Ferra Traduzioni - Marías Julián - Religione e …...crea se stesso, la vita gli è data, però...

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Julián Marías: Religione e sicurezza in Occidente

Mediterránea - Centro di Studi Interculturali Dipartimento di Studi Umanistici Università di Trieste www.ilbolerodiravel.org

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RELIGIONE E SICUREZZA IN OCCIDENTE JULIÁN MARÍAS

da: Julián Marías, «Religión y seguridad en Occidente», in El oficio del pensamiento: ensayos, Bibliote-ca Nueva, Madrid 1958, pp. 97-106, traduzione italiana di Gianni Ferracuti.

1. Per la prima volta, nella storia dell'Occidente dopo Carlomagno, moltitudini enormi

si sono impegnate in un tentativo che prima era stato patrimonio esclusivo di un piccolo numero di individui: vivere fuori da ogni religione, semplicemente sulla terra in cui sono nati e dove debbono morire. Però, questa differenza numerica ne comporta una ancor più importante: che il vivere senza religione di quei pochi individui e di queste moltitudini coincide solo nella parte puramente negativa, nel «senza», e non in ciò che realmente è rappresentato dall'una e dall'altra posizione. Nel corso della storia, gli uomini che sono vissuti a titolo individuale senza religione, o l'avevano perduta o l'avevano abbandonata, e questo per qualche motivo personale. Erano probabilmente atei, vale a dire, avevano risol-to negativamente il problema di Dio; o agnostici, che avevano rinunciato a risolverlo e persino a formularlo. Ciò che caratterizza le moltitudini contemporanee a cui mi riferisco non è l'aver dato una soluzione negativa al problema di Dio, ma il tentativo di vivere senza

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2 neppure porselo. E bisogna domandarsi se è veramente possibile ciò che, a quanto sembra, si sta verificando.

Questo equivale a domandarsi se esiste un problema di Dio, voglio dire se è un proble-ma reale, perché un problema non è soltanto un'ignoranza, ma qualcosa che ho necessità di sapere per vivere conformemente ai miei desideri. Io non so se proprio ora sta piovendo nel bel mezzo dell'Atlantico, né quale dei miei capelli sarà il primo a cadere, né il numero di nipoti che avrà il mio figlio minore, però niente di tutto questo è un problema. A meno che, per qualche ragione particolare, non mi necessiti di sapere a cosa attenermi riguardo ad una di queste cose; per esempio, è un problema se piove o no nell'Atlantico nel caso che debba attraversarlo proprio ora in aereo.

Dunque, i problemi hanno una loro, storia, sorgono e scompaiono, sono sostituiti gli uni dagli altri. Che qualcosa un giorno cessi di essere un problema, non significa che sia stato risolto; in generale avviene che si è dissolto, che non è più necessario interrogarsi e rispondervi. Trecento anni fa era un problema la stregoneria, come scoprirla, come difen-dersene, come comportarsi di fronte alle streghe; era necessario sapere a cosa attenersi e assumere una posizione; in via di principio, una poteva essere negare l'esistenza delle stre-ghe e della stregoneria. Anche questo, però, ha una scarsa somiglianza con la situazione attuale, perché noi non neghiamo la stregoneria:semplicemente, non ce ne occupiamo, e ai nostri contemporanei risulterebbe difficile «dimostrare» che non esistono streghe, almeno tanto quanto ai vecchi autori del trattati sulla stregoneria il provare la loro esistenza. Ben altri problemi, che mai furono tali per i nostri antenati, sono quelli che ci preoccupano e ci angosciano, quelli che ci obbligano, non diciamo a rispondere, ma a qualcosa di ben più importante: a domandare.

