(Figura 1) - … I PRIMISSIMI ANNI Ricordo assai bene il fortissimo prurito recato alle nostre...

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Ho leo con interesse e piacere le pagine dedicate a Suor Lezia De Pon. Sono sgorgate da un cuore che ha vissuto intensamente alcuni anni della pro- pria vita a contao con la Suora. In esse si respira la profondità di un rapporto spirituale che ha aiutato a crescere, che ha trasformato il limite delle mura di un collegio in un campo aperto, proieando verso la vita. Suor Lezia sapeva andare oltre il limite del dovere di accogliere, accu- dire, preparare alla vita. Sapeva che i ragazzi che le erano affida avevano bi- sogno di trovarsi in un ambiente ricco di calore, di vita; aveva compreso quello che effevamente loro serviva, i desideri propri dell’età. Voleva che ciascuno realizzasse pienamente quello per cui era stato chiamato, sviluppasse e met- tesse a fruo i doni che ciascuno aveva. Per questo con creavità cercò di trasformare la vita di collegio in vita di famiglia. Ho conosciuto Suor Lezia nel luglio 1978. Giungeva nell’Istuto San Vincenzo di Milano. Aveva lasciato da poco più di un anno Tortona dove era vissuta dal luglio 1949. Il cuore era un po’ streo. Passava da un ospedale con annesso l’orfano- trofio ad una grande scuola che le chiedeva di occuparsi delle vigilanze degli alunni. Non si perse d’animo. Trovò subito un’aenzione da donare, un incorag- giamento da offrire, una parola per rincuorare. L’Oratorio femminile che accoglieva circa quarocento ragazze fu il cam- po che la vide impegnata tu i pomeriggi, anche la domenica e le fesvità, dalle 14.30 in poi. Non mancava mai. Accoglieva bambine e ragazze che lo frequentavano per la catechesi, per i momen ricreavi, per la danza, per la pallacanestro. Accanto a lei nonni, genitori impegna come animatori o sem- plicemente che varcavano la porta dell’Oratorio per accompagnare le figlie. Per tu aveva un sorriso, un’aenzione e da tu era cercata. Pur con tanta dedizione e impegno nel servire i bambini e le ragazze di Milano, non dimencava chi aveva servito per tan anni a Tortona. Ricorda- va tu, il loro impegno quodiano, le parte di calcio, il teatro… Era rimasta un’appassionata del pallone ed una fosa. Era anche questo un modo per ri- cordare i “suoi ragazzi”. Ne parlava spesso, con semplicità, godendo perché la “Provvidenza” non era mai mancata. Connuò la sua missione anche quando le forze venivano meno. Solo la malaa l’obbligò a lasciare il “campo” di servizio. Ora dal Cielo guarda a tu quei “ragazzi”, ormai adul e facendo l’occhiolino dice “coraggio, abbi fiducia, vai avan. La Provvidenza non manca mai”. Roma, 21 seembre 2017 Sr. Adele Bolla fdc

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Ho letto con interesse e piacere le pagine dedicate a Suor Letizia De Ponti. Sono sgorgate da un cuore che ha vissuto intensamente alcuni anni della pro-pria vita a contatto con la Suora. In esse si respira la profondità di un rapporto spirituale che ha aiutato a crescere, che ha trasformato il limite delle mura di un collegio in un campo aperto, proiettando verso la vita.

Suor Letizia sapeva andare oltre il limite del dovere di accogliere, accu-dire, preparare alla vita. Sapeva che i ragazzi che le erano affidati avevano bi-sogno di trovarsi in un ambiente ricco di calore, di vita; aveva compreso quello che effettivamente loro serviva, i desideri propri dell’età. Voleva che ciascuno realizzasse pienamente quello per cui era stato chiamato, sviluppasse e met-tesse a frutto i doni che ciascuno aveva. Per questo con creatività cercò di trasformare la vita di collegio in vita di famiglia.

Ho conosciuto Suor Letizia nel luglio 1978. Giungeva nell’Istituto San Vincenzo di Milano. Aveva lasciato da poco più di un anno Tortona dove era vissuta dal luglio 1949.

Il cuore era un po’ stretto. Passava da un ospedale con annesso l’orfano-trofio ad una grande scuola che le chiedeva di occuparsi delle vigilanze degli alunni.

Non si perse d’animo. Trovò subito un’attenzione da donare, un incorag-giamento da offrire, una parola per rincuorare.

L’Oratorio femminile che accoglieva circa quattrocento ragazze fu il cam-po che la vide impegnata tutti i pomeriggi, anche la domenica e le festività, dalle 14.30 in poi. Non mancava mai. Accoglieva bambine e ragazze che lo frequentavano per la catechesi, per i momenti ricreativi, per la danza, per la pallacanestro. Accanto a lei nonni, genitori impegnati come animatori o sem-plicemente che varcavano la porta dell’Oratorio per accompagnare le figlie.

Per tutti aveva un sorriso, un’attenzione e da tutti era cercata. Pur con tanta dedizione e impegno nel servire i bambini e le ragazze di

Milano, non dimenticava chi aveva servito per tanti anni a Tortona. Ricorda-va tutti, il loro impegno quotidiano, le partite di calcio, il teatro… Era rimasta un’appassionata del pallone ed una tifosa. Era anche questo un modo per ri-cordare i “suoi ragazzi”. Ne parlava spesso, con semplicità, godendo perché la “Provvidenza” non era mai mancata.

Continuò la sua missione anche quando le forze venivano meno. Solo la malattia l’obbligò a lasciare il “campo” di servizio. Ora dal Cielo guarda a tutti quei “ragazzi”, ormai adulti e facendo l’occhiolino dice “coraggio, abbi fiducia, vai avanti. La Provvidenza non manca mai”.

Roma, 21 settembre 2017Sr. Adele Bollati fdc

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Questa Religiosa fu per molti anni (1949-1976) legata alla vicenda umana di decine di bambini orfani (Figura 1), ospitati presso una struttura d’accoglienza annessa all’Ospedale Civile della città.

E avrebbe voluto/dovuto rimanervi solo per pochissimi giorni, in sostituzione di un’altra consorella che – allo stremo delle forze – aveva “gettato la spugna”: i bambini-ragazzi costitui-vano una sorta di irrefrenabile “banda” di sog-getti perlomeno ingestibili.

Figura 1 - Suor Letizia e i suoi orfani (marzo 1964)

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I PRIMISSIMI ANNI

Ricordo assai bene il fortissimo prurito recato alle nostre gambette dai pantaloncini corti di lana color grigio-verde, tessuto assai spesso e decisamente “antipatico”. Indossavamo questa sorta di divisa militare-sca quando il nostro “compito” era quello di accompagnare i funerali sino al locale cimitero; soprattutto con il clima freddo dei remoti inver-ni era un’autentica sofferenza - mista a vergogna malcelata in viso – il soffermarsi ai lati dell’ingresso tenendo tra le mani una sorta di busta quadrata (cartone rigido rivestito in tessuto “liturgico”!) entro la quale i benevolenti avrebbero potuto inserire qualche monetina: l’elemosina per gli orfanelli!

Per fortuna, con grande gioia di Suor Letizia, dopo pochi anni – credo intorno al 1958 -quella “divisa” urticante fu eliminata, così come l’usanza di accompagnare le salme al Camposanto.

LA MAMMA E I SUOI BAMBINI IL CIBO E LA “CUCINETTA”...

Suor Letizia era attentissima sia alla qualità sia alla quantità di ciò che la cucina centrale dell’ospedale forniva ai bambini dell’orfanotrofio. C’era anche il nostro piccolo locale detto “la cucinetta”, sul fondo del refettorio: se qualcuno aveva la necessità di un piatto un pochino più appetibile, curato e gradito (uova al tegamino, polpettine già pronte ma solo da “rifinire” al caldo), ecco fatto, il Suo intervento di cuoca ri-solveva il bisogno. Esempio: a me non piaceva la carne lessata e troppo “mista”; erano subito pronte le polpette, con il purè!

Materna, previdente attenzione!In “compenso”, mi mandava in “missione-lavoro” presso il magaz-

zino/dispensa della cucina centrale ove operavano le sue “donne ami-che”, le addette cuoche o aiutanti tali. E lì mi attendeva una “torre” di

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cassette piene di profumatissimi baccelli di piselli da sgranare! All’inizio quasi un gioco, ma poi…

E quale gran divertimento – infilati ai piccoli piedi i pattini a rotelle – schettinare velocissimi sotto il lungo porticato che arrivava sino a pochi metri dalla cucina! Con grosse e bollenti pentole colme di minestrone (con il serio rischio di gravi scottature alle gambe) volavamo verso il no-stro refettorio; ed “il più difficile” - come ci dicevamo -, la vera sfida tra di noi era quella di superare a tutta velocità l’angolo retto e stretto del cancello in ferro sul quale campeggiava la scritta “Orfanotrofio San Giu-seppe”. (Dove sarà finita questa bella cancellata? Avrei tanto desiderato scattare una foto-ricordo!).

E la preghiera prima dei pasti non mancava mai!Poi il rito della lavatura di tutto: piatti posate pentolame; sì a turno,

ma molto spesso capitava che erano sempre e solo quei due o tre...gli “eletti fortunelli”! Ne conservo il ricordo in una bella ed evidente cicatri-ce a “V”: fu un taglio netto e assai profondo di una vena del mio pollice destro, dalla quale uscì sangue in abbondanza nella vasca del lavaggio stoviglie. Tentai di ricomporre i due “margini” rotti e taglienti di un piat-to fondo di pura bachelite! Povero me: il terrore di una sonora sgridata e l’ingenuità di un piccolo – 8-9 anni appena - che avrebbe tanto desi-derato di riuscire magicamente ad “incollare” i cocci!

Ma suor Letizia tutto e bene comprese!

LA PIPI’ A LETTO...

Credo che più o meno tutti noi siamo stati piccole, povere vittime/protagonisti “piscioni”! In una fotografia del mese di marzo 1964 è cu-rioso notare – appoggiato alla ringhiera del ballatoio, al primo piano del collegio – un pigiamino steso al sole ad asciugare, (Figura 2) chiaro segno di ciò che quotidianamente poteva essere recuperato la mattina, al nostro risveglio.

La suora dormiva in un angolo della nostra ampia camerata-dormi-torio: il Suo letto era “velato” da grandi teli bianchi e leggeri, poggiati su un telaio in ferro sottile.

La notte suor Letizia – credo che azionasse la sveglietta – mi faceva alzare dal letto e mi accompagnava sino all’adiacente locale ove si tro-vava la “turca”; io – nel dormiveglia – pregavo recitando le Ave Maria

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Figura 2 - Orfani di Suor Letizia all’entrate della camerata/dormitorio

(mi ricordava spesso tale evento!) e Lei invece insisteva: “Dai Dino, fai la pipì; dai Dino falla, ti prego! Fai la pipì!”. Non ho idea – ero sicuramente sonnambulo - di quanto tempo occorresse ...

Un ulteriore ricordo, nitidissimo e “terribile”! Suor Letizia una di “quelle” mattine, al mio risveglio, bagnatissimo, alzò sconsolata la voce nei miei confronti: “Basta, non ne posso proprio più! Fai su stamani le tue cose e vai via! Ricordo l’ora fatidica: verso mezzogiorno; preso un manico di scopa vi annodai all’estremità un fagottino con dentro...non so cosa; e mi incamminai lesto verso la salitella in terra battuta e ghiaietto che dal nostro cortile portava fin su alla portineria centrale; vedevo in lontananza il signor Toncini, l’addetto custode-portinaio! Chi sa se mi avrebbe poi riconosciuto e fermato...?! Suor Letizia – non so come – si avvide di me, mi corse dietro raggiungendomi proprio a po-chissimi metri dall’uscita, verso la città... e mi abbracciò, stretto stretto a sé, rassicurandomi e riaccompagnandomi verso i nostri locali. Mam-ma mia che paura! Ma anche quale sollievo! Non ero stato “cacciato”!

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LA SCUOLA, LO STUDIO, IL LAVORO, L’USCITA...

Tra gli ampi locali con vetrate del nostro collegio c’era la “scuola”; i nostri piccoli banchetti erano posizionati su tre dei quattro lati del lo-cale; nel quarto la Sua scrivania, con ripiano in vetro e cassetti metallici (nel primo a destra Lei teneva un registro nel quale annotava i dati iden-tificativi di ognuno di noi). Due “armadi a parete”; un grande tavolo-stireria al quale lavoravano a turno due addette dell’ospedale, molto legate alla suora (di una in particolare ricordo la grande affabilità: la signora Agnese). Spesso venivo incaricato di aiutare qualche compagno: imparare a memoria una poesia, fare i compiti di aritmetica, ripassare sul “ Sussidiario”. E così “saltavo” la ricreazione...Mi tenevano compa-gnia i cinguettii di canarini, cardellini, bengalini, pappagallini che suor Letizia allevava in gabbie appese vicino all’ingresso della “scuola”.

E Lei si muoveva in giro tra di noi, spesso, recando appoggiata sulla spalla – fedelissima ed umanizzata – la Sua gattina, una tigrata italiana, di nome “Fufetta”!

