Fausti - Gv 2 (Cc. 7-12)

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18. IL MIO MOMENTO NON È ANCORA VENUTO 7,1-10 7,1 E dopo queste cose Gesù girava per la Galilea; non voleva infatti girare per la Giudea, perché i giudei cercavano di ucciderlo. 2 Era vicina la festa dei giudei, quella delle Capanne. 3 Allora gli dissero i suoi fratelli: Trasferisciti di qui e va’ in Giudea, affinché anche i tuoi discepoli possano vedere le tue opere che fai. 4 Nessuno infatti agisce di nascosto, ma cerca di essere noto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo! 5 Infatti neppure i suoi fratelli credevano in lui. 6 Allora dice loro Gesù: Il mio momento non è ancora venuto; ma il vostro momento è sempre pronto. 7 Il mondo non può odiare voi; odia invece me, perché io testimonio di lui che le sue opere sono malvagie. 8 Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio momento non è ancora compiuto. 9 Ora, dette loro queste cose, egli dimorò in Galilea. 10 Quando però i suoi fratelli salirono alla festa, allora salì anche lui, non manifestamente, ma [come] di nascosto.

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Il vangelo secondo Luca

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18. IL MIO MOMENTO NON È ANCORA VENUTO7,1-10

7,1 E dopo queste cose Gesù girava per la Galilea;non voleva infatti girare per la Giudea,perché i giudei cercavano di ucciderlo.

2 Era vicina la festa dei giudei,quella delle Capanne.

3 Allora gli dissero i suoi fratelli:Trasferisciti di quie va’ in Giudea,affinché anche i tuoi discepolipossano vedere le tue opere che fai.

4 Nessuno infatti agisce di nascosto,ma cerca di essere noto.Se fai queste cose,manifesta te stesso al mondo!

5 Infatti neppure i suoi fratellicredevano in lui.

6 Allora dice loro Gesù:Il mio momentonon è ancora venuto;ma il vostro momento è sempre pronto.

7 Il mondo non può odiare voi;odia invece me,perché io testimonio di luiche le sue opere sono malvagie.

8 Salite voi alla festa;io non salgo a questa festa,perché il mio momentonon è ancora compiuto.

9 Ora, dette loro queste cose,egli dimorò in Galilea.

10 Quando però i suoi fratelli salirono alla festa,allora salì anche lui,non manifestamente,ma [come] di nascosto.

1. Messaggio nel contesto«Il mio momento non è ancora venuto», risponde Gesù ai suoi familiari che non credono

in lui e gli dicono: «Manifesta te stesso al mondo».I cc. 7 e 8 formano un’unità che culmina nella domanda: «Chi sei tu?» (cf. 8,25) e nella

risposta: «Io-Sono!» (cf. 8,58). Si tratta di una successione movimentata di scene, che hanno come tema l’identità della persona di Gesù. È un dialogo o, meglio, un concerto sinfonico, una lotta a più voci tra la Parola, che si rivela come fonte di salvezza, e il timido assenso, il dubbio o l’incredulità degli ascoltatori. Alla fine le varie voci si unificano davanti alla chiarezza di una parola che si può solo accogliere o rifiutare. Giovanni riprende dal finale del c. 6 il tema dell’incredulità nei confronti di Gesù; lo sviluppa ampiamente in due capitoli, per

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giungere, nel c. 9, alla fede esemplare del cieco guarito, che vede colui che è la luce del mondo.

L’unità di tempo, di luogo e azione è rigorosa: il tempo è la festa delle Capanne, il luogo è il tempio e l’azione è quella della Parola che chiede risposta.

La Parola, luce e vita degli uomini, viene tra i suoi, ma i suoi non l’accolgono (cf. 1,5.10.11). Cercano anzi di catturarlo, di ucciderlo. Il processo a Gesù, che negli altri Vangeli si svolgerà l’ultimo giorno davanti al sinedrio, per Giovanni accade qui e ora, mentre il Signore parla e noi lo ascoltiamo: il giudizio è accogliere o rifiutare la Parola, con la quale egli si identifica. Il giudizio, suo e nostro, avviene mentre lui si rivela; e lo compiamo noi che ascoltiamo.

Giovanni presenta lo scandalo che tutti ci coglie davanti alla Parola diventata carne. La Parola ha posto la sua tenda tra noi (cf. l,14b) e offre pienezza di vita: perché la rifiutiamo? Come mai, anche in seguito, incontrerà la medesima resistenza da parte di tutti, compresi i cristiani?

Come sempre in Giovanni, è difficile fare cesure precise. Il «testo» infatti è un «tessuto» unico di intrecci: chi lo taglia, recide i fili e lo lacera. Anzi, possiamo dire che è un organismo vivo: chi lo divide in brani, lo «sbrana» e lo uccide. È bene lasciare il testo com’è e vedere le articolazioni del suo movimento vitale. Per comodità di lettura, senza separare le varie parti, articoliamo il c. 7 come segue: i vv. 1-10 presentano l’andata di Gesù a Gerusalemme per la festa, i vv. 11-36 il dibattito tra lui e gli interlocutori, i vv. 37-52 la sua rivelazione come sorgente di acqua viva e le varie reazioni.

Ci troviamo alla terza salita di Gesù a Gerusalemme. Nella prima, in tempo di Pasqua, entrò nel tempio con la frusta e si rivelò a Nicodemo, attirandosi l’ostilità dei capi, preludio della sua Pasqua (cf. 2,12-3,21). Nella seconda, durante una festa, guarì il paralitico e si rivelò a tutti come il Figlio, guadagnandosi persecuzione e odio mortale (cf. 5,1-47). In questa terza, come poi nella quarta (10,22ss), anticipo dell’ultima, c’è il processo ufficiale contro di lui, con i tentativi di arrestarlo e di eliminarlo (7,1.30.32; 8,59; 10,31-39).

Dopo la defezione di molti discepoli e il riconoscimento da parte di uno dei Dodici (6,66ss), Gesù gira per la Galilea, evitando la Giudea perché vogliono ucciderlo (v. 1). È vicina la festa dei Tabernacoli o delle Capanne, in cui si ringrazia per la raccolta dei frutti della terra (v. 2). Gesù miete incredulità anche tra i suoi, che non accettano il suo nascondimento: lo provocano a salire a Gerusalemme, per manifestarsi al mondo (vv. 3-5). Gesù risponde che il momento opportuno della sua manifestazione non è ancora giunto; è infatti diversa da quella che essi desiderano (vv. 6-8). Rimane, quindi, in Galilea e sale poi di nascosto a Gerusalemme (vv. 9-10).

L’inizio del capitolo dà il tema: il manifestarsi di Gesù che dà la vita svela la nostra incredulità che lo uccide. C’è un contrappunto tra nascosto/pubblico, vostro/mio momento. I suoi «fratelli» ritengono che sia l’ora giusta di esibirsi e ottenere successo. Essi la pensano come il mondo: vogliono un Messia glorioso e non lo accettano come colui che dà la sua carne per la vita del mondo (6,51). Questi fratelli, a livello di lettura, siamo noi cristiani che non viviamo ancora di quel cibo che riceviamo nell’eucaristia: non accettiamo la sua debolezza come forza, il suo nascondimento come rivelazione, la sua croce come glorificazione, la sua «carne» di Figlio dell’uomo come nostra vita.

In fondo, anche se lo amiamo, non lo accogliamo: davanti a un Dio che tanto ha amato il mondo da dare suo Figlio, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (3,16), in ciascuno di noi, come in Pietro, c’è il satana dell’incredulità (cf. Mc 8,32s; Mt 16,21-23). Anche noi, come i suoi nemici, cerchiamo di impadronirci di lui e piegarlo al nostro volere. Ne è testimone la storia della Chiesa, che non solo ora, ma sempre sente il bisogno di dire mea culpa. Infatti ha esercitato ed esercita, in nome del Signore, una violenza che la oppone a lui, mite ed umile, che dà la vita per i suoi nemici. Anche se non osiamo confessarlo apertamente, pure noi, come i suoi familiari, pensiamo che è fuori di sé (cf. Mc 3,20s). Non ci

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accorgiamo invece quanto noi siamo fuori da lui e dal suo Spirito. Pur essendo nella sua squadra, in realtà giochiamo contro di lui, a favore del nemico. Ancora oggi, dopo duemila anni, non accettiamo il mistero del suo nascondimento che rivela la sua identità divina; sogniamo sempre che sia giunto il momento di un trionfo mondano, ignorando che il suo trionfo sul mondo è quello di un amore che si consegna.

Gesù non è compreso neppure dai suoi familiari. C’è un modo di vedere Dio che è molto umano, anzi diabolico. Gesù ci offre invece un modo divino di vedere l’uomo, che ci rende figli a immagine del Padre.

La Chiesa è, come i familiari di Gesù, contrassegnata dall’incomprensione della sua «carne». L’incredulità che ne segue è il grande mistero di iniquità, che porta al giudizio della croce, condanna sua e salvezza nostra.

2. Lettura del testov. 1: Dopo queste cose, ecc. Dopo il discorso tenuto a Cafarnao, in cui si è rivelato

come vero pane in quanto dà la sua carne per la vita del mondo (6,51-56), Gesù rimane in Galilea. Non sale a Gerusalemme, perché da tempo vogliono eliminarlo (5,18). La volontà omicida nei suoi confronti fa da inclusione ai cc. 7 e 8: all’inizio cercano di ucciderlo (7,1), alla fine raccolgono pietre per lapidarlo (8,59). La sua morte fa da cornice alla rivelazione della sua identità di Messia e di Figlio di Dio. La luce che si dona e la tenebra che la vuole sopraffare sono il tema del concerto che si svolge: è la lotta tra luce e tenebre. Al centro c’è la persona di Gesù, soggetto di autodonazione e oggetto di violenza. Le due voci si armonizzano in lui che, dando vita, riceve morte e, ricevendo morte, dà vita.

v. 2: la festa dei giudei, quella delle Capanne. Insieme alla Pasqua e alla Pentecoste, è una delle tre grandi feste celebrate nel tempio, che comportano un pellegrinaggio a Gerusalemme. È chiamata anche «la festa dei Tabernacoli» o «la festa» per antonomasia (cf. 1Re 8,2-65). Originariamente era una festa agricola, come la Pasqua era una festa pastorizia, che assunse poi significati storici. Essa cade a settembre e conclude la stagione dei frutti (cf. Es 23,16b; 34,22c), in particolare dell’uva (cf. Gdc 9,27; 21,20s): è un ringraziamento per la stagione passata e un’invocazione per quella successiva. Ha avuto un’evoluzione progressiva e composita. In essa si celebra la fine dell’esodo con la lettura della legge, si dimora in capanne a ricordo del soggiorno nel deserto (cf. Dt 31,10-13; Ne 8,14-18), si commemora la Dedicazione del tempio di Salomone (cf. 1Re 8,2-65), si rinnova l’alleanza (cf. Dt 26) e si canta la regalità di Dio, ravvivando le attese messianiche. Si celebra «il giorno del Signore», nel quale tutti i popoli nemici si sarebbero convertiti e sarebbero convenuti a Gerusalemme per adorare il Signore: allora il Signore sarà re di tutta la terra e sarà l’unico Signore (cf. Zc 14,16-19.9). La festa durava sette giorni, ai quali fu aggiunto un ottavo, conclusivo e ancor più solenne. Di notte il tempio era illuminato e si danzava alla luce di lampade e torce; di giorno, al canto del Sal 118, si svolgeva la processione attorno all’altare agitando il lulab, un mazzo di rami di palma, salice e mirto nella mano sinistra e un frutto di cedro nella destra. È una festa gioiosa, di luce e di acqua, che precede l’inverno e celebra la pienezza del dono della terra promessa, che ha dato i suoi frutti (Sal 67,7) sia materiali che spirituali: è compimento di ogni aspirazione dell’uomo e di ogni benedizione di Dio.

Questa solennità fa da contesto alla rivelazione di Gesù: è in lui che si compie l’esodo, si rinnova l’alleanza e viene il Regno. I fiumi d’acqua e la luce del mondo, di cui Gesù parla (7,37; 8,12), alludono all’acqua di Siloe e alla luce del tempio.

Gesù salì al tempio una prima volta a Pasqua e purificò il tempio (2,13ss), una seconda, forse a Pentecoste, e guarì il paralitico (5,1ss); ora sale alla festa delle Capanne (7,1ss) e guarirà il cieco (9,1ss). Ci tornerà per la Dedicazione del tempio (10,22ss) e, infine, per la «sua» Pasqua (11,55ss), per farci dono della sua vita. Tutta la sua attività in Giovanni è da leggere alla luce di queste feste: Gesù compie ciò che esse significano.

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Anche i tre segni compiuti in Galilea (2,1ss; 4,43-54; 6,1ss) e la promessa fatta in Samaria (4,1ss) illuminano ciò che avverrà a Gerusalemme, nella sua «ora». La risurrezione di Lazzaro ne sarà il preannuncio (11,1 ss).

Dopo il dono del pane, che richiama la manna, si comprendono bene i temi di questa festa che si compendiano in Gesù: con lui si conclude l’esodo, si vive del frutto della terra promessa e si ottiene l’acqua e la luce, principio terrestre e celeste di fecondità. Quello terrestre, l’acqua, implica anche la morte; quello celeste, la luce, è il trionfo della vita.

v. 3: gli dissero i suoi fratelli. I fratelli di Gesù, già comparsi in 2,12, sono i suoi parenti. Sono tali secondo la carne, non ancora secondo lo Spirito. Infatti non credono in lui (v. 5). In 20,17 sono chiamati fratelli i discepoli; in 21,23 tutti gli altri credenti. Suo fratello, infatti, è chi compie, come lui, la volontà del Padre (cf. Mc 3,35p).

trasferisciti di qui e va’ in Giudea, ecc. Lo esortano ad andare in Giudea perché i suoi discepoli, anche potenziali, vedano le opere che è capace di compiere. In Galilea ha dato il vino, la vita e il pane, i frutti desiderati della terra. In Gerusalemme ha fatto camminare l’uomo; ora gli darà occhi per vedere il dono di Dio. Seguirà ancora, come ultimo miracolo, il dono della vita a Lazzaro.

La loro richiesta è una provocazione. Hanno rimosso ciò che Gesù ha appena detto a Cafarnao. Lo considerano un po’ come un campione da fiera, da esibire nelle feste. Il suo successo sarebbe poi ricaduto su di loro.

v. 4: nessuno infatti agisce di nascosto, ecc. È una constatazione di buon senso: se uno cerca fama, deve mettersi in mostra. Così fanno i venditori e i politici. Ma come può credere in lui chi cerca la gloria degli uomini e non quella che viene da Dio solo (5,44)? Chi cerca il proprio io, non trova Dio; solo chi cerca Dio, trova il suo vero io.

se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo. La festa delle Capanne, con le folle che accorrevano a Gerusalemme, era il momento opportuno per una ripetizione del gesto del pane, un numero che gli era riuscito così bene in Galilea. Doveva però evitare in futuro le spiegazioni incresciose, che sempre dava. In verità «ha fatto bene ogni cosa» (Mc 7,37); ha commesso però, secondo i suoi, un solo errore: parlare! Senza parole avrebbe potuto convincere le masse che lui era il Messia e prendere in mano il potere. È l’attesa comune a tutti. Chiedono opere che si vedano (v. 3) e lo mettano in «mostra», che non lo lascino «nascosto» e lo «manifestino», con risonanza addirittura «mondiale».

v. 5: infatti neppure i suoi fratelli credevano in lui. Il movente («infatti») che Giovanni dà di questa proposta è l’incredulità. Credere in Gesù significa accettare la sua carne data per la vita del mondo (6,51).

Anche noi possiamo essere suoi fratelli e non accettare il mistero della croce. È l’in-credulità satanica che si annida in tutti, anche in Pietro. Come è un dato di rivelazione la sua fede in Cristo e la promessa a lui fatta, così è un dato di rivelazione anche il «vade retro, satana!», che Gesù gli ha detto (cf. Mt 16,16-23; cf. Mc 8,27-33). Anche per lui è necessario, come per tutti, discernere in sé il pensiero diabolico da quello divino, senza confonderli, sapendo che ci sono sempre ambedue. Ora come allora.

La fede non è dire: «Gesù è il Messia che aspetto». Devo piuttosto dire: «Il Messia che aspetto è Gesù crocifisso, che proprio non mi aspettavo».

v. 6: il mio momento non è ancora venuto. «Momento», in greco kairós (= momento opportuno), ricorre solo in questo contesto (vv. 6.8) e in 5,4. Gesù in Giovanni usa invece di frequente la parola «ora», con la quale indica la sua glorificazione sulla croce. Non è ancora il momento di dare la sua carne. Per adesso si rivela; la sua rivelazione porterà all’«ora» in cui tutto sarà compiuto (19,30).

il vostro momento è sempre pronto. Tra lui e noi c’è un contrasto. Per noi è sempre il momento di cercare la nostra gloria; Gesù invece sta facendo, e facendoci fare, il cammino inverso, in cerca della gloria di Dio, che si compie nell’ora stabilita dal Padre.

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Il loro momento è quello del mondo, ben diverso da quello di Dio. Il momento di fare il male è sempre pronto; e siamo paurosamente liberi di farlo ora e sempre. Lo schiantarsi di un albero è di un secondo e può avvenire in ogni istante, la sua crescita è lenta e secolare. Il momento di Dio è quello della vita, con ritmi diversi da quello della caduta e della morte.

v. 7: il mondo non può odiare voi. Infatti essi sono ancora dal mondo e il mondo ama ciò che è suo; li odierà quando non saranno più dal mondo (cf. 15,18s). Gesù avverte i suoi con severità: sono amici del mondo e nemici di Dio (cf. Gc 4,4). Odio e amore sono sempre secondo la «consonanza» interiore.

odia invece me. Gesù invece è odiato perché non è dal mondo. Infatti chi agisce male odia la luce e non viene alla luce, perché non siano svelate le sue opere, che sono malvagie (cf. 3,19s).

io testimonio di lui che le sue opere sono malvagie. Gesù è odiato perché si oppone alla malvagità del mondo, dalla quale lo vuole salvare (cf. 3,16s). Vivendo da figlio e da fratello, svela la tragica menzogna che conduce alla morte. I suoi, come il mondo, non conoscono ancora la verità che fa liberi (cf. 8,32).

v. 8: salite voi alla festa. In questa festa vedranno la sua rivelazione pubblica, così diversa da quella che attendevano. Spiegherà infatti il mistero della sua persona, provocando la reazione che porterà alla sua Pasqua.

io non salgo a questa festa. Gesù salirà a Gerusalemme per un’«altra» festa, quando si manifesterà al mondo dalla croce e attirerà tutti a sé (cf. 12,32). Quella sarà la «sua» festa.

il mio momento non è ancora compiuto. Il momento del suo manifestarsi dalla croce non è ancora giunto. Per ora si rivela in modo tale che decideranno la sua condanna, eseguita poi nell’ora stabilita da Dio.

v. 9: dette queste cose, dimorò in Galilea. Gesù fa quanto ha appena detto al versetto precedente. Ma come si può concordarlo con quello che segue? L’espressione «io non salgo a questa festa» può essere intesa come uno degli equivoci di Giovanni, carichi di ironia: Gesù non sale, con loro e come loro, a questa festa.

v. 10: quando però i suoi fratelli salirono alla festa, allora salì anche lui, ecc. Gesù sale a Gerusalemme, ma da solo; non obbedendo ai fratelli, ma al Padre; non seguendo le loro attese, ma la volontà di chi l’ha inviato; non in pubblico, ma di nascosto. Il suo salire non è lo stesso dei suoi fratelli, come la sua festa sarà diversa dalla loro: in essa si svolgerà il giudizio che lo porterà alla croce. E sale dopo di loro, apparendo solo a metà della festa (v. 14), per rivelarsi poi definitivamente nell’«ultimo giorno» (v. 37).