Sarà questo il caso di Dio e della religione? Sarà un problema «dissolto», svanito, volati-lizzato? È possibile il mero vivere sulla terra, attenendoci alle questioni intramondane che questo comporta, e che dobbiamo risolvere giorno dopo giorno? L'uomo, certamente, non crea se stesso, la vita gli è data, però non gli è data già fatta, ma come un compito e un daf-fare. Per vivere debbo decidere io ciò che vado a fare in ciascun istante, e nessuno può de-cidere al mio posto, ché in tal caso dovrei io decidere di accettare in ogni momento la sua decisione. Tra le possibilità che mi si offrono scelgo quella che ho preferenza di realizzare; questa preferenza significa che per vivere debbo giustificare a me stesso perché mi decido per una cosa e non per un'altra, e posso solo farlo in vista della totalità della situazione in

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3 cui mi trovo, e che include il mondo intero e me stesso come una specifica pretensione, come progetto o vocazione. Pertanto, per vivere necessito di sapere a cosa attenermi ri-guardo alla realtà, vuoi perché mi trovo in una convinzione o credenza ricevuta, nella qua-le mi sento sicuro, vuoi perché sono giunto a possedere idee chiare su questa realtà globa-le. Nel mio mondo compaiono tutti i giorni elementi nuovi, e io li interpreto facendo ap-pello a questo mondo in cui già mi trovo e che è anteriore a ciascuno del suoi contenuti, a tutte le cose che posso trovare in esso. Ma c'è ancora dell'altro.

Questa vita che mi è data, perché sia mia debbo accettarla e prenderne possesso. Però sembra che potrei anche non accettarla; equi nasce il paradosso: non posso semplicemente «non accettare» la vita, ma dovrei «rifiutarla», dovrei far qualcosa in positivo per sposses-sarmene o esonerarmi da essa. Per vivere debbo far qualcosa in ogni istante, però anche per non vivere debbo far qualcosa, suicidarmi o lasciarmi morire. La vita è qualcosa che occor-re prendere o lasciare, prendere in un modo o in un altro, un daffare non imposto, epperò proposto; debbo accettare la vita o rinunciare ad essa; però, non potendo rinunciare a ciò che non è mio, debbo primariamente farla mia: l'inevitabilità della vita è inesorabilmente libertà. Ciò significa che è necessario prendere la vita come realtà totale previa alle sue forme e ai contenuti particolari; e, nel vederla come totalità, appare il suo orizzonte, si ma-nifestala cornice o il contorno latente che la circonda, e appare il suo fondamento - voglio di-re il problema se possiede o no fondamento e, se lo possiede, quale sia.

E di fatto, vivere è già aver preso una decisione nell'uno o nell'altro senso, anche quan-do non si sa che cosa si è deciso. Quando eseguo un atto vitale qualunque, sto già metten-do in conto una serie di possibilità e un certo significato di questa vita; ad esempio, metto in conto la probabilità di una trentina d'anni da vivere ancora, e per questo inizio una lun-ga impresa; metto in conto che la città in cui vivo non sia distrutta il prossimo mese, e per questo compro una casa. Ebbene, ogni azione dipende dal trovarmi nella convinzione che dispongo solo degli anni che vivrò nel mondo, o che disporrò di una vita interminabile dopo questa, o che dubito se si verificherà l'una eventualità o l'altra, oppure dalla relazio-ne eventuale di ciò che io opero in questa vita con ciò che può accadermi conseguente-mente dopo di essa. Che abbia significato o no ed abbia un buon significato o un cattivo significato un'azione che vado a realizzare ora, dipende interamente da questo; pertanto non posso decidere ciò che farò ora senza sapere a cosa attenermi rispetto a questo pro-blema. E quando decido e vivo, di fatto sto dando come presupposta la soluzione.

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Risulta insomma che il tentativo di non porre il problema religioso è impossibile, per-ché vivere è porlo e risolverlo; l'uomo è necessariamente religioso. Voglio dire: religioso o irreligioso, con religione positiva o negativa, perché non può vivere senza prendere in ma-no la vita intera e darle un significato; si muove nell'elemento stesso della religione e, se dice che la vita non ha significato, allora ne accusa la mancanza, perché dovrebbe averlo e non l'ha e la stessa negazione ne riafferma la pertinenza al significato. Dio è il nome di una interpretazione radicale della realtà, che costruiamo liberamente nel prendere la decisione; e pronunciando il nome di Dio, con la comparsa della sua idea, c'incontriamo con questa interpretazione sulla quale dobbiamo prender posizione. Lungi dall'essersi «dissolto», il problema di Dio mette a nudo il fatto che stavamo già vivendo dentro la sua problematici-tà, sapendolo o no, volendolo o no.