Quanto poi alla nostra frequenza delle “classi dell’obbligo scola-stico”, ci accompagnava, ogni giorno – andata e ritorno, a piedi ovvia-mente – allo “Scolastico”, tutti in fila, due a due.Appena dopo il locale denominato “Bardoneschi” ci intimava di svoltare (via Carducci, angolo “Portici nuovi”); Lei chiudeva il gruppo o lo anticipava; ed io viceversa. Guida con “can pastore”!

E che bello quando si attraversava sulle strisce pedonali Corso Romita, arrivando fin sotto i gradini antistanti l’ingresso della “Sezione Maschile”; piccoli, piccoletti alzavamo gli occhi verso il cielo incrociando le lunghe braccia aperte dell’altissimo vigile urbano, ritto su un grande piedestallo cilindrico, in mezzo alla larga strada! E lui ci salutava e sorri-deva sempre. Mi pare di averlo ancora davanti agli occhi!

Il maestro Giuseppe Leidi, il Paolo Chiodi, il Melone, la Coppi e quan-ti altri di cui non ricordo il nome! E, poi, gli insegnant delle Mediei: prof. Barberis, prof.ssa Elisa Re, prof.ssa Sforzini; e la prof.ssa Elvira Rocca, Preside all’Istituto Professionale di Stato “Domenico Carbone” (taluni di noi frequentavano l’indirizzo commerciale, pochi l’industriale). E poi il “Dante” degli Orionini: il prof. Lisino, il prof. Bastreri, ecc.

Ancora, un certo prof. Giachero, delle Scuole Medie, un “rosso” che adorava suor Letizia, così attenta al tema educativo e alle problematiche della scuola, per tutti i “suoi” ragazzi!

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E per molti che dopo i 14-15 anni uscivano dal collegio si poneva il problema dell’impiego lavorativo. Mi ricordo la tipografia “San Loren-zo”, sotto il palazzo della Curia Vescovile; e l’Industria meccanica di pre-cisione “Graziano” retta dall’amico Suo carissimo Wilmer (...e l’affetto grandissimo era assolutamente reciproco!).

E ancora: tutto ciò che perveniva nelle mani della Nostra – in ter-mini di offerte in denaro (dalle Dame di San Vincenzo, dalla Befana dei Vigili, o da altri benefattori) andava subito ripartito nei libretti bancari di risparmio nominativi che venivano da Lei aperti presso la locale Cas-sa di Risparmio. Quante volte con Lei vi sono entrato! Così ciascuno di noi usciva dall’ orfanotrofio con un proprio tesoretto.

Infine, le pratiche per poter ottenere – a chi di noi era bravino a scuola – le borse di studio. Suor Letizia si recava in Alessandria, presso la Provincia; portava i nostri risultati e riuscì ad ottenere sia per me sia per mio fratello Paolo (un anno l’uno, il successivo l’altro) la borsa di studio. Troppo previdente!

I NOSTRI LOCALI: LE PULIZIE... ED ALTRO!

Tutti noi avevamo assegnato – chi più e chi meno – un qualche ruolo. Molto divertente era la pulizia del pavimento in cotto della ca-merata: i letti venivano trasportati sulla balconata, si puliva ben bene con segatura intrisa di lisoformio (quale e quanto bruciore al naso e agli occhi!), poi in ginocchio su pezze di lana grossolana si stendeva a mano la crema-cera di color rosso mattone; si lasciava poi asciugare e quindi uno di noi due “incaricati” della pulizia di fino, a turno, appoggiava i piedi sulla base in ferro di un pesante “spazzolone”, sotto la quale era stata ben affrancata una pezzuola in feltro; l’altro bambino – presa fra le mani l’asta dell’attrezzo – spingeva/tirava a viva forza! Dopo un po’ di “passate”, il divertimento vero e proprio iniziava: lanci a tutta forza da un lato all’altro del dormitorio, alternandosi nel “cavalcare il carico”! In questo modo ci si divertiva entrambi: piedi sulla base e mani aggrappa-te al bastone-manico di scopa. L’effetto era simile a quello di una scena da brillante “cartone animato”!

I vetri stretti e situati troppo in alto venivano nettati da noi bambi-ni più “grandi” - poggiando i piedi sulla scala ben aperta – utilizzando bacinelle/secchi di acqua entro cui si immergevano solo e soltanto pal-

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lottolone di carta da giornale “quotidiano” (era “La Stampa” di Torino!); l’effetto era a dir poco sorprendente, meraviglioso! Niente vetril o simili, e tutto luccicava davvero.

E poi la “rastrelliera” delle tantissime scarpe da tirar pulite come specchi. Ed erano tutte mio “appannaggio”! Le separavo per colore e quindi le “impiastravo” di lucido; la mia vera e propria gioia (perché provavo veramente un gran piacere nell’adempiere quell’incarico) era la fase della lucidatura: lasciavo rinsecchire il lucido in pasta della Brill e poi giù di gomito e spazzola, a “tirarlo”! Alla fine erano tutte lì, in bella mostra, come tanti soldatini un po’ neri, un po’ testa di moro! Come ricordo bene le scatolotte di crema, formato comunità!

E - lucidate le scarpe - era molto breve il passo per dirigermi verso il piccolissimo locale (un vero “buchetto”!) situato nel primo ammez-zato del nostro “nobiliar scalone”, a ridosso del quale fanno ancor oggi bella mostra di sé tante lapidi che ricordano i benefattori dell’antico ospedale. E chi vi trovavo, quasi rintanato, in quel “buco”? Un omino piccolo, minuto: il ciabattino-calzolaio dell’ospedale. Lo “torturavo” con mille domande riferite all’utilizzo dei chiodini dalle varie forme e misu-re, alla particolare forma del martelletto, al piccolo tavolino da lavoro, alle colle, agli attrezzi “magici”; e con lui, all’ultimo piano – il sottotetto, completamente aperto all’aria, sul fianco prospiciente il nostro cortile – un altro artigiano, soggetto memorabile: il materassaio che mi raccon-tava: “In tempo di azioni post belliche dietro questi materassi venivano a nascondersi i partigiani tortonesi”. Ed io avevo una gran paura di quel luogo, pur fascinoso, per quella stranissima macchina che lui quotidia-namente adoperava: la cardatrice.

Suor Letizia sapeva di queste mie periodiche frequentazioni... e mi lasciava libero di agire. D’altra parte: non si aveva altro diversivo!

E poi c’era il locale detto “il parlatorio”, il più segreto; lì avvenivano i colloqui riservati e personali con i parenti/genitori (pochissimi!) dei bambini; e pure il luogo delle c.d. “ramanzine”, come le denominava la suora! Ma era pure la sede deputata – anno per anno – ad ospitare il grande presepio, montato a blocchi e illuminato con effetti giorno/sera/notte/alba determinati da un congegno a dir poco magico, situato sotto il grande piano di appoggio... ma ne parlerò poi.

Una annotazione, breve, ma particolarmente emozionante: il mo-mento del bagno settimanale di noi bambini. Poiché non esisteva un locale doccia/vasca, la suora rimediava ricorrendo a un “accordo” con

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Figura 3 - Gli orfanelli di Villa Caritas

la consorella responsabile della lavanderia ospedaliera; a piccoli gruppi ci si incamminava verso la struttura denominata “Centrale termica”, la “Caldaia” (così noi la chiamavamo); al piano rialzato un ampio locale con dei “cilindroni” che ruotavano a grande velocità, producendo un fortissimo rumore. Erano le centrifughe che servivano ad asciugare le montagne di biancheria lavata, che poi andavano portate al piano su-periore, la c.d. “Lingeria”! (Come ricordo – al proposito – i tempi in cui salivo lì, “saltando” così la ricreazione per aiutare nello studio la giova-ne suor Giuseppina. E cosa utilizzavamo quale sussidio “scolastico” per la lettura? Udite, udite: una sorta di album-fumetto, stampato bianco/nero, recante la truce storia del martirio di Santa Maria Goretti! Non si aveva altro?! Mah!).

Grandi e profonde vasche in cemento di forma perfettamente qua-drata erano le nostre “piscine”. Tutti indossavamo sempre i mutandoni in tela bianca. Assolutamente vietato scoprire qualcosa. E si riusciva anche a giocare, scaraventando – pur in presenza della suora – acqua saponata un po’ dovunque! Beati noi: non vasca da bagno tipo famiglia, bensì due piccole piscinotte!

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Infine, quelli che oggi definiamo i “servizi igienici”, una serie di com-parti entro i quali stava la “turca” (non la “tazza”), una sola! E mi ricordo che sulla parete era dipinta l’immagine di un triangolo recante al suo interno un occhio e la scritta “Dio ti vede” (che cosa voleva significare?); a lato della “turca” il ripostiglio delle tante scope in saggina.

Ricordo che quando giunsi in questo orfanotrofio nel 1955/56 (pro-venivo, come taluni altri, non pochi, dai tre anni trascorsi a “Villa Ca-ritas” (Figura 3), sul Castello, ove ero stato mandato a causa dell’im-provviso e tragico decesso del mio papà, causato da una lisca di pesce o dall’ infausto intervento chirurgico operato da un medico non proprio sobrio) sul fianco del locale “servizi” era ubicato il “porcile” (casettina con piccolo spazio esterno), ricovero per un grosso suino. Era il povero maiale dal quale prelevavano un siringone di sangue, periodicamente. E quale impressione mi faceva l’osservare (io sempre curiosissimo) quel-la operazione! E l’emozione mista a paura nell’udire il lamento, urlato, dell’animale quando dovevano immobilizzarlo. Poi non lo vidi più. Spa-rito.

L’ESTATE… LE COLONIE ESTIVE... E IL “FERMO-TRENO”...

D’obbligo la menzione di un fatto. Mi trovavo in classe, allo Sco-lastico di Corso Romita. Entra una signora che apostrofa con cipiglio, quasi imperiosa, noi tutti, ancora molto piccoli: “Chi di voi non ha fatto la vaccinazione alzi la mano!”. Ed io la sollevai...mah, perché poi...? era veramente – o forse – un gesto di mero ossequio, obbedienza ad un adulto: alzo la mano e stop! Così fu che molto probabilmente io ave-vo già “subito” un intervento vaccinale poco prima, per interessamento della suora. Due in 15 giorni! E la reazione fu una sorta di infezione al braccio (reazione allergica abnorme?) che si tramutò in brevissimo tempo in una sorta di grande e molto profonda “caverna nera”, per for-tuna non troppo dolente ma ...puzzolentissima! Suor Letizia, oltremodo allarmata, mi mise a letto. Situazione decisamente obbligata, questa, per giorni e giorni, con febbre molto elevata. Conclusione: tutti gli altri in colonia-premio (Figura 4); io in collegio, solo ed unico! Ma con la “compagnia” - oh come ricordo bene! - di un grande, grandissimo libro illustrato: “Le avventure del Barone di Munchausen”. (lo cercherò, per leggerlo ai nostri nipotini!).

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Figure 4/4bis - In colonia

Suor Letizia già in primavera si muoveva lesta lesta sia in Comune sia nella sede provinciale dell’ENAOLI – Ente Nazionale per l’Assistenza agli Orfani dei Lavoratori Italiani, ente oggi disciolto. Doveva prenotare – e per ciascun bambino quella più “calzante” - la colonia marina e/o montana, anche su più turni.

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E così: Albenga, San Remo, Frassinetto Canavese, Villa di Praly, Sant’Anna di Bellino-Casteldelfino, Caldirola, Antronapiana, Marina di Massa, ecc. Tutti luoghi fantastici e con trattamento assistenziale vera-mente al top. Un gran piacere ed un ottimo ricordo, almeno per ciò che mi riguarda.

Un piccolo ma significativo aneddoto, giusto per sottolineare la “forza” della Nostra. Venne il tempo in cui Suor Letizia ci aspettò – al rientro dalla colonia estiva – in Stazione Centrale a Milano. Ci raggrup-pò e ci condusse al treno che avrebbe dovuto riportarci a Tortona. Si chiacchierava...e il tempo passava tranquillamente. A Voghera interven-ne il controllore, il quale sbottò: “Questo treno non ferma a Tortona!”. Panico...si chiama il Capotreno...tensione al massimo, che tutti noi bam-bini ben percepivamo. La Nostra supplica il funzionario, che a un certo momento sparisce alla nostra vista, lasciandoci soli con il controllore. Il treno passa sotto la “passerella” e miracolosamente rallenta...sin quasi al limite del fermo-carrozza; il controllore ci intima di saltar giù tutti, suora in testa ….Quando si dice: “La Provvidenza!”.

LA GRANDE PASSIONE, VISCERALE A DIR POCO, PER LA MUSICA ED IL CANTO!... E NON SOLO!

