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Filologia di Gianfranco Contini - Enciclopedia del Novecento (1977) di Gianfranco Contini Filologia sommario: 1. La filologia nella storia della cultura. 2. Critica testuale. □ Bibliografia. 1. La filologia nella storia della cultura Chi nella prima infanzia ha letto Pinocchio, amandolo e imprimendoselo nella memoria, stupirà, se gli accada di rileggerlo, di non essersi accorto, allora, che era scritto, o poco meno, in vernacolo toscano. Chi un po' più tardi si inizierà a Dante, tolte le aree pentacolari riservate all'oscurità, da lambire e oltrepassare in convenzionale reverenza, comprende senza ostacolo, ed è destinato a rendersi conto in tempo più maturo come gli fosse sfuggito, più ancora che il deposito d'una memoria sapientissima, il fatto elementare (che naturalmente non capiterebbe ai suoi coetanei lettori della Chanson de Roland o del Nibelungenlied) che la Commedia è scritta in italiano antico. Coi Promessi sposi può anche avvenire che non si percepisca nessuna differenzialità; e la differenzialità non è affatto detto che riesca gradevole, come una lente d'ingrandimento svela più verità, ma dà degli oggetti un'immagine inconsueta e intercala loro innanzi un corpo estraneo. La filologia è dunque, anche a un modesto grado di cultura, almeno nelle civiltà che hanno fruito d'una buona attrezzatura grammaticale, un evento quotidiano, se pur scalare; la filologia in senso tecnico è diversamente distribuita nei momenti culturali e gode di un prestigio variabile.

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Filologia di Gianfranco Contini - Enciclopedia del Novecento (1977)

di Gianfranco Contini

Filologia

sommario: 1. La filologia nella storia della cultura. 2. Critica testuale. □

Bibliografia.

1. La filologia nella storia della cultura

Chi nella prima infanzia ha letto Pinocchio, amandolo e imprimendoselo

nella memoria, stupirà, se gli accada di rileggerlo, di non essersi accorto,

allora, che era scritto, o poco meno, in vernacolo toscano. Chi un po' più

tardi si inizierà a Dante, tolte le aree pentacolari riservate all'oscurità, da

lambire e oltrepassare in convenzionale reverenza, comprende senza

ostacolo, ed è destinato a rendersi conto in tempo più maturo come gli

fosse sfuggito, più ancora che il deposito d'una memoria sapientissima, il

fatto elementare (che naturalmente non capiterebbe ai suoi coetanei lettori

della Chanson de Roland o del Nibelungenlied) che la Commedia è scritta in

italiano antico. Coi Promessi sposi può anche avvenire che non si percepisca

nessuna differenzialità; e la differenzialità non è affatto detto che riesca

gradevole, come una lente d'ingrandimento svela più verità, ma dà degli

oggetti un'immagine inconsueta e intercala loro innanzi un corpo estraneo.

La filologia è dunque, anche a un modesto grado di cultura, almeno nelle

civiltà che hanno fruito d'una buona attrezzatura grammaticale, un evento

quotidiano, se pur scalare; la filologia in senso tecnico è diversamente

distribuita nei momenti culturali e gode di un prestigio variabile.

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Benché si sia sempre fatto filologia, nel periodo romantico (e soprattutto

nella nazione romantica per eccellenza, la Germania) essa toccò una tale

intensità e raffinatezza, sia approfondendo gli scavi preceduti da millenni di

studi, e cioè nell'ambito classico, sia allargando verso ogni direzione

possibile il campo di applicazione (inclusa la costituzione delle filologie

nazionali), che parve nata allora, ciò che per certi metodi era la verità. La

sua valutazione seguitò a essere alta, e magari fiduciaria, in epoca

positivistica, meno come interpretazione che come dilatazione di

accertamenti, erudizione fine a se stessa, soddisfacimento della libido

sciendi, ma interviene una limitazione molto degna di nota, di cui non è

miglior documento che in una proposizione di A. Schleicher, il

paleontologo della glottologia. Da un suo libro (Die Deutsche Sprache, 1859)

il Timpanaro ha speculato le seguenti definizioni: ‟Die Philologie ist eine

historische Disziplin [...]. Die Sprachwissenschaft dagegen ist keine historische, sondern

eine naturhistorische Disziplin" (S. Timpanaro, La genesi del metodo del

Lachmann, Firenze 1963, p. 76, n. 1). La filologia (e va bene che qui il

tedesco Philologie avrà la sua generica accezione universitaria di complesso

di studi sulla letteratura) non può quindi aspirare all'assetto legislativo,

rispecchiatore di necessità, che pertiene (o si riteneva pertenere) alle scienze

della natura, fra le quali lo Schleicher e i neogrammatici suoi prosecutori

annoveravano la linguistica.

Dai movimenti correttori o eversivi del positivismo non poteva ovviamente

uscire che una considerazione meramente funzionale e ancillare della

filologia. Ciò è forse vero dell'intuizionismo, vista la connessione

epistemologica che si credette di scorgere fra le innovazioni del Bédier e la

dottrina bergsoniana, mentre notoriamente il Bédier in persona confessava

di essersi postumamente ritrovato in talune pagine del Bergson, da lui letto

assai tardi. Ma certo è vero dell'idealismo crociano, come si può vedere nel

Croce stesso editore perlomeno non superstizioso (così del De Sanctis) e

promotore d'una illustre collezione di classici dalla quale procurò di tener

lontana più che gli fosse possibile ogni accusata filologicità di

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presentazione. Ma è istruttivo come, in un famoso scritto (Per un catalogo, in

un Quaderno della ‟Voce", 1910), più insigne per sensibilità che

per logos, un neoumanista, per così dire, quale il Serra giudicasse del

programma crociano appunto degli ‛Scrittori d'Italia': vi trovava incluso ‟il

rinnovamento degli studi positivi" (aspetto per cui l'antipositivista Croce

poté giustamente sembrare il più grande dei positivisti) e arrivava a temere

‟edizioni critiche" con ‟la nuova lettura di un e in un manoscritto", dove

accettava della Bibliotheca Teubneriana, poiché il litigio verteva sul canone dei

classici, l'‟ideale - che del resto è una parte della stessa antichità - della

migliore lezione". Di lì a poco un umanesimo nazionalistico da dozzina

poteva coinvolgere nella germanofobia (dovette combatterlo anche un

grecista del calibro del Vitelli) il rigore della filologia classica elaborata nelle

scuole tedesche. Ma per ciò che riguarda il Croce bisogna confrontare

l'irruzione filologica avvenuta dopo la sua morte nella sua stessa collezione,

come del resto, gradualmente, nelle sillogi compagne, e non solamente in

Italia. Ciò era conforme a un abito mentale che si può qualificare di nuovo

positivismo e che in Italia, dove avevano contribuito a fare il ‛ponte' con

l'antico personalità come quelle del Pasquali e del Barbi, si configurò, qui al

pari che nella critica stricto sensu, in forma piuttosto post- che anticrociana.

La moda filologica tuttora vigente, particolarmente appunto in Italia,

obbedisce a un impulso forse già più di ieri che dell'oggi, come parrebbe

mostrare certo filologismo parodistico che attesta il trapasso della maturità.

In una mappa ideale una nuova limitazione alla filologia parrebbe infatti

sorgere dallo strutturalismo in quanto studio di sincronie pure, mentre,

come historische Disziplin, la filologia si collocherebbe, a primo sguardo, nella

diacronia. Particolarmente nel linguaggio della scuola parigina, una ricerca

‛puramente filologica' si oppone a una ricerca condotta a norma di

linguistica generale e dunque secondo parametri interni alla lingua (così per

la definizione, ovviamente oppositiva, di una funzione o di un lessema).

Tuttavia la punta della linguistica, per dire solo della linguistica,

strutturalistica travalica l'opposizione di linguistica sincronica e linguistica

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diacronica in indagini come quelle che il Jakobson, con

brillantissima contradictio in adiecto, chiama di ‟fonologia diacronica", e di cui

si trovano suggestive realizzazioni in vari autori (Kurylowicz, Haudricourt,

Juilland, ecc.), ma che in fondo era stata anticipata in fase presaussuriana da

storie della lingua alternate come fin dal Jespersen.

La filologia come disciplina storica si rivela sempre più acutamente involta,

non si dirà nell'aporia, ma nella contraddizione costitutiva di ogni disciplina

storica. Per un lato essa è ricostruzione o costruzione di un ‛passato' e

sancisce, anzi introduce, una distanza fra l'osservatore e l'oggetto; per altro

verso, conforme alla sentenza crociana che ogni storia sia storia

contemporanea, essa ripropone o propone la ‛presenza' dell'oggetto. La

filologia moderna vive, non di necessità inconsciamente, questo

problematismo esistenziale.

2. Critica testuale

La filologia culmina nella critica testuale, che perciò qui si procura di

compendiare in forma aforistica.

La denominazione universalmente ammessa è quella che traduce il

tedesco Textkritik:obsoleto è critique verbale, da cui s'intitola un manuale un

tempo molto frequentato dell'Havet; assai comodo sarebbe ‛ecdotica'

(ecdotique), invenzione di dom H. Quentin, da tenere in pronto quale

sinonimo di preziosa sinteticità e aspetto specialistico; con intenzione

deprezzativa (dal Pagliaro) è stato usato ‛stemmatica' (del Maas), per di più

riferibile a un solo aspetto particolare, per quanto importante. Di che

momento essa sia il prodotto, cioè del romanticismo anzitutto, come di

norma, germanico, solitamente condensato nel nome di K. Lachmann, è

constatazione che parrebbe da revocare in dubbio da quando,

particolarmente per opera del Pasquali e con singolare acribia di S.

Timpanaro, i principi ne sono stati meglio indagati e in parte retrodatati. Si

potrebbe allora essere tentati di sospettare che, come filologia si è fatta

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sempre, così filologia testuale esista ‛da sempre'. E in realtà le grandi

epoche filologiche sono caratterizzate da intensa attività editoriale, si tratti

dell'età alessandrina, che elaborò la vulgata dei classici greci, o della

Rinascenza, anzi delle varie Rinascenze gemmate per metafora da quella

propriamente detta nel linguaggio dei medievalisti (carolingia, del sec. XII,

ecc.), alle quali si devono vari assetti vulgati dei classici latini, o del

momento istituzionale della Riforma e della Controriforma, attuato

nella philologia sacra (anche cattolica, per la Vulgata Sisto-Clementina) e

nei corpora dell'antiquaria ecclesiastica (incluso il Muratori). C'è anzi oggi chi

ravvisa nell'ecdotica il principale acquisto mentale dell'umanesimo, col

Valla e col Poliziano, anzi già col Petrarca, la cui opera di editore è stata

ricomposta dal Billanovich. Ma è giusto ricondurre la fondazione della

critica testuale all'ambiente dove fu formulato l'assunto d'una sua

consistenza scientifica, anche se si sa ormai che tale fondazione fu più

graduale e meno puntuale della sua rappresentazione corrente. Che essa sia

romantica importa che, attuata inizialmente in filologia classica, cioè dove si

disponeva di un canone millenario di testi recepti la cui lezione era da

verificare, era però atta a una filologia condenda sulla grande e insomma

medita distesa appunto romantica del Medioevo e anzitutto del volgare

(che press'a poco coincidevano, chiudendosi il Medioevo con l'invenzione

bella stampa, la quale poneva o sembrava porre altri problemi). Simbolo

della situazione, appunto, il Lachmann, estensore lui stesso del metodo alla

filologia germanica; mentre di lì a poco colpisce l'equidistanza del pur

meno rigoroso lachmanniano K. Bartschdalla filologia germanica e dalla

romanza (sua è, prima del lachmannismo dei O. Gròber e dei O. Paris, la

prima edizione ‛scientifica' di un trovatore, Peire Vidal). Sui principi di

quello che fu chiamato lachmannismo, antonomasticamente e magari più

che altro emblematicamente, è seguitata a svolgersi nel secolo e mezzo

successivo quell'opera di raffinamento, reazione e revisione per cui si può

anche parlare di antilachmannismo (principalmente J. Bédier e dom H.

Quentin), postlachmannismo (così O. Pasquali e in certo modo M. Barbi)

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e, perché no?, neolachmannismo parte della romanistica italiana).

Questa rimeditazione è andata abbastanza avanti perché, abbandonando la

semplice esposizione storica o l'insegnamento precettistico della dottrina, si

tenti di formulare quelle esperienze in enunciati il più possibile

razionalizzati e organicamente seriati, in cui trovino il loro luogo anche gli

agganci a rami di filologia in prima istanza non testuale grazie a una

generalizzazione che corrisponde alla riduzione, al limite, della filologia alla

critica testuale.

Unicità e plurivocità del testo. - La prima cautela da adottare consiste nel

determinare se il testo che si tratta di riprodurre o ricostruire sia uno o più.

Geometria e fisica muovono da definizioni intuitive e da convenzioni

semplificanti (corpo senza dimensioni e senza massa, ecc.): qui conviene

assumere solo a ragion veduta la puntualità dei testi e degli antigrafi nei vari

stati. Non è lecito mescolare redazioni distinte: pericolo da cui vuoi

preservare la dottrina bedieriana del manoscritto unico da seguire, la quale,

con tutte le riserve che suscita, è pure un tentativo di salvaguardia contro le

edizioni composite. Quando la recensione della tradizione manoscritta

mette in luce solo opposizioni di varianti adiafore, sono da riconoscere più

redazioni (di autore o no), che devono formare oggetto di altrettante

edizioni (come fece precisamente Bédier aggiungendo nel 1928 un'edizione

del Lai de l'ombre secondo il codice E alla propria del 1913 secondo A e

all'antica del Jubinal secondo F). Che tali edizioni siano separate e integre o

risultino da apparati, a rigore distinti, è irrilevante, poiché fin d'ora si può

ripetere delle forme di edizione il famoso detto del Croce sulle forme di

critica, che ognuna è buona quando è buona.

Corollari editoriali. - Se la recensione di una tradizione svela opposizioni non

solo di varianti adiafore ma di veri e propri errori, s'intende di tipo

monogenetico, l'edizione dovrà essere depurata di tali errori (sanati se si

può, altrimenti contrassegnati dalla crux interpretum), mentre la scelta delle

lezioni indifferenti prudenzialmente dovrà portare sempre, organicamente,

verso la medesima fonte. In tale evenienza è meno urgente provvedere,

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restando ovviamente completo l'apparato, a separate edizioni, poiché si

tratta di rifacimenti operati su un archetipo già corrotto. Che su questa

copia abbia potuto lavorare l'autore stesso, e che di conseguenza l'abbia

promossa a equivalente dell'originale, non si può naturalmente escludere,

ma la probabilità di autorevolezza è fortemente diminuita. Un caso

paradigmatico è costituito dal Libro de buen amor di J. Ruiz, di cui si sono

ravvisate, e forse si ravvisano ancora pacificamente, due redazioni con date

distinte, finché l'edizione di G. Chiarini non ha provato l'esistenza d'un

archetipo sul fondamento di errori comuni e ha reso quindi perlomeno

discutibile la presenza di redazioni d'autore.

Opere postume incompiute. - La maggior difficoltà editoriale oggettiva è

proposta da opere postume incompiute, che presentano frammenti e

redazioni sostitutive o alternative, magari accompagnate da abbozzi di

sommari non esaurienti o contraddittori. Gli antenati dei capolavori

postumi sono il De rerum natura e l'Eneide, a cui peraltro sembra esser

mancata solo l'ultima mano, come rivelano forse per Lucrezio le numerose

opportunità, avanzate dalla critica moderna, di spostamento di versi,

per Virgilio i da lui chiamati ‟puntelli" (tibicines); difficile è comunque

ritrovare la tecnica, probabilmente ispirata a pietas, di Cicerone o di Tucca e

Vario editori. Sogliono invece essere oggetti di vituperio, o al minimo di

serie riserve, i primi editori di capidopera moderni come

le Grazie foscoliane, il libro linguistico manzoniano, i frammenti di

Hölderlin o, più vicino a noi, certi inediti di Proust (Jean Santeuil, Contre

Sainte-Beuve), i romanzi di Kafka, la gran summa narrativa di Musil. Certo si

può fare, e spesso fortunatamente si è fatto, di meglio; ma è istruttivo, per

tornare sul primo caso soltanto, che il saggio del Barbi (1934) non sia stato

a tutt'oggi seguito da un'adeguata edizione delle Grazie. Sono problemi

singoli, ognuno con i suoi particolari di struttura e di cronologia relativa, e

passibili di altrettante, non si dice soluzioni, ma serie di soluzioni

proporzionate a diverse teleologie. Le edizioni condannate sono mosse

meno di quanto si affetti di credere da vili motivi, o d'insufficienza tecnica

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o peggio di speculazione commerciale: benché nemmeno a questa si

dovrebbe negare ogni gratitudine, se fu il solo meccanismo atto a

procurarci almeno una qualche conoscenza, sia pure imperfetta, di opere di

tal livello. Per fare un esempio non bruciante, e del resto non incompiuto, è

possibile che le Confessioni del Nievo, trattate con le forbici e alterate

perfino nel titolo, solo a patto di queste manipolazioni siano state

conosciute prima. Ma la preoccupazione di leggibilità, qui attuata così

rozzamente, si può estrapolare in ben altra accezione: lo zelo, animato da

devozione (quale non si potrebbe certo negare a M. Brod per Kafka o ad

A. Frisé per Musil), di un'opera che sia un'opera, intorno alla quale poter

girare. Un'edizione assolutamente scientifica, quale è ovviamente

augurabile, non però sempre necessariamente in prima istanza, paga un

pedaggio di ‛illeggibilità'. Leggibilità e illeggibilità, quasi in una sorta di

principio d'indeterminazione, corrispondono a funzioni diverse della

fruizione letteraria. È comprensibile che chi si preoccupa della ‛vita' di una

scrittura, fino al punto di supplirvi, per incongrua generosità, con estratti

dalla sua propria, respinga nel gelo del museo o nella polvere dell'archivio

ciò che in qualche caso rischia di essere una caricatura della filologia.