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando i parenti di Gesù che parlano con lui.c. Chiedo ciò che voglio: capire la differenza tra i suoi pensieri e i miei pensieri.d. Traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:• i giudei lo cercano per ucciderlo• la festa delle Capanne• cosa hanno capito di Gesù i suoi fratelli• la proposta di dare spettacolo a Gerusalemme• agire di nascosto/essere in mostra• manifestati al mondo• i suoi fratelli non credono in lui• il mio momento non è ancora venuto• il vostro è sempre pronto• il mondo non può odiare voi

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• odia me, perché testimonio contro la sua malvagità• io non salgo a «questa» festa• salì non manifestamente, di nascosto.

4. Testi utiliSal 67; 118; Es 23,14-19; 34,21-23; Dt 16,13-17; 26,1-11; 31,10-13; 1Re 8,2.64-66; Zc

14,1-19; Mc 3,20-35; 6,1-6; Lc 4,16-30.

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19. DOVE SONO IO, VOI NON POTETE VENIRE7,11-36

7,11 Allora i giudei lo cercavano nella festae dicevano:

Dov’è lui?12 E il mormorio su di lui

era molto tra le folle;alcuni dicevano:

È buono!Altri [invece] dicevano:

No, ma inganna la folla!13 Nessuno tuttavia parlava in pubblico di lui

per paura dei giudei.14 Ora, già a metà della festa,

Gesù salì nel tempioe insegnava.

15 Allora si meravigliavano i giudeidicendo:

Come costui sa di letteresenza essere stato a scuola?

16 Allora Gesù rispose loroe disse:

Il mio insegnamentonon è mio,ma di colui che mi inviò.

17 Se qualcuno vuol fare la sua volontà,conoscerà se l’insegnamento è da Dioo se io parlo da me stesso.

18 Chi parla da se stessocerca la propria gloria;ma chi cerca la gloriadi chi lo inviò,costui è veritieroe in lui non c’è ingiustizia.

19 Mosè non vi ha dato la legge?E nessuno tra di voi fa la legge.Perché cercate di uccidermi?

20 Rispose la folla:Hai un demonio:chi cerca di ucciderti?

21 Rispose Gesù e disse loro:Una sola opera ho fattoe tutti vi meravigliate.

22 Per questo (vi dico:)Mosè vi ha dato la circoncisione– non che sia da Mosè, ma dai padri –e di sabato circoncidete un uomo.

23 Se un uomo riceve la circoncisione di sabato

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perché non sia violata la legge di Mosè,voi vi sdegnate con meperché di sabato feci sanoun uomo tutto intero?

24 Non continuate a giudicare secondo apparenza,ma giudicate (con) giusto giudizio.

25 Allora dicevano alcuni dei gerosolimitani:Non è questicolui che cercano di uccidere?

26 Ed ecco parla in pubblicoe non gli dicono nulla!Hanno forse i capiveramente conosciutoche egli è il Cristo?

27 Ma costui sappiamo da dove è;il Cristo invece, quando viene,nessuno sa da dove è.

28 Allora Gesù gridòinsegnando nel tempioe dicendo:

E me conoscete e sapeteda dove sono;eppure io non sono venuto da me stesso,ma è veritiero colui che mi inviò,che voi non conoscete.

29 Io lo conosco,perché sono da presso luied egli mi mandò.

30 Allora cercavano di arrestarlo;e nessuno mise la mano su di lui,perché non era ancora venutala sua ora.

31 Allora molti della follacredettero in luie dicevano:

Il Cristo, quando verrà,farà più segni di quelliche egli fece?

32 I farisei udirono la follache mormorava su di lui queste cose;e i capi dei sacerdoti e i fariseimandarono degli inservientiperché lo arrestassero.

33 Allora Gesù disse:Ancora per poco temposono con voie me ne vado da chi mi inviò.

34 Mi cercheretee non [mi] troverete;e dove sono io,voi non potete venire.

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35 Allora i giudei dissero tra loro:Dove sta per andare costui,che noi non lo troveremo?Sta forse per andarenella diaspora dei grecia insegnare ai greci?

36 Cos’è questa parola che disse:Mi cercheretee non [mi] troverete;e dove sono io,voi non potete venire?

1. Messaggio nel contesto«Dove sono io, voi non potete venire», dice Gesù a quelli che, con intenzione omicida,

chiedono: «Dov’è lui?» (v. 11). Gesù giunge di nascosto a metà della festa, direttamente al tempio, e si mette ad insegnare. Se ne era andato da Gerusalemme subito dopo la guarigione del paralitico, quando avevano deciso di ucciderlo (cf. 5,18). La minaccia delle tenebre che vogliono catturare la luce domina questo terzo soggiorno a Gerusalemme; si acuirà nel quarto (10,22ss) e si compirà nell’ultimo. Il testo inizia con i nemici che lo cercano per sapere dove è (v. 1 ) e termina con la loro domanda su cosa significano le parole: «Mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire» (v. 36; cf. v. 34).

La folla ha su di lui pareri opposti. C’è chi lo ritiene buono (v. 12a), lo riconosce come il Cristo (vv. 26.31) e crede in lui (v. 31), ma ha paura a dichiararsi in pubblico a causa dei giudei (v. 13); c’è chi lo ritiene un ingannatore (v. 12b), un indemoniato (v. 20), uno da arrestare (vv. 30.32) e da uccidere (vv. 19.20.25). Ciò che Gesù è, fa e dice non può lasciare indifferente nessun uomo: o lo si accetta o lo si elimina. Non possono stare insieme tenebra e luce, menzogna e verità, schiavitù e libertà, morte e vita. O c’è l’una o c’è l’altra. Esiste però un processo di illuminazione e di ricerca, di liberazione e di gestazione: è il lento cammino della fede. Il dialogo sincero è ciò che lo innesca e produce, mettendo in gioco l’esistenza autentica di ogni persona, con tutte le sue contraddizioni.

Gesù riappare a Gerusalemme nel bel mezzo della festa delle Capanne. Non compie prodigi per mostrarsi al mondo, come gli avevano chiesto i suoi fratelli (v. 4). Il segno che dà è la Parola, per spiegare le sue opere e rivelare il mistero della sua persona. Solo alla fine della festa guarirà il cieco (9,1ss), primizia di coloro che saranno illuminati da colui che è la luce del mondo (8,12).

L’argomento del testo è il «dove» si trova Gesù, che implica il «da dove» viene e il «verso dove» va. «Dove» indica il luogo in cui uno abita. Normalmente è la casa dove è nato, «da dove» viene e «verso dove» va. Dove uno vive determina la sua identità: è la sua origine, che sarà anche la sua destinazione.

Dopo la domanda iniziale: «Dov’è lui?» e le varie opinioni contrastanti su Gesù (vv. 11-14), si chiede da dove prende la sua dottrina, se non ha frequentato nessun maestro (vv. 15-18), da dove viene il suo modo di intendere la legge e il sabato, che sembra violare (vv. 19-24), da dove viene lui, che si dice il Cristo (vv. 25-29). Al tentativo dei capi di arrestare colui che la gente semplice intravede come il Messia (vv. 30-32), Gesù risponde dicendo enigmaticamente che, dove è lui, noi non possiamo venire (vv. 33-36). Nel testo seguente ci mostrerà come accedere a questo luogo segreto (vv. 37ss).

Vari commentari pongono i vv. 15-24 subito dopo il c. 5, a conclusione della disputa con i capi del popolo dopo la guarigione del paralitico. Vi sono effettivamente molti richiami. Tuttavia si possono lasciare anche dove sono. I suoi nemici, come anche i lettori, non hanno certo dimenticato le provocazioni gravi della prima e poi della seconda sua comparsa a Gerusalemme.

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Il centro del dibattito è l’identità di Gesù, da non giudicare secondo le apparenze, ma secondo un giusto giudizio (v. 24), che viene dal confronto delle sue parole con le sue opere. Gli interrogatori, che si susseguono a ripetizione, sono per Gesù il momento opportuno per rivelare che la sua opera, la sua Parola e la sua stessa persona è di origine divina. Dove lui è, noi non possiamo venire, a meno che non accogliamo il suo grido: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva!» (v. 37). Egli è il Figlio, da sempre presso il Padre, che ci chiama a ricevere il dono del suo Spirito. Se lo ascoltiamo potremo essere anche noi dove lui è (cf. 14,3; 17,24), nella nostra vera casa, quella del Figlio.

Le domande della folla e le reazioni dei capi nei confronti di Gesù sono le medesime che incontra anche la prima comunità cristiana. Ma sono pure quelle che la Parola suscita in chiunque l’ascolta, in ogni epoca: come può un uomo dire parole che non vengono da uomo, ma da Dio stesso? Come può mettersi al di sopra della legge e del sabato, ordinamenti divini, in nome dell’amore e della vita? Come può venire da Dio e pretendere di essere Dio, sino a chiamarlo: «Padre mio»?

È lo scandalo irriducibile di Gesù, che l’evangelista, fin dall’inizio, presenta come il Figlio unigenito di Dio, diventato carne per mostrare ai fratelli il volto del Padre che nessuno mai ha visto (cf. 1,18). In Gesù c’è un’umanità come la nostra, che ben conosciamo. Per questo siamo in grado di vederne le opere e ascoltarne le parole. Ma tutto ciò che di lui è noto è segno della «Gloria», un rimando al mistero ignoto di Dio, che può capire solo chi accoglie la sua persona.

La forma del testo, come al solito in Giovanni, è un dibattito drammatico tra Gesù e vari personaggi: è il dramma, divino-umano, che si svolge tra la Parola e noi che l’ascoltiamo. Essa infatti interpella ora come allora, suscitando ogni volta ciò che ha suscitato nei primi ascoltatori. Il suo intento è farci uscire dalla schiavitù della menzogna e dalla tenebra di morte per farci entrare nella libertà della verità e nella luce della vita. Il testo narra – e contemporaneamente opera – il lento cammino di liberazione che la Parola porta avanti in chi l’ascolta. Il dialogo presenta una raffica di domande, alle quali Gesù risponde con precisione puntigliosa. Ma lo fa come da un piano superiore: è quello del Padre, che il Figlio vuol far conoscere ai fratelli.

I suoi interlocutori conoscono le Scritture. Ma quando Dio realizza ciò che ha detto, non sono in grado di capirlo. La sua promessa è più grande di ogni fama (Sal 138,2); infatti il dono promesso è lui stesso che promette. O ci si apre ad accogliere lui, sorgente della vita, o lo si rifiuta, restando nella morte. In Gesù, uomo e Dio, si gioca il dramma di vita o di morte dell’uomo. In esso è coinvolto anche Dio, che lo ama più di se stesso.

La pretesa di Gesù di essere Dio (cf. 5,18) non è la stolta presunzione di Adamo, che volle rapire l’uguaglianza con lui (cf. Gen 3,6): è la sua condizione di Figlio, che tutto riceve in dono dal Padre e dona ai fratelli, realizzando così la sua natura di Figlio uguale al Padre.

Gesù è il Figlio di Dio, la Parola eterna, Dio stesso! Nessun fondatore di religione si è ritenuto tale, a meno che si tratti di un pazzo blasfemo, di un ingannatore o di un ingannato – che comunque è da «eliminare per il bene comune», come dicono e faranno i capi del popolo (11,49-50). Ma la sua uccisione, invece di stroncare la follia sul nascere, non farà che mettere sotto terra il seme che spunterà in messe sempre più abbondante. La sua Parola e le sue opere, la sua vita e la sua morte, con ciò che ne è seguito e ne segue ancora, testimoniano a suo favore. È impossibile uccidere la verità, come è inutile sotterrare una talpa.

Il messaggio e l’azione di Gesù, che per amore dona la sua vita ai fratelli, lo rivelano come il Figlio. Per questo sarà condannato. Ma la croce confermerà definitivamente la sua parola e compirà la sua opera: lo rivelerà come il Signore della vita proprio mentre dà la vita.

Gesù è la sapienza di Dio: la sua legge è l’amore per ogni vivente. Per questo è il Cristo, l’inviato da Dio per salvare il mondo dalla morte. La decisione di ucciderlo non lo eliminerà; anzi lo glorificherà, mostrando la sua origine divina, alla quale torna ormai con la nostra carne umana.

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La Chiesa si riconosce nella folla che progressivamente scopre l’identità di Gesù, passando tra i dubbi propri di chi cerca di conoscere il mistero di Dio e le resistenze mortali proprie di chi lo rifiuta perché crede di conoscerlo.

2. Lettura del testov. 11: Allora i giudei lo cercavano. Il cercare è fondamentale per ogni vivente: la pianta

cerca acqua, l’animale cibo e l’uomo felicità. Ma la felicità non è una cosa; dipende piuttosto da ciò che muove la ricerca. Si può infatti cercare per prendere e uccidere, come l’animale fa con la sua preda, oppure per incontrare e accogliere ciò che si desidera e si ama.

dov’è lui? È la domanda di quelli che lo cercano per ucciderlo. Il «dove» è il luogo che uno «ora» occupa. «Dove» e «ora» sono le coordinate di spazio e di tempo con le quali si può individuare qualunque esistente. Mentre l’«ora» è la stessa per tutti e fluisce di continuo, sottratta alla nostra libertà – solo Dio determina l’«ora» (cf. v. 30b) –, il «dove» è diverso per ciascuno e più stabile per ognuno, disponibile alla nostra libertà. Indica normalmente la casa dove uno dimora, che è anche il da dove viene e verso dove va. Il «dove» è quindi l’incognita che differenzia una persona dall’altra. Dove si è, da dove si viene e verso dove si va sono le domande fondamentali dell’uomo sull’uomo. «Dove sei?» è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo, che, dopo l’esperienza del male, non è più al suo posto (Gen 3,9). Infatti «il posto dell’uomo è Dio». Chi non è al suo posto, non è felice!

«Dove dimori?» domandano i primi due discepoli a Gesù che chiede: «Che cercate?». La sua risposta sarà: «Venite e vedrete» (cf. 1,39). Qui si cerca Gesù non per «dimorare con lui», ma per strapparlo con violenza dal suo dove e portarlo là dove tutti siamo condotti. «Dove l’avete posto?» chiederà Gesù di Lazzaro: «Vieni e vedi», gli risponderanno indicandogli il sepolcro (cf. 11,34). Esso sarà il luogo «dove» sarà deposto anche lui (cf. 20,12.13.15), che è venuto di persona a vedere dove è stato posto l’amico.

Più avanti Gesù indicherà un «dove» che noi ignoriamo: «Dove sono io, voi non potete venire» (v. 34). Verrà lui ad aprirci l’accesso a questo «dove», che è il suo posto, quello del Figlio che è di casa presso il Padre, dal quale ci siamo allontanati.

v. 12: alcuni dicevano: è buono. Il giudizio su Gesù divide la folla. Ognuno vede con il suo occhio e giudica secondo il suo cuore: se è buono, dice che è buono, se è cattivo, dice che è cattivo. Per questo il giudizio giudica chi lo compie.

Questa opinione positiva su Gesù è il primo germe della fede, che fa aderire alla sua persona. È il giudizio di chi giudica secondo giudizio, senza pregiudizi: dal frutto capisce la bontà dell’albero.

no, ma inganna la folla. Di Gesù si può dire che è buono, sino a riconoscere in lui l’unico buono (cf. Mc 10,17-18), oppure che è il peggior ingannatore della storia, che continua a ingannare anche a distanza di duemila anni.

L’inganno è la non corrispondenza tra intenzioni, parole e/o opere. In Gesù intenzioni, parole e opere rivelano con coerenza chi egli è; non si può separare la sua persona da ciò che dice e fa. Egli è il Figlio, il suo «dove» è il Padre: da lui viene e verso di lui va, portando con sé i fratelli che lo accolgono.

v. 13: nessuno tuttavia parlava in pubblico di lui, ecc. Quelli che approvano Gesù hanno paura dei capi del popolo. La stessa cosa capiterà anche alla prima comunità cristiana di origine giudaica (cf. 16,2).

v. 14: a metà della festa. Gesù non viene all’inizio della festa, come volevano i suoi. Arriva a metà, per rivelarsi pienamente l’«ultimo giorno» (v. 37).

Gesù salì nel tempio. Gesù vi era già salito alla prima festa, preannunciando il nuovo tempio distrutto e riedificato, che sarà il suo corpo (cf. 2,13ss). La seconda volta si era fermato fuori, presso la piscina di Bethzathà (cf. 5,1ss). Questa terza volta, senza nominare Gerusalemme, Gesù sale direttamente nel tempio. Da esso uscirà (8,59), dopo aver manifestato se stesso come il vero tempio.

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insegnava. In Giovanni solo Gesù insegna. Egli è il Maestro, la Sapienza stessa di Dio fatta carne. Noi tutti siamo discepoli. Si parla anche del Padre che insegna a lui l’essere Figlio (8,28) e dello Spirito che insegna a noi ciò che Gesù ha detto (14,26). L’insegnamento di Gesù è il centro del Vangelo. Esso è opera rispettivamente del Figlio, del Padre e dello Spirito: siamo istruiti direttamente da Dio (cf. 6,45), Padre, Figlio e Spirito Santo.

v. 15: come costui sa di lettere senza, ecc. Gesù insegna senza essere stato a scuola da nessun maestro. Di che scuola è, «da dove» gli viene la conoscenza delle Scritture, se non l’ha appresa da altri uomini (cf. Mc 6,l-6a; Mt 13,53-58; Lc 4,16-30)? Non c’è maestro peggiore di chi si inventa le cose che dice. Che credenziali di verità può offrire?

v. 16: il mio insegnamento non è mio. Spesso si cerca di essere originali a tutti i costi, senza rifarsi a tradizioni o maestri. Gli inventori di dottrine, soprattutto in ambito religioso, sono pericolosi: sacrificano la verità alla vanagloria, senza rispetto né per cose né per persone. Anticamente ogni maestro si rifaceva ad un altro, inserendosi in una catena di verità collaudate dall’esperienza, alle quali aggiungeva il suo anello.

ma di colui che mi inviò. Gesù non è un maestro normale: è il Figlio istruito direttamente dal Padre (cf. 8,28). Più che un maestro, è un inviato che dice ciò che l’altro gli ha ordinato. Non è un insegnante che spiega, ma uno che rivela ciò che gli è stato detto, con l’autorità stessa di chi l’ha mandato. Si presenta come il Figlio che fa l’«esegesi» del Padre (cf. 1,18), che lui ben conosce, perché anche noi impariamo ad essere figli e fratelli.

v. 17: se qualcuno vuol fare la sua volontà, conoscerà se l’insegnamento è da Dio. Gesù afferma esplicitamente che il suo insegnamento è da Dio. Lo conosce solo chi vuol fare la sua volontà. C’è connessione tra conoscenza e volontà, tra intelligenza e amore. Uno conosce solo ciò che vuole, capisce solo ciò che ama. La fede, o il suo rifiuto, non è questione di verità teorica, ma di volontà pratica.

L’ateismo, dal punto di vista teorico, è poco critico e molto dogmatico: respinge «a priori» ciò che una fede illuminata (da non confondere con la creduloneria, assai più diffusa) accetta per motivazioni valide, «a posteriori». La fede si basa infatti su dei segni che portano a cercare e trovare una verità che poi l’esperienza conferma come tale.