Il suo era un vero e proprio “tormentone”! Suor Letizia - minuta mi-nuta – era un tipo “flessibile”; si muoveva veloce come una vespa, con pensieri e volontà assolutissimamente determinati. Ci prese ad uno ad uno e a quasi tutti praticamente impose l’apprendimento di uno stru-mento musicale: fisarmonica, chitarra, basso, pianoforte… Quest’ultimo toccò anche a me. Io però non volevo saperne. Già “saltavo” spesso la ricreazione a causa del ruolo di maestrino assegnatomi d’imperio e così mi ribellai. Punizione subitanea ed improvvisa. Quella sera stessa era prevista in un programma televisivo (avevamo avuto in regalo – forse dai Vigili – un enorme televisore piazzato e sospeso su un alto supporto in metallo) la trasmissione del film “La scoperta dell’America di Cristofo-ro Colombo”; tutti i miei compagni lì seduti ben benino nel locale-scuola a vederlo; io solo su di sopra, in camerata, a letto! Con le orecchie tese compresi che la “diabolica” suora aveva alzato oltre misura il volume della sigla iniziale del film. In pigiama e scalzo volai giù per lo scalone e – davanti a Lei – dissi: “Ti prego! Suonerò il pianoforte! Ma fammi stare

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qui a vedere il film!”. E così fu, per un triennio di lezioni settimanali! Ma studiavo e suonavo un po’ a malincuore. E non so come mai…

Ricordo molto bene il Maestro Remo Panario, barbiere, che mi in-segnava e provava il solfeggio ( mi recavo a piedi da Lui in negozio, sin oltre Porta Voghera) e un giovane musicista, alto e magro, di cui non rammento il nome. Forse del gruppo che si riuniva sopra il Bar Sport, davanti all’ospedale; conosceva Luigi Albertelli e addirittura suonava con Gianni Morandi in Galleria a Milano (a proposito, il prof. Albertelli, che fu mio insegnante di Educazione Fisica, lavorò poi in televisione, collaborando anche con Mike Bongiorno). Poi arrivò l’angelo del piano-forte, severa ed esigentissima, ma altrettanto fascinosissima! La signo-rina Graziella (oh come ricordo molto bene e con affetto anche la Sua mamma, che spesso veniva a trovare la nostra suora per confidarsi con Lei!). Ma era anche un po’ il mio piccolo “terrore” poiché era persona a dir poco perfezionista. Ma mi “innamorai” (=parolone! Ero poco più che un bimbetto!) delle sue ginocchia, lì quando suonavamo a quattro mani, fianco a fianco. Graziella era veramente una bellissima ragazza, che la nostra suor Letizia adorava; e da lei era pure molto, molto amata! Riuscivo ad intuire che tra le due si era instaurato un rapporto di confi-denza molto profondo. E ne ero un po’ geloso.

Tornando alla Musica: nacque il complessino denominato “I Pin-guini” (Figura 5), con tanto di divisa sagomata alla maniera della livrea di questo bellissimo animale (chi sa poi perché proprio quello? Solo molto recentemente ho scoperto che le divise vennero confezionate – su modello fornito dal Cappellano don Ferrarazzo – da una suorina

Figura 5 - I “Pinguini” e i “Piccoli Cantori” di Suor Letizia

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all’epoca giovane giovane, di nome suor Giuseppina Isacco, che fu anni dopo inviata a Lugano e a Faido, in Canton Ticino; oggi vive a Pallan-za); in un primo momento si suonava solo ed esclusivamente nel nostro “gran locale-scuola.! Via i tavolini e tutto il resto; si sistemavano ai due lati del palco le “quinte”, utili perché velavano e facevano da contorno a rappresentazioni/spettacoli vari.

Le occasioni sostanzialmente erano i compleanni della Madre Supe-riora (mi ricordo in particolare di una certa Suor Falco) e il Natale (con-servo il pieghevole che illustra il programma dettagliato della edizione 1963; 54 anni orsono! I miei due assoli: “Prima carezza” di Costantino de Crescenzo e “Piccolo montanaro” di Francesco Paolo Frontini). Poi il coretto dei più piccoli fra noi, denominato “I Piccoli Cantori”.

Rammento – infine – di aver suonato insieme agli amici “Pinguini” il brano intitolato “Quando quando quando”, scritto nel 1962 da Alberto Testa e cantato da Tony Renis, e, in assolo, “Per Elisa” del grandissimo Beethoven! Ciò sino all’ottobre 1964, anno in cui, dritto dritto, fui tra-sportato al Seminario Minore di Stazzano, ove non potei più avere a disposizione un pianoforte (e di ciò non fui tanto infelice); “girava” tra le classi solo un piccolo armonium, sempre tenuto gelosamente chiuso a chiave e sotto l’attenta sorveglianza del docente, certo don Allàrà.

Moltissimi anni dopo – però - ho avuto il desiderio di riprendere a suonare e ho acquistato lo strumento! Ma – si sa – le mille cose, il lavo-ro, ecc... Mi auguro che qualche nipotino, un domani…

Del nostro complessino “I Pinguini” si fa cenno – e con due belle foto alle pagine 66,67 e 91 - in un bel testo curato da Pietro Porta (musi-cista, lavorava presso la cucina dell’ospedale!), intitolato “Liverpool, via Emilia – Storia della musica Pop tortonese (anni sessanta e dintorni)”. Ho potuto recuperare anche un breve filmato bianco/nero/muto che li vede protagonisti finali in Piazza del Duomo a Tortona, in occasione del Carnevale cittadino del 1967.

Suor Letizia amava moltissimo anche il teatro e il balletto. A proposi-to di quest’ultimo: rammento nettamente che ci procurò le calzamaglie nere, il tutù e le scarpette nere e ci vestì da ballerine! Tutti maschietti... tant’è che le suore dell’ospedale, spettatrici uniche e privilegiate della rappresentazione “La danza delle ore”, si domandavano allibite da dove fossero “sbucate” quelle bambine, in un istituto di soli masch.! Tanto eravamo troppo ben “agghindati/e”! La “diabolica” pensò altresì di far infilare sotto il tessuto un filo elettrico che portava la luce ai piedi, alle mani e sulla coroncina in fronte...da una batteria piatta nascosta dietro

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la schiena! Incredibile spettacolo musical-danzante! Ma riuscì assoluta-mente perfetto!

Stessa cosa per la compagnia teatrale ( non ricordo se le avesse assegnato un nome). Al cinema teatro “Sociale” recitammo un pezzo legato al mondo dei “Romani”; io in particolare indossavo la divisa da centurione, sul capo un elmo con pennacchio che era talmente fuo-ri misura rispetto alla mia testa da recarmi un certo fastidio, per non dire dolore (di cui dovevo assolutamente tacere!): nella parte interna sporgevano delle asperità, quasi dei chiodini. Ma ero timidissimo e non rammentai, a un certo punto, le parole del testo. Mi misi a piangere a dirotto e, mentre le moltissime persone presenti applaudivano con forza gettando sul palco quantità esagerata di caramelle, io continuavo a piangere. Qualcuno mi “prelevò” da dietro, oltre le “quinte”. Ed io vidi gli altri letteralmente tuffarsi sulle caramelle...

Ancora una “chicca”. Suor Letizia e don Lorenzo Ferrarazzo (Cappel-lano all’Ospedale) – con la collaborazione se non erro del Padre Guar-diano del locale Convento dei Cappuccini, che aveva l’incarico di Assi-stente Spirituale presso gli studi RAI a Milano-Corso Sempione – misero in piedi la “copia” dello spettacolo televisivo, all’epoca “furoreggiante”, “Lascia o raddoppia” (da rappresentarsi sempre “in edizione riservata” nei nostri locali). Mio fratello Paolo era vestito elegantemente da pre-sentatore “giacca e cravatta” per ricoprire il ruolo di Mike Bongiorno; un ragazzo di nome Luigi Zanone – detto Ginetto – alto e snello im-personò la prima valletta della trasmissione, la famosissima Edy Cam-pagnoli. Risultato: suore letteralmente ultra scandalizzate, per l’evento così congegnato!

Recentemente ho avuto il piacere di incontrare, tramite i social, “uno di noi”, Franco Cipollini, che ha aggiunto al mio un altro ricordo chiedemdomi: “E sai che ruolo ebbi io in questo particolare contesto scenico? Ti ricordi che era stato costruito e dipinto un alto e stretto pannello-orologio? Ero celato dietro questo pannello e ruotavo le lan-cette per segnare il tempo, cronometrato, delle risposte!”. Bellissimo dettaglio! Ad ognuno di noi il suo compito!

E come non citare che ci furono portati anche abiti da scena indos-sati da Marisa Del Frate. Mamma mia! Quella suora, quel prete, quel frate... tutti e tre formavano una sorta di “tragedia comicissima”!

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Figura 6 - In colonia ad Albenga

LA SALUTE DEI SUOI BAMBINI... E I NOSTRI RAPPORTI CON L’OSPEDALE

Io – così ho accennato prima – provenivo da un triennio buio, “vis-suto” in un’ altra storica istituzione-orfanotrofio cittadina, gestita dalle suore di don Orione, nella residenza situata in zona Castello e denomi-nata “Villa Caritas”. E fu non proprio una “passeggiata, ma non desidero entrare nei dettagli... acqua passata, come si dice!

Una piccola fotografia in bianco/nero (Figura 6) mi ritrae – quasi fossi un bimbo “biafrano” non di colore - sulla spiaggia di Albenga (pen-so proprio si tratti di questa località!).

È un’ immagine particolarmente toccante: magrissimo, anzi ossuto, e praticamente “tutto storto”! E così fu che la Nostra – sin dai primissimi giorni del mio nuovo soggiorno sotto le Sue “grinfie” - mi affidò alle cure del Primario e del suo Vice nel Reparto di Ortopedia (Prof. Rinaldi e Dr. Rolandi) grazie alla mediazione della suora caposala della sala operato-ria, la carissima ed indimenticabile suor Giacinta (di bella massa e non molto alta! - Figura 7).

Visite specialistiche, lettino “Marconi” in Radiologia, esercizi “a mo’ quasi di tortura” per raddrizzare lentamente ma inesorabilmente la mia povera colonna vertebrale, corsetto e calzari-solette in ferro per anni e anni (e che dolori, quasi un cilicio con piaghette sotto le ascelle e ai fian-chi!; e, praticamente tutti i giorni, iniezioni endovenose di Calcibronat Sandoz 5 cc., senza utilizzare laccio emostatico, che suor Giacinta e/o il suo infermiere di fiducia (un certo signor Fiori, simpaticissimo e forzuto, che minacciava di legarmi ad un seggiolino di trazione appeso al soffitto con una lunga e terrificante catenella!) mi “sparavano” a turno e assai velocemente, tant’è che diventavo tutto rosso e caldissimo in viso.

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Figura 7 - Al centro Suor Giacinta, Capo Sala operatoria di ortopedia

Ma l’occasione era propizia per chieder lumi su tutto ciò che, ben in ordine, era contenuto all’interno delle vetrinette della “saletta au-toclave”, antistante la sala operatoria vera e propria; conoscevo così tutta la strumentazione e le apparecchiature. Addirittura in un tubo-autoclave dismesso mi consentirono di realizzare un piccolo presepio! Già da bimbo rompevo le scatole a chicchessia. Ma adoravo sapere, conoscere tutto.

I due specialisti mi suggerivano un bell’esercizio da praticare “in strada” (e la suora era particolarmente attenta a che io lo eseguissi): camminare non sulla parte piano-calpestio del marciapiedi bensì dritto-dritto sul solo cordolo. E per anni, andando e tornando da scuola, così mi comportai.

Altri miei compagni potranno sicuramente confermare i miei ricor-di: uno di Loro mi ha detto recentemente che ebbe letteralmente sal-vata la vita dalla giovane suora: si trattava nientemeno che di tetano!

Il nostro – e in particolare mio – rapporto con l’Ospedale (opera-tori ed ambienti tutti) era di totale confidenza: ci si muoveva come veri “topolini”, con estrema facilità e sicurezza nel nostro piccolo-grande mondo vitale. E tutti ovviamente ci volevano un gran dell’anima, so-prattutto le suore dei vari reparti/servizi. Come non ricordare suor Pia

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(Economato), suor Francesca (ospizio dei vecchi), suor Aurelia (Medici-na Donne, la suora di Fausto Coppi e della Dama Bianca), suor Cecilia (Medicina Uomini che mi curò per una pericolosa forma di morbillo e tosse asinina, unico bambino in un grandissimo salone), suor Martina (Maternità), suor Giovanna (sala operatoria di Chirurgia Generale che mi “presidiò” una spaventevole epistassi!), suor Luisa (Reparto di Orto-pedia) e la sorella suor Giuseppina (Lingeria-guardaroba), le Superiore: suor Raisi (poi destinata all’Ospedale Civico di Lugano) e suor Falco; e molte altre il cui nome si è “perso” nei meandri del tempo che fu...Un ultimissimo, piccolo, ma per me molto significativo aneddoto: venne ri-coverato in Ortopedia un bimbo di 4/5 anni; arrivava dal locale “Piccolo Cottolengo” di don Orione. Si chiamava Arturo e gli avevano ingessato per intero il bacino e gli arti inferiori, divaricandoli. Non potendosi alza-re lui dal letto, io venni “incaricato” dalla Nostra di tenergli compagnia per l’intero suo soggiorno in reparto (e così “saltava” il mio momento di ricreazione/gioco con gli altri!); fu così che escogitai un bel modo per intrattenerlo: portare al suo letto le mie molte scatole del “Latte Mellin” che contenevano – ciascuna – almeno cento cartoline illustrate: tutte città italiane, in bianco/nero. Il gioco vero consisteva nel tenere a me-moria ciascuna veduta. Così passavano le ore, i giorni, le settimane! Alla fine, all’atto della sua dimissione, tanta fu la sua insistenza che do-vetti cedere: gli regalai tutte le mie cartoline, quasi mille! Andò così. Mi spiacque non poco ma fui molto molto felice per averlo reso un poco contento! Piccolino...