Il testo nel tempo. - I freni pragmatici che possono intervenire innanzi a un

testo non perfettamente eseguito, debbono cedere al rigore innanzi a un

testo eseguito, di esistenza incontestabile, e già conosciuto in un modo che

semmai solo retrospettivamente si potrà qualificare di provvisorio. La

filologia, quando ne ha i mezzi, riapre questo testo chiuso e statico, lo fa

aperto e dinamico, lo ripropone nel tempo. La riapertura si opera in

direzioni opposte, dopo e prima del testo. La determinazione di quella che

si prende per norma, cioè la redazione ultima, non è priva di difficoltà. Per

rendersi conto di questa frequente aporia basterà rifarsi all'esperienza

autobiografica di qualsiasi produttore di letteratura. Un medesimo

manoscritto, o più verosimilmente dattiloscritto, venga usufruito in più

occasioni similari, anche abbastanza ravvicinate, e la lezione sottoposta a

lievi correzioni migliorative ogni volta in bozze senza che ne sia tenuto

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registro: correzioni, in pratica, dimenticate. Se di tali pagine l'interessato

vorrà finalmente dare un testo definitivo, posto che pure si conceda per

finire quello scrupolo che meglio si eroga altrui, si può tenere per certo che,

poiché l'acuzie correttoria è discontinua, egli sceglierà, indipendentemente

dal livello, le variazioni più approfondenti, senza inibirsene di nuove oltre

questa mobile cresta. Un editore ‛terzo' non potrà certo seguire una tale

procedura, ma, quando il miglioramento non sia documentariamente

univoco, meglio lo rifugerà tutto in apparato, distinguendo le sedi (anche se

riuscisse a individuare l'esemplare letteralmente licenziato alla data più

bassa). Qualcosa di simile avviene quando qualche implacabile correttore di

se stesso lascia suggerimenti su più copie di una sua stampa, oppure, anche

se su una copia sola, ne lascia alcuni di stabili, altri di eventuali - come

quelli dai medievali contrassegnati mediante al(iter) -, altri di alternativi pur

non sussistendo dubbi sulla condanna dell'elemento da surrogare. Solo la

porzione certa potrà essere ospitata a testo, pur dovendosi annotare

(meglio se sinotticamente) ogni altra proposta più instabile, e specialmente

le certezze negative che meriterebbero, se proprio la modalità della

pubblicazione (che offra o simuli una resa compatta) non la renda esosa,

un'apposita connotazione tipografica (altro carattere o corpo). S'intende

che a fini editoriali risulta irrilevante un eventuale giudizio di involuzione

correttoria (quale certo riesce di formulare per lo stesso Baudelaire, per non

dire dei contemporanei che ci lasciano spaesati modificando ciò che era già

patrimonio della nostra memoria), non potendo interferire criteri

assiologici in un ambito oggettivamente formale.

Resa dell'elaborazione testuale. - La direzione opposta, e più vulgata, in cui si

offre lo studio del testo-nel-tempo, è quella della sua elaborazione. Il perno

attorno al quale il punto di vista sembra ribaltarsi è il testo come dato

immobile. Questo postulato, implicito nell'ovvia lettura, è contraddetto

meno dall'altrettanto ovvia pedagogia del testo come prodotto d'una ‛lunga

pazienza' che dalla rappresentazione, inerente alla riflessione di Mallarmé e

soprattutto di Valéry, del testo come prodotto d'un'infinitudine elaborativa

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di cui quello fissato è soltanto una sezione, al limite uno spaccato casuale.

È ben probabile che lo stimolo pedagogico sia stato il più attivo nel

promuovere la confezione di edizioni con varianti. La tramutazione del

romanzo manzoniano in ideale metastorico di scrittura, anche dal più

stretto punto di vista formale-grammaticale, spiega la larghissima diffusione

nelle scuole d'un'edizione (quella di R. Folli, più tardi con una ‛chiave' di O.

Boraschi) in cui I promessi sposi del 1840-1842 vengono raccostati alla

falsariga del 1825-1827 mediante artifici tipografici il cui nucleo permane

nell'impaginazione filologica del Caretti; fin dal 1842, del resto, un

concittadino del Manzoni si affrettava a impostare la questione (O. B. De

Capitani d'Arzago, Voci e maniere di dire più spesso mutate ...). Ma che la

grandezza d'un poeta sia anche, orazianamente, nell'accanimento del suo

lavoro, è uno spontaneo orientamento che porta il filologo, neutramente

rispetto ai vantaggi didattici, a rappresentare fisicamente la genesi testuale

d'un capolavoro. Quale musa, altro che tecnica, posto solo il giusto eccesso

di ammirazione per l'oggetto poetico, poteva ispirare le sottigliezze

tipografiche del Moroncini nel rendere l'elaborazione dei Canti e di altre

opere leopardiane, la squisita ingegnosità del Debenedetti nel rendere

quella dei frammenti autografi del Furioso? È significativo che la prima di

simili operazioni filologiche abbia avuto per oggetto uno dei paradigmi

della poesia: gli abbozzi autografi delle rime petrarchesche per cura di

Federico Ubaldini (1642), due secoli e mezzo prima che vi si dedicasse un

campione della filologia positivistica, Karl Appel. La coscienza del lavoro

poetico inerente al momento del simbolismo, coscienza insieme di

oggettualità e di attività, ha aumentato di responsabilità la posizione del

critico anche innanzi a parecchi dei testi citati: la ‛critica delle varianti'

conferma per via sperimentale, aumentandone la certezza e arricchendole

di particolari altrimenti non o meno percettibili, le interpretazioni ottenute

o da ottenersi per via intuitiva, interpretazioni che non sono

necessariamente di segno positivo; nei processi che essa descrive occorre

distinguere i passaggi dal ‛non essere' all'essere poetico, i compensi a

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distanza nell'area testuale e le vere e proprie sostituzioni (quali nei due, se

non tre, Manzoni) di personalità espressive ugualmente valide. Una

generalizzazione non può procedere oltre questa sommaria fenomenologia,

ma torna opportuno rilevare un prolungamento che la critica delle varianti

ha potuto avere sul comportamento dell'autore. Di uno dei migliori

contemporanei, G. Ungaretti, un critico attento alle varianti, O. De

Robertis, pubblicò (1945) una raccolta delle Poesie disperse ‟con l'apparato

critico delle varianti di tutte le poesie" e un suo proprio studio.. Da questa

pubblicazione il poeta dovette trarre incoraggiamento a lasciar stampare

due suoi libri successivi, La terra promessa(sottointitolata, è vero, Frammenti)

e Un grido e paesaggi, ugualmente con apparati e studi a cura di amici, e pochi

mesi prima della sua morte, vera edizione postuma in vita, il volume

di Tutte le poesie (Vita d'un uomo) con lo stesso allestimento critico. Questa

restituzione fisica del testo alla sua condizione di caleidoscopica variabilità

(ben altra cosa da semplici variazioni sullo stesso tema) rappresenta un

caso-limite, probabilmente da non riprodursi, che è giusto sia legato

all'ultimo, per quanto pare, dei poeti simbolisti. Un incoraggiamento alla

considerazione poetica di questo materiale, non di rado assai più che

semplicemente intermedio e preparatorio, viene dalle arti figurative, che

negli ultimi decenni hanno aggiunto alle da sempre stimate serie di disegni

o schizzi per un'opera l'esposizione delle sinopie accanto agli affreschi

strappati, fonte (come al Camposanto di Pisa) di nuove sicure emozioni.

Varianti d'autore (excursus bibliografico). - Nessuna cultura dispone di una

raccolta manualistica di correzioni d'autore fatta a uso scolastico come la

francese, col ristampatissimo trattatello di A. Albalat (1856-1935). Le travail

du style enseigné par les corrections manuscrites des grands écrivains (la cui 1a edizione

è del 1903). Gli esempi, spesso stupendi, vorrebbero mostrare come si

impara a scrivere (o anche a non scrivere, ciò che vale per Fénelon e

Stendhal), ma per eterogenesi dei fini l'utilità sopravvive. Il commento di

quell'ambiente al materiale radunato (particolarmente abbondante, spesso

appassionante, è quello relativo ai grandi ottocentisti, segnatamente

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Chateaubriand e anche Hugo) è di regola aneddotico, generico e comunque

didattico, anche sotto pregiate penne: P. Hazard, trattando

degli Abencérages, parla (in ‟Journal des savants", nuova serie, 1935, XXIII,

p. 214) dei ‟secrets de l'art d'écrire"; H. Guillemin, a proposito d'un poemetto

di Lamartine, scrive (in ‟Trivium", I, f. 4) che peu importe le travail du style. Il

ne s'agit plus de cela". Solo l'esperienza idealistica poteva avviare a un ‛uso

critico di quei reperti, come accadde infatti nell'università tedesca: per

Hugo ad esempio è pregevole la sistematicità di H. Heiss (sulle Odes et

ballades, in ‟Zeitschrift für französische Sprache und Literatur", 1912-1913,

XL, pp. 1-48). A una teorizzazione giunge addirittura A. Franz (Aus Victor

Hugos Werkstatt. Auswertung der Manuskripte der Sammlung ‛Les

Contemplations', in ‟Giessener Beiträge zur romanischen Philologie", 1929,

Zusatzheffe V, e 1934, IX; singoli componimenti sono studiati anche in

‟Germanisch-Romanische Monatsschrift", 1925, XIII, pp. 471-486, e in

‟Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen", 1929,

CLV, pp. 211-228, e 1929, CLVI, pp. 53-65). Il Franz oppone una tipologia

dinamica delle varianti alla considerazione ristrettamente stilistica e

apologetica dei colleghi francesi (si oppone infatti a ogni valutazione: ‟Ho

evitato al possibile giudizi di valore. Dagli eruditi la poesia non dev'essere

lodata o biasimata, bensì riconosciuta"). L'analisi genetica non procede da

un preesistente contenuto alla forma, ma al contrario: l'evoluzione della

poesia è condizionata dal ‟tipo di formulazione poetico-linguistica". Lo

studio dell'elaborazione testuale può fondarsi o sulla comparazione con

elementi esterni o su un'analisi interna, e perciò considerare il testo o come

funzione (biografica) o come potenza. Lo studio filologico e documentario

delle varianti tratterebbe le redazioni primitive come potenza e l'ultima

come funzione. Questa morfologia positivistica non oltrepassa dunque la

soglia dell'interpretazione, varcata per esempio dal Heiss. Ci vuole qualcosa

più della sistemazione del Franz perché nello studio delle varianti si trovi

superato, come asserisce K. Wais nella sua bella raccoltina di Doppelfassungen

französischer Lyrik von Marot bis Valéry (Halle 1936), il conflitto di filologia

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idealistica e di filologia positivistica. Anche il Wais oppone, sia pur

discretamente, a un metodo francese di perfezione stilistica puntuale un

altro metodo, per il quale cita a modelli, oltre il Franz, J. Petersen

(sul Mondlied di Goethe) e I. Zimmermann (sulla Droste-Hülshoff), e

inoltre, per quanto attiene alle doppie redazioni, E.

Ermatinger(sul Meister goethiano e sugli Hymnen an die Nacht di Novalis). È

significativo che una recente silloge di scritti su Texte und Varianten sia stata

elaborata in ambito germanico (v. Martens e Zeller, 1971).

L'edizione nel tempo. - Posta l'esistenza di un autografo o altro documento

autorizzato, anche la sua riproduzione è critica Ogni edizione è

interpretativa: non esiste una edizione-tipo, poiché l'edizione è pure nel

tempo, aprendosi nel pragma e facendo sottostare le sue decisioni a una

teleologia variabile. All'ambizione di un testo-nel-tempo corrisponde altresì

l'elasticità d'un'edizione-nel-tempo. La raffinatezza dei mezzi meccanici si

può ormai caricare di ogni responsabilità nell'ottenimento di un equivalente

del documento, liberando il valore totalmente mentale della riproduzione

critica.

Rettifica degli autografi. - Se perfino la dottrina del manoscritto unico (Bédier)

suggerisce la correzione degli errori detti ‛evidenti', nemmeno gli autografi

si sottraggono a questa necessità. Ciò che è ambiguo è solo la definizione di

‛evidenza', che, come sempre che la si invochi, non può rispondere a un

reale consensus omnium ed è smentita dalla sua plurivoca applicazione, e che

pertanto si traduce nella conformità a un ragionamento di economia. Per

esempio: se l'edizione del Teseida si conduce secondo l'autografo, non è

detto che se ne debba accettare anche l'unico endecasillabo di tredici sillabe

come frutto d'imperizia o come soluzione provvisoria, raccomandate

entrambe a un indice statistico troppo vicino a zero. L'economia impone la

rettifica di ciò che andrà predicato svista, così come sarebbe pusillanime

l'eventuale editore di Paul Valéry il quale pretendesse mantenere un verso

crescente (‟Comme l'ongle de l'orteil") che effettivamente esiste in una sua

stampa, se essa fosse unica: questo implicherebbe una fisionomia

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dell'autore troppo alterata, l'ipotesi conservativa risulterebbe troppo

onerosa rispetto alla (presunta) congettura ‟Comme ongle"ecc. (che

naturalmente si trova invece sempre, prima e dopo), anche se tale

congettura indubbiamente sforzi la sintassi (il che giustifica l'errore del

tipografo). Altrettanto gravida d'implicazioni sarebbe l'ipotesi conservativa

nel caso del Boccaccio, le cui copie di opere altrui o anche proprie,

compreso il rivendicatogli manoscitto Hamilton del Decameron, sono infatti

tutt'altro che ineccepibili. In tali casi è utile, poiché la serialità aumenta la

certezza della correzione, procurare di descrivere una morfologia delle

sviste. È facile constatare che quelle puramente grafiche si classificano

sotto categorie (anticipo, ripetizione, omissione ecc.) che ordinatamente

corrispondono a quelle, prima patologiche, poi fisiologiche (assimilazione o

dissimilazione regressiva e progressiva, sincope ecc.), proprie

dell'evoluzione linguistica, particolarmente fonetica. Se ne estrapola una

cibernetica sola.

Edizione diplomatica. - Per l'indicata perfezione raggiunta dalla meccanica,

l'edizione diplomatica, utilissima un giorno, ha una sfera d'applicazione in

diritto, se non in fatto, sempre più limitata. Essa rappresenta un puro

aumento di leggibilità, e in realtà viene spesso giustapposta, passibile com'è

oltre al resto di misurazioni topografiche, al facsimile fototipico, spesso

trasparente solo dopo una lunga assuefazione (un caso-limite può esser

quello della Seconda Centuria polizianea). Una fattispecie degna di rilievo si

ha nella traslitterazione (per esempio di testi arabo-ispanici o giudeo-

romanzi). La sua minuzia o disinvoltura è in stretta proporzione con la

confidenza acquisita in quel distretto scientifico, e dunque s'inscrive sotto

l'epigrafe di edizione-nel-tempo. Solo tale confidenza può indurre a

trascurare le ridondanze o le equivalenze, accettando il procedimento a

senso unico per cui la sostanza del punto di arrivo è integra, ma non si

potrebbe ricostruire univocamente la grafia del punto di partenza, in una

sorta di ‛uguaglianza a destra'. Di tale confidenza ha dato un luminoso

esempio il Cassuto nella trascrizione dell'Elegia giudeo-italiana, e ciò che

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può frenarne l'imitazione è solo la perdurante asimmetria nella competenza

bilingue.

Edizione interpretativa. - Di un autografo (o suo equivalente) l'edizione

interpretativa riproduce ciò che interessa e omette, intenzionalmente o

spontaneamente, ciò che non interessa. In sostanza essa è la traduzione o

adattamento di un sistema, storicamente individuato, in altro sistema; nulla

di categoriale la distingue dalla traslitterazione, se non il fatto che per

l'autore e per l'editore vige una stessa convenzione di base, non però

assolutamente identica, ciò che rischia di sottrarre la coscienza delle

differenze a un'assidua vigilanza. Elementi funzionali possono assumere

una consistenza oggettiva, ma il limite fra funzionalità e oggettività, più

spesso fissabile automaticamente, può risultare solo al termine d'uno

scrutinio critico. Le opposizioni hanno luogo tra sostanza linguistica e

rappresentazione (come tra fonetica e grafia) e tra rappresentazione e

coscienza della rappresentazione. La distinzione di u e v come, dove

occorra, di i e j si fa per accordo universale (a cui si vorrebbe partecipasse

più costantemente la filologia spagnola, in cui edizioni famose arrivano a

distinguere tra le varie forme di s o di r), ma distinzione e indistinzione

possono essere inglobate nell'oggetto stesso dell'espressione, come accade

al Manzoni per l'indistinzione di u e v e per gli altri antichi usi grafici nel

presunto Anonimo della sua Introduzione, o al Gozzano per la forma

‛italica' della s nelle vecchie carte (‟Isola Sconosciuta", che nell'esecuzione

vocale sarà stata prevista, conforme alla ‛semicultura' vulgata, come f o

come la pronuncia blesa di s). D'altra parte un famoso acrostico di Dante

(Purg. XII, 25 ss.), supponendo VOM ma uom, implicherebbe a tutto rigore

che l'indistinzione (in forma diversa per la maiuscola e la minuscola)

venisse estesa all'intera Commedia: il fatto che ciò non accada importa il

giusto prevalere della funzione sul segno strumentale, ma il fatto che il

problema si ponga indica che l'ambivalenza della lettera (o, a rigore, già

dell'ideogramma) tra segno e oggetto - ambivalenza a cui, nella civiltà

alfabetica, si devono esperimenti che vanno dagli Erotopaegnia di Levio

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alle Calligrammes di Apollinaire, al lettrisme, a Cummings ecc. - vige talvolta,

ma virtualmente sempre, anche in critica testuale, e sollecita decisioni di

natura problematica. Indipendentemente dai casi in cui la grafia viene

usufruita, come negli ultimi ricordati, ad allotrio scopo figurativo, sia pure

con un eventuale sottofondo vagamente semantico, essa può essere

oggettivata per ragioni strettamente estetiche, sia innovanti sia

tradizionalistiche: lo zelo grafico non è separabile da un certo tipo di stile e,

per citare non scrittori del canone più largo, ma preziosi eccentrici, sarebbe

impensabile stampare o ristampare Dossi, Imbriani o C. E. Gadda senza

rispettare scrupolosamente le loro singolarità, l'uso di j, tré, aqua in Dossi, la

punteggiatura separativa di Imbriani ecc. Ciò vale al massimo per i

riformatori (tale era precisamente il predecessore grammaticale del Dossi,

O. Gherardini), ad esempio il Trissino con le sue nuove lettere. Tuttavia nel

caso del Trissino andrebbero rispettate le sole ‛novità qualificanti o anche i

dati coevi normalmente correggibili (indistinzione di u e v, uso delle

maiuscole, punteggiatura ecc.)? Il problema sorge perché si tratta di autore

abbastanza antico, staccato dalla continuità con le attuali convenzioni e

appartenente a un altro tipo di cultura grafica. È questo iato, superato

normalmente da un'automatica trascrizione fatta d'ufficio, che pone

decisioni drammatiche quando qualche elemento del sistema perento, già

allora contestato, stesse a cuore all'autore del testo da pubblicarsi: il

Debenedetti l'ha messo nel competente rilievo per il caso dell'h-ariostesca,

d'un autore cioè per cui, diceva, togliere l'h all'huomo e all'honore tanto valeva

