-che che mescolano fascismo e comunismo,Limonov è guardato con fastidio da tuttal’opinione pubblica russa moderata e libe-rale. Del resto, come dare loro torto difronte a pagine in cui l’estetizzazione del-la guerra raggiunge vette insopportabili(“Siete mai andati in giro per una città incarro armato, assieme a giovani belve? Ilferro delle armi si infiamma sui corpi. No,non ci siete andati? Be’, allora siete dellemezze seghe, niente di più”)? Eppure Li-monov è uno di quei rari scrittori nelle cuipagine vibra un’intensa e autentica espe-rienza di vita e di pensiero. Anche per que-sto trova ascolto in Russia ben al di là del-la piccola cerchia dei suoi seguaci. E se-duce i lettori non certo in virtù di un’ideo-logia primitiva, ma mettendo a nudo il pro-prio cuore.

Negli anni di Putin, Limonka e il Parti-to dei naz-bol sono stati chiusi, ai sensi del-la legge sull’estremismo. Ora l’attività poli-tica di Edichka ha cambiato timbro, è di-ventata più “rispettabile”: insieme a GarryKasparov, è uno degli animatori di Strate-gia 31, il movimento che, il trentunesimogiorno del mese, organizza manifestazioniper la libertà di espressione a Mosca sot-to il monumento di Majakovskij e in altrecittà della Russia. In quelle occasioni, ca-pita che finisca un paio di giorni in cella,poi esce e ricomincia. E’ avversario di Pu-tin senza riserve, e vorrebbe sfidarlo alleprossime elezioni presidenziali. La cosa aCarrère pare bizzarra. In fin dei conti – di-ce lo scrittore francese (che, tra parentesi,ammira Putin come uomo di stato: ecco unintellò parigino che non indulge ai tritiluoghi comuni anti putiniani, chapeau) – idue hanno qualcosa in comune: avventu-rieri entrambi venuti dal nulla, condivido-no il culto della virilità e l’idea che il crol-lo dell’Urss sia stata la più grande cata-strofe geopolitica del Novecento. Ma nes-suno pretende da Limonov un’eccessivacoerenza ideologica e, a scanso di equivo-ci, Edichka ci ha lasciato uno dei più fero-ci ritratti dell’uomo del Cremlino (in italia-no nel volume “Russian attack”, pubblica-to da Salani nel 2010).

“Perché vuole scrivere un libro su dime?” aveva chiesto Limonov a Carrère.“Perché è una vita appassionante – avevarisposto – una vita romanzesca, pericolosa,una vita che ha preso il rischio di mesco-larsi con la storia”. E l’altro: “Sì, una vitadi merda”.

Del 1989 un suo testo suipiccoli gesti d’amore che Elenae Nicolae Ceausescu siscambiano durante il processo

Emmanuel Carrère ha appenascritto la sua biografia, “qualcosadi simile a ciò che Sartre avevafatto con Genet”

Non scrive che di sé. I suoiromanzi, tutti in prima persona,compongono un esuberante diariodella sua vita e dei suoi umori

Ha combattuto a fianco deiserbi nella ex Yugoslavia, deiseparatisti russi in Moldavia, degliabchazi nel Caucaso

Eduard Limonov a una manifestazione del Partito nazional-bolscevico a Mosca (foto Reuters)

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

L’ORIGLIATORE DEL VENTENNIOI rapporti riservati di prefetti e questori sugli insulti al Duce. Un catalogo di stupidità sbirresca

Duce Annoi”. C’era indubbiamente delgenio petroliniano, in “Marsiliani Val-

zanica Eugenio fu Alessandro. Antifasci-sta” – come in oggetto. Recita il rapportodel Prefetto del Carnaro, dicembre 1934,XII E. F., che al sunnominato “è stato inflit-to il provvedimento della diffida a normadell’art. 164 del Tu delle Leggi di Ps peravere nella sua qualità di muratore dellaImpresa ‘Compensum’ tracciato sulla fac-ciata della fabbrica stessa la seguenteiscrizione ‘Duce Annoi’ con evidente scopodi denaturare, denigrandolo, il motto fasci-sta ‘Duce, A noi’” – così che, invece del ro-mano e maschio avanzare, tutto si mutavain un deprecabile sbadigliare. E un veroenigma si trovò invece ad affrontare la Re-gia Questura di Viterbo, settembre 1942,XX E. F. (agli sgoccioli siamo). Dal rappor-to di S. E. il Prefetto avendo in oggetto“Mattioli Valentina di Giuseppe e di EgidiGiuseppina, nata a Viterbo il 28 marzo1911, interpretazione antifascista alla pa-rola Corelli”. E qui l’enigma – alla cui so-luzione collabora (e viene da evocare lacanzone della “Tosca” di Luigi Magni, “tre-mate lo stesso, cagatevi addosso”) “un fun-zionario della IX Zona dell’Ovra”. I fatti –essendo il rapporto di S. E. piuttosto lun-go e non meno ingarbugliato. Scena delcrimine, la scuola del quartiere Porta del-la Verità, dove “era stato notato ripetuta-mente scritto sui muri il nome Corelli”.Non immediatamente le volpi questurineavevano inteso il sovversivo progetto lega-to alla “scritta vergata con gesso bianco” –

così che “nessuno aveva fermata la pro-pria attenzione su di essa, avendo tutti ra-gione di ritenere che si trattasse del nomedi un alunno sul cui conto i compagni aves-sero motivo di scherzo”. E invece, colpo discena: “Il 10 corrente mese, però, il Fede-rale riferiva al Questore che detta parolaaveva un carattere politico perché scandi-ta nelle lettere che la compongono, venivaa significare ‘crepi-ormai-repentinamente-e-liberi-l’-Italia’, con evidente allusione alDuce”. A Bolzano, invece, dieci anni pri-ma. Un frate del locale convento dei Cap-puccini, “certo Garcoff Paolino”, poco cri-stianamente va a fare la spia ai fasci, “hariferito confidenzialmente all’Ufficio Poli-tico presso il Comando della 45a LegioneMvsn”, denunciando che il domestico delconvento, “Augscholl Luigi di Giuseppe edi Urthaler” (in oggetto), “per esprimere isuoi sentimenti di irriducibile avversioneall’Italia e alle Personalità dello Stato,aveva assegnato ai quattro maiali da lui al-levati nel convento i nomi seguenti: 1) Vit-torio Emanuele; 2) Principe Ereditario; 3)Mussolini; 4) Prefetto”. E dunque, “propo-sta di assegnazione al confino”, avanza ilPrefetto – giustamente offeso per l’accosta-mento suino. Il poveretto si difende, affer-mando tra l’altro di governare due maiali,anziché quattro. Smentito dal frate spione,“nel convento si trovano quattro maiali,non due”, col concorso degli sbirri locali,“circostanza quest’ultima accertata daagenti della locale R. Questura” – e biso-gna solo immaginarli, i poco volenterosigraduati, bussare al convento per verifica-re tanto l’esatta contabilità, quanto la pre-cisa identità delle povere bestie.

C’è del tragico e c’è del comico – e il co-mico persino a volte sul tragico prevale –in “Duce truce”, un intrigante libro appe-na uscito di Alberto Vacca (Castelvecchi,18 euro). Quasi un catalogo – della stupi-dità, verrebbe da dire. “Il fenomeno delladelazione, nel Ventennio fascista, pervasea fondo la società italiana e permise al Re-gime di controllare e reprimere ogni mani-festazione di dissenso politico, tramitel’apparato poliziesco dello Stato, costituitodalle questure, dall’Arma dei Carabinierie dall’Ovra”, scrive Vacca nella prefazione.E’ tutto un ribollire, in quei cinquemilarapporti, di “pregiomi informare”, “pre-giomi comunicare”, “pregiomi significare”(così, quale involontaria evocazione diTotò: “Lei mi significa?”), un vorticare dicapimanipoli, caporali (memorabile unoscontro riportato da S. E. il Prefetto di Reg-gio Emilia, ove uno “ebbe a dire che il gra-do di caporale era riservato ai ‘coglioni’”,un secondo che faceva rilevare che “ancheS. E. il Capo del Governo rivestiva il gradodi caporale”, l’altro che a rigor di logicaconclusione replicò dunque che “ANCHEMUSSOLINI ERA COGLIONE”, in maiu-scolo nel prefettizio rapporto: meglio chein un film di Mario Monicelli), militi, com-missari, agenti, regi carabinieri, questori,centurioni della Riserva della Milizia – di

di Stefano Di Michele

incursioni in trattorie, bettole, case priva-te, bordelli, officine, uffici. Strade, vicoli,piazze. E pure scuole e conventi, come si èvisto. E salumerie. La signora “BarbieriNatalina fu Angelo e di Fabiani Angela”ebbe deprecabili tentazioni. Dal rapportodi S. E. il Prefetto di Siena: “La donna inoggetto giorni fa trovandosi in una salume-ria mentre la proprietaria del negozio af-fettava del salame si permise di fare delleodiose e sboccate allusioni”. Queste, in so-stanza: “Vorrei affettare la fava a Mussoli-ni”.

Non meno odiosa e sboccata, diciamo,l’allusione che a Bologna nel 1932 – e sem-pre l’Eccellenza prefettizia declama e co-munica – il “Brusa Angelo di Sebastiano eBaroncini Antonia”, come segnalato dal“Commissario Capo di Ps di Imola”, e “inrelazione alla preannunciata visita di S. E.il Capo del Governo al Sommo Pontefice”.Disse il Brusa, nell’osteria di sua proprietàa Imola: “Domani Mussolini va a tirare unasega al Papa” – ma la faccenda molto s’in-garbugliò, avendo a testimoniare il came-rata “Sig. Falconi Francesco, SegretarioPolitico del Fascio di S. Patrizio” di averinteso dire invece: “Mussolini in divisa do-mani va a fare un bocchino al Papa”, men-tre il diretto interessato ebbe a significare,fornendo testimonianza di avventori e ca-meriera, di aver più patriotticamente com-mentato: “Il Papa non fa nemmeno unpompino al Duce”. E insomma, tra un tirao molla (quasi in senso letterale), “l’inci-

dente non ebbe seguito e i presenti finoro-no col bere in comune una bottiglia” – purse il Brusa in cella finì lo stesso, “in atte-sa delle determinazioni di codesto On.leMinistero”. Ora, a parte le più ovvie consi-derazioni – genere: a Mussolini “lo prende-rei a schiaffi”, “non sarebbe meglio che ta-gliaste le palle al Duce?”, “gli caverei gliocchi con la punta del coltello”, “quel bi-schero che non capisce una sega” (sempreQuello), “sono due teste di cazzo” (Quellopiù il Führer), “un burattino che si truccacon un’infinità di vestiti”, “mi mangerei lacoratella di Mussolini” – sono registratestorie che sfiorano a volte il dramma, mapiù spesso il surreale. Molto mise in so-spetto il Prefetto del Carnaro, che doveva

avere il suo bel da fare, uno scolaro di un-dici anni, “mentre trovavasi nella scuolaelementare di Borgomarina fu sorpreso adisegnare un teschio umano con sotto leiniziali M. B.”. Si allude? Certo che sì, se-condo S. E., dato che il bimbo e i suoi fra-telli vivono in ambienti “politicamentemalsani, trattandosi di famiglia allogena disentimenti slavofili”. E deplorevole episo-dio accadde pure presso la scuola elemen-tare nella frazione di Ospedalicchio, delComune di Bastìa Umbra. La maestra ha labella pensata di chiedere da chi era stataistituita l’Opera Nazionale Balilla. “L’alun-no Asciutto Gustavo di Aureli, anni 12, ri-spose: “’STO BECCAMORTO DI BENITOMUSSOLINI” (tutto in maiuscolo – saràper meraviglia, sarà per ostentata indigna-zione – nel rapporto di S. E. il Prefetto diPerugia). Pur se il babbo del pargolo, comeaccerta l’Arma dei Ccrr (Carabinieri reali),è di sicura fede, “è iscritto al Pnf dal no-vembre 1921”, praticamente un’antemar-cia, una la soluzione: “Quest’Ufficio riter-rebbe opportuno proporlo per il ricoveroin un Istituto di correzione”. Comunque, dipadre in figlio, una famiglia in decisa evo-luzione.

Parecchio operative e piuttosto arzille, aquanto pare, risultavano le puttane. Segna-la S. E. il Prefetto di Genova che una di es-se, “entrò nell’osteria di Via A. Volta 38 diGenova-Sestri, gestita da Sannazzaro Lui-gia”, e di chiacchiera in chiacchiera si la-mentò della sua condizione, “perché (dissetestualmente in dialetto genovese) ‘U l’èquel gundun (preservativo) di Mussolini’(…) Trattasi di prostituta di infimo rango,per la quale, come tante altre del suo li-vello, il turpiloquio è forma abituale diespressione…”. S. E. il collega di Firenzepregiosi (diciamo così, magari così avràdetto) significare che: “Il I corrente il Prof.S* A* di Giovanni, nato a C* (Trapani) e quiresidente, insegnante di educazione fisicapresso l’Onb, presentatosi alla locale R.Questura, denunziò che poco prima recato-si nella casa di tolleranza sita in questaVia delle Carrozze n. 3 si era trattenuto conla prostituta meglio in oggetto generalizza-ta, la quale con parole e frasi volgari, ave-va manifestato la sua avversione al Duce eal Fascismo lamentando le forti tasse cheera costretta a pagare (…) ed inveendo con-tro S. E. il Capo del Governo con le parole‘farabutto, mascalzone, ladro e defraudato-re dell’esistenza della povera gente’…”.Ammanettata fu, la povera bocca-di-rosaantimussoliniana – di suo, invece, risultaesemplare puttaniere e pure spia, l’illustreProf. dell’Onb. Ci provavano le prostitute

a volte a comportarsi da buone fasciste, mal’esito non risultò smagliante. S. E. il Pre-fetto di Venezia segnalò, nel marzo del1933: “La sera del corrente verso le ore22:45 il suindicato individuo si presentònella casa di tolleranza situata in S. Mar-co n. 1615, condotta da T* A* fu T* di anni39 da G* (Pavia). Dato lo stato evidente diubbriachezza in cui versava, la T* invitò ilF* ad uscire dalla casa, ma egli invece siassise su di una sedia e alle insistenze del-la donna rispose con le seguenti parole:‘Andè alla malora voialtre e Mussolini e elquadro che gavè appiccato al muro’…”. Ein effetti, il capoccione del Duce sul muroabbordellato figurava. “Sopraggiunse inquel momento un pattuglione di Agenti diPs…” – e va a sapere quale accurata in-chiesta (o quale impellente esigenza) liaveva condotti in massa al bordello: insom-ma, al solito, manette per il poveretto. Manon finisce qui: poteva mai stare il Ducein mezzo al casino (quello)?, si impensieri-rono gli sbirri. Sia mai: Duce era, mica te-nutario. “Non essendo decoroso che il qua-dro di S. E. il Capo del Governo fosse espo-sto nella casa di meretricio suindicata si èprovveduto che fosse immediatamente tol-to”.

A volte, era l’indole poetica a far scatta-re l’allarme, “alcuni versi satirici offensi-vi per le Alte Gerarchie del Regime” – co-me con gran spreco di maiuscole nota S. E.il Prefetto di Napoli proponendo il confi-no, “in attesa delle Superiori determina-zioni”, per tale Cacace Ignazio, impiegato,e tale Pernice Carlo, avvocato, persino tes-serato al Pnf, sorpresi con alcuni versi cheil verso appunto facevano a un immagina-rio discorso di Achille Starace: “Conprofonda emozione e con animo lieto / Viannunzio, o camerati, che il Duce ha fattoun peto / Un peto formidabile, unico, ultra-possente / Quanto di più assordante, quan-to di più fetente…”. E avanti così, in lodeal ducesco rimbombare, fino alla determi-nazione finale: “Questo del nuovo Imperoil nuovo inno sarà / E pel peto del Duce eiaeia alalà”. Soltanto diffidata da S. E. il Pre-fetto di Roma – del resto, poteva vantaredue fratelli maggiori iscritti al Partito, ecinque minori alla Gil – una donna trova-ta con un’ardita poesiola nel portafoglio,onestamente ben più feroce del fatal pe-to. Ecco il testo, in rapporto allegato: “Seallorché fu concepito il Duce / Rosa illu-minata da divina luce / avesse dato al fab-bro predappiano / anziché la fica, il dere-tano, / l’avrebbe avuto in culo solo lei / enon tutto il popolo italiano”. E fu denun-ciata da un suo coinquilino – e il Sig. Que-

store di Roma ne dà informazione – “Gatte-gna Anita, in Astrologo, di Israele e Emi-lia Di Porto”, la quale non solo “faceva riu-nire nella propria abitazione quindici oventi persone di razza ebraica, per ban-chettare fino a tarda ora e per ascoltare laradio di Londra”, ma con un’efficace battu-ta regolava tutti i conti aperti con i vari dit-tatori vaganti per l’Europa: “Ci vorrebbeche la vedova di Franco scrivesse a DonnaRachele Mussolini che suo marito è mortoal funerale di Hitler”.

Il problema di quelli addetti alla prote-zione sociale del Duce, era che il Duce sta-va appunto dappertutto. Sui manifesti, sul-le cartoline, sui giornali, sui calendari,santini vari, cinegiornali tutti, muri dellecase in buona parte – e busti, bassorilievi,capocce di diverso formato. Gesso, marmoe travertino. Carta e metallo e legname au-tarchico. Praticamente indifendibile, purcon larga disposizione di sbirri e spie, tan-ta grazia così largamente diffusa. La gran-dezza di rapporti e relazioni e telegrammi,e tutta nella scrittura degli autori – a vol-te quasi una gaddiana invenzione, a nonsaper con esattezza come trattare la que-stione. Illuminante il telegramma dei Ca-rabinieri di Termini Imerese, aprile 1943,a offesa arrecata al Dux aviatore. “19 cor-rente Termini Imerese – (Palermo) – loca-li Dopolavoro G. Lo Faso Via Mazzini, veni-va rinvenuto calendario recante effigieDUCE tenuta volo deturpata da baffi etbarba nonché da corna tipo cervo fatti ma-

tita. Il viso presenta inoltre taglio sensoverticale. Indagasi per scoprire autore”. Ei colleghi Ccrr di Viterbo, sempre su un do-polavoro: “Il 5 corrente, verso le ore 14, incontrada ‘Montecalvello’, territorio dellapopolosa frazione di Grotte S. Stefano, co-mune di Viterbo, il manovale ferroviarioCerci Luigi, di anni 17, trovandosi in quelDopolavoro, asportava, con una lametta dirasoio ‘Gilett’ (Gilette), gli occhi da una ef-fige del Duce (cm. 98x70), a stampa, portan-te in basso la dicitura: ‘Saluto al Duce’, ap-pesa a una parete del ritrovo (…) Il respon-sabile, associato alle locali Carceri Giudi-ziarie, è stato messo a disposizione dellaRegia Questura di Viterbo”. La quale Que-stura, a sua volta, mica stava con le mani in

mano – seppur col braccio teso, romana-mente salutando. Si pregia di significare ilSig. Questore, appunto, di aver dato pron-ta disposizione “affinché sia perlustratatutta la Via Cassia fino a Roma”, a cercarscritte disfattiste come quella rinvenuta “a50 metri circa dal bivio pel quale si entrain Acquapendente venendo da S. LorenzoNuovo”: nientemeno “Mussolini capo bir-baccione”, che fa quasi tenerezza, rispettoa molte altre. Comunque, manipoli di ap-puntati lungo tutta la statale, a ravanaretra fratte e svincoli alla ricerca di procla-mi disfattisti.