Si parla talora di irrazionalità della fede, senza tener presente che è più ragionevole del suo contrario. Se c’è la sete, è ragionevole pensare che ci sia l’acqua, come è irrazionale rifiutare la possibilità che ci sia. Tuttavia le cose contro ragione hanno ragioni profonde: quelle del cuore, che la ragione stenta a riconoscere. Il rifiuto di Dio non viene dall’intelligenza – a meno che sia una reazione inadeguata alla creduloneria –, ma da un cuore non ancora libero dalle paure che gli vietano i suoi desideri più profondi. Sant’Agostino diceva: «Credo per capire» e «Capisco per credere». Per conoscere una persona bisogna avere una fiducia iniziale in lei; come, per aver fiducia piena in lei, bisogna conoscerla bene. Principio della conoscenza è la fede, fine della conoscenza è una fiducia confermata. Fede e conoscenza vanno sempre insieme. La priorità è comunque della fede, perché uno conosce solo ciò che è disposto a conoscere. Senza una fede ragionevole è impossibile una vita che sia umana.

v. 18: chi parla da se stesso cerca la propria gloria, ecc. (cf. 5,44!). Si trova ciò che si cerca. Chi cerca il proprio io, sacrifica all’interesse la verità; chi cerca la verità, è libero per incontrarla. Chi cerca la propria gloria è menzognero e ingiusto; chi cerca la gloria di Dio è veritiero e in lui non c’è ingiustizia, come si dice del Servo di JHWH (cf. Is 53,9).

v. 19: Mosè non vi ha dato la legge? La parola «ingiustizia» del versetto precedente richiama il tema della legge, che dice ciò che è giusto e ingiusto. Qui si cambia argomento: si passa dall’origine della sapienza di Gesù alle sue pretese violazioni della legge. È la prima volta che sulla bocca di Gesù troviamo la parola «legge». Già alla fine dell’episodio del paralitico, qui ricordato, Gesù parla di Mosè che accusa quelli che, invece di credere, lo accusano (cf. 5,46).

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nessuno tra di voi fa la legge. Uno può osservare tutti i precetti come il fratello maggiore (cf. Lc 15,29), essere irreprensibile come Paolo (cf. Fil 3,5s), e tuttavia non «fare» la legge, che è la volontà di Dio (cf. v. 17). Infatti essa consiste in concreto nell’amare Dio e i fratelli, non nel sacrificare l’uomo a delle norme.

perché cercate di uccidermi? I suoi accusatori non osservano la legge, perché cercano di uccidere Gesù che, di sabato, dà la vita a un uomo mezzo morto. A differenza di loro, egli ha colto e vissuto la legge e il sabato.

v. 20: hai un demonio. La folla non conosce ancora, tranne alcuni, l’intenzione omicida dei capi. Qui l’espressione vorrebbe dire: «Ma sei matto? Noi non vogliamo ucciderti!». In Mc 3,21-22 i familiari di Gesù lo ritengono un pazzo e gli scribi un indemoniato. Il modo che ha di intendere Dio e l’uomo è sconcertante per i benpensanti, addirittura demoniaco per i religiosi. Senza rifarsi ad alcuna scuola, presenta un Dio che è a servizio dell’uomo e un uomo che è chiamato ad essere libero come Dio. È un trasgressore: la sua non è la stoltezza blasfema del primo uomo, ingannato da satana (Gen 3,5)?

v. 21: una sola opera ho fatto, ecc. Gesù si riferisce alla guarigione del paralitico (cf. 5,1ss), che gli ha suscitato contro l’odio mortale dei capi (cf. 5,18).

v. 22: di sabato circoncidete un uomo. Dopo aver parlato di Mosè e della legge, Gesù parla della circoncisione, ben più antica di Mosè, che risale ad Abramo (cf. Gen 17,9-14). Se di sabato si circoncide senza con ciò trasgredire il precetto, a maggior ragione non lo trasgredisce chi salva interamente un uomo.

v. 23: voi vi sdegnate con me, ecc. I suoi avversari sono incoerenti nel loro sdegno contro di lui. Ciò che ha compiuto alla piscina non è la trasgressione della legge e del sabato, bensì il loro compimento: è la vera circoncisione, che fa entrare l’uomo nella promessa di Dio.

v. 24: non continuate a giudicare secondo apparenza. Solo apparentemente Gesù ha violato il sabato: in realtà ha compiuto ciò di cui il sabato è segno.

giudicate (con) giusto giudizio. Bisogna comprendere bene, al di là dei pregiudizi, cosa sono il sabato e la legge per valutare ciò che Gesù ha fatto. Allora ci sarà il giusto giudizio: lui non solo è buono (v. 12a), ma compie la legge, portando la creazione al sabato di Dio e dando all’uomo la pienezza di vita. Come si vede, a un diverso modo di intendere la legge corrisponde una diversa concezione di Dio e dell’uomo: Dio può essere concepito come un potente che assoggetta a sé l’uomo con la legge, oppure come un padre che dona la libertà ai figli, per renderli uguali a sé. Dalla concezione di legge che si propone, si vede anche quale Dio e quale uomo si suppone. Religione servile e ateismo ribelle, al di là delle apparenze, si corrispondono: hanno la stessa immagine negativa di Dio, rispettivamente affermata o negata.

v. 25: non è questi colui che cercano di uccidere? La folla non sa, ma «alcuni» di Gerusalemme sanno che i capi vogliono uccidere Gesù. Sono forse quelli che sono stati mandati per arrestarlo (cf. vv. 30.32.44-49). Chi ha una certa concezione di legge, di Dio e di uomo, non può che eliminare come sovversivo del potere costituito quest’uomo che propone una legge di libertà.

v. 26: egli è il Cristo? Vedendolo parlare in pubblico senza impedimenti, viene loro il dubbio che i capi abbiano cambiato parere su Gesù. Il Messia non è colui che viene a donare la libertà all’uomo? Se prima si parla dell’origine della sua sapienza, ora si passa all’origine della sua messianicità.

v. 27: costui sappiamo da dove è. Il Messia, secondo le concezioni dell’epoca, sarebbe stato sconosciuto sino al ritorno di Elia, il primo profeta, che lo avrebbe manifestato. È quanto avvenne nel battesimo ad opera di Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti.

Qui il problema non è che Gesù sia da Nazareth invece che da Bethlem. Questo sarà dibattuto nei vv. 41-42. La questione è il «da dove» del Messia, che dovrebbe essere misterioso e ignoto, mentre quello di Gesù è ben noto.

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v. 28: Gesù gridò nel tempio, ecc. Gesù grida (cf. 7,37; 12,44). È un grido che risuona ancora. A chi dice di conoscere da dove viene, risponde che lo sanno, ma solo a metà: conoscono da dove viene come uomo, ma ignorano la sua origine divina.

non sono venuto da me stesso, ecc. Gesù viene da uno che essi non conoscono e che nessuno mai ha visto (cf. 1,18). L’origine della sua persona è la medesima del suo insegnamento: Dio stesso (cf. v. 17ss).

v. 29: io lo conosco, perché sono da presso lui. Gesù conosce chi l’ha mandato. Egli è la Parola che era prima del mondo, che era presso Dio ed è Dio; ora è presso di noi per donarci la possibilità di diventare figli di Dio (cf. 1,1ss). Tutto il Vangelo di Giovanni è uno sviluppo di questi temi, già annunciati nel prologo.

v. 30: cercavano di arrestarlo; e nessuno, ecc. La risposta alla proposta di Gesù non lascia scampo: o lo si arresta per ucciderlo, o lo si accoglie per vivere di lui (cf. v. 31). Ma le tenebre non possono arrestare la luce.

non era ancora venuta la sua ora. L’ora del Figlio non è determinata dagli uomini, ma dal Padre, che ne farà l’ora della sua glorificazione. Per il momento non è ancora giunta: siamo solo al giudizio, che porterà alla croce.

v. 31: il Cristo, quando verrà, farà più segni di quelli che egli fece? La parola «segni» richiama quanto Dio ha operato con Mosè per liberare il suo popolo. Molti della folla credettero in Gesù a causa dei «segni». Questi sono le azioni che egli compie, perché si creda che lui è Messia e Figlio di Dio (cf. 2,23; 3,2; 6,2.14; 9,16; 11,47; 20,30s).

v. 32: i farisei udirono la folla, ecc. I farisei sono i capi religiosi riconosciuti dal popolo (dopo la caduta del tempio nel 70, divennero gli unici punti di riferimento). Insieme ai capi dei sacerdoti decidono l’arresto di Gesù e mandano alcune delle guardie del tempio. Queste però torneranno con le mani vuote e con qualche dubbio in testa, attirandosi le imprecazioni dei loro mandanti (cf. vv. 44-49).

v. 33: ancora per poco tempo sono con voi. A coloro che chiedono di lui: «Dov’è?» (v. 11), Gesù risponde: «Sono con voi», ma per poco tempo. «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce» (cf. 12,35a.36a; 13,33; 14,19; 16,16-20). Sarà per poco tempo con loro, perché presto lo uccideranno. Questo è il tempo loro concesso per convertirsi a lui.

me ne vado da chi mi inviò. Inizia il cammino di Gesù, che torna al Padre suo dal quale è venuto (cf. 13,3; 16,28). È il cammino della Gloria (cf. 13,31s; 17,1), che apre anche a noi (cf. 14,3s). La sua uccisione sarà il ritorno del Figlio al Padre che l’ha inviato ai fratelli.

v. 34: mi cercherete e non [mi] troverete. Infatti non sono convertiti dalla loro incredulità, tranne pochi e paurosi (cf. 12,37-43). Cercare e non trovare è la tragica condizione di chi non segue la via della Sapienza: su lui incombe la rovina (cf. Pr 1,20-33). È la grande maledizione di chi è affamato e assetato della Parola e la cerca dappertutto, ma non la trova da nessuna parte, perché non si converte dalle sue azioni malvagie (cf. Am 8,11s; Os 5,6). Bisogna cercare il Signore mentre si fa trovare (cf. Is 55,6); e si fa sempre trovare da chi lo cerca con cuore semplice (cf. Sap 1,1-15).

dove sono io, voi non potete venire (cf. 13,33). Lui abita un «dove» che a noi è inaccessibile, perché fuggiamo da esso. Questo «dove» è anche il luogo «da dove viene» e «verso dove va»: è il Padre, principio e fine del Figlio. A lui Gesù vuol condurre tutti i fratelli che ancora non lo conoscono. Se ne va da noi per prepararci un luogo e torna a noi per prenderci, perché siamo anche noi dove lui è (14,3).

v. 35: dove sta per andare costui, ecc. ? Qui avanzano l’ipotesi che scompaia tra i giudei della diaspora per far proseliti tra i pagani. È uno dei soliti equivoci di Giovanni, carichi di verità: la sua Chiesa infatti è una comunità giudaica in ambito pagano.

Più innanzi faranno anche l’ipotesi che si uccida (cf. 8,22), proiettando su di lui il loro desiderio omicida. Ma lui non si toglierà la vita. Darà invece la sua vita a coloro che gliela

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tolgono, per poi riprendersela di nuovo. Questo è il «suo potere» di Figlio, secondo il comando ricevuto dal Padre (cf. 10,17s).

v. 36: cos’è questa parola, ecc. Per la terza volta in tre versetti esce il mistero del dove lui è e noi non possiamo andare. Ci potremo andare solo se ascolteremo il suo grido, che viene subito dopo: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva, ecc.» (vv. 37ss).

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando Gesù nel tempio che insegna a metà della festa.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere il mistero di Gesù: dove è, da dove viene, dove va.d. Medito sul testo, considerando la sapienza e l’opera di Gesù, che lo rivelano come il

Figlio in comunione con il Padre.

Da notare:• dov’è lui?• è buono• inganna la folla• la paura di riconoscerlo in pubblico• da dove è la sua sapienza• il mio insegnamento non è mio• chi vuol fare la volontà di Dio, saprà che viene da lui• chi parla da se stesso cerca se stesso: è falso e ingiusto• chi cerca la gloria di Dio è veritiero e giusto• nessuno tra voi fa la legge• l’azione di Gesù non viola, bensì compie la legge e il sabato: dà la pienezza di vita• il mistero del Messia che è noto e ignoto, di origine umana e divina• non possono arrestarlo perché non è ancora venuta la sua ora• molti della folla credono in lui per i segni che fa• ancora per poco tempo sono con voi• mi cercherete e non mi troverete• dove sono io, voi non potete venire.

4. Testi utiliSal 14; Am 8,4-12; Os 5,6s; Pr 1,20-33; Is 55,1ss; Mc 3,20-30; 6,1-6a; 1Cor 2,1-16.

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20. SE QUALCUNO HA SETE, VENGA A ME E BEVA7,37-53

7,37 Ora, nell’ultimo giorno,quello grande della festa,Gesù stava in piedi e gridò dicendo:

Se qualcuno ha sete,venga a me e beva.

38 Chi crede in me,come disse la Scrittura,fiumi d’acqua viventefluiranno dal suo seno.

39 Ora questo disse dello Spiritoche stavano per riceverequelli che credono in lui.Infatti non c’era ancora (lo) Spirito,perché Gesù non era ancora stato glorificato.

40 Allora, dalla folla,avendo udito queste parole,dicevano:

Questi è veramente il profeta!41 Altri dicevano:

Questi è il Cristo!Ma altri dicevano:

Viene forse dalla Galilea il Cristo?42 Non disse la Scrittura

che il Cristo vienedal seme di Davidee dal villaggio di Bethlem,dove era Davide?

43 Allora ci fu una divisionetra la folla a causa di lui.

44 Ora alcuni di loro volevano arrestarlo,ma nessuno mise le mani su di lui.

45 Allora gli inservienti del tempio vennerodai capi dei sacerdoti e dai fariseie quelli dissero loro:

Perché non lo conduceste?46 Risposero gli inservienti:

Mai un uomo parlò così!47 Allora risposero loro i farisei:

Anche voi siete stati ingannati?48 Forse che qualcuno tra i capi

credette in lui, o tra i farisei?49 Ma questa folla,

che non conosce la legge,sono maledetti!

50 Dice loro Nicodemo,quello che precedentemente

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era venuto da lui,che era uno di loro:

51 Forse che la nostra leggegiudica l’uomo,se prima non lo ascoltie non conosca cosa fa?

52 Risposero e gli dissero:Sei forse anche tu della Galilea?Studia e vediche non sorge profeta dalla Galilea.

[53 E andarono ciascuno a casa sua.]

1. Messaggio nel contesto«Se qualcuno ha sete, venga a me e beva», grida Gesù nell’ultimo giorno della festa dei

Tabernacoli. Lo Spirito, simboleggiato nel vino di Cana (2,1ss), che Giovanni vide scendere e dimorare su di lui (l,32s), che fa nascere dall’alto (3,1ss) e nel quale si adora il Padre in verità (4,23s), è ora promesso a quanti aderiscono a lui: la sua vita di Figlio, il suo amore verso il Padre e i fratelli, sarà offerto a tutti coloro che crederanno in lui quando sarà glorificato.

Ha appena detto che noi non possiamo andare dove è lui (vv. 33-36). Ora però ci invita a venire da lui e ci dona il mezzo per raggiungerlo, perché anche noi possiamo essere dove è lui. Il mezzo che abbiamo è, a prima vista, un non-mezzo: la sete. Essa non è solo mancanza di acqua: è anche desiderio di essa. Il desiderio è l’unica capacità per attingere al dono: non produce nulla, ma accoglie tutto.

Il grido di Gesù è lo stesso della Sapienza che chiama l’uomo ad abbandonare la via della rovina e prendere quella della vita (Pr 9,6). La sua voce echeggia attraverso la storia e risuona ancora, adesso come allora; non lascia indifferente nessuno e scatena in ciascuno la lotta tra adesione e rifiuto, fede e incredulità, amore e odio, accoglienza e violenza, vita e morte.

La rivelazione si svolge nell’ultimo giorno, quello solenne e conclusivo della festa. Ogni giorno della settimana delle Capanne si riempiva una coppa d’oro, attingendo dalla piscina di Siloe, e la si portava in processione cantando: «Attingete con gioia acqua alle sorgenti della salvezza» (Is 12,3). La folla in festa agitava il lulab (un mazzetto di rami di palma, salice e mirto e un frutto di cedro) ed entrava per la porta della fonte (cf. Ne 3,15), cantando l’Hallel a ricordo della liberazione d’Egitto (Sal 113-118). Entrati nel tempio, il sacerdote saliva all’altare e spargeva l’acqua al suolo attraverso un imbuto d’argento. L’ultimo giorno della settimana il sommo sacerdote la versava oltre le mura di Gerusalemme, come segno della benedizione che da Israele si riversava su tutti i popoli, secondo la promessa fatta ad Abramo (Gen 12,3). Era il culmine della festa: allora esplodeva la gioia del popolo, con le sue attese messianiche e il suo desiderio di libertà e di dominio universale.

Durante la festa si leggeva Ez 47, che parla della sorgente che esce dal tempio e diventa un grande fiume di acqua vivificante, sulle cui rive crescono alberi da frutto di ogni specie (Ez 47,1-12). Il tempio era visto in relazione alla roccia che Dio spaccò, facendo scaturire acque come dall’abisso (Sal 78,15). Questa pietra sorgiva, che secondo la leggenda seguiva l’accam-pamento di Israele nel deserto (cf. 1Cor 10,3s), fu identificata con la roccia su cui era fondato il tempio. Oltre a Ez 47, si leggeva pure Zc 13, con la promessa che in Gerusalemme sarebbe zampillata una sorgente per lavare peccato e impurità (Zc 13,1). Lo stesso profeta, poco prima, descrivendo la liberazione e il rinnovamento di Gerusalemme, parla della contemplazione di un misterioso trafitto (Zc 12,10), che l’evangelista identifica con Gesù (cf. 19,33s.37), quando sarà glorificato (cf. v. 39). Proprio allora sgorgheranno da lui fiumi d’acqua viva.

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Dopo aver rivelato la sua origine e la sua destinazione (vv. 25-29.33-36), Gesù annuncia ora il dono del suo Spirito, che ci può dare proprio a causa della sua origine di Figlio di Dio e della sua destinazione di Figlio dell’uomo.

Il dono dello Spirito è il compimento dell’opera di Dio creatore e liberatore: comunica all’uomo la sua vita e la sua libertà. Così l’uomo nasce dall’alto (cf. 3,3-5) e diventa figlio di Dio (cf. 1,12). Per questo Dio l’ha creato.

Tutti i grandi temi della Bibbia, dalla creazione all’esodo, dall’alleanza alla legge, dalla terra promessa al tempio, dal Messia/Sposo al suo trionfo finale, si compiono nel dono dello Spirito: la creazione raggiunge il settimo giorno, l’uomo gode la libertà del figlio, Dio è per lui e lui per Dio, la sapienza dell’amore regge il mondo, la terra diventa giardino, la presenza di Dio pervade l’universo, risuona il canto dello sposo e della sposa e ogni creatura è in comunione con il suo Creatore.

Le reazioni alla rivelazione di Gesù sono diverse e contrastanti. La violenza, con la quale i capi risponderanno, sarà vinta dall’amore del Figlio, il quale fa il dono della sua vita a coloro che gliela tolgono.

Lo sfondo – il luogo è il tempio, il tempo è l’ultimo giorno – evidenzia il significato che l’evangelista dà alle parole di Gesù: alludono alla sua glorificazione, quando tutto sarà compiuto (cf. 19,30a).

Gesù realizza la grande promessa di Dio e il desiderio segreto dell’uomo. Con lui inizia l’epoca definitiva, quella dell’acqua e dello Spirito, dove l’acqua di vita è lo Spirito stesso di Dio che è amore.

Gesù grida che in lui è data all’uomo ogni benedizione. Non sta seduto, come lo scriba; è ritto in piedi, come l’araldo. E grida come la Sapienza, che chiama al banchetto della vita (cf. Pr 1,20; 8,1ss; 9,1ss).

Il testo inizia con Gesù che grida di venire a lui, sorgente di vita (vv. 37-39); continua con le reazioni positive della folla (vv. 40-43) e prosegue con quelle negative dei capi contro le guardie e la gentaglia (vv. 44-49), per concludere con la difesa di Nicodemo che viene insultato (vv. 50-52).

Gesù è la sapienza di Dio, il nuovo tempio, la roccia da cui sgorga la fonte d’acqua viva aperta in Gerusalemme. Tutto ciò sarà chiaro dopo che sarà «glorificato» e ci avrà dato lo Spirito.

La Chiesa nasce dall’alto, come creatura nuova, dall’acqua dello Spirito, con la capacità di amare con l’amore con cui è amata.