quanto togliere all'uno umanità, all'altro onorabilità. Si crea cioè una

discontinuità o rispetto alla coerenza passata o rispetto alla fisionomia

presente oggi nella repubblica delle lettere. La commutazione del sistema,

inevitabile per un autore mediamente antico, porta con sé alcune

contraddizioni, che sono variabili in rapporto alla finalità che l'edizione si

prefigge. Se si vuol dare un'edizione del Petrarca latino secondo gli

autografi (o, mancando questi, secondo l'uso comune a lui e al suo tempo),

nessun dubbio che vada scritto -e, nichil ecc., ma se si persegue uno scopo

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divulgativo, sarà lecito scrivere -ae, nihil ecc., secondo tavole di

traslitterazione nel complesso meccaniche. Se però si vuol presentare a un

pubblico anche non specializzato il Petrarca volgare secondo la sua grafia,

come il primo nostro grande di cui si conosca la mano, sorgono situazioni

della cui criticità anche quel pubblico dev'essere cosciente. In una

riproduzione del Canzoniere secondo il manoscritto (Vaticano 3195) o

autografo o, per le parti non autografe, vigilato dall'autore (avendo

avvertenza di segnare i pochissimi trascorsi di patina padana inflitti dal

copista ravennate, per evitare ogni ibridismo, qui almeno insopportabile, di

sostanza fonica toscana e di settentrionale) sarà lecito

mantenere h dovunque sia scritto, in particolare a inizio di parola, ma,

separandosi le parole (e qui segnatamente le proclitiche elise) alla moderna,

e seguendo il Petrarca come tutti la norma grafica scoperta dal Mussafia

(esemplificabile con honore ma lonore = l'onore), si otterrà la soluzione

contraddittoria d'ora in hora. Le frizioni consecutive al cambiamento di

sistema sono soprattutto visibili nella punteggiatura, la cui inserzione in un

testo antico è inserzione di dati di ‛esecuzione' affini a quelli introdotti

dall'ecdotica musicale, ma che si trova a colluttare, per esempio proprio nel

caso del Petrarca, con un sistema originale che adopera segni anche uguali

(punto, punto interrogativo) o affini (comma = virgola) e che mescola del

pari, ma ripartendole diversamente, funzioni semantiche, qualche volta

convenzionali, e funzioni melodiche (oltre ad alcune diacritiche), talché

riesce possibile solo in un numero di casi limitato mettere od omettere un

segno, e lo stesso, nella stessa sede. Le principali difficoltà insorgono infatti

per quegli adattamenti all'‛uso moderno' che oltrepassano i semplici

mutamenti tabulari di grafemi e per i quali, di più, la moda e il gusto

consentono di volta in volta una porzione fissa e una elastica. Così avviene

per la ripartizione di iniziali minuscole e maiuscole, sempreché questa non

sia fissata in modo ferreo, come nel tedesco moderno col suo costume di

ascendenza barocca (benché non esente da contestazioni, valga St. George,

le cui minuscole ai nomi comuni sono tanto sacre quanto l'h- all'Ariosto).

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Così, ancora, per la punteggiatura, verso cui assoluto dev'essere il rigore

conservativo quando è assunta nell'espressione (come in Foscolo, Leopardi

e soprattutto Manzoni) ed è razionalizzabile in saldi enunciati (seppure

spesso ancora da studiare come modelli anche storici, la lineetta ‛foscoliana'

di Mazzini, certe virgole ‛manzoniane'); mentre è ammissibile la libertà degli

editori per autori che ‛non vedano' la punteggiatura, e s'intenda sempre

dove non la vedono, come Porta o perfino De Sanctis. La conservazione è

dunque scalare, e la coscienza dell'editore come del lettore risponde a

un'analisi frazionaria. Per tornare a fatti propriamente grafici sempre

esemplificabili nel Petrarca autografo: ç è una pura forma

di z (indifferentemente semplice o doppia, come sottratta alla correlazione

di lunghezza) e può esserne sostituita senza danno (ciò non sarebbe

possibile in antico spagnolo, dove le due lettere erano - spesso nei codici e

oggi di norma dagli editori - addette a una distinzione fra sorda e sonora

non segnata dalla scrittura italiana); t (o c) più i innanzi a vocale risponde a

un uso etimologico (gratia) serbabile qui senza inconvenienti (equivoco

potrà sorgere più tardi quando la scrittura -antia/-entia sarà atta a

rappresentare o la forma di astratto latineggiante, anzi umanisticheggiante, -

anzia/-enzia o addirittura -anza/-enza); la conservazione di -ij per -ii(con la

forma lunga di i non ignota in altre finali, ma normale a differenziare le

aste) risponde invece non a una pietas umanistica (come verso et, nocte,

extremo..., il primo dei quali d'interpretazione del resto ancipite davanti a

vocale fra e e ed), bensì a una pietasmedievalistica, quale sussiste per i numeri

romani nella tipografia inglese (qui si pone solo il problema secondario di

stabilire se in -ii fosse ancora semivocale più vocale o già vocale ‛lunga' da

rendersi oggi meglio con -i che con -ii, o diacritico-etimologicamente con -

î un tempo anche con -j); finalmente nesun, nul'altre, il tipo di

composto adolcire (meno raro di addolcire) - composto con a- che si oppone

a quello con ad-, addorno (oltre che adorno), analogo a inn-anzi, inn-alzare

- presentano, con una probabilità che rasenta la certezza, un autentico

abbreviamento protonico della lunga la cui alterazione dalla grafia

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rischierebbe di estendersi alla sostanza fonica. Se possedessimo un

autografo di Dante, e un autografo volgare, possiamo congetturare che si

conformerebbe al canzoniere Vaticano (lat. 3793), al Vaticano-) Chigiano

(LVIII. 305), al codice del cosiddetto Fiore (a Montpellier), oltre che in

particolari di minor interesse comuni a Petrarca, nella scrizione

ridondante cie per ce (cierto, cienere), che tanto più saremmo costretti a

correggere in quanto i rischierebbe di essere preso, cosa capitata e che

seguita a capitare, anche a praticanti della professione editoriale, per segno

di vocale.

Intermediazione tipografica ed editoriale. - Dopo l'invenzione della stampa anche

gli autografi (o equivalenti) sono stati soliti passare attraverso

l'intermediazione tipografica, ciò che importa (prescindendo

dall'introduzione involontaria di errori, quasi sempre troppo flagranti per

essere pericolosi) una forte probabilità di livellamento formale, nelle

migliori tipografie assistite prima da letterati poi da appositi tecnici,

tendenzialmente sistematico. Tali interventi, certo rischiosi quando praticati

da gente che la sapeva più corta degli autori, sono da condannare assai

meno che non si sia consueti fare. Questi letterati o proti sono stati per

secoli i depositari della correttezza grafica e puntatoria, in particolare in

paesi di grafia difficile come la Francia. I grandi del Settecento e del primo

Ottocento, come sanno i loro editori moderni, principalmente quelli dei

loro carteggi (e la cosa vale ancora per Proust), non davano l'ultima cura a

questo aspetto del loro prodotto, destinato a esser rifinito da altre mani. E

tutti sanno che anche in epoca più recente fini letterati non disdegnarono

di limare dall'esterno le scritture di autori provvisti di forte personalità

poetica ma non di robusta cultura alfabetica: scomparsi quei discreti

curatori, duole che nessuna sorveglianza sia più esercitata sui medesimi

autori, lasciati in balia di sgrammaticature non necessarie, e anzi seriamente

riduttive. È un episodio del filologismo caricaturale, esercitato fuori del

competente ambito, scotto di una recente ‛filologia di massa', che giunge a

ingombrare pagine e pagine di libri non destinati a uso principalmente

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fabrile con varianti poco significative di autori terziari. Quei depositari della

tradizione trovano un limite alla legittimità del loro operare quando

infliggono retrospettivamente le loro norme ai prodotti d'una precedente

tradizione incompresa. La filologia che in largo senso si può chiamare

laurenziana, per esempio, con tutti i meriti che le vengono dall'aver voluto

costituire una vulgata degli italiani (così nella Raccolta Aragonese) come già

dei classici, eccedette senza dubbio in livellamenti melodici, timbrici e in

genere formali.

Archetipo. - La ricostruzione testuale, come la riproduzione, ha per ovvio

presupposto l'unicità del testo, ne sia l'attestazione unica o plurima. Si è

discusso oziosamente se ciò che si ricostruisce sia l'originale o altra cosa.

Ma sarebbe operazione inane quella che non mirasse all'originale, s'intende

l'originale al limite (dell'attestazione documentaria e della critica interna). La

constatazione che gli enti dell'ecdotica sono ambigui tra punti e segmenti

vale anche per l'oggetto della ricostruzione, che si deve sempre assumere

come equivalente dell'originale tranne prova in contrario: la prova consiste

in ‛errori' (cioè in elementi di cui vicina a zero è la probabilità che

appartengano al punto di partenza), errori di sostanza, siano essi sanabili o

no (nel qual caso vengono contrassegnati da cruces interpretum), o anche

errori di forma. È opportuno riservare il nome di archetipo all'oggetto

ricostruito, cioè l'antenato comune all'intera tradizione, in quanto distinto

dall'originale perché già corrotto: la sua consistenza va sempre dimostrata.

Il Timpanaro ha mostrato che il nome archetypus col semplice valore di

capostipite si trova già in Erasmo, dalla 2a edizione degli Adagia (1538);

mentre di codex archetypus in accezione lachmanniana discorrono già alcuni

contemporanei del Lachmann, in particolare il classicista danese J. N.

Madvig; il Lachmann, nel commento a Lucrezio (1850), rivendica la

definizione come sua: ‟id exemplar ceterorum archetypon (ita appellare soleo)". Ed

eccone il contenuto: ‟Il Lachmann fondava il suo metodo sul presupposto

che la tradizione di ogni autore risalisse sempre e in ogni caso a un unico

esemplare già sfigurato di errori e lacune, quello ch'egli chiamava

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archetipo" (v. Pasquali, 19522, p. 15). Qui ‛autore', poiché la critica testuale

nasce in filologia classica, vale autore greco o latino. E in astratto si può

anche pensare che l'eccezione sistematica si fondi sopra precise ragioni

culturali: per esempio, ‟che già prima del 900 tutti i classici greci oggi

superstiti (si eccettuano naturalmente i testi ritrovati in papiri) furono

tradotti dalla maiuscola in minuscola, e a un tempo corredati degli accenti e

degli spiriti ormai obbligatori. Un lavoro di tal genere, lungo e fastidioso,

non si fa due volte senza necessità" (ibid.); gli archetipi dei latini sarebbero

stati elaborati in un periodo che dalla cosiddetta ‛Rinascita carolingia' porta,

a ritroso, fino al Tardo Impero. In fatto, G. Pasquali ha dedicato un intero

monumentale volume (Storia della tradizione e critica del testo,Firenze 1934),

nato da una recensione al manualetto lachmanniano del Maas, a casi, tutto

sommato squisiti, di tradizione che oltrepassi l'archetipo lachmanniano. Ma

anche in linea di principio il sospetto prudenziale dell'interposizione di un

archetipo lachmanniano non potrebbe esonerare dalla dimostrazione che

l'oggetto ricostruito non sia un equivalente dell'originale, un (per usare il

termine positivistico-pragmatistico) als ob.

Trasmissione verticale e orizzontale. - Nel caso più semplice, da servire come

parametro per misurare i casi abnormi, la trasmissione è ‟verticale"

(termine del Pasquali), cioè va senza deviazioni di copia in copia e ogni

testimone risale a un solo genitore, ed è univoca, cioè riguarda un testo

fissato senza alternative. Il Pasquali chiama ‟orizzontale" o ‟trasversale"

una tradizione in cui intervenga più di un antigrafo, per contaminazione o

collazione, totale o parziale. Il caso di gran lunga più frequente è quello

della collazione parziale, che è sempre stato, e presumibilmente sarà

sempre, praticato dagli editori speditivi, fedeli a un antigrafo salvo i punti

insoddisfacenti, per cui si ricorre ad altro esemplare: questo

comportamento antilachmanniano può essere proiettato a ritroso sugli

antichi scribi, salva la meno facile disponibilità in quei tempi di altri

esemplari, che spiega il prevalere, nei copisti (purtroppo spesso semicolti)

che vogliano capire il loro testo, dell'emendamento congetturale sulla

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collazione. Ci può essere contravvenzione anche all'univocità, nel senso che

l'esemplare può contenere, in interlineo o in margine, varianti redazionali

(nei casi-limite, d'autore), offerte alla scelta dei copiatori.

Ricostruzione. - Dall'attestazione unica si risale verso l'equivalente

dell'originale attraverso eventuali incoerenze e discontinuità di certezza

avvertite nel suo interno. La critica interna, applicandosi a quella

‛proiezione sul piano' che è il manoscritto unico, ne ricava uno spazio e

ricostruisce, detto con altra metafora, una ‛diacronia'. (È acquisito il

parallelismo della critica testuale alla linguistica comparata ed è razionale

proseguire il parallelismo fino alla linguistica strutturale, visto che la

ricostruzione dell'originale è il rintracciamento di uno stato sincronico e

che l'abbandono del manoscritto unico significa ricavare dati diacronici, a

ritroso, dalle disuguaglianze, che sempre ci sono in lingua, di uno stato

sincronico, per ricavare uno stato sincronico più arretrato. La ricostruzione

dell'originale è formalmente assimilabile alla ricostruzione dell'indoeuropeo

meno in Bopp che in de Saussure). Il ricostruito è più vero del documento.

Questo principio non è scosso dalle scorrettezze di procedura che in fatto

possono essere state commesse. Il divieto di Bédier agli interventi ha valore

di semplice monito (storicamente preziosissimo) alla cautela verso gli

arbitri che un'incomposta immaginazione si apre entro il legittimo campo

d'azione della fantasia scientifica. I manoscritti esistenti e tangibili non

sono, come diceva il maestro francese, ‟il nostro bene" se non sono

criticati, cioè interiorizzati: anche la conservazione è una tuzioristica ipotesi

di lavoro.

Critica interna. - La critica interna, quale si esercita sul manoscritto unico, ma

naturalmente quale si esercita anche sugli archetipi e subarchetipi

ricostruiti, si compone di fattispecie e perciò non può essere sottoposta a

generalizzazioni esaurienti. Senza sollevare dubbi in casi singoli

sulla divinatio (con cui peraltro si designa anche la folgorante rapidità e

abbreviazione psicologica di un ragionamento), un maggior grado di

certezza si riesce a misurare quando le proposte risultino seriali. Esse si

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riferiscono a elementi della struttura, e dunque iterabili, particolarmente

metrici e ritmici per i testi in verso o in prosa numerosa. Formule che

riflettano una realtà legislativa complessa consentono di evitare eccessi

semplificatori di correzioni, talora denunciati dal loro stesso numero. Tali

formule riescono a portare a uno stato soddisfacente solo una parte di certi

testi, altri scalano secondo un grado di probabilità assai variabile: è allora

materia di discrezione se intervenire tipograficamente in modo diretto, e

fino a che limite, o serbare i risultati della critica a un apparato o altra

sezione didascalica. Gettare la spugna e avvolgere tutto il testo di

una cruxiniziale si può a ragion veduta e con espressa giustificazione (salvo

ovviamente i casi di ricerca riuscita sterile, poiché i tentativi riusciti sono

solo, come avviene di ogni oggetto sperimentale, una parte di quelli

esperiti, e in filologia una parola pronunciabile è a prezzo di molti silenzi

sul proprio lavoro).

Excursus metrico. - Molte brillanti correzioni della filologia classica nel

secolo scorso sono dovute a riconoscimenti metrici non elementari, nel

campo specialmente della poesia drammatica, segnatamente nei comici dai

‛numeri innumeri'. Formule composte o alternative valgono anche per

le chansons de geste francesi, dove il décasyllabe epico tollera già l'apparizione di

qualche alessandrino, e il décasyllabe stesso presenta varie forme di cesura.

La loro imitazione riesce tuttavia senza regola fuori di Francia, nel

repertorio franco-italiano e anche in quello angio-normanno (dove però

balenano complicate situazioni ‛continentali' in chansons a manoscritto

unico, quali i cosiddetti Pèlerinage e Guillaume, oltre al Roland di Oxford, per

non parlare del Gormond che è in octosyllabes). È dubbio che questa licenza

vada estesa alla Spagna del Çid, dove il Menéndez Pidal ha creduto di

portare al dover essere dall'essere l'alternanza del codice unico da dieci a

venti sillabe con prevalere della sistemazione media, mentre è stata indicata,

recentemente dal Chiarini, la strada di alcune sicure normalizzazioni (e

all'accanita conservazione testuale si oppone nell'ultimo Pidal il

frangimento in due mani del prima creduto autore unico). Nella Spagna

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medievale è stato ben dimostrato l'anisosillabismo di ciò che esorbita dallo

stretto mester de clerecía(l'Henriquez Urena gli ha dedicato un libro

meritorio), esempio luminoso il verso di arte mayor: compito di una filologia

non rinunciataria, e che voglia foggiarsi uno strumento atto a sondare la

sanità o corruzione ritmica dei testi, è misurare le escursioni, come ha fatto

il Chiarini per la cuaderna vía di Juan Ruiz, opposta alla isosillabica

della clerecía. Formule anisosillabiche sono state di recente studiate

metodicamente nell'antica poesia italiana. Si va dall'escursione massima, e

ben personale, di Iacopone, per il quale soccorre la pluralità dei

manoscritti, all'alternanza di gran lunga più frequente, la quale si verifica

nell'ottonarionovenario (adattamento dell'octosyllabe francese): non avervi

posto mente costrinse il Salvioni a potare in Bescapè una quantità

inverosimile di versi. Finora non si è ottenuto un adeguato coordinamento,

in ordine a questo problema, di critica testuale e filologia musicale, incline

quest'ultima piuttosto a coonestare la variabilità fin dal latino medievale

(ma si oppone l'inconcutibile isosillabismo d'un fenomeno solidalmente

letterario-melodico qual è la poesia trobadorica). Altri limiti da misurare

sono quelli della rima e dell'assonanza, sia nei rapporti reciproci (possibilità

di rime imperfette dal punto di vista consonantico) sia in quanto esse

hanno di comune (registri vocalici sotto accento e dopo). Per la prosa va

segnalata la possibilità di costituire in criterio correttorio le clausole della

prosa d'arte greco-latina ed eventualmente le forme di cursus in quella latina

medievale, coi suoi prolungamenti volgari. Pioniere di simile analisi,

peraltro non ancora, ché sarebbe stato effettivamente prematuro, a scopo

correttorio, è stato per il territorio italiano il Parodi, seguito dallo Schiaffini.

Il fatto che nelle francescane Laudes creaturarumun solo stico sia sprovvisto di

ogni possibile formula di cursus ha indotto a congetturare un supplemento,

‟per lo quale ennallúmini / [noi] la nócte‟ (o ‟[nóie] la nócte").