Era tutto un correre, uno spiare, un ri-ferire. Al cinema Moderno, a Lecce, “men-tre dal Film LUCE veniva riprodotto un di-scorso di S. E. il Capo del Governo, si udi-va un rumore sconcio, emesso dalla boc-ca”. La sacrale pernacchia, per capirsi – atutto schermo, a tutto scherno. A Nuoro“nell’abitato di Lotzorai, frazione di Tor-tolì, fu imbrattata con un unico lancio diuna manata di sterco di bue la linea faccia-le sinistra della testa del Duce stampiglia-ta sul muro esterno”. A Via Nazionale, aRoma, sputano su un manifesto dello stes-so – se ne accorse un passante, “percepì ilrumore caratteristico prodotto dal getto diuno sputo” – però! che orecchio – interven-ne “la Guardia di Ps Pistrin Armando, ad-detto al Reparto Ciclisti e Motociclisti”,che ebbe a constatare “che il manifesto incorrispondenza del mento e fin sul risvol-to della giacca della immagine era imbrat-tato da detta sostanza”. A Bolzano i localiCarabinieri reali indagano su uno sconcio:a una foto apparsa sul Corriere della Se-ra, “erano stati oscurati con matita bleu gli

occhi e la bocca del DUCE; con forbice,poi, era stata tagliata – a forma romboida-le – la parte corrispondente agli organi ge-nitali e sotto la vignetta era stata scritta,pure con matita bleu a carattere stampa-tello, la parola porco”. Ad Aosta, addirittu-ra, “alcuni genieri non potuti ancora iden-tificare, appartenenti al X Reparto mistoGenio di stanza a S. Desiderio Terme, di-pendenti dal I Reggimento Genio di Torinoe in forza al X Settore di Copertura G. a F.di Aosta (guarda tu le complicazioni lessi-cali, ndr), staccarono dalla parete del pre-detto albergo e infransero una targa in ges-so raffigurante l’Eccellenza il Capo del Go-verno”. Ben più misterioso l’accadimentoin una trattoria di Savignano, vicino Cu-neo, come l’Arma informa – e “riservomi”.Dunque, “da comitiva otto giovani che sta-va nel locale veniva lanciato tozzo panequadro Duce, frantumandone vetro” – eviene da chiedersi (e verrebbe da indaga-re) piuttosto a quanto risaliva il pane chesmerciavano lì alla trattoria Italia.

Molto meglio i baffi e le corna fatti colcarbone ai ritratti del Duce, che con diver-so materiale – come accadde a Tricesimo,vicino Udine, dove un’oppositore di fortetempra e fortissimo stomaco, “munito diun barattolo che aveva riempito di stercoed orina e di un pennello (…) imbrattò conquella materia immonda, tutti gli stampia colore nero impressi sui muri, sulle co-lonne e portici che vedeva durante il suocammino, riproducenti l’effigie di S. E. ilCapo del Governo”. L’Arma di Catania se-gnala invece che “il giovane fascista Par-rinello Francesco Antonino”, pur di saldafede, “sfregiava, per spavalderia, l’Effigedi S. E. Starace e del Capo del Governo”apparse su una rivista. Perciò, rapportosul disdicevole episodio ai danni “delledue prefate Eccellenze”. C’è molto da ri-dere – capolavori di comicità, questi reso-conti di piccola sbirreria: così ossessiona-tamente dettagliati, da far involontaria-mente trapelare sempre il comico che in-cartava il dramma nazionale. A Firenze,“negli uffici della Direzione dei TramwaysFiorentini”, commentava l’impiegato Cap-pelli Ugo “il discorso tenuto da S. E. il Ca-po del Governo all’Assemblea Quinquen-nale del Regime, e riferendosi special-mente alla parte riguardante il progressodemografico, traeva motivo per richiama-re i colleghi scapoli” – da che mondo èmondo, in qualunque ufficio si aggiranoscassacazzi del genere. Il Cappelli si rivol-ge a Berretti Ubaldo, “nel chiedergli seaveva rilevato come erano stati definitinel discorso stesso coloro che non voglio-no figli”. Non lo aveva rilevato – pare. Sene era bellamente fregato. Il Cappelli:“Legga e veda che sono chiamati idioti”.Il Berretti: “Idiota sarà lui”. Poi, interro-gato dagli sbirri lestamente avvisati, pro-verà a spiegare di aver detto “Idiota saràlei”, riferendosi al collega d’ufficio. Co-munque sia – lo scapolo Berretti avrebbeavuto ragione in entrambi i casi.

“Vorrei affettare la fava aMussolini”, lo scontro a Imolatra “sega” e “pompino”, i genitalidel Duce ritagliati dal Corriere

Vent’anni di surreali indagini,dalla Regia Questura di Viterboche indaga sulla parola “Corelli”ai maiali del convento di Bolzano

“Con profonda emozione e conanimo lieto / vi annunzio, ocamerati, che il Duce ha fatto unpeto...”. “Duce, annoi!”

La pernacchia al cinema, lecorna di cervo sul manifesto.L’opposizione delle meretrici e ilquadro di S. E. nel bordello

Un manifesto, affisso a Como durante il regime fascista, con le regole che i pedoni devono osservare per la strada (foto Archivi Alinari)

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG IV IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

LE VOCI DEGLI ALTRILode ai doppiatori, clandestini di cinema e tv che escono dall’ombra

Come i bimbi che salivano sul trespolo per doppiare la sorella di E.T.

La vita segreta sotto al pavimento: è ilsottotitolo di un film di animazione

giapponese uscito nelle sale (“Arietty”), maè anche la definizione perfetta per chi la-vora nel doppiaggio (pensiero assoluta-mente partisan di cronista proveniente dafamiglia che c’è dentro fino al collo). I Sim-pson in America sono stati “salvati dai dop-piatori” dopo essere stati “minacciati daidoppiatori”, hanno scritto i giornali citan-do le orde di fan angosciati dalla possibilemorte prematura degli omini gialli, e qua-si c’è da dare ragione ai doppiatori quan-do dicono che al doppiaggio si fa caso solose qualcuno dice “basta”. Nel caso Sim-pson c’era aria di rottura con la casa pro-duttrice Fox, roba da fermare per semprela serie di cartoni in onda da ventitré sta-gioni. Mesi di patema d’animo per Homere Burt, e un accordo sul filo del baratro cheprevede una riduzione salariale in cambiodi una percentuale sulla vendita dei gadgete dei dvd. Anche in Italia, a un certo pun-to, il disagio delle voci fino ad allora anoni-me era emerso alla superficie – 1998, obiet-tivo contratto nazionale, doppiatori a brac-cia conserte, dialoghisti fermi, film di Na-tale in bilico (“o si trova una soluzione o glispettatori dovranno cominciare a impararel’inglese”, dicevano i comunicati). Ma ogginon è più così vero che i doppiatori popo-lino un mondo d’ombra, e anzi il doppiag-gio è diventato quasi di moda – scuole (escuole-bufala), festival e siti di memorabi-lia, divismo per intenditori e sempre più

gente che va dai doppiatori a chiedere co-me si fa a diventare doppiatori, ed è inuti-le dire “studiate recitazione, il doppiatoreè prima di tutto un attore”, ché gli aspiran-ti doppiatori spesso pensano il contrario.Complice il gemellaggio con il Festival delcinema di Roma attualmente in corso, ilGran premio internazionale del doppiaggiodà in questi giorni un tappeto rosso a dop-piatori, adattatori, direttori e tecnici, peruna volta alla ribalta con la propria faccia.Si sfila davanti al pubblico come agli Oscar,si fanno scommesse sulle nomination, ci sifa intervistare al Villaggio del cinema, ci siattarda nel bookshop per il “dibbbattito”,come direbbe Nanni Moretti (e il primo no-vembre, all’Auditorium, i doppiatori saran-no protagonisti di un “galà”, con proclama-zione dei vincitori nella varie categorie,dal doppiatore protagonista al non prota-gonista, dal tecnico al direttore all’adatta-tore).

Vero è che, purtroppo, al netto dei sud-detti momenti di successo “in chiaro”, e alnetto dei rari reportage, dei blog dedicatie degli studi di cultori (da Antonio Gennaa Gerardo Di Cola), di doppiaggio si parlasoprattutto se qualcuno fa un errore (vocie dialoghi smaccatamente sbagliati, “ma lospettatore casuale purtroppo non se ne ac-corge”, dicono i puristi del mestiere, preoc-cupati per l’andazzo di prezzi e tempi chespesso non favoriscono il doppiaggio per-fetto). Vero è pure che, fuori dall’universodegli addetti, al doppiaggio di solito non sifa caso se tutto va bene (versione italianache rispetta o addirittura migliora l’origi-nale). E’ il bello e il brutto del doppiaggio:quello che è stato fatto deve sparire per farvivere al meglio quello che in origine è sta-to pensato (dal regista, dallo sceneggiatore,dall’attore). C’è un cambio di passo, ché og-gi non tutti, all’udire la parola “doppiag-gio”, dicono in automatico, non senza notadi disprezzo, che “i film andrebbero visti inlingua originale” – cosa che di solito acca-deva fino a pochissimo tempo fa. Forse per-ché ora il doppiatore si tira sempre piùspesso fuori dalla condizione di abitantedel “mondo segreto sotto il pavimento”,vuoi perché ha recitato con la sua faccia alcinema (Francesco Pannofino), vuoi perchéha presentato uno show (Pino Insegno),vuoi perché ha doppiato Russell Crowe(Luca Ward), vuoi perché fa parte di una fa-miglia che fa dinastia (gli Izzo) vuoi perchéè entrato nel mito come chi ha doppiato(Cristiana Lionello, voce di Sharon Stone),vuoi perché fa mito a sé (Oreste Lionello)vuoi perché ha un suo sito web molto clic-cato (Alessandro Rossi). Ma è un emergerein superficie ancora intermittente. Per ilresto del tempo, il doppiatore continua ainserirsi, non visto, nella vita del mondo vi-sibile fatto dai volti degli altri (le voci de-gli altri “sono affidate a militi ignoti”, so-leva dire un doppiatore autoironico).

In Spagna dev’essere diverso, pensavaqualche doppiatore a fine anni Ottanta, im-maginando una Madrid dove i suoi omolo-ghi prestatori di voce non erano costretti,

di Marianna Rizzini

ogni volta, a spiegare il perché e il percomedel mestiere a interlocutori vagamente pre-venuti e comunque sostenitori a oltranzadel cinema in lingua originale. Era il 1988e in Spagna Pedro Almodóvar, non ancorastar globale, metteva al centro del suo“Donne sull’orlo di una crisi di nervi”un’attrice-doppiatrice fidanzata con un col-lega. Il doppiaggio, nel film, pareva un la-voro normale e non così oscuro, quasi comeandare in ufficio, e i frequentatori delle sa-le di doppiaggio romane tirarono allora unsospiro di sollievo: finalmente il mondo sachi siamo, pensavano guardando la facciameravigliosamente perplessa di CarmenMaura – formidabile nel ruolo della dop-piatrice lasciata dal compagno con un mes-saggio in segreteria telefonica e assediatada amiche e nemiche più disastrate di lei.

Il doppiatore come protagonista sulloschermo: era un ossimoro e anche un ritrat-to per difetto, ché “il dare voce in assenzadi corpo” vuol dire essere attori due volte(lo spiegano, con parole sempre diverse macon la stessa certezza in mente, i doppiato-ri interpellati dalla doppiatrice e produt-trice Ilaria Stagni nel documentario “L’ar-te del doppiaggio”, uscito nel 2009. Il dop-piaggio che precede e segue il palco o il set,che lo affianca e lo migliora: Alberto Sor-di iniziò doppiando l’Oliver Hardy di Ollioe trasformando la voce del comico da teno-re a basso. Vittorio De Sica parlava di dop-piaggio come di una “palestra”. MarlonBrando, come dice Luca Ward in un’inter-vista a TV7, ci guadagnava a essere doppia-to dal “grande Peppino Rinaldi”. RenatoIzzo, in controtendenza con chi vede nellagrande prova d’attore sul palco l’anticame-ra del buon doppiaggio, diceva che “attorisi nasce e doppiatori si diventa, e non è fa-cile”. E’ come “lavorare con la cera”, dicePino Colizzi nell’intervista a Ilaria Stagni: aseconda del volto la tua voce deve prende-re “questa o quella forma”.

Come con la cera, sì, ma vallo a spiega-

re, poi, il mestiere. Il papà degli altri face-va l’ingegnere, il farmacista, l’architetto, ilvenditore di jeans. La mamma degli altrifaceva la professoressa, il funzionario, lacassiera nella salumeria avita, la casalinga,la guida turistica. Era più o meno il 1980,la scuola elementare era agli albori e c’e-ra chi non sapeva bene come spiegare ainuovi compagni che lavoro facessero i pro-pri genitori. “Doppiaggio”, si dichiaravacon baldanza, non prevedendo che il com-pagno avrebbe subito detto: “E che lavoroè?”. “Doppiaggio”. Voleva dire: papà, che faanche l’attore in tournée, spesso dà la vo-ce ad altri attori a Roma. Voleva dire: mam-ma sta seduta a un tavolo pieno di pulsan-ti, dà indicazioni ai doppiatori da un mi-crofono stop-and-go e li guarda da un vetroche sta dietro a una porta imbottita, sor-montata da una scritta rossa lampeggiantecome quelle delle radio. “Stanno inciden-do, se entri in sala devi smettere di respira-re”, aveva detto scherzando un colleghidell’uno o dell’altro genitore, ma lo scher-zo non era autoevidente al piccolo intruso,ché a respirare senza fare sbuffi rilevabiliin registrazione ancora ancora si riusciva,e però si doveva prendere atto che qualsia-si scartocciamento di caramella o cambiodi posizione sul divano in pelle provocava-no il famigerato “brusio”. “Rifacciamola”,diceva allora qualcuno al di là dal vetro, edecco i doppiatori costretti a ripetere la sce-na per colpa dell’involontario battito d’ali– motivo per cui il piccolo spettatore, perevitare rogne, nove volte su dieci preferivarestare al di qua della porta, dove i rumo-ri del mondo viaggiavano senza amplifica-zione e senza provocare rifacimenti. Loro,i doppiatori, con gli occhiali sul naso e ipiedi su un trespolo, parevano compagni discuola – e invece era come un set e peggioche sul set: un gran lavoraccio, una grandeprova, grandi battutacce, a volte una noiamortale.

Il papà degli altri faceva l’ingegnere eagli altri non capitava di salire su uno sga-bello al buio, davanti a un leggio, per pro-vare quello che la maggior parte dei figlidi doppiatore parevano entusiasti di prova-re: provino per voci di bambini nei film. “E’un lavoretto facile”, dicevano gli adulti,“un’ora, ti diverti e metti via qualche sol-dino per quando sei grande”. Pareva facile:dire “ciao papà” mentre la bimba bionda

sullo schermo diceva “hello dad”. Ma c’eraquell’incomprensibile meccanismo chia-mato “sinc”: andare in sincronia, iniziarea parlare nel momento esatto in cui parla-va la biondina boccoluta. Perché fino a“ciao papà” ci si arrivava, ma poi c’eranoaltre cose da dire, velocissimi, e se si per-deva il sinc dall’altra parte del vetro lo ve-devano subito e bisognava rifare tutto dac-capo. “Non preoccuparti, arriva l’assisten-te e ti dà un pizzicotto quando devi parla-re”, era la rassicurazione data ai candida-ti durante il provino per la bambina inter-pretata da Drew Barrymore in quello cheallora appariva un film avveniristico con lefeste di Halloween, le pizze recapitate a do-micilio, le bici volanti e l’extraterrestrebuono (poi si scoprì che era E.T.). Qualchegiovane aspirante doppiatore, già esperto,indossava anche la cuffia per sentire l’in-glese originale della piccola Barrymore.C’erano (ed erano molti) bambini a loroagio nel recepire il pizzicotto che dava il“la”, a loro agio nel riprodurre riso e pian-to dei piccoli americani sullo schermo, a lo-ro agio nel diventare bravi in quello che,lo si capiva, per loro era già una futura pro-fessione, come nella bottega artigiana do-ve l’arte passa dai padri ai figli (non senzarotture di scatole). A Cristiana Lionello, daadolescente, toccò in sorte di ripetere bencinquantesei volte una scena di “Manhat-tan” per volere di suo padre Oreste, dop-piatore di Woody e in quel momento diret-tore (d’altronde Lionello si divertiva a inse-guire i piccoli frequentatori di sale di dop-piaggio facendo la voce di Gatto Silvestro –e quelli correvano spaventati e divertiti co-me davanti a un clown). Poi c’erano i bam-bini che di “sinc” e risate recitate non ca-pivano granché, non ci mettevano la testa,si facevano prendere da rabbia o timidez-za e alla fine si scocciavano non poco a ri-petere le battute. Eppure in quel “doppia-no” riferito al mestiere dei genitori si erariversato un po’ di orgoglio da pioniere (unmestiere che nessuno conosce: pareva robaavventurosa).

Tempo dieci anni, e tutto cambia – il dop-piaggio negli anni Novanta cominciava adavere la sua ribalta, e ai figli di doppiatoricapitavano cose strane. Ci fu l’episodio del-la signora che al mare, alla cassa, mentreil genitore di nome Oreste (Rizzini) ordina-va una birra con focaccia, si mise a chiede-

re con insistenza “ma lei ha doppiato il pre-te di ‘Uccelli di Rovo’?”. Succedeva poi chele compagne di classe volessero risentire altelefono la voce del Michael Douglas sexsymbol e che l’amico intellò con velleitàgiornalistiche pretendesse di interrogare ilgenitore sull’“evento vocale” rappresenta-to dal suo doppiaggio di Gerard Depardieunel film “Cyrano de Bergerac” (a quel pun-to capitava che il genitore doppiatore bur-lone gli dicesse che preferiva essere inter-vistato per l’orrido Eric Forrester di“Beautiful”). Tutti i genitori-doppiatori, inverità, chiamati in causa dagli amici dei fi-gli, non si sottraevano – e qualche anno faIlaria Stagni, parlando della sua infanziacon due guru del doppiaggio, raccontava diessere stata cresciuta da una mamma chela sera, invece delle favole, le leggeva “So-

gno di una notte di mezz’estate” “facendotutte le vocine”. La vendetta, per il genito-re doppiatore trattato da juke-box (“ci faiquesto? ci fai quello?”) arrivò molti annidopo quando gli riuscì di essere ubiquo(aveva dato voce nel giro di due giorni siaa George W. Bush sia a Bin Laden in duespeciali giornalistici post 11 settembre.“Non era tuo padre, Bush?”, “Ma che dici,suo padre era Bin Laden”, commentavanoi colleghi in redazione. E il doppiatore fi-nalmente poteva spiegare con i fatti quel-lo che alla gente non entrava in testa: la vo-ce data all’attore non era la “sua” voce ditutti i giorni, ma voce studiata, pensata e re-citata.

Sottotraccia, è negli anni Novanta che ildoppiaggio diventa a suo modo “cult”. Era-no ormai lontani gli esordi (le prime saledi doppiaggio nella mitica “Fonoroma” de-gli anni Trenta) e ci si avvicinava al pano-rama di oggi (decine di società: tra le altrela Sefit-Cdc, Cvd, Cinedoppiaggi, Pumai-sdue, Multimedia network, Bibi.it, S.a.s.). Ildivismo (di nicchia) si consolidava, e Meli-na Martello, bionda ed elegante doppiatri-ce di grandi attrici (tra le altre Diane Kea-

ton, Kathleen Turner, Goldie Hawn e Char-lotte Rampling), quasi quasi otteneva, nel-l’ambiente, una piccola fama para-hol-lywoodiana. I fan iniziavano a raccoglier-si in gruppo (e nel 2010 si è appreso constupore che un manipolo di fan del film“Ghostbusters”, datato 1984, da anni rendeperiodicamente omaggio ai doppiatori ita-liani degli acchiappafantasmi con serate atema, simulazioni, video amarcord e inter-venti di esperti).