2. Lettura del testov. 37: Ora, nell’ultimo giorno. L’ultimo giorno della festa dei tabernacoli assume un

particolare significato: allude all’ultimo giorno di Gesù, quando compirà la sua opera di Figlio donando ai fratelli il suo Spirito (19,30).

gridò dicendo. Gesù, in piedi, grida come la Sapienza e sollecita gli ascoltatori a superare i propri pregiudizi e a volgersi a lui per ricevere il suo Spirito (cf. Pr 1,23).

se qualcuno ha sete. L’uomo è ricerca di vita e felicità: è sete di Dio, come terra arida, deserta e senz’acqua (Sal 63,2). La sete è il bisogno più radicale: è desiderio di ciò che è assolutamente necessario per vivere. È un vuoto specifico, che non può essere riempito da nessun surrogato. La sete dell’uomo è illimitata e non può avere altra acqua che la pienezza di vita. L’uomo è bisogno di Dio: «Chi è capace di Dio, niente che sia meno di Dio potrà riempirlo».

venga a me. Gesù si identifica con ciò di cui l’uomo ha sete. Lui stesso, assetato, si sedette al pozzo, perché la Samaritana capisse la propria sete che lui solo può dissetare (cf. 4,1ss).

e beva. È lui la fonte d’acqua viva: è infatti vita di tutto ciò che è (cf. l,3-4a), la roccia percossa da cui scaturisce l’acqua nel deserto (cf. Sal 78,15; 1Cor 10,3s), il nuovo tempio dal

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quale esce il fiume d’acqua fecondo (cf. Ez 47,1ss), la sorgente che purifica e rigenera Gerusalemme (cf. Zc 12,10; 13,1ss). Lì siamo tutti chiamati ad attingere con gioia alle sorgenti della salvezza (cf. Is 12,3). Dal suo fianco trafitto, ferita d’amore di Dio per l’uomo, veniamo generati e sappiamo dove stiamo di casa. Lì beviamo e ci dissetiamo di lui (cf. 19,34).

v. 38: chi crede in me. Secondo la punteggiatura che si sceglie, si può riferire queste parole a ciò che precede o a ciò che segue. Nel primo caso si dice che, a questa sorgente di vita, beve chi crede in Gesù. Nel secondo caso, invece, si dice che chi crede in lui riceve il suo Spirito.

come disse la Scrittura, fiumi d’acqua vivente fluiranno dal suo seno. Questa citazione non si trova alla lettera in nessun testo biblico, ma è il senso di tutta la Bibbia: Dio ci ha creati per la vita e vuol comunicarci se stesso, pienezza di vita. Dio è amore e, come tale, comunica tutto ciò che è.

Se si unisce «chi crede in me» a quanto precede, queste parole si applicano a Gesù: dal suo grembo di Figlio scaturisce la vita per tutti i fratelli, creati in lui, per mezzo di lui e in vista di lui. In lui tutto ritrova la sorgente della propria esistenza.

Se, invece, si unisce «chi crede in me» a quanto segue, queste parole si applicano al credente: egli, trasformato da ciò che la sua sete beve, diventa figlio nel Figlio. Infatti tutto ciò che il Padre ha creato è suo verbo nel Verbo, figlio nel Figlio, dal quale viene quella vita che diventa nel credente sorgente d’acqua zampillante (cf. 4,14). I due sensi, in Giovanni, non si escludono, anzi si completano.

Queste parole di Gesù sono comprensibili dopo la sua rivelazione a Nicodemo, in cui parla di come si nasce dall’alto (cf. 3,1ss), dopo il dialogo con la Samaritana, nella quale ha suscitato la sete del suo dono (cf. 4,1ss) e dopo il discorso a Cafarnao, dove offre di mangiare il suo corpo e di bere il suo sangue, per vivere di lui come lui del Padre (cf. 6,1ss).

v. 39: questo disse dello Spirito, ecc. È il commento dell’evangelista: la sorgente d’acqua viva è lo Spirito che stanno per ricevere quelli che credono in Gesù. Non l’hanno però ancora ricevuto: sarà il dono definitivo, che ci farà nell’ultimo giorno, quando ci consegnerà il suo Spirito (19,30).

non c’era ancora (lo) Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. Lo Spirito, la vita di Dio, è l’amore. Non c’è amore sulla terra, se non come desiderio e sete. Infatti il Figlio dell’uomo non è ancora stato innalzato e glorificato. Solo guardando lui, elevato sulla croce, conosciamo «Io-Sono» (cf. 8,28): riconosciamo e crediamo all’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16). Prima di allora fuggiamo da lui, sorgente d’acqua viva, per scavarci cisterne, cisterne screpolate che non tengono acqua (Ger 2,13). Quando leveremo gli occhi verso il Figlio dell’uomo elevato (3,14) e volgeremo lo sguardo a colui che abbiamo trafitto (cf. 19,37), solo allora comprenderemo quanto Dio ha amato il mondo, sino a dare il suo Figlio unigenito per noi (cf. 3,16). Allora comprenderemo da dove veniamo, scopriremo la sua e la nostra verità e saremo tutti attirati a lui (12,32).

Il v. 39 connette direttamente il dono dello Spirito con la croce, l’ultimo giorno di Gesù.v. 40: dalla folla, avendo udito queste parole, dicevano. La promessa di acqua non

lascia indifferenti. Per ottenerla è però necessario capire chi è colui che la dona e aderire a lui, sorgente di vita. È importante che io lo conosca e mi dichiari per lui. Infatti desidero secondo ciò che conosco e ottengo secondo ciò che desidero.

questi è veramente il profeta (cf. 4,19). Qui c’è un primo riconoscimento di Gesù come «il profeta», promesso da Mosè, al quale dare ascolto (cf. Dt 18,15-18): infatti dice la parola di Dio. La prima cosa da capire in una persona è la sua parola: se è in nome di Dio, dice la verità che dà vita; se è falso profeta, come il serpente, dice la menzogna che dà morte.

v. 41: questi è il Cristo (cf. 4,29). Un secondo livello di conoscenza di Gesù è riconoscerlo non solo come il profeta che parla in nome di Dio, ma anche come il Cristo, che compie ogni sua parola, realizzando il Regno promesso. Il titolo di Cristo va oltre quello di

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profeta: il Cristo non solo dice la Parola, per altro sempre inascoltata, ma la compie, restituendo l’uomo alla sua verità. Vince infatti il male che la Parola denuncia e fa il bene che essa annuncia.

viene forse dalla Galilea il Cristo? È l’obiezione dei giudei ai primi cristiani: il Messia è dalla Giudea, dalla casa di Davide (cf. 2Sam 7,1ss). Gesù in realtà è dalla Giudea, anche se i suoi abitavano a Nazaret (cf. 4,9; Mt 1,1; 2,22s; Lc 1,27; 2,1-11; 2,39).

L’obiezione però ha un senso più profondo, che vale anche per noi. Ci chiediamo infatti come mai il Messia venga dalla Giudea e non per esempio dall’India, dal Tibet o dalla Brianza. Ciò che scandalizza, allora come adesso, è che Dio sia un uomo concreto, particolare e unico, ben definito. Ma proprio questo suo essere una carne, uguale alla nostra, è salvezza di ogni altra carne. Noi preferiamo sempre – forse perché non accettiamo la nostra umanità concreta – un essere divino che sia un uomo universale, non legato al contingente, un po’ vaporoso e inconsistente. Ma questo è non prendere in considerazione né l’uomo né Dio. Il mio io è unico e non può annullarsi nel generico. Dio stesso è personale e prende corpo nella singolarità di una carne. Questo è per lui l’unico modo per essere veramente con noi e per noi l’unica possibilità di essere con lui.

v. 42: non disse la Scrittura, ecc. ? Secondo la Scrittura (cf. 2Sam 7,12; Sal 89,4s; Is 11,1) il Messia viene da Davide, originario di Bethlem. L’evangelista non risponde a questa domanda. La lascia in sospeso; vuol lasciar scoprire al lettore che il Messia, figlio di Davide secondo la carne, è Figlio di Dio secondo la Spirito (cf. Rm l,3s). Ma questo può essere capito solo nello Spirito, che fa pure comprendere come il Messia non solo è figlio di Davide, ma anche suo Signore (cf. Mc 12,35-37p).

v. 43: ci fu una divisione tra la folla a causa di lui. La divisione (in greco c’è schísma, da cui viene la nostra parola «scisma») all’interno di Israele avviene nell’identificazione di Gesù come Messia. Anche per gli altri uomini la vera differenza sta nel diverso modo di concepire e vivere il rapporto con Dio, se nella carne del Figlio diventato nostro fratello oppure in altri modi.

v. 44: alcuni di loro volevano arrestarlo. Oltre le reazioni di riconoscimento o di dubbio ce ne sono altre decisamente avverse. C’è chi viene a lui per appagare la propria sete e chi lo vuole arrestare e uccidere. Davanti al Figlio, come davanti al fratello, c’è amore oppure odio, non indifferenza.

nessuno mise le mani su di lui (cf. v. 30). È l’ultimo giorno della festa, anticipo del suo ultimo giorno, che peraltro non è ancora venuto (v. 30). Ci sono però già le premesse. L’«ora» tuttavia non è determinata dall’uomo, ma da Dio stesso: è la «sua» ora.

v. 45: gli inservienti del tempio vennero, ecc. I capi dei sacerdoti e i farisei avevano mandato gli inservienti per arrestare Gesù (v. 32). Sono sorpresi e sdegnati perché tornano a mani vuote e ne chiedono il motivo.

v. 46: mai un uomo parlò così. Ottengono una risposta inattesa che sa di ironia: chi doveva prenderlo, è stato «preso» da lui. La sua parola li sorprende e cattura. Non riferiscono cosa ha detto. Il suo stesso dire e la sua persona non hanno confronto con nessun altro uomo. Ascoltandolo sono affascinati dalla Parola che era sin dal principio. La luce entra nelle tenebre e le tenebre non possono catturarla (cf. 1,5). Ne sono illuminate.

v. 47: risposero loro i farisei. Si nominano solo i farisei, perché la comunità di Giovanni ha a che fare con loro. Dopo la distruzione del tempio nel 70, scomparsi i capi dei sacerdoti, essi resteranno l’unico punto di riferimento religioso.

anche voi siete stati ingannati? La Parola di verità è ritenuta un inganno da chi, con tutta la buona fede possibile, è schiavo della menzogna (cf. 8,31ss). Sarà l’argomento del c. 9, che mostrerà la cecità di chi non accoglie Gesù, per procedere poi all’illuminazione del cieco. I farisei rimproverano gli inservienti di essere ingannati «anche» loro, oltre la folla.

v. 48: forse che qualcuno tra i capi, ecc. Mentre la folla e gli inservienti sono disponibili a cogliere il mistero di Gesù, i capi del popolo restano chiusi nella loro

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autosufficienza. Come può credere chi cerca la gloria che viene dagli uomini e non quella che viene da Dio (cf. 5,44)?

v. 49: ma questa folla, che non conosce la legge, sono maledetti. I maestri, invece di osservare la legge (cf. vv. 50s), maledicono le folle che riconoscono colui di cui essa parla. È la maledizione che toccherà ai primi cristiani, come già al loro Maestro, da parte di chi detiene il potere religioso (cf. 16,1-4). È grande la cecità dell’uomo che crede di possedere la verità, senza voler fare la fatica di ricercarla.

v. 50s: dice loro Nicodemo, ecc. È anche lui un fariseo, anzi uno dei capi. È «uno di loro». È lo stesso che venne da Gesù di notte, per essere illuminato (3,1ss); riapparirà alla fine per chiedere il suo corpo e deporre il seme del Regno sotto terra (cf. 19,39ss). La divisione avviene anche all’interno dei farisei. Nicodemo prende la legge nella sua integrità, non come difesa del proprio potere. Ritorce così l’accusa ai farisei: sono loro a trasgredire la legge, perché condannano una persona senza ascoltare cosa dica e verificare cosa faccia (Dt l,16s). Giudicano in base a pregiudizi, stravolgendo la legge: da strumento di giustizia, ne fanno la croce del giusto. La Parola o è ascoltata o è uccisa.

v. 52: risposero e gli dissero, ecc. Invece di rispondere alla sua domanda, gli lanciano un duplice insulto. L’insulto è copertura di malafede o incapacità di ascoltare ragioni che siano diverse dalle proprie. Gli chiedono se è anche lui un galileo, facente parte di quel popolo impuro; gli raccomandano poi, a lui che è maestro, di studiare la legge per scoprire che dalla Galilea non è mai sorto un profeta. E si dimenticano – l’odio acceca – che proprio da lì sorse un certo profeta di nome Giona (2Re 14,25), «quando il Signore aveva visto l’estrema miseria di Israele, perché non c’era né schiavo, né libero, né chi potesse soccorrere» (2Re 14,26).

Anche Nicodemo, come chiunque altro, quando si espone a favore dell’uomo, è vicino al Signore: diventa in qualche modo «testimone della verità», come il Battista, e ne paga le conseguenze.

[v. 53: andarono ciascuno a casa sua.] La casa è il luogo dove si è nati, dove c’è il proprio padre e i fratelli. Gesù tornerà presto al Padre suo e Padre nostro. Ma prima svelerà ai suoi accusatori il loro errore: hanno un falso padre, padre di menzogna e di morte (cf. 8,44), verso il quale stanno andando. Questo versetto, come il racconto che segue, è omesso dai più antichi testimoni.

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che, ritto in piedi nel tempio, grida.c. Chiedo ciò che voglio: accogliere il suo invito di venire a lui e bere per dissetare la

mia sete.d. Medito e contemplo la scena, vedendo cosa dice Gesù e come reagiscono le varie

persone.

Da notare:• l’ultimo giorno• Gesù, ritto in piedi, grida• se qualcuno ha sete, venga a me e beva chi crede in me• fiumi d’acqua vivente scaturiranno dal suo seno• questo disse dello Spirito che sarà donato dalla croce• è un profeta• è il Cristo• viene forse dalla Galilea il Cristo?• la divisione a causa di lui• alcuni volevano arrestarlo

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• gli inservienti del tempio• mai un uomo parlò così• l’accusa dei farisei: è un inganno credere in lui• la difesa di Nicodemo• gli insulti contro di lui.

4. Testi utiliSal 63; 78; Ez 47; Zc 13; Is 12,3; Ez 36,22-38; 36,1-14; Gv 4,1ss; 5,45-47; 16,1-4;

19,28-37.

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21. NEPPURE IO TI CONDANNO8,1-11

[8,1 Ora Gesù andò al monte degli Ulivi.2 All’alba però si presentò di nuovo al tempio

e tutto il popolo veniva da lui;e, seduto, insegnava loro.

3 Ora conducono, gli scribi e i farisei,una donna sorpresa in adulterioe, postala in mezzo,

4 gli dicono:Maestro,questa donna è stata sorpresasul fatto stesso, mentre faceva adulterio.

5 Ora, nella legge,Mosè ordinò di lapidare quelle così.E tu, che dici?

6 Ora dicevano questo per tentarlo,per avere di che accusarlo.

Ora, chinatosi, Gesùscriveva col dito per terra.

7 Come insistevano nell’interrogarlo,si drizzò e disse loro:

Chi di voi è senza peccato,per primo getti su di lei la pietra!

8 E di nuovo, chinatosi,scriveva per terra.

9 Essi allora, avendo udito,se ne andarono uno per uno,cominciando dai più vecchi;e rimase soloe la donna che era nel mezzo.

10 Ora Gesù, drizzatosi,disse a lei:

Donna,dove sono?Nessuno ti condannò?

11 Ora ella disse:Nessuno, Signore.

Ora disse Gesù:Neppure io ti condanno.Va’ (e) da ora non peccare più].

1. Messaggio nel contesto«Neppure io ti condanno», dice Gesù alla donna sorpresa in adulterio.Questo splendido racconto ci porta al cuore del messaggio di Gesù, il Figlio che non

giudica nessuno (cf. 7,19.23.24.51; 8,15.17) e che per questo sarà giudicato. L’imputato vero non è la donna, ma Gesù; l’adultera è solo l’esca per trovare un motivo di condanna contro di

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lui. La sorte della donna toccherà a lui: se lei deve essere lapidata per il suo peccato di adulterio, alla fine tenteranno di lapidare lui per il suo peccato di bestemmia (cf. v. 59).

Il testo è un misto tra disputa e racconto (come, ad esempio, Mc 2,1-12), con sapore e vocabolario sinottico, di stile lucano. La maggior parte degli antichi testimoni – manoscritti, versioni e Padri – lo ignorano. Per questo l’abbiamo messo tra parentesi quadra, insieme a 7,53. Ci sono però testimonianze, accolte da Ambrogio, Girolamo ed Agostino, che lo riportano, qui o altrove. Il concilio di Trento ne definì la canonicità. Resta però aperto il problema dell’autore. Tuttavia, nonostante le origini controverse e le testimonianze problematiche, è il testo evangelico più commentato dai Padri latini. È infatti uno dei pezzi più affascinanti del Vangelo, che mostra come Gesù dona lo Spirito, che fa nuove tutte le cose (Ap 21,5): lui stesso, dal suo fianco trafitto, sarà sorgente zampillante che lava ogni peccato e impurità (Zc 13,1). Agostino ritiene che questo brano sia stato eliminato dal Vangelo di Giovanni perché «alcuni fedeli di poca fede, o meglio nemici della fede, temevano probabilmente che l’accoglienza del Signore per la peccatrice desse la patente di impunità alle loro donne». Altri ritengono che il testo sia «una perla sperduta nella tradizione antica», recuperata nel III secolo e posta qui come fondamento di una prassi penitenziale meno rigorosa e più evangelica: davanti al peccatore siamo chiamati a comportarci come Gesù con questa donna.

Il racconto dice, bene ed in breve, ciò che conosciamo di più caratteristico dell’at-teggiamento di Gesù verso i peccatori. Egli è amico di pubblicani e peccatori (cf. Lc 7,34). Accusato di bestemmia perché perdona i peccati (cf. Lc 5,21p), accoglie una peccatrice e mostra al fariseo Simone che l’importante non è essere giusti, ma amare di più; e amerà di più colui al quale è stato perdonato di più (cf. Lc 7,47). Dato che siamo peccatori, il nostro peccato non è da nascondere, ma da scoprire come luogo di perdono e di conoscenza più profonda di sé e di Dio.

In questo brano emerge il conflitto, centrale nella vita di Gesù, tra i custodi della legge, che giustamente denunciano il male, e colui che dà la legge, il Padre, che necessariamente perdona.

Il tema del perdono dei peccati, fondamentale nella Bibbia, raggiunge in Gesù la sua espressione piena. Normalmente pensiamo che Dio perdoni perché noi siamo pentiti. In realtà noi ci possiamo pentire perché Dio ci perdona sempre e comunque. Egli non si volge a noi perché noi ci siamo rivolti a lui: egli è da sempre rivolto a noi, perché noi possiamo volgerci a lui. Effettivamente è lui che «si pente» e sente il dolore del nostro male, perché ci ama (cf. Is 54,6-10). La croce di Gesù, che ormai si va profilando all’orizzonte, è il «pentimento» e la pena di Dio per il male del mondo. Il suo giudizio sarà l’essere giustiziato per giustificare gli ingiusti.

Il racconto si incastona bene in questo punto del Vangelo: è un interludio, delicato e drammatico, nel quale risuonano i temi di cui si sta parlando, visualizzati in modo indelebile. Gesù perdona il peccatore: per questo è condannato da chi si attiene alla legge. Il suo perdono gli costerà caro: sarà ucciso, lui innocente, per salvare dalla morte il colpevole. E chi è senza colpe, anche tra coloro che si ritengono giusti (v. 7)?

Questo racconto ci fa entrare, in modo semplice e immediato, nel mistero di un Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (cf. 3,16), perché chiunque ha sete, venga a lui e ottenga l’acqua viva (cf. 7,37;4,13s). Quest’acqua, purificatrice e vivificante, promessa da Ez 47,1ss e Zc 13,1, è il suo amore, che si manifesta pienamente nel perdono – neppure nominato nel testo, tanto è ovvio e discreto. In esso noi conosciamo chi è il Signore (cf. Ger 31,34; Ez 36,23ss): è colui che apre le nostre tombe, ci risuscita dai nostri sepolcri e ci dona il suo Spirito (cf. Ez 37,13s).