Parametri plurimi nell'attestazione unica. - Dall'attestazione plurima si risale per

successive induzioni a una figura di identità testuale totale o a tratti solo

probabile. Ad essa torna ad applicarsi la critica interna, la quale è dunque la

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sola costante della ricostruzione e fa sì che non ci sia una differenza

qualitativa fra attestazione unica e attestazione plurima dopo sottoposta

a recensio. C'è solo nell'attestazione unica una maggior probabilità di

innovazioni (errori) non avvertibili, che una collazione con altri testimoni

farebbe percepire facilmente. In qualche modo si può dire che la critica

interna supplisca con la pluralità dei suoi parametri alla naturale pluralità e

‛voluminosità' dell'attestazione plurima. Inizialmente infatti essa non di

rado è solo negativa, cioè consente la pura localizzazione del guasto e non

il rimedio; e la localizzazione per di più può essere solo globale e

approssimativa (per es. l'ipermetria o l'ipometria dove non si riesca a

individuare esattamente la sillaba sospetta o il luogo di caduta della sillaba)

o addirittura alternativa (per es. una stilisticamente inammissibile identità di

parola-rima, come più volte nel Fiore, senza che sia palese se si tratti di

ripetizione o di anticipo). Tutto lo sforzo del critico deve consistere allora

nella ricerca di dati (per es. luoghi paralleli all'interno, luoghi paralleli in

altre opere dell'autore, collazione con l'originale se si tratta, come nel caso

del Fiore, di parafrasi pur non vincolante) per riempire la zona colpita di

contenuto positivo e, in particolare, scegliere oggettivamente nei casi

opzionali.

Riduzione nell'attestazione plurima. - L'attestazione plurima costituisce da sola

uno spazio che consente di seriare in cronologia relativa ascendente, e di

eliminare successivamente, le innovazioni subentrate nel testo. La riduzione

fu attuata dapprima con mezzi bonari legittimati dal gran numero, benché

riprovati dalla logica. Uno è la limitazione ai manoscritti più antichi, al

quale il Pasquali (ma già il Semler) giustamente oppone il canone che

enuncia in modo lapidario ‟recentiores, non deteriores": la sparizione dei loro

antigrafi può doversi al caso, ma qualche volta proprio al fatto che ne

esisteva una copia più leggibile o in migliore stato fisico di conservazione.

Tuttavia, poiché la corruzione è per definizione progressiva nel tempo, è

comprensibile che anche in epoca lachmanniana, e perciò presso editori

convinti della necessità teorica d'una recensio esauriente, la presenza d'una

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tradizione così abbondante da render possibile, in una vita di editore,

l'edizione solo a prezzo d'una decimazione abbia suggerito di mettere fra

parentesi i manoscritti più recenti. Così ha fatto sistematicamente E.

Langlois per la sua eccellente edizione del Roman de la Rose, l'opera del

Medioevo volgare più diffusa dopo la Commedia (non si scordi che ai suoi

tempi i viaggi erano ben più onerosi, e l'area va dalla California

a Leningrado, da Stoccolma alla Città del Capo, nè erano stati ancora

inventati i microfilms); del resto sondaggi effettuati nell'ampia sfera da lui

trascurata, di codici più tardi del Trecento e di stampe incunabule o

cinquecentesche, hanno rivelato una situazione molto interessante per

quanto spetta alla storia della tradizione, e anche materiale, assente

dall'apparato del Langlois, rinviabile al Duecento, ma nulla suscettibile di

salire a testo. Quanto alla Commedia, l'edizione del Petrocchi si limita per

ora alla prima generazione di manoscritti (con scelta registrazione di

attestazioni più tarde), ma prevede espressamente un nuovo apparato per i

codici recenziori. Col crescere della frequenza, specialmente con apertura a

infiltrazioni ‛orizzontali', gli inconvenienti diminuiscono; ma il gran numero

può essere stimolo ad artifizi non razionali, come quelli ispirati a dom

Quentin dalla pletora statistica della Vulgata. Recisamente da riprovare è

comunque l'altro strumento ingenuo di riduzione, consistente nell'affidarsi

alla maggioranza dei testimoni, s'intenda la maggioranza semplice: basti

riflettere che, se questo criterio fosse valido, la maggioranza potrebb'essere

falsata copiando dei manoscritti presenti, una o più volte, separatamente o

attraverso i derivati. Questa grottesca ipotesi già indica quale sia il solo

criterio preliminare di decimazione lachmannianamente valido, e dunque

obbligatorio: chiamandosi descripti i codici ‛figli', l'eliminatio codicum

descriptorum. Una copia (o copia di copia) si confessa per tale quando

contiene particolarità dichiarabili solo per errata interpretazione di un dato

materiale del modello per es. lacuna corrispondente a un foglio caduto e

non avvertito, oppure saltato), o anche quando contiene tutti gli errori

dell'altro più alcuni specifici. In questo caso potrebbe a rigore trattarsi di

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derivazione da un manoscritto identico (manoscritto ‛fratello'), e pertanto

di ciò che si potrebbe definire equivalente di descriptus; ma l'equivalente ha

tutte le proprietà di quello assente a cui equivale e non è oggetto di calcolo

separato. Un bell'esempio di eliminazione di descripti o loro equivalenti è

negli Studi sul Canzoniere di Dante del Barbi, che ha consentito di

semplificare drasticamente la tradizione dei nostri lirici antichi,

sgombrando il regesto caotico per sovrabbondanza di cui è vitando

paradigma il Cavalcanti dell'Arnone.

Metodo lachmanniano. - Il procedimento scientifico di riduzione

dell'attestazione plurima, che porta alla probabilità di una maggioranza

‛qualificata' (su un numero di testimonianze non visibilmente riducibili), si

suol chiamare lachmanniano dal nome di K. Lachmann, autore di molte

edizioni critiche di classici latini, da Properzio (1816) a Lucrezio (1850) - e

il riferimento teoretico è fatto specialmente ai Prolegomena a quest'ultimo

autore -, ma altresì di un Nuovo Testamento greco (e poi anche latino) e di

parecchi testi in mittelhochdeutsch cominciando dai Nibelungi. Che il

Lachmann avesse avuto precursori metodologici nella philologia sacra tedesca

e alemannica del Settecento (Wettstein, Bengel, Semler, Griesbach), aveva

mostrato il Pasquali (v., 1934, cap. I). Ora sulle sue orme il Timpanaro (v.,

1963), in un'indagine sistematica e accuratissima che corrisponde anche a

un'esigenza formulata dal Bédier, ha fatto vedere come al Lachmann,

espositore sovente vago e confusamente oracolare, si siano associati tanti

filologi coevi e conterranei nell'elaborazione del metodo da lui intitolato

che si può discorrere di metodo lachmanniano quasi solo simbolicamente.

Valga dunque l'avvertimento.

Nozione di errore. - L'essenziale della riduzione lachmanniana consiste nel

considerare come testimonianza unica quella di due o più codici coincidenti

in errori comuni, purché verosimilmente non poligenetici. Il calcolo della

maggioranza, della quale accettare la lezione, si effettua dunque non su

individui presenti (esclusi i descripti), ma su famiglie (insiemi che possono

contare anche un individuo solo). La genealogia delle testimonianze si suol

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rappresentare in un grafico o albero detto stemma codicum, in cui gli individui

sono contrassegnati con sigle a iniziale maiuscola e le famiglie e

sottofamiglie con lettere minuscole o greche, i rapporti genealogici con

segmenti di verticale (il primo stemma codicum, e con questo nome, fu

tracciato, secondo le ricerche del Timpanaro, da C. T. Zumpt per

le Verrine di Cicerone, 1831, seguì F. Ritschl per l'umanista

bizantino Tommaso Magistro, 1832, e - col nome di stemma - per Plauto,

1849, quindi il Madvig per due orazioni ciceroniane, 1833; concetti

genealogici sono anticipati dai settecentisti Bengler, Semler ed Ernesti, il

primo dei quali discorreva di tabula genealogica). Se si analizzano i singoli

costituenti del processo, ‛errore' designa un'innovazione privilegiata di

percettibilità dal suo stesso guasto; il concetto di errore va estrapolato in

quello di innovazione comunque riconoscibile (non a solo lume di critica

interna), tant'è vero che già il Lachmann stesso si valse per il Nuovo

Testamento di criteri anche geografici, concludendo per la maggiore antichità

- perché a tanto si riduce la bontà - delle lezioni attestate, per usare i

termini invalsi nella linguistica geografica dei primi decenni di questo

secolo, in ‛laterali' rispetto a quelle attestate in ‛aree centrali' (una carta di

atlante linguistico rappresenta la proiezione orizzontale d'una

stratificazione verticale, e analogamente si potrebbero moltiplicare gli

esempi di cronologia relativa ricavabile dalla distribuzione geografica, così

la redazione assonanzata del Roland conservata solo alla periferia,

in Inghilterra col manoscritto di Oxford e in Italia con uno dei manoscritti

franco-italiani di Venezia). La considerazione assiologica, cioè

l'opposizione di ‛cattivo' e ‛buono', ha una parte abbastanza modesta, visto

che non tutte le lezioni ‛cattive' sono in assoluto cattive e che le lezioni

‛buone' sono solo le non cattive. Per un circolo, che non ha nulla di

vizioso, ma su cui è bene richiamare l'incuriosita attenzione dell'operatore,

le lezioni ‛cattive' implicano che si predichino ‛buone' e ‛cattive' alcune

lezioni per sé indifferenti. Si scartano le lezioni dei testimoni rimasti isolati

(procedura lachmanniana, anche se non inaudita prima del Lachmann, che

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solo col Maas è stata battezzata eliminatio lectionum singularium) e più in

generale dei raggruppamenti minoritari. Una certa struttura dell'albero non

un diretto giudizio di valore, le condanna, anche se a fondamento del

riconoscimento della figura strutturale sta un giudizio che può offrirsi come

di valore, ma che sempre è di stima cronologica.

Diffrazione. - Il requisito che si chiede all'errore è di essere (probabilmente)

monogenetico. Valore non sicuramente probatorio detengono gli errori per

loro natura suscettibili di essere poligenetici, cioè praticabili da più scribi

indipendenti. E sono proprio i casi in cui più palese appare l'eziologia

dell'errore, e di conseguenza garantita l'erroneità: sia che si tratti di figure

puntuali di ‛distrazione' attuate a livello individuale, come le assimilazioni

specificabili in cadute per omeoteleuto od omeoarchia; sia che si tratti di

figure strutturabili, a livello collettivo, in vere forme culturali quali l'usus

scribendi e la lectio facilior(concetti, benché non termini, passabilmente antichi,

il primo adoperato fin da Aristarco, l'altro di cui il Timpanaro trova una

formulazione precisa da fine Seicento, nel biblista Jean Leclerc). Ognuno

che trascriva da una forma desueta di scrittura è esposto a determinati

equivoci, sempre gli stessi: tanto che spesso si riescono a ‛datare'

trascrizioni e antigrafi. E una forma mal comprensibile rischia di essere o

scambiata con una banale fisicamente vicina o surrogata con un sinonimo

più corrente. Si avverta tuttavia che il criterio della lectio difficilior miete

vittime fra gli apprendisti stregoni, inclini a riconoscere per tale più d'una

insensata deformità. Ma la lectio difficilior può essere soggetta a sostituzioni

non sempre univoche, bensì multiple. Si giunge allora a quella che qualcuno

ha chiamato, traendo il termine dall'ottica, ‛diffrazione', e di cui si può

tracciare sommariamente la tipologia. La lezione originaria è surrogata

(irregolarmente rispetto allo ‛stemma') da varie lezioni per sé indifferenti,

pur persistendo in parte della tradizione (diffrazione in presenza): così se

nella Vita antico-francese di sant'Alessio, v. 40, acatet del codice L

‟procura", detto del padre in riferimento alla sposa cercata per Alessio, è

sostituito dai banali ma divergenti aplaide (A), porchace (P), a quise (SM);

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proprio della diffrazione è che la presenza (della lezione originaria) sia di

collocazione instabile. Tuttavia la lezione originaria, assente (qui comincia

la diffrazione in assenza), può essere stata surrogata variamente con lezioni

almeno in parte palesemente erronee: è merito del grande Adolf

Tobler aver congetturato che in Alexis 155, dove i codici danno

o seignor ipermetro (LP) o determinante, per caduta d'una preposizione

monosillabica, errore contestuale (P2, allora ignoto) o sire in caso obliquo

(solecismo) (A) o ami del verso precedente (S), bisognerà congetturare il

raro per maschile ‟coniuge". Di qui è facile inferire che, anche dov'è una

divergenza generale tra varianti per sé indifferenti, come in Alexis 39, che

comincia con or(LM) o ja (A) o et (P) o sil (da ristabilire in si, S), si debba

congetturare una lectio difficiliorprecedente, se ne possa poi, o no, proporre

una soddisfacente (e forse qui si può, ruovet per volt ‟vuole"). È evidente

però che col salto del Tobler si è bucato il tetto della mera recensio,rispetto

alla quale la lectio difficilior (presente) rappresenta un ostacolo sulla via che ha

per fine la scelta automatica, e si è saldata la lectio

difficilior (assente) all'emendatio: la lectio difficilior, anche se eventualmente

inafferrabile, seguita però ad avere il carattere di necessità, imposto da una

certa struttura della tradizione, che ineriva alla scelta lachmanniana. Quella

restituzione translachmanniana che è l'ultimo tipo di diffrazione in assenza

(il tipo imposto dall'associazione di pluralità e banalità delle varianti) cerca

di riempirsi di sostanza testuale, procurandosi un'oggettività nel

reperimento di un elemento costante. Tale è il caso che si offre quando si

constata che divergenze adafore, in V 440, 445 e 465, si verificano in

presenza di merveille, che andrà dunque restituito nel primitivo mereveille. Qui

lo spazio della tradizione plurima raggiunge lo spazio della critica interna,

quale si può esercitare anzitutto sulla tradizione unica. Aumentandone la

certezza con l'iterazione, il canone ricostruttivo della diffrazione si

annuncia come particolarmente fecondo.

Morfologia dello stemma. - Il numero degli enti congetturali (contrassegnati

infatti da minuscole), archetipi, subarchetipi, interpositi, è il minimo

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richiesto dalle necessità del ragionamento, non è un numero storicamente

effettuale; quei simboli indicano piuttosto classi o insiemi di individui

(contenenti almeno un individuo) che individui, piuttosto segmenti

(verticali) che punti, o meglio è irrilevante che siano punti o segmenti.

L'aumento arbitrario degli interpositi può essere antieconomico, ma è

innocuo. Tutt'altro regime ha il più alto livello orizzontale, quello delle

famiglie irriducibili, dal cui numero si può ricavare l'eventuale maggioranza

che determina automaticamente la scelta. Esiste un'irrecusabile tendenza

alla loro riduzione, tanto più che un numero non ristretto parrebbe

suggerire presenza di redazioni ‛parallele'; ma, quanto è incomparabilmente

più facile riunire i piani bassi, come si dice, dell'albero che i piani alti, è

salutare lasciare agire il gioco sincero delle probabilità, se non si vuole

vanificare lo sforzo lachmanniano di una ricerca di meccanicità, sottratta al

gusto soggettivo (iudicium).

Recensione aperta. - Le considerazioni qui esposte presuppongono sempre la

‛verticalità' della tradizione. Una tradizione ‛trasversale', cioè che ha

ereditato varianti alternative, o peggio che ha collazionato, puntualmente o

sistematicamente, uno o più concorrenti del suo antigrafo, è una tradizione

contaminata, assai più difficile da ricondurre alla ragione. I critici più

ortodossamente lachmanniani, e in ispecie il Maas, non vedono rimedi

contro la contaminazione; meglio negherebbero l'esistenza di rimedi

generalizzati, poiché ogni realtà offre ostacoli particolari alla

razionalizzazione, che possono imporre comportamenti diversi, fino alla

rinuncia. L'Avalle per esempio ha teorizzato alcuni metodi di cura,

proponendo una robusta ed economica semplificazione secondo

esperienze suggeritegli da canzonieri occitanici e italiani. Ma è da

confessare che la condotta di uno scriba il quale si avvicinasse al costume

dei moderni editori del tipo composito, senza peraltro fornire apparati e

indicazioni sulle fonti, riuscirebbe assai più difficoltosa da ricostruire.

Tralasciando ciò che non può essere generalizzato (il che non significa

affatto che si rinuncia o si esorta a rinunciare a fare), va espressamente

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sottolineato che un vivace fattore di ‛recensione aperta', per designarla col

felice termine del Pasquali che l'opponeva alla ‛recensione chiusa' del

modello lachmanniano semplificato, è la memoria. Nella trasmissione per

copia, specialmente di opere (massimamente volgari) molto diffuse,

conosciute almeno in parte a mente, interferisce, come elemento estraneo

alla scrittura, la memoria, sia come intrusione di passi paralleli sia come

ricordo di varianti: è il caso della Commedia, trasmessa non di rado con

ripetizione o anticipo di luoghi più o meno vicini o con innovazioni testuali

la cui diffusione si fa, come ha mostrato il Petrocchi, non verticalmente ma

a macchia d'olio, e difficilmente potrebbe, se non per eccezione, attribuirsi

a confronto con un esemplare più moderno o a scelta effettuata su un

portatore di varianti. Se dalla tradizione scritta si distingue la tradizione

mista di mnemonica, sarebbe errato opporle, come erano tentati di fare

sommariamente studiosi romantico-positivisti, la tradizione orale. È il caso

del Rajna, che, scoperto un nuovo antico testimone dell'Alexis, si sforza di

tracciare uno stemma codicum, ma ne ottiene, per il tratto esaminato, tanti

quanti sono i versi, concludendo che dunque nessuno è valido e che non si

tratta di tradizione scritta ma orale. A parte gli errori di fatto, dovuti alla

costituzione di alberi sul fondamento di lezioni comuni non erronee, e a

parte anche l'inverosimiglianza stilistica, sembrerebbe che con tradizione

orale s'indicasse uno stato caotico e aleatorio, una ‛casualità' sulla quale si

potrebbe essere tentati di intervenire matematicamente applicando il

calcolo delle probabilità (e come in realtà hanno procurato di proporre le

ricerche distribuzionali e tassonomiche degli americani Hill e Dearing). Ma

tradizione scritta e tradizione orale non possono obbedire a logiche formali

diverse: la fenomenologia delle innovazioni in linea di principio è identica,

salvo la maggior escursione nella tradizione orale (e presumibilmente la

maggior interferenza della memoria). Le modalità editoriali diverse della

ricostruzione, dove si tratta piuttosto di seriare i concorrenti (si vedano i

testi popolari ricostruiti dal Barbi e dal Sàntoli), non dipendono solo dalla

minor certezza paleontologica, ma dal fatto, così luminosamente illustrato

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dal Menéndez Pidal, che in fondo nessuna redazione è più ‛vera' e

‛autentica' delle altre.