Agli esordi, invece, i doppiatori erano at-tori conosciuti e prestati a quella nuova di-sciplina – doppiaggio artigiano, non anco-ra arte – nata in Italia attorno al 1930, an-no di arrivo dei primi film sonori, di diffi-coltà tecniche e di opposizione politica (ilfascismo non vedeva di buon occhio le pel-licole straniere e la perdita di terreno del-l’italiano rispetto agli idiomi d’oltralpe ed’oltreoceano). Si sapeva già che cos’era ildoppiaggio, anche se fino ad allora l’indu-stria americana aveva girato più versionidei film – una inglese, una francese, unaitaliana – per poi piazzarli sul mercato eu-ropeo (agli albori di “Stanlio e Ollio”, peresempio, Stan Laurel e Oliver Hardy si au-toreplicavano in italiano). Le major ameri-cane di allora – Paramount, Mgm, Fox – cer-cavano soluzioni meno dispendiose delletrasferte degli attori italiani a Joinville, se-de di un importante stabilimento di produ-zione di versioni internazionali dove si fa-cevano i nomi di Tina Lattanzi, di PaoloStoppa, di Amilcare Pettinelli e della pic-cola Miranda Bonansea (voce italiana diShirley Temple, poi ridoppiata da IlariaStagni ragazzina).

Ma è verso il 1980, un po’ per l’avventodelle tv commerciali che aprivano nuovicampi (i telefilm), un po’ per slancio di al-cuni “guru” della scena romana, che il dop-piaggio si rinnova. Si parlava, allora, di unpaio di mostri sacri del mestiere, formida-bili talent scout. Si parlava dell’arte deldoppiaggio – dai dialoghi alla direzione –insegnata da Fede Arnaud. Un personaggioche nei racconti appariva mitologico. Si sa-peva poco del suo passato remoto, forseperché, si capì poi, non era facile, alla finedel 1979, raccontare un passato come il suo.Fede Arnaud era nata nel 1921, aveva vis-suto i suoi primi vent’anni sotto il fascismo,ed era stata, prima della guerra, aiuto re-gista e responsabile del settore sportivofemminile all’università. In guerra avevasoccorso i feriti durante il bombardamen-to di San Lorenzo, non aveva cambiatofronte, era andata in montagna nel ’44, co-me raccontano rare cronache, e si era fat-ta catturare per trattare con un capo parti-giano, suo collaboratore su un set primadella guerra, il rilascio di quattro prigio-nieri fascisti. Poi Fede Arnaud era statauna giovanissima donna comandante tra iperdenti (a Salò). Personaggio di grande ca-risma nato in anni difficili, Fede Arnaudera per tutti la Fede Arnaud del Dopoguer-ra, quella del talento tra set e moviole: ami-ca di Cesare Zavattini e Gino Sensani, di-rettrice di produzione, aiuto-regista e sce-neggiatrice, dialoghista e direttrice deidoppiatori di Clark Gable, William Holdene Gary Cooper, “intransigente e generosa”(così disse di lei la doppiatrice RosalbaOletta), “rigorosa e capace di slanci inatte-si” (così la definivano i colleghi più giova-ni). “Fede è stata una maestra che ha fattodel doppiaggio un’arte e a me ha insegna-to tutto”, ha detto Ilaria Stagni in un’inter-vista a Patrizio Longo, e di “Fede”, così lachiamano nelle sale di doppiaggio, senzacognome come i veri miti, tutti ricordanol’incredibile genialità da direttore (film piùcitati degli ultimi due decenni di carriera:“Easy rider”, “Amadeus”, “E.T”, L’attimofuggente”, “Goodmorning Vietnam”,“Round midnight”, “Harry ti presento Sal-ly”, “Il colore viola”.

Resta, nella memoria dei doppiatori ita-liani, la traccia di un percorso collettivoche scorre parallelo alla vita ufficiale delcinema: i primi esperimenti Nell’estate del1932 (sul suo sito Alessandro Rossi riportale parole di Franco Schirato, direttore ar-tistico della Fotovox: “Si lavorava al buio,senza nessuna guida sonora. Occorrevanomemoria pronta, riflessi immediati, dispo-sizione al ritmo…”). Poi le prove del secon-do Dopoguerra (dalle performance di Emi-lio Cigoli, voce di Clark Gable in “Via colVento”, di Gregory Peck e di Humphrey Bo-gart, a quelle di Cesare Barbetti, voce diRobert Redford). Poi il boom dei doppiato-ri anni Settanta-Ottanta (tra cui FerruccioAmendola, voce di Robert De Niro). E for-se è un bene che nessun tappeto rosso rie-sca a togliere al doppiatore la sua ariaclandestina.

I primi esperimenti nell’estate1932: “Si lavorava al buio, senzaguida sonora, occorrevano riflessiimmediati, ritmo e memoria”

Al Festival del cinema diRoma, con il Gran premio e ilGalà, tappeto rosso anche per chirecita lontano dal set

Alberto Sordi iniziò doppiandoOllio. E Marlon Brando ciguadagnava quando a parlare eraPeppino Rinaldi

I ricordi “partisan” del cronistacon famiglia informata dei fatti ele traversie di Cristiana Lionello“diretta” da suo padre

Luca Ward: l’attore ha doppiato fra gli altri Russell Crowe, Keanu Reeves, Pierce Brosnan Ilaria Stagni, voce italiana di Scarlett Johansson, Winona Ryder, Jennifer Lopez

Cristiana Lionello. Sharon Stone, Cate Blanchett e Melanie Griffith tra le attrici che doppia

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG V IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

IL QUALUNQUISTA INTELLIGENTEChecco Zalone sa ridere anche di Saviano. I maestrini provano a stroncarlo ma non ci riescono

Partiamo senza girarci intorno. Dall’imi-tazione di Roberto Saviano. Viviamo

nel paese del “non l’ho visto ma ne parlo,te lo spiego, quasi quasi ci scrivo su un bel-l’editoriale” (ultimo caso, le psicologheMaria Rita Parsi e Silvia Vegetti Finzi in-terpellate su “Quando la notte”, il film diCristina Comencini vietato ai minori di 14anni: tutte e tre schierate contro la censu-ra a prescindere; nel frattempo i censori –al cospetto di così autorevoli pensatrici –ci hanno ripensato). Quindi in materia giàesiste un ricco catalogo di opinioni orec-chiate. Chi ha sentito dire che Checco Za-lone dopo Jovanotti e Giovanni Allevi stapreparando uno sketch su Saviano storceil naso per leso martirio e leso impegno,poi attende il ritorno di Serena Dandinisul divano-format (e si ostina a chiamarlo“programma di satira”, che lo dovrebbepassare la mutua… oops! volevamo dire ilservizio pubblico). Chi non ha intenzione

di guardare Checco Zalone né oggi né mai,né a teatro né in tv, approva la scelta e an-zi te la spiega con parole sue (perfino peg-gio del caso precedente, mette voglia diusare il metodo zanzaresco di GiuseppeCruciani: contraddirli anche se dicono lastessa cosa che hai detto tu cinque minutiprima). Chi non riesce neppure a sopporta-re l’idea di un’accoppiata Zalone-Saviano,prima segnala la circostanza come se fos-se roba di tutti i giorni – come se l’Italiafosse diventata un paese di irriverenti, ol-tre che di poeti, santi, precari e pensiona-ti – poi cambia argomento e fa a brandellilo spettacolo. Intitolato, con un colpo di ge-nio: Resto Umile World Tour.

Troppe parolacce, perdio. E però avetesentito gli applausi? In platea sanno per-fino le parole delle canzoni, cantano in co-ro “Gli uomini sessuali” (ci saranno gliestremi per un’accusa di omofobia? infor-marsi presso l’ArciGay). Checco Zalone dasolo riempie i Palasport e l’Arena di Vero-na. A Milano ha fatto il tutto esaurito perdue serate. A Bari sono impazziti (per for-za, è nato a Capurso, erano tutti parenti eparenti dei parenti, fino al settimo grado).A Firenze pure, però, si tenevano la pan-cia dal gran ridere: e allora come la met-tiamo?

“Il pubblico e la critica civettuola”, co-me scrive Andrea Scanzi sul Fatto Quoti-diano, non bastano a incassare con il film“Che bella giornata” quasi quanto “La vi-ta è bella” di Roberto Benigni, classifican-dosi appena dopo il “Titanic” di James Ca-meron. I francesi avrebbero fatto a Chec-co Zalone e al regista Gennaro Nunzianteun monumento (come lo hanno fatto aDany Boon per “Bienvenue chez les Ch’-tis”). Da noi, un bel po’ di sopraccigli al-zati, anche da parte degli addetti ai lavo-ri che distribuiscono Nastri d’argento oDavid di Donatello. E dei critici che guar-dando “Cado dalle nubi” dicono di avere

riso solo una volta in due ore. Tranne poiconvertirsi di botto al secondo film, te-mendo il ripetersi della sindrome Totò (eora non è più come una volta, che bisognafrugare negli archivi polverosi: tutte le no-stre sciocchezze sono a portata di clic suInternet).

Andrea Scanzi, sempre lui, in qualità dicritico non civettuolo accusa Checco Zalo-ne di “volgarità didascalica” (vorrà dire“volgarità elementare”?) e di essersi gua-dagnato l’etichetta di comico scorrettosbertucciando gli “intoccabili” Nichi Ven-dola e Roberto Saviano. Non una parolasulla parodia: fa ridere? fa sbadigliare?scortica? accarezza? lusinga? (o forse biso-gna consultarsi con la corrente del Pd diriferimento per esprimere un’opinione?).Basta avere osato – peraltro mettere insie-me i due non rende un gran servizio a Ro-berto Saviano, che invoca l’ordine, il rigo-re e le manette molto più spesso di quan-to faccia il compagno e poeta Nichi Ven-dola – per suscitare disapprovazione.“Compagni non rispondete alle provoca-zioni” si diceva una volta, nascondendo laspranga nel giubbotto.

Tocca ripetersi, quindi. Spiegano i teo-rici – e senza i teorici ci saremmo arriva-ti lo stesso – che il grado zero della comi-

di Mariarosa Mancuso

cità coincide con il malcapitato che scivo-la sulla buccia di banana. Una piccolasciagura ma pur sempre una sciagura, c’èil rischio di rompersi l’osso del collo.Quindi per definizione la comicità non ri-spetta nulla: non l’impegno civile, non lalotta contro la camorra, non la vita gramadi chi vive sotto scorta, non le minoranzeetniche, non le femmine che sono l’altrametà del cielo, neppure le divinità chestanno lassù (nessuna esclusa, giusto pertogliere di mezzo l’equivoco: “Io offendo latua, che sei per la libertà di parola; tu nonoffendi la mia, che sono per il taglio del-la mano”). Non è mai garbata, tranne incerti film italiani che non fanno ridere, eche bisogna chiamar commedie sennò ilproduttore e gli attori si seccano. Dovreb-be bastare, ma c’è dell’altro. Parecchio al-tro: Checco Zalone è troppo intelligenteper mirare alla persona di Roberto Savia-no. Mira – con precisione da cecchino – allinguaggio di Saviano, in particolare alsuo linguaggio televisivo, più in particola-re ancora al suo stile “Vieni via con me”.

Mira alle gigantografie che fan da sfon-do, al tormentone “perché vi dico que-sto?”, a quel tono serioso da paladino del-

le giuste cause televisive (dopo che stre-nuamente Fabio Fazio ha combattuto perandare in onda assieme a te, non sono tol-lerate leggerezze di sorta). Mira alla trap-pola delle “preghiere esaudite” – “si ver-sano più lacrime per le preghiere esaudi-te che per quelle respinte”, ricordava Tru-man Capote citando Santa Teresa d’Avila).Saviano ha avuto la celebrità che da giova-ne reporter non osava neppur sognare, manon una vita normale da trentenne e ilsuccesso da godere come se lo gode PaoloGiordano (qualche volta lo si potrebbe ri-cordare, e magari impegnare Saviano inconversazioni letterarie, senza partiresempre dalla camorra per arrivare alla ca-morra). Mira alle paginate che Repubbli-ca mette a disposizione di Saviano (con ilnome agente che accanto alla firma ricor-da la proprietà letteraria). E pazienza seogni tanto – è accaduto nel caso di Nico-lai Lilin – capita di fare l’elogio dell’edu-cazione criminale.

La gigantografia della vittima o del col-pevole sul muro, il commento dell’espertoin studio, l’annuncio “ora ascoltiamo l’in-tercettazione” sono un format. Consuntoma sempre format, e come tale suscettibi-

le di satira. Non c’entrano niente con lapersona, i suoi guai, le conversazioni dascortato a scortato con Salman Rushdie,nei saloni dove si assegna il premio Nobel.Dovrebbe essere chiaro, anzi non ci do-vrebbe neppure essere bisogno di spiegar-lo. Purtroppo l’unico bipolarismo riuscitoin questo paese riguarda la satira: nel sen-so che ognuno fa battute sulla parte poli-ticamente avversa, e siamo a posto così(tanto l’Europa su questo non ha da ridire).

La parodia di Roberto Saviano (lascia-mo le imitazioni ai comici di meno talen-to) è tra i momenti sublimi dello spettaco-lo Resto Umile World Tour, assieme allosberleffo canterino a Don Verzé (sgridatoal telefono da Berlusconi, perché tra tan-te ricerche non ce n’è mai una utile a risol-levare l’ormai cedevole orgoglio virile) ealla canzone benefica “Maremoto a PortoCervo”. Sì, c’è anche Nichi Vendola conl’aureola e la falce e martello in oro ap-plicate sulla tunica bianca, che entra inscena sulle note di Jesus Christ Superstar(l’aureola di lampadine di accende a ogni“s” e per provarla viene buono “se solo losapessi io sussulterei”). Sì, ci sono ancheun paio di canzoni brasiliane da sballo.

Facciamola breve, si ride per due ore e ilgiorno dopo resta la mascella dolorante.Certo, è pieno di parolacce e scurrilità. Al-legre e felici, pronunciate a piena voce osussurrate in musica come farebbe Chec-co dei Modà, uno stile canzonettistico chedeve al Maalox più di quanto debba alpathos: “Crampi, dal mio culo tra un minu-to sono tuoni e lampi”. Per i principiantie per i timidi – iscritti al corso Zalone 101– ci sono le variazioni su Chopin andate inonda alla Radio Svizzera, Rete 2: il cana-le che propone cultura e musica classica,per intenderci. Dove Checco Zalone, pre-sentato come vincitore del concorso piani-stico “Chopin suonato con l’organetto Bon-tempi” racconta episodi poco noti della vi-ta del musicista polacco in terra pugliese.

Nel corso avanzato bisogna dimostraredi conoscere almeno un film di Checco Za-lone, preferibilmente “Cado dalle nubi” (ilsecondo, “Che bella giornata” ha incassatodi più, ma a noi è rimasta una nostalgia peril primo, più ruspante e oltraggioso). E bi-sogna ripassarsi le battute sui gay. “Non ècolpa loro se invece della coppia di cromo-somi XY hanno la coppia D&G”. La battu-ta ricorda Sacha Baron Cohen in “Bruno”:

il bambino africano adottato, dopo scam-bio con l’iPad, ha un abbecedario appesonella cameretta, dove si legge “A come Ar-mani, C come Chanel, D come Dolce, G co-me Gabbana). Menzione speciale per chiricorda il pugliese di fresca immigrazionea Milano, che usa la cocaina come stuccoper riparare il rubinetto del bagno (tantisaggi di sociologia urbana riassunti in unascena fulminea). Lode per chi cita una opiù canzoni, anche prese dal vecchio re-pertorio come “La mazurka della tettegrosse”, a imitazione dell’orchestra spetta-colo Raul Casadei. Le canzonette infattinon sono un intervallo, o un ricordo di Ze-lig – quando Checco era “quello con la ma-glietta rosa”. Ma un modo per sbeffeggia-re in contemporanea due linguaggi: “Mene sbattu dea ragazza di Ipanema”, canta-ta sulla musica della ragazza di Ipanema,fa godere due volte. “La taranta del centrodestra” non è solo una serie di rime scur-rili sui nomi delle ministre. E’ anche un at-to di giustizia verso una musica che – diceChecco – dopo dieci minuti fa imbestialire,

figuriamoci ascoltarla una notte intera co-me vorrebbero gli assessori al turismo (erala Pro Loco, una volta, almeno il concettoera chiaro). Ce n’è anche per il jazz, certo.Non è vero che lo hanno inventato i nerinei campi di cotone per alleviare le soffe-renze della schiavitù. I neri sono stati ri-dotti in schiavitù DOPO che avevano inven-tato il jazz. Per punizione. Checco il jazzl’ha suonato e lo conosce, quindi lo può di-re: sono come le barzellette antisemite rac-contate dagli ebrei.

Lo spettacolo ha la sua band di musici-sti – i Mitili Ignoti – e le sue ballerine conombelico in vista, tanga e pennacchiettida Oba Oba. Molto più carine, eleganti,brave a cantare: si chiamano “Secondachance”, perché sono le ragazze scartateda Tarantini nei suoi casting festaioli. Ilduetto a Cuba – italiano in gita turistico-sessuale, serata rovinata dall’annuncio intv che “Fidel sta male” – spiega con paro-le semplici e inequivocabili la differenzatra dittatura e democrazia. In democraziauno può scopare quanto gli pare, anchenei giorni di lutto nazionale, mentre le mi-gnotte cubane non la danno per rispetto,quando si ammala Fidel. Rocco Papaleofa lo speaker, bevendo Cuba Libre: “Noncambiate canale, tanto ne abbiamo uno so-lo”. Fa da cornice allo show la fidanzata diChecco che si vuole far sposare a tutti i co-sti, mentre lui tira fuori una foto di HenryFord e spiega: “Le donne sono come lemacchine: le esci dal concessionario e val-gono il 30 per cento in meno. Lo stessoquando le esci dalla chiesa”. Cederà aprecise condizioni: “mi preparerai il bor-sone per andare a giocare a calcetto, e sedi notte il bambino mi sveglierà, a piange-re sarete in due”.

“Maremoto a Porto Cervo” spiega che lecanzoni benefiche vengono sempre brutte,giacché si fanno dopo le catastrofi, in fret-ta e furia. Bisogna farle in anticipo, e

Checco offre il suo contributo con la par-tecipazione straordinaria di Al Bano(quello vero), che tira fuori tutta la sua vo-ce per garantire: “In Sardegna / tornerà lafregna”. Non pago di avere corrotto il can-tante più per famiglie che c’è con una ri-ma indecente, arriva una specie di doubletake, la risata in due tempi dei comiciamericani. Checco si gira verso il pubbli-co e sussura, in un “a parte”: “L’unico inItalia che non sa cosa vuol dire fregna”.“Una piaga, una calamità…” sono i com-paesani che lo appaludono. Bossi juniordetto “Il trota” viene inchiodato alla suaafasia con un siparietto da querela: i no-stri preferiti.

Donne, gay, neri, sinistra, destra, buonisentimenti, eroi, nazionale cantanti, e can-tanti tout court: nessuno rimane illeso. AGianni Morandi che era in platea all’are-na di Verona, Checco Zalone disse “dam-mi la mano… no non ti muovere dal postoche ci arrivi lo stesso”. Ogni cinque minu-ti lo spettatore è rassicurato: “Tranquilli,le volgarità arriveranno…”. Un pensieroanche ai bambini: “So che poi crescerete,e imparerete molte altre parolacce, manon dimenticatevi di chi vi ha insegnato lebasi”. C’è di che consolarsi, anche se il Ba-gaglino ha chiuso i battenti.

I critici che col primo filmdicono di aver riso solo una volta,tranne poi convertirsi al secondo,temendo la sindrome Totò

Donne, gay, neri, sinistra,destra, buoni sentimenti, eroi,nazionale cantanti e cantanti toutcourt: nessuno rimane illeso

L’unico bipolarismo riuscito inItalia riguarda la satira: ognunofa battute sulla parte politicamenteavversa, e siamo a posto così

Checco Zalone. Il comico pugliese ha concluso nei giorni scorsi il suo “Resto Umile World Tour” in giro per l’Italia

Con l’autore di “Gomorra”mira alle gigantografie che fan dasfondo, al tono serioso da paladinodelle giuste cause televisive

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG VI IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

All’esposizione di Milano del 1906, il pa-diglione dell’Amministrazione del de-

bito pubblico ottomano (Opda) non fu traquelli che attrassero grandi folle. Non eramolto imponente e aveva nel titolo “debi-to”, la parola che più faceva orrore allapiccola borghesia del nord Italia, tormen-tata dalla paura di perdere quel poco di ri-spettabilità e di benessere conquistati afatica e che le crisi ricorrenti sembravanominacciare di continuo.