IL CARNEVALE – IL CARRO DELL’OSPEDALE, ANNO DOPO ANNO

Bellissimo sarebbe ritrovare gli album fotografici che conservava gelosamente il Cappellano dell’ospedale, don Lorenzo Ferrarazzo. Era Lui il regista, l’ideatore, l’ingegnere che sovrintendeva a tutte le fasi di realizzazione dei manufatti, veramente complessi, grandiosi e tutti semoventi. Come non ricordare “Fantasia orientale”, “Africa nera”, “Le Lunatiche”, e molti altri. Noi bambini più grandicelli – si fa per dire – era-vamo gli “addetti alla pappetta” (acqua calda e farina=colla) da produr-re nella cucina centrale dell’ospedale; la sera, fieri perché “promossi”, non andavamo a letto come gli altri. Poi a raccattare – nei sotterranei,

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Figura 8 - Carnevale tortonese – carro allegorico dell’ospedale

in particolare nel locale “deposito-carta” - gli involucri delle lastre ra-diografiche FERRANIA, di colore giallo-polenta, per ridurli a striscioline sottili; idem per i fogli di quotidiano, intrisi in acqua e “pappetta”, per rivestire i tantissimi calchi in gesso (ospedaliero!) realizzati dal fantasti-co don Lorenzo. E che meraviglia, poi, le mani! Mi immaginavo quelle di Michelangelo. Si portava poi il tutto ad asciugare sopra il piano in cemento della “camera calda”, a lato della lavanderia. E il giorno se-guente, tutto era pronto per le varie mani di colore.

Come non ricordare i gorilla enormi che venivano fatti roteare a mano girando manovelle con catene da bici! Un enorme leone in pro-cinto di aggredire con un grande balzo in avanti, tutto proteso per l’in-tera lunghezza del carro ed oltre. Sospeso in aria! E poi l’enorme bale-na dalla immensa bocca, spalancatissima, dal cui palato scendeva una fune cui era “assicurato e penzolante” (per tutta la durata della sfilata!) il più piccolo e leggero tra noi!

Ho una fotografia che mi/ci ritrae vestiti da sirenette! (Figura 8) E quando fu il momento di salire sulla scala che portava al piano alto della giuria – per la cerimonia della premiazione - ...la lunga cucitura sul retro del costume si aprì per intero e ...noi, mutandine all’aria, poverel-li! E quando ci dipinsero completamente di nero utilizzando tappi in su-ghero bruciati: i neretti per il carro dell’Africa, trainato da una enorme tartaruga che rivestiva completamente il trattore. E a fine delle sfilate

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– ricordo bene – il pittore-artista amico del don ci caricava nel bagagliaio della sua “Topolino” e ci portava in giro per la città. Felicità grande!

Suor Letizia qualche rara volta – messi a letto i piccolini – veniva a curiosare nei sotterranei dell’ospedale, ma gli operai (fabbri, idraulici, impiantisti, falegnami, portinai...) Le impedivano di metter naso.

Il carro era segreto, sino all’ultimo momento prima dell’uscita. E quell’anno delle “Lunatiche”, altissime figure di donne dello spazio, (sot-to stavano ritti su trampoli dei “volontari”): venne modificato all’ultimo momento il percorso in via Emilia, poiché l’enorme mezzaluna d’argento affrancata sul carro in posizione ortogonale non passava e urtava contro i balconi...! E così manovre su manovre, avanti e indietro. Uno spasso per noi e per la suora, una tragedia per gli organizzatori e un gran movi-mento di popolo, da una via all’altra!

IL PRESEPIO... ANZI, I PRESEPI! ...E ALTRO

Già ho fatto un breve cenno a quello, molto grande e completa-mente automatizzato, che realizzavamo con don Lorenzo all’interno del locale “parlatorio”; veniva parecchia gente, dall’esterno, a visitarlo. Era costituito da grandi blocchi numerati per agevolarne il posizionamento, anno dopo anno. Era un po’ il “pallino” di quel don, che ad ogni occa-sione si manifestava come una sorta di “mancato architetto-ingegnere” (come non far cenno ai suoi interventi di abbellimento della casa na-tia nel piccolo borgo di Sorli?). Ricordo benissimo che aveva anche una gran passione per il modellismo: trenino (avevamo realizzato un grande plastico) ed aereo. A riguardo è stata una gran prova di abilità e coraggio l’esser riusciti a costruirne uno – parecchio ampio d’ali – in leggerissimo legno di balsa; ma al primo volo: inesorabile schianto!

E poi – sempre discorrendo del gran presepio – come non meravi-gliarsi per l’effetto fascinoso dell’alternanza giorno/notte? Sotto al piano di appoggio del “costrutto” penzolava un contenitore di acqua satura di sale, al cui interno scendeva e saliva una sorta di “pendolino”; questo congegno elettrico procurava lo “sfumare” della luce e il conseguente magnifico effetto alba/tramonto!

Inoltre, in tutti i reparti-servizi amministrativi riuscivo a costruire con i più disparati materiali di recupero (assicelle in legno-paglia-carta/cartone-tappi di sughero ovvero capsule di metallo) piccoli presepietti

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che “mettevo a gara” tra di loro! Mi è sempre molto piaciuto realizzar-li! E a ciò venivo “invogliato e spinto” dalla solita suor Letizia! Questa passione – nata in tenera età – mi è rimasta sino ad oggi! Anni orsono riuscii ad organizzare e realizzare un bellissimo presepe vivente con i bambini e i genitori della scuola materna frequentata dalla nostra pic-cola Alessandra! E, in questa stessa realtà scolastica, per tre anni con-secutivi i bellissimi carri di carnevale: i “Puffi blu”, la “Primavera”, la “Pace”, coinvolgendo veramente tutti i genitori delle due sezioni. Un grande successo, di partecipazione, d’effetto e di allegria!

IL SERVIZIO DA CHIERICHETTO

Tutti noi – ma io in particolare – eravamo da suor Letizia “assunti a tempo pieno” sia per il servizio alla Santa Messa, che quotidianamente veniva celebrata nella Cappellina bianca (a lato di via Sada), per le sole suore ospedaliere, in orario super mattutino ( ricordo che a fatica, dato il gran sonno incombente, riuscivo per tempo ad agitare il campanel-lo al momento della “Elevazione del Santissimo Sacramento”), sia per l’altrettanto quotidiana solenne “Benedizione Eucaristica” (ore 14,00-14,30) nella “Cappella Grande” dell’ospedale, in fondo a un lungo corri-doio, in fondo a Medicina Donne. E qui – come nella Messa domenicale – erano i “dolori”, vale a dire quelli procurati sia dal fumo delle candele sia da quello dell’incenso del turibolo. Io quasi sempre avevo un man-camento, che servissi come ministrante chierichetto ovvero che fossi tra le panche, al mio solito posto in prima fila. Allora accadeva che la suora mi prendesse al volo e mi portasse in fondo alla Cappella; steso sull’ultima panca dovevo ogni volta assoggettarmi al “rito del naso”: una anziana signora ospite nel Ricovero dei Vecchi ( forse l’unica pagan-te la camera singola, oggi si direbbe solvente, insegnante di educazio-ne fisica nelle storiche parate per la gioia e la gloria del Duce Mussolini ) apriva la borsetta nera- l’ho ancora davanti agli occhi -, estraeva una boccetta, me la avvicinava alle narici ed io balzavo seduto come lo scat-to di una molla. Ed ogni volta era così!

Poi, come ricordo quella “camera singola n° 2” (o n° 4) di Medicina Donne, nella quale era stato ricoverato un uomo importante, di nome Fausto Coppi! Tutti i pomeriggi, alla stessa ora (le 14,00), vi passavo davanti e osservavo con curiosità la bambagia infissa lungo tutto l’orlo

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della porta di accesso. Sapevo che lì dentro lui era gravemente amma-lato, ma di che? E allora il “Dino chierichetto” di lì a qualche minuto era in Cappella, a pregare soprattutto per quell’unico maschio ricoverato nella sezione femminile, diretta dal prof. Astaldi. E nei primissimi giorni di gennaio suor Letizia al momento della colazione ci legge la prima no-tizia della prima pagina del quotidiano “La Stampa” di Torino! La sento ancora – e da anni - tutte le volte che in televisione pronunciano quel nome -: “Coppi è morto!”.

E venne – credo si trattasse della fine di agosto 1958 – il Cardinal Roncalli a Tortona, in occasione dell’annuale Festa della Madonna della Guardia. Pronta a terra era l’altissima statua in fusione di rame dorato (le famose pignatte di don Orione). Ricordo che servii da chierichetto anche in questa occasione, quando Lui si presentò – nella stessa gior-nata – per una visita all’ospedale! Tanto mi piacerebbe averne qualche fotografia! Magari nell’archivio....

Da ultimo: spicca nella Cappella grande, sopra l’altare, una bellis-sima statua bianca in marmo della Madonna Immacolata Il manufatto della grande nuvola che sta ai Suoi piedi non è di marmo e/o gesso, ben-sì è in cartapesta, realizzata dai ragazzi di suor Letizia sotto la direzione dell’artista don Lorenzo!

GIORNALI, CANARINI, BACI....TUTTO PER LA MUSICA

Chi tra i tortonesi d.o.c. non ricorda la “signora Regina”, titolare per molti anni dell’edicola situata nel piazzale dell’ospedale, a pochi pas-si dalla storica latteria dell’Angiuléi (a proposito, anche questa famiglia era molto legata a suor Letizia, un grande amore!). E come lei, anche le Suore di San Paolo (all’epoca il loro negozio di articoli sacri e libreria “di settore” si trovava in piazza Gavino Lugano) fornivano lavoro alla Nostra e – per il suo tramite – a noi piccoli apprendisti-venditori di giornali.

Tutte le settimane, la domenica mattina se non vado errato, qua-ranta numeri de “La Stampa” di Torino, quaranta de “La Gazzetta dello Sport” e due pesanti pacchi, con laccio taglia-mano di “Famiglia Cri-stiana”.

Io ero allora timidissimo, assai minuto e molto poco forzuto, però il tratto di strada dalle “Paoline” all’ospedale lo ricordo benissimo; da-

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vanti alla porta di accesso di ogni camera di degenza tremavo come una foglia, “facendo le prove” del “busso sì busso no” a pochi centimetri dalla porta! E appena entrato dicevo a tutti e a ciascuno la solita, unica frasetta: “Vuole un giornale?”. E così, uno dopo l’altro, partendo dalla camera n° 2 dell’Ortopedia (la n° 1 non esisteva!) passavo di reparto in reparto e li vendevo tutti! Tornavo dalla signora Regina che regalava a me un giornaletto di “Topolino” e alla suora un po’ di soldi per “pagare” gli insegnanti di musica. Ma non so di che importo.

Ma, per dirla tutta, non posso omettere che in quella stessa ca-mera n° 2 mi capitò di incontrare un signore il quale – alla mia solita domanda – mi chiese: “Chi sei e perché fai questo?”; risposi: “Sono un bambino di suor Letizia e vendo i giornali per la musica!”. Lui e la signo-ra che sedeva a lato del suo letto mi chiesero di lasciare tutti e ottanta i giornali; me li pagarono e tornai da Regina che, pur meravigliata per la mia super-velocità, mi “caricò” di altrettanti pezzi. Seppi poi di chi si trattava: nominato Direttore artistico nell’edizione del Festival di San Remo di quell’anno, in prossimità del casello autostradale di Tortona aveva avuto un gravissimo incidente con ricovero in ospedale. Ho an-cora ben chiaro dinanzi agli occhi l’immagine dei pesi-tiranti del “gam-bone” ingessato, come “appeso”. Era Lelio Luttazzi! Pochi mesi prima di venir a mancare lo udii in un programma televisivo citare l’incidente stradale e il ricovero a Tortona. Mi sono subito detto: “Sta a vedere che adesso, se va ancora un po’ nel dettaglio, ricorderà di quel bimbo ‘gior-nalaio’!”. Si zittì. Forse non volle procurarmi forti emozioni!

Gli uccellini di suor Letizia: nel locale-scuola – appese in alto sulle teste di quei bambini che studiavano sotto le vetrate – erano diverse gabbiette: canarini, cardellini, bengalini, pappagallini, passione grande, viscerale della Nostra! Lei riusciva a “moltiplicarli” e mi incaricava di portare a due a due le ingombranti gabbie – colme di volatili schiamaz-zanti – a casa di un certo signor Vaccari, che abitava all’ultimo piano di un alto palazzo sito a Porta Voghera, senza ascensore.

Il ricavato della vendita di tutto ciò serviva per “finanziare” il pro-getto musical-canoro de “I Pinguini” e de “I Piccoli Cantori”.

