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FIORI SOPRAL’INFERNO

Romanzo diILARIA TUTI

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P R O P R I E T A L E T T E R A R I A R I S E R V A T A

Longanesi & C. F 2018 – MilanoGruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-304-5064-6

In copertina: foto F Anne Koch / Getty ImagesGrafica di PEPE nymi

Prima edizione digitale gennaio 2018

Quest’opera e protetta dalla Legge sul diritto d’autore.E vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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FIORI SOPRA L’INFERNO

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a Jasmine

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Allora, o bella, dillo, ai vermi che ti mangeranno di baci,che io ho conservato la forma e l’essenza divinadi tutti i miei decomposti amori.

Charles Baudelaire

Non scordare:noi camminiamo sopra l’inferno,guardando i fiori.

Kobayashi Issa(1763-1828)

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Austria, 1978

C’era una leggenda che gravava su quel posto. Una di quelleche si appiccicano ai luoghi come un odore persistente. Si di-ceva che in autunno inoltrato, prima che le piogge si tramu-tassero in neve, il lago alpino esalasse respiri sinistri.

Uscivano come vapore dall’acqua e risalivano la china in-sieme alla bruma del mattino, quando la gora rifletteva il cie-lo. Era il paradiso che si specchiava nell’inferno.

Allora si potevano sentire sibili lunghi come ululati, cheavvolgevano l’edificio del tardo Ottocento, sulla riva est.

La Scuola. Lo chiamavano cosı, giu in paese, ma quellemura avevano mutato destino e nome diverse volte nel tem-po: residenza di caccia imperiale, comando nazista, preven-torio antitubercolare infantile.

Ora nei corridoi c’erano solo silenzio e pareti scrostate,stucchi sbiaditi ed echi di passi solitari. E poi, a novembre,quegli ululati che sgorgavano dalla nebbia e si arrampicavanolungo le finestre dei piani piu alti, fino al tetto spiovente cheluccicava di brina.

Le leggende, tuttavia, si addicono solo ai bambini e ai vec-chi malinconici, a cuori troppo teneri. Lo sapeva bene AgnesBraun. La Scuola era la sua casa da troppo tempo per lasciarsiimpressionare da un gorgoglio notturno. Conosceva lo scric-chiolio di ogni asse, di ogni tubatura arrugginita che correva

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nelle intercapedini delle pareti, sebbene la maggior parte deipiani ora fosse chiusa e le porte delle stanze sprangate contavole e chiodi.

Da quando l’edificio era diventato un orfanotrofio, i fondistatali erano sempre piu centellinati e nessun privato si facevaavanti per donare qualche spicciolo.

Agnes attraverso la cucina che si trovava nel piano interra-to, tra i locali adibiti a dispensa e la lavanderia. Spingeva uncarrello, destreggiandosi tra i recipienti che di lı a poche oreavrebbero sbuffato vapori unti. Era sola, in quell’ora che nonera notte e nemmeno giorno. A farle compagnia, giustol’ombra furtiva di un ratto e le sagome delle carcasse appesea frollare nell’ex ghiacciaia.

Si servı del montacarichi per raggiungere il primo piano,l’ala di cui era responsabile. Da qualche tempo, quell’incari-co le provocava un disagio senza nome, come un malesserelatente che non si decideva a scoppiare.

Il montacarichi cigolo accogliendo il suo peso e quello delcarrello. Le catene e le funi iniziarono a stridere. La gabbiavibro e comincio a salire, per arrestarsi pochi metri dopocon uno scossone. Agnes aprı la rete metallica. Il corridoiodel primo piano era un lungo nastro colorato di un azzurropolveroso, macchiato di umidita e costellato su un lato di fi-nestroni a riquadri.

Un’anta sbatteva a intervalli regolari. La donna si allonta-no dal carrello per andare a richiuderla. Il vetro era freddo eappannato. Lo pulı con una mano, disegnando una sorta dioblo. L’alba stava rischiarando il villaggio, giu a valle. I tettidelle case erano minuscole tessere color del piombo. Piu su, amillesettecento metri sul livello del mare, tra l’abitato e laScuola, la distesa immobile del lago si colorava di rosa tra

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la bruma. Il cielo invece era terso. Agnes sapeva, pero, che ilsole quel giorno non avrebbe scaldato la radura scoscesa. Or-mai lo capiva non appena posava un piede fuori dal letto edera assalita dall’emicrania.

La nebbia si stava sollevando per assorbire ogni cosa: la lu-ce, i suoni, persino gli odori si impregnavano del suo umorestagnante, che sapeva di ossa. E dalle sue spire, che arrampi-candosi sull’erba bruciata dal gelo sembravano prendere vita,si levarono i lamenti.

Il respiro dei morti, penso Agnes.Era il vento, il Buran, che soffiava violento da nord-est.

Nato in steppe lontane, aveva percorso migliaia di chilometrifino a incunearsi nel canalone della valle, ringhiare contro gliargini del fiume, sotto la linea del bosco, agitarsi nelle golenee riemergere fischiando per poi infrangersi sulla parete diroccia.

Era solo il vento, si ripete la donna.L’orologio a pendolo dell’ingresso batte sei rintocchi. Si

era fatto tardi, ma Agnes non si mosse. Sapeva che stava tem-poreggiando. E sapeva anche il perche.