In realtà, quello dell’Opda era, dal pun-to di vista dell’iniziativa economica, tra ipadiglioni più promettenti di tutta la ma-nifestazione. I visitatori vi si potevanoinformare sulle prospettive di investimen-to in quell’impero ottomano che, dopo es-sere stato per un paio di decenni una spe-cie di cava da cui chiunque, stato estero oprivato straniero, poteva portare via ric-chezza, era diventato proprio grazie al-l’Amministrazione del debito un buon luo-go per investire lavoro, ingegno e capitali.Chi quattro anni prima, all’Esposizione in-ternazionale d’Arte decorativa moderna diTorino, era rimasto a bocca aperta davan-ti ai fantastici padiglioni costruiti in un li-berty che rileggeva la Secessione viennesealla luce dell’art nouveau francese, sapevache l’autore, l’architetto friulano Raimon-do d’Aronco, aveva fatto la sua fortunaproprio a Costantinopoli, e proprio al-l’ombra dell’Opda, per la quale aveva co-struito (in stile neo ottomano e in collabo-razione con l’architetto turco di originefrancese Alexandre Vallaury) il prestigio-so palazzo della sede centrale sul Bosforo.

Se è comprensibile che in mezzo a tan-te attrazioni esotiche come il quartiere delCairo il padiglione dell’Opda passasseinosservato a chi non avesse interessi eco-nomici specifici, è meno spiegabile comemai un’istituzione complessa, originale eincisiva come l’Amministrazione del debi-to pubblico ottomano sia stata tanto tra-scurata e sottovalutata dagli storici, siadella politica sia dell’economia. I pochiche pure la ricordano la classificano tragli episodi consimili nella storia dell’im-perialismo occidentale.

Fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento,il governo ottomano riuscì a gestire il de-ficit di bilancio senza ricorrere diretta-mente al credito straniero, usando varimetodi come l’abbassamento del tenoredell’oro e dell’argento monetati e l’emis-sione di obbligazioni e banconote di dub-bia legittimità. Tuttavia i capitali stranie-ri, non insensibili agli alti interessi offer-ti dal governo, entravano nel paese attra-verso l’intermediazione dei banchieri diGalata, il quartiere di Istanbul dove era-no concentrate le attività finanziarie. Per-lopiù greci, armeni, ebrei o in generale le-vantini, i banchieri di Galata avevanospesso legami diretti con gli istituti di cre-dito stranieri o avevano aperto filiali nel-le capitali occidentali. Prendevano a pre-stito all’estero e prestavano al governo, ri-cavando importanti profitti. In questo mo-do il governo pagava più caro il denaro,ma non doveva ricorrere direttamente alprestito straniero, e poteva quindi evitaredi pagare un prezzo politico. Era consue-tudine infatti che i prestatori internazio-nali, per acquistare obbligazioni, preten-dessero concessioni politiche spesso im-barazzanti. La Porta temeva poi soprattut-to l’eventualità di un intervento militare

delle potenze creditrici in caso di diffi-coltà a onorare il debito.

Fu il gran vizir Mustapha Rashid Pasha,che era stato a lungo ambasciatore a Pari-gi, a decidere di sfidare il monopolio deibanchieri di Galata. Nel 1850 firmò un pre-stito per cinquantacinque milioni di fran-chi. L’iniziativa gli costò la carica e il go-verno turco denunciò il contratto. Ma giànel 1854 le necessità della guerra di Cri-mea costrinsero il governo a rivedere laposizione. Per la prima volta, con il soste-gno degli alleati francesi e britannici, l’im-pero turco ricorse al prestito internazio-nale. In Gran Bretagna furono messe invendita obbligazioni per tre milioni disterline all’ottanta per cento del valore

facciale e a un interesse del sei per cento.Garantiva il prestito il tributo dell’Egitto,depositato direttamente dal Khedivé aLondra. Con la garanzia in cassaforte, ilgoverno britannico poté sostenere sul mer-cato l’affidabilità delle obbligazioni tur-che. Da un punto di vista finanziario il pas-so fu un successo, in quanto il governo tur-co riuscì a ottenere a Londra capitali al-l’interesse effettivo del 7,9 per cento, con-tro i tassi dal dodici al diciotto per centopraticati dai banchieri di Galata. Quei tas-si non erano però dettati da pura avidità,ma dalla scarsità di circolazione di liqui-do nell’impero e soprattutto dalla esaspe-rante necessità che i banchieri avevano diungere le ruote ai più vari livelli dell’am-ministrazione pubblica perché i tempi delrimborso non si allungassero troppo.

Ma le necessità della guerra imposero dilanciare un nuovo prestito già l’anno se-guente. Poiché questa volta i cinque milio-ni di sterline richiesti erano destinati in to-to a finanziare la guerra e ad acquistare ar-mamenti in Europa, gli alleati francesi e in-glesi garantirono completamente e diretta-mente il debito: questa volta le obbligazio-ni furono piazzate al 102,6 per cento del va-lore facciale, con un interesse del 4 percento. A sua volta il governo turco garanti-va gli inglesi con il tributo egiziano e le im-poste doganali della città di Smirne e del-la Siria. Come ebbe a dire uno dei pochistorici che si occupò alla fine dell’Ottocen-to delle vicende del debito pubblico otto-mano, le cattive abitudini si prendono pre-sto ma è molto difficile liberarsene. La Por-ta prese a finanziare il deficit con nuoviprestiti, garantiti sempre peggio e propostia tassi d’interesse sempre più alti. Non sitrattava più di necessità impellenti di guer-ra, i prestiti servivano a finanziare nuovelinee ferroviarie, a fare fronte ai costi spro-positati di un’amministrazione corrotta einefficiente e non ultimo a finanziare il lus-so di una corte incapace di contenersi.

Per prendere colore questi freddi di-scorsi finanziari hanno bisogno di fondalie di quinte. Fino a ora abbiamo intravistosolo la guerra di Crimea che – nonostantela carica suicida a cavallo della brigatadei seicento di Balaklava contro i canno-ni russi, nonostante i racconti di Sebasto-poli di Lev Tolstoj, nonostante il romanti-co corpo di spedizione dei bersaglieri delregno di Sardegna e il colera del genera-le Alessandro La Marmora – fu un episo-dio dei tempi moderni, con le truppe tra-sportate in navi a vapore e il fotografo Ro-ger Fenton che si aggirava per accampa-menti e campi di battaglia per documen-tare, per la prima volta nella storia, unaguerra mentre si combatteva e si morivaancora. E si intravedono, in trasparenzadel mitico tributo egiziano, i riflessi diquel canale di Suez che avrebbe cambia-to per sempre la geometria dei rapporticommerciali e che, costruito dai francesi,avrebbe sancito per mezzo secolo, graziea una furba operazione finanziaria, il pre-dominio economico della Gran Bretagna.

Ma gli anni in cui, con una ragionataoperazione di ingegneria finanziaria, si av-via quel debito ottomano destinato a di-ventare colossale e in Crimea si argina ilsogno russo di tracimare nel Mediterraneoa spese dell’impero ottomano, e Ferdi-nand de Lesseps traffica per scavare il suocanale, sono gli stessi anni (uno più unomeno) in cui la principessa Cristina Tri-vulzio di Belgioioso, spossata dalle rivolu-zioni e dalle repressioni, tenta una vita

nuova in una valle sperduta a nord diAnkara. Con la figlioletta attraversa a ca-vallo in corteo l’Anatolia e la Siria per an-dare a visitare Gerusalemme, e visita ha-rem d’ogni sorta e ogni dimensione. Li de-scrive, forse per la prima volta, con gli oc-chi di una donna che ha visto davvero enon con gli occhi dell’immaginazione tur-bata dei poeti romantici, che sembranonon poter più vivere e scrivere se, perqualche mese o qualche anno, non si per-dono tra le medine, le valli e i deserti del-l’impero ottomano in disfacimento.

Sono gli anni in cui Emilio Dandolo, percercare di dimenticare la morte del fra-tello Enrico, varesino caduto per la Re-pubblica romana, scende il Nilo per fini-

Amedeo Preziosi (La Valletta 1816-Istanbul 1882), “Donne ottomane” (collezione privata)

La Porta temeva soprattuttol’eventualità di un interventomilitare delle potenze creditrici incaso di difficoltà a onorare il debito

Sono gli anni in cui vanno dimoda i pittori orientalisti e glioggetti d’artigianato e antiquariatoottomano riempiono i salotti

La guerra delle garanzie

COSI’ IL DEBITOPUBBLICOINGHIOTTI’L’IMPERO

OTTOMANO Il gran vizir Mustapha Rashid Pasha, a lungo

ambasciatore a Parigi, fu il primo a sfidare il monopolio dei banchieri di Galata e a chiedere prestiti direttamente

ai paesi stranieri. Da lì in poi fu tutto un precipizio

di Sandro Fusina

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG VII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

zantino che il sistema baco da seta e gel-so fu importato dalla Cina e in Europa. Laproduzione della seta aveva avuto nel cor-so dei secoli alti e bassi. Tra il 1850 e il1860 era però aumentata al ritmo del 15-20per cento all’anno, in seguito all’avvento inEuropa della pebrina, la malattia provo-cata dal parassita Nosema bombycis cheportava alla morte il cento per cento del-le larve nate da uova infettate.

Quel flagello era arrivato infine anchenell’impero. Non era bastato importarebachi giapponesi indenni, né cercare diapplicare i sistemi di cura scoperti da Pa-steur. Inoltre la situazione commerciale siera aggravata, poiché l’apertura del cana-le di Suez permetteva di riversare in occi-dente grandi quantità di seta cinese abuon mercato. L’Opda invitò Louis Pasteurin persona ad avviare un programma di ri-sanamento e, soprattutto, aprì a Bursa, findal Medioevo il maggior centro di produ-zione e di commercializzazione della seta,una efficientissima scuola per diffonderele tecniche moderne di allevamento. Il ri-sultato fu che gli allevamenti si diffuserorapidamente in tutto l’impero, mettendo iproduttori in grado di beneficiare dell’e-splosione della richiesta mondiale di setagrezza che si verificò negli anni Novantadel Diciottesimo secolo.

Da un punto di vista quantitativo la tas-sa sugli spiriti non fu altrettanto impor-tante. La legge islamica non permetteva ilconsumo di bevande alcoliche. Tuttavial’atteggiamento delle autorità oscillava neltempo tra la proibizione assoluta e il rico-noscimento implicito della produzione divino attraverso una tassa sull’uva messa afermentare. La tassa era stata tolta, per ri-comparire come tassa sul consumo in lo-cali e ristoranti, che potevano servire alcolpurché si trovassero almeno a duecentometri prima e cento poi da un’istituto re-ligioso. Anche in questo caso, semplice-mente con la resistenza e il contrasto allacorruzione e all’inefficienza amministrati-va, l’Opda riuscì a aumentare il gettito dicirca il centocinquanta per cento. E trovòil modo di razionalizzare, facendo venireesperti ittiologici dall’Europa per censirela popolazione ittica e insegnare metodiAmedeo Preziosi, “Danza di dervisci”

re a inebriarsi con pipe d’hashish e uri ter-rene su una barca a valle di Khartum. So-no gli anni della gran voga dei pittoriorientalisti, quando gli oggetti d’artigiana-to e antiquariato ottomano e islamicoriempiono i salotti perfino nelle città diprovincia, e le cartelle dei prestiti otto-mani le cassaforti degli investitori di mez-za Europa.

Il governo di Istanbul non aveva gli stru-menti adeguati per redigere bilanci atten-dibili dell’andamento fiscale e finanziario.Per essere appetibili, le obbligazioni do-vevano essere garantite con entrate certee liquide, esigibili senza spese ulteriori,come il tributo egiziano del 1854 e ’55. Ga-ranzia perfetta, soprattutto quando, comenel 1855, era a sua volta garantito da unasolida banca inglese. Quelle condizionierano però irripetibili. Di anno in anno leobbligazioni venivano piazzate a un valoremolto più basso di quello facciale, con in-teressi molto alti, anche superiori al noveper cento.

Secondo un osservatore (Caillard, “TheTruth about turkish finances”, 1885), il si-stema con cui era stilato il bilancio illu-strava “i mali della decentralizzazione fi-nanziaria nella loro forma più acuta”.L’impero ottomano era diviso per scopiamministrativi in 31 vilayet o province.Ognuna di queste presentava un propriobilancio redatto in modo fantasioso e ap-prossimativo, ma sempre con l’intenzionedi pagare meno imposte alle casse dellostato. Il governo, che pure mancava di me-todo e di competenza, non poteva che cal-colare il bilancio complessivo sui datiinattendibili, sia per incapacità sia per do-lo, dei vilayet.

Per risolvere il problema non bastaronoi successivi provvedimenti di razionalizza-zione del sistema finanziario, né la crea-zione di una banca di stato, la Banque im-periale ottomane, con il privilegio esclusi-vo di emettere banconote, il compito di te-nere i conti del governo, a Istanbul e do-vunque vi fosse una filiale della banca, diraccogliere le imposte nei vilayet perife-rici e di fornire al governo prestiti a bre-ve termine. Tutto questo non bastò ad ave-re la meglio sul marasma fiscale. Anno do-

po anno, l’interesse reale delle nuoveemissioni aumentava. In una situazione disofferenza, dopo che la Bio aveva assuntoil carico di tutte le finanze dell’impero,con il compito di tesoriere e di ufficialepagatore, il governo ottomano riuscì apiazzare di nuovo un prestito di quarantamilioni di sterline.

I commentatori internazionali che loconsiderarono un successo non tenneroabbastanza conto del fatto che le obbliga-zioni al cinque per cento erano state piaz-zate al 43,5 per cento del loro valore no-minale, portando così l’interesse reale in-torno all’11,5 per cento, il più alto mai pa-gato dal governo turco. Un ventennio diuso improduttivo dei prestiti, per impor-tare beni militari o beni di consumo, nonaveva fatto che ingrossare il debito in mo-do preoccupante.

Il 1875 fu per l’impero un anno disa-stroso: in diverse province un raccolto par-ticolarmente scarso minacciò carestie. Ilgoverno dovette intervenire inviando der-rate alimentari. Poi fu la volta di inonda-zioni catastrofiche, quindi toccò alle epi-demie. Il governo si trovò di fronte a spe-se impreviste. Non solo: le calamità ridus-sero di molto il gettito delle imposte e as-sottigliarono i famosi tributi tanto apprez-zati a Londra come garanzia del debito.

Il 6 ottobre 1875 il gran vizir dichiarò de-fault parziale nel pagamento degli inte-ressi dei debiti stranieri. Scoppiarono an-che disordini nelle province balcanichedella Bosnia e dell’Erzegovina, mentre inBulgaria ci fu una repressione feroce checostò all’impero turco la simpatia dellaGran Bretagna. La Russia, che aveva fo-mentato i disordini, evitò di intervenirefinché non si garantì la neutralità dell’Au-stria e della Gran Bretagna. L’Austria si as-sicurò il possesso della Bosnia e dell’Er-

più efficenti di pesca, la pesca nelle acquedi Costantinopoli e adiacenze. Combinatacon la razionalizzazione del monopolio delsale, la pesca praticata con sistemi più mo-derni incrementò le esportazioni di pesceconservato.

Il capolavoro dell’Opda fu però l’opera-zione che portò alla fondazione della So-ciété de la Régie cointeéressée des Tabacsde l’Empire Ottoman. Il decreto di Muhar-rem riconosceva all’Opda il diritto di tra-sferire i diritti dei monopoli del sale e deltabacco a terzi. L’Opda mantenne il mono-polio del sale, poco ambito e difficile, men-tre per il tabacco assegnò una concessio-ne trentennale a un consorzio di banchecon alla testa l’Imperial ottoman bank. Fufondata così la celebre Société de la Régieche fino alla guerra mondiale e oltreavrebbe inviato i propri graditissimi pro-dotti dovunque in Europa e in America. Ilmotivo per il quale l’Opda aveva rinuncia-to a gestire in prima persona un monopo-lio così redditizio era la difficoltà di evita-re le frodi fiscali. I produttori privati met-tevano fascette fiscali di terza categoria aiprodotti di prima ed erano pronti a cor-rompere con somme equivalenti allo sti-pendio di un anno persino i funzionari del-l’Opda. Era meglio che la produzione di ta-bacco fosse completamente gestita dal mo-nopolio. Per la gestione di un’impresa ditali dimensioni l’Opda non aveva i mezzi egli strumenti. Come non aveva i mezzi percontrastare in modo efficace lo sproposi-tato volume del contrabbando. Per questoaveva favorito la concessione al consorziodi banche, ottenendo il pagamento fissoannuale di 750 mila lire turche.

Grazie all’impresa dell’Opda, la Porta sitrovò ad avere un accesso molto facilitatoal credito internazionale. Ma che questobastasse a frenare il rapido declino di unimpero che per un paio di secoli aveva mi-nacciato l’esistenza stessa della civiltà eu-ropea non si può dire.

zegovina, la Gran Bretagna si accontentòdella promessa che la Russia non avrebbetoccato Costantinopoli e soprattutto l’Egit-to, dagli inglesi considerato cosa loro do-po l’acquisto della maggioranza del pac-chetto azionario del Canale di Suez.

La guerra durò quasi un anno. Per laTurchia, già in affanno, fu un immensosforzo finanziario che non evitò un tracol-lo immane. La pace venne siglata al Con-gresso di Berlino, alla corte dell’onnipo-tente cancelliere Otto von Bismarck. NeiBalcani, conquistati in due secoli di spe-dizioni vittoriose, alla Turchia non sareb-bero rimaste che la Tracia e l’Albania. LaGran Bretagna avrebbe fatto poi in modoche non si formasse la progettata grande

Bulgaria e che l’occupazione russa in Bul-garia non durasse troppo a lungo: il tribu-to bulgaro era buona garanzia del presti-to. Il trattato di Berlino si occupava ovvia-mente anche del debito ottomano. I nuovistati indipendenti nei Balcani sarebberostati responsabili di una quota parte deldebito. La delegazione russa accettò che ildebito contratto dalla Turchia prima del-la guerra avesse la precedenza sull’inden-nità di guerra. Ma soprattutto nel trattatosi raccomandava alla Turchia di creare uncomitato internazionale che gestisse le ri-sorse dell’impero destinate alla coperturadel debito.

Nel 1881 il sultano Abdulhamid IIemanò il decreto di Muharren che fondavaOpda. Con il decreto, il sultano contava diassicurarsi nuovi prestiti, e sperava anchedi evitare di mettere le finanze pubblichedirettamente nelle mani delle potenzestraniere, come le potenze europee aveva-no proposto nel congresso di Berlino del1878. Nonostante i patenti legami che imembri dell’Opda avevano con i loro go-verni, l’Opda era dichiaratamente privata.Il consiglio era costituito da due membrifrancesi, da un membro austriaco, uno te-desco e uno italiano, un membro del go-verno turco e un membro in comune traGran Bretagna e Olanda. I membri stra-nieri erano designati dalle banche, daipossessori di bond e, nel caso dell’Italiadalla Camera di commercio di Roma.

Il decreto di Muharren assegnava al-

l’Opda l’amministrazione diretta, la re-ceipt e l’esazione, per mezzo di propriagenti, delle imposte cedute al servizio deldebito. Aveva il potere di nominare e li-cenziare gli impiegati che erano conside-rati statali. Il governo era anche tenuto afornire all’Opda, nell’esercizio della suaamministrazione, tutta l’assistenza gene-rale compatibile con le istituzioni esisten-ti e a provvedere alla protezione militareper garantire la sicurezza delle sedi prin-cipali e dei servizi locali.