E, infine, i “Baci”. Quelli della ditta Zanotti. La suora “benedetta” conosceva la famiglia dei pasticceri che risiedeva e lavorava in una vil-letta in stile, non troppo distante dall’ospedale; nel seminterrato si pro-ducevano i “Baci di dama” - in pasta di nocciole – ricoperti da un fogliet-to di carta stagnola color argento. Ebbene, Lei mi “inviava in missione” in quella cantinetta ed io per ore e ore, con le mie piccole manine in-

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cartavo ed incartavo ed incartavo (lo ripeto più volte... perché il lavoro non finiva mai!!!) quelle golosissime palline iper-profumatissime. Tutto questo ambaradan di travaglio sempre con lo scopo ultimo di finanziare il progetto musicale de “I Pinguini” e il costo dei vari maestri.

ALTRE VARIE VICENDE

1 – Non rammento in quale anno – ma presumo intorno al 1962-63 – venne il momento in cui da Parigi – ove era ubicata la Casa Madre Generalizia della Congregazione – arrivò a Torino e poi anche a Tor-tona un libretto in lingua francese, recante le “istruzioni sartoriali” per la realizzazione della nuova divisa – più moderna e pratica - delle “Figlie della Carità”. Suor Letizia si dichiarò disponibile – nei riguardi della Madre Superiora – a “pensarci Lei”! E mi chiamò in disparte asse-gnandomi l’ incarico della traduzione. D’altra parte Lei era sicurissima del fatto che“in primis” non avrei negato il mio “sì” e “in secundis” non avrei tradotto male il manualetto; aveva un ottimo rapporto di amicizia e di confidenza con la nostra insegnante di lingua francese al “Carbone”, la grande professoressa Sforzini, e il sottoscritto – visti i voti in pagella – era sicuramente il più adatto alla bisogna.

2 – Venne quell’anno la festa patronale. La chiesa dell’ospedale, ovviamente, non era costituita in parrocchia, ma era invece “legata” a quella di San Michele Arcangelo, in via Emilia. La “benedetta” suo-rina pensò bene di escogitare uno scherzetto a quel “tontolone” che sta scrivendo questo testo-memoria. Mi disse, molto seriosamente: “Oggi ricorre la festività di San Michele, il protettore e patrono di noi tutti parrocchiani che viviamo in ospedale; mi serve che tu vada dal Parroco, personalmente da Lui, e gli chieda di togliere e consegnarti una penna dell’ala del Santo. E così, di corsa, correndo e ben fiero dell’incarico a me solo affidato in gran segretezza, mi recai da quel sant’uomo del Parroco pro tempore, don Tosetti, religioso orionino, un tipo piuttosto serio. Non appena ebbi terminato di proferire verbo – secondo consegna – il Signor Parroco letteralmente scoppiò in una fragorosa risata, peraltro senza spiegarmi nulla. Giocoforza compresi il tranello, la presa in giro! E quatto quatto, senza neppur farmi vedere dalla Nostra, tornai al mio “quotidiano”;.e non mi ricordo come andò poi…

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3 – I regali di Natale.... Mediamente si era in una quindicina di pargoli, “sotto le gonne” di Mamma Letizia. Arrivava il Santo Natale. Ne ricordo in particolare molto molto bene uno. Val bene una piccola premessa. Il mio maestro (non ricordo in quale anno preciso della fre-quenza alla scuola elementare) di cognome “Melone” possedeva una cartolibreria ubicata in fondo alla centralissima via Emilia, nelle vicinan-ze della storica pasticceria Casali. Avremo dovuto recarci spesso da Lui per l’acquisto di vari articoli, non indispensabili ma sicuramente “con-sigliati” per la miglior riuscita sia della didattica sia dell’apprendimen-to. La Nostra suor Letizia non disponeva certamente di ampie risorse economiche...Ricordo che in vetrina, un giorno, apparve un oggetto per me “magico”, il “Coloredo”: una tavoletta in plastica bianca, “forellata” e dotata di moltissimi “chiodini” colorati, atti a dar forma a svariate fi-gure: una barchetta, una casetta, un cavallino, ecc. ecc. Ricordo ancora – e benissimo – il suo prezzo : settemila lire! Inarrivabile per me/noi/la suora! Ma ne rimasi letteralmente stregato.

Fu così che giunto il tempo della letterina di Natale, io espressi quel desiderio. La santa fatidica mattina, di corsa, ci recammo – come tutti gli anni – nel saloncino della Casa delle Suore, situata al primo piano, proprio sopra l’ospizio dei vecchi. Mi fiondai al mio posto – segnato dal cartellino recante il nome – e... vi trovai un paio di scarpe-pantofole di colore nero, di foggia tipica “da suora”, nuovissime e di un nume-ro almeno due volte quello del mio piedino. Però all’interno c’era un sacchettone di noccioline americane: del “Coloredo” tanto agognato neppure l’ombra! Ho sùbito trattenuto le lacrime pensando: costava troppo! E tutto finì lì... forse!?

Rimase – questo piccolo episodio – dentro di me per oltre cinquan-ta anni. Ne feci parola – un giorno – alle mie carissime quattro colleghe d’ufficio, l’ultimo in cui lavorai... Ebbene, il giorno della grandiosa festa del mio pensionamento cosa mi regalarono – ovviamente tra ben al-tro!?... un bel “Coloredo”! Che oggi diverte molto il nostro bellissimo nipotino Diego. Troppo, troppo carine e sensibili. Grazie a loro.

Vi domanderete: “Perché raccontare tutto ciò?”; ed ecco lo spunto. Nel fascicolo 108 del Bollettino “Julia Dertona” dedicato alla storia e alla memoria dell’amatissimo Wilmer Graziano, industriale e già Pre-sidente dell’ospedale cittadino (oh come lo ricordo bene pure io, che lo vidi un fatidico giorno alla guida della sua auto, in procinto di usci-re dal nosocomio, piegarsi d’improvviso sul volante attivando così un subitaneo, improvviso e fortissimo suono del clacson!), a pagina 172,

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nell’ intervista alla signora Angela Scaccheri, dipendente della ditta dal 1965 al 1986 e molto vicina a lui, si legge: “Wilmer Graziano era molto generoso. A Tortona manteneva ottimi rapporti con suor Letizia dell’Or-fanotrofio San Giuseppe dell’ospedale. I bambini di suor Letizia, a Na-tale, dovevano avere il regalo e la raccomandazione era: “Non si metta in testa di scegliere per loro: li deve portare uno per uno perché se lo devono scegliere loro il regalo!”.

Ma la suorina, ne sono certissimo, buona parte di quel denaro che in ogni modo e da ogni luogo avesse ricevuto per Natale lo impiegava per “rinforzare” i singoli libretti/depositi di risparmio nominativi, aperti presso la Cassa di Risparmio in piazza del Duomo, intestati ai suoi bam-bini!

4 – Le due biciclette, di colore blu l’una e verde scuro l’altra – la mia “vocazione” - l’icona...il tutto è ben “legato” assieme!

Regalarono – credo i Vigili – all’orfanotrofio due bici, di misura adat-ta alle nostre gambette: quella blu, più bassa; più altina quella color ver-de scuro. A “inforcare” quest’ultima aspiravamo un po’ tutti. Lo spazio vitale per poterle utilizzare era solo quello del nostro cortiletto. E la bici fu la mia grande passione, sin da quel tempo, legata anche al mio idolo: Fausto Coppi.

Questo il doveroso ed utile preambolo. Di che?... ed ecco il séguito.Un pomeriggio – siamo attorno alle ore 14,00 – la Nostra all’improv-

viso mi apostrofa: “E tu, dopo la terza commerciale, cosa vuoi fare?”. Io, preso veramente alla sprovvista, rispondo: “Vorrei fare Ragioneria, come mio fratello Paolo!”. In effetti, non avrei saputo rispondere altri-menti: non avevo altro davanti a me. Sino ad allora – e avevo 14 anni appena compiuti, 11 dei quali trascorsi in orfanotrofi – non avevo avuto l’occasione di conoscere nulla di ciò che stava fuori, nella vita.

La suora, abbastanza “cipigliosa” (più esattamente sarebbe scrivere “imperiosa”) mi aggiunse: “No, no! Tu entri in Seminario!”. Ed io: “Ma suor Letizia io non ho nulla da portare in quella scuola, neppure una carriola! (mi ero immaginato – per assimilazione analogica – che “Semi-nario” fosse un corso di studi legato alla terra e ai semi!). “Ma no!” mi disse Lei; “Lì si va a studiare per diventare sacerdoti”. “E cosa occorre, allora?”. “Ci vuole la vocazione!”. “Che cosa è la vocazione?”. “È come una voce che senti dentro! Anzi, vai subito nella nostra Cappellina; stai lì un po’ e aspetta; vedrai che la senti!”. Io ho subito obbedito. Da solo, per ore, in quella chiesetta “bianca”, con le volte arricchite da “gessi”

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a sbalzo: angioletti, volute ... Fisso lo sguardo all’altare, poi sopra di esso. E lì scoprii che c’era una colomba, aggettante verso il basso. Mi ricordai che rappresentava lo Spirito Santo. Non potevo assolutamente dimenticarlo: qualche anno prima proprio lì era venuto il Vescovo – non ricordo se Monsignor Egisto Domenico Melchiori o il Vicario Monsignor Carlo Angeleri – il quale al mio vicino di “riga” aveva chiesto: “Quante e quali sono le Persone della Santissima Trinità?”. E quello – con gli occhi “puntati” dritti verso la Sacrestia ove era suor Letizia che cercava di suggerire - rispose: “Tre! Padre, Figliolo e... ar piviòu!”. (Il piccione!). La suora gli aveva fatto cenno con il dito di guardare sopra l’altare... E il Vescovo anziché il solito “buffetto” con due dita... un bel ceffone!

Ero seduto, ma alternavo la posizione genuflettendomi, per “im-plorare la voce”, quando un lume mi balenò nella mente. Stava appesa a parete, sul fondo della cappellina e alla destra dell’ingresso, una bella pendola; batteva dolcemente ogni quarto d’ora.

Ed io cosa mi “rappresento”? Vedere lo Spirito in alto e udire il sommesso, dolce suono dell’orologio... questa “mescola”, per me, in-genuo, era – forse o senza dubbio – la “voce”! Così, dopo parecchie ore tornai dalla suora e, stanchissimo, Le dissi: “Forse ho sentito la voce!” Lei, velocissima come un razzo, acchiappò la cornetta del telefono bei-ge impiantato alla parete del refettorio. La udii proferire verbo: “Don Lorenzo prepari subito la macchina (una Simca Montlery, ndr) che io preparo la valigia! Domani Dino lo porti in Seminario (a Stazzano, ndr)!”.

Poi mi rassicurò: “Le biciclette sono tue! Quando vorrai – alle uscite dal Seminario – verrai sempre qui e

potrai usarle; potrai andare anche fuori!”. Ero triste, ma anche un po’ contento: avrei potuto andare in bicicletta, libero almeno un po’! Presi subito una delle due biciclette e mi recai dietro l’ospedale, superato il “Loreto”, affrontai l’erta salita verso la torre del Castello; allo “Chalet” (sul declive prato antistante, tutti gli anni suor Letizia ci portava a far merenda al sacco il giorno di Pasquetta; come non ricordare le grandi ciotole di insalata e le uova sode che “scappavano” rotolando nell’erba, verso la strada? E poi i calci al pallone contro la collina dirupata da dove venivano giù tantissime conchiglie fossili!) presi la ripidissima discesa al fondo della quale sta il cinema-teatro “Sociale”; e giù all’impazzata, ignaro del grande pericolo determinato dal traffico d’auto sulla via!

Poi, nella piazzetta san Rocco, davanti ai bagni pubblici, mi ferma il signor Mutti, riparatore di cicli che aveva proprio lì vicino il suo negozio-officina. E mi dice: “Vuoi entrare nella mia squadra di ciclismo? È quella

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di Coppi! Ti ho visto dal mio finestrino come vai in bici!”. Gli risposi: “Ec-come se mi piacerebbe, ma suor Letizia dell’ospedale vuole che io vada in Seminario.” E la cosa finì lì.

Trascorsero molti, molti anni! Di pianti, di crisi, di studi intermina-bili, di tantissimi esami, di viaggi e di lavori (celati ai Superiori: un semi-narista non doveva assolutamente lavorare!), di Università...Poi l’uscita.

Trascorsero oltre venti anni: ho sempre voluto mantenere un qual-che contatto con Lei, nel frattempo venuta a vivere la sua nuova missio-ne a Milano.

E tra le mille e una mie passioni ci fu anche quella dello studio delle icone. Mi fu prosposto di frequentare – per ben nove mesi – un corso tenuto da un ingegnere di Milano (fautore tra l’altro dell’ingresso e dell’ utilizzo in Europa del c.d. “Codice a barre”!). La sede del corso fu – all’i-nizio – un gelido locale dell’oratorio. Il docente ci fece scegliere l’imma-gine da riprodurre in un bellissimo e grande calendario, edito da “Russia Nuova” o “Russia Cristiana”.

A me piacque una rappresentazione scenica particolarmente minia-turistica ed articolata, e molto “ricca”. Lui cercò di sconsigliarmi, poiché le figure – specie quelle umane – erano molte e con visi particolarmente minuti. Io insistei e fu così. Poi, quando ne lessi – sul retro – il titolo non ebbi alcunissimo dubbio: “Esaltazione dell’anima pura”! (Figura 9).