Suggestione, si disse. E solo suggestione.Strinse le mani attorno all’acciaio del portavivande. I con-

tenitori tintinnarono quando si decise a muovere qualchepasso verso la porta in fondo al corridoio.

Il Nido.Un pensiero improvviso le provoco uno spasmo allo sto-

maco: era davvero un nido. Lo era diventato nelle ultimesettimane. Brulicava di un lavorio sommesso, misterioso.Come un insetto operoso, preparava la muta. Agnes neera certa, anche se non avrebbe saputo spiegare quello chestava accadendo in quella stanza. Non ne aveva fatto parola

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con nessuno, nemmeno con il direttore: l’avrebbe presa perpazza.

Infilo una mano nella tasca della divisa. Le dita sfioraronola stoffa ruvida del cappuccio. Lo estrasse e se lo calo sul viso.Una retina sottile copriva anche gli occhi, velando il mondoesterno. Era la regola.

Entro.La stanza era immersa nel silenzio. La grossa stufa di ghisa

accanto all’ingresso conservava ancora qualche brace e resti-tuiva un tepore piacevole. I posti erano allineati in quattrofile da dieci. Nessun nome sulle targhette distintive, solo nu-meri.

Non si udivano pianti ne richiami. Agnes sapeva che cosaavrebbe visto se solo avesse guardato: occhi inespressivi,spenti.

In tutti i posti, tranne uno.Ora che si era abituata al silenzio, poteva sentirlo: sgam-

bettava la in fondo, acquistava forza. Si preparava. A cosa,non avrebbe saputo dirlo. Forse era davvero pazza.

Un passo dietro l’altro, si avvicino al posto numero 39.Contrariamente agli altri, il soggetto pulsava di vita. I suoi

occhi, cosı particolari, erano attenti, guizzavano seguendo isuoi movimenti. Agnes sapeva che il soggetto cercava ilsuo sguardo oltre la rete del cappuccio. Lei lo distoglieva,in imbarazzo. Il soggetto numero 39 era cosciente dellasua presenza, anche se non avrebbe dovuto.

La donna controllo che nessun inserviente si fosse affaccia-to alla porta e allungo un dito. E il soggetto morse, strinse lacarne tra le gengive, con forza. Negli occhi, uno sguardo di-verso: spiritato. Un breve lamento nervoso gli scivolo dallelabbra quando Agnes si ritrasse con un’imprecazione.

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Ecco la sua vera natura, penso lei. Carnivora.Fu cio che accadde un attimo dopo a convincerla che non

potesse piu tenere solo per se certi pensieri.I posti accanto a quello numero 39 non erano piu muti. I

respiri si erano fatti agitati, come se i soggetti stessero rispon-dendo a un richiamo. Il Nido brulicava.

Ma forse era solo suggestione.

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Oggi

Il corvo giaceva a lato del sentiero, le piume dai riflessi vio-lacei in disordine e il becco spalancato. Una macchia di san-gue aveva impregnato la terra sotto il ventre gonfio, ma eragia secca nonostante l’umidita del pomeriggio.

Chissa da quanto tempo la bestiola era lı, un occhio vitreopuntato sul cielo che prometteva neve, l’altro perso chissadove.

Mathias lo osservava da un po’, piegato sulle ginocchia. Siera chiesto se le pulci avessero abbandonato il corpo non ap-pena il cuore aveva cessato di battere. Un giorno lo avevasentito dire a un cacciatore e quel particolare lo aveva tor-mentato a lungo. Lo trovava impressionante e affascinanteal tempo stesso.

Tocco il corvo con la punta di un dito. Era un esemplarevecchio. Lo capı dal becco, nudo e bianco. Le zampette era-no rigide, gli artigli robusti afferravano il nulla.

Si pulı subito il guanto sui pantaloni. Se lo avesse saputosuo padre, gli avrebbe mollato un ceffone. L’aveva sorpresopiu volte a osservare le carcasse dei piccoli animali che trova-va in giardino o nella pineta dietro casa e lo aveva rimprove-rato, usando una parola che Mathias non conosceva, ma chefaceva pensare a qualcosa di brutto. Ne aveva cercato il signi-ficato nel dizionario. Non la ricordava, ma aveva a che farecon la pazzia.

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Da grande Mathias voleva fare il veterinario e ogni occa-sione era buona per imparare. L’osservazione – gli aveva det-to una volta il nonno – e gia per meta apprendimento. Il re-sto e provare e riprovare ancora.

Il bambino si alzo, gli occhi fissi sull’animale. Avrebbe vo-luto seppellirlo, ma poi si disse che era giusto cosı: la naturaera carnivora, aveva fame di quei resti che non sarebbero an-dati sprecati.

Le campane del duomo giu in paese batterono due rintoc-chi e mezzo. Era tardi, gli altri lo stavano aspettando nel luo-go segreto.

Si incammino lungo il sentiero ghiacciato. L’abitato diTravenı quella mattina si era risvegliato sotto una coltre dineve. Un’imbiancatura leggera, sciolta troppo presto, che pe-ro faceva ben sperare per la stagione sciistica alle porte.

Arrivo al promontorio poco fuori dal paese. Il monumen-to ai caduti delle guerre napoleoniche svettava tra i boschipiu bassi di abeti rossi e pini. Il granatiere bronzeo scrutaval’orizzonte con cipiglio severo, i lunghi baffi rivolti all’insu.Dalla baionetta sventolava una sciarpa azzurra, indicandoche qualcuno del gruppo si era gia arrampicato fin lassuper appendere il segnale.