L’Amministrazione era largamente indi-pendente dal governo ottomano. Il qualepoteva mandare un commissario alle se-dute regolari dell’Amministrazione edesaminare i libri contabili, ma non potevainterferire con le operazioni. In caso di di-saccordo tra il governo e il consiglio, de-cideva un panel d’arbitrato che consiste-va in quattro membri (due nominati dalconsiglio e due dal governo e un quintoscelto dagli stessi arbitri, se necessario).Per i termini del decreto, alla Opda veni-vano assegnate le entrate derivanti daimonopoli dei sali e dei tabacchi, i franco-bolli e le marche da bollo, la tassa suglispiriti, la tassa sul pesce, il dazio sulla se-ta di certi distretti, il tributo della Bulga-ria, le entrate della Rumelia orientale e ilsurplus delle entrate di Cipro fino all’e-stinzione completa del debito.

Poiché il governo ottomano continuavaa prendere prestiti all’estero, il controllodell’Amministrazione sulle risorse dell’e-conomia ottomana sarebbe continuato fi-no allo scoppio della Prima guerra mon-diale, agendo come uno stato nello stato econtrollando circa un terzo delle entratedello stato.

Ispirato dalle attuali vicende finanzia-rie internazionali, Murat Bilal, professoreassistente presso il dipartimento di Eco-nomia dell’Università di Istanbul, ha pub-blicato uno studio intitolato “The PoliticalEconomy of Ottoman Public Debt” (TaurisAcademic Studies prodotto dalla casa edi-trice I. B,. Tauris Publishers, Londra-NewYork, 2010). Scrive Bilal: “Nella letteratu-ra, l’Opda è spesso descritta semplice-mente come un agente ufficiale dei capi-talismi occidentali. Un approccio di que-sto genere considera il capitalismo occi-dentale come un’entità monolitica e tra-scura il fatto che differenti gruppi capita-listi, anche della stessa origine nazionale,potessero avere interessi conflittuali suuna serie di questioni. I membri dell’Opdaerano nominati direttamente dalle orga-nizzazioni dei creditori dei paesi interes-sati. Quindi erano responsabili prima di

tutto di fronte ai creditori. Non c’è dubbioche i rappresentanti erano sotto l’influen-za del loro governo, talvolta addiritturascelti con cura dallo stesso governo. Matalvolta entravano in conflitto con la poli-tica generale del loro governo per proteg-gere gli interessi degli investitori”.

Ora gli interessi degli investitori eranostrettamente legati ai buoni risultati del-l’economia ottomana e non potevano esse-re soddisfatti da intenzioni di pura rapina.Il fallimento di diversi paesi debitori nonha prodotto che fasci di carta straccia, va-ligiate di obbligazioni destinate a ingialli-re in un ripostiglio. La creazione dell’Opdaaveva significato una differenza vistosacon le intenzioni del Trattato di Berlino,che aveva raccomandato alla commissionefinanziaria dell’Amministrazione di ba-sarsi sulla protezione diretta dei paesi in-teressati. Non era stato solo il timore di in-terventi militari a informare il decreto diMuharren.

La Porta ottomana era consapevole chenon avrebbe potuto rimettere in piedi l’e-conomia con le sue sole forze. Nei primimesi del 1881 la situazione finanziaria eragrave come al solito. Secondo una valuta-zione del Crédit Lyonnais, le entrate digiugno per l’anno in corso erano stimatesotto i dieci milioni di lire turche, con undeficit di almeno tredici milioni. Il palaz-zo aveva avuto difficoltà a pagare gli sti-pendi. Allo sciopero del personale aveva-no aderito persino i cuochi di corte. L’uni-co modo di intervenire su questa realtàera di riformare una burocrazia disorga-nizzata, disonesta, disattenta. D’altra par-te la concessione all’Opda del diritto diesigere certe tasse non costituiva una per-dita di sovranità, più di quanto lo fosse laconcessione a un privato di esigere certetasse, pratica molto diffusa nel passatonon solo nell’impero ottomano e forse an-cora non del tutto scomparsa. I risultati fu-rono all’altezza delle aspettative.

L’introito più importante ceduto all’Op-da fu il monopolio sul sale. Era stato crea-to nel 1862, ma funzionava a stento. L’im-pero era molto ricco, sia di saline marinesia di miniere, ma il successo del mono-polio era compromesso soprattutto dalcontrabbando. Esisteva un piccolo con-trabbando locale, praticato dai lavoratoridelle saline e delle miniere, molto diffici-le da controllare, ma era diffuso anche ungrande contrabbando internazionale, resoredditizio dall’insufficienza della rete fer-roviaria e statale. Per combatterlo, l’Opdasi era assicurata la produzione del sale diCreta e di Samos, grandi fonti di riforni-

mento dei contrabbandieri, i quali perònon si erano lasciati scoraggiare e aveva-no cominciato a rifornirsi a Cipro e in Cri-mea. Il traffico clandestino nel Mar Nerofu tuttavia minato da un’epidemia di cole-ra che permetteva il controllo sistematicodelle navi in alto mare per garantire laquarantena.

I contabili dell’Opda poterono constata-re con soddisfazione che in un anno le en-trate erano aumentate del cinquanta percento. Nello Yemen però i nomadi attac-cavano regolarmente le carovane del saleper sparire immediatamente nel desertoda cui erano spuntati all’improvviso. Nel-la partita doppia di quella filiale lontanadell’Opda la voce “imposta sul sale” era

molto vicina allo zero. La partita doppia,finora sconosciuta nell’impero e usata pri-ma solo dalla Banca ottomana, peraltro direcente formazione, non fu che una delleinnovazioni di tecnica commerciale intro-dotte dall’Opda che contribuirono a pro-muovere la svecchiamento delle istituzio-ni e furono alle radici della Turchia re-pubblicana e moderna.

La tassa che creò all’Opda più problemie contrasti con l’amministrazione pubblicafu proprio quella che sulla carta doveva es-sere la più promettente. Il bollo sui con-tratti commerciali era stato introdotto nel-l’impero solo nel 1862. Ma poiché era as-surdamente alto, non aveva fatto che con-fermare la tradizione coranica a stipularei contratti commerciali sulla parola. I com-mercianti stranieri che ricorrevano a con-tratti scritti erano inoltre esenti dal bollo.Tutto il lavoro dell’Opda fu di convincerel’amministrazione ad abbassare vistosa-mente l’imposta del bollo, di renderlo ob-bligatorio almeno negli atti pubblici e diabolire l’esenzione per gli stranieri. Poi-ché sotto questo ultimo aspetto gli interes-si dei commercianti stranieri si trovaronoin conflitto con quelli dei detentori di titolidi stato, il contrasto tra l’Opda e le rap-presentanze commerciali straniere illu-stra in modo chiaro il meccanismo dellasostanziale indipendenza dell’Opda da in-teressi stranieri che non fossero quelli deicreditori del debito pubblico.

Come è noto, fu attraverso l’impero bi-

Il 1875 fu l’anno dei disastri. In diverse province il raccolto fu scarso,ai limiti della carestia. Poi vennero le inondazioni e pure le epidemie

Il trattato chiedeva alla Turchiaun comitato internazionale chegestisse le risorse dell’imperodestinate alla copertura del debito

L’Amministrazione del debitopubblico prese provvedimentilungimiranti ma insufficienti aevitare il declino

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG VIII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

I NIPOTI DEI BUDDENBROOKLiti tra eredi, tra padri e figli: le grandi famiglie dell’editoria tedesca sono un buon soggetto da romanzo

Qualche settimana fa, in occasione del-la Fiera del libro di Francoforte, i cri-

tici tedeschi hanno scritto entusiasti chefinalmente sono tornate sulla scena lette-raria le saghe familiari di ampio respiro. Adire il vero una constatazione un po’ curio-sa, visto che negli anni passati il filone èstato ampiamente rappresentato, soprat-tutto attraverso le storie di grandi famiglieritrovatesi a fare i conti con il regime co-munista nella Ddr (una su tutte: “La torre”di Uwe Tellkamp, tradotta anche in italia-no da Bompiani). Insomma, più che di unariscoperta, si può parlare di una tenuta delsoggetto, di questo sguardo rivolto al pas-sato per realizzare, attraverso vicende fa-miliari, anche grandi affreschi storico so-ciali della Germania. Quello che invece sipotrebbe definire più nuovo è un generedi romanzo familiare, meno ambizioso sot-to il profilo letterario, ma in compenso –per quanto involontariamente – senza so-luzione di continuità tra finzione e realtà.Quasi delle opere in progress, dove il ro-manzo stesso è giusto un tassello.

E’ il caso del nuovo libro della terribi-le Charlotte Roche (autrice di “Zone umi-de”, romanzo che avrebbe voluto incitarea un nuovo genere di femminismo, senzapiù pudori verso il proprio corpo). Il tito-lo del suo nuovo libro è “Schoßgebete”,parola composta di non facile traduzione.Tenendo però conto dell’argomento predi-letto dall’autrice, si potrebbe giocare difantasia e suggerire a un eventuale edito-re italiano “Preghiere del basso ventre”.Per quanto in questa nuova fatica lettera-ria Roche prenda spunto dalla famiglia, inparticolare dalla tragica morte di tre suoifratelli nel 2001 in un incidente stradale,non smette però di approfondire il temadel piacere fisico. Inutile dire che il libroè finito subito ai primi posti delle classi-fiche dei bestseller dello Spiegel. Succes-so dovuto, non ultimo, al vespaio di ranco-ri, dolori, rimostranze che ha scatenato trai familiari, e di cui i giornali hanno pun-tualmente informato i lettori. Il patrigno,con il quale Roche non parla da anni, si è

di Andrea Affaticati detto costernato, accusandola di aver cer-cato di impossessarsi dei verbali di queltragico incidente; la madre, nel frattempotrasferitasi in Africa dove lavora per unaonlus, non ha parole. Nemmeno deve aver-le, visto che la figlia ha rotto anche con lei.La scrittrice si è detta choccata dalla rea-zione dei parenti, perché questo libro èstato “un modo per superare il trauma”.

I tedeschi, grandi estimatori della buonaletteratura, non disdegnano tuttavia quel-la, diciamo, più di intrattenimento. Lo di-mostra il caso Roche e lo conferma la“soap opera”, così è stata soprannomina-ta, dei Neven DuMont. Un cognome che ri-manda a una delle dinastie di editori tra lepiù antiche in Germania. Giusto qualchegiorno prima dell’apertura della Fiera diFrancoforte, il patriarca Alfred Neven Du-Mont presentava – e le testate del gruppoDuMont Schauberg (in tutto quattordici,tra queste anche la Frankfurter Rund-schau, la Hamburger Morgenpost e la Ber-liner Zeitung) recensivano – il suo roman-zo “Die Rückkehr des Vaters” (“Il ritorno

del padre”). Storia di un ottuagenario cheil giorno del quarantaduesimo complean-no del figlio – stimato funzionario di ban-ca, felicemente sposato con prole – irrom-pe dal nulla nella vita dello stesso, scom-bussolandola non poco. Il figlio lo avevasempre creduto morto, e invece il genito-re non solo è vivo e vegeto, ma anche mol-to più affascinante e vitale del figlio.

Il vecchio Neven DuMont giura di averscritto la storia prima della grande rottu-ra con l’ultimogenito Konstantin. Ma se daun lato si sarebbe tentati di credergli – gliaffari di famiglia dei DuMont, per lo me-no fino all’anno scorso, sono sempre statiprotetti da una rigorosa cortina di riserva-tezza – dall’altra non si può non riconosce-re nelle due figure protagoniste del ro-manzo padre e figlio in carne e ossa. Giàl’idea di scrivere un romanzo che ha persoggetto due personaggi che sembrano lafotocopia di Neven DuMont senior e ju-nior suona di per sé bizzarro, se poi ci siaggiunge che il patriarca reale risultamolto più sveglio dell’erede, non ci vuolené una simpatia particolarmente forte perFreud e nemmeno una vena di cinismo ec-cessivamente sviluppata per trarre delleconclusioni. Anche perché, a volerla diretutta, non è che al patriarca mancasseroaltri soggetti familiari “per distrarsi dallaroutine”. Lui stesso è nipote del famosopittore di corte dell’Ottocento Franz vonLenbach (con tanto di museo a lui dedica-to a Monaco), mentre la moglie Hedwig èuna principessa Auersperg, un casato au-

striaco che sotto gli Asburgo ebbe un ruo-lo rilevante in campo militare. Bastavache guardasse l’infilata di ritratti di aviche pendono dalle pareti della sua villa aColonia, una vera e propria pinacotecaaraldica. Il fatto è che per Neven DuMontsenior la famiglia pare essere un’inesauri-bile fonte di ispirazione. Non è la primavolta che la usa come soggetto, e non è laprima volta che il più giovane dei suoi fi-gli non ne esce proprio benissimo. E’ sta-to così anche per il libro precedente. Giàin quell’occasione i giornali sottolinearo-no il ritratto poco edificante che il padreaveva fatto del figlio, e Neven DuMont se-nior si era premurato di assicurare all’ul-timogenito che il personaggio del roman-zo non aveva nulla a che vedere con lui.Konstantin allora l’aveva tranquillizzato,dicendogli di non preoccuparsi, che lo sa-peva. Questa volta invece, il rampollo po-trebbe mostrarsi assai meno comprensivo,anche perché le cose tra lui e il padre sisono guastate di brutto.

Diversamente dal libro di Roche, quel-lo di Neven DuMont nelle classifiche nonè ancora entrato. Sarà perché i lettori se-guono appassionatamente la vicenda suigiornali e il libro è per molti solo uno deitanti tasselli che compongono il puzzle diquesta dinastia, della quale si occupa qua-si quotidianamente la stampa. Tre sono ifigli di Alfred Neven DuMont: due maschi,Markus e Konstantin, e una femmina, Isa-bella. Da dodici generazioni l’impresapassa da padre in figlio (ovviamente il pri-mogenito). E così era scontato che fosseMarkus a succedere un giorno al padre al-la guida del gruppo DuMont Schauberg.Un’impresa di tutto rispetto, con un fattu-rato di 711 milioni di euro, 4.200 dipenden-ti e partecipazioni, oltre che nella cartastampata, anche in molte televisioni priva-te. Solo che Markus aveva ereditato i genidel nonno Lenbach, voleva fare l’artista, ecosì si era ribellato. Si dice che frequen-tasse compagnie poco raccomandabili,che avesse cominciato a drogarsi. Sta difatto che nel 1995 Markus, non ancoratrentenne, muore. A quel punto il padre siconcentra su Konstantin, mentre la figliaIsabella non viene nemmeno presa in con-siderazione.

Konstantin è personaggio dalle milleidee, spesso però troppo strambe, difficil-mente concretizzabili. Il padre lo manda astudiare in America, nell’Oregon, dove fre-quenta la facoltà di Giornalismo. Una vol-ta tornato, nel 1994, viene introdotto nelgruppo. Il passaggio di consegne deve av-venire in modo graduale, così Konstantinsi occupa di singole testate, ne diventa di-rettore amministrativo e solo nel gennaiodel 2009 viene finalmente ammesso ai pia-ni alti del quartier generale di Colonia,viene cioè eletto nel consiglio di ammini-strazione della DuMont Schauberg.

Oggi i giornali scrivono che le ambizio-ni del padre sono state fatali per entram-bi i figli maschi. Troppe pressioni, troppe

aspettative, troppa poca attenzione alle in-clinazioni dei ragazzi. Insomma una storiain perfetto stile Buddenbrook. Konstantincerca di mostrarsi all’altezza delle aspetta-tive ed esagera. Quasi subito manifesta ma-nie di grandezza e una sospetta sicurezzanelle proprie capacità (i giornali annotanoironici: “Neanche avesse frequentato Har-vard”). Già poco tempo dopo aver messopiede nell’azienda, Konstantin dice di sen-tirsi pronto per i piani alti. Ma una voltache ci si insedia inizia il deragliamento.Vuole rivoltare il gruppo come un calzino,e visto che nessuno gli dà retta, inizia ascrivere numerosi blog, tutti sotto pseudo-nimo. Blog nei quali fa autocoscienza op-pure esprime giudizi tutt’altro che benevo-li sull’azienda di famiglia.

Le voci all’interno del gruppo sono sem-pre più preoccupate, gli altri membri delconsiglio di amministrazione parlano conil vecchio Neven DuMont, lo spingono in-fine a intervenire. Deve allontanare il fi-glio che sta creando gravi danni di imma-gine (fra i tanti danni, non si stancano di ri-cordare i giornali, quello di usare lo stuz-zicadenti durante una cena ufficiale). Ne-ven DuMont senior, che nel gruppo rivestela carica di presidente del consiglio di sor-veglianza, per un po’ cerca di fargli scudo,ma alla fine deve cedere e lo scorso dicem-bre lo mette alla porta. Konstantin reagi-sce rabbioso. Si sente un incompreso: siera speso per il ritorno a un giornalismo diqualità, d’inchiesta, aveva grandi progettisu come trasformare le edizioni on line ingalline dalle uova d’oro.

Peccato che, a sentire gli altri ammini-stratori, le sue idee fossero del tutto irrea-lizzabili. Konstantin minaccia di farsi li-quidare la sua quota per fondare un nuo-vo giornale ma, a mano a mano che passail tempo, le sue proteste, le sue rimostran-ze, le sue minacce diventano sempre piùflebili.

In un recente articolo dello Spiegel, ilvecchio Neven DuMont si chiedeva che co-sa mai avessero sbagliato lui e la mogliecon questo ragazzo. L’avevano viziato trop-po? C’è in questa vicenda anche un altrorisvolto amaro, che il vecchio fa fatica amandare giù. Un tempo gli sarebbe basta-to telefonare ai vari Bucerius (fondatoredella Zeit), Augstein (Spiegel), Nannen(Stern) e chiedere loro di chiudere un oc-chio sulle impertinenze del ragazzo: la co-sa sarebbe finita lì. Ora, invece, l’unico adaver avuto un minimo di riguardo è statoMathias Döpfner, il grande capo dell’AxelSpringer Verlag. L’edizione di Berlino del-la Bild è stata clemente. In compenso,però, è andata giù ancora più pesante l’e-dizione locale di Colonia. Sarà perché èconcorrente diretta del tabloid Express diproprietà del gruppo DuMont, e si sa chein questi casi la regola è: mors tua vitamea. Neven DuMont si è dovuto rendereconto di essere ormai l’ultimo di quellagenerazione di editori e direttori di testa-te che hanno contribuito alla rinascita del

giornalismo tedesco nel Dopoguerra. Unacricca, come spesso veniva definita, doveperò vigeva un minimo di fair play. Oggiinvece ci sono solo pescecani, constataamaramente. Insomma, al vecchio NevenDuMont non solo tocca fare i conti con lapropria famiglia che perde i pezzi, ma an-che con quella più allargata dei grandieditori della carta stampata, che nell’ulti-mo decennio si è allevata in seno un nidodi serpi.

Una constatazione che, giusto qualchesettimana fa, ha avuto l’ennesima confer-ma. A sperimentarlo sulla loro pelle sonostati gli eredi di Erich Brost e JakobFunke, fondatori del gruppo editorialeWaz. Un gruppo che, con 1,1 miliardi di eu-ro di fatturato e 17 mila dipendenti, si col-loca dopo l’Axel Springer Verlag, ed è unapotenza soprattutto nelle testate regiona-li e nel mercato dei mass media dell’Eu-ropa dell’est. Ciononostante, la Waz navi-ga da tempo in acque non proprio tran-quille. Tra le cause di queste difficoltà ov-viamente i risvolti della crisi, la rivoluzio-

ne dei media on line, ma anche gli screzifamiliari. Morti Funke e Brost, le quotedel gruppo sono state suddivise al cin-quanta per cento tra gli eredi dei due fon-datori. Peccato che tra i due rami esistauna incompatibilità di fondo. I Brost sonosempre stati cristianodemocratici, mentrei Funke socialdemocratici. Essen, la cittàdove la Waz ha il suo quartier generale, sitrova inoltre nel Nordrhein-Westfalen,Land che fino al 2005 è stato la roccafortedell’Spd. Questa differenza politica si èfatta sentire negli anni anche sull’ammini-strazione del gruppo, bloccandone strate-gie di consolidamento e di espansione. Co-sì, per mettere fine a questa guerra intesti-na, ora che anche la vedova Brost è mor-ta, gli eredi di questo ramo hanno decisodi vendere le loro quote, e la figlia diJakob Funke, Petra Grotkamp, e suo ma-rito Günther si sono offerti di riscattarleper un controvalore di 470 milioni di eu-ro. Un prezzo non certo da capogiro, maaccettabile. L’accordo era già in diritturad’arrivo, quando d’un tratto si è messo dimezzo Döpfner, facendo sapere che l’AxelSpringer Verlag era interessata a compe-rare parti del gruppo Waz, per esempio lepartecipazioni nell’Europa dell’est, maanche tutta la Waz, per un ammontare di1,4 miliardi di euro. Per i Grotkamp, chepensavano di avere già le quote dei Brostin tasca, è stata una doccia fredda. Il lororappresentante legale ha replicato secca-mente: “Visto lo stile della casa, mi chiedose non sia il caso di scrivere una lettera al-

la signora Friede Springer proponendolel’acquisto da parte nostra dell’HamburgerAbendblatt e di altre testate. Incursioni diquesto tipo normalmente le fanno glisquali dell’alta finanza”. I giornali per set-timane si sono chiesti il perché di questaintromissione. Döpfner non è affatto inte-ressato alla Waz, dunque, così deducono,voleva solo far salire il prezzo del pacchet-to azionario in vendita.