2. Quando si parla di religione nel mondo occidentale, si parla del Cristianesimo, che lo

ha modellato e formato, che ne ha determinato la struttura; ma all'inverso, quando si parla del Cristianesimo non si può pensare all'Occidente, perché il Cristianesimo non deve es-sere ascritto all'idea del mondo e della vita degli occidentali, alla loro vocazione temporale, al loro stile di pensiero. Viene da pensare che il relativo fallimento delle missioni nel no-stro tempo, almeno la loro lentezza, che contrasta con la rapidità di penetrazioni d'altro se-gno nei Paesi asiatici e africani, abbia origine nel tentativo di convertire gli uomini non so-lo al Cristianesimo ma anche - a volte soprattutto - allo stile umano, sociale e mentale della Scozia o della Castiglia, di Parigi o della Baviera, della Nuova Inghilterra o della Califor-nia, insomma dell'Occidente.

In un certo senso il mondo occidentale, che fu cristiano, ora non lo è in maniera piena, anche se forse vi sono oggi più cristiani che mai. Perché una cosa è il mondo come sistema di usi e costumi, credenze e pretese della società, e un'altra cosa sono gli uomini, gli indivi-dui. Nel Medioevo per esempio, era il mondo, la società, ad essere primariamente cristia-no, indipendentemente dalla posizione personale degli individui, tra i quali c'erano non pochi increduli; oggi accade piuttosto che i cristiani debbano vivere in un mondo le cui strutture non sono solidali con la loro vocazione intima. Ciò che si usa chiamare i costumi cristiani, la famiglia cristiana, il pensiero cristiano, frequentemente si riduce solo alle for-me sociali tradizionali di un mondo che ormai non esiste; sono forme antiquate, a volte semplicemente impossibili; e si corre il pericolo di distruggere la possibilità di nuove for-

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5 me di vita cristiana con un attaccamento tanto ostinato quanto ingiusto a forme puramen-te storiche, che non sono vincolate al Cristianesimo più di tante altre forme possibili. La donna cristiana per molti è una signora dalla gonna molto lunga, che dice le orazioni di se-ra, di fronte al camino, circondata da figli e famigli; pero, forse la donna di oggi deve pas-sare diverse ore in auto o in metropolitana, o in un bistrot o in un drugstore, usa la gonna corta, magari i pantaloni, scrive a macchina per otto ore al giorno, probabilmente non pos-siede focolare e, naturalmente, nessun famiglio. Non dovrà inventare forme nuove che le permettano di dare un significato cristiano a questa vita nella terra concreta in cui è stata posta? Non è facile essere cristiani oggi, è necessario talento e valore per essere fedeli, nello stesso tempo, a Cristo e a questo mondo, al quale ci ha inviato la volontà di Dio, per co-struire in esso la nostra vita terrena.

Perché Dio, senza dubbio, avrebbe potuto metterci direttamente nel Paradiso, o avreb-be saputo arrangiarsi per eliminare la storia e farci vivere in un mondo sempre uguale; pe-rò il fatto è che non ha voluto, che bisogna vivere autenticamente, e questo è possibile so-lo in quanto la nostra vita risulta determinata dalla nostra vocazione individuale e dalle condizioni della nostra situazione storica.