Instabilita' dello stemma. - La maggioranza, per così dire, ‛qualificata' del

Lachmann, se consente un automatismo di scoperta della verità, ha però

anche la proprietà, pregio o vizio, di una virtuale instabilità. Essa è infatti,

come fu rilevato acutamente dal Bédier (che peraltro ricorse, per il suo Lai

de l'ombre, a un casus fictus), alla mercé della scoperta d'un nuovo testimone,

suscettibile di alterare le costellazioni e quindi, in casi privilegiati, anche il

numero delle famiglie. Naturalmente non tutti i nuovi acquisti, quali si

hanno ogni giorno, esercitano un effetto dirompente, anzi: la maggior

parte, com'è naturale, rivelano che quelle che erano fin qui le lectiones

singulares di un altro testimone (chiamiamolo A) sono in tutto o in parte,

conforme alla costante potenziale ambiguità fra individuo e gruppo (fra

punto e segmento), caratteristiche non di A-individuo ma di A- gruppo;

così il citato nuovo codice di Alexis studiato dal Rajna (V), per quanto assai

interessante, si raggruppa con A. Ma è sempre aperta la possibilità che per

il nuovo intervento muti il numero delle famiglie, o anche la loro struttura

(per es., poste più famiglie a, b, c, può darsi che il nuovo testimone

opponga alle loro lezioni comuni lezioni non congetturabili più autorevoli,

costituendosi da solo in famiglia contro la famiglia unica a-b-c e

determinando così stavolta una contrazione del numero). Se n è il numero

dei codici (non descripti), il passaggio a n + 1 determina o può determinare

altrettanti salti di qualità secondo che n = 1 (nel qual caso è anche il

numero delle famiglie) o n = 2 (nel qual caso n è anche il numero delle

famiglie, ma non lo sappiamo per n + 1) o n > 2 (nel qual caso non

sappiamo delle famiglie). L'assenza eventuale di lezione stabile è un vizio

per Bédier, della cui denuncia è questo un punto portante, non abbastanza

rilevato; ma il continuo miglioramento dinamico non si vede come non sia

una qualità positiva. Questa marcia di avvicinamento alla verità, una verità

per così dire frazionaria in opposizione alla verità presuntamente organica

dei singoli testimoni, una verità come diminuzione di errore, sembra un

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procedimento degno della scienza.

Questioni di ‛origini'. - Si è potuto rimproverare al metodo lachmanniano di

cominciare ‛dai piedi' anziché ‛dalla testa'. Questo è semmai un titolo di

gloria, se ciò significa muovere dalla storia verso la preistoria.

Un'epistemologia parallela regge critica testuale e ricerca delle ‛origini' in

storia letteraria, anche se storicamente accade che la vischiosità della

tradizione possa generare qualche sfasamento secondo i campi dove è

all'opera una stessa mente. Una fenomenologia romantica guida la

filogenesi, si tratti di epos, dramma, lirica o novella. Il mirabile G.

Paris razionalista che fonda con l'edizione di Alexis (1872) la critica testuale

romanza, strenua applicazione pionieristica di logica formale, non collima

con l'eloquente esemplificatore ancora faurieliano dell'a priori romantico

nell'Histoire poétique de Charlemagne (1865), anche se un'erudizione poi

divenuta norma si studia di colmare indiziariamente i vuoti della presunta

continuità fra il Carlomagno storico e il Carlomagno delle chansons de

geste. Più rigida coerenza stringe il vecchio Rajna - che nell'ultimo lemma

(1930) della sua fluviale bibliografia risospinge in quell'equivalente di

preistoria, com'egli crede, senza certa legge che è la tradizione orale la

trasmissione di Alexis - all'erudito che nelle Origini dell'epopea francese (1884)

si era adoperato a costruire una perduta fase addirittura precarolina

scavando nella storiografia merovingica. Sono romantiche nostalgie di

‛assenza'; a cui si oppone lo zelo bédieriano di ‛presenza'. La formazione

del Bédier era ovviamente parisiana e da tale ortodossia non si allontana

l'articolo sulle feste di maggio, che verte sulle ‛origini' della lirica francese,

ma all'oralità si oppone, nella bellissima edizione di sire Thomas, la

ricostruzione del contenuto, nonché delle parti perdute di Thomas,

dell'archetipo tristaniano (di Chrétien de Troyes?), alla cui fondatezza portò

la controprova la quasi perfetta congruenza col tentativo esperito

contemporaneamente da Wolfgang Golther. Ma già nella sua tesi su un

argomento assegnatogli proprio dal Paris, Les fabliaux (1893), primo

prodotto ante litteram dello strutturalismo letterario, il Bédier aveva infranto

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il mito orientalistico, che nella distanza geografica idoleggiava un

equivalente della preistoria, anzi aveva vittoriosamente mostrato la

poligenesi dei temi in astratto e indicato che il culmine della coerenza può

essere un acquisto più tardo (come giacché si sta tracciando un parallelo fra

ecdotica e filologia storico-letteraria - un manoscritto troppo ineccepibile

può essere sospetto di correzione e levigamento). I fabliauxsono ‛presenze',

opere del Millecento e Duecento rispecchianti gusti borghesi di quei secoli,

e allo stesso modo al Bédier, che aveva intrapreso con intenzioni parisiane

lo studio delle chansons de geste, queste apparvero, ben presto, nelle Légendes

épiques (1908 ss.), ‛presenze' dei secoli di loro diffusione, conformi pure a

interessi del tempo. Ciò si armonizza perfettamente con la sua teorizzata

prassi ecdotica generale, specificata proprio nel più antico di quei testi,

il Roland (edizione del 1927), per cui un manoscritto (il ‛miglior'

manoscritto) costituisce un'intangibile ‛presenza'. Entrambi i postulati non

sono rinnovabili come tali, ma presentano l'inestimabile vantaggio di essere

correggibili partendo ‛dai piedi', cioè dal limite documentario (preso dal

Bédier come limite stabile): base reale che la ragione si riserva di fare

oltrepassare. Critica interna e parametri esterni aiutano a invecchiare' la

redazione di Oxford, rimovendone innovazioni. La tesi storico-letteraria,

indubbiamente valida per alcuni individui e per un certo periodo, che in

quanto generalizzata trascende il limite della ‛presenza' (cioè la

collaborazione fra monaci e giullari sulle strade dei grandi pellegrinaggi

dalla prima crociata o, secondo una correzione, dalle pre-crociate di

Spagna), dà adito a varchi cronologici di cui i più sicuri, adunati da un

rilevantissimo impegno collettivo, sono puntuali: oltre al da molto tempo

noto frammento dell'Aia, la glossa Emilianense ‛pubblicata da Dàmaso

Alonso), la coppia onomastica Rolando-Olivieri ecc. Alla continuità

presunta ma impalpabile del momento positivistico fu in particolare

surrogata una continuità tutta letteraria nell'eredità culturale virgiliana

dell'epoca carolingia e capetingia (dal Wilmotte al Chiri e al Curtius); ma

qui il vero scatto fu il reperto di A. Burger, cioè la scoperta di frammenti

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metrici latini (di genere affine a quelli dell'Aia) fra i materiali d'impiego

dello pseudo-Turpino, proprio nel Libro di San Giacomo, uno dei testi

ecclesiastici più adoperati dal Bédier. Perfino il Menéndez Pidal

nell'elaborazione del suo grande edificio antibédieriano (La Chanson de

Roland' y el neotradicionalismo, 1959) è indotto a retrocedere passo passo nello

stabilire la nuova continuità (fino, nella sua ricostruzione, a un paio di

secoli da Roncisvalle). Il Bédier, questo irriducibile avversario delle

soluzioni ‛senza continuità', permane dunque un pò' come la coscienza del

momento prima postche anti-bédieriano.

Attestazione binaria. - Una posizione particolarmente delicata offre

l'attestazione binaria, solo apparentemente intermedia fra l'unica e la

plurima. Di fronte alla sicurezza forzosa della prima e alle probabilità di

automatismo inerenti alla seconda, è in continua crisi di libertà, una crisi

buridanea ‟intra due cibi distanti e moventi d'un modo". Essa appare un

guadagno solo dinamicamente: dato un manoscritto unico, il sopravvenire

d'una seconda testimonianza svela ‛errori' da sé non percepibili e

comunque sana con la sua realtà mende mal rimediabili, a ogni modo mal

rimediate. Una dilettazione dei tecnici consiste, in simili casi, nel constatare

quantità e qualità delle divinazioni e degli insuccessi: si ha un criterio per

misurare, addirittura in percentuale, la competenza d'un editore. Ma

staticamente l'attestazione binaria non offre possibilità oggettive di scelta

fra lezioni adiafore e sembrerebbe restaurare, benedizione o condanna che

sia, un campo d'azione per il già esorcizzato iudicium. A evitare ogni arbitrio,

e in particolare la cavillosità che suole regnare sovrana nello stabilire

le difficiliores bisognerebbe dare una doppia edizione (almeno virtuale)

depurata degli errori singoli, purché di erroneità inconcussa. Dell'‛evidenza'

dell'errore la miglior fonte è dopo tutto la comparazione.

Alberi bipartiti. - Eppure il iudicium riesce a imporsi in un ingente numero di

casi anche ad attestazione plurima grazie alla loro riduzione ad attestazione

binaria, forzosa o sollecitata che sia. Il Bédier, nel preparare la sua

2a edizione del Lai de l'ombre (1913), poi più determinatamente nello scritto

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del 1928 (La tradition manuscrite du ‛Lai de l'ombre'), fu colpito per primo dalla

singolarità del fatto che la stragrande maggioranza delle edizioni di testi

antichi francesi, ma anche di buon numero di latini e di altre lingue volgari,

si fonda su alberi a due rami, cominciando (ma il Bédier non ne rivela

l'identità) dal primogenito, quello che G; Paris elaborò per Alexis. Dietro

l'osservazione, riconosciuta sostanzialmente esatta anche per la filologia

classica (nonostante gli alberi pluripartiti segnalati dal Pasquali), non stava

una disposizione quasi metafisicamente metodologica, ma un'esperienza

diretta: la 1a edizione bèdieriana (1890) si fondava anch'essa su un albero

bifido, ma una recensione di G. Paris ne proponeva uno a tre rami, che

salvaguardava, a suo dire, l'automatismo; entrato in aporia al momento

della 2a edizione, il Bédier rinunciava a entrambi gli stemmata, il proprio e

quello del maestro e recensore; nè avrebbe poi aderito, per eccellenti

ragioni di merito, alle conseguenze testuali discendenti da un altro albero

tripartito (inclusivo di una contaminazione) proposto da dom H. Quentin

(v., 1926) sul fondamento d'un suo nuovo sconcertante metodo (questo

metodo, che preannuncia gli esperimenti probabilistici prima dell'età dei

calcolatori, prescindeva dalla distinzione di variante ed errore, definiva in

terne di manoscritti la posizione dell'intermediario con argomenti statistici,

ricavava lo stemma saldando le catene parziali). Ma qui non importa

arbitrare il litigio specifico (benché importerebbe moltissimo per un

nominalista qual era il Bédier): l'istruttoria non è stata riaperta da nessuno,

e la ragione, che, per chi legga le argomentazioni del Bédier, sembra stare

dalla parte del Paris, non gli è stata ancora attribuita in appello; è stato

bensì riesaminato l'albero primogenito, quello di Alexis, con la conclusione

che esso era non tripartito ma bipartito solo per errori d'informazione, non

imputabili al Paris, e varrebbe la pena di rifare i calcoli per tutta quella che

un diligente riscontro (Castellani) assicura permanere in complesso la

collezione, l'erbario ecdotico, del Bédier. Importa invece, se la

constatazione del Bédier individua realmente un comportamento degli

editori (e non la davvero maggior probabilità che lo schema binario rifletta

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il modo della copiatura, o altra delle escogitazioni oppostele dalla

bibliografia in argomento), trovare una terapia adatta alla patologia. Se

questa, come il Bédier finirà per credere su insinuazione del Roques

(capofila dei seguaci francesi, e non francesi soltanto, del manoscritto

unico), dipende da un prolungamento indebito, fino all'estremo limite,

dell'assillante ricerca delle fautes communes (che trasforma l'opposizione di

innovazione e lezione non innovante in opposizione assiologica di lectio

deterior e potior), occorrerà, non si dice ricercare artificiosamente la

tripartizione o pluripartizione degli alberi, ma applicare una particolare

cautela alla riunione dei piani alti - operazione dopotutto non irreversibile.

Che se poi si trattasse di una malattia dell'inconscio rivendicante sovranità

ultima di scelta (‛egotismo' anziché ‛moralismo' dell'editore), bisognerà

ugualmente portarla, al modo freudiano, alla luce della coscienza. La

formulazione del rimedio non ha, come pedagogica, alcun fulgore di

eleganza, ma si tratta di rovesciare il percorso patologico. Il rimedio del

manoscritto unico, proposto dal Bédier (ma proposto, giova precisare, per i

soli testi letterari del Medioevo volgare dall'enorme libertà di condotta),

non è del resto preservato da inconvenienti flagranti, a parte la stessa

ammissione di errori la cui probabilità è certezza. La correzione delle sole

sviste ‛evidenti' introduce un canone soggettivo dai confini variabili (come

a posteriori mostrano le edizioni d'un testo, quale il Roland di Oxford, su cui

è imperversato il metodo bédieriano ridotto da deposito di angoscia a pigra

moda). Ma soprattutto la scelta del codice è tutta una difficoltà, data

l'impraticabile attuazione generale di tante edizioni quanti i manoscritti. Il

Bédier è primo a sapere che ‛il migliore' non è necessariamente il più

antico, giusta il monito che sarà del Pasquali, nè il più corretto, che

potrebbe dovere la sua levigatezza a uno scriba attento al senso a costo di

interventi. Una definizione oggettiva, elaborata in ambito neo-

lachmanniano, del miglior manoscritto come di quello tanto resistente alla

banalizzazione da offrire la maggior percentuale di lectiones singulares da

conservare, presuppone l'elaborazione d'un'edizione lachmanniana. E

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infatti il migliore, o anche solo un buon manoscritto, è solo quello che un

editore lachmanniano, quale per un pezzo fu il Bédier, è in grado d'indicare.

Sostanza e forma testuale. - Il metodo lachmanniano è di validità insomma

integrale per le scritture in latino, greco, ebraico ecc., cioè in una lingua

invariabile e intangibile come la ‛gramatica' dantesca. Vale solo per la

sostanza dei testi volgari, non per la forma, cioè per la fonetica e per la

morfologia, soggette a un'illimitata, e nemmeno di necessità organica,

variabilità geografica e cronologica. La distinzione è stata teorizzata da G.

Paris, sempre nell'edizione di Alexis (1872), che è un adattamento del

lachmannismo alla sostanza romanza, ma il primo codice della

ricostruzione formale. È una distinzione culturale di ambiente,

comprensibile solo in un'epoca stilisticamente bilingue (un medio evo)

dove una fase linguistica è addetta alla sacertà, un'altra al perenne

adattamento di strumenti utili e illimitatamente appropriabili, non protetti,

come si suol dire, dalla proprietà letteraria (e non solo per l'anonimato,

ancora più frequente che per l'altra fase). Naturalmente la variabilità della

forma in largo senso medievale si prolunga, per quanto

in misurainevitabilmente meno violenta, nella variabilità della sostanza,

fondamento esplicitamente sottostante alla rinuncia di Bédier a un testo

critico: la differenza essenziale sta nel fatto che la forma è sottoposta a una

continua poligenesi dell'innovazione (e la sua inorganica proteiformità è

tale che, al limite, ripetendo, per oggettiva iterazione testuale o per errore,

la medesima formula magari a poche sillabe di distanza, lo scriba

medievale, questo ininterrotto collaboratore e concorrente del più spesso

ignoto autore, suole introdurre variazioni formali). La matrice bilingue della

situazione è riscontrabile in parecchie modalità. Il latino medievale

differisce formalmente dal classico nell'aspetto grafico, che può avere solo

indirette implicazioni fonetiche (ancor più raramente morfologiche, come

nel surrogato locativo-accusativale del tipo Parisius ‛a Parigi' stato in e moto

a luogo): basti controllarne qualcuna delle più magistrali descrizioni, tra le

quali ha probabilmente il primo luogo quella premessa dal Rajna alla

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sua editio maior (1896) del De vulgari eloquentia.Ciò presuppone la

restaurazione grammaticale operata dalle varie rinascenze, prima la

carolingia: così i più antichi manoscritti di Gregorio di Tours differiscono,

anche se non con stretta organicità, dai postcarolini in ‛errori' morfologici

che nel complesso sembrano riflettere un sincero stato flessivo, qual è

(statisticamente) descritto da M. Bonnet (Le latin de Grégoire de Tours) e dai

suoi continuatori, segnatamente la Vielliard e la scuola americana di H. F.

Muller (Pei, Sas). All'opposto estremo cronologico la ‛classicizzazione' dei

volgari torna a rendere, se non proprio intoccabile, stabile la forma non

meno della sostanza, sicché a fine Quattrocento, per esempio nei paraggi

della Raccolta Aragonese, innovazioni formali o addirittura grafiche

ridiventano significative. Anche nei testi medievali la frontiera tra forma e

sostanza può non esser sempre chiaramente tracciabile: che il futuro e il

condizionale separati dell'antico lombardo (ò cantar, heve cantar) siano

sostituiti dai sinonimi sintetici (cantarò, cantareve), è un fatto di mera

morfologia o di sostanza contenutistica? In realtà quella di forma e di

sostanza è più una polarizzazione che un'opposizione.