Dopo una breve introduzione (vv. 1-2), che lo aggancia al contesto, il racconto è un breve dramma in tre scene. Nella prima, la donna, da uccidere perché sorpresa in adulterio, serve da pretesto per andare contro Gesù, che, si suppone, non approverà la condanna (vv. 3-

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6a). Nella seconda, Gesù non risponde e si china a scrivere col dito per terra, poi si drizza e chiede agli accusatori chi di loro sia senza peccato e non si trovi nella stessa condanna che vogliono infliggere alla donna (vv. 6b-7). Nella terza, c’è l’effetto della sua domanda: gli accusatori se ne vanno, cominciando dai più vecchi, mentre chi perdona e chi ha bisogno di perdono restano, da soli, in dialogo tra di loro (vv. 8-11).

Gesù è il Figlio che dona l’acqua viva dello Spirito di Dio: è l’amore del Padre, comunicato ai fratelli che ne hanno sete. I peccatori sono i primi ad accoglierlo, perché sono quelli che ne hanno bisogno.

La Chiesa si identifica con questa donna: da sempre adultera, perché non ama il suo Sposo, giorno dopo giorno è rinnovata dal suo perdono. In ciascuno di noi c’è però sempre lo scriba e il fariseo che ci accusa, la coscienza del male che ci vuol lapidare. Solo l’incontro con lui, che resta solo con noi, ci giustifica e ci riempie di gratitudine per il suo amore.

2. Lettura del testov. 1s: Gesù andò al monte degli Ulivi. All’alba però si presentò di nuovo al tempio, ecc.

L’annotazione richiama Luca 21,37s: Gesù, nell’ultima settimana a Gerusalemme, passa la notte fuori città, verso il monte degli Ulivi, per tornare il mattino ad insegnare nel tempio, dove il popolo accorre presso di lui.

Non si dice cosa insegni: l’insegnamento è lui stesso, con ciò che è e ciò che fa. Infatti è lui «la Parola», il nuovo santuario, la presenza di Dio, di quel Dio che ora si rivela pienamente nel perdono.

v. 3: conducono, gli scribi e i farisei, una donna sorpresa in adulterio. Secondo la legge tale donna doveva essere uccisa (cf. Es 20,14; Dt 5,18; 22,22; Lv 18,20; 20,10), ma era controverso il modo di esecuzione. Ai tempi di Gesù si discuteva se si dovesse lapidare o strangolare. Gli scribi e i farisei, che portano la donna, sono persone rispettivamente dedite allo studio e all’osservanza della legge.

A noi meraviglia che si condanni a morte un’adultera. In realtà l’adulterio è un omicidio: uccide il partner nella sua umanità più profonda, nella sua relazione d’amore.

postala in mezzo. La legge, con i suoi divieti e comandi, rischia di porre al centro dell’attenzione il male, da denunciare e da punire. In realtà Dio aveva posto al centro del giardino l’albero della vita, non quello da cui sarebbe derivata la trasgressione e la morte (cf. Gen 2,9.17). Fu il nemico, l’accusatore, a porlo al centro (cf. Gen 3,3). La croce riporterà al suo posto l’albero della vita, sempre fecondo in ogni stagione e capace di sanare ogni ferita (cf. Ap 22,2).

La peccatrice, chiusa dagli zelanti della legge in un cerchio di morte, vedrà alla fine dileguarsi i suoi accusatori e resterà nel mezzo, sola con Gesù, che le aprirà l’orizzonte della libertà e dell’amore.

v. 4: Maestro, questa donna, ecc. Si espone il capo d’accusa. Il caso della donna, presentato a Gesù, non ha nulla di problematico: è chiaro che la legge ordina di sopprimerla. Se mai è in discussione il modo.

v. 5: nella legge, Mosè ordinò di lapidare. La lapidazione è una forma di assassinio collettivo, del quale nessuno si sente responsabile. Essa esige l’unanimità della folla: tutti collaborano e sfogano la loro aggressività contro il trasgressore, per lo più presunto, che raffigura ciò che tutti travaglia e che si vuol levare di mezzo. Il risultato dell’eliminazione del malvagio è quello di sentirsi uniti, rappacificati e ripuliti dal male, permettendo alla società di andare avanti: è l’effetto del capro espiatorio, che dev’essere possibilmente un estraneo o un nemico, un diverso o uno sconfitto, che diventa ostia e vittima designata. Così hanno sempre funzionato e funzionano le cose, nei processi alle streghe e ai nemici del popolo, fino allo sterminio di interi popoli identificati col male. Lo stesso meccanismo si mette in gioco anche ai nostri giorni nelle condanne a morte di singoli e nelle rappresaglie internazionali, nei partiti politici e nelle squadre di calcio, come pure nelle relazioni interpersonali: per vincere

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l’insopportabile senso di colpa che il male produce, invece di riconoscerlo in se stessi, lo si attribuisce all’altro, che viene soppresso. Così ci si sente confermati nella propria presunta innocenza, senza mai vincere il male che sta nel cuore di ciascuno. Questo infatti, nei momenti di crisi, riesplode, provocando come risposta lo stesso meccanismo, in una coazione a ripetere senza via di uscita. In questo modo la società contiene e legittima la violenza che minaccia la sua esistenza e rende possibile – finché è possibile! – la convivenza tra gli uomini, che ritrovano la loro coesione contro il nemico comune, identificato come il malvagio. Questi deve essere espulso fuori le mura ed eliminato; così si sta relativamente tranquilli fino a quando un nuovo momento di lotta fa riemergere l’aggressività che è sempre latente, anche se controllata dal potere – che, ovviamente, appartiene al più violento di turno, destinato a sua volta ad essere vittima quando perde la forza di imporsi.

A molti pare che questo aureo sistema su cui si regge il nostro convivere, l’11 settembre 2001, dopo il crollo delle Torri Gemelle, abbia mostrato i piedi di argilla e la propria debolezza. Forse sta calando la maschera, mostrando il suo volto orrendo; comunque è chiaro che neppure il più potente è oggi capace, con la forza, di garantire sicurezza, né a sé né ad altri. È un fatto nuovo nella storia. Per la prima volta il potente subisce il male; per la prima volta può anche capirlo. Questo ci dovrebbe portare a ripensare un modo radicalmente diverso di stare insieme. Perché ormai nulla è come prima: se anche il forte è vulnerabile, o ci distruggiamo tutti o siamo costretti a cambiare gioco.

tu che dici? Gli uomini della legge interrogano Gesù non per sapere se sia favorevole alla lapidazione piuttosto che allo strangolamento. Chiedono il suo parere per tendergli una trappola, come subito l’evangelista annota.

v. 6: dicevano questo per tentarlo, per avere di che accusarlo (cf. Mc 10,2p; 12,13p). In che cosa consiste il trabocchetto che gli tendono per accusarlo? Agostino dice che Gesù, inviato da Dio, possiede le sue tre qualità: la verità, la mansuetudine e la giustizia (cf. Sal 45,5). Se la prima non è in discussione – si tratta di un fatto evidente –, gli pongono un dilemma sulle altre due. Se ordinerà di lapidarla, mancherà di mansuetudine; se dirà di lasciarla, mancherà di giustizia. In concreto, è costretto a rinnegare o la misericordia o la legge. Nel primo caso smentisce se stesso e il suo messaggio, alleandosi con gli scribi e i farisei; nel secondo – è ciò che sperano – si oppone alla legge e lo si può accusare come trasgressore.

Probabilmente qui si nasconde anche un altro tranello. Infatti, se la donna è già stata condannata dai giudei secondo la legge, Gesù è posto in un secondo dilemma: se accetta il verdetto del tribunale giudaico, si oppone ai romani che si erano riservati la pena capitale; se non lo riconosce valido, accetta implicitamente il dominio romano, mettendosi contro il popolo e le sue attese. Nel primo caso poteva essere accusato di sovversione, nel secondo non sarebbe stato il Messia che avrebbe liberato la nazione. Il tenore dell’insidia è simile a quello posto nella domanda sul tributo a Cesare (cf. Mc 12,13ssp). Le pietre degli scribi e dei farisei, più che contro la donna posta nel mezzo, sono mirate contro colui che è al centro della legge e dei profeti, del quale le Scritture rendono testimonianza (cf. 5,39-47).

chinatosi, scriveva col dito per terra. Il fatto è rilevato ben due volte (vv. 6.8). In un racconto così sintetico, non è trascurabile.

Certamente ha un primo significato evidente: Gesù non affronta né provoca la folla, sfidandola a viso aperto. L’avrebbe inferocita ancora di più. Si rende invece come assente e si china su se stesso, come in una pausa riflessiva, per non farsi travolgere dalla violenza collettiva. È quanto inviterà a fare anche gli altri, presentando loro un altro modello da imitare, diverso da quello della violenza dei capi che li sta trascinando.

Sono corsi fiumi d’inchiostro su cosa Gesù abbia scritto, dimenticando però che l’evan-gelista non spreca una sola parola in proposito.

C’è chi ritiene il gesto di Gesù un’allusione a Geremia 17,13 che dice: «Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte di acqua

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viva, il Signore». Il contesto fa capire chi sono costoro. L’ipotesi, già di Ambrogio, Agostino e Girolamo, è suggestiva e rispettosa del testo: lo ritiene un gesto profetico, senza entrare in merito a ciò che è scritto.

Più recentemente alcuni studiosi pensano che, secondo l’uso romano, Gesù abbia scritto per sé la sentenza, prima di pronunciarla. Altri pensano che Gesù abbia scritto i peccati degli accusatori, comuni a tutti gli uomini, perché ognuno smetta di giudicare l’altro. Infatti solo chi è giusto può giudicare giustamente (cf. Es 23,1-7). Altri ancora pensano che si tratti solo di una pausa narrativa. Ma in questo caso non si spiega il peso che nel racconto ha il fatto, ripetuto, dello scrivere.

Nella spiegazione bisogna, attenendosi al testo, interpretare solo il gesto dello scrivere, senza dire ciò che è scritto, alla luce del contesto immediato, inserito nella tradizione biblica. Per questo è utile ricordare una cosa ovvia: scrivere è l’atto con il quale uno vuol comunicare qualcosa a un altro che legge. Nella tradizione tutta la Scrittura è comunicazione di Dio all’uomo; a sua volta la legge fu scritta dal dito di Dio su tavole di pietra (cf. Dt 9,10). È da notare che Gesù non scrive sulla sabbia, ma sulla pietra del lastricato; la scena infatti si svolge nel tempio.

Se non teniamo presente «il dito» di colui che scrive e non entriamo in comunione con lui, la stessa Scrittura diventa un feticcio che ci impedisce di entrare nel pensiero di Dio. La Scrittura è l’autocomunicazione del Dio amante della vita, che non disprezza nessuna delle sue creature; ha compassione di tutti e non guarda ai peccati degli uomini, in vista del pentimento (cf. Sap 11,23-26).

Se la Scrittura denuncia il peccato, non è per condannare il peccatore: l’intenzione di chi scrive è quella di salvarlo. La legge è data per la vita e non per la morte, per la conversione e non per la disperazione, per il perdono e non per la condanna. Siccome però, sin dall’inizio, abbiamo trasgredito la legge, tutti la percepiamo come condanna di noi e delle nostre azioni. Ma i profeti hanno promesso che verranno giorni in cui Dio ci toglierà il cuore di pietra e ci darà un cuore di carne; inciderà la sua legge non con il dito sulla pietra, ma con lo Spirito sul nostro cuore, che finalmente sarà un cuore nuovo, capace di vivere in pienezza il dono di Dio (cf. Ger 31,31-34; Ez 36,26-27). Il gesto di Gesù può alludere a questi testi, che si compiranno quando lui ci darà il suo Spirito (19,30). Proprio sulla croce, dove sarà «scritto» il titolo della sua condanna – in ebraico, latino e greco (cf. 19,19-22) – comprenderemo ciò che Gesù ora scrive: il Signore non condanna, ma giustifica e salva per grazia. Questo è il senso di tutta la Scrittura. Allora saremo noi stessi la lettera di Dio, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito di Dio; non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei nostri cuori (cf. 2Cor 3,3).

Come si vede, ognuno può aggiungere la sua goccia al fiume di parole versato per commentare questo gesto di Gesù. Il quale, in modo più ecologico, scrive con il dito sulla pietra, senza spreco di carta o d’inchiostro, lasciando a ciascuno l’opportunità di pensare ciò che più giova.

v. 7: si drizzò. Nel v. 10 Gesù si drizzerà davanti alla donna; ora si drizza davanti ai suoi accusatori. Essi persistono nelle loro interrogazioni, che guardano solo allo scritto e non allo scrivente. Per questo si drizza e mostra loro la sua persona: è lui che ha scritto.

chi di voi è senza peccato, per primo getti su di lei la pietra. Il peccatore che vuol giudicare è come quei vecchi che opprimevano gli innocenti e assolvevano i malvagi, fino a condannare la casta Susanna che non si era piegata alle loro voglie (cf. Dn 13,52s). Ma per il profeta Daniele la cosa fu più facile: Susanna non aveva peccato e si trattava di provarne l’innocenza. Questa donna invece ha peccato e Gesù non può provare il contrario della verità. C’è però un’altra verità nascosta in ciascuno, che Gesù ricorda a tutti: ognuno guardi in se stesso e veda con onestà nel suo cuore, poi chi è senza peccato scagli contro di lei la prima pietra. Il primo che scaglia la pietra è il testimone (cf. Dt 17,7); egli si assume la responsabilità di chi sta, volutamente e coscientemente, all’inizio della violenza che poi gli

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altri imitano automaticamente, come le iene che fiutano sangue. È lui che si pone come modello, seguito dagli altri per imitazione. Chi osa opporsi, o capovolge la situazione facendo lapidare chi voleva lapidare, o finisce lapidato anche lui. La violenza, «giustificata» dal consenso, una volta scatenata deve comunque scaricarsi su qualcuno.

Con queste parole Gesù chiama ciascuno alla responsabilità e alla coscienza personale, rompendo all’origine il male che poi contagia tutti. Egli rimanda ognuno degli interlocutori a indagare su di sé, applicando a se stesso il giudizio che vuol infliggere alla donna. Solo allora potrà accorgersi del male che è nel suo cuore e vedere la propria cecità (cf. 9,41), per scoprirsi bisognoso di misericordia e perdono. Uno smette di giudicare gli altri quando comincia a giudicare se stesso. Allora capisce che la Scrittura persuade l’uomo di peccato per fargli accogliere il giudizio di chi scrive, l’unico giusto che giustifica.

Gesù non nega la legge e il giudizio. Si appella però a colui che dà la legge e si riserva il giudizio, ben diverso dal nostro. Dio infatti ha mandato il suo Figlio per salvare il mondo (3,17); per questo bisogna non giudicare né condannare, ma assolvere e dare, per diventare misericordiosi come il Padre (cf. Lc 6,36-38). Il giudizio del Padre è dettato dall’amore che ha verso tutti i suoi figli. È il giudizio stesso del Figlio, che sulla croce darà la vita per i fratelli. Questa parola di Gesù, mentre convince il mondo di peccato, rivela il giudizio e la giustizia di Dio (cf. 16,8), che è amore senza condizioni.

v. 8: di nuovo, chinatosi, scriveva per terra. Il gesto di scrivere, che precede e segue la sua risposta, le dà anche il suo significato. Il suo intento non è quello di gettare pietre sui peccatori, adultera o farisei e scribi che siano. Non vuole uccidere nessuno. Vuole solo che ognuno prenda coscienza seria di sé e del suo peccato, scopra il proprio cuore di pietra per ricevere il dono di un cuore di carne, pieno dello Spirito del Signore, capace di vivere secondo la sua parola.

Proprio per questo suo atteggiamento Gesù diventerà bersaglio dei nostri cuori di pietra, che, come vogliono lapidare la donna, cercheranno di lapidare lui (v. 59).

v. 9: se ne andarono uno per uno, cominciando dai più vecchi. Tutti abbiamo peccato e siamo privi della gloria di Dio (cf. Rm 3,23; Sal 14,3; 130,3; 143,2). Nessuno può mentire a se stesso: la coscienza del proprio male è il primo dono di Dio, che ci rende diversi dagli animali. Probabilmente costoro se ne vanno contrariati, in attesa di rivincita; loro se ne vanno, ma le pietre restano lì, pronte per essere scagliate.

I «più vecchi» (in greco «presbiteri») ricorre solo qui nel quarto Vangelo. La stessa parola, normalmente tradotta con «anziani», è usuale nei sinottici per indicare la parte più potente del sinedrio. Gli anziani sono anche coloro ai quali, per la loro provata onestà ed esperienza, è riservato il giudizio. La scena non è priva di ironia: coloro che hanno la funzione di giudicare sono i primi rei confessi.

rimase solo e la donna che era nel mezzo. La donna era stata posta nel mezzo dagli zelanti della legge che condanna. Ora essa rimane sola con il solo Gesù, nel mezzo della sconfinata misericordia di Dio. Il peccato è il luogo dove si manifesta la sovrabbondanza della sua grazia (cf. Rm 5,20).

Dice Agostino: «Sono rimasti due: la misera e la misericordia». Alla fine ciò che rimane di ogni uomo è l’incontro della propria miseria con la misericordia di Dio. Maggiore è l’abisso del peccato, maggiore è l’amore che si riceve e la conoscenza di Dio e di sé che si ottiene. E maggiore sarà la capacità di amare (cf. Lc 7,42b.43a).

Gesù, l’unico senza peccato, non se ne va. Rimane con la peccatrice: è il Figlio, misericordioso come il Padre. Se condanna il peccato perché è e fa male, assolve e ne slega il peccatore perché lo ama.

C’è in ciascuno di noi la parte adultera e la parte di chi vuole lapidarla. Invece di lapidarla, bisogna riconoscersi in essa: è il luogo d’incontro con il Signore.

v. 10: Gesù, drizzatosi. Prima si drizzò per mostrarsi agli accusatori come colui che scrive la legge; ora si drizza per mostrarsi all’accusata come il Signore che perdona.

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Il dialogo tra i due è semplice, di poche parole, e sublime.donna, dove sono? Gesù la chiama «donna», come Maria (cf. 2,4; 19,26), la Samaritana

(4,21) e la Maddalena (20,15). È il suo vero nome, quello della sposa, che ora incontra lo Sposo. È stata, come tutti noi, adultera: non aveva conosciuto né amato lo Sposo (cf. Ez 16), colui che ha comandato, anzi supplicato, di amarlo con tutto il cuore (cf. Dt 6,4ss).

Le chiede, senza neppur più nominarli, «dove sono» quanti la accusano.nessuno ti condannò? Le chiede se sia rimasto un giusto che possa condannarla.v. 11: nessuno, Signore. Nessuno è rimasto che la possa condannare. Uno però è

rimasto: l’unico giusto, che la giustifica! Scomparsi i nemici, è rimasto colui che la ama di amore eterno (cf. Ger 31,3), nel quale riconosce il suo Signore, perché la perdona (cf. Ger 31,34) e la fa uscire dalla morte (cf. Ez 37,12). Si stabilisce tra i due la nuova alleanza, scritta ormai non più sulla pietra, ma nel cuore (cf. Ger 31,31-33).

neppure io ti condanno. Gli altri non ti possono condannare, anche se lo vogliono, perché ingiusti. Ma neppure io, che sono giusto, ti condanno, perché non posso condannare nessuno: sono venuto infatti per salvare, non per condannare il mondo, quel mondo che il Padre ha tanto amato da dare per lui il Figlio (cf. 3,16s).

Il giudizio di Dio non è mai condanna per il peccatore, ma salvezza dal peccato. Per questo svela il peccato – è la funzione della legge – e perdona il peccatore.