Si prenda ad esempio la relazione tra le diverse confessioni cristiane. Pur considerando che l'uomo di una diversa confessione è in errore, l'atteggiamento attuale può essere lo stesso dell'epoca in cui - data un'unità religiosa - chi ne stava fuori era un dissidente, un'eccezione negativa? In un mondo che in una sua enorme porzione non è cristiano, ed è anticristiano in una sua parte consistente, sembra normale occuparsi prima di ciò che è coincidente, piuttosto che delle differenze - della credenza, della comune condizione di cristiani, dell'atteggiamento di adorazione e culto dello stesso Dio, prima del parziale erro-re dogmatico o della deviazione del culto. Non voglio riferirmi con questo alla dimenti-canza delle differenze, al cosiddetto «minimalismo», forma di religione pallida ed esangue, senza forza né attrattiva. Voglio piuttosto chiarire che anche l'affermazione di una posi-zione religiosa nella sua integrità e con la massima energia (e per il Cattolicesimo questa è l'unica soluzione, perché non si accontenta di un «minimo», di una parte di se stesso) non implica che si consideri come nemico chi non la condivide totalmente, epperò sì in ciò che è decisivo e più importante. E questo atteggiamento può estendersi anche oltre il Cristia-nesimo, fino a considerare vicino chi cerca Dio, per un cammino o per l'altro, con oscura-

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6 menti e cadute - «a tentoni», come dice San Paolo - di contro a chi lo nega o gli volge le spalle.

Neppure si può oggi ritenere che un Paese sia un'unità chiusa e isolata, e che quanto vi si compie riguardo al Cristianesimo abbia attinenza solo con la situazione interna, dal momento che il mondo vive in comunicazione e in contemporaneità, e la sorte della reli-gione è talmente vincolata all'interno della sua globalità, che un atto realizzato in un emi-sfero produce scandalo nell'altro, e lo zelo intempestivo e superfluo in un punto del piane-ta sta forse distruggendo una chiesa e vent'anni di sforzi e speranze a cinquemila chilome-tri. E oggi siamo anche responsabili di ciò che a causa nostra capita ben oltre l'ombra del nostro campanile.

3. La situazione della religione nel mondo occidentale è senza dubbio una delle cause

della sua insicurezza. Il tentativo di eliminare la dimensione religiosa dalla vita umana im-plica una falsificazione il cui prezzo è il carattere puramente fittizio della sicurezza così ot-tenuta. Di fatto, coloro che non sono cristiani vivono in un mondo configurato dal Cri-stianesimo, e ne conservano l'impronta. Molti, ad esempio, ormai non credono all'immor-talità personale, per non sono sicuri di questa loro credenza negativa; nonostante la natu-ralizzazione volontaria delle loro vite grottesche e superstiziose - e qui la parola supersti-zione recupera il suo significato etimologico, perché è ciò che sopravvive di un mondo che si crede scomparso. Da qui, un'inquietudine e un'ultima insicurezza che minaccia l'uomo contemporaneo non appena si ritrovi solo e faccia i conti definitivi con se stesso; inquie-tudine che ha reso possibili gravi deviazioni e che nelle sue forme estreme è l'angoscia, te-ma intellettuale e luogo comune al tempo stesso dell'uomo della nostra epoca.

Di fronte a questi fatti, si propone a volte, come rimedio per l'insicurezza e l'angoscia, il ritorno alla religione; a prima vista, niente appare più plausibile per un credente; tali ne sono le ragioni a favore, che anche molti non credenti fanno la stessa proposta, per ragioni temporali, sociologiche, politiche, o di ciò che si chiama, con termine abbastanza equivo-co, «umanesimo». Indubbiamente conviene fare qualche riserva per evitare la confusione e con essa la ricaduta in una insicurezza maggiore. E prima di tutto occorre avvertire che il «ritorno alla religione» non è sempre possibile; è impossibile, ad esempio, se si è già dentro di essa. E questo mostra che si parte dal presupposto che l'insicurezza, l'inquietudine e l'angoscia siano patrimonio degli uomini senza religione e non di quelli religiosi. È real-

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7 mente così? In nessun modo. Mai ho creduto chela religione sia un «rifugio», come neppu-re credo che sia un «freno». La missione della religione non è tranquillizzarci né darci co-modità; né risolvere i problemi sociali, storici, intellettuali; né renderci arroganti col cre-dere di averli risolti; né addormentarci. La sua missione è molto più alta e importante: san-tificarci e salvarci.