Ricostruzione formale. - La ricostruzione formale (in quanto distinta dalla

sostanziale) assume nel suo primo codificatore, il Paris, un aspetto di

oltranza che cresce con le convenzioni adottate nell'editio minor di Alexis. Il

punto di partenza è rappresentato dagli elementi obbiettivi che, trattandosi

d'un testo in versi (assonanzati), sono ricavati dalle distinzioni vocaliche in

rima (oggi si direbbe che se ne può descrivere questa parte del sistema

fonologico originario), e in minor misura da quanto è garantito dal novero

sillabico. Poiché la critica interna fornisce un'ossatura, di solito non la

totalità della forma, si procede a un'integrazione la quale, oltre a estendere i

risultati precedenti fuori dell'ambito strettamente topico, è condotta

secondo la verosimiglianza documentaria di luogo e di tempo. La

ricostruzione linguistica del Paris ha, e sempre più assume, una fisionomia

organica e funzionale che non solo trascende il dato d'archivio, ma è

estranea al comportamento degli scribi medievali: così l'esito di 6 in sillaba

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libera è convenzionalmente rappresentato con ou (onour), un punto

sottoscritto evoca il carattere fricativo di -T conservato dopo atona e della

dentale intervocalica, ecc. L'Alexis del Paris inaugura, anche se con raro

vigore intellettuale, la moda traduttoria della filologia positivistica, della

quale si può citare, per la mole del corpus cui è applicata coerentemente la

versione in antico champenois, l'edizione di Chrétien de Troyes allestita dal

Förster. La funzionalità della forma, inclusa la grafia, si oppone alla sua

storicità: sono queste le due contraddittorie componenti d'ogni ortografia

alfabetica (inglese e francese sono paradigmi di tradizionalità, tedesco e

spagnolo di economia), ma qui con storicità si vuole indicare la variabilità e

incostanza della forma medievale. A tale razionalismo paleontologico, che

va ben oltre la doverosa rimozione della patina, obiezioni di fatto sorsero

nella stessa area positivistica. Si citi l'‛ibridismo' regionale dei nostri antichi

testi (specialmente trecenteschi) additato dal Rajna. Ma fu la filologia

dell'idealismo ad assestare i colpi più decisivi contro il costume

indiscriminato della traduzione (specialmente di testi oitanici) a norma della

localizzazione degli autori: ciò ad opera di H. Morf e della sua scuola

(principalmente della decisiva tesi di G. Wacker, 1916,

sulle koinài dell'antico francese), dei cui risultati non per nulla si affrettò a

impadronirsi, divulgandoli ai propri fini, il Vossler. L'attenzione veniva

richiamata sulle lingue chiamate con parola dantesca ‛illustri' (da cui per

esempio in Italia ‛siciliano illustre') o, con richiamo all'antichità, koinài o

finalmente (Gossen) scriptae. Come i dialetti letterari greci, di là dalla loro

origine topografica, erano vincolati a singoli generi, giungendo a

caratterizzarsi per interregionalismi e ipercorrezioni (è il caso del dialetto

epico o omerico); e come in siciliano (da ricostruire) scrivevano poeti nativi

delle più varie regioni d'Italia (l'aveva dimostrato il Cesareo, contro la tesi

del Monaci e ancora del De Bartholomaeis, che la lingua degli antichi

canzonieri mostrasse un ‛contemperamento' originario), e in galiziano-

portoghese poeti delle più varie regioni iberiche: così la moda linguistica

francese si articolava in varie fasi cronologicamente stratificate, di cui

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principalmente una conservativa ‛normanna' e una innovativa ‛piccarda',

valide anche oltre i confini primitivi e atte a produrre pure risultati

d'innesto. Erano così demistificati gli sforzi di tanti laureandi tedeschi

tendenti a far nascere in Grenzgebiete (distretti di frontiera), magari contro

loro non equivoche asserzioni, legioni di scrittori di un'epoca che inseriva

tratti del loro (per es. del francien o parlare dell'Isola di Francia) in una

cornice di altro dialetto letterario (per es. il piccardo); ed era giustificato il

fenomeno degli Zwitterreime (rime incrociate), cioè di rime che facevano

baciare parole obbedienti a norme fonetiche contraddittorie (così -che una

volta da -CIA come nel Nord e una volta da -CA come più a sud). I sistemi

linguistici puri si rivelavano come relativamente rari e a ogni modo come

ipotesi di lavoro da maneggiare con la più grande prudenza.

Varia misura di restituzione formale. - Partendo dagli elementi obbiettivi, non

sempre si è autorizzati a una restituzione totale. Se la rima per la sua

flagranza viene a essere la regina delle prove, questa stessa evidenza la

connota come sopravvivente a un'eventuale traduzione e la segnala come

separatamente imitabile: essa si costituisce in parte di lingua speciale.

D'altronde, anche dove non ostano prove specifiche alla liceità della

restituzione, questa può presentarsi come non univoca, e il suo stato di

lingua inquinato nell'astratta ineccepibilità delle corrispondenze da

eccezioni alla norma. Entrambe queste condizioni si verificano a proposito

della rima siciliana, e si verificavano anche prima che brani lirici siciliani

(più antichi o almeno arcaici di qualunque delle numerosissime scritture

siciliane) venissero alla luce (De Bartholomaeis, e poco importa che egli li

prendesse per falsificazioni), e che ne fosse dimostrata la genuinità

(Debenedetti). Lo studioso finlandese Tallgren (-Tuulio) ha mostrato le

difficoltà di ritraduzione insite nelle liriche siciliane e ha formulato con

chiarezza una tipologia di cinque edizioni possibili, dalla più integralmente

ricostruita alla più conservativa rispetto alla tradizione, adottando per

proprio conto una soluzione intermedia, siciliana al limite della

documentazione. Anche le ricostruzioni prodotte successivamente da

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studiosi siciliani sono state esperimenti da collocare in appendice o in

contropagina, come quelle degli unica continentali serbati in codici

anglonormanni, cioè di un territorio che, in simbiosi con un senso sillabico

diverso dal francese, non trovava freno alle innovazioni nella coscienza

dello schema. Sennonché all'estremo opposto della in fatto non più

attingibile restituzione perfetta (troppi punti del testo apparterrebbero a

una zona neutra, da tingere in grigio secondo un'immagine inventata ad

altro fine dal Croce) si situa un legittimo istituto elaborato gradualmente

nella traduzione continua dei canzonieri toscani, qual è stata studiata dal

Sanesi: la rima siciliana. Essendo la rima di é con é e di ó con ó tanto

ineccepibile nei primi secoli toscani quanto quella (del resto dovuta a un

altro meccanismo di ritraduzione dal siciliano) di é con ée di ó con ó (per

non citare altri tipi più particolari di rime ammesse), che altrove, come nel

provenzale classico, riuscirebbe un'intollerabile negligenza, correggerla,

livellandola nella direzione del nui che s'infiltra fin nel Cinque maggio come

nell'opposta del brutto lome che suole, o soleva, disonorare il canto di

Farinata, è un ormai insopportabile anacronismo, non forse inventato, ma

definitivamente lanciato, dalla nuova sensibilità armonica della filologia

laurenziana, quanto dire del Poliziano, ma che un po' sorprende di ritrovare

ammesso ancora negli studi diligentissimi del Parodi e nella prassi del

Barbi. Ripristinare la rima siciliana non è supervacaneo archeologismo di

specialisti addetti a componimenti di umbratile nozione, visto che ciò tocca

a Dante, di cui, è vero, non sono sopravvissuti gli autografi, ma anche al

Petrarca, che nell'edizione autorizzata del Canzoniere (benché in questo

punto non autografa) lascia rimare voi con altrui (e per il copista, il

Malpaghini, ravennate, sarebbe stato dialettalmente ricevibile vui). Il Barbi,

così deciso in certe rimozioni (‟anche il pubblico deve abituarsi all'idea

che faccendo sonava nel trecento così bene

come faccenda, e bieci come magnifici, e amichi come ciechi"), e per tale opera

meritoria sembrato lesivo della pietas (ricorda il Pasquali: ‟Uno studioso che

ha fama di giudice sicuro [...] concepiva stranamente le alterazioni

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insinuatesi man mano nel testo, non so bene se di Dante o del Petrarca,

quali ‛il contributo dei secoli alla bellezza dell'opera d'arte'"; v. Pasquali,

19522, p. XIV), aveva dunque una sua pietas verso la tradizione. Era

probabilmente un eccesso di dissimilazione da chi credeva ‟che l'essenziale

dell'edizioni critiche consista nelle h, negli u per v, nelle scrizioni

latineggianti". O anche profeticamente si premuniva contro gli eccessi di

conservatorismo, esemplificabili nell'accettare, per gli unica toscani

trasmessi dal canzoniere ‛lombardo' di Niccolò de' Rossi, oltre a tutti gli

endecasillabi di undici sbilenche sillabe come legali, gli e protonici non

passati a i perché potrebbero anche essere senesi (nel caso di non fiorentini

come Cecco Angiolieri); o nello spargere artificiosamente di polvere

vernacola la poesia del Guinizzelli e degli altri antichi bolognesi, la cui

cultura era filtrata attraverso Firenze e la Toscana. Né mancano le giuste

palinodie: chi aveva pubblicato i versi milanesi di Bonvesin da la Riva

espungendo puramente e semplicemente le vocali (soprattutto finali)

caduche, ne ha poi ristampato un buon numero limitandosi a segnare le

puntualmente labili di punto espuntorio sottoscritto. Per un verso, infatti,

benché la cosa sia soltanto grafica, quelle vocali partecipano di una generale

cultura italiana; per altro verso si verificano situazioni di rappresentazione

consonantica legate alla presenza del segno vocalico

(così fag per fagio ricorda incompletamente la convenzione del

digramma gi per ã e ne introduce una nuova equivalente a un

diacritico ç o â). Veramente l'edizione è-nel-tempo.

Apparati e descrizioni formali. - I due limiti opposti, della restituzione malcerta

da non introdurre, lasciando a titolo di vicaria simbolica una

rappresentazione tradizionale, e della correzione sicuramente erronea da

non introdurre, definiscono la ricostruzione formale nella sua ordinaria

amministrazione, il cui conservatorismo può sembrare in definitiva

parallelo a quello sostanziale del Bédier. Il parallelismo va anche più

innanzi: a parità di condizioni, si adotta costantemente la forma di un

testimone, scelto (ma per solito apoditticamente) per ragioni o di antichità

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o di congruenza regionale o di sorvegliata organicità. L'apparato formale si

tiene normalmente distinto da quello sostanziale (inclusivo delle forme-

limite), e salvo casi in cui non sia d'inutile ingombro (o non sia di notevole

interesse culturale, com'è per i primi copisti della Commedia) anche

soppresso del tutto, segnati solo i casi di allontanamento dal codice

adottato. Non ci si sottrae all'impressione che la forma passi in seconda

linea innanzi alla sostanza, atteggiamento peraltro rispondente a una saggia

economia della ricerca. Un'accurata descrizione della forma e della stessa

grafia s'impone per i grandi delle cui opere possediamo autografi (Petrarca,

Boccaccio), e anche per i non grandi del Medioevo per cui si dia questa

ventura (da Francesco da Barberino al Sacchetti). Di casi sovrani merita

altrettanto impegno la ricostruzione: così non appaiono certo supervacanee

le cure adibite dal Casella al problema se la Commedia abbia usato forme

dittongate (popolari e moderne) o monottongate (letterarie e arcaizzanti); la

descrizione che l'edizione Barbi fa della lingua adottata per la Vita

nuova, anche se non si può annoverare fra i capolavori del grande filologo, è

diventata paradigmatica per i ‛testi di lingua' come già quelle dell'Ascoli e

del Mussafia per l'antica dialettologia romanza. Anche sono oggetto di zelo

formale i testi molto antichi, più o meno restituibili che siano sotto la

crosta della subita ibridazione (come i poemetti oitanici di Clermont-

Ferrand giunti patinati da mani meridionali), e in genere quelli di aspetto

regionale peregrino. Ci si impegna più in un testo ‛mediano' che in uno

toscano, più in uno toscano periferico che in uno fiorentino. Ma

un'esigenza di totalità di pubblicazione e di spoglio è stata fatta valere

anche per i centri che si presumono più noti, in particolare, e proprio

irradiandosi da Firenze, dal Castellani: esigenza di totalità parallela a quella

che, per la lingua degli autori, studiosi di lingua inglese per primi hanno

fatto penetrare dall'ambito biblico e latino in quello dei classici italiani con

l'allestimento di concordanze, studiosi francesi nel loro campo con la

preparazione di glossario completi. L'esigenza di totalità si riverbera anche

sulla qualità dell'oggetto esaminato, e sprona alla riproduzione, quando il

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tipo di tradizione lo suggerisca (Fiore, Angiolieri, ecc.), dei fenomeni

osservati, che possono avere rilevanza fonica: raddoppiamento

fonosintattico (naturalmente automatico per la gran parte dei toscani),

assimilazione ugualmente in sandhi con eventuale successiva

semplificazione in protonia, ecc. È peraltro sempre materia di discrezione

la riproduzione delle ipercorrezioni (in Bonvesin, dei gruppi con L in

esempi come abla e clera; nel laudario Urbinate, dei raddoppiamenti

fonosintattici abnormi, ecc.); le quali informano dello sgretolamento d'uno

stato più antico o della sua importazione. Non problematica appare la

riproduzione degli ibridismi estemporanei, anche se multipli, come avviene

per i testi, non per nulla a manoscritto di norma unico, della letteratura

franco-italiana. (Se invece essi si strutturano grammaticalmente, come U. E.

Paoli ha mostrato per la prosodia macaronica, insorgono possibilità

correttorie).

Diacronia testuale. - La cultura occidentale comincia dal vasto tetto di

Omero, che le varie soluzioni della questione omerica perforano, con

diverse geometrie ma irrimediabilmente, in direzione di stati anteriori da

congetturare in una sorta di proiezione all'inverso. La loro descrizione è nel

complesso metatestuale e mal risolubile nella graficità di un'edizione, dove

al massimo obeli, asterischi, varietà di parentesi e di corpi cristallizzano

visibilmente qualche risultato della critica interna. Ogni filologia ha la sua o

le sue ‛questioni omeriche', non di rado in esplicita analogia con

l'antonomastica: la germanica i Nibelungi (che proprio il Lachmann prese a

studiare, come studiava Omero), la francese il Roland, la spagnola il Çide

così via. Solo chi, come il Bédier, inchioda, poco meno, il proprio oggetto

al tempo della sua prima apparizione poematica, ne accetta anche, come

appena posteriore, la più antica fissazione testuale, spingendosi da una

negativa cautela a un'ingegnosa, addirittura antieconomica, giustificazione

di tutto il presente e mettendo in opera gli strumenti che la retorica delle

scuole ha elaborato per celebrare l'unitarietà dei testi. Invece il Menéndez

Pidal, di mentalità fedele (benché accuratamente evitando l'apriorismo) alla

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matrice wolfiana, a un assoluto conservatorismo testuale (pur coonestato

dal paio di secoli che intercorrefra confezione e copia) accompagna la

scissione da chürízon introdotta nei suoi tardi anni. Comunque, se

l'equivalente-dell'originale è un'ipotesi di lavoro per lo più di certezza

discontinua mal rappresentabile quantitativamente nel piano (e anche

dell'originale si esegue un'interpretazione), lo stato dinamico del testo

critico è omogeneo a quello di ogni indagine genetica anche costretta a

un'espressione metatestuale. Questa dinamicità è tanto più da affermare in

quanto è da riconoscere la necessità, in contraddizione o piuttosto

composizione con essa, di piattaforme dove sostare lungo la linea

evolutiva: sincronie intermedie che si oppongono alla sincronia originaria

come limite di un processo diacronico. A quel modo che un'indagine

etimologica non deve obliterare le fasi della storia d'una parola, così la mira

d'una ricerca ecdotica non è sempre di necessità la ricostruzione del testo

primitivo, ma quella di momenti della ‛fortuna' testuale. Il fondamento

all'esortazione verso apparati (di sostanza) completi quanto fisicamente

possibile (salvo al più le sviste servili in luogo di sincere innovazioni) ha lo

scopo di salvaguardare non soltanto, euristicamente, quelle lectiones

singulares che domani potranno, adottate come parametro per saggiare

nuovi individui, rivelarsi lezioni di gruppo, ma il materiale che faccia

conoscere la fisionomia del testo in ogni frazione della sua storia culturale.

Se è facile ritrovare le fonti a stampa attraverso le quali, poniamo, Sainte-

Beuve o De Sanctis hanno conosciuto i testi medievali o anche moderni

(non è affatto indifferente sapere che il De Sanctis, volto com'era al

contenuto, tenne presente tutta la vita la prima edizione - probabilmente

mediata da qualche locale ristampa piratesca - e non mai la seconda

dei Promessi sposi), le cose si fanno meno semplici per altre epoche. E per

cominciare proprio dal sacro testo: per intendere una citazione o un

riferimento biblico fatto da un autore medievale, può ben darsi che nella

stragrande maggioranza dei casi sia lecito bonariamente condursi come se

quello avesse avuto a mano, o piuttosto a mente, al pari di noi, la Vulgata

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Sisto-Clementina. Ma in occorrenze puntuali, e superlativamente quando

siano da giudicare antichi volgarizzamenti, l'anacronismo è rigorosamente

impraticabile: giova allora sperare che il luogo sia riscontrabile nell'edizione

Vaticana promossa da Pio XI (inaugurata dalla Genesi di dom Quentin), e

che a quel punto l'apparato sia sufficientemente ricco; altrimenti sarà

remunerativa (poiché la natura del Libro per eccellenza frenava la

molteplicità delle varianti) un'ispezione ai manoscritti che ne abbondano in

ogni grande biblioteca. Peggio vanno le cose quando si tratta di classici

profani. Supponiamo che occorra determinare in che lezione Dante abbia

conosciuto il poema di Lucano. Qui gli strumenti di lavoro disponibili

mancano del tutto, come in genere se si debba accertare la recensione nota

ai tanti, e sempre meglio studiati, traduttori antichi dei classici: le edizioni

disponibili, prodotto di scuole altamente raffinate, mirano esclusivamente

al recupero della lezione originale e perciò sogliono trascurare le edizioni

approntate a partire dal sec. XII, che sono quelle che farebbero all'uopo;

solo un esame, nell'ipotesi che si lavori a Firenze, di quella trentina di copie

della Pharsalia che vi sono conservate, serve a chiarire la situazione. Si apre

perciò alla filologia latina, la primogenita delle filologie moderne, che ha

ultimato nelle sue grandi linee l'elaborazione critica dei suoi testi di epoca

classica, il compito, a prima impressione meno avvincente, di allestire il

regesto della tradizione posteriore alla tarda antichità e all'Alto Medioevo.

Un compito affine sta innanzi a chi voglia conoscere il testo del Roman de la

Rose noto a quell'autore della sua parafrasi in fiorentino, detta Il Fiore, in cui

a qualcuno è sempre parso di ravvisare Dante Alighieri: a questa domanda

risponde molte volte a sufficienza l'edizione del Langlois (che peraltro,

dietro alla communis opinio che lo credeva di un avanzato trecentista, ne

sminuiva l'importanza anche cronologica), più esaurientemente la

tradizione da lui scartata come seriore. È stata descritta l'importanza delle

vere e proprie edizioni, anche se non lachmanniane (perché emendatorie e

puntualmente collative), date di Livio dal Petrarca (Billanovich), più

determinatamente di un largo corpus dantesco (Commedia e Vita nuova con

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una scelta di canzoni) dal Boccaccio, di una copiosa scelta dei nostri lirici

antichi dal Magnifico o suoi collaboratori (Poliziano) nella cosiddetta

Raccolta Aragonese. Un'occorrenza estrema s'incontra quando un gruppo

di suoi discendenti, dal quale dipende la Giuntina di rime antiche (1527),

altera meccanicamente, con assimilazione progressiva,

in forosetta il foresetta cavalcantiano e lega al vocabolario italiano un lemma

supposito, da cui a suo tempo Giovanni Faldella ricaverà lo pseudo-

positivo forosa. Siamo abbastanza avanti perché non sia inopportuno

registrare, col Favati, anche le più tenui variazioni formali, fino gli errori

servili.