Il mio pensiero corse subito a Lei, alla mia amata suor Letizia. L’avrei ultimata con estremo impegno e particolare cura, seguendo la tecni-ca antica e usando i tradizionali “ingredienti” (polveri d’alabastro per i primi sette strati da applicare alla tavola lignea, colori minerali, uova, gomma lacca, ecc.). Una icona “pregata”, non solo “dipinta”.

Il Parroco, compagno di studi del già Vescovo di Novara Monsignor Corti, viste le nostre opere, apprezzate come belle e meritevoli, propo-se al Maestro di allestire una mostra in occasione della festa patronale parrocchiale. Tutti entusiasti! E Monsignore benedisse tutte le nostre icone.

Passò del tempo. E venni a sapere che un “brutto male” aveva ag-gredito la nostra suora. Ricoveri dopo ricoveri; alla fine l’ultimo sog-giorno presso la Casa Madre in San Salvario, a Torino. E lì mi recai, per due volte, a trovarLa. L’ultima con mio fratello Paolo. E portai con me il “legno pittato e pregato”: l’icona tanto col mio cuor lavorata! Presi in disparte la Madre Superiora e mi feci assicurare: “Non appena la suo-ra sarà deposta nella cassa funeraria, questa mia dovrà essere messa dentro, sopra la salma!”. Tranquillizzato, la presentai a suor Letizia e Le

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Figura 9 - Icona “Esaltazione dell’anima pura”

lessi il testo di un mio messaggio manoscritto su un foglio incollato sul retro della immagine. Lei mi disse che la trovava veramente bella, anzi troppo bella ed importante per esserne fatta oggetto di un regalo, e poi a Lei addirittura!

Quindi con un fil di voce: “Dimmi la verità: è vero che tu sei en-trato in Seminario per fare un piacere a me e vi sei rimasto, per tanti anni, per non farmi dispiacere?”. Io soggiunsi solo: “Suor Letizia, fai la brava e cerca di stare tranquilla!”. E ci lasciammo di lì a pochi minuti. Così, con quello scambio di ultima confidenza da parte Sua e di più che commossa rassicurazione da parte mia.

Neanche due giorni trascorsero. Seppi che ci aveva lasciato, per il Suo meritato Paradiso!

Da Torino a Milano: Lei avrebbe tanto desiderato essere seppellita nel piccolo cimitero di Chiaravalle, luogo di pace ubicato nella “zona di pertinenza civica” dell’Istituto milanese ove aveva operato negli ultimi anni di servizio caritativo. Ma ciò non fu possibile. Così la salma venne tumulata nel grande cimitero di Milano-Lambrate, ove ci rechiamo a trovarLa. Per noi più viva che mai!

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Figure 10/11 - Gli orfani e le suore dell’ospedale in gita a Venezia e a Roma

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Piace citare quanto è riportato nella piccolissima immaginetta fat-ta stampare dalla Congregazione delle Figlie della Carità in occasione del 50° (1938-1988, Errore: sorgente del riferimento non trovata) della Professione Religiosa di Suor Maria Letizia De Ponti ( il nome “Maria” fu aggiunto nel periodo di servizio milanese, nella portineria e pres-so l’oratorio femminile dell’Istituto San Vincenzo di Via Boncompagni, 18); sul fronte la frase-motto: “Nella semplicità del mio cuore Ti ho do-nato tutto con gioia”; sul retro: “Con riconoscenza a Dio, alla Comunità e ai Poveri”.

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Altresì mi pare bello partecipare a tutti coloro che avranno letto le mie/nostre piccole e semplici “memorie” il testo scritto dal confratello della Con-gregazione Padre Erminio Antonello – che tra l'altro ben conobbe la Nostra a Milano - quale presentazione del libro biografico di suor Giuseppina Nicoli – Figlia della Carità nativa di Casatisma (in processo di beatificazione avanzato):

“LA SANTITA' CRISTIANA È UN DONO OFFERTO A TUTTI.

NON È UNA VITA STRANA RISPETTO AL VIVERE QUOTIDIANO.

È SEMPLICEMENTE UN MODO DI ESISTERE E DI VIVERE,

CHE SI DIPANA SU DUE TRAIETTORIE CONVERGENTI:

L'APPARTENENZA SENZA RISERVE ALL'AMORE DI DIO

E IL SERVIZIO DELLA CARITA' VERSO I SUOI FRATELLI.

... SUOR LETIZIA ... (LO SCRIVO IO QUESTO BELLISSIMO NOME, IN LUOGO DI “SUOR NICOLI”)

LE HA VISSUTE ENTRAMBE CON UNO STILE DI UMILTA' E SEMPLICITA',

PROPRIO DEL CARISMA DELLA FIGLIA DELLA CARITA'.

NEI TANTISSIMI ANNI DELLA SUA VOCAZIONE

HA OFFERTO A DIO LA SUA LIBERTA',

CUI NESSUN CUORE UMANO FACILMENTE RINUNCIA.

E DIO HA FATTO DI LEI UN ASILO D'AMORE PER GLI ORFANI.

QUEST'INTRECCIO DI GRAZIA E DI GENEROSITA',

CHE HA DATO FORMA ALLA SUA PERSONA,

È STATA UNA GIOIA ED È UNA TESTIMONIANZA”!

Per noi tutti, tortonesi di ieri-oggi-domani!

Con affetto e riconoscenza grandi.

Dino TosiIn Cesate (Milano) – Primavera/Estate 2017.

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BREVI MEMORIE DI RODOLFO CARLUCCI, ORFANO, EX BAMBINO DI SUOR LETIZIA

L’INIZIO DI UNA NUOVA VITA.Non avevo ancora compiuto cinque anni quando mi sono trovato

innanzi a una Suora, in un collegio sito all’interno dell’Ospedale Civile di Tortona.

La Suora si chiamava Letizia e aveva già avuto a che fare con mio Fratello Ginetto, anche Lui in collegio da dieci anni, e che, dopo breve tempo, mi ha ceduto il posto. Ricordo molto bene la preoccupazione di Suor Letizia nei miei confronti, a causa di un ditino molto gonfio e di una febbre decisamente fuori dalla norma. Subito visitato e ricoverato, mi fecero un buchino nel dito (non vi dico le urla di disperazione) e ne fecero uscire un liquido maleodorante premendo dal braccio alla mano e infine al dito.

Sono stato ricoverato per parecchio tempo, forse per una o due settimane, dopodiché tornai in orfanotrofio e iniziai la mia avventura.

Eravamo in 14/15 bambini di età variabile (dai 5 ai 15 anni), studia-vamo in refettorio, ma io ero molto svogliato. Non mi piaceva studiare e Suor Letizia a volte mi sgridava. Ricordo che in alcuni momenti della giornata mi faceva sedere sulla Sua scrivania per studiare le tabelline, che non mi entravano in testa, oppure mi metteva da solo in un angoli-no del refettorio (dove si mangiava) con il libro di storia. Ricordo anche alcuni nomi dei miei compagni, Dino e Paolo (che era il più grande) Tosi, Alberto Bellese, Angelo Donati, Giuseppe Covini, Roberto e Rena-to Massone, Mario Caldana, Aldo Fegadoli, Alessandro Bassi, Piccinini (e non ricordo il nome), Franco Cipollini, Michele Loguercio (purtroppo mancato).

RICORDI PIACEVOLI.È stato un magnifico regalo quello ricevuto da Suor Giuseppina che

lavorava nel reparto coordinato da Suor Cecilia e situato dopo Medici-na: era un cinturone con due pistole-giocattolo. Ero al settimo cielo! è stato il mio primo regalo e ne andavo matto. Purtroppo a Suor Letizia, anche se finte, le armi non piacevano e per questo mi furono requisite.

Ogni anno a Natale, comunque, ci aspettavano tanti regali da molti benefattori (Wilmer Graziano in primis!). Anche le Suore (Suor Cecilia, Suor Aurelia, Suor Gabriella, Suor Giuseppina, Suor Giovanna e tanta altre di cui non ricordo il nome) contrinuivano ai nostri regali infilando dolci vari e caramelle negli scarponi che mettevamo in fila indiana.

Il regalo più bello era però sempre quando un parente veniva a tro-

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varci, ma ciò si verificava raramente. Ricordo quando mio padre (forse l’unica volta) venne a trovarmi e mi portò un cartoccio di caldarroste. Morì quando avevo 11 anni nello stesso ospedale dove andavo a trovar-lo e dove celebrarono la funzione funebre. Ricordo anche mio fratello Ginetto con la sua fidanzata e suo zio Gildo, cui ero molto affezionato, che veniva a prendermi in bicicletta per portarmi a casa nelle feste di Pasqua.

Altri momenti felici si verificavano durante i mesi estivi, soprattutto negli anni in cui si partiva per le colonie estive (Caldirola, Cuneo, Alben-ga, ecc)

Bellissimi ricordi anche a Carnevale. I carri dell’Ospedale erano qua-si sempre i più belli e noi contribuivamo, nel nostro piccolo, suonando e cantando sopra di essi.

Il complessino musicale “I Pinguini” di Suor Letizia

I PINGUINIEro ancora molto piccolo e la nostra Suor Letizia mi/ci fece conosce-

re la musica. Ci diede la possibilità di avere un maestro (Remo Panario) che ci seguì per parecchio tempo. Ci insegnò a suonare la batteria, la chitarra, la fisarmonica, il pianoforte e altri strumenti musicali. Perso-nalmente, non ero molto portato per gli strumenti e non mi piaceva molto suonare, ma in compenso avevo una voce bellissima e Suor Leti-zia ne approfittò facendomi cantare nel gruppo dei Pinguini. Nei primi anni, per recuperare un po’ di soldini, si andava chi a vendere giornali, chi a cantare (“Pesciolino rosso” del 3° Zecchino d’Oro Edizione 1961 era il mio pezzo forte). Negli anni siamo diventati sempre più bravi e

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abbiamo cantato in varie scuole, in Piazza del Duomo, all’Istituto “Santa Chiara”. Eravamo conosciuti, ammirati e il merito di tutto questo va a Suor Letizia e alla Sua devozione nei nostri confronti.

Cantavo anche a Natale nella Cappella grande dell’ospedale duran-te la Santa Messa officiata dal cappellano Don Lorenzo Ferrarazzo; in particolare, mi esibivo in assolo eseguendo Adeste Fideles.

LE GIORNATE IN COLLEGIOAlla mattina ci si alzava, ognuno faceva il proprio letto, si puliva la

camerata e si passava al piano sotto per la prima colazione. Si andava a scuola accompagnati dalla stessa Suor Letizia con due o tre libri e qualche quaderno tenuti insieme da una cintura elastica. E qui iniziava la sofferenza dello studio. Tanto scarsa era la mia voglia di studiare che mi ero beccato il soprannome di “testa di palla da biliardo” dal mio maestro Chiodi.

Nel pomeriggio si facevano i compiti (altra sofferenza!) e alcune volte mi beccavo qualche sberlotto da Paolo (il ragazzo più grande, che in mancanza di Suor Letizia ne faceva le veci) per la mia insubordinazio-ne. Ricordo anche di aver ripetuto la 5° elementare perché mi ero preso il morbillo nel periodo degli esami.

Per quanto riguarda i pasti, devo essere sincero: erano ottimi per-ché la mensa dell’Ospedale era gestita da cuoche che avevano un oc-chio di riguardo per noi orfani. Ricordo bene un aneddoto a proposito del fegato in padella: non mi piaceva assolutamente e, quando mi capi-tava nel piatto, lo nascondevo velocemente nella tasca dei pantaloncini di lana, poi, con la scusa di andare in bagno, lo gettavo via. Naturalmen-te i pantaloncini avevano sempre un alone di unto che Suor Letizia mi contestava, ma penso ritenesse che non fossero stati lavati bene!

Alla fine dei pasti si lavavano i piatti a turno e si puliva il refettorio. Alla sera, dopo cena, si guardava alla televisione il “Carosello” in bianco e nero e si andava a dormire.

Abbiamo anche fatto alcune gite. Ricordo di essere stato con i miei compagni di collegio a Sorli, presso la casa paterna di Don Lorenzo; se non ricordo male, siamo stati anche a Sotto il Monte, località ove nac-que Papa Giovanni XXIII.

Altra quotidiana incombenza era la Messa presieduta da Don Lo-renzo. Noi, a turno, partecipavamo come chierichetti; ciò che più mi piaceva era “manovrare” il turibolo: come ricordo il buon profumo quando bruciava l’incenso! Tutti gli anni partecipavamo alla benedizio-ne della gola e ricordo molto bene la Prima Comunione ricevuta nella Chiesa di San Michele insieme al mio amico Roberto. Il mio padrino

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fu il Sig. Maruffo che gestiva una tipografia e che ha dato lavoro a mio fratello Ginetto quando uscì dal collegio. Il figlio del Sig. Maruffo veniva a scuola con me e il giorno della Prima Comunione mi aveva invitato a casa sua per i festeggiamenti.

Compiuti i 15 anni, ho lasciato l’Orfanotrofio; ho trovato lavoro gra-zie all’influenza di Suor Letizia che, dopo tutto l’ impegno e la cura che ci aveva dedicato per tanti anni, ci aiutava anche dopo la nostra uscita dal collegio.