Un ragionamento che non fa una piega,ma il settimanale Zeit, al quale questaspiegazione è parsa forse troppo semplice,s’è preso la briga di scavare un po’ più afondo. E qualcosa ha trovato. Una decinadi anni fa, il figlio adottivo del vecchio Bro-st, Erich Schumann, aveva tentato un’ope-razione simile a danno dell’Axel SpringerVerlag. Schumann era andato direttamen-te da Friede Springer per proporle una fu-sione dei due gruppi. Döpfner allora nonera ancora amministratore generale, maera già membro del consiglio. Che si trattidi una vendetta servita fredda per esserestato bypassato? Friede Springer aveva de-clinato la proposta, Schumann non si eraarreso subito. C’era voluto l’intervento de-ciso di uno dei soci della Waz – “Se Frie-de Springer è contraria, allora questa fu-sione non si fa” – per farlo desistere. Il so-cio che allora prese le parti di Friede eraPetra Grotkamp. La signora Springer le fe-ce pervenire un biglietto nel quale la rin-graziava e si diceva fiduciosa di poter con-tare sulla sua parola. E così fu. Chissà che,dopo l’incursione di Döpfner, Friede abbiaricambiato il favore.

“The times they are a-changin’”, anchese qualcosa del vecchio fair play che untempo contraddistingueva la famiglia deglieditori potrebbe essere sopravvissuto. E’vero che nel frattempo non c’è più la cric-ca, che al posto loro sono arrivati i mana-ger, gli squali. Ma è anche vero che alla te-sta dei grandi gruppi sono arrivate, nelfrattempo, tutte donne. Alla coppia FriedeSpringer e Petra Grotkamp si è infatti ag-giunta Isabella Neven DuMont. Il patriar-ca, infine, si è risolto a rimpiazzare Kon-stantin con la figlia. Forse questa “rivolu-zione” potrebbe dargli anche lo spunto peril prossimo romanzo di famiglia.

Il libro di Neven DuMont,proprietario di un gruppo di 14testate: una storia che rimanda aiforti contrasti con l’ultimogenito

Guerra di successione allaWaz: morti i due fondatori,prevalgono gli screzi familiari.E il timone è passato alle donne

Una scena di “Buddenbrooks” di Heinrich Breloer (2008), film tv tedesco tratto dal romanzo di Thomas Mann

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG IX IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

ARIDATECI LA STANDAC’era una volta la mamma che faceva la spesa al supermercato, oggi

quella stessa cosa si chiama esperienza d’acquisto e si fa al concept store

Ai bei tempi in cui ci si poteva permet-tere di ammalarsi di sindrome da ac-

quisto compulsivo e si applaudivano le suevittime letterarie, le Rebecca Bloomwoode le Bergdorf Blondes che spendevano die-cimila dollari in un abito da sera prêt-à-porter, i negozi di abbigliamento si chia-mavano “boutique”, definizione appenaesotica e un po’ burina, da benessere difresca acquisizione come in effetti era, el’estrazione del portafoglio dalla borsa“shopping”, esotismo d’oltremanica cherendeva la caccia all’abito e il suo paga-mento un atto dinamico ben prima che vo-luttuoso. Footing, jogging, shopping: le fin-te bionde vanziniane, non a caso, lo prati-cavano in scarpe da ginnastica e jeans, te-nuta casual che veniva sparigliata dall’ab-binamento di una pelliccia di visone sel-vaggio montata a canne, lunga fino ai pie-di, e una profusione di orecchini e braccia-letti tennis in brillanti, a mo’ di monito perle commesse del quadrilatero milanese edel corso Italia di Cortina e di segnalazio-ne alle altre finte bionde. Negli anni del-lo shopping compulsivo, il trattamento-Pretty Woman (“ci spiace, non abbiamoniente per lei”, accompagnato da unascrollatina di spalle e un sorrisetto di suf-ficienza) era infatti l’incubo delle avventi-zie del centro città e lo spettro delle tito-lari di carte di credito a limite fisso e con-tenuto: le incerte si premunivano adottan-do tenute eclettiche, apparentemente non-

chalantes, che avrebbero dovuto dare l’im-pressione di un’eleganza non studiata, tra-sandata, naturale, e che naturalmente te-stimoniavano con sicurezza il contrario.Adesso che le commesse sfaccendate am-miccano ai passanti dietro le vetrine e lacrisi dei consumi ha reso baldanzosa e ri-spettata anche la casalinga di Baggio(quartiere dell’ultima periferia di Milano,ancora negli anni Cinquanta infestato dal-la malaria, ma ognuno può sostituirlo conla zona equivalente della sua città), loshopping ha superato il proprio limite discambio commerciale, denaro contro abi-to o scarpe, per trasformarsi in un momen-to culturale, quasi mistico: la shopping ex-perience.

Nella stagione dell’austerità imposta oanche solo autoindotta non si compra più,decisione volgare e anacronistica: si faun’esperienza di acquisto. Non si entra nelnegozio di abiti e accessori e si tolgono ve-stiti dagli appendiabiti per provarseli: sientra in contatto con pezzi unici in un con-cept store, “punto vendita caratterizzatodalla completa eterogeneità rispetto al ne-gozio tradizionale in termini di gestione,superficie e merceologia che offre una plu-ralità di suggestioni, provenienti sia dallavarietà di prodotti esposti, sia dall’archi-tettura stessa dell’ambiente”, secondo de-finizione dei nuovi manuali di marketing,che a rifletterci avrebbe potuto essere ap-plicata senza la benché minima variazioneanche all’emporio di sementi, camicette inpopeline di cotone e saponi del New Jer-sey da cui alla metà dell’Ottocento Flet-cher Harper iniziò l’avventura editorialeche attualmente porta il nome di Harper’sBazaar o agli empori del Klondike dellacorsa all’oro disegnati da Carl Barks, l’in-ventore di Paperon de’ Paperoni.

Sono differenze importanti, quelle fra laboutique e il concept store, che pongono iltitolare su un piano a cui il bottegaio tan-to disprezzato da Balzac nel suo “Trattatodella vita elegante” non avrebbe mai osa-to ambire: quello di docente, addirittura diofficiante di una liturgia che viene cele-brata fra pareti spoglie e pavimenti in re-sina, poltroncine di design e luci a farettocollocate da un light designer ingaggiatoper decine di migliaia di euro allo scopo diallungare le ombre (e le gambe) delleclienti quando si osservano angosciate nel-lo specchio.

Sfumature di linguaggio, quindi di stile,di senso e di prezzo che nelle settimanebuie del dibattito sulle pensioni rendonopreziosi acquisti anche da pochi euro av-volgendoli in metri di carta velina, imbu-standoli in sacchetti di carta rigida, lucidae preziosa, che nessuno oserebbe infattichiamare sacchetti bensì “shopper”, nellasua declinazione inglese, e quindi sigillan-doli come scrigni con nastri, fiocchi, chiu-dipacco adesivi e non persino una rosa fre-sca tagliata, come nel concept store gour-met-floreale che va moltiplicandosi in tut-ta Italia, Au nom de la rose, un networkdalle pareti trattate a calce in cui le rosemulticolor, a gambo medio, che un tempo si

di Fabiana Giacomotti

sarebbero acquistate solo presso i banchet-ti degli ambulanti a mazzi di venti per cin-que euro, vengono vendute in secchiellinidi metallo e confezionate lungo un tempominimo di quattro minuti da graziose fan-ciulle in grembiulino verde ed eloquio sof-fuso che spargono nelle shopper rigide pe-tali profumati prima di consegnarli all’ac-quirente con uno scontrino a cui finisce pernon fare caso, stordito dal profumo spruz-zato di continuo e da tutto quell’armeggia-

re fra gambi, nastri, candele accese e lecca-lecca alla rosa venduti al banco.

“Si alterano i costumi, le idee, la vita, ilmondo: non s’ha da alterare la lingua?”scriveva Edmondo De Amicis difendendola legittimità d’uso di termini come “con-sommé”, “ascenseur” e “habillé”nell’“Idioma gentile”, trattato di linguisti-ca divulgativa di vedute forse eccessiva-mente ottimiste se si considera che vennescritto nel 1934, cioè solo due anni primache il Minculpop desse il primo giro di vi-te al multiculturalismo lessicale. Ora chel’inglese ha assunto la funzione di pezzad’appoggio e giustificativo di attività so-cialmente riprovevoli come l’acquisto esi-bito, il concept store ne è diventato la sua

applicazione ideale, e la sua offerta unatentazione lecita in quanto apparente-mente sontuosa, in realtà estremamentecontenuta.

I concept store di moda del Terzo Mil-lennio, oltre all’inevitabile banco del caffé(il “coffee corner”, naturalmente) in cuipropongono miscele sconosciute, maca-rons a imitazione dei parigini Ladurée ocupcakes con glassa color fucsia, vendonoinfatti gadget nipponici identici da Milanoa Istanbul; libri di fotografia e di moda piùche libri d’arte, tendenzialmente impegna-tivi; riproduzioni fotografiche di valore equalità variabile; quaderni ad anelli concopertine a stampe Seventies; diari in pel-le martellata e in colori pastello simili al-le autentiche ma irraggiungibili Smythson;cd di musica lounge, non troppo impegna-tiva a sua volta; pesanti cinture a catena;braccialetti e borse a tracolla da uomo;spiritose paperelle di gomma per sessionautoerotiche nella vasca di casa; portava-si di ceramica smaltata color oro o nero dalocation zeffirelliana; pantofole marocchi-ne in cavallino stampato a motivo zebra;caramelle multicolor in puro zucchero eadditivi a forma di teschio o di fallo e in-fine pochi, costosissimi abiti di tendenzaesposti sopra sontuosi manichini di designa scopo d’attrazione, e in questo apparen-tabili alla Luisona del “Bar Sport” di Ste-fano Benni, la pastarella farcita conserva-ta sotto la campana di vetro da tempo im-memorabile persino per gli habitués epronta ad esplodere malignamente nellabocca di chi si avventurasse nell’assaggio.

Quel che differenzia la Luisona daglispettacolari abiti a serra fiorita di MaryKatrantzou o dalle scarpe di ChristianLoubutin è la durata espositiva: eterna laprima, infinitesimale la seconda. Da Co-lette, concept store della rue Saint Honorédi storicità appena inferiore all’antesigna-no del genere, il milanese Corso Como 10,durante la settimana della moda gli abitiesposti al primo piano, cioè sopra i gadgeteffettivamente smerciati alla massa di mo-daioli in transito e in nota spese che affol-la il pianterreno, cambiano quotidiana-mente, e non perché vengano venduti. Tal-volta, in realtà, non sono comprati nean-che in origine. Mentre nei concept storepiù sofisticati il cliente non si avvicinanemmeno alla cassa, ma consegna la car-ta di credito su un vassoio direttamente al-la sale manager (la vecchia commessa del-le boutique post contratto di flessibilità,dunque elevata e premiata sul piano se-mantico) che la ritira con un sorriso su unvassoio sostituendola con una tazzina di téaromatizzato al gelsomino perché chi pa-ga continui a vivere l’esperienza sensoria-le che gli è stata promessa, il proprietariodello stesso concept store applica non dirado ai fornitori condizioni che lo Shylockdel “Mercante di Venezia” avrebbe trova-to eccessivamente dure.

Un mese fa, seduta alla sfilata di Erman-no Scervino, ho ascoltato uno dei più gran-di commercianti di abbigliamento del sudItalia, proprietario di una di queste bouti-que di evoluzione semantica e che in effet-ti non si deve definire commerciante ma

buyer, raccontare nei particolari al collegaallibito e certamente invidioso come, or-mai, acquistasse solo le collezioni dei no-mi più importanti e sicuri, quelli a cuiavrebbe comunque dovuto assicurare unordine minimo garantito pena l’esclusione,gestendo quindi il resto del magazzino,una buona metà, totalmente in conto ven-dita. Che poi questa sia la strategia più si-cura per mettere una piccola azienda o uncreativo al debutto in ginocchio, al buyer

in questione interessa meno dell’acqua mi-nerale in bottiglia di design che vende adodici euro e cinquanta per settantacin-que centilitri o alle cinture a centoventieuro che spaccia a chi non può permetter-si una giacca di Givenchy a milleottocentoma vuole comunque fare la sua bella espe-rienza di acquisto e uscire dal negozio conla shopper nuova e sigillata. Per il desi-gner emergente la sola apparizione accan-to a marchi affermati continua d’altrondead essere una pubblicità più efficace diuna pagina su una rivista (pur di entrarenello store più ricercato e importante d’I-talia, Luisaviaroma di Firenze, un fattura-to da media azienda equamente suddivisofra negozio reale e virtuale, online, un gio-

vane designer sarebbe disposto a pagare,che è in effetti quanto fanno i marchi piùaffermati organizzandovi delle serate condj set e vetrina dedicata durante le giorna-te di Pitti Uomo), e per il cliente finale, chenessuno oserebbe definire consumatoreperché tale è solo quando compra yogurte detersivi, non abiti da sera, un motivo inpiù per frequentare il concept store. Il ca-po di “ricerca”, che è sfumatura semanti-ca superiore alla mera, abusata “tenden-za” in quanto presuppone sia da parte delbuyer sia del cliente un impegno, se nonproprio culturale, almeno di conoscenzadelle tecniche di costruzione di un abito edell’evoluzione della moda nei mercatiemergenti, è infatti diventato uno deglielementi differenzianti della socialità se-rale, il momento in cui le signore confron-tano carriera, mariti, bambini e la propriariuscita in ognuno di questi campi. Sono imomenti in cui sfoggiare il nome dello sti-lista turco Zeynep, del serbo Dusan Pauno-vic o, appunto, dell’inglese Mary Katrant-zou, l’unica forse carissima in un panora-ma altrimenti esclusivo solo in termini digusto, offre vantaggi apprezzabili, eviden-ti anche dall’espressione di disappunto dichi continua invece a comprare le borsedel marchio globale, quello che si trovaidentico a Roma come a Shanghai e che ilconcept store tiene non tanto per fare cas-sa ma per garanzia, cioè per dimostrare alcliente smarrito, incerto sul proprio gustoe le proprie capacità di scelta, che qualun-que oggetto comprerà in quel negozio saràcomunque un acquisto riuscito.

Talvolta è una questione di contiguità,per cui anche una tavola da surf o unchiodo di pelle acquistano in standingdall’esposizione accanto a un Mimmo Pa-ladino o a un Keith Haring, che è quantoaccade per esempio nell’immenso Moc-Temple of enthusiasm di Lodi, galleriad’arte e store di moto e moda di GiulioGipponi che un paio di sere fa ha celebra-to se stesso e la prima mostra di fotogra-fie di Giorgio Restelli in un tripudio difacce televisive, ma è ovvio che orientar-si nella scelta e nei linguaggi non sia evi-dente senza le chiavi d’accesso a cui prov-vede il concept store certamente più ditanti siti e blog di mero volontariato este-tico. Ancora una volta, il famoso villaggioglobale è troppo globalizzato per chi siaimpegnato altrove durante la giornata, epochissimi gli indirizzi online che, comeil newyorkese askandyaboutclothes.com(“parlate di vestiti con Andy.com”), rac-colgano furiosi scambi di commenti e os-servazioni fra banchieri su temi come lospessore massimo accettabile della rigadella camicia, la caratura del brillantesui gemelli da sera o lo spessore dellamartingala, il tutto in orario di lavoro.

Mentre ogni giorno risulta più ovvio che,contrariamente a quanto sosteneva JohnKenneth Galbraith, il confronto sull’utilitàdel bene voluttuario non è un concetto an-titetico ma un elemento discriminante nel-la decisione di acquisto, i marchi di modae degli stessi concept store investono deci-ne di migliaia di euro nell’evoluzione co-stante del traffico sui propri siti.

D’altronde, non potrebbe essere altri-menti quando si tenta di offrire un’espe-rienza non esclusiva, altro termine defun-to con gli anni Ottanta, ma comunque riser-vata e speciale perfino nell’acquisto su In-ternet, che per il solito Luisaviaroma diAndrea Panconesi, per esempio, è un affa-re da qualche decina di milioni di euro, or-mai superiore a quello realizzato nel nego-zio accanto alla basilica di Santa Maria delFiore. L’e-retail experience, anzi la “sha-red experience”, l’esperienza condivisa,come scriveva di recente una delle più im-portanti consulenti mondiali del settore,Uché Okonkwo, in un manuale dedicatoappunto al lusso on line, è diventata l’ul-tima barriera per i marchi che tentano difar quadrare il cerchio, cioè di mantenereun’aura di lusso, di servizio ad personame di unicità, in un contesto democratico eal tempo stesso impersonale come il web:l’adesione massiccia dei brand come Guc-ci, Prada o Pucci ai social network, in cuiteam di ventenni postano messaggini twit-ter e aggiornamenti Facebook costanti, haappunto la funzione di momento aggregan-te ben prima che di suggerimento di acqui-sto. Il fine ultimo è sempre quello, si inten-de, ma per raggiungerlo, il direttore crea-tivo di Gucci Frida Giannini offre gratui-tamente ai suoi followers, i suoi sostenito-ri, i suoi fedeli, persino una compilationiTunes. Musica, non borse o tacchi a stilet-to: un’esperienza, insomma, e innanzituttoculturale.