Poesia ‛popolare' e ‛tradizionale'. - In questo settore, dove sembra fermarsi la

macchina innovatrice della storia, e dove sul punto di partenza viene a

preponderare la tappa, quando non il suo responsabile, è come se si

elaborassero degli apparati autonomi. E al limite, per arduità di

ordinamento cronologico o per dignità di redazione, si può parlare di

equivalenza delle varianti, gli errori si estrapolano in semplici innovazioni e

queste in innovazioni redazionali, per cui diventa inoffensiva fin

l'applicazione del iudicium, con la categoria antilachmanniana di variante (o

almeno di organica redazione) ‛più bella'. I testi più soggetti a simile sorta

di rifacimento sono, beninteso, i canti e altri componimenti ‛popolari',

dove, in attesa della fase di razionalizzazione, è sempre aperta la fase della

raccolta. Aperta in fatto, ma anche aperta in diritto, quando addirittura,

rovesciandosi il movimento romantico dall'ignoto al noto, si conosce il

punto di partenza, cosicché si credette di poter identificare quell'ignoto in

altro noto. Le cose stavano all'inverso. Non i romances spagnoli, ‛cantilene'

per privilegio collettivo sopravvissute, avevano generato, in obbedienza alla

fenomenologia romantica, l'epica spagnola, e particolarmente il Cantar de

myo Çid, ma al contrario, come ben videro il Milà y Fontanals e il Menéndez

y Pelayo, anzi già A. Bello, i romances rappresentano un'evoluzione

successiva dell'epos. Il Menéndez Pidal, magnanimo collettore

di romances, definisce questa forma di poesia come proprietà collettiva,

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offerta all'usufrutto e alla partecipazione dell'intera comunità, dove ogni

intervento, firmato o adespoto che sia, su un testo ereditario, o per analogia

su un tema nuovo, ha valore autonomo, col termine tecnico di poesía

tradicional, in opposizione a popular, che sarebbe quella diventata o

‛decaduta' a popolare. In proposito di questa distinzione va introdotto il

suggerimento del Barbi, di grande attrattiva euristica, pur se riferito a un

ramo di filologia ‛tuttora condendo: ricavare dallo studio della poesia che il

Pidal chiama ‟tradicional" (in quanto svolta su temi extraletterari) norme

valide per la trasmissione di quella che il Pidal chiama ‟popular". ‟Io [...] ho

sempre preferito avere lezioni diverse d'un medesimo canto che non canti

nuovi. [...] Quello che avviene ancora, in condizioni molto diverse di

trasmissione, per la poesia popolare, può giovare per risolvere problemi

spinosi circa la poesia dei primi secoli. Illuminerà, per esempio, la questione

della trasmissione delle laudi di tipo più popolare, e di riflesso anche di

quelle di Iacopone; e chiarirà il problema delle antiche stampe di

canzonette e strambotti, particolarmente quello di Leonardo Giustinian su

cui son così diversi i pareri" (v. Barbi, 1938, p. XXXIX). Da allora (1938)

laudi e giustiniane si sono continuate largamente a studiare al modo in

largo senso ‛lachmanniano', cosa legittimata dall'identità di logica che regge

ogni teoria dell'innovazione. Può restare il rimpianto che a testi di

tradizione così frantumata non sia stata ancora recata l'esperienza, non si

dice di un tradicionalista (che per la verità si avverte un po' troppo nel Pidal

editore di testi letterari, peraltro di tradizione ispanicamente molto

semplice), ma di un filologo persuaso della singolarità dei problemi sui

singoli testi, qual era il Barbi, è pur movente da esperienze letterarie e poi

traversante esperienze folcloristiche. Impregnato di fantasia scientifica, egli

ha tracciato il profilo d'un'area analogicamente disponibile a uno spirito

d'invenzione.

Algebra e discorso in ecdotica. - Un ideale di presentazione testuale è altamente

formalizzato, con una figurazione differenziata della discontinuità del reale

rispetto alla razionalità e una frammentazione di apparati sia a scopo

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probatorio sia a fini d'informazione storica. Quest'ideale è man mano

diluito secondo gli utenti a cui si destina l'edizione, tuttavia un'accentuata

diffusione del costume filologico (che non è senza contropartite, ma di cui

in questo punto si pongono in rilievo i vantaggi) fa sì che ormai non osti

mevitabilmente alla fruizione dei testi la segnalazione dei dati presentabili

(quando presentabili) con mezzi tipografici elementari, quali i luoghi

incomprensibili della tradizione, le lacune, i supplementi, le altre lezioni

congetturali, le interpolazioni già munite di un lungo prestigio, magari le

varie misure di un testo anisosillabico; in un mondo che non ha più in

vigore il canone di Policleto o altro legislatore estetico, ha dimesso le sue

ultime resistenze - poiché esse venivano da lui ancor più che

dall'immaginario lettore - perfino lo stampatore, giusto cultore di

un'armonia che presupponeva l'inviolabile immobilità del testo. Ciò però

che limita la ‛purezza' algebrica della rappresentazione è la necessità di

discorso: meno ancora per l'impossibilità di descrivere altrimenti soluzioni

probabilistiche, quando si avverta che un intervallo, peggio se di

dimensioni variabili, separa dall'equivalente-dell'originale, che per la

convenienza di giustapporre elementi dell'esegesi. La convenienza di

inglobare dati esegetici alla stessa costituzione del testo è stata praticata dal

Barbi (sotto forma di apposito apparato, non di appendice illustrativa, che

non sarebbe davvero una novità, nell'edizione della Vita nuova, del resto

ispirata alla rainiana del De vulgari), poi anche separatamente affermata. Egli

reclamava la libertà (il discorso, fatto per le Rime dantesche, ha valore

universale) ‟di tentare una critica totalitaria che servisse con ogni mezzo,

compreso il commento, a dar piena ragione del testo, dell'ordinamento e

della stessa autenticità" (v. Barbi, 1938, p. X). ‟[...] Per me l'ideale resta

sempre un'edizione ove il testo sia giustificato da una precisa

interpretazione e illustrazione. Senza giusta interpretazione non si può dar

neppure un'interpunzione corretta [...]: anche per opere di cui s'ha la

fortuna d'avere l'autografo, o l'edizione approvata dall'autore, la precisa

intelligenza del testo è necessaria a voler fare un'edizione che serva ai

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bisogni dei lettori moderni, e insieme agli studiosi" (ibid.,p. XXVII). È

probabile che il Barbi intendesse opporsi a una pratica della recensio (o di

materiali per la recensio) senza interpretatio quale non era impossibile trovare

presso qualche cultore del metodo storico: benché l'affermazione di

una recensio anche a patto di rinuncia all'interpretatio avesse una legittimità

storica ben precisa quando l'avanzava un filologo del calibro del

Lachmann, poiché si trattava d'impedire che una volontà umanistica di

capire prevaricasse sulla medesima costituzione del testo. Parlando di

‟critica totalitaria", il Barbi intendeva saldare non viziosamente il circolo tra

una recensio come base dell'interpretatio e un'interpretatio come fondamento

della recensio, movimenti certamente distinti se non contrastanti (o prevale

l'interesse per l'esegesi o prev4e l'interesse per la fissazione testuale), che

un'alta periodicità negli interessi avvicina fino a un desiderio o illusione di

fusione. Nonostante tutto, nell'ardito e fin qui unico propugnatore di una

‟critica totalitaria" il momento esegetico finì col prevalere sul momento

recensorio, posto che precisamente dell'opera che gli ispirò questo ideale,

le Rime di Dante, con poche eccezioni che probabilmente lo configurano

(come il saggio sulla tenzone con Forese Donati), il Barbi finì per dare,

postuma e con l'aiuto di ben governati collaboratori, la sola edizione

commentata, svolta attorno all'immobile testo, non corredato da

giustificazione, prodotto nella stampa del Centenario (testo migliore di ogni

precedente, ma perfettibile e dichiaratamente provvisorio); e i saggi adunati

nella Nuova filologia (titolo che vuol essere anche la definizione di un

programma) vertono soprattutto su varianti d'autore, cioè accentuano il

momento dell'elaborazione con un'intenzione, parallelamente al libro del

Pasquali, translachmanniana; e finalmente uno scritto quasi testamentario

prendeva in esame non più una tradizione manoscritta statica o una

dinamica e tanto meno una popolare, oggetti fino allora delle sue mutabili e

inquiete curiosità, ma una correttoria fino all'ultimo sulle bozze, quella

manzoniana dei Promessi sposi, elaborando un'ulteriore inedita

fenomenologia procedente per studio dei fogli di stampa. Né c'è bisogno di

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scendere tanto nel tempo: la pagina della Vita nuova si appaga di un primo

apparato testuale ridottissimo, contenuto nei piani alti dell'albero e perciò

in sostanza riserva di alternative discutibili, mentre altre sedi prefatorie

sono deputate a ospitare con la debita microscopia i procedimenti

lachmanniani e quelli della ricostruzione formale: quasi l'immenso tempo

loro dedicato fosse adibito a un uso, non certo allotrio, ma puramente

negativo e servile. La soppressione degli apparati nell'edizione dei soli testi

danteschi, poi nella collezione delle opere commentate, risponde

sicuramente a necessità pratiche, ma che devono essere state accolte senza

sacrificio, se non con soddisfazione, da un temperamento interamente

dedito all'istante della lettura; e ciò concomita con l'aspetto decisamente

non specialistico, fuori di sostanziose innovazioni, della sua presentazione

formale. Nonostante le innumerevoli tavole di varianti e descrizioni

codicologiche (specialmente negli Studi, destinati a una straordinaria

fortuna recente), il Barbi ha decisamente scelto la parte non del tecnico, ma

dell'umanista.

Arte allusiva. - Una presentazione portatrice di esegesi tende naturalmente a

dissociarsi da una presentazione formalizzata. Ciò che agevola il compito

dell'avvicinamento è il fatto che quest'ultima; la cui ‛purezza' consisterebbe

nel rappresentare meramente o l'approssimazione dell'autore o quella dello

storico al testo, nella sua reale configurazione persegue più finalità (che a

rigore possono esser trattate in edizioni separate) e raccoglie una somma di

informazioni non omogenee: tale, rispetto all'oggettivazione del testo, la

sua storia o ‛fortuna', tale e sarà magari lo stesso materiale da altri punti di

vista - la raccolta dei dati provvisti di una virtualità che potrà anche non

realizzarsi mai (se il caso non esibirà incrementi dell'inventario) o

semplicemente offerti a un controllo. Il ‛genere' è già abbastanza

composito da tollerare la presenza di altre informazioni, le quali

ripropongano puntuali aspetti della cultura dell'autore (o del pubblico da lui

immaginato), cultura esplicita o implicita o magari inconscia, tali da

metterci nella distanza originaria. Un'estensione canonica, marginale o

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parentetica (come per i luoghi paralleli nelle edizioni ecclesiastiche della

Scrittura, maestre involontarie di tanti artifici ecdotici) o invece riservata a

un apparato apposito, si fa per le vere e proprie citazioni. Un problema

rilevante suscita in cambio quella detta dal Pasquali (nel titolo del saggio

poi messo ad apertura di Stravaganze quarte e supreme, Venezia 1951, p. 11)

‟arte allusiva", non reminiscenze ma allusioni, e volentieri direi evocazioni

e in certi casi citazioni. Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le

imitazioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le allusioni

non producono l'effetto voluto se non su un lettore che si ricordi

chiaramente del testo a cui si riferiscono". Nocciolo della comunicazione

del Pasquali sono, sulle tracce degli antichi commentatori e dei più raffinati

moderni (E. Norden), passi virgiliani che acquistano tutto il loro sapore

quando traspaia la filigrana di Vario o di Ennio o di Varrone Atacino; una

bell'aggiunta recente (G. B. Conte, Memoria dei poeti e arte allusiva, ora

in Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino 1974) fa scorgere Catullo dietro

Virgilio entro un contesto emulativo omerico. In casi estremi, cioè in

centoni dichiarati, quali ebbero cari la tarda antichità e l'Alto Medioevo,

soprattutto attorno a Omero e a Virgilio, un apparato è tenuto a

identificare gli ingredienti; ma anche di arte allusiva vi è un settore che

giunge addirittura a essere segnalabile a testo, se il verso bucolico ‟Perdita

nec serae meminit decedere nocti" è virgolettabile come, per indicazione di

Macrobio, desunto da Vario, o, si può aggiungere, nella canzone

petrarchesca Lasso me deve subire questo trattamento ogni verso finale di

stanza come incipit di altrettante canzoni (Arnaut Daniel o chi per esso,

Cavalcanti, Dante ecc.). Il procedimento è legittimo perché si tratta di un

elemento dell'‛esecuzione' testuale, pronunciato appunto fra virgolette:

perciò anche la chiave ne è essenziale, e appartiene idealmente a una fascia

privilegiata di commento, distinguendosi dai subalterni sussidi di erudizione

antiquaria; quella fascia o apparato speciale in cui andranno dichiarate per

intero le variazioni , non segnalabili come le ‛desunzioni' (così Virgilio ‟aut

bucula caelumSuscipiens patulis captavit naribus auras" da Varrone Atacino ‟Et

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bos suscipiens caelum - mirabile visu - Naribus aërium patulis decerpsit odorem"). Solo

la proporzione di familiarità è atta a decidere della costituzione

dell'apparato: se in D'Annunzio, per seguire sempre l'esemplificazione del

Pasquali, si legge ‛O voce di colui che primamente /conosce il tremolar

della marina", la reminiscenza dantesca appartiene a una memoria collettiva

talmente ovvia che qualunque segnalazione è superflua, anzi romperebbe il

clima di spicciola complicità culturale che il poeta ha voluto instaurare col

suo lettore; se ne occuperebbe comunque una didascalia post factum, non una

glossa all'attuosità del testo, qui tacita. La discrezione, giusta la finalità

proposta e anche a misura della peregrinità del reperto, arbitrerà la

presenza delle tessere, classiche o volgari ma canoniche, alluse (desunte o

variate), di repertorio o perfino subconsce ad attestazione d'un trauma di

memoria. (Questo è tanto più significativo quanto meno semanticità

inerisce alla formalità timbrica o ritmica della reminiscenza, per esempio se

dei tanti echi danteschi - di aspetto involontario - in Petrarca si considera lo

schema iniziale ‟Al cader d'una pianta che si svelse" come derivato

dall'ugualmente incipitario ‟Al tornar de la mente, che si chiuse"; se poi si

risale agli echi di ugual natura entro uno stesso poeta, si esperisce

tangibilmente la memorabilità sulla quale egli fonda Dante in modo

supremo - il suo assunto di essere un classico). Qualunque campo

ermeneutico, non solo quello dell'arte allusiva, si presta a una

rappresentazione immediata solo parziale. La punteggiatura, dunque una

fase ormai graficamente obbligatoria dell'‛esecuzione', è dirimente per

l'interpretazione, nell'episodio di Cavalcante: ‟Come?/ dicesti ‛elli ebbe'"

(Casella) contro la precedentemente vulgata ‟Come? dicesti? ‛elli ebbe'?";

all'apparato (apparato, e non separato commento, essendo afferente al

testo) è riservata, se la si vuol dare, e si vorrà finché sarà controversa, la

giustificazione; si aggiunga che questa, poiché è fondata su contesti paralleli

(a interpretazione univoca), è suscettibile di citazione abbreviata da quando

si dispone di tante concordanze, e che il crescere di spogli elettronici a

stampa fino all'auspicata confluenza nel Tesoro della Crusca consentirà una

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qualche abbreviazione in tutti i casi dove s'impongano riscontri da più testi

e dove non importi solo un lemma isolato, bensì, come di norma, un

lemma in relazione contestuale. Ma nello stesso episodio, in ‟Colui [...] mi

mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno", la punteggiatura è

parlante solo per la mancanza di virgola dopo mena, che importa

riferimento e di forse e di cui come oggetto a mena (la virgola

precedentemente vulgata importava riferimento di cui a colui e quindi

di forse a ebbe), ma solo un discorso può illuminare l'identificazione del

personaggio e anche precisar meglio il ductus grammaticale. Quanto agli

‛enigmi' (e Dante valga anche qui per antonomasia), essi possono essere

intenzionali e qualche volta predicati come tali, e questi sonò

editorialmente irrilevanti, talché il grigio crociano di cui è invogliato ad

avvolgerli il lettore è testualmente innocuo; ma quelle che sono oscurità

solo all'interprete per oltranza retorica o morale, cioè di brevitas o

di expolitio oppure di tabù, se rischiarate poco o nulla, aprono incertezze o

lacune nella comprensione della lettera parallele a quelle verificabili nella

costituzione del testo. S'immagina che la voce recitante, arcanamente

inflessa intorno agli enigmi oggettivi, avrà avuto la fermezza in qualche

modo neutra di chi sa se il piè fermo sia il sinistro o il destro, se il digiuno

di Ugolino l'abbia portato alla tecnofagia o alla morte, ecc., sicché le nostre

risoluzioni o anche irresoluzioni a questo riguardo della partitura

dovrebbero occupare un ‛luogo simile a quello dei dati spettanti al testo,

cioè un apparato piuttosto che un commento. Come una nuova scoperta

testuale rivela vizi (per solito banalizzazioni) altrimenti non avvertiti, così

nuove scoperte esegetiche rivelano retrospettivamente conoscenze

insufficienti nel quotidiano cui non è più possibile adattarsi: forse

l'astensione involontaria più imponente s'è mostrata nella lettura dei

Vangeli da quando uno specialista di diritto orientale (J.D.N. Derrett, Law

in the New Testament, London 1970) ha messo in luce il significato giuridico,

allora universalmente inteso, delle parabole di Gesù. Questa ricerca e

sceveramento d'una sede esegetica più vicina al testo in atto non è oziosa se

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vuol significare e come allegorizzare la tendenza a una comprensione

letterale tanto rigorosa quanto, per parte sua, la costituzione della lezione:

una ‟cantica semantica", come la disse il Pagliaro, o ‟grammaticale" o

come altrimenti la si chiami, che può anche riverberarsi su tale costituzione.