Mathias accelero il passo. Quella mattina a scuola l’inse-gnante aveva spiegato il significato della parola « leader ». Luine era rimasto affascinato. Gli piaceva come suonava – avevaun non so che di definitivo – ma soprattutto gli piaceva l’i-dea di essere una guida per gli altri.

Un leader protegge i suoi compagni, aveva detto la mae-stra, ed era proprio cosı che si sentiva Mathias. Era consape-vole di essere il capo del gruppo, per i suoi amici, e non soloperche era il piu grande – dieci anni, due mesi e una settima-na quel giorno – ma perche su di lui si poteva contare.

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Ecco perche la sciarpa appesa alla statua avrebbe dovutoessere la sua e non quella di Diego. Sarebbe dovuto arrivareprima e aprire la strada ai suoi compagni, anche se ormai l’a-vevano percorsa chissa quante volte. Invece si era attardato ascrutare dei resti animali al bordo di una strada. Forse avevaragione suo padre.

Il promontorio del granatiere era circondato da pareti roc-ciose scoscese, a strapiombo sul letto di un torrente. Qualchedecina di metri piu sotto, l’acqua gorgogliava tra le frondescure.

Mathias inizio a scendere i ripidi tornanti del sentiero, sal-tando per guadagnare tempo e aggrappandosi alla stacciona-ta che delimitava il percorso, quando i sassi ruzzolavano sot-to le suole delle scarpe da ginnastica. Arrivo sul greto ghiaio-so senza fiato, le ginocchia che tremavano e il viso in fiamme.

Seguı lo snodarsi della gola scavata nel corso dei millenni.Passatoie a sbalzo sull’acqua si alternavano a scale di ferro elegno aggrappate alle rocce. Tra le grate, il torrente aveva ri-flessi di smeraldo e profumava di ghiaccio. Nel fondo di quel-l’orrido, la luce e il tepore del sole non arrivavano quasi mai.

Mathias riusciva a udire il rumore del proprio respiro equello del cuore nel petto e, di colpo, si accorse di essere solo.In quel periodo dell’anno i turisti preferivano le piste da sci:troppo freddo la sotto, oltre al rischio di cadere.

Accelero il passo, senza sapere perche.Sopra la testa, tra le cime puntute degli abeti, lo scorcio di

cielo era attraversato dal ponte della vecchia linea ferroviariaormai chiusa, a piu di sessanta metri di altezza. Il nonno disuo nonno aveva partecipato ai lavori di costruzione, un se-colo e mezzo prima.

Mathias, il naso all’insu, scivolo su un sasso coperto dighiaccio e batte un ginocchio a terra. La sua esclamazione

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di sorpresa fu seguita da un rumore nel bosco. Un grido bas-so. Si volto, il fiato corto.

« La foresta non e un posto per bambini. »Le parole di sua madre iniziarono a danzargli nella mente.Si rimise in piedi, senza controllare i danni ai jeans e ai

palmi delle mani che bruciavano sotto la lana dei guanti. At-traverso una passatoia che girava attorno a una roccia spor-gente. Muschio da una parte, mulinelli d’acqua dall’altra. Ilsentiero proseguiva attraverso una piccola grotta. Mathiaspercorse quei pochi metri di buio correndo, dicendosi cheera la fretta a spingere le sue gambe e non la paura. Quandospunto dall’altra parte si fermo. Un raggio di sole bucava ilverde e incendiava d’oro il sottobosco. La cascata che alimen-tava il torrente si gettava in un salto pauroso, spruzzando mi-nuscole gocce d’acqua che in estate, quando la luce riusciva araggiungere il fondo, si coloravano di arcobaleno.

Sulla spiaggia sassosa i suoi amici lo aspettavano seduti incerchio. Lucia, Diego e Oliver.

Basto quella visione a scacciare i timori. Un sorriso glispunto sulle labbra. Non c’era nessuno dietro di lui. Nessu-no aveva seguito i suoi passi.

Scruto ancora le tenebre della grotta, come per sfidarle.Aveva vinto lui, era davvero un leader. Ma poi il sorriso sismorzo, fino a sparire.

D’un tratto ne fu certo.C’era qualcuno, nascosto nell’oscurita, e lo stava osser-

vando.

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Il corpo giaceva sull’erba, coperto di brina. Il candore dellapelle contrastava con il nero dei capelli e del pube. Sullosfondo, il verde cupo della natura di montagna. Alcune mac-chie di neve persistevano nelle zone piu ombrose, a ridossodel bosco. Durante la notte era sceso qualche fiocco e un cri-stallo era rimasto impigliato tra le ciglia del cadavere.

L’uomo era adagiato in posizione supina, le braccia lungoi fianchi, le mani posate su cuscini di muschio. Non c’eranograffi. Tra le dita spuntava qualche fiore invernale dai petalipallidi e trasparenti.

Sembrava un dipinto. I colori erano quelli del sangue or-mai freddo, delle vene svuotate, delle membra rigide. Il gelolo aveva conservato. Non aveva odore, se non quello dellaselva: terra umida e foglie marcescenti.