Noi siamo tentati di condannare il peccatore e giustificare il peccato, almeno quello nostro. Il solo giusto, invece, perdona il peccatore e porta su di sé la condanna del peccato. Il peccato degli accusatori della donna, che non accolgono il perdono, si riverserà ben presto su di lui: tenteranno di lapidarlo (v. 59) e lo eleveranno poi sulla croce. Ma proprio allora conosceranno «Io-Sono». Colui che opera così, infatti, è il Figlio, che non fa nulla da se stesso, ma parla e agisce come il Padre gli ha insegnato (v. 28).

va’ (e) da ora non peccare più. Questa donna è perdonata senza previo pentimento. Il pentimento infatti segue il perdono e consiste nel non chiudersi dentro la gabbia delle proprie colpe, per aprirsi alla gioia di un amore più grande. Il perdono, che precede ogni pentimento, è un atto creatore: schiude un nuovo futuro, nella libertà di non peccare più e di amare di più.

L’amore, che la peccatrice riceve nel perdono, la «giustifica»: la rende giusta. Uno infatti diviene giusto nella misura in cui sperimenta l’amore di un giusto che non lo condanna. Allora può amare come è amato. E l’amore è pieno compimento della legge (Rm 13,10b).

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando la scena, all’alba, nel recinto del tempio.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere nel perdono chi è il Signore.d. Traendone frutto, contemplo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare:• Gesù insegna nel tempio• gli scribi ed i farisei portano nel mezzo la donna colta in adulterio• la legge dice di lapidarla• cosa dice Gesù• vogliono tentarlo, per accusarlo• Gesù, chinato, scrive per terra col dito• Gesù si drizza• chi di voi è senza peccato, per primo scagli la pietra• di nuovo, chinatosi, scrive per terra• se ne vanno, cominciando dai più vecchi• Gesù rimane solo, con la donna che è in mezzo• donna, dove sono?

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• nessuno ti condannò?• nessuno, Signore• neppure io ti condanno• va’ e da ora in poi non peccare più.

4. Testi utiliSal 14; 53; 103; Ez 16; Os 2,16-25; Is 54,1-10; Ez 36,22-27; Lc 6,36-38; 7,36-51.

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22. IO-SONO LA LUCE DEL MONDO8,12-20

8,12 Allora Gesù parlò loro di nuovodicendo:

Io-Sonola luce del mondo.Chi segue menon cammina nella tenebra,ma avrà la luce della vita.

13 Allora gli dissero i farisei:Tu testimoni di te stesso:la tua testimonianza non è vera.

14 Rispose Gesù e disse loro:Anche se io testimonio di me stesso,la mia testimonianza è vera,perché so da dove vennie dove me ne vado.Voi invece non sapete da dove vengoe dove me ne vado.

15 Voi giudicate secondo la carne,io non giudico nessuno.

16 E se poi io giudico,il mio giudizio è veritiero,perché non sono solo,ma io e il Padreche mi inviò.

17 Ora anche nella vostra legge è scrittoche la testimonianza di due uominiè vera.

18 Sono io che testimonio di me stessoe testimonia di me il Padre che mi inviò.

19 Allora gli dicevano:Dov’è il padre tuo?

Rispose Gesù:Non conoscete né mené il Padre mio.Se conosceste me,conoscereste anche il Padre mio.

20 Queste parole parlònel (luogo della) cassa del tesoroinsegnando nel tempio;e nessuno lo catturòperché non era ancora giuntala sua ora.

1. Messaggio nel contesto«Io-Sono la luce del mondo», proclama Gesù nel tempio, dopo aver gridato di essere la

sorgente della vita, che disseta chiunque crede in lui (cf. 7,37).

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Gesù si è rivelato nel simbolo delle nozze e del vino, del tempio e del vento, dell’acqua e del pane; ora si proclama luce. Lui, nel quale si compiono le nozze tra Dio e l’uomo, è sorgente di vino, vento, acqua e pane, perché lui stesso, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, ha in sé la vita (1,4; 5,26) ed è la luce degli uomini (cf. l,4s.9). Tutto ciò che esiste parla di lui, perché tutto è fatto per mezzo di lui e in lui ha la sua consistenza (cf. Col 1,15-17).

La luce non solo è principio di creazione, che fa uscire il cosmo dal nulla: come fa esistere, così fa vedere, conoscere e gioire di tutto.

Vedere la luce vuol dire uscire dalle tenebre e venire alla luce: vedendo Gesù, il Figlio, noi nasciamo alla nostra realtà di figli di Dio. Nel c. 3 si parla di una nascita «dall’alto»: è l’illuminazione di chi contempla l’amore del Padre nel Figlio, donato per la vita del mondo. In lui veniamo alla luce come figli, che conoscono l’amore da cui vengono e di cui vivono.

«Gesù luce del mondo» è come il titolo del c. 8. Questo è uno sviluppo articolato del c. 7, che riprende numerose espressioni del c. 5 e sfocerà nel c. 9 con l’illuminazione del cieco. La forma non è quella di un dialogo sereno, come quando due cercano la verità; è piuttosto una lotta tra la verità che si propone come luce e la menzogna che si oppone come tenebra: è l’incontro/scontro tra l’offerta e il rifiuto della vita. Il c. 8 presenta un corpo a corpo tra il Figlio, che è Parola/verità/luce/vita, e i suoi fratelli ancora chiusi nella menzogna, schiavi nelle tenebre di morte. È un resoconto teologico di ciò che è avvenuto tra Gesù ed i suoi contemporanei, offerto alla Chiesa di Giovanni perché non si scoraggi se deve affrontare le stesse incomprensioni e opposizioni. Più in profondità possiamo dire che il testo, come al solito, riproduce ciò che avviene in chi ascolta la Parola: nell’interlocutore si scatenano le resistenze delle tenebre che vengono squarciate, perché lui stesso possa diventare luce.

Nel corso del capitolo, pieno di tensioni e contraddizioni, intervengono 11 volte gli oppositori della luce e 13 volte Gesù, la luce. A lui, che era in principio, spetta la prima e l’ultima parola.

Al centro del capitolo sta «il Padre», nominato direttamente 23 volte e altre volte indirettamente come «colui che mi inviò» e «da dove vengo e dove me ne vado». Il Padre implica necessariamente il Figlio. Questi, anche se nominato solo nei vv. 28.35.36, è il protagonista: è Gesù stesso, che sta rivelando la propria identità.

Per il Figlio, il Padre è origine della sua missione verso i fratelli, principio e fine della sua esistenza. Gesù chiama «Padre mio» colui che Abramo, ritenuto dagli interlocutori loro padre, considera suo Dio. Chi rifiuta lui, rifiuta il Padre e non ha come padre Abramo, ma il diavolo. Figli di Abramo sono quanti accolgono la testimonianza del Dio di Abramo attraverso il Figlio, che è venuto a illuminare i fratelli sulla loro realtà di figli. «Padre» significa origine e appartenenza, amore e conoscenza, affidabilità e sensatezza di vita. Il Figlio è venuto per portare ai fratelli la luce della loro vita: la conoscenza del Padre. L’identità di ogni uomo è infatti la conoscenza e l’accettazione della propria radice.

Nella rivelazione del Figlio come luce del mondo, le tenebre vengono allo scoperto nella loro malvagità. La tenebra non è il nulla: è menzogna che si oppone alla verità, egoismo che non accetta l’amore, morte che uccide la vita. Ma la luce, proprio quando sarà catturata, verrà posta sul lucerniere. Allora colui che ha detto: «Io-Sono la luce del mondo» (v. 12), diventerà il Figlio dell’uomo che ci fa conoscere «Io-Sono» (v. 28): lui stesso, il Figlio, è Io-Sono, uguale al Padre! Quest’espressione è il culmine dell’autorivelazione di Gesù, il punto d’arrivo della sua manifestazione che risponde alla nostra domanda: «Tu chi sei? Chi fai di te stesso?» (vv. 25a.53a).

Inoltre in questo capitolo c’è la massima concentrazione di termini che indicano il parlare: ben ventinove volte in quarantotto versetti (vv. 12-59). La Parola è vita e luce, che si comunica proprio parlando.

Davanti alla Parola è possibile una duplice reazione: quella dei figli della luce e quella dei figli delle tenebre. Da una parte c’è ascolto, fiducia e conoscenza, con il frutto di verità,

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libertà e vita; dall’altra c’è rifiuto, incredulità e ignoranza, con il veleno della menzogna, della schiavitù e della morte.

L’argomento del capitolo tocca l’umanità di ogni uomo, chiamato a scoprire il senso dell’esistenza, a sapere da dove viene e dove va, a conoscere e accettare la sua realtà di figlio. L’unica condizione per vivere è non tagliarsi dalla propria sorgente.

Articoleremo il testo in tre parti: vv. 12-20,21-30,31-59.La prima parte – delle altre diremo dettagliatamente in seguito – inizia e termina con

Gesù che parla (vv. 12.20). Al centro c’è la sua rivelazione come luce e le reazioni della nostra tenebra.

Alla sua solenne affermazione in cui si offre al mondo come luce (v. 12), segue l’op-posizione degli uomini di legge che non accettano la sua testimonianza (v. 13). Gesù risponde che essa è vera, perché egli sa da dove viene e dove se ne va (v. 14). La sua è, infatti, la testimonianza del Figlio, che è da e per il Padre: è luce di vita proprio in quanto Figlio, che comunica ai fratelli la loro identità perduta. Chi è nella tenebra non ammette questa testimonianza perché non accetta la propria verità di figlio: giudica secondo la carne, da uomo che non si apre allo Spirito. Gesù, invece, non giudica nessuno: è venuto infatti a salvare il mondo, illuminando ogni carne del suo Spirito (v. 15). Eppure la sua rivelazione, che ci testimonia il nostro essere figli del Padre, provoca su di noi un giudizio. Questo però non viene da lui; viene invece da noi e riguarda lui: accettarlo o rifiutarlo è il giudizio che ogni uomo compie su di sé, accettando o rifiutando se stesso come figlio e Dio come Padre (vv. 16-18). A chi gli chiede dov’è il Padre, Gesù risponde che solo chi conosce il Figlio conosce il Padre (v. 19). Gesù parla nel «tesoro del tempio»; cercano di prenderlo, ma invano, perché non è ancora venuta la sua ora (v. 20).

Queste parole del Signore sono molto confortanti: le resistenze che proviamo in noi e attorno a noi, sono le stesse che la luce del mondo ha incontrato sin dall’inizio e incontrerà sino alla fine.

Gesù non è un «illuminato»: è la luce che illumina ogni uomo, facendolo uscire dalla tenebra. Egli infatti, Parola di vita e Figlio di Dio, è luce di ogni uomo che viene al mondo. Alla sua luce vengo alla luce (cf. Sal 36,10); è lui la salvezza del mio volto e mio Dio (cf. Sal 42,12; 43,5).

La Chiesa accoglie l’invito di venire al Figlio, credere in lui e seguirlo come luce della propria vita. «Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14): diventerai «figlio della luce» (cf. 12,36). L’illuminato che si crede luce, è come Lucifero: nega la stessa luce che lo illumina. Il fondamento, ineliminabile, di ogni vera illuminazione è vedere la propria tenebra.

2. Lettura del testov. 12: Gesù parlò di nuovo. Ci troviamo ancora nel tempio (cf. v. 20). Siamo dopo

l’ultimo giorno della grande festa, quando Gesù gridò, a chiunque ha sete, di venire a lui (cf. 7,37).

Io-Sono la luce del mondo. Il tema della luce, come quello dell’acqua, è collegato alla festa delle Capanne, quando, durante la notte, fiaccole accese illuminavano a giorno la città santa.

La luce è la metafora più bella di Dio: «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre» (1Gv l,5b). A sua volta l’uomo, creato a sua immagine, è chiamato a riflettere a viso scoperto, come in uno specchio, la gloria del Signore (2Cor 3,18), trasfigurandosi secondo l’icona del Figlio (Rm 8,29), la bellezza del cui volto è apparsa ai discepoli quando il Padre disse di lui: «Questi è il Figlio mio, l’eletto. Ascoltate lui!» (Lc 9,28-36p). La sua parola infatti è lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino (Sal 119,105). Giustamente la parola, che distingue l’uomo dall’animale, è la luce della sua vita: le conferisce il suo senso, rendendola

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specificamente umana. Una vita senza parola è bestiale, infernale: è solitudine e incomunicabilità.

La luce richiama anche «il giorno del Signore», che sarà «un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno, né notte, verso sera risplenderà la luce» (Zc 14,6s; cf. Ap 21,22-22,5). «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse», dice Is 9,1 parlando della pace definitiva che porterà la vittoria del Messia (Is 9,1-6; cf. Gdc 7,15-25). E dice ancora, a Gerusalemme: «Alzati, sii luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te» (Is 60,1). Gesù si propone come luce non solo per Gerusalemme, ma per tutte le nazioni, nella linea di Is 9,1-6; 60,1ss (vedi anche i canti del Servo: Is 42,6s; 49,6-9).

Nell’affermazione di Gesù si concentrano molti richiami biblici, con risonanze messianiche (cf. Is 9,1-6; 42,6s; 49,6; 60,1ss), sapienziali (cf. Bar 4,2; Sap 10,17; 18,3s; Sal 119,105), teofaniche (cf. Es 13,21ss;Is 60,19-20; Sap 18,3) ed escatologiche (cf. Mi 7,9; Ab 3,4; Zc 14,6s). La luce infatti è principio di vita e intelligenza, di rivelazione di Dio e salvezza dell’uomo.

Gesù è la luce del mondo perché è il Figlio che rivela l’amore del Padre: fa vedere a ogni uomo da dove viene e dove va, riscattandolo dal buio dell’insensatezza. Un figlio, che ignora l’amore del Padre, cerca la propria identità in surrogati che, lungi dal soddisfarlo, sono, presto o tardi, causa di sofferenze maggiori.

chi segue me. Normalmente Giovanni parla di «venire» a Gesù o «credere» in lui. Qui, come negli altri Vangeli, si parla di «seguire». La luce non è solo conoscenza intellettuale; è un cammino dietro una persona.

Gesù si identifica con la legge, con Dio stesso, l’unico che va seguito. Egli è come la colonna di nube che guidò Israele nell’esodo: luminosa per chi la segue e tenebrosa per chi la insegue (cf. Es 13,21). Essa lo accompagnerà e condurrà, tappa dopo tappa, nel cammino dalla schiavitù alla libertà (cf. Nm 9,15-23).

Ogni uomo che segue Gesù esce dalle tenebre e viene alla luce di figlio di Dio (cf. 1,12).

non cammina nella tenebra. Come la verità è luce e vita, la menzogna è tenebra e morte. «Camminare nella tenebra» è un’immagine molto espressiva. Chi, nella notte e senza torcia, cammina nel bosco o in città durante un black-out, sa cosa vuol dire camminare nella tenebra. Significa errare, inciampare e cadere, in preda all’angoscia di non sapere dove si è; ogni realtà, anche buona, si trasforma in pericolo e minaccia mortale.

Tutti abbiamo esperienza del «buio interiore» e sappiamo che una vita senza luce è peggio della morte.

ma avrà la luce della vita. Il futuro indica che questa luce, che già c’è perché in essa si cammina, sarà per sempre. In Gesù è donata definitivamente all’uomo la luce interiore della sua realtà: la conoscenza di essere figlio del Padre.

Gesù garantisce, a chi segue lui, di non camminare nella tenebra e di avere la luce della vita. Come facciamo a sapere se la sua affermazione è vera o falsa? Delle affermazioni scientifiche possiamo avere una verifica sperimentale; ma per ciò che riguarda i valori fondamentali dell’esistenza, che verifica abbiamo? In questo caso, vero o falso si traduce concretamente in bene o male. Per distinguere l’uno dall’altro abbiamo due criteri, che ciascuno di noi deve imparare ad applicare, per vivere in modo sensato.

Il primo è interno a noi. Ogni uomo infatti è «programmato» per la verità, l’amore e la libertà: quando ascolta e capisce un’affermazione, dalla reazione che essa suscita in lui può vedere se corrisponde o meno a ciò che nel profondo desidera. Avverte infatti un moto di consenso o di dissenso, di chiarezza o di confusione, di pace o di inquietudine, di gioia o di tristezza. Da questi sentimenti capisce, per consonanza o dissonanza interiore, la bontà o meno di ciò che ascolta. Nessuno infatti può mentire al suo cuore. Ma la cosa non è così semplice. Infatti ognuno di noi, anche se ha il desiderio del vero e del bene, è schiavo della

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menzogna e delle abitudini cattive che ne derivano; e di conseguenza sbaglia nel valutare e nell’agire. In questo caso, però, il nostro cuore resta insoddisfatto e diviso in se stesso, in una lotta interiore che rimane fino a quando non ci apriamo a ciò per cui siamo ciò che siamo.

Il secondo criterio è esterno. Comprendiamo di non camminare nella tenebra ma nella luce quando la nostra vita diventa sempre più luminosa e sensata: l’esterno tende a corrispondere all’interno, ciò che si fa tende a realizzare ciò che si desidera.

Per questo è importante che ciascuno impari a leggere e discernere ciò che ogni parola ascoltata muove nel suo cuore, guardando anche il frutto che essa porta nella sua vita concreta. La verifica dei fatti è sempre importante. Del senno di poi sono piene le fosse, si dice. Ma queste fosse, piene di sapienza, sono un buon humus per l’albero dell’esperienza.

v. 13: gli dissero i farisei. Qui i farisei rappresentano coloro che scambiano ciò che è scritto con colui che scrive: scambiano la Scrittura con colui che l’ha data. La legge tiene il posto di Dio: è diventata un idolo a cui sacrificare la vita.

Sono oppositori della luce perché non conoscono ancora Dio come Padre e se stessi come figli. Anche Paolo era uno di questi: irreprensibile nell’osservanza della legge (cf. Fil 3,6), sarà avvolto dalla luce di Cristo che gli si rivela mostrandogli la sua cecità (cf. At 9,1-9). Il c. 8 vuol convincere di cecità l’uomo della legge, perché, come il cieco nato, possa vedere la luce (cf. 9,40s).

tu testimoni di te stesso, ecc. I farisei non accettano ciò che Gesù testimonia di sé. Si accetta ciò che un altro dice quando corrisponde a ciò che si ha nel cuore. La luce, che egli è e manifesta, è il contrario della tenebra che i farisei hanno nel cuore. Per questo la rifiutano, preferendo le proprie tenebre (cf. 3,19-21). Un occhio chiuso non ama la luce: ne è offeso e se ne difende.

v. 14: la mia testimonianza è vera. Gesù è Parola e luce, verità e vita, perché testimonia l’amore del Padre per il mondo (cf. 3,16s). La luce testimonia di se stessa illuminando, senza essere illuminata da altro, come la parola testimonia di se stessa parlando. Chi ascolta, sente dentro di sé che questa parola è vera e viva, perché lo rende vero e vivo: lo Spirito stesso testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio (cf. Rm 8,16). Nel nostro cuore, quando è sufficientemente libero dalle paure, c’è una testimonianza interiore di verità, che lo porta a riconoscere spontaneamente ciò per cui è fatto.

so da dove venni e dove me ne vado. Chi è schiavo della tenebra non accetta questa testimonianza, perché ignora da dove viene e dove va: non sa chi è. Gesù definisce qui il Padre come principio e fine del suo cammino: è il Figlio, nato dal Padre, che vive del suo amore. Gesù è luce del mondo proprio perché, in quanto Figlio che conosce l’amore del Padre, comunica agli uomini la verità loro e di Dio: Dio è Padre e noi suoi figli.

v. 15: voi giudicate secondo la carne. Giudizio secondo la carne è quello di colui che pone al centro di tutto il proprio io, chiuso nella sua fragilità e nel suo limite, senza aprirsi allo Spirito che dà vita. È un giudizio dettato dalla paura della morte e dall’egoismo, che rifiuta l’amore e la vita.