Sono riuscito - grazie al suo preziosissimo insegnamento - a trovare la mia strada e, nonostante le traversie della vita e anche se non ho go-duto appieno della famiglia quando ero bambino, sono ora felice con i miei figli e la mia dolce metà.

Non manco di ammirazione e devozione per Suor Letizia che ci ha voluto un bene infinito e allevati come figli Suoi.

Ho rivisto Suor Letizia a Milano (grazie alle informazioni avute da Tosi Dino) presso l’Istituto San Vincenzo, dove mi sono recato con mia moglie. Dopodiché ne ho perso le tracce.

Ora ho ritrovato chi le ha dedicato tanto tempo (Dino Tosi) e sono più che felice di poter ricordare all città di Tortona - con un concreto “segno” e una dedica - la Nostra Suora e Mamma.

Per questo, anche se non sono molto bravo a scrivere, ho voluto dedicarle questi ricordi

Rodolfo Carlucci

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Suor LETIZIAè sempre presente tra noi

All’inizio di quest’anno sono stato contattato dal mio compagno di colle-gio e di banco Dino Tosi per cercare di ricordare una figura di Suora, mamma per noi orfanelli, che ha lasciato un segno indelebile per la città di Tortona e per il suo circondario.

Qui, non vorrei dilungarmi con tante esperienze passate da bambino, che hanno segnato in modo netto la mia vita, come hanno fatto giustamente il Dino e il Rodolfo.

Vorrei solo ricordare che Suor Letizia aveva il suo modo di interpretare la vita, con carità, con amore verso il prossimo, con fermezza d’animo e di carattere che poche persone possono vantare di avere, ed è per questo che è rimasta nei nostri cuori.

Lei era il fulcro di una serie interminabile di presenze che qui vorrei ricor-dare con grande piacere e un pizzico di commozione.

In primis le Suore di San Vincenzo tutte anche se in questo momento non rammento tutti i loro volti, che hanno dato la loro vita al nostro Ospedale e che ricordo (a quei tempi), alcune persone criticavano, non sapendo che loro stavano facendo un’opera di carità ineguagliabile per tutta la cittadinanza e circondario, e che hanno portato il nostro Ospedale ad essere quello, che fino a poco tempo fa, era una eccellenza del nostro territorio, ma che ora i nostri politici attuali stanno a poco a poco smantellando.

Le Suore con cui ho avuto a che fare sono prima di tutto Suor Pia, addet-ta alla distribuzione dei medicinali e al magazzino dell’Ospedale dove io ero praticamente sempre presente e che portavo nei vari reparti. La simpaticis-sima Suor Aurelia se ricordo bene della medicina donne, Suor Cecilia della medicina uomini, dove la Nostra mi aveva ricoverato per uno sfogo della pelle alquanto strano e che non gli avevo mai confessato di essermi mangiato in una settimana non so quanti pezzi di cioccolato nero fondente che la Suora metteva nell’armadio della cucinetta e che io mentre lavavo i piatti mi servivo abbondantemente, Suor Giacinta credo della chirurgia, Suor Martina del re-parto maternità, Suor Giovanna della sala operatoria, infine Suor Luisa e Suor Giuseppina.

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Queste le ho tenute per ultime perchè le consideravo delle carissime so-relle maggiori, con loro si stava bene, si scherzava, si cantava quando andava-no in qualche gita, insomma il ricordo che piano piano viene fuori di loro è un ricordo dolce ed emozionante.

Un altra figura di quei tempi, che io ho continuato a seguire anche dopo la mia uscita dal Collegio, è stato il carissimo Don Lorenzo Ferrarazzo, Cappellano dell’Ospedale, che io consideravo come il padre che non ho mai avuto. Con lui si giocava al pallone nel nostro cortiletto, se c’era qualche corsa ciclistica (Lui grande appassionato di Fausto Coppi) e qualche partita lui era da noi a vedere la TV, un lavoro da fare c’era Renato, Carnevali, Casa Canonica, Sorli, Renato c’era.

Sono andato con lui due volte a Lourdes con Paolo il fratello più grande di Dino.

Con lui si faceva il presepe, facevo il chierichetto e altre mille cose che scaturivano dalla sua mente vulcanica in coppia con Suor Letizia che non era da meno: Lei proponeva; Lui studiava il sistema, insomma si poteva dire con una semplice frase “ATTENTI A QUEI DUE”.

Poi un grandissimo personaggio Wilmer Graziano, un uomo affabile, con un sorriso per tutti, che a quei tempi era Presidente dell’Ospedale e che è stato un benefattore veramente superlativo per noi ragazzi/orfani di Suor Leti-zia. Non sto qui a dire tutto quello che ha fatto per noi, ma lo voglio ricordare come uomo che ha dato lustro alla nostra città e che con la Nostra aveva un’a-micizia e una considerazione veramente fantastica.

Wilmer Graziano ai tempi della Presidenza dell’Ospedale

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Da notare che accanto alla dicitura “Firma del padre o di chi ne fa le veci” è apposta la firma del Presidente dell’Ospedale (Wilmer Graziano)

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Lourdes - 1962 Franco Cippollini

e Renato Massone

Vorrei ricordare a tutti quelli che hanno conosciuto Suor Letizia, le Suore, Don Lorenzo e Wilmer Graziano, che il seme che avevano gettato con tanta fatica nella nostra città, è cresciuto ed è tuttora presente in mezzo a noi. Spet-ta a noi farlo maturare sempre più intensamente.

La traccia l’abbiamo avuta e non ci rimane che seguire il loro esempio.Con grande affetto per tutti loro e per tutti quelli che proseguono su

questo cammino.Renato

ex orfano di Suor Letizia

P.S. - In collegio ho incontrato tantissime persone che mi hanno voluto bene e che al mo-mento, la mia memoria non mi fa ricordare i vari nomi.

Vorrei citare la Sig.ra Graziella Sbarrato, professoressa di pianoforte, che aveva per la Nostra un’amicizia e un’adorazione superlativa e che ci faceva cantare nelle varie funzioni che si tenevano nella Cappella dell’Ospedale. A Lei vada il mio grazie per tutto quello che ci ha dato e insegnato.

Anche Mons. Francesco Giorgi che, insieme a Don Lorenzo, lavorava nell’Ufficio Cate-chistico della Diocesi: veniva spesso ad officiare Messa nella Cappella dell’Ospedale e non solo; con lui l’amicizia è tuttora presente, sempre pronto a spronarmi a compiere-qualcosa di speciale nella vita.

Lourdes - 1966Paolo Tosi

e Renato Massone

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Da: ISTAT - IX Censimento Generale della popolazione 04/11/1951. “Foglio di Famiglia” vale a dire: “Foglio di Convivenza” n° 446 Volume n° 1048

Elenco nominativo delle Suore presenti nell’Ospedale di Tortonaconservato presso Archivio Storico della Città di Tortona

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Sr Pierina FALCO 1958 1964 I5° Sr Servente Sr Caterina LAVAZZA 1922 Morta nel 1959 Malata Sr Maria PELUCCHI 1934 1976 Veglia Sr Teresa RIVA 1938 Morta nel 1960 Malata Sr Martina ORLANDI 1938 1973 Infermiera Sr Vincenza DELLAVALLE 1942 1959 Cucina Sr Aurelia RESTELLI 1945 1976 Medicine donne Sr Cecilia SAGLIA 1947 1976 Medicina uomini Sr Anna PELUCCHI 1947 1964 Dispensa Sr Giuseppina GALLI 1948 1961 Lingeria Sr Giacinta COLUSSI 1948 1970 Ortopedia Sr M. Gabriella BARATTI 1948 1976 Radiologia Sr Letizia DE PONTI 1949 1976 Orfani Sr Francesca GABELLINI 1950 1967 Ricovero uomini Sr Giovanna MASIO 1951 1965 Camera operatoria Sr Antonietta BELLINZONI 1951 1963 Ricovero donne Sr Pia ANELLI 1952 1971 Cassa farmacia Sr Carolina PELUCCHI 1953 1961 Veglia Sr Luisa ISACCO 1955 1968 Chirurgia Sr Agnese GOTTI 1955 Morta nel 1973 Lavanderia Sr Paola TAGLIABUE 1958 1976 Chirurgia Sr Carla DERIN 1958 1967 Ambulatorio Sr Vincenza PAGNONCELLI 1959 1960 Cucina Sr Emilia BARONI 1959 1963 Chirurgia Sr Vincenza VILOTTI 1960 1974 Cucina Sr Caterina PORCU BRUNDU 1961 1975 Veglia Sr Giuseppina ISACCO 1961 1976 Lingeria Sr Emilia DELOGU 1963 1976 Chirurgia Sr Teresa COLZANI 1963 1972 Ric. Donne Sr Riccarda CATENAZZI 1964 1973 I6° Sr Servente Sr Angela COLOMBO 1964 1966 Dispensa Sr Maria Luisa RAVASIO 1967 1970 Ric. Uomini Sr Regina PIANTA 1970 1976 Infermiera Sr M. Agnese BARLOCCO 1970 1976 Ricovero Sr Cesarina TERRENGHI 1970 1973 Infermiera Sr Anna GONELLA 1971 1975 Ricovero Sr Maria Laura LAMPIS 1973 1976 I7° Sr Servente Sr Giovanna BELLINI 1973 1974 Infermiera

Arrivo Suore 27 Novembre 1860 TORTONA - Ospedale Civile

Presenza dal 1958 al 15 Novembre 1976 Nome

comunitàCognome Presenza

dal/alServizio

Fonte: Congregazione Figlie della Carità - Segreteria Nazionale Provincia Italiana - Roma

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ALCUNI RICORDI DI SUOR LETIZIA

PREMESSA:Il 29 maggio 1953 è una data che non scorderò mai: mio papà,

dopo aver accompagnato all’asilo me e mio fratello Dino, mentre era al lavoro, venne colpito da forti dolori addominali. Si trattava di un attac-co di PERITONITE e, nonostante l’intervento eseguito presso la Clinica Sant’ANNA dal Prof. Luigi Capovani, l’esito finale fu per Lui fatale.

Alla sera io e Dino lo aspettammo invano e solo molto tardi venne a prenderci l’amico di mio papà Oreste, che ci portò a casa sua, al Bel-vedere di Tortona.

A seguito di ciò, nostra madre, dovendo lavorare e non avendo nessuno cui affidarci, fu costretta a inserirci in orfanotrofio.

A Dino, non ancora in età di tre anni, toccò di andare a VILLA CARI-TAS, sulle alture del Castello (struttura gestita dalle suore di don Orio-ne); a me invece, in età di poco più che sei anni e ormai prossimo a fre-quentare la classe prima elementare, toccò di entrare nell’Orfanotrofio maschile “San Giuseppe”, annesso all’ospedale civile cittadino.

Chi mi accolse fu la Superiora Suor Raisi e poi una certa Suor Mar-gherita, cui corsi incontro cantando le “Osterie” e “E tu Rosina dam-mela”, canzonette che mi aveva insegnato Oreste nel periodo in cui ero stato ospitato a casa sua.

Mi dissero che Suor Margherita fu alquanto scandalizzata, ma mi prese sotto le sue gonne.

E conobbi quindi gli altri miei compagni del collegio, circa quindici ragazzi, tutti più grandi di me. Di alcuni ricordo i nomi: Mario e Luciano, Eugenio, Pino, Gianni, Enrico, Vincenzo.

Suor Margherita non era molto “tagliata” per assistere noi ragazzi e, poco tempo dopo, la Superiora Suor Raisi (veramente una “Santa Donna”) la sostituì con Suor Letizia, una suorina piccola e magra, ma con un carattere forte, dolce e molto determinata.

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Subito ci accorgemmo di quanto amore riservava “ai Suoi ragazzi”: per noi prese a lottare “contro tutto e contro tutti”, più che se fossimo stati veri “figli suoi”!

Non sto a ripetere quanto detto da altri miei ex compagni di collegio (tutte considerazioni assolutamente vere e che condivido pienamente) ma alcuni Suoi tratti caratteristici ed episodi che per me furono e sono molto significativi e che testimoniano - se ce ne fosse ancora bisogno - chi era Suor Letizia certamente li desidero esplicitare.

Prima Sua caratteristica: La determinazioneNel 1956 venne a trovarmi in collegio la mia mamma, recando con

sé mio fratello. In quel tempo Dino era così scarno, magro, macilento e rachitico da sembrare un reduce venuto in Italia dal famigerato Biafra africano, come si diceva allora (nella foto che Lo ritrae in colonia ad Al-benga, uno o due anni dopo, Lui era già abbastanza “in carne”!).

Suor Letizia se ne “innamorò” subito e decise di tenerlo in orfano-trofio con me.

La cosa non sarebbe stata possibile: il regolamento non prevedeva che due fratelli fossero ospiti (gli orfani non pagavano nessuna retta). In particolare c’era l’opposizione della nuova Superiora e soprattutto del Ragioniere-Segretario (il “potente”) dell’ospedale, persona non cattiva, ma ligia alle regole.