Qualcuno si era preso cura di lui.Sul terreno attorno al corpo erano disposte alcune trappo-

le rudimentali, fatte con spago e nodi scorsoi.« Per tenere lontani gli animali dal cadavere. Voleva che lo

trovassimo intatto » recito una voce roca. Le labbra si muo-vevano vicine al microfono del cellulare, spostando nell’ariaparole e vapore. Tutto attorno era un lavorio sommesso, tutebianche, flash e lampeggianti.

« Non faceva lavori manuali. Le mani sono lisce e l’orodell’anello non ha graffi. Le unghie sono curate. Non sembraesserci sporco. »

La fede all’anulare della mano sinistra brillava anche nella

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luce livida di dicembre. Nuvole piatte coprivano d’ombraquell’angolo di mondo.

L’uomo aveva subito un attacco violento al volto, ma il re-sto del corpo appariva illeso. L’epidermide ai lati del colloera striata dal blu intenso dei vasi sanguigni. Si era rasatocon cura prima di morire. Il leggero velo di barba era unaconseguenza della ritrazione della pelle post mortem.

« Tracce ematiche minime, incompatibili con le ferite su-bite. Probabilmente il sangue e piu copioso sui vestiti. Glisono stati tolti successivamente. »

Una pausa.« L’assassino ha spogliato la vittima, l’ha preparata. »Nonostante quell’allestimento scrupoloso, c’erano nume-

rose impronte, sul corpo e sul terreno, un misto di fango eghiaccio, come se l’autore si fosse dimenticato di colpo deidettagli. A parte quelle della vittima, c’erano orme apparte-nenti a una persona sola, un uomo, a giudicare dalla misurarilevata, la quarantacinque.

Sulle braccia, sui polsi e sulle caviglie del cadavere non c’e-rano segni di contenzione. La vittima aveva un fisico prestan-te, era alta e con una muscolatura abbastanza sviluppata, ep-pure l’assassino era riuscito a sopraffarla. Aveva attaccato conuna violenza animalesca.

Conoscevi l’assassino, ecco perche non hai reagito subito perdifenderti. Cosa devi avere pensato in quel momento, quandohai compreso che stavi per morire?

Dall’espressione del cadavere non si capiva. Le labbra era-no serrate e gli occhi...

Il corpo era stato abbandonato tra un canale di scolo na-turale e un sentiero battuto da turisti la maggior parte del-l’anno. Lo aveva rinvenuto un escursionista poche ore prima.

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Non era un caso, ne un errore: l’assassino aveva scelto di nonoccultarlo.

« Non vedo libido, eppure lo ha denudato. »Il capo della polizia locale aveva detto che si trattava di un

padre di famiglia scomparso da due giorni, dopo aver porta-to il figlio a scuola. L’auto era a un centinaio di metri dal cor-po, in un dirupo, nascosta dagli alberi. Era stata spinta. Sulterreno, impronte di pneumatici e di scarpe.

« L’assassino si e mosso a piedi. Le tracce continuano nelbosco. »

Il commissario Battaglia interruppe la registrazione e alzolo sguardo al cielo. Qualche corvo gracchiava, passando so-pra le loro teste. Le nubi minacciavano un’imminente nevi-cata.

Non c’era tempo. Dovevano essere piu rapidi, piu effi-cienti.

Il commissario si alzo e sentı le giunture scricchiolare.Troppi giorni della sua vita passati sulle ginocchia. O troppianni sulle spalle, penso. Troppi chili da smaltire.

« Forza con i rilievi » ordino.Gli uomini della Scientifica erano ombre bianche e silen-

ziose, chine su dettagli che solo occhi addestrati potevano co-gliere. Fotografavano, prelevavano, classificavano. La catenadi custodia del DNA era appena iniziata. Avrebbe trovatocompimento ore dopo, in un laboratorio dell’Istituto di me-dicina legale, in citta, a un centinaio di chilometri da lı.

Qualche curioso era stato richiamato dall’arrivo della po-lizia. Un capannello di turisti e indigeni stazionava sotto ilcartello in legno che indicava il sentiero per arrivare al paesevicino, Travenı. Solo quattro chilometri. Era facile distin-guere i locali: avevano volti selvatici e rubizzi. Non c’era trac-

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cia dell’abbronzatura uniforme da piste da sci, ma carnagioniscurite dall’escursione termica, bruciate dal vento.

« Abbiamo trovato gli abiti » grido una voce, dal bosco.

Uno spaventapasseri, fu il primo pensiero del commissarioBattaglia.

Tra i rovi, quella figura spuntava dal sottobosco come unparticolare stonato, incongruo. Era fatta di rami e corda,qualche fronda e abiti insanguinati.

La testa era la maglietta intima della vittima, imbottita difoglie e paglia, due bacche purpuree al posto degli occhi.Giacca e calzoni pendevano dallo scheletro ligneo, l’orologioera legato al ramo che fungeva da polso. La camicia era in-durita, imbrattata di sangue. Impossibile dire quale fosse ilcolore originario del tessuto.

Un agente si avvicino.« Le tracce spariscono un centinaio di metri a nord, tra le

rocce » riferı.Il killer sapeva come muoversi. Era del posto o lo conosce-

va molto bene.Il commissario avvicino di nuovo il microfono alla bocca,

gli occhi puntati sulla radura, dove il cadavere era un profilodiafano sul quale si posavano i fiocchi di neve che da qualcheminuto avevano iniziato a cadere. Qualcuno stava allungan-do un telo sopra di lui.