Forse però qui significa che i giudei giudicano Gesù, che è Parola diventata carne, solo secondo la sua origine umana e non anche secondo la sua origine divina. La coscienza di essere «il» Figlio di Dio, centrale nella sua rivelazione, sarà il motivo della sua condanna e della nostra salvezza.

io non giudico nessuno. Come appare chiaro dal racconto precedente (vv. 1-11), Gesù non è venuto per giudicare, ma per salvare il mondo (3,17). Il suo giudizio è quello del Padre della vita, che non giudica, ma giustifica (cf. 5,26.30).

v. 16: se poi io giudico. Queste parole, come spesso in Giovanni, sembrano contraddire quanto è appena stato detto: «Io non giudico nessuno». Gesù non giudica come l’uomo, secondo la carne, ma giudica come Dio, secondo il suo Spirito, che è amore. E il suo giudizio è veritiero, a differenza del nostro. Questo suo giudizio sarà la croce, salvezza di ogni carne.

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perché non sono solo, ma io e il Padre che mi inviò. Il motivo della verità del giudizio di Gesù è che lui non è solo. Lui è il Figlio, il cui essere è relazione al Padre. Non c’è l’uno senza l’altro. È il mistero dell’unità e della distinzione tra Padre e Figlio, la cui vita è l’amore reciproco. Padre e Figlio sono due, eppure uno. Gesù dirà infatti poco dopo: «Io-Sono» (v. 58; cf. 10,30; 14,9), attribuendosi ciò che è esclusivo di Dio.

v. 17: nella vostra legge è scritto, ecc. Una testimonianza, per essere accolta in un giudizio, deve essere di due persone (cf. Dt 19,15).

v. 18: sono io che testimonio di me stesso e testimonia di me il Padre. La testimonianza del Figlio è sempre, insieme, anche quella del Padre: l’ha inviato ai fratelli proprio per mostrare loro il suo amore. Le opere di Gesù in favore degli uomini raccontano il Padre (cf. 1,18); e l’opera del Padre è che gli uomini credano nel Figlio che ha inviato (cf. 6,29).

Gesù è luce del mondo proprio perché ridà agli uomini il loro volto di figli e di fratelli, mostrando loro, nel suo, il volto stesso del Padre. Con lui finisce l’epoca dell’ignoranza e della schiavitù, il mondo del padre/padrone, e inizia l’epoca della verità e della libertà, il mondo dei fratelli che si amano con lo stesso amore del Padre.

v. 19: dov’è il padre tuo? Richiama la domanda che farà Filippo: «Mostraci il Padre e ci basta» (14,8). Chiedono dove sia il Padre. Conoscere la propria origine è il desiderio di ogni uomo, che è sempre in cerca della propria identità.

non conoscete né me né il Padre mio, ecc. Non conoscere Gesù, il Figlio, è non conoscere Dio come Padre. Conoscere lui, è conoscere il Padre: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (cf. 14,9). La carne della Parola rivela la Parola che è in ogni carne. Gesù chiama Dio «Padre mio»: per chi accoglie e segue lui, diventa «Padre nostro».

v. 20: queste parole parlò. Queste parole sono luce: sono Spirito e vita (cf. 6,63.68).nel (luogo della) cassa del tesoro. È il luogo dove si custodisce il tesoro del tempio. Il

dio mammona aveva invaso la casa di Dio. Ora il nuovo tempio è Gesù stesso (cf. 2,13-22), in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (cf. Col 2,9), con tutti i tesori della sapienza e della scienza (cf. Col 2,3). Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia (cf. 1,16), persino quella di diventare figli di Dio (cf. 1,12).

nessuno lo catturò. Il verbo «catturare» esce otto volte in Giovanni, delle quali quattro in questa sezione (cf. 7,30.32.44; 8,20). Anche la parola «uccidere», che ne è la conseguenza, esce dodici volte, delle quali sei in questa sezione (cf. 7,19.20.25; 8,22.37.40). Le tenebre vogliono spegnere la luce.

non era ancora giunta la sua ora. La sua ora non è ancora giunta, ma è ormai chiaramente annunciata.

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando Gesù nel tempio, vicino alla cassa del tesoro.c. Chiedo ciò che voglio: seguire lui per uscire dalle tenebre e avere la luce della vita.d. Mi lascio illuminare dalle parole di Gesù, luce del mondo.

Da notare:• Io-Sono luce del mondo• chi segue me non cammina nelle tenebre• avrà la luce della vita• la mia testimonianza è vera, perché so da dove venni e dove me ne vado• voi giudicate secondo la carne• io non giudico nessuno• se poi giudico, il mio giudizio è veritiero• perché non sono solo, ma io ed il Padre che mi inviò• dov’è il padre tuo?

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• se conosceste me, conoscereste il Padre• nessuno lo catturò• non era ancora giunta la sua ora.

4. Testi utiliSal 27; 36; 42; Nm 9,15-23; Is 9,1-6; 60,1ss; Gv 3,16-21; 1Ts 5,4-11; Ap 21,22-22,5.

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23. QUANDO AVRETE INNALZATO IL FIGLIO DELL’UOMO,ALLORA CONOSCERETE CHE IO-SONO

8,21-30

8,21 Allora, di nuovo, Gesù disse loro:Io me ne vadoe mi cercherete,ma morirete nel vostro peccato.Dove io me ne vado,voi non potete venire.

22 Dicevano allora i giudei:Forse che si ucciderà,perché dice:

Dove io me ne vadovoi non potete venire?

23 E diceva loro:Voi siete dal basso,io sono dall’alto.Voi siete da questo mondo,io non sono da questo mondo.

24 Vi dissi dunqueche morirete nei vostri peccati.Se infatti non credereteche Io-Sono,morirete nei vostri peccati.

25 Allora gli dicevano:Tu chi sei?

Disse loro Gesù:(Io sono fin) dal principioproprio quello che vi dico.

26 Molte cose ho da diree giudicare su di voi;ma chi mi inviò è veritieroe io, le cose che ascoltai da lui,queste dico al mondo.

27 Non conobbero che parlava loro del Padre.28 Allora disse loro Gesù:

Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo,allora conoscereteche Io-Sonoe da me stesso non faccio nulla,ma, come mi insegnò il Padre mio,queste cose dico;

29 e colui che mi inviòè con me:non mi lasciò solo,perché io faccio semprele cose a lui gradite.

30 Mentre egli diceva queste cose,

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molti credettero in lui.

1. Messaggio nel contesto«Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io-Sono», dice

Gesù rivelando l’identità sua e di Dio. Il Figlio, luce del mondo, sarà rifiutato e innalzato dai fratelli sulla croce; ma proprio da lì si manifesterà e sarà riconosciuto come «Io-Sono». L’espressione «innalzare il Figlio dell’uomo» corrisponde alle predizioni della passione e risurrezione degli altri Vangeli (cf. Mc 8,31; 9,31; 10,33sp). Mentre in questi ritmano la seconda parte del racconto, in Giovanni ricorrono invece nella prima parte (3,14; 8,28; 12,32a). Inoltre i due momenti distinti della passione e della risurrezione sono resi con l’unica parola «innalzare». Infatti Giovanni vede fin dall’inizio la croce come gloria. Infine, ogni volta che parla di innalzamento, dice anche uno dei frutti che esso produce: il dono della vita eterna a chi crede nel Figlio che rivela l’amore del Padre (3,15s), la conoscenza di «Io-Sono» come unione intima tra Padre e Figlio offerta a ogni uomo (8,28) e, alla fine, la vittoria sul nemico e l’attrazione al Signore di tutto il mondo (cf. 12,31s).

L’opposizione a Gesù raggiunge il suo vertice. La luce entra, come lama, nella profondità delle tenebre: la verità del Figlio si scontra con la menzogna che è nei fratelli. La croce è ormai all’orizzonte.

La morte di Gesù può essere vista sotto vari aspetti. Il primo è il fatto che Gesù, mortale come ogni uomo, vive questo evento naturale in modo nuovo: come ritorno del Figlio al Padre. Noi invece, che ignoriamo di venire dal Padre e di tornare a lui, la percepiamo come separazione e privazione della «nostra» vita. Non accettando di essere figli e volendo essere principio di noi stessi, avvertiamo la morte come la fine di tutto ciò che noi siamo. Per questo, nell’inutile tentativo di salvarci da essa, siamo suoi schiavi per tutta la vita (cf. Eb 2,14s). La paura di perderci ci chiude in noi stessi: ogni nostro rapporto non è più di amore, comunione e dono, ma di egoismo, violenza e distruzione. Questo è «il peccato» che sta all’origine dei nostri mali e che Gesù disinnesca, vivendo la morte non come la fine di tutto, ma come il ritorno al Padre della vita.

Il secondo aspetto è il fatto che Gesù non muore, ma è ucciso in nome di Dio, perché ha testimoniato un Dio altro da quello che noi pensiamo. Egli è «il» Figlio di Dio che ci mostra il vero volto del Padre, che è amore e servizio, perdono e salvezza per ogni perduto. All’origine della sua uccisione c’è l’ignoranza di Dio come Padre e di se stessi come figli. Infatti chi ignora il Padre, non accetta di essere figlio e uccide sé come figlio, gli altri come fratelli e, alla fine, lo stesso Figlio. La croce è il punto d’arrivo del «peccato del mondo»: è la consumazione ultima del male, oltre cui è impossibile arrivare. Che si può fare di peggio che uccidere il Figlio stesso di Dio?

Il terzo aspetto è il fatto che, proprio in questa uccisione perpetrata dagli uomini, il Figlio rivela chi è Dio e che lui stesso è Dio. Dio non è, come pensava Adamo, invidioso della sua vita e antagonista della sua libertà, padrone potente che condanna quanti non si sottomettono a lui. Quel Dio che nessuno mai ha visto, ce lo racconta il Figlio unigenito (1,18): è amore assoluto, che porta su di sé il male dell’uomo che ama, sino a far dono della sua vita a chi gliela toglie.

Solo dalla croce conosciamo veramente «Io-Sono»; ogni altra conoscenza di Dio è idolatrica. La croce, stoltezza e debolezza agli occhi del mondo, è sapienza e potenza di Dio a salvezza di ogni uomo (cf. 1Cor 1,18-25). Essa sdemonizza definitivamente la nostra immagine di Dio, purificandolo da ogni nostra proiezione; gli restituisce la sua identità, mostrando, in modo palese e inequivocabile, la sua essenza profonda: amore incondizionato, più grande di ogni violenza e morte. La croce, abisso di male senza limiti, è l’unico contenitore capace di accogliere quel bene infinito che è Dio. Punto d’incontro tra la nostra resistenza e la sua benevolenza, essa rivela la verità di «Io-Sono», il Dio che libera dalla schiavitù e dall’esilio (cf. Es 3,14-16; Is 43,10). È vero quanto Giuseppe, prefigurazione di

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Gesù, disse ai suoi fratelli: «Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso» (Gen 50,20).

L’andamento del dibattito è drammatico. Le dure accuse di Gesù ai suoi oppositori sono da intendere come minacce profetiche, che vogliono evidenziare quel male da cui ci vuole salvare.

Come spesso avviene nel Vangelo di Giovanni, il testo è un gioco di equivoci, con una progressione a salti, ma senza soluzione di continuità. Infatti l’incomprensione provoca una rivelazione ancor più profonda, che accresce l’incomprensione stessa; alla fine l’incompren-sione estrema provocherà la rivelazione estrema.

La Parola, come uno specchio (cf. Gc 1,23), fa vedere al lettore la sua cecità davanti alla luce del mondo, perché possa essere guarito, come avverrà al cieco del c. 9.

Gesù esordisce dicendo che lui se ne va – sa bene che vogliono ucciderlo – e i suoi ascoltatori lo cercheranno inutilmente: moriranno nel loro peccato, che è quello di non ascoltare lui, il Figlio (v. 21). Gli avversari reagiscono proiettando su di lui quel male che è nel loro cuore: chiedono se voglia uccidersi (v. 22). Gesù ribatte che essi non possono comprendere dove lui va, perché sono «dal basso», «da questo mondo», non «dall’alto», dal Padre (v. 23). È questo il peccato che li fa morire. Solo se credono in lui come «Io-Sono», il Figlio che rivela il Padre, possono avere la luce della loro vita; diversamente muoiono nei loro peccati (v. 24). Alla domanda sulla sua identità, appena dichiarata, Gesù ribadisce di essere appunto ciò che ha detto e da sempre dice (v. 25). Ha molte cose da dire, e rimproverare, ai fratelli; cose che ha udito dal Padre (v. 26). Ma essi neppure si accorgono che parla del Padre, annota l’evangelista (v. 27). Gesù conclude con la grande promessa: quelli che ora non capiscono e presto lo uccideranno, lo riconosceranno dalla croce come «Io-Sono», il Figlio che parla e agisce in comunione con il Padre (vv. 28-29). Il finale annota che a queste parole molti credono in lui (v. 30): sono l’anticipo delle moltitudini che volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (cf. 19,37).

Gesù, il Figlio, è luce del mondo. Rifiutare lui è uccidere se stessi come figli e gli altri come fratelli. Questo rifiuto ha come conseguenza estrema la sua croce. Ma proprio lì si rivelerà come Io-Sono, Signore e salvatore di tutti.

La Chiesa sperimenta in se stessa la lotta tra le tenebre e la luce. Vive, attraverso il racconto del Vangelo, il dramma della Parola di vita che svela le sue resistenze di morte; ma, nella contemplazione del Figlio dell’uomo innalzato, coglie il mistero dell’uomo e di Dio: capisce quanto Dio ha amato il mondo, sino a dare suo Figlio, perché per mezzo di lui abbia la vita (cf. 3,16ss).

2. Lettura del testov. 21: Allora, di nuovo, Gesù disse loro. Gesù, dopo la festa delle Capanne, riprende a

parlare nel tempio ai giudei. Ha appena salvato la donna adultera, da loro condannata a morte secondo la legge; per questo condanneranno lui, secondo la stessa legge.

io me ne vado. Ripete quanto ha detto in 7,33s e ribadirà nell’ultima cena anche ai suoi discepoli (13,33.36; 14,19; 16,16-19). Il suo andarsene – Gesù non dice mai «io muoio» -, carico di significati che abbracciano la totalità del suo messaggio, può essere visto da prospettive diverse: da parte nostra è un’uccisione, da parte sua è il dono della vita e il compimento della sua missione (cf. 19,30b), da parte del Padre è la glorificazione del Figlio e la rivelazione in lui di «Io-Sono».

mi cercherete (cf. 7,34a). L’uomo è sempre in cerca di luce e verità: è ricerca di Dio, che è suo Padre. La Bibbia presenta un Dio che da sempre è in cerca dell’uomo, perché anche l’uomo lo cerchi e trovi la sua felicità. Cercare il Signore e non trovarlo è la tragica situazione di chi vive nell’ingiustizia, la maledizione che prelude il giorno del Signore (cf. Am 8,11-12),

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del quale la croce è l’ora decisiva. Il tempo per cercarlo è quello in cui egli è tra noi. Lo trova solo chi crede in lui, luce del mondo, e lo segue (v. 12).

morirete nel vostro peccato. Invece di ripetere, come in 7,34b, «non mi troverete», dice loro che moriranno nel loro «peccato», al singolare; nel v. 24 parlerà di «peccati», al plurale.

Peccare significa fallire, mancare il bersaglio. Il «peccato» per eccellenza è l’idolatria: la falsa immagine di Dio, che fa orientare la vita in direzione contraria a lui. È il peccato di chi non riconosce più Dio come Padre e se stesso come figlio. Esso viene dalla menzogna antica che presenta Dio come padrone geloso delle sue prerogative ed invidioso di chiunque altro. Per questo Adamo si allontanò da lui. L’uomo, staccato dalla sua sorgente, si attacca agli idoli, che gli succhiano la vita sino a ridurlo a loro immagine (cf. Sal 115,5-8).

Non accettare Dio come Padre e se stessi come figli ci svuota della nostra identità. La morte, che ne deriva, non è punizione di Dio, ma stipendio del peccato (cf. Rm 6,23; cf. Sap 1,13). Morire qui non indica la morte biologica – siamo di natura mortali –, ma il modo insensato di vivere proprio di chi, non sapendo da dove viene e dove va, considera la morte come la fine di tutto. Nei vv. 24.28s Gesù presenterà la via di uscita per non morire nei propri peccati: credere in lui come «Io-Sono».

dove io me ne vado, voi non potete venire. Gesù va al Padre, perché è il Figlio. I suoi ascoltatori non possono ancora venire al Padre. Non perché non vogliono, ma perché non «possono»: devono prima vedere il Figlio che lo rivela.

v. 22: forse che si ucciderà? In 7,35 si chiedono se andrà nella diaspora a far proseliti tra i greci; qui, invece, si chiedono se intenda uccidersi. Andare contro la vita, per il giudaismo, è escludersi dal mondo che viene: «Le anime di coloro, le cui mani hanno infierito contro la loro vita, saranno accolte nell’ade più tenebroso» (Giuseppe Flavio). I giudei si chiedono se Gesù intenda andare all’inferno, sotto terra, nelle tenebre, lui che si è proclamato luce del mondo.

In realtà sono loro stessi a fare ciò che malignamente suppongono di lui: non accettando la luce del Figlio, sprofondano nelle tenebre. A ben guardare, in ogni giudizio proiettiamo sull’altro ciò che siamo noi.

v. 23: voi siete dal basso. Il v. 23 contiene una duplice contrapposizione tra «voi/io», secondo una duplice paternità, una «dal basso» e «da questo mondo», l’altra «dall’alto» e «non da questo mondo», una dal diavolo e l’altra da Dio, come verrà sviluppato in seguito (cf. vv. 31-59).

«Da» indica origine e appartenenza. Gesù rimprovera i farisei di non avere la loro origine dal Padre della luce e di non appartenere a lui: sono dal padre della menzogna e appartengono alla morte. Per questo non possono venire dove lui va: per loro la morte, invece che un ritorno al Padre, è un fallimento di tutto, un morire nei peccati.

io sono dall’alto. Gesù è dall’alto, dal cielo, da Dio, da cui viene e a cui sale (cf. 3,13.31; 6,32s.41s.50s).

voi siete da questo mondo. Essi invece hanno la loro origine e appartenenza in questo mondo chiuso in sé, estraneo a Dio e al mondo che deve venire.

io non sono da questo mondo. Gesù è in questo mondo, ma non da questo mondo: è dal Padre e torna da questo mondo al Padre (cf. 13,1). Anche il suo regno non è da questo mondo (18,36); e i discepoli, come lui, sono in questo mondo, ma non da questo mondo: riconoscono nel Padre la loro origine (cf. 15,19; 17,14.16). «Questo mondo» invece è sotto il dominio del padre della menzogna, omicida fin dall’inizio (cf. vv. 44-47).

v. 24: se infatti non crederete che Io-Sono, ecc. Si può uscire dal fallimento e dalla morte solo conoscendo il vero volto di Dio e indirizzando verso di lui la propria vita. C’è quindi uno spiraglio di luce per non morire nel peccato (v. 21a) o nei peccati (v. 24b): credere in Gesù, il Figlio, che rivela «Io-Sono». «Io-Sono» richiama il Dio che libera dall’Egitto (cf. Es 3,14) e salva dall’esilio (cf. Is 43,10). Ma questa fede in Gesù è possibile solo quando, a

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causa del nostro rifiuto, lo uccideremo e lui darà la vita per noi. Proprio allora avverrà il grande mistero di salvezza: conosceremo finalmente «Io-Sono» (cf. v. 28).

«Io-Sono» è il Nome, nel quale Dio si rivela come un «Io» che parla e si comunica. Se il padre o la madre dicono al figlio: «Sono io!», non fanno un’affermazione vuota; esprimono una presenza rassicurante, che fonda l’io del figlio e gli insegna a dire «tu». La rivelazione del Nome come Io-Sono segna l’inizio del dialogo tra Dio e uomo, in una storia comune, ricca di avventure e sorprese, con le sue interruzioni e riprese.

v. 25: tu chi sei? Gesù ha appena detto: «Io-Sono». Per questo gli chiedono chi è lui, chi pretende di essere. È colta, e insieme rifiutata, la sua pretesa divina, che lo condurrà alla morte (cf. 5,18; 7,1.19.30.32.44; 8,20b.37.59). La sua rivelazione di Figlio provoca la sua uccisione; ma la sua uccisione realizzerà la sua rivelazione: è il Figlio, uguale al Padre perché dà la vita per amore.