Suor Letizia tanto fece, tanto si impegnò, tanto si scontrò con le Istituzioni che, alla fine, riuscì a far ammettere in collegio anche mio fratello. Io ne fui ovviamente molto felice e, alla luce di altri delicati fatti che riguardano proprio Dino – venuti allo scoperto solo qualche anno dopo - non posso fare a meno di ringraziarLa!

L’arrivo dell’apparecchio televisivo.Era il 1955 o 1956 e ci furono - come spesso accadeva ed accade

ancora oggi - le elezioni. Il salone che usavamo come aula per fare i compiti, veniva usato come seggio elettorale per persone esterne. Fra i vari aventi diritto al voto, ci fu un signore piuttosto anziano, elegan-te, con un bell’impermeabile, che si aggirava per i vari locali, come se li conoscesse. Dopo alcuni momenti si presentò come Signor ..…. (non ricordo il nome): si trattava un ex orfano (era stato ospite nel nostro collegio dopo la Prima Guerra Mondiale). Abitava a Torino dove gestiva un bar. Era benestante e ci regalò un televisore di marca “GELOSO” (un “catafalco” enorme, uno dei primissimi televisori). Ovviamente in tutti noi questo fatto portò una grande gioia. A quel tempo pochissimi pos-sedevano un televisore!

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Accadde che poco tempo dopo il televisore fu levato a noi e tra-sportato in un locale dove erano ricoverati i “vecchietti”.

La nostra delusione fu tanta e qui intervenne ancora Suor Letizia con la Sua determinazione: andò in Direzione a “rompere le scatole”, finché poco dopo arrivò un televisore nuovo di zecca: un “MAGNADYNE KENNEDY”.

Ricordo ancora i programmi: la TV dei Ragazzi, Ivanhoe con Roger Moore, Rin Tin Tin. I primi sceneggiati TV (La Freccia Nera, interprete una giovanissima Loretta Goggi) e soprattutto “Carosello”, alla fine del quale: tutti a nanna!

Primo episodio: Un castigo esemplare, e molto formativoE’ già stato scritto che in orfanotrofio si era costituito – per inizia-

tiva della Nostra - il complessino musicale denominato “I PINGUINI”. Io suonavo fisarmonica e saxofono.

Un giorno, ero già grandino, accadde che feci cadere la mia prima fisarmonica (non quella che si vede nella foto più sopra pubblicata, e che ancora possiedo): era piccola e, purtroppo, si ruppe la cassa armo-nica realizzata in legno.

Suor Letizia se ne accorse e domandò chi fosse stato. Io, per evitare la possibile punizione, cercai di addossare la responsabilità ad un altro ragazzino più piccolo (di nome Giuseppe).

Suor Letizia, dopo una piccola inchiesta, mi smascherò e mi parlò della responsabilità delle proprie azioni.

Non mi sgridò ma mi punì in modo esemplare, che ricordo molto bene ancor oggi: al cinema (“Verdi” o “Moderno”, non ricordo) pro-iettavano quel capolavoro che è il lunghissimo film intitolato “I dieci Comandamenti”.

Tutti i miei compagni furono accompagnati a vederlo; io ne fui escluso. Ovviamente ci rimasi molto male ma capii la lezione, che mi sarebbe servita anche per il futuro!

Secondo episodio: Il prolungamento della mia permanenza in or-fanotrofio

La regola era che, dopo gli esami finali della terza classe della Scuo-la di Avviamento professionale a Tipo Commerciale o Industriale (nes-suno di noi frequentò le scuole medie), cioè al raggiungimento dei quat-tordici-quindici anni, gli orfani venivano avviati all’attività lavorativa.

Qualcuno prendeva servizio presso la tipografia diocesana “San Lorenzo” (il cui direttore responsabile era Don Lorenzo Ferrarazzo, cap-pellano dell’ospedale); altri presso la ditta O.M.T. (Officine Meccani-

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che Tortonesi) del Commendator Franzosi; altri infine venivano assunti come apprendisti presso l’avviatissimo stabilimento dell’industriale Si-gnor Wilmer Graziano, che al tempo stesso era Presidente dell’ospeda-le, molto molto amico della Nostra!

Questa regola non valse per me (e credo di essere stato l’unico per il quale fu applicata questa deroga).

A scuola, sia alle elementari che all’Avviamento, ero piuttosto bra-vo, tant’è che in collegio Suor Letizia mi chiedeva di aiutare i compagni nello svolgimento dei compiti. Ricordo anche che, pur essendo ancora alle elementari, aiutavo i più grandicelli che si preparavano per gli esami di terza classe alla Scuola di Avviamento Professionale e, ciò, nelle lezio-ni di storia e geografia e nei compiti/problemi di matematica/geometria (mi ricordo di aver aiutato Ginetto, in particolare).

Il fatto che fu la causa del mio “prolungamento” fu del tutto casuale.Correva l’anno 1957, frequentavo la quinta classe elementare e,

come ogni anno il 31 ottobre, festa della “Giornata del Risparmio”, la lo-cale Banca “Cassa di Risparmio di Tortona” assegnava un libretto dotato di mille lire ad alcuni alunni segnalati dai rispettivi maestri. Il mio inse-gnante - il mitico Maestro Chiodi (e non voglio sembrare retorico perché chi come me lo ha avuto come insegnante per tre anni non può che ricordarne la grandezza e l’umanità) - fece la segnalazione del mio nomi-nativo, accompagnandola con una lettera di presentazione. Il caso volle che a quella manifestazione fosse presente per la prima volta anche il Presidente della “Cassa di Risparmio”, il Professor Alessandro Barla.

Il giorno successivo il Professor Barla mi mandò a chiamare e - ac-compagnato dall’onnipresente Suor Letizia - andai nel suo mega uffi-cio. Il Prof. Barla disse alla Suora che era rimasto molto colpito dal mio “caso” e che, la “Cassa di Risparmio” avrebbe pagato le rette scolastiche per gli anni successivi, a patto che, ovviamente, avessi ottenuto buoni risultati.

E così io sarei dovuto entrare all’Istituto “Dante Alighieri”, come convittore. Confidai a Suor Letizia che la cosa non mi piaceva perché non volevo andare in passeggiata, in gruppo, accompagnato da due sa-cerdoti o chierici, come invece capitava ai convittati del “Dante” (Istituto amministrato e gestito dagli Orionini).

In orfanotrofio, specialmente noi ragazzi più grandini, godevamo di una certa libertà, potendo andare a passeggio sotto i portici di via Emi-lia assolutamente non accompagnati; anche sul Castello, alle partite di pallone del Derthona al campo “Dellepiane”; e addirittura al cinema!

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Suor Letizia assicurò il Suo interessamento, ma senza promettermi nulla di particolare.

Anche questa volta lo scontro con l’Amministrazione dell’ospedale (sempre il ragioniere-Segretario, in primis) fu molto aspro ma alla fine la Nostra super combattiva riuscì nel suo intento di farmi rimanere ospi-te dell’orfanotrofio.

Quell’anno mi iscrisse alla “Prima Tecnica” e sorse allora un ulterio-re problema: la classe era “mista” (avevo dodici compagne di classe: le femmine!) ed avevo quattordici anni. Fino ad allora, estate ed inverno, tutti noi ragazzi dell’orfanotrofio, portavamo i pantaloncini corti. Per il motivo di cui sopra fui il primo a poter indossare i pantaloni lunghi, “da uomo”; e questo fatto mi riempì di orgoglio! Ero grande!!!

Suor Letizia mi fu molto vicina durante la mia adolescenza: era Lei la mia confidente, alla quale raccontai della mia prima “cotta” per una mia compagna di classe! In quei momenti fu per me sia madre che pa-dre!

Avevamo molte discussioni, sugli argomenti più disparati. Le piace-va molto parlare con me: era molto “curiosa” e mi riempiva di domande sugli argomenti più vari: attualità, politica, sport, geografia e storia, ecc! Furono quelli dei “frangenti veramente indimenticabili”!

Dopo la “Seconda Tecnica”, superata con ottime votazioni e con un esame integrativo sostenuto a Voghera (unico privatista con voto “sei”! tutti gli altri privatisti furono bocciati!) fui ammesso alla Terza classe di Ragioneria, presso l’Istituto orionino per ragionieri e geometri “Dante Alighieri”, dove mi diplomai nel 1966.

Già durante gli esami di Stato avevo ottenuto un impiego presso un hotel di lusso a Milano come Segretario d’Albergo addetto alla Re-ception (la moglie del Direttore di detto hotel venne ricoverata in ospe-dale a Tortona; e si trattava di occuparsi del figlio più piccolo di questa coppia; Suor Letizia – interpellata al riguardo – si offrì di accoglierLo in orfanotrofio, assieme ai “suoi” ragazzi! La Provvidenza intervenne ed io – in contraccambio del grande favore elargito - venni assunto; fu una bellissima esperienza di incontro con mille persone assai interessanti: petrolieri giapponesi, il Corpo di ballo del Teatro Bolshoi di Mosca, ecc. ecc.!). E nel frattempo, terminati gli esami orali (fui uno degli ultimi e se non ricordo male e in data 30 o 31 luglio!) alle ore 15,30 lasciai l’orfano-trofio con un “groppo” in gola.

Ricordo che durante il viaggio in treno verso Milano piansi a lungo.A Milano mi ricongiunsi con mia madre e mia nonna materna.

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Dal mio ingresso in orfanotrofio erano passati ben tredici anni!Da allora non ebbi più molte occasioni di incontrarLa, pur essen-

do rimasti sempre in contatto. Prese parte al mio matrimonio assieme a don Lorenzo Ferrarazzo. La mia vita lavorativa mi portò in giro per il mondo e, ricordando quanto Suor Letizia era assolutamente curiosa, Le inviavo sempre una cartolina illustrata da qualunque località io mi trovassi (Europa, Asia, America). Era la mia piccola ma sentitissima mo-dalità per ricordarLa e, quando ci sentivamo al telefono, Lei era assolu-tamente felicissima di sentire la mia voce e di parlare con me anche per pochi minuti!

Seppi tardivamente che era ritornata a Milano e La incontrai diver-se volte quando ormai era molto malata. Era comunque sempre molto sorridente e mi parlava con grande nostalgia dei “Suoi ragazzi”, proprio noi tutti, dell’orfanotrofio maschile “San Giuseppe” di Tortona!

CIAO CARISSIMA SUOR LETIZIA! GRAZIE PER QUANTO HAI FATTO PER NOI, E PER ME IN PARTICOLARE;

GRAZIE PER L’AMORE, LA DEDIZIONE E LA CURA CON CUI CI HAI ASSISTITI E CRESCIUTI,

SIA UMANAMENTE SIA MORALMENTE! IO NON TI DIMENTICHERO’ MAI!

SEI E SARAI SEMPRE NEL MIO CUORE!

Settembre 2017 Tuo, Paolo TOSI

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Istantanee di Suor Letizia all’ingresso dei locali dell’Orfanotrofio

Dino e Paolo Tosi in visitaa Suor Maria Giuseppina Raisi

Superiora presso Ospedale civico di Lugano

Paolo Tosicon la “mitica”Simca Montlery

di Mons. Lorenzo Ferrarazzo

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Il diavolo ... e l’acquasanta

Credo che ormai nessuno si possa stupire di trovare il mio nome tra coloro ai quali è stato chiesto di scrivere due parole in ricordo di suor Letizia. Eppure c’è stato un tempo in cui la simpatia tra un pro-fessore comunista e una suora destava scalpore. L’idea che un comu-nista fosse naturaliter anticlericale era ben radicata così come quella che una suora non potesse avere nulla in comune con lui.

Che il comunista fosse il professore di scuola media dei suoi ra-gazzi e che entrambi volessero il loro bene e che quindi potessero, e dovessero, collaborare, era qualcosa di difficile da capire per molti. Per fortuna tanto lei quanto io eravamo decisi a tirar dritto per la nostra strada, senza preconcetti di sorta, e a non farci condizionare. Il risultato sono stati anni di collaborazione e di dialogo.

Ricordo bene l’espressione rassegnata di mia moglie quando mi diceva: “È suor Letizia”, porgendomi la cornetta del telefono. Sapeva che sarei rimasto a parlare con lei per almeno un’oretta mentre il pasto si raffreddava o i compiti in classe aspettavano invano che io finissi di correggerli.

Ricordo che un pomeriggio avevo invitato un gruppetto di alunni a vedere a casa mia una partita della nazionale. A più o meno dieci minuti dal fischio d’inizio suor Letizia mi aveva telefonato. Ebbene, è finito il primo tempo, c’è stato l’intervallo, è iniziato e finito il secondo tempo: noi due siamo rimasti al telefono. Rassegnati i miei alunni se ne sono andati.

Ecco suor Letizia era così: parlare con lei significava dimenticare ogni altra cosa perché, quando si trattava dei suoi ragazzi, per lei il tempo non contava. C’erano le loro difficoltà scolastiche da esamina-re, i rapporti con insegnanti e compagni da analizzare, le loro prospet-tive future da tener presenti. Non si poteva avere fretta. Lo capivo bene e non mi sarei mai sognato di tagliare corto o di sottrarmi con una scusa qualsiasi. Ci rispettavamo e sapevamo bene cosa aspettarci l’uno dall’altra.

Prof. Mario Giachero