« Questo feticcio rappresenta l’assassino » disse. « Ha con-templato la propria opera e ha voluto farcelo sapere... »

Un rumore improvviso impedı la prosecuzione della suaanalisi. Aguzzo la vista, domandandosi se lo spettacolo fossereale o meno. Un uomo avanzava nella radura, tra le volantie il bosco, affondando di tanto in tanto negli acquitrini. Ma

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non si dava per vinto. La giacca dal taglio sartoriale svolaz-zante, la camicia macchiata di fango e nevischio, e nient’altroa difenderlo dal gelo. Aveva un’espressione combattiva, ac-compagnata da un rossore che indicava affaticamento. Oforse disagio, vergogna.

Quando il commissario capı di chi poteva trattarsi, bastouna sola parola per riassumere il suo stato d’animo.

« Merda. »

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Massimo era immerso nell’acquitrino fin sopra le caviglie.Una serie di emozioni gli frustava il viso: rabbia, sconfor-

to, incredulita, ma soprattutto vergogna. Arrancava tra ciuffid’erba insidiosi, che sprofondavano sotto i piedi rivelandouna trappola di melma.

Aveva gli occhi di tutti quegli estranei addosso: la sua nuo-va squadra, dopo il trasferimento. Sapeva che il suo superiorelo stava osservando dal limitare del bosco.

Dapprima incerta, ora la neve scendeva copiosa. Gli sfio-rava le guance accaldate: il suo peso sulla pelle durava un bat-tito di ciglia.

Massimo oso alzare gli occhi per un attimo. Il commissa-rio Battaglia doveva essere quel tipo sui quarant’anni, altopoco meno di lui, carnagione scura e sigaretta tra le labbra,che lo scrutava con occhi sottili. Glielo aveva indicato unagente agitando un braccio verso di lui. Massimo non avevachiesto altro e si era incamminato, ignorando il grido di al-larme del collega. Non aveva compreso la sua agitazione finoa quando non era sprofondato nella fanghiglia, dopo qualchemetro percorso a passo di marcia, per ostentare disinvoltura.

Non avrebbe mai dimenticato quel giorno. Era arrivato inufficio con qualche minuto di ritardo e aveva atteso in uncorridoio della questura piu di mezz’ora prima che qualcunosi degnasse di dirgli che la sua squadra non c’era: era stataallertata per un sospetto caso di omicidio. Nessuno si era

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preoccupato di aspettarlo o di farglielo sapere. Si erano sem-plicemente dimenticati di lui.

Cinque minuti di ritardo.Massimo aveva pensato a uno scherzo, ma il collega era

stato lapidario: il commissario Battaglia non ha il senso del-l’umorismo, gli aveva assicurato. Non doveva averne nem-meno lui, a giudicare dalla faccia.

Massimo aveva solo due alternative: attendere su una seg-giola il ritorno della squadra, oppure raggiungerla dovunquefosse.

Malauguratamente, aveva scelto la seconda.Non si era aspettato di dover guidare quasi due ore sotto

un diluvio che riversava muri d’acqua sull’asfalto, il naviga-tore impazzito, gli occhi incollati al parabrezza. Quando ave-va raggiunto la valle, era iniziato l’incubo del ghiaccio. Tor-nanti stretti e scivolosi facevano slittare gli pneumatici e per-dere qualche battito al cuore. Un paio di volte l’auto si erabloccata a meta di una salita, il battistrada inadatto a farepresa sulla superficie gelata. Un trattore di passaggio si erafermato. Il proprietario, un vecchio dall’alito vinoso e la par-lantina zoppicante, aveva insistito per aiutarlo. Diceva cheaccadeva spesso con i turisti in quel periodo dell’anno eper lui non era un problema trainarlo fino al pianoro.

Tronchi, letame o macchine, che differenza fa?, avevadetto.

Massimo aveva accettato con un brivido. Un’ultima oc-chiata preoccupata all’auto, prima di agganciare la catenaal paraurti, salire e mettere in folle.

Cosı era arrivato a Travenı, rimorchiato da un trattore.Con i muscoli della schiena indolenziti dalla tensione e un

mal di testa furioso, aveva potuto finalmente osservare il pae-saggio. Era di una bellezza primitiva, da far perdere i riferi-

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menti. Le cime innevate sovrastavano una foresta millenaria,sorgendo come lame opache da un tappeto fitto di boschi.Facevano pensare ai giganti della mitologia, obbligavano arestare con il naso all’insu, con un senso di vertigine nell’a-nima. Nel sottobosco, tra pini cembri e rovi di mirtilli, zam-pillavano corsi d’acqua trasparenti, scorrendo agili tra rocce,stalattiti di ghiaccio e muschio odoroso. Nella neve al limi-tare della strada, Massimo aveva scorto numerose orme dianimali.

Era un mondo distante da quello a cui era abituato, unmondo che sussurrava la piccolezza umana, che suggerivaquanto sia inutile l’affanno. Un paradiso naturale lontano,pero, dall’essere incontaminato: parte di un versante si offri-va quasi nudo alla vista. Alcune ruspe erano ferme su un pia-noro occupato dalle baracche di un cantiere e altri macchina-ri per la movimentazione della terra. C’era in atto un disbo-scamento.

Massimo aveva distolto lo sguardo, come infastidito dauna macchia su un bel quadro.