La religione lascia intatti numerosi problemi di ogni ordine, per i quali, come minimo, l'uomo religioso è tanto sensibile quanto chi è privo di religione. Il cristiano è, precisa-mente, l'uomo per il quale le cose sono meno risolte, perché ha accesso a zone della realtà che gli sono manifestate in forma di misteri con cui deve aver a che fare per vivere; al cri-stiano è necessaria chiarezza su qualche cosa in più rispetto agli altri uomini. E soprattutto, per l'uomo religioso e che spera nell'immortalità e nella resurrezione, le cose sono più im-portanti, veramente importanti; perché se l'uomo si estinguesse, se ad un certo punto ces-sasse definitivamente di vivere, nulla in rigore avrebbe importanza, posto che cesserebbe un giorno di averla.

Di rigore, la religione non dà «soluzioni», dà la luce per cercarle. Persino ciò che si po-trebbe considerare «soluzione» deve essere rivissuto e vivificato attivamente da ciascun uomo se deve avere in lui esistenza religiosa. In questo senso, e solo in questo senso, il Cri-stianesimo dà sicurezza; però è il senso più importante. «Nel Vangelo - diceva il Cardinale Suhard - non troviamo risposte fatte che scendano dal cielo, imposte dall'esterno nel domi-nio delle scienze, della filosofia, della dottrina sociale, dell'arte, della civiltà». Parlava, con espressiva metafora, dei silenzi di Dio, a cui risponde la lunga pazienza dello sforzo umano, che non dà le cose per risolte. La fede è un'illuminazione, una luce, e la luce serve per guardare, per poter vedere. Solo con questa luce si può vedere ciò che la religione ci disco-pre; e chiaramente bisogna in ogni caso arrivare ad essa, non la si può dare per presuppo-sta, non la si può imporre alla cieca.

Voglio dire con questo che la sicurezza che ci dà la religione non è quella delle soluzio-ni, bensì un'altra più profonda: quella che esiste soluzione, quella che le cose, il mondo e noi stessi abbiamo un significato. Però bisogna cercarlo, perché per innumerevoli realtà e te-matiche non sappiamo qual è, e persino nei casi in cui il significatoci è dato con la fede, bi-sogna ricrearlo, riscoprirlo, riviverlo, se non si vuole che rimanga lettera morta. La fede dà sicurezza, non nel senso della comodità o del riposo, ma della fiducia. Qui risiede la sua fe-condità e la sua forza.

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Il pericolo sta nel confondere le sfere della sicurezza. Può succedere, e di fatto sta suc-cedendo, che si vogliano derivare dal Cristianesimo conseguenze intellettuali, sociali, poli-tiche, persino artistiche e letterarie, che nulla o ben poco hanno a che vedere con esso. A volte si propone come «immediata» conseguenza del Cristianesimo una concezione intel-lettuale e filosofica della realtà che tardò tredici secoli a formarsi all'interno della cristiani-tà, il che sembra molto per essere immediato. È molto frequente che si presentino, legate alla religione, idee, interpretazioni, dottrine, costumanze, che nel migliore dei casi sono nate dentro l'area del Cristianesimo, che sono conciliabili con esso, persino ispirate in mi-sura maggiore o minore dal suo spirito; però questo proverebbe al massimo che sono cri-stiane, che sono frutti del Cristianesimo, ma in nessun modo che si identifichino con esso, e ancor meno che possano esaurirne la feconda capacità di ispirarne altre, richieste dalla situazione attuale.