Se vi trovate a passare da Lodifermatevi al Moc-Temple ofenthusiasm, troverete insiemegalleria d’arte e store di moto

Lo shopping ha superato ilproprio limite di scambiocommerciale per trasformarsi inmomento culturale, quasi mistico

Qualche costosissimo abito ditendenza. E l’inevitabile bancodel caffè, gadget nipponici, cd,quaderni, pantofole marocchine

Oggetti anche da pochi euroavvolti in metri di carta velina,imbustati non in sacchetti ma in“shopper”, sigillati come scrigni

Il taglio della torta in occasione del 33° anniversario (1931-1964) della Standa (foto Archivi Alinari)

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG X IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

Si maltrattano gravemente le vecchiette.Si toccano le tette a Monica Guerritore,

madre della futura sposa, sbagliando stan-za e scambiandola per la fidanzata (molticomplimenti alla signora – “se non son ri-fatte” – al tavolo della colazione dove l’im-barazzo si potrebbe scolpire con il coltelli-no del burro). Si strapazza-no cani con no-mi da cri-stiani, fe-steggiati ilgiorno delcomplean-no con l’im-mangiabi-le gulashdella pa-drona dic a s a .Siete av-v e r t i t i .Del restola seriebritanni-ca “TheW o r s tWeek inMy Life”(dal 2004,due stagioni dasette episodi, più uno speciale natalizio intre puntate) circola con la targa: “A comedyof embarassment and errors”. Segno chechi l’ha scritta aveva presente la “comedyof manners” – dalle commedie di Shake-speare a Oscar Wilde, ai recenti “The Offi-ce” o “Modern Family” – e l’ha incrociatacon la legge di Murphy: “Tutto quel che puòandar male andrà male”. Completa di co-rollario: “Quel che non può andar male, an-drà male lo stesso”. Finalmente si ride, nonsolo per l’incomprensibile gomitolo di pa-

CINEMACINEMACINEMALA PEGGIORE SETTIMANA DELLA MIAVITA di Alessandro Genovesi, con Fabio DeLuigi, Cristiana Capotondi

FAUST di Alexandr Sokurov, con JohannesZeiler, Anton Adasinsky, Isolda Dychauk,Hanna Schygulla

S P E T T A T O R I P E R U N A S E T T I M A N A

role sputacchiato da Alessandro Siani, iltestimone dello sposo, ogni volta che aprebocca. La scena si svolge sul Lago di Como,e anche a non essere leghisti un po’ di no-vità lacustre non fa male. Alessandro Geno-vesi aveva scritto per Gabriele Salvatoresla sceneggiatura di “Happy Family” (da unsuo copione teatrale). Meglio tardi che mai,capiamo che il problema in quel film erail regista, scarso della prontezza utile alla

comicità. E gli attori,diretti come sestessero recitan-do chissà qualedramma: a ripu-lire un po’ daibirignao Fabri-zio Bentivoglioha provatoFrancesco Bru-ni in “Scialla!(Stai sereno)”,ma son pro-prio incro-stati. FabioDe Luigi èlo sposo,con al se-

g u i t ou n ap a z z a

che vuolmandare

a monte ilmatrimonio, per la sco-

pata di una notte mai dimenticata. AntonioCatania e Monica Guerritore i genitori del-la sposa (quelli dello sposo sono una sor-presa prima del finale). Cristiana Capoton-di è la fidanzata. Non sembra di avere re-gistrato battute su Berlusconi, e neanchesui precari. Da qui l’accusa di “film fuoridal mondo” (ma davvero credete che alleprove della cerimonia i fidanzati parlino diTremonti?). A proposito: il regista Alessan-dro Genovesi veste la tonaca del prete chenon tollera ritardi.

Abbiamo provato a descrivere il “Faust”(Leone d’oro a Venezia) come un’ope-

ra mondo. Uno di quei film – ma vale an-che per certi romanzi (il copyright dellaformula lo detiene Franco Moretti fratellodi Nanni) – stratificati e avvolgenti, che se-guono solo le proprie regole. Film che han-no l’horror vacui, quindi riempionoall’inverosimile ogni in-quadratura,anche inprofondità:sfondo, pri-mo piano,primissimopiano, unacontroscenanell ’ango-letto, o undettaglio in-congruo chesi sommaagli altri.Uno di queifilm chenon rispar-miano suid i a l o g h i ,concedendosianche il lussodella linguaadatta: AlexandrSokurov è un regi-sta russo, ma il suo Mefistofele lo ha volu-to nel tedesco di Goethe. La colonna sono-ra deve combattere, per riuscire a farsisentire: Wagner in questi casi dimostra tut-ta la sua utilità. Oh gioia, finalmente unfilm massimalista: la rarefazione sarà an-che elegante come gli arredamenti bianchie acciaio, ma qualche volta fa rimpiangerei ninnoli e i soprammobili della nonna.Avevamo provato a descrivere questo Fau-

st come un’opera mondo, compilando unapiccola mappa a uso dello spettatore. Pa-recchia pittura, fiamminga, ma non solo,dalla “Lezione di anatomia” di Rembrandt(prima scena, quando un cadavere vienesmembrato in cerca dell’anima) a Vermeer(ogni volta che entra in scena la bella Mar-gherita), passando per Hieronymus Bosch,quando il molliccio e spelacchiato Belzebùsi rivela asessuato davanti, e con una codi-na dietro. Parecchia filosofia, non di quel-la che insegna a vivere. Un patto diabolico

scritto con sangue e svarioni orto-grafici. Abbiamo provato a

descrivere questo “Fau-st” come la contro-

parte nera di “L’al-bero della vita”

di TerrenceM a l i c k :usurai ebrama dip o t e r econtro tra-monti epiedini dibambini,terra esporciziac o n t r ocielo e

candore .A b b i a m o

provato ditutto per convincer-

vi a vedere il film, ultimo capito-lo in una tetralogia del potere cominciatacon Hitler, Lenin e HiroHito (anche “L’ar-ca russa”, passeggiata di un’ora e mezza al-l’Hermitage, non è niente male). Abbiamoprovato ad attirarvi riferendo che Sokurovnon dimentica lo smalto fango di Chanel.Abbiamo provato, appunto. Perché la sinte-si magnifica e convincente era sull’Hol-lywood Reporter: “Taking highbrow to theedge of slapstick”. Cultura alta e comicitàda cinema muto.

scelti da Mariarosa Mancuso

Il bar è anni Settanta, dal primo romanzodi Stefano Benni uscito nel 1976 (Feltri-

nelli ancora lo ristampa, nel 1997 è uscito ilsequel, “Bar Sport Duemila”). La recitazio-ne è anni Settanta, fatta eccezione per TeoTeocoli che assieme a Vito sta una spannasopra gli altri. Perfino la regia è anni Set-tanta, figuriamoci le luci e la scenografia.Se vi viene il magone a vedere l’albero deiboeri, il flipper che va in tilt, il mago delflipper con i guanti da guida, il moroso ap-pena lasciato che chiede al barista centogettoni, tanti ne servono per convincere lamorosa a ripensarci, è il film per voi. E perchi si emoziona a sentir nominare GloriaGuida e il suo film “La liceale”, e per chiriesce a ridere “vintage”, da SettimanaEnigmistica o da Palestra dei Lettori, untanto a freddura e pazienza se sono ricicla-te. Per esempio, guardando un’insegna –quella del Bar Sport appunto – che non siaccende mai, e quando si accende fa corto-circuito. Modernariato a parte (con un fla-shback che torna all’infanzia, in Italia laparola regista e la parola scrittore rimanesempre con nostalgia) il passaggio alloschermo non risulta indolore. Eppure Ste-fano Benni si è fatto pregare a lungo, primadi cedere i diritti ad amici fidati. Tropposotto il tallone filologico dello scrittore –Benni vuole rileggere e approvare le inter-viste, ora le concede solo via e-mail, comequella su Vanity Fair – per prendere le giu-ste decisioni.

BAR SPORT di Massimo Martelli, con Clau-dio Bisio, Giuseppe Battiston, Antonio Cata-nia, Angela Finocchiaro

Massimo Boldi, imbonitore su TeleLec-co Sat dove promuove il materasso

“Dormi e Ciula”, si fa la sua via crucis du-rante il primo quarto d’ora. Parti basseasciugate con il phon (ha la peggio l’asciu-gacapelli), bassottino scodinzolante scam-biato per un piedino, ricerca affannosa diun bagno a Parigi. Più avanti, il lato B diMassimo Boldi sarà insidiato da una ma-schera di Pinocchio con il naso in erezio-ne. Pagati i pegni, “Matrimonio a Parigi”va via veloce, accumula gag, spara battu-te con ritmo sconosciuto ai cinepanettoni.Fa bene a Massimo Boldi essere tornatotra le tv ruspanti, come quando facevaMax Cipollino. E fa bene al film “prepa-nettone” aver arruolato Anna Maria Bar-bera alias Sconsy. L’attrice non vuole esse-re identificata con il personaggio, ma lavenditrice di lingerie con una passioneper gli abiti da sirena che ricordano la Ma-bilia dei Legnanesi ha lo stesso modo diparlare per svarioni. “Abbackingham pa-lace” o “abito da sangria”, quando le di-cono che l’abito da cocktail costa troppo.Si concede anche un défilé alla “PrettyWoman”. Vale la legge dei panorami pari-gini: da qualunque finestra si vede la TourEiffel. Ma la signora di provincia ha le sueidee: “La facevo più slanciata”. Cameosimpatico per Rocco Siffredi, nella partedi uno stilista con sciarpetta arcobalenoche agli aperitivi di gala serve le patatinedello sponsor.

MATRIMONIO A PARIGI di Claudio Risi,con Massimo Boldi, Biagio Izzo, MassimoCeccherini, Anna Maria Barbera

Per lavare e cambiare un vecchio mala-to di Alzheimer la badante iraniana de-

ve chiedere lumi alla polizia coranica: sì so-no sola in casa, no non posso chiamare unvicino, certo si tratta di un’urgenza, i paren-ti rientrano la sera tardi. La figlia piccola –già a sua volta con il velo, ne producono dicomodissimi con l’elastico – guarda la mam-ma e le dice: “Non dirò niente a papà”. Ba-sta per bandire tutti i discorsi che attorno alvelo ricamano sofismi. Basta per celebrareil talento di un regista quasi quarantenneche segna una svolta nel cinema iraniano,liberandolo da Abbas Kiarostami e dal neo-realismo. C’è un terzo velo, nel film. Plisset-tato, in nuance con lo spolverino e morbida-mente appoggiato sui capelli rossi, appar-tiene a Simin, tanto benestante da decide-re di emigrare con marito e figlia. Se solo ilmarito accettasse di lasciare a Teheranl’anziano genitore. Per questo Simin chie-de il divorzio da Nader: nella prima scenali vediamo davanti al giudice, mentre cerca-no di far valere le rispettive ragioni. Parla-no e parlano, più nervosamente che in“About Elly”, dove un gruppo di amici par-tivano per il fine settimana con fuoristradae borse Vuitton. In quel film c’era un grancolpo di scena verso la metà, quando lospettatore era sul punto di uscire. In “Unaseparazione” la struttura è più complessa.Per chi l’ha scritta e recitata, non per lospettatore subito risucchiato in questa sto-ria dove tutti hanno torto.

UNA SEPARAZIONE di Aschar Farhadi,con Sareh Bayat, Sarina Farhadi, Leila Hata-mi, Kimia Hosseini

Non sto cercando me stesso. Sono nelNew Mexico, non in India”. La rock

star cinquantenne ha ancora le labbrascarlatte e le unghie smaltate. Da grandedepresso, Cheyenne ha idee precise sulmondo: la piscina vuota serve per giocarea squash con la moglie pompiera, alle an-tipatiche del supermercato bisogna buca-re il cartone del latte, le ragazze rock & rolldevono sposare timidi camerieri di tavolacalda, affidabili e di lunga tenitura. Frasimagnificamente scritte, pronunciate daSean Penn con voce in falsetto, lunghe pau-se, una cadenza a lungo studiata eppure na-turalissima. Cheyenne cerca l’aguzzino disuo padre in campo di concentramento, do-po che il genitore è morto. Giureremmo diaver sentito a Cannes, quando l’ex rock starentra nell’appartamento apparecchiato alutto, con dolenti in kippah e candelabri asette braccia, la frase: “Non sapevo che miopadre fosse ebreo”. Sean Penn merita l’O-scar, oltre alla nostra ammirazione. Sappia-te però che in italiano Cheyenne ha una vo-ce più virile, Paolo Sorrentino ha deciso co-sì. La forza del personaggio fa dimenticarela trama minima, quasi una serie di comi-che intelligenti e sottili. Aveva lo stessoproblema “L’amico di famiglia”: protagoni-sta azzeccatissimo, finale incerto. QuandoSorrentino troverà uno scrittore di trameall’altezza del suo occhio, nessuno lo fer-merà. Già così, in Italia non ha rivali.

THIS MUST BE THE PLACE di Paolo Sor-rentino, con Sean Penn, Frances McDor-mand, Judd Hirsch, Eve Hewson

Terza commedia sulla “friendship withbenefits”, o relazione “fuckbuddy”. Sia-

mo nel territorio più delicato delle scara-mucce tra i sessi: a letto, tra amici, si dico-no cose che con un progetto di fidanzamen-to non si pronuncerebbero mai. Lei, disin-volta: “Tieni pure accesa la luce, non miimporta se mi vedi la cellulite”. Risposta dilui: “Credo che terrò addosso i calzini, tan-to non voglio fare buona impressione”. Siimparano anche altre cose da “Amici di let-to”, che spesso e volentieri fa il contrope-lo alla solita commedia romantica (quelladove i due si innamorano prima di scopare,per intenderci). “Perché non fanno mai ve-dere cosa succede dopo?” chiede lei. “Lofanno, si chiama porno” risponde lui. Nonlo scopriamo adesso, che il porno delledonne è la commedia romantica: ma avereuna battuta di film per dirlo evita noiosediscussioni a cena. Dirige Will Gluck, regi-sta di “Easy Girl”, film sparito dalle saletroppo presto perché scattasse il passapa-rola: una ragazza si fingeva non più vergi-ne per darsi un tono, e finiva nei guai (il piùdivertente: gli imbranati della scuola le of-frivano soldi per simulare una seduta disesso selvaggio, rialzando le proprie azio-ni). Splendidi Patricia Clarkson (mammasessantottina), Richard Jenkins (genitorecon l’Alzheimer), Woody Harrelson gaysbrigativo e old fashion: da rimorchio alclub, non da famiglia e diritto all’adozione.

AMICI DI LETTO di Will Gluck, con MilaKunis, Justin Timberlake, Patricia Clark-son, Richard Jenkins

Arriva l’altra Grande Depressa di Can-nes, dopo la gothic rockstar Cheyen-

ne in “This Must Be The Place” di PaoloSorrentino. La fresca sposa Kirsten Dun-st (tre film alle spalle come fidanzata tra-scurata di Spider Man) è tanto infelice danon temere la fine del mondo. Sarebbe unsollievo per le sue paturnie, che includo-no lo sdraiarsi nuda nei boschi. Il matri-monio si festeggia in campagna, dalla so-rella Charlotte Gainsbourg: bella magio-ne, ma così difficile da raggiungere che lalimousine stretch non riesce a fare la cur-va. Neppure gli invitati sono di buonumo-re, specialmente i genitori della sposa:Charlotte Rampling è anche più acida diquando, in “Perdona e dimentica”, mette-va paura perfino al pedofilo. I primi die-ci minuti sono sublimi, come erano subli-mi i primi dieci minuti dell’“Anticristo”,nella loro oscenità ritmata da “Lasciach’io pianga” di Handel. Poi, il disastro(nell’ “Anticristo”, c’erano perfino gli ani-maletti parlanti). O il mezzo disastro, comein questo caso, che segue le splendide car-toline dall’Apocalisse girate al rallentato-re, con l’ouverture del “Tristano e Isotta”di Wagner: per la seconda volta prendia-mo atto che il ralenti può anche non esse-re un mezzuccio da dilettanti in cerca dieffetti. La sposa corre nel prato fradicio,acchiappata da legacci e radici. I pianetipericolosamente si allineano, piovono uc-celli candidi.

MELANCHOLIA di Lars von Trier, con Kir-sten Dunst, Charlotte Gainsbourg, KieferSutherland, Charlotte Rampling

R I P E S C A G G I

Steven Spielberg non aveva mai sentito il nome di Tintin fino a che un recen-sore francese scrisse che “I predatori dell’arca perduta” somigliava ai fumetti diHergé, all’anagrafe (belga) Georges Remi. Non essendo un bambino francofono,non c’era motivo perché conoscesse gli albi del giovane reporter con il ciuffo e icalzoni alla zuava. Il paragone lo colpì, andò a leggersi sacri ai tintinofili (in Fran-cia e non solo puntigliosi come i fanatici della Terra di Mezzo, delle cronache diNarnia, di Star Wars e naturalmente di Indiana Jones) e fu preso da passione.Così noi, per amore del regista (e perché “Le avventure di Tintin – Il segreto del-l’unicorno” era l’altro ieri in anteprima al festival di Roma, e da ieri nelle sale ita-liane) abbiamo passato due ore in compagnia dell’avventuroso ragazzino. Di un ti-petto che fa il cronista e risolve misteri, del suo candido fox terrier Milou, del Ca-pitano Haddock, degli investigatori in bombetta Tompson & Tomson, uno con la“p” e l’altro senza.

Non si può dire che il film non sia un bello spettacolo, pieno di inseguimentiin luoghi esotici e con una comicità da ragazzini cresciuti prima della Secondaguerra mondiale (ci fu per Hergé anche un’accusa di collaborazionismo, e da de-cenni la gauche francese si tormenta: “Posso essere di sinistra anche se mi piaceTintin? anche se gira da uomo bianco per le colonie? anche se nei suoi fumetti gliindigeni parlano come i baluba?). Il combattimento sulla nave dei pirati è gran-dioso, il cattivo Sakharine fa venire i brividi a qualsiasi ragazzino nella fase “vie-ni avanti, fellone”. Agli altri sembra il fratello gemello del regista, a dispetto del fat-to che sotto la tuta e i sensori della performance capture c’era l’attore Daniel Craig.

Nella tecnica usata sta uno dei problemi. Non ricordiamo un solo film riusci-to davvero, rielaborando al computer le facce e i movimenti degli attori. La rac-contiamo facile, ma non lo è: per questo Steven Spielberg ha voluto come com-pagno di giochi e produttore Peter Jackson, in pausa da Tolkien (siccome la sa-ga incombe, al prossimo film si scambieranno i ruoli). Fanno eccezione alla re-gola lo scimmione Cesare e Gollum di Andy Serkis: ma nessuno dei due, con ri-spetto parlando, era umano. Gli umani erano plasticosi in “Polar Express” diRobert Zemeckis, anno 2004, e sono plasticosi anche nel 2011 e con gli occhiali-ni del 3D. Lo one man show del Capitano Haddock nel deserto, mentre Tintingli toglie la bottiglia e Milou lo fa bere (ha ragione il cane, per mandare avantila trama), dura troppo a lungo. Fanno più simpatia umana i personaggi fabbri-cati con la sola animazione.

Secondo problema: Hergé disegnava le avventure del reporter saccheggiando ilcinema popolare americano. Film come “La rosa purpurea del Cairo” nel film diWoody Allen. O il King Kong di cui era innamorato il giovane Peter Jackson. Ve-ro è che nessuno inventa mai niente, ma a volte il circuito chiuso del riciclo (chia-mateli matrimoni tra consanguinei, che rende bene l’idea) produce film stanchi.Ed è pure un po’ incestuoso.

Popcorn

A FEW BEST MEN – TREUOMINI E UNA PECORA diStephan Elliot, con Kris Mar-shall (fuori concorso)

Nel racconto “La sovrana let-

trice”, Alan Bennett fa pronunciare allaregina Elisabetta un paio di battute control’Australia, “terra di pecore e domenichepomeriggio”. Facile capire la puzza sottoil naso dei britannici, che laggiù a suo tem-po deportarono i criminali. Questo il retro-scena. In scena, il matrimonio di una ere-ditiera degli antipodi (ramo politica) conun inglesino che si porta dietro tre testi-moni del genere combinaguai. Animalistiastenersi: la pecora viene ripetutamente efantasiosamente violata. Olivia Newton-John (di “Grease”) è la madre della sposa,che balla macarena e YMCA. Lo sceneg-giatore è Dean Craig di “Funeral Party”, lamigliore farsa funeralizia di sempre.

HOLLYWOOD BRUCIATA – RITRATTODI NICHOLAS RAY di Francesco Zippel(Extra)Anche questo film aveva il suo gadget, me-no divertente del vibratore rosa che ac-compagnava “Hysteria”. Una benda perl’occhio, segno distintivo di Nicholas Ray.Prima, quando ancora guardava con dueocchi azzurri, raccontava così “Gioventù

bruciata”: “Avevo fatto tre film per le tas-se e la pagnotta, ne volevo uno che mi pia-cesse. C’erano sei ‘Guerra e pace’ in prepa-razione, quindi decisi di raccontare i gio-vanotti della porta accanto”. A presentar-lo c’era Stewart Stern, sceneggiatore delfilm con James Dean e Sal Mineo. Inonda su Studio Uni-versal il 7 novem-bre.

LA BRIN-DILLE diEmmanuelleMillet, conChrista Thé-ret (Alice nel-le città)La ragazzasviene al lavo-ro. All’ospedalele dicono: “E’ in-cinta di sei me-si”. Lei non se n’eraaccorta, o almeno cosìdice. E non ha neanche unfilo di pancia. La sistemano inun foyer per ragazze madri (siamo in Fran-cia, dove queste cose funzionano). Darà ilfiglio in adozione. Trama da spot a favoredei contraccettivi. Se solo non durasse co-me un vero film.