L’abitato di Travenı era apparso dopo le ultime curve agomito, sull’altopiano che incombeva sul fondovalle. Eraun villaggio raccolto nella conca formata da una corona dimontagne. Le case in stile alpino erano di pietra e legno.Fuori da ogni uscio, una catasta ordinata sprigionava aromadi pece. Nel minuscolo centro, l’architettura cambiava: gliedifici a piu piani avevano intonaci dai colori pastello, sotto-tetti mansardati dall’aria nordica, decorazioni natalizie diagrifoglio e fiocchi rossi sulle terrazze. Sulla strada principalesi affacciavano locande e osterie antiche, un negozio di ali-mentari e due caffetterie. Fuori da un pub sostavano gruppidi ragazzi con tavole da snowboard sottobraccio e un bic-chiere di vin brule in mano: le piste da sci non erano lontane.

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C’era posto anche per una farmacia e un paio di negozi allamoda per turisti.

Il proprietario del trattore aveva lasciato Massimo e la suaauto nella piazza principale, rifiutando il denaro che lo stra-niero insisteva per dargli. Se ne era andato salutandolo colbraccio alzato e un colpo di clacson. Massimo si era guardatoattorno. L’abitato sembrava uno scorcio preso da una carto-lina. Attaccati con puntine da disegno nella bacheca fuori dalmunicipio, pero, diversi volantini invitavano a una riunionenella palestra della scuola quella sera: gli abitanti della valleerano chiamati a partecipare a un’assemblea contro la costru-zione del nuovo polo sciistico. Massimo aveva pensato alcantiere notato ai piedi della montagna e agli alberi abbattu-ti. Nemmeno lı, lontano dalla citta, c’era davvero pace.

Trovare la squadra non era stato difficile: il corpo dellavittima era stato rinvenuto poco fuori dal paese, verso il con-fine. Si arrivava percorrendo una strada sterrata che correvatra pietraie e basse pinete. Le auto della polizia locale aveva-no gia limitato l’accesso, formando un posto di blocco su en-trambi i lati della carreggiata. Un poliziotto stava prendendometicolosamente nota delle targhe di tutte le macchine dipassaggio e le generalita dei curiosi che allungavano il colloper catturare qualche particolare.

Massimo gli aveva mostrato il tesserino e chiesto del com-missario Battaglia. Poi era finito nell’acquitrino dove si stavaancora trascinando con fatica.

Il superiore, almeno, aveva smesso di prestare attenzione alui. Stava parlando con una vecchia ingabbanata in un giac-cone lungo fino quasi ai piedi. Era impossibile non notarla:portava i capelli tagliati a caschetto, la frangia lunga fino agliocchi, di un rosso artificioso che stonava in quell’armonia

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naturale di toni delicati. Lei stava indicando qualcosa nel ca-nale che si inoltrava nella boscaglia, lui annuiva.

La donna doveva essere una testimone. Forse aveva trova-to lei il corpo.

Massimo fece gli ultimi passi. Qualcuno gli porse una ma-no per uscire dalla palude. Accetto con un ringraziamentoimbarazzato, che pero uscı come un borbottio.

Per la prima volta dalla fine dell’accademia, si sentiva sot-to esame. Aveva il fiato corto e le mani sudate nonostante ilgelo. Sapeva che l’inizio non poteva essere dei peggiori.

« Ispettore Massimo Marini » si presento, porgendo la ma-no a Battaglia. « Sono stato assegnato alla sua squadra. Nes-suno mi ha avvertito del sopralluogo, altrimenti vi avrei rag-giunto prima. »

Non sapeva perche l’aveva detto. La sua voce era suonatapetulante persino a se stesso, come quella di un bambinostizzito.

Nessuno strinse la sua mano. Massimo la lascio cadere. Siarrendeva a quella giornata sbagliata.

L’uomo lo guardava senza dire una parola. Gli parve divederlo scuotere la testa leggermente, come un avvertimentofurtivo. Fu la vecchia a rispondere.

« Il morto non ha avuto la decenza di avvertire primanemmeno noi, ispettore. »

Aveva una voce roca e tutta l’aria di considerarlo meno diniente.

Massimo la squadro. Il berretto di lana tempestato di lu-strini schiacciava sulla fronte la frangetta sbarazzina che nonc’entrava nulla con il viso segnato dall’eta e da una durezzache preannunciava un carattere altrettanto spigoloso. Gli oc-chietti lo trapassavano come mani impazienti, gli frugavanoil viso in cerca di chissa quale conferma. Stava mordicchian-

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do le stanghette di un paio di occhiali da vista. Massimo no-to che aveva le labbra sottili: di tanto in tanto le arricciava,come a soppesare un pensiero. Un giudizio, forse.

Sotto il giaccone, si poteva indovinare un fisico tozzo. Iltessuto era teso su fianchi robusti.

Un agente si avvicino con un telefono cellulare. Lo porsealla donna.

« Commissario, e il questore. Chiede se ha un attimo. »Lei annuı e si allontano di qualche passo per rispondere.

Di tanto in tanto gli lanciava un’occhiata.Massimo rimase pietrificato. Si accorse a malapena che

l’uomo che credeva essere Battaglia gli stringeva la mano,presentandosi come l’agente Parisi. Aveva la salivazione azze-rata e un principio di assideramento. Cerco di formularementalmente delle scuse che potessero non apparire idiote,ma quando la vide chiudere la chiamata, l’unica frase cheriuscı a pronunciare fu la meno appropriata.