Quando si prende la religione come un repertorio di soluzioni già date, perfino anterio-ri ai problemi, la si insterilisce. Ogni volta che nel mondo si affaccia una questione nuova, il cristiano può tornare alla sua fede, immergersi in essa, per trovare orientamento e forza per sollevarla e cercare una soluzione, trovarla, se c'è (perché il presupposto secondo cui c'è soluzione, che la realtà ha significato, che l'esito totale della vita non è la disperazione, non implica che ciascuna questione concreta sia risolvibile e superabile). Ma se ciò che fa è cercare in vecchi libri umani, storici e limitati tanto quanto altri qualunque, soluzioni pre-vie, pensate con anni o secoli di anticipo rispetto alla nascita dei problemi, allora la conse-guenza naturale e inevitabile di questo atteggiamento sarà la pietrificazione e il fanatismo.

Se tutto è già risolto, se non esistono problemi, posizione che corrisponde al «non c'è solu-zione» che altri proclamano gratuitamente) ogni sorta d'insicurezza e inquietudine appare capriccio o malvagità. La conseguenza è l'eliminazione della libertà politica e di ogni altro genere di libertà religiosa - di fatto, persino della libertà di arrivare ad essere credente, di avvicinarsi sinceramente alla fede-; e chiaramente l'annientamento di ogni spirito di ricer-ca intellettuale. Quale ne sarebbe lo scopo, se tutto si sa già, se tutto è stato risolto una vol-ta per tutte? E siccome, d'altra parte, esiste una certa stima sociale per la scienza, la ricerca e il pensiero, allora non vi si rinuncia - cosa che sarebbe lecita -, ma si ripete il comporta-mento proprio di queste attività ma senza desiderio, né speranza di arrivare a nessuna nuova verità, scartando a priori ogni nuova soluzione, vera o falsa, ai veri problemi del no-stro tempo.

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Non è difficile vederne le conseguenze. Sono chiare le conseguenze politiche o intellet-tuali, ma ancor più gravi e meno manifeste quelle religiose. Quando la religione promette o finge di dare soluzioni di cui non dispone, né ha motivo di disporre, queste soluzioni ri-sultano inadeguate o false, in ogni caso inutili; il che provoca delusione. L'affanno ecces-sivo per una sicurezza previa produce sfiducia - la sfiducia nella ragione e nella fede al tempo stesso, che mostrano quanti vedono errore e pericolo in ogni novità-; e pertanto fa perdere alla religione il suo prestigio e ci priva di quella sicurezza che le è peculiare, che so-lo essa può darci e che è la condizione di tante altre: la sicurezza religiosa. Col volere dare la sicurezza che non si ha, si perde quella che si possiede; per non confidare che le questioni si risolvano quando Dio lo vuole e se vuole, si annullano il valore e la forza di ciò che è già risolto. Il timore dell'insicurezza, di ogni insicurezza, incluso quella inerente alla condizio-ne umana, ché di essa siamo costituiti, ci espone alla perdita del punto di appoggio datoci per orientarci in questa insicurezza.

Così vedo la situazione religiosa nel mondo occidentale contemporaneo. Non si può dimenticare che questo mondo è in molti aspetti unitario e che, come mondo, non si può dire oggi che sia cristiano. Ciò vuol dire che il Cristianesimo deve dare giustificazioni del suo atteggiamento, in via di principio di fronte agli altri, ma anche di fronte a se stesso, nella misura in cui appartiene a questo mondo, è condizionato dalle sue forme e deve vive-re in esso. Per questo deve fare attenzione a non deviare, a non versare la religione fuori dal suo campo e, quando offre ragioni nel nome di questa, curare che siano ragioni effetti-ve, cioè sufficienti. È dunque necessaria un'intensificazione e una depurazione della reli-gione tra i cristiani; l'aumento e l'incremento della religione non vuol dire che essa sia an-cora un maggior numero di cose, che sia in ogni parte, intervenga in tutto e decida tutto, ma che sia ancora più religione. Questo richiedono sia la giustizia sia la carità, perché è ciò che possono e debbono offrire i cristiani ai loro fratelli non più tali, affinché si dica di essi e di quanti mai lo furono, che non lo sono ancora.

(1955)