Attribuzionismo. - Ultimo vantaggio della ‟critica totalitaria", diceva il Barbi,

quello d'intervenire nelle questioni di autenticità. La generalizzazione è

massima quando nell'attribuzionismo letterario si discerne il fondo comune

all'attribuzionismo per eccellenza, quello figurativo, così come il Pasquali

aveva messo le mani avanti per precisare che l'allusività valeva non meno

per le arti figurative e la musica che per la poesia. Le differenze

fondamentali fra gli aspetti che hanno rivestito i due tipi di ricerca

attributiva risalgono naturalmente al fatto che l'anonimato è, anche per il

Medioevo, condizione meno ordinaria in letteratura che nelle arti figurative,

e che il veicolo letterario si presta ancor meglio a ‛vischiosità' tecniche e a

poetiche spersonalizzanti (nonostante l'imponenza di fenomeni ‛astorici'

come la pittura bizantina e la scultura negra, o la tendenza

all'identificazione anche di somme individualità come Giorgione e Tiziano

giovane o gli impressionisti per certi momenti da cogliere ad annum).

Tuttavia la questione non va posta in astratto, poiché la critica è come

storicamente esiste, e la critica d'arte non solo si realizza in parte rilevante

quale attribuzionismo, e non unicamente sotto le mani dei grandi

‛conoscitori', ma anche al difuori dello stretto attribuzionismo si assetta in

forma attribuzionistica e congetturale, seriando le opere in un fitto

reticolato di consecuzioni culturali: un libro di storia dell'arte assomiglia (ed

è un inconsapevole merito della disciplina, che non stacca giudizio di valore

da giudizio esistenziale) più a un libro di storia letteraria che a un libro di

critica letteraria (in forma romantica e postromantica); la fisionomia

prevalente della sua ricerca è filologica. Tale filologia ha solide basi ‛reali',

archivistiche o artigianali che siano; ma il critico d'arte, che più spesso

conferisce a ‛filologia' un significato limitativo quando non despettivo, dà

pregio sopra quest'argomentazione esterna ai considerandi stilistici che

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costituiscono l'argomentazione interna. Una sua formulazione più

elementare, consistente in una morfologia delle figurazioni (panneggi,

mani, nuvole ecc.) che ricorda la sistematica linneana, fu proposta da G.

Morelli, e come ‛morellismo' si designa un attribuzionismo stilematico che

non tocca il livello di stilistico. L'attribuzionismo stilistico, che nelle sue

manifestazioni supreme acquista dalla folgorante rapidità dei passaggi un

aspetto quasi mistico, non s'intende bene, anche in analogia,

vichianamente, se non per averlo praticato: e apparirà allora quello che,

nell'atto stesso di collocare il nuovo incremento, illumina criticamente tutta

la serie delle innovazioni individuali o collettive che determina.

L'attribuzionismo letterario è in prima istanza ‛esterno' (ma anche il

figurativo più raffinato ingloba, fosse pur tacitamente, le prime fasi) e arriva

a cercare gli indizi iniziali addirittura attraverso le probabilità statistiche dei

suoi stemmi. Le divergenze attributive che insorgono tra i canzonieri

medievali, in numero straripante gli occitanici e gli oitanici, tanto più parco

i tedeschi, gli italiani e gli iberici, si cercano anzitutto di dirimere a norma di

maggioranza come ogni altra divergenza di lezione; in alcuni casi, come in

particolare mostrano il Barbi e il Debenedetti, la comparazione degli

ordinamenti, in cui intervennero salti o altre alterazioni, permette una

risposta positiva, o anche negativa, ai quesiti. Ciò non involge che

quest'ambito non sia suscettibile di finissime applicazioni di critica interna,

come la dimostrazione del Monteverdi in ordine all'apocrifia della chansoneta

nueva data a Guglielmo d'Aquitania; ma sembra non essere mai accaduto

che i risultati ottenuti su questa base si siano poi ripercossi sulla

classificazione dei manoscritti. Corrente è anche l'attribuzione su base

stilematica, ma occorre una grande oculatezza nel determinare se un certo

stilema o sistema di stilemi possa davvero esser considerato una firma

interna. L'illusione di poter adoperare impunemente i calcolatori elettronici

per una determinazione automatica di paternità su base lessicale o sintattica

(presenza o assenza di vocaboli e locuzioni, loro proporzione numerica,

rapporti fra le parti del discorso, misura media dei segmenti sintattici e, chi

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volesse, valori timbrici in percentuale), per esempio al fine di determinare

quali lettere e quali dialoghi pseudo-platonici siano davvero spuri, non

sopravvive che circondata di cautele e riserve presso gli operatori più

accorti, coscienti del fatto che quegli indici, o una loro parte, individuano

strutture di ‛genere', comuni a più personalità, mentre viceversa in uno

stesso individuo convivono più strutture (ciò non toglie che quegli spogli

possano costituire un sussidio rilevantissimo dacché la memoria, elettronica

o fisiologica che sia, è lo strumento essenziale dell'attribuzionista).

Implicitamente per questo, non per pigrizia, editori moderni si

accontentano di costituire appendici di ‛dubbi' (per Cino, Cecco Angiolieri

ecc.). Proprio dell'attribuzionista moderno è comunque di esplicitare gli

istituti sui quali ragiona (così come lo Spitzer ha dettagliato la ‟klassische

Dämpfung" di Racine, e ancor meglio gli ingredienti rabelaisiani dei Contes

drôlatiques per dare un buon voto al Balzac pasticheur): il Foscolo poteva

limitarsi a fiutare aria di falso antico in sonetti di Guittone (come Charles

Dickens subodorò una mano femminile in George Eliot), ma dall'epoca

positiva in qua il sospetto falso antico di documenti non antichi è oggetto

di meno vago scrutinio, dalla controversia su Dante da Maiano allo

smascheramento recente dell'impostore ferrarese Baruffaldi. Ma che posto

ha l'attribuzionismo stilistico in sede letteraria, per esempio nella brillante

dimostrazione proprio del Barbi in ordine alla legittimità d'uno di quei

presunti falsi antichi, la tenzone fra Dante e Forese? Nullo, perché, se

l'autorità dell'uomo ha (salvo forse che per particolari minori) messo a

tacere l'opinione avversa, ciò avviene giustamente, sul fondamento del

comunque previamente necessario ragionamento documentario e anche

stilematico; ma il sobrio Barbi non corona il suo edificio dimostrativo col

fastigio critico del riconoscimento che qui, o anche qui, nasce la

sperimentazione ‛comica' di Dante; mentre si può aggiungere che,

precisamente per questa dilatazione sperimentale verso intentati settori

linguistici, il calcolatore non solo non avrebbe corroborato la tesi, ma

l'avrebbe, maneggiato meccanicamente, semmai confutata. La stessa

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posizione occupa, più in grande, il cosiddetto Fiore, per la cui ascrizione a

Dante furono recate prove ‛esterne' talmente robuste da far dire al Parodi,

ormai non più convinto dell'attribuzione, che sarebbero largamente bastate

se si fosse trattato di tutt'altri che di Dante; sono state poi ad- dotte, prima

sparsamente, quindi sistematicamente, prove ‛interne' stilematiche; e

finalmente l'emergere di riscontri via via meno strettamente semantici fino

ai fonici e ritmici puri, attestanti la ‛memorabilità' del testo (e di nessun

altro testo a quel modo) entro la Commedia, porge un dato ‛stilistico' che

sembra omologo a quelli adoperati dai più alti attribuzionisti figurativi,

come il Longhi. Quanto alla ‛certezza', pare conforme alla condizione

storica della filologia letteraria che essa sia ancora, e forse per sempre,

scaricata sulle fasi precedenti. L'attribuzionismo figurativo si fonda sulla

‛qualità', e ciò torna a verificarsi nell'attribuzionismo letterario. Sia il caso

del laudario Urbinate, nel quale, fra i componimenti tutti adespoti, ne sono

ospitati di iacoponici, in lezione che travalica i piani bassi dell'albero,

peraltro con dilatazioni e interpolazioni pregevolissime, benché inferiori al

livello di Iacopone. La presenza di un'alta qualità in alcuni unica e

quasi unica dell'Urbinate fa legittimamente nascere il sospetto euristico che

ci si trovi innanzi a Iacopone inedito, da sceverare meglio che si possa dalla

secondaria mano (o mani?) manipolatrice. Se il problema è quello stesso

che si pone sulle pareti dell'altra grande macchina francescana, il santuario

di Assisi, questa sovrana esperienza storico-artistica, ancor più che da

metafora (splendida metafora), servirà da leva mentale.

Critica stilistica. - Fin qui l'esegesi mira al testo come a suo punto d'arrivo. Se

essa, per così dire, si ribalta sul testo, questo diviene il punto di partenza di

un'esegesi, se non postuma e aliena, certo meno vicina alla letteralità del

testo, perciò esorbitante dall'ambito della filologia. Esistono tuttavia due

tipi di ricerca che presuppongono in progressiva vicinanza la lettera, la

assumono come dato immutabile e in nessun modo varrebbero a

modificarla. Se non di pertinenza della filologia, essi appartengono al

territorio immediatamente limitrofo. Il primo tipo di queste ricerche di

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frontiera si denomina col suo fondatore, L. Spitzer, ‟cantica stilistica"

(Stilkritik), l'altro, egualmente col suo fondatore, R. Jakobson, ‟grammatica

della poesia" (grammar of poetry). Entrambi operano su prelievi della lettera

adottati come campioni fuori d'ogni criterio a priori, e non agiscono con

categorie a prioriné empiricamente riadottabili (come quelle della

descrizione linguistica) a priori.

La critica stilistica, quale si configura, per semplificarne l'esame, nel solo

suo fondatore, e più esattamente nella sede della sua fondazione, il volume

di Stilkritik dedicato alla lingua degli autori, Stilsprachen (1928), forma il

proprio campionario su elementi linguistici dell'autore studiato (‟Individuum

NON est ineffabile" è il motto di uno dei saggi, ma varrebbe per tutti)

differenziali rispetto alla media circostante, li interpreta, e confronta

l'interpretazione con quella che si ricava dalla globalità dell'autore con

strumenti psicologici: questo rapporto circolare (immagine la cui dichiarata

etimologia è nello Zirkel o circolo vitale dello Schleiermacher) collega il

microcosmo col macrocosmo, più che per riprova o conferma, tanto meno

per correzione, per illuminazione reciproca e integrazione. La stesa testuale

si screzia dunque in fatto di porzioni più e meno significative, punti

‛pertinenti' o ‛rilevanti' (come poi dirà la fonologia) in un insieme i cui

passaggi possono anche essere neutri, in corrispondenza al livello

d'attenzione che al testo porta non solo il lettore (che almeno inizialmente

deve accontentarsi, in fatto e in diritto, d'una comprensione discontinua e

approssimativa) ma lo stesso autore. Il metodo in questa formulazione si

applica alle individualità esaltate del postromantico mondo

contemporaneo, o più largamente alle innovazioni stilistiche, dunque anche

collettive (come nel saggio spitzeriano, considerevolmente anteriore

alla Stilkritik, sugli acquisti sintattici del simbolismo); la sua evoluzione

(almeno nelle più sicure estensioni dell'operatore, come nel saggio sul

classicismo di Racine) sarà verso una differenzialità inerente al testo stesso,

in rapporto a una poetica dell'assoluto. Le modalità della Stilkritiksono

dunque funzione della poetica.

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Grammatica della poesia. - La grammatica della poesia non conosce parti

neutre del testo, ma si comporta come se tutto vi fosse significativo (in

francese pertinent, in tedesco relevant), cosa che tanto più si nota in quanto la

dottrina è stata elaborata esattamente nell'ambito strutturalistico che ha

genialmente introdotto la categoria di pertinenza. I componimenti oggetto

delle analisi del Jakobson sono delle unità poematiche concluse, e quindi

tende a farsi ozioso il quesito sui moventi della scelta (per quanto la serie di

saggi verta su autori delle più varie lingue, così da suscitare involontarie

ipotesi di rappresentatività degli autori per le lingue, e specialmente dei testi

per gli autori, negli incerti limiti però in cui sussiste il principio di

individualità poetica). Le unità poematiche contengono proprietà del

significante (non importa a che livello di coscienza) che vengono esplicitate

e concorrono a un'interpretazione complessiva sul piano del significato: si

può congetturare che la percettibilità di tale interpretazione (quasi

‛ispirazione' del critico) costituisca il criterio psicologico della scelta. Si

possono riconoscere modalità ricorrenti di applicazione di un questionario

più generale, in rapporto precisamente alla chiusura del testo, senza che ciò

si trasformi in costituzione di categorie a priori: si studia fondamentalmente

la distribuzione delle partes orationis (e loro funzioni), e in via subordinata

dei registri fonematici, nei segmenti ritmici e sintattici, limitati da rime e

pause, comparando i risultati diversi che si ottengono in distinte aree

testuali come possono essere l'anteriore e la posteriore, le alterne (dispari e

pari), le periferiche e le centrali. La realtà dei fatti così reperiti sarebbe tutta

ugualmente reale: qui sorge la principale riserva sul metodo, che sembra

restare aperto a una riforma la quale estenda a questa sede l'agnizione

di traits pertinents. L'applicazione del metodo a specifici testi letterari sembra

acquisita col saggio del Jakobson, in collaborazione col Lévi-Strauss (in

‟L'homme" del 1962), su Les chats di Baudelaire, pagine ormai celebri che

possono costituire un opportuno riferimento anche per rilievi contenenti

implicazioni generali, e che appunto hanno il solo torto di non ammettere

gradualità nella certezza dei risultati, quasi fossero o da accettare o da

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respingere in blocco. Che gli chats siano da identificarsi nella muliebrità,

risulta con sufficiente sicurezza per tralasciare il qui taciuto, certo come

troppo plebeo, argomento che chat suscita dall'inconscio di ogni parlante

del francese un'allusione gergale di femminilità) da un argomento

filologico, il fatto, rilevato dagli esegeti, che il binomio puissants et doux, di

origine sainte-beuviana, qui riferito ai gatti, in una poesia di A. Brizeux era

detto delle donne: più che arte allusiva nel senso intenzionale del Pasquali,

subliminale riflesso condizionato. Ma che l'eros sia androgino, la prova del

Jakobson, che cioè, di contro alle rime cosiddette femminili (ossia

parossitone, in fatto terminanti per consonante) riferite a nomi

indifferentemente femminili o maschili, le maschili (ossia ossitone, in fatto

terminanti per vocale) si riferiscano tutte a nomi femminili, è valida solo in

quanto si assuma un armonica sessuale inerente al genere grammaticale.

L'osservazione del Jakobson è peraltro un fatto che le proporzioni

suggeriscono di considerare non aleatorio (questa categoria statistica è

estranea alla grammatica della poesia). Il fatto può invece essere

razionalizzato se inquadrato in uno studio delle rime, le quali sono tutte

meno una ricche, fatto che, forse per essere banale, d'un'abbondanza

medievale, in Baudelaire, non è mai menzionato dal Jakobson. Le rime

sono insomma ‛in -tères, -aison, -té, -nèbres, -itudes (e non in -ères, -on ecc.);

segue una rima ricca ma anche equivoca, monosillabica (fin), che è

precisamente l'ultima delle citate rime maschili, e che compensa

immediatamente a ritroso (SAns fin: SAble fin) la relativa povertà della rima

(compagna solo a -té, come ha a altro effetto, ma in contesto meno

persuasivo, il Jakobson); viene infine la sola rima non ricca, benché

adeguatamente compensata a ritroso (étincELLES Magiques: prunELLES

Mystiques), che è proprio la più esposta in quanto finale. Come non

razionalizzare questa ‛eccezione', che dalle proporzioni è segnalata come

ancor meno aleatoria; e come non razionalizzarla topicamente; quale

segnale del culminante allontanamento nello spazio e nel tempo che si

chiude e inverte (aiutando l'etimo di mystikós, certo presente al buon

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umanista Baudelaire) in lontananza interiore? Ciò consuona alle

dimostrazioni magistrali del Jakobson sulla gradazione dalla ‟maison" dei

gatti alla ‟non-maison" delle sfingi e alla vaga molteplicità che fa dei gatti ‟la

maison de la non-maison"; dal reale all'irreale e al surreale; dalla

‟précision" all'‟imprécision". Solo che l'ambiguità ritrovata nel testo merita

di essere discussa analiticamente per determinare quanto essa sia

conciliabile con le necessità semantiche della lettera: posto il francescano

‟‛Laudato si', mi' Signore", il ‛per' successivo potrà ben avere o valore

causale o valore d'agente o valore strumentale, ma uno solo per volta, non

essere ambiguo fra più, come pure ha pensato qualcuno; sono funzioni

alternative, non coesistenti. Il verso ‟Leurs reins féconds sont pleins d'étincelles

magiques" (di cui il Jakobson scrive: ‟On est tenté de croire qu'il s'agit de la force

procréatrice, mais l'oeuvre de Baudelaire accuellie volontiers les solutions ambiguës.

S'agit-il d'une puissance propre aux reins, ou d'étincelles électriques dans le poil de

l'animal?", v. Jakobson, 1973, p. 413) non contiene nulla che non sia

compatibile con le norme della lettera: reins 'lombi' ha una latitudine

metonimica abbastanza elastica da indicare la corporeità in genere (con cui

le scintille) e la specificazione sessuale (con cui la fecondità); si può

parafrasare ‟i loro corpi - quei loro corpi così fecondi - sono pieni ecc.,

questo allargamento già simbolistico concomita con la descritta dilatazione

finale. Semplice esitazione, non già supposta ambiguità, si ha per

l'apposizione ‟orgueil de la maison": ‟Faut-il entendre que les chats, fiers de leur

domicile, sont l'incarnation de cet orgueil, ou bien est-ce la maison, orgueilleuse de ses

habitants félins, qui [...] tient à les domestiquer?" (ibid., p. 411); la soluzione

‛vanto della casa' parrebbe difficilmente contestabile. Mal sostenibile è

invece l'ipotesi di ambiguità (‟La signification de ce passage [...] reste à dessein

ambiguë") per il passo ‟L'Érèbe les eût pris pour ses coursiers funèbres, S'ils

pouvaient au servage incliner leur fierté"(ibid., p. 410): pris ‛scambiati' e pris

‛adottati' si escludono infatti reciprocamente. Qui un altro capitolo

filologico, la critica delle varianti, interviene, sulla base della lezione delle

prime stampe (‟pour DES coursiers"), ad arbitrare la controversia nel senso

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di ‛scambiati' (a meno che l'autore, che si sa non sempre felice

nell'emendarsi, abbia corretto, ma per accidente servendosi di una forma

equivoca, un certo ‛scambiati' in un intenzionale ‛adottati', congettura

peraltro poco economica). Anche questo episodio istituisce un'ulteriore

collaborazione della filologia con un capitolo tanto suggestivo dello

strutturalismo, un cui prolungamento può leggersi in N. Ruwet.

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