Mariarosa Mancuso

Le previsioni di ieri sulla godibilità deifilm della Festa di Roma sono largamen-te confermate dai primi titoli. Risateesplosive per “A Few Best Men” diStephan Elliot (pronunciarlo “Stefàn” perdarsi arie da insider): suo l’intramontabi-

le “Priscilla, la regina deldeserto” e il

d e l i z i o s o“ M a t r i -m o n i oa l l ’ i n -glese”.T a n y aWexler(regia) eStephene JonahL i s aD y e r(sceneg-

giatura)non li co-

noscevamo,ma non han-no deluso le

fervide attese per “Hy-steria”, commedia su un fatto storico: l’in-venzione del primo massaggiatore elettri-co per curare l’epidemia d’isterismo tra ledonne vittoriane. E’ inutile sentirsi supe-riori all’ignoranza scientifica d’allora. Ec-co Maggie Gyllenhaal, che ha visto il film

per la prima volta a Toronto: “Dopo le ri-sate si sentiva nello scafato pubblico festi-valiero il disagio, l’imbarazzo per il tema.Nemmeno oggi è facile dire ‘C’erano medi-ci che facevano ditalini a donne sessual-mente frustrate’. E pensare che il celebresaggio di Anne Koedt, ‘Il mito dell’orga-smo vaginale’, risale al 1970”. Repetita iu-vant. Era facile scrivere il fantastico copio-ne torcibudella, secondo i Dyer, marito emoglie. “L’immagine di seriosi dottori inpanciotto e pince-nez che masturbanofemmine fino all’orgasmo è piuttosto comi-co di suo”, specie se lo definiscono “paros-sismo per il sollievo di agitazione, nervosi-smo e senso d’attesa”. Nessuno degli auto-ri sembra conoscere Betty Dodson, la ses-suologa femminista e dadaista, ancoratrattata da molti come un freak, che hapresentato a migliaia e migliaia di donneestasiate l’Hitachi Wand, la Cadillac deivibratori moderni. Un’antropologa amicadella Gyllenhaal importa carrettate di vi-bratori in Africa, per donne con mutilazio-ni vaginali. “E’ particolarmente difficilegodere senza la clitoride”, dice Maggie.“Hanno proprio bisogno dell’elettrodome-stico!” Ai maschi che si sentono minaccia-ti dal potenziale sostituto, Dyer consiglia:“Abbracciate la tecnologia!”. Come dicevail poeta e commediografo Arnold Wein-stein, “It takes the pressu-re off a guy…”.

Una benda per occhi e un vibratore sono i gadget del Festival

FESTIVAL DI ROMA 2011

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG XI IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

ANNO XVI NUMERO 255 - PAG XII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 29 OTTOBRE 2011

LA PARTITA INFINITA

Inter-Juventus non finisce mai. Questa èla prima di un’altra serie: si ricomincia

senza aver mai finito, perché questa par-tita c’è stata anche quando non s’è gioca-ta, figurati adesso. Cinque anni dopo Cal-ciopoli c’è il pallone, ci sono le polemicheche covano, c’è la rivalità storica e soprat-tutto recente, c’è un clima da attesa peren-ne. Calcio, sì. E poi? Qualcuno lo chiamaancora derby d’Italia perché lo è: insiemefanno oltre il 50 per cento dei tifosi del-l’intera serie A. Non basta, ovvio. Inter-Ju-ventus oggi è nei tribunali e in Lega calcioesattamente quanto sul campo di San Si-ro. Si gioca di continuo, ogni giorno per-ché le partite a carte bollate non hannosupplementari, né rigori: vivono nella ri-valità eterna e nell’altrettanto eterno gio-co del rinfaccio. L’Italia ci casca sempre:la questione dello scudetto 2006 è lo sfon-do che finora ha trasformato uno degli ap-puntamenti popolari più sentiti dell’anno,di ogni anno, in una palude giuridico-am-ministrativa da azzeccagarbugli. Una ver-gogna che rischia di far sembrare signori-le e divertente lo sfottò più triviale dellecurve. I gol di Boninsegna, Rossi, Platini,Ronaldo, Ibrahimovic sono stati per trop-po tempo una questione da burocrati delpallone. Il campionato del 2006 contesonon più sul terreno, ma in ogni Aula diogni grado di tribunale. Prescritto l’ipote-tico reato dell’Inter che avrebbe potuto odovuto lasciare non assegnato quello scu-detto: questo dice la cronaca, quella diquest’estate. Le telefonate di Facchettiche secondo la Juventus coinvolgevanoanche l’Inter nel sistema delle pressionisu arbitri e Federazione sono state sco-perte tardi. La legge è legge, perfetto. Pre-scrizione è prescrizione, ottimo. Il proble-ma qui non sono le sentenze o i capisaldi

dell’ordinamento giuridico. Tutto a tavoli-no: ricorsi, controricorsi, decisioni, carte,documenti. Il pasticcio vero è che così tut-ti hanno ragione e tutti torto: l’Inter che sitiene quel trofeo, la Juve che può dire chela prescrizione non è un’assoluzione. Sem-bra la politica. E’, molto più semplicemen-te, l’Italia. Gli Agnelli contro i Moratti, iMoratti contro gli Agnelli come Guelficontro Ghibellini: battute, frecciate, accu-se. Buoni contro cattivi, dove non gli unie gli altri si scambiano i ruoli a secondadel tifo, non della cronaca né tantomenodella storia. Non c’è una verità: c’è unaversione per ognuno che diventa verità diparte.

Ogni volta che si parla di Juventus-Intero di Inter-Juventus, da cinque anni vienetirata fuori questa storia: Moggi e il postMoggi, lo scudetto degli onesti o lo scudet-to di cartone. Il calcio è un dettaglio:dov’è? Cos’è? Qualcuno si ricorda quant’èfinita l’ultima sfida tra queste due squa-dre? La partita è il pretesto per parlare diquesta grande storia molto italiana: unacommedia dell’arte che non fa ridere,semmai fa venire un senso di noia dachiacchiera da bar. Tanto non se ne escee non se ne uscirà: per i tifosi della Juven-tus gli scudetti saranno sempre 29 e non27. Moggi o non Moggi, Calciopoli o nonCalciopoli, sentenze o non sentenze, sonoconvinti che i campionati siano stati vintisul campo. I tifosi dell’Inter, invece, con-siderano roba loro i trofei vinti a fine esta-te, con la penalizzazione di Juve e Milan.La gente non cambierà certo idea per unadecisione del Consiglio federale. La Figcavrebbe dovuto pensarci prima, invece dichiudere in fretta quella stagione convin-ta che così si sarebbe risolto tutto. La ve-locità ha prodotto un mostro giuridico-bu-rocratico che ha distrutto molte più cosedi quanto abbia fatto lo scandalo di Cal-ciopoli. Perché alimenta rivendicazioni dichiunque, perché banalizza a dato statisti-co qualcosa che di statistico ha poco: ilpallone non è un conto preciso. Due piùdue nel pallone può fare tre o cinque, per-ché i sentimenti e il tifo sono in grado direndere un risultato diverso da quelloconsiderato reale per convenzione.

Il tifoso parla di se, di ma, di pali, di tra-verse, di rigori dati e fuorigioco fischiatia vanvera: il punteggio per lui tiene con-to anche di questo. Allora uno zero a zerosi trasforma in un due a zero virtuale cheresta nella memoria collettiva e non negliarchivi. E’ il brutto e anche il bello del cal-

cio: è tutto quello che le carte bollate chedal 2006 viaggiano tra Milano, Torino e Ro-ma non comprendono. Così come è ora, Ju-ventus-Inter non durerà mai più 90 minu-ti. Per ridarle umanità da calcio, ci vuoleun arbitro che commetta un errore. Unograve, uno da veleno. Perché è più bello ilsospetto di una burocratica e inutile cer-tezza.

San Siro stasera può dare questo. Il pri-mato del pallone sulle chiacchiere. Si gio-ca per vincere: la Juventus prima in cam-pionato come non succedeva (in serie A)proprio dal 2006, l’Inter che fatica, ma cheè sempre l’Inter di questi ultimi anni. Cioè

più forte degli avversari, almeno sulla car-ta, almeno come organico, almeno comeabitudine recente alla vittoria. La Juve,questa Juve, ha la faccia giovane e un po’esagitata di Antonio Conte che da quel2006 uscì due volte travolto. Di tutte le vit-time che ha fatto Calciopoli, lui è la piùnascosta, ma forse la peggiore: fregato duevolte, appunto. Prima accusato di esserefiglioccio di Moggi, bambolotto usato percurare gli interessi della “Cupola” a Siena(quando arrivò la prima volta come vice-allenatore); poi retrocesso per colpa diuna partita scandalosa per davvero, figliadi una società e una squadra che hannovoluto far credere a tutti di essere pulite,serie, diverse e invece non hanno garanti-

to regole e giustizia. Qualcuno forse ricor-derà: lui era l’allenatore dell’Arezzo chefece una rimonta straordinaria nel cam-pionato 2006-2007 di B. Sembrava spaccia-to, invece, arrivò a giocarsi tutto all’ultimagiornata. La Juve, la Juve retrocessa cheaveva già vinto il campionato da diversegiornate, perse in casa con lo Spezia, cioècon la squadra che contendeva all’Arezzodi Conte la salvezza. Risultato: liguri sal-vi, toscani in C. Per colpa della Juve. An-tonio parlò: “Rispetto tanto i tifosi juven-tini, ma ho poco rispetto per la squadra.Retrocedere così fa male, però mi fa capi-re cose che già sapevo. Nel calcio si parlatanto, tutti sono bravi a parlare, adessosembrava che i cattivi fossero fuori e checi fosse un calcio pulito, infatti siamo con-tenti tutti, evviva questo calcio pulito”.Conte ha ingoiato la cattiveria della Juvepost Calciopoli, però non ha potuto resi-stere al richiamo dell’amore quando glihanno chiesto di tornare. E’ cambiatoqualcosa, comunque. Questa nuova Juvenon è come l’altra nuova Juve. La storiadello scudetto 2006, per l’allenatore, è lagaranzia: la dirigenza attuale non regale-rebbe come ha fatto la precedente né laretrocessione né quel successo. Ora lottaanche per riprenderseli. Lotta contro l’In-ter, sempre. Contro una squadra e un clubche invece non ha avuto bisogno di cam-biare: Moratti c’era, Moratti c’è. Morattiche nei confronti di quel campionato dicinque anni fa non ha mutato giudizio: loconsidera roba sua senza dubbi.

Sono anni ormai che Moratti s’è stanca-to di fare il ricco iellato, giudicato tropposignore per vincere nel mondo del pallo-ne. Gli scudetti e la Champions vinti glihanno gonfiato il petto. Finalmente, sì. E’

diventato più cinico. Se ne frega se qual-cuno gli rinfaccia che ha cominciato a vin-cere quando ha preso gli ex juventiniIbrahimovic e Vieira. Basta, pensa. Basta,dice. Basta significa anche che quest’an-no ha scientificamente pensato di tirare ilfiato. Si vende. Eto’o e non solo. Moratti èstato lo sceicco bianco del calcio europeoper tanto tempo: ha speso per provare avincere e però perdeva, poi ha continuatoa spendere per vincere e ha vinto. Ora sicalma. Non si può essere come mister Pa-ris Saint-Germain e mister ManchesterCity. Non è più tempo per noi. Né per l’I-talia, né per l’Inter. Moratti arretra: perdieci anni è rimasto uguale a se stesso,convinto che l’amore, la storia, il passatodi una famiglia che fece grande una squa-dra, fossero abbastanza per avere applau-si e gloria, per sentirsi dire grazie anchese non vinceva mai e di fronte aveva queicannibali pallonari dei milanisti. L’uomoromantico che in una sera aprì la cassafor-te di famiglia per riprendersi quello cheera suo c’è ma non si vede più. Dentro disé ha ancora il piacere di pensare che unagrande giocata, un calciatore che fa spet-tacolo, una partita da grandissima squa-dra siano sufficienti per tornare a casa lasera e pensare che in fondo il presidenteè uno che mette i soldi per far divertire glialtri, che ha un dovere morale nei con-fronti dei tifosi che pagano il biglietto. Peranni ha avuto delle serpi in seno che glihanno rovinato la vita e la sua creatura.Dove non si vedevano, ma dove contavano,ci sono state troppe persone che l’hannopicconato: consiglieri, paraconsiglieri,vecchie glorie che succhiavano dallamammella gratificante di un signore trop-po ricco e troppo generoso. Poi è cambia-

to molto. Praticamente tutto: lui, l’allena-tore, Branca. Stop. Più i consiglieri fidati:il figlio Angelo Mario e Stefano Filucchi.Poca gente, poche parole. Anche questo faparte del cinismo. Quello che senti que-st’anno anche nelle parole: si lamenta sen-za più troppi pudori dei torti arbitrali. Ilrigore dato al Napoli a San Siro l’ha fattoinfuriare molto più di quanto abbiano fat-to le polemiche con la Juventus e con An-drea Agnelli nei mesi scorsi. Anche que-sto fa derby d’Italia.

Anche questo, perché dentro questapartita ci finisce tutto. Per troppi anni nonè stata la stessa: l’Inter troppo forte e la Ju-

ve troppo debole. Quest’anno la classificadice il contrario, anche se la realtà fa pen-sare che il livello sia invece comunque si-mile. Ecco perché è un nuovo inizio. La ri-valità trasferita solo sui banchi della giu-stizia non potrà mai arrivare a far goderequanto quella sportiva. Quando GianniBrera lo definì il derby d’Italia, non eraancora successo quasi nulla. Nel 1967 vole-va descrivere una rivalità acerrima, comequella tra due squadre della stessa città.Ma non aveva visto Calciopoli, gli scudettirevocati, il fallo di Iuliano su Ronaldo,quello degli interisti su Buffon, i cori con-tro Balotelli e tutto il resto, compreso l’ul-timo capitolo delle carte bollate e dei ri-corsi contro l’assegnazione dello scudetto

di cinque anni fa. La cronologia però c’è.Ci sono le origini dell’odio, c’è lo sviluppo,ci sono gli aneddoti, c’è il sapore. C’è quel-lo che un professore di storia popolareriassumerebbe così: “Capo e coda dellalunga vicenda hanno una cosa in comune:la Juve che vince 5 scudetti fra il 1931 e il1935, i nerazzurri che fanno lo stesso tra il2006 e il 2010 (con il primo titolo a tavoli-no). In mezzo c’è Meazza mito dell’Interche a fine carriera passa in bianconero, eil 9-1 del ’61 con 6 gol di Sivori (record): l’u-nico gol nerazzurro fu di Sandro Mazzola,talento della Primavera schierata da An-gelo Moratti per protesta contro la Feder-calcio di Umberto Agnelli e la sua revocadi uno 0-2 a tavolino per i nerazzurri. Poitutti gli anni Sessanta, la Grande Inter diMoratti padre e di Herrera, che incarna ilpotere con il manager Allodi, moderno intutti i sensi. Arrivano i Settanta, domina laJuventus, i nerazzurri vincono uno scudet-to ogni dieci anni, più o meno. Ci sono due4-0 a San Siro per la Beneamata, nel ’79,stagione del tricolore, e nell’85, ma i suc-cessi juventini non si contano (il bilanciodel derby è 95 a 67 per i bianconeri, 51 i pa-reggi). Il presidente dell’Inter Pellegrini,imprenditore dei cibi precotti, viene irrisocome ‘il cuoco degli Agnelli’ perché rifor-nisce anche il nemico. Lo zenit della riva-lità si raggiunge però negli anni ’90. Nel ’98l’Inter di Ronaldo rimonta 8 punti alla Ju-ve nel girone di ritorno, nonostante una se-rie di decisioni arbitrali molto discusse afavore dei bianconeri. Nel big match di To-rino Ceccarini non dà un rigore clamoro-so agli ospiti per fallo di Iuliano sul Feno-meno, la Juventus vince 1-0 e si invola ver-so l’ennesimo titolo. Niente sarà più ugua-le. La pagina più nera dell’Inter recente, il5 maggio 2002 all’Olimpico, significa un al-tro scudetto, insperato, per i rivali. Dueclub, due mondi troppo lontani, simboleg-giati in qualche modo da Lippi in panchi-

na e Cannavaro in campo: formidabili conla Juve, fallimentari con l’Inter, tra sospet-ti e recriminazioni. Il conto si salda nell’e-state del 2006. Calciopoli manda in B la Ju-ve di Moggi che si è appena presa il 29esi-mo titolo, poi assegnato all’Inter. La storianerazzurra cambia di colpo, quella bianco-nera vive la stagione più buia. Ibrahimovice Vieira si trasferiscono a Milano. Da allo-ra è guerra, strisciante o dichiarata. Vec-chie e nuove dirigenze non resistono allatentazione della battuta cattiva, il fair playè una finzione passeggera. Il (pen)ultimoterreno di scontro sono i cori bianconericontro Balotelli, che non c’è più”.

Anni di fuoco prima di oggi. Cioè diquesto nuovo inizio. Inter-Juventus valepiù di ogni altra, più di Milan-Inter, più diJuventus-Milan, più di Roma-Lazio. E’una specie di questione identitaria, unasfida infinita che puoi portare ovunque.Nelle città, nell’economia, nella finanza,nella società, nella musica, nel cinema.C’è sempre un Inter-Juventus e quest’an-no di più. C’è Fassino (sindaco di Torinoe juventino) contro Pisapia (sindaco di Mi-lano e interista). Fiat contro Saras in eco-nomia, Ramazzotti contro Ligabue nellamusica, Travaglio (Juventus) contro Ler-ner (Inter) nel giornalismo militante,Chiabotto (Juve) contro Canalis (Inter)nello showbiz, Stefano Boeri (Inter) con-tro Gino Zavanella (Juve) nell’architettu-ra. Vuoi altro? C’è, per forza. Virtualmen-te o realmente in questo paese potrestitrovare infiniti derby d’Italia: un interistae uno juventino che rivaleggiano ci sonoanche a ogni semaforo di ogni singolacittà vicina o lontana a Milano o Torino. Cisono nelle redazioni dei giornali, anche.Certo. Ogni altro antagonismo si risolve,Juventus-Inter no. Piace anche a chi nonè né interista né juventino: ci si ritrova co-me in un paese dove al cinema ridanno glispezzoni delle salite del Giro con Coppi eBartali. Ci si divide anche se non si tifa néper l’uno né per l’altro. Siamo noi, sempli-cemente. Il pallone ti consegna l’opportu-nità di detestare un altro. Vederli scan-narsi per un rigore negato, per una spin-ta, per un gol regalato è un piacere inim-maginabile. Coinvolge tutto. Ci sono mogliche somatizzano l’interismo o lo juventi-nismo del marito tanto da farsi venire labile quando il vicino avversario apre laporta di casa. “Buonasera faccia di culo”.Sono novanta minuti eterni. Che cosa c’èdi meglio? Che cosa c’è di più orgogliosa-mente italiano?

Conte, prima accusato diessere figlioccio di Moggi, poiretrocesso (con il suo Arezzo),proprio per colpa della Juve

Quando Brera lo definì il derbyd’Italia, non era ancora successoquasi nulla. Non aveva vistoCalciopoli e gli scudetti revocati

San Siro può dare il primatodel pallone sulle chiacchiere. Ibianconeri in testa alla classifica,come non succedeva dal 2006

Nell’altro scontro, tutti hannoragione e tutti torto: l’Inter atenersi il trofeo, la Juve a dire chela prescrizione non è assoluzione

Stasera Inter-Juventus, parentesi sul campo nel duello a carte bollate che dura dal 2006Moratti e gli Agnelli, tifosi di classe e da bar: ogni altro antagonismo si risolve, questo no

Claudio Marchisio e Wesley Sneijder in Juventus-Inter dello scorso anno a Torino (foto Ansa)

di Beppe Di Corrado