« Nessuno mi ha detto di cercare una donna, commissa-rio. »

Lei lo scruto come si guarda una cacca attaccata alla suoladi qualcun altro.

« Be’, ispettore. Non ha fatto nemmeno lo sforzo di pen-sarlo. »

Ispettore. Era poco piu di un ragazzo e sembrava uscito dauna pubblicita di moda. Teresa aveva percepito il suo profu-mo a metri di distanza. Stonava in quella piccola landa alpi-na, che si stava riempiendo di neve e sangue, quello che l’ac-qua lavava dal muschio e trascinava giu con se nella terra.Sangue di un uomo, ucciso in un modo che raramente aun poliziotto capita di vedere nel corso della propria carriera.

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Massimo Marini aveva un bel viso, solo un’ombra a velar-lo. Non si era rasato. Qualcosa era andato storto quella mat-tina. Piu di qualcosa, a giudicare dal suo aspetto.

L’inizio non era stato dei migliori. Il tentativo del giovaneispettore di apparire risoluto era fallito miseramente. Teresa,pero, pensava che il beneficio del dubbio si concede a chiun-que, anche ai casi piu disperati, come il suo.

Era curiosa di scoprire perche avesse chiesto il trasferimen-to da una grande citta a un piccolo capoluogo di provincia.Tra lui e che cosa, o chi, aveva frapposto piu di cinquecentochilometri?

Si fugge da cio che spaventa e ferisce, o vuole farci prigio-nieri, penso.

Un amore finito solo a parole, forse, ma sul suo volto nonc’era traccia di struggimento e notti insonni. Solo tensione,al momento, e la causa era lei, non qualche bella ragazza re-ticente. Qualcos’altro lo aveva fatto scappare.

Lui restava immobile mentre i fiocchi di neve iniziavano aposarsi sulle spalle, un po’ piu curve di quando era arrivato.

Teresa trattenne un sorriso di soddisfazione. Godeva neltendere allo spasmo i nervi dei nuovi arrivati e con lui nonavrebbe fatto eccezione. L’aveva guardata con un’aria da cuc-ciolo quasi commovente. Teresa sapeva che per un attimoaveva avuto paura: di rischiare un richiamo, di essere statomaleducato, di avere fatto la figura dello sprovveduto quan-do invece avrebbe voluto colpire tutti con piglio sicuro.

Lo ignoro e torno a rivolgersi a Parisi, continuando laconversazione interrotta dall’arrivo rocambolesco dell’ispet-tore.

« Bisogna scendere nel canale e cercare anche lı, tra la ve-getazione » disse.

L’agente annuı.

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Teresa guardo Marini. Si domando dove avesse lasciato ilsuo cappotto o quello che di norma indossava per ripararsidal freddo. Evito di farglielo presente.

« Ispettore, va lei? » disse invece.Lo vide trasalire, come a chiedersi di che diavolo stesse

parlando. Non cerco aiuto, il ragazzo. Scese nel canale cosıcom’era, aggrappandosi a qualche frasca per non ruzzolarenell’acqua stagnante.

Teresa scosse la testa. A che serviva tanto ego se non acomplicare la vita?

Pero ci e andato subito. Non se lo e fatto ripetere.Era un buon segno: voleva rimediare ed era disposto a tut-

to per farlo.Parisi fece per togliersi i calzari indossati per l’ispezione e

darli al collega in difficolta, ma lei lo fermo.Insieme guardarono le scarpe dell’ispettore sprofondare

nuovamente nel fango, tra resti di foglie maleodoranti e chis-sa cos’altro.

Teresa provo quasi pena per lui, ma la scena era divertente.« Che cosa devo cercare? » le chiese, dopo qualche minuto

che rovistava alla cieca.Alla fine ce l’aveva fatta a invocare aiuto.« Gli occhi » rispose Teresa. « Non li abbiamo ancora tro-

vati. »

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Austria, 1978

In paese molti parlavano della Scuola, in pochi la conosceva-no davvero, quasi nessuno ci era mai stato. Gli aneddoti sul-l’istituto erano spesso fantasie alimentate dal suo aspetto mi-sterioso. Certe mattine, all’alba, l’edificio in stile mitteleuro-peo sorgeva dalle nuvole basse come un miraggio di luci mu-tevoli. Di pianta rettangolare, poggiava su uno zoccolo dipietra viva proveniente dalle vicine cave, a cui seguiva il pia-no terra rivestito di cemento bugnato. Una cornice di tralciavvitati su se stessi lo separava dai livelli superiori, levigati aconci. La facciata principale, da cui si diramavano le ali est eovest, era resa imponente da quattro colonne di ordine ioni-co, intercalate da finestre a timpano triangolare. L’ultimopiano, il terzo, era sormontato da una cupola a forma di ca-lotta tronca. L’abbaino centrale ospitava un orologio che amemoria d’uomo non aveva mai funzionato. Si diceva chel’ora segnata – le tre esatte – fosse quella della morte delsuo progettista: un giovane architetto di Lienz, colpito daun fulmine nei pressi del lago, mentre era intento ad ammi-rare l’opera appena completata. Dopo quasi due secoli, i vec-chi ancora narravano della collera di Dio per l’affronto subi-to: quei luoghi erano per il silenzio, per il vento e i fiori d’altaquota, e l’uomo li aveva violati con la sua superbia.

Ora che poteva scorgere la Scuola, da cosı vicino comemai prima di allora, Magdalena capiva il significato di quella

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diceria: la costruzione era sbagliata, del tutto fuori luogo.Capriccio di una nobilta che non accettava limiti.

La raggiunse a piedi, percorrendo la strada che dal paesesaliva fino al pianoro. Da lı, aveva imboccato il sentiero chesi inerpicava lungo il lato opposto della montagna, per ri-sparmiare tempo. Il lago emanava un odore pungente, di li-cheni e fondali limacciosi. Sembrava un occhio della terra.

Giunse davanti all’entrata con il fiato corto e un ciuffo diriccioli sfuggito allo chignon. Si affretto a catturarlo con unaforcina, mentre controllava lo stato delle scarpe. Il portonemassiccio si spalanco prima che la ragazza avesse il tempodi sfiorarne il batacchio a forma di testa di lupo. Un viso lar-go e senza eta la stava fissando con piccoli occhi severi.

« Magdalena, suppongo. Prego, seguimi. »

L’infermiera Agnes Braun era come il palazzo che l’ospitava:austera e decadente. I capelli grigi e spessi incorniciavano unvolto molto piu giovane di quanto Magdalena si fosse aspet-tata. Con qualche accorgimento, quella donna avrebbe potu-to apparire piu che piacevole, ma sembrava che certe atten-zioni non fossero gradite nella Scuola. Per il colloquio di la-voro, le era stato suggerito di presentarsi senza belletto, con icapelli raccolti e abiti semplici.

Di una cortesia fredda, la Braun la introdusse in quelloche doveva considerare il suo regno, a giudicare da come simuoveva tra marmi, fregi dorati e i pochi mobili di un certopregio rimasti: con l’andatura di una sovrana. Il palazzo, pe-ro, sembrava disabitato, cosı silenzioso che Magdalena sichiese dove fossero gli ospiti.

L’ingresso era lindo, decorato con un mosaico che ripro-duceva lo stemma imperiale austro-ungarico: un’aquila nera

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a due teste su sfondo oro. Le pareti erano abbellite da trompe-l’oeil raffiguranti scene di caccia. L’unica macchia scura nel-l’armonia di toni sbiaditi era quella di un orologio a pendolocon due mori intarsiati ai lati del quadrante. L’espressionedei volti scolpiti nell’ebano era paurosa: le bocche spalancatemostravano denti eccezionalmente aguzzi, d’avorio.

Agnes Braun dovette notare lo stupore della nuova arri-vata.

« E stato costruito con un manufatto proveniente dal con-tinente africano » le spiego con aria compiaciuta. « Apparte-neva alla famiglia del direttore. Lui ha voluto farne dono allaScuola. »

Magdalena lo trovava spaventoso, ma si sforzo di sorriderecon educazione.

La Braun la studio in silenzio, le mani intrecciate sulgrembo.

« Pensi che sia di buon gusto? » le domando.Gli occhi della ragazza fuggirono alla presa dei suoi.« Sı » rispose, ma si rese conto immediatamente che la sil-

laba era risuonata falsa.Torno a guardare la donna e vide spuntare un sorriso sul

suo volto. Agnes Braun sembrava soddisfatta.« Non ti devi vergognare » la sentı dire. « La tua piccola

bugia mi ha fatto capire che potresti essere adatta per questoluogo. La Scuola richiede devozione, e la devozione presup-pone qualche rinuncia alla propria liberta, anche quella dipensiero. Non sei d’accordo? »

Magdalena annuı, senza nemmeno rendersene conto. C’e-ra qualcosa in quella donna che la inquietava. Come la Scuo-la, anche lei appariva sbagliata.

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Qualcosa aveva spaventato gli adulti. Mathias lo capiva daglisguardi che sua madre gli rivolgeva mentre parlava con lamaestra e altre donne: erano come uno strattone al guinza-glio della sua attenzione, un modo per tenerselo accanto an-che da lontano. Stringeva tra le braccia suo fratello Markus,di pochi mesi. Anche se si era addormentato da un po’, nonlo aveva adagiato nella carrozzina.

L’aula magna della scuola era percorsa da bisbigli nervosi.Le luci dei proiettori illuminavano i costumi colorati abban-donati sul palco. Le prove della recita natalizia erano state in-terrotte poco prima da due uomini che Mathias non avevamai visto in paese. Avevano parlato con l’insegnante, poi era-no andati dalla madre di Diego e, dopo una breve conversa-zione, lei li aveva seguiti come uno zombie, pallida e rigida.Solo il richiamo della madre di Mathias le aveva ricordato lapresenza del figlio. Era tornata indietro per dirgli di restare lıe fare il bravo, che a lui ci avrebbe pensato la maestra e poisarebbe arrivata la nonna. Le tremava la voce.

Mathias guardo Diego. Se ne stava sprofondato in unaseggiola della platea, lo sguardo fisso sulla fila di finestre alte,a guardare il cielo nero. La notte arrivava con sempre piu an-ticipo e sembrava contagiare con il buio anche le persone.Travenı non era piu il paese che Mathias amava. Nelle ulti-me ore, era agitato da sospetti che scendevano sugli abitanticome la neve. Da quando il padre di Diego era scomparso, lapaura aveva avvelenato l’aria.