(io sono fin) dal principio proprio quello che vi dico. Tenendo presente che su questo punto ci sono varianti nei codici e che anticamente non c’erano segni di interpunzione, sono possibili varie traduzioni. Proponiamo questa, secondo la quale Gesù conferma di essere da sempre, dal principio, ciò che sta dicendo: «Io-Sono». Si può anche tradurre: «(Io-Sono) il principio, proprio ciò di cui vi parlo». Un’altra traduzione intende «dal principio» come «innanzitutto»; allora il testo suona: «(Sono) innanzitutto ciò che ancora vi sto dicendo». Altre due, tra le possibili traduzioni, sono: «Perché sto ancora a parlare con voi?», oppure: «E io sto ancora a parlare con voi!». In queste ultime due traduzioni Gesù, constatando il rifiuto di capire, dice che non vale la pena di parlare a chi non vuol ascoltare.

v. 26: molte cose ho da dire e giudicare su di voi. Su di sé Gesù non ha altro da aggiungere: è impossibile dire di più di quanto ha detto con l’espressione «Io-Sono». Avrebbe invece da dire molto su chi lo ascolta. Ma non lo fa, perché non giudica nessuno: è venuto per salvare, non per giudicare (cf. v. 15b; 3,17; 12,47). Queste parole esprimono bene il suo atteggiamento verso coloro che poco prima volevano lapidare la donna (cf. vv. 1-11) e preparano il suo modo di rivelarsi a coloro che lo innalzeranno sulla croce (cf. v. 28).

chi mi inviò è veritiero. Gesù si appella alla testimonianza del Padre (cf. v. 16): il suo parlare e giudicare è lo stesso del Padre, che tanto ha amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito per salvarlo (3,16s).

v. 27: non conobbero che parlava loro del Padre. È un’annotazione dell’evangelista: gli interlocutori ignorano il Padre perché non accolgono il Figlio che lo rivela. La non conoscenza del Padre è il peccato dal quale ci guarirà il Figlio dell’uomo innalzato.

v. 28: quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo (cf.3,14; 12,32a). «Il Figlio dell’uo-mo» richiama la figura gloriosa di Dn 7,1ss, ripresa con caratteristiche personali e trascendenti nel primo libro di Enoch, un apocrifo dell’AT; «innalzato» allude alla glorificazione del Servo di Is 52,13, che in Giovanni corrisponde all’innalzamento della croce (cf. 3,14; 12,32. 34). L’espressione «innalzare il Figlio dell’uomo» condensa e applica a Gesù crocifisso numerose citazioni bibliche, connettendole strettamente con la rivelazione di «Io-Sono».

Altrove «innalzare» è al passivo e indica l’azione di Dio che esalta il Figlio. Qui, invece, è all’attivo e indica l’azione dell’uomo che lo appende alla croce, proprio perché non capisce il suo parlare del Padre.

allora conoscerete che Io-Sono. Noi non riconosciamo Gesù come Figlio perché non conosciamo il Padre; per questo lo innalzeremo sul patibolo, come bestemmiatore. Ma proprio così conosceremo «Io-Sono», il Nome: Dio è amore assoluto per l’uomo! Nel Figlio del-l’uomo innalzato conosciamo la verità nostra e di Dio: lui è amore incondizionato per noi e noi siamo infinitamente amati da lui.

Come Israele nel deserto, guardando il serpente di bronzo innalzato, guariva dal morso dei serpenti (cf. Nm 21,4-9), così ogni uomo che guarda il Figlio dell’uomo innalzato, guarisce dal veleno mortale che il serpente antico inoculò in Adamo e in ogni suo figlio (cf.

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3,14s). Il Figlio dell’uomo innalzato ci attira tutti a sé (12,32): mostrandoci il suo amore, sbugiarda la menzogna che ci fece fuggire da Dio (cf. 3,16).

A coloro che ancora non possono conoscere (cf. v. 27), Gesù promette un futuro sicuro dopo la croce: «Allora conoscerete». Quando contempleranno colui che hanno trafitto (cf. 19,37; Zc 12,10), vedranno finalmente ciò che occhio mai non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore d’uomo (cf. 1Cor 2,9): «il Figlio unico», che viene a comunicarci la sua stessa relazione con il Padre (cf. vv. 28-29).

da me stesso non faccio nulla, ecc. Allora capiranno che il Gesù terreno, che hanno davanti, è il Figlio del Padre: il suo agire e il suo dire ha in lui la propria origine.

v. 29: colui che mi inviò è con me (cf. 16,32). Allora capiremo anche l’unione piena del Figlio e del Padre: sono infatti uno (cf. 10,30). In questo testo «il Padre mio» (v. 28) è chiamato anche: «dove io me ne vado» (v. 21), «colui che mi inviò» e «colui che non mi lasciò solo» (v. 29). Sono espressioni che descrivono l’ineffabile relazione di amore tra Padre e Figlio: il Padre è il fine perché è il principio del Figlio e del suo cammino verso i fratelli.

non mi lasciò solo. Noi abbiamo esperienza di solitudine. Il Figlio non è mai solo: è sempre dal e verso il Padre. Per lui anche la morte – nella morte tutti ci sentiamo estremamente soli – non è solitudine, ma glorificazione sua e del Padre (cf. 12,23; 13,31s).

perché io faccio sempre le cose a lui gradite. Il motivo della sua unione con il Padre è l’amore, che gli fa compiere ciò che a lui piace. Ciò che al Padre piace si manifesterà pienamente nel Figlio dell’uomo innalzato: manifestare e donare a tutti i figli il proprio amore.

v. 30: mentre egli diceva queste cose, molti credettero in lui. Dopo la dura requisitoria e le reazioni negative, c’è un finale a sorpresa. I molti, che credono in lui mentre dice «queste cose», sono l’anticipo della moltitudine che attirerà a sé quando sarà innalzato (cf. 12,32). Dio raggiunge il suo scopo di salvare l’uomo nonostante la sua opposizione; anzi proprio attraverso di essa.

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando il tempio, dove Gesù parla.c. Chiedo ciò che voglio: conoscere nel Figlio crocifisso dal mio male chi è Dio e chi

sono io.d. Medito sulle parole di Gesù e dei suoi avversari: le prime sono dette a me, le altre

dette da me.

Da notare:• io me ne vado• voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato• forse si ucciderà?• voi siete dal basso / io sono dall’alto• voi siete da questo mondo / io non sono da questo mondo• se non credete che Io-Sono, morirete nei vostri peccati• tu chi sei?• ciò che ancora sto dicendo!• molte cose ho da dire e giudicare su di voi• io dico ciò che udii da chi mi inviò• non conobbero che parlava del Padre• quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, conoscerete che Io-Sono• conoscerete che non faccio nulla da me stesso• colui che mi inviò è con me• non mi lascia mai solo

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• io faccio sempre ciò che a lui è gradito• a queste parole, molti credettero in lui.

4. Testi utiliSal 115; Es 3,13-15; Is 43,8-13; Gv 3,14-31; 1Cor 2,1ss.

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24. PRIMA CHE ABRAMO FOSSE, IO-SONO8,31-59

8,31 Allora Gesù diceva ai giudeiche avevano creduto a lui:

Se voi dimorate nella mia parola,siete veramente miei discepoli

32 e conoscerete la veritàe la verità vi libererà.

33 Gli risposero:Siamo stirpe di Abramoe non siamo mai stati schiavi di nessuno;come dici tu:

Diventerete liberi?34 Rispose loro Gesù:

Amen, amen vi dico:chiunque fa il peccatoè schiavo [del peccato].

35 Ora lo schiavo non dimoranella casa per sempre;il figlio dimoraper sempre.

36 Se dunque il Figlio vi libera,sarete davvero liberi.

37 So che siete stirpe di Abramo;ma cercate di uccidermiperché la mia parolanon trova posto in voi.

38 Io dico le cose che ho visto presso il Padre;anche voi dunque fate le coseche avete ascoltato dal padre [vostro].

39 Risposero e gli dissero:Il nostro padre è Abramo.

Dice loro Gesù:Se siete figli di Abramo,fareste le opere di Abramo.

40 Ma ora voi cercate di uccidere me,un uomo che vi ha detto la veritàche ha udito dal Padre.Questo, Abramo non fece.

41 Voi fate le opere del padre vostro.Gli dissero [allora]:

Noi non siamo nati da prostituzione;abbiamo un solo Padre:Dio.

42 Disse loro Gesù:Se Dio fosse vostro padre,amereste me:io infatti da Dio uscii e vengo;

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non sono infatti venuto da me stesso,ma egli mi mandò.

43 Perché non comprendete il mio linguaggio?Perché non potete ascoltare la mia parola!

44 Voi siete da quel padre (che è) il diavoloe volete fare i desideri del padre vostro.Quello era omicida dall’inizioe non è stato nella verità,perché non c’è verità in lui.Quando dice la menzogna,parla dal suo,perché è menzogneroe padre della menzogna.

45 Io invece, che dico la verità,non mi credete.

46 Chi tra voi mi convince di peccato?Se dico (la) veritàperché voi non credete a me?

47 Chi è da Dioascolta le parole di Dio.Per questo voi non mi ascoltate:perché non siete da Dio.

48 Risposero i giudei e gli dissero:Non diciamo bene noiche tu sei un samaritanoe hai un demonio?

49 Rispose Gesù:Io non ho un demonio,ma onoro il Padre mioe voi disonorate me.

50 Ora io non cerco la mia gloria:c’è chi (la) cerca e giudica.

51 Amen, amen vi dico:se qualcuno osserva la mia parola,non vedrà affatto morte in eterno.

52 [Allora] dissero a lui i giudei:Adesso abbiamo conosciutoche hai un demonio.Abramo morì e pure i profeti,e tu dici:

Se qualcuno osserva la mia parola,non gusterà affatto morte in eterno.

53 Sei tu forse più grande del nostro padre Abramo,il quale morì?Anche i profeti morirono.Chi fai di te stesso?

54 Rispose Gesù:Se io glorifico me stesso,la mia gloria è nulla;è il Padre mio che glorifica me,quello che voi dite

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che è il vostro Dio.55 E non lo avete conosciuto,

io invece lo conosco.E se dicessi che non lo conosco,sarei simile a voi, menzognero;ma Io conoscoe osservo la sua parola.

56 Abramo, il vostro padre, esultòalla vista del mio giorno;e lo vide e si rallegrò.

57 Gli dissero allora i giudei:Non hai ancora cinquant’annie hai visto Abramo?

58 Disse loro Gesù:Amen, amen vi dico:prima che Abramo fosse,IO-SONO!

59 Presero allora pietreper gettarle su di lui.

Ma Gesù si nascosee uscì dal tempio.

Messaggio nel contesto«Prima che Abramo fosse, IO-SONO», afferma Gesù alla fine di questa lunga

discussione con i giudei che hanno creduto «in lui» (cf. v. 30) o, meglio, «a lui» (cf. v. 31). Credere «a lui» è dar credito alle sue parole, credere «in lui» è aderire alla sua persona. Si può dar credito al suo messaggio, senza accettare la sua persona. Ma la verità è sempre «carne»; per questo, quando si rivela in Gesù, è rifiutata dall’ideologia religiosa. Non si può accettare il suo messaggio su Dio e sull’uomo, se non si accetta che lui stesso è il suo messaggio: è la carne della Parola, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio.

Nel testo si affrontano i temi della verità, della libertà e della paternità, fondamentali per ogni uomo. La verità, che dà la libertà, è la conoscenza del Padre e l’accettazione di essere figli. La verità di Dio come Padre rende liberi; la menzogna di un dio padrone, al quale servire o ribellarsi, rende schiavi. Infatti la relazione padre/figlio condiziona tutte le altre. La rivelazione di Dio come Padre, possibilità ultima di riscatto da ogni cattiva esperienza nei confronti del padre terreno, è l’argomento dominante del testo.

La verità sta nella parola che fa venire alla luce una realtà conosciuta; l’errore sta nella parola che non corrisponde alla realtà; la menzogna sta nella parola errata, appositamente detta per indurre un altro in errore.

La parola – vera, erronea o menzognera che sia – determina il fare dell’uomo: ognuno agisce, anzi diventa secondo la parola che accoglie. Se è vera, la parola dona la libertà di entrare in comunione con chi parla e in armonia con la realtà; se è errata, rende schiavi dell’inganno; se è menzognera, è una trappola per piegare l’altro ai propri intenti. Dove c’è verità, c’è libertà e amore; dove c’è errore, c’è buio e ignoranza; dove c’è menzogna, c’è violenza e schiavitù, oppressione e morte: «Molti sono caduti a fil di spada, ma non quanti sono periti per colpa della lingua» (Sir 28,18). La parola governa i rapporti degli uomini tra di loro e con le cose; la lingua è come il timone di una nave (cf. Gc 3,3-10): può condurla in porto o farla naufragare.

La verità più importante riguarda l’uomo stesso: chi è l’uomo, qual è la sua realtà profonda? Gesù, il Figlio, è venuto a rivelarci che siamo figli di Dio, simili al Padre. Egli, nel tempo in cui è vissuto tra noi, ci ha manifestato quel Dio che nessuno mai ha visto.

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La parola «verità» è particolarmente cara a Giovanni: nel suo Vangelo esce venticinque volte (tre volte in Marco, tre in Matteo e tre in Luca). Così pure «vero» esce dieci volte (sette volte in Marco, una in Matteo e nessuna in Luca), mentre «veritiero» esce nove volte (una volta in Luca e nessuna in Marco e Matteo). Per Giovanni la verità non è un’idea, ma una persona concreta: Gesù. Egli, con ciò che fa e dice, è la verità dell’uomo: rivela sé come Figlio e noi come suoi fratelli.

Da questa verità nasce la nostra libertà di figli, che è quella di essere come Dio stesso, nostro Padre. La libertà è la caratteristica più propria e cara all’uomo, ma anche la più ambigua. Insieme all’amore, è la realtà più adulterabile e adulterata che ci sia.

L’idea di libertà del giudaismo-cristianesimo è diversa da quella che propongono le varie culture, antiche e moderne, almeno là dove essa è presa in considerazione. Queste, semplificando, hanno due concezioni opposte.

La prima considera libero l’uomo potente, che può fare ciò che gli pare e piace, mentre gli altri sono schiavi, possibilmente suoi. Questo modo di pensare, sempre attuale e antico quanto il mondo, pone come principio di azione la ricerca del proprio piacere. Si può obiettare che questo criterio, se è sufficiente per l’animale, programmato dall’istinto, per l’uomo è il fallimento della sua umanità: resta schiavo dell’egoismo, asservendo ad esso tutto e tutti.

La seconda, al contrario, considera libero il sapiente o l’asceta, che sa e fa ciò che deve, mentre gli altri sono schiavi dell’ignoranza o dell’incapacità di fare ciò che sanno. Questo modo di pensare – più aristocratico del precedente, comune a filosofi e religiosi – pone come principio di azione il proprio dovere, che altro non è che il piacere, tipicamente umano, di essere giusti e corretti, senza sottostare a condizionamenti. È la libertà di Diogene davanti ad Alessandro Magno. Ma questa libertà, per quanto più nobile della prima, lascia ancora l’uomo schiavo del proprio io o super-io.

Secondo la Bibbia, invece, l’uomo è libero perché immagine e somiglianza di quel Dio che è amore: è libero perché suo interlocutore e partner, capace di rispondere all’amore con l’amore. Il vincolo personale con lui, l’assoluto, lo assolve (= slega) dal dominio del proprio piacere o del proprio dovere, rendendolo capace di agire secondo l’amore che conosce. Il principio della libertà è quindi l’amore, che ci rende simili a Dio. La libertà cristiana consiste nell’amare come e perché siamo amati, mettendoci ognuno a servizio dell’altro (cf. Gal 5,13).

Questa libertà non è frutto di ricerca intellettuale o ascesi morale; viene piuttosto dall’accettare la verità di ciò che siamo: figli amati. È quanto Gesù, il Figlio, è venuto a rivelarci, per liberare la nostra libertà.

L’uomo ha bisogno di essere accettato: vive o muore a seconda che sia accettato o meno dall’altro. Fino a quando non conosce un amore incondizionato, cerca necessariamente di guadagnarsene almeno delle briciole. Esse sono però insufficienti alla sua fame: ciò che è parziale e guadagnato non è amore, perché l’amore non può essere che totale e gratuito. Solo chi si sa amato senza condizioni, è libero di amare se stesso e gli altri. Per questo il principio della nostra libertà è la verità di Gesù, il Figlio amato, che ci rivela la nostra identità di figli amati dal Padre.

Questa concezione di verità e libertà, centrata sull’essere figli, implica necessariamente la paternità: la verità che rende libero l’uomo è la conoscenza dell’amore del Padre, che gli permette di accettare la propria realtà di figlio. Per ben quattordici volte in questo testo esce direttamente la parola «padre», con numerose espressioni equivalenti. Ma anche la paternità è un termine ambiguo. Si può infatti pensare il padre come colui che toglie la libertà e schiaccia il figlio, oppure come colui che gli dà la vita e la libertà. Anche se fino a poco tempo fa si pensava che si potesse essere figli di un solo padre, ognuno di noi ha sempre avvertito dentro di sé una «doppia paternità», una buona e una cattiva. Infatti oltre l’immagine di un Padre buono, c’è in noi anche una cattiva opinione su Dio che non ci fa accettare lui come Padre e noi stessi come suoi figli. Rifiutiamo la sua paternità perché nel nostro cuore ne è subentrata un’altra, surrettizia e fraudolenta: quella del diavolo (= divisore), che ci divide dal Padre, da

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noi stessi come figli e dagli altri come fratelli. Nella Bibbia questa paternità malefica, che tutti sperimentiamo, deriva dall’aver dato ascolto alla menzogna che ci dipinge un dio invidioso della nostra vita e felicità (cf. Gen 3,1ss). Come può vivere un figlio che considera in questo modo suo padre? Uno diventa l’immagine che ha del padre/madre. All’origine dei mali dell’uomo, ora come allora, c’è sempre una menzogna, un «delitto semantico». In questo modo, parole come Dio, padre, amore, verità, libertà, giustizia, felicità – più necessarie del pane per vivere –, diventano avvelenate di morte. Come la verità ci rende liberi, così la menzogna ci rende schiavi del non-senso e del caos, preda della paura e delle tenebre.

Gesù, luce del mondo (v. 12), luce vera che illumina ogni uomo (1,9), è venuto a liberarci dalla menzogna, per restituire a Dio, a noi e ad ogni realtà, il suo volto. La lotta tra verità e menzogna, libertà e schiavitù, si riduce in ultima analisi nell’accettare o meno la realtà di Dio come Padre e di noi stessi come suoi figli. Essa emerge allo stato puro nell’adesione o nel rifiuto del Figlio. Non aderire a lui significa uccidere la verità nostra e di Dio.

L’uccisione del Figlio, apice del male, ne è anche la fine. Sia perché non può andare oltre, sia perché in essa «Io-Sono» si rivela per quello che è (cf. v. 28). Se noi uccidiamo Gesù, egli, dando la vita per noi, manifesta chiaramente chi è Dio: amore infinito per noi. Per questo il Figlio dell’uomo innalzato è la vittoria definitiva della luce sulla tenebra (cf. 3,14-16).

Il testo si articola in tre parti. Gesù invita coloro che hanno creduto a «dimorare» nella sua parola di Figlio, per conoscere la verità che fa liberi. Si può essere figli di Abramo, e anche cristiani, restando schiavi della menzogna che non fa dimorare in questa parola (vv. 31-36). In realtà siamo figli della parola che ascoltiamo e viviamo. Si vede di chi siamo figli da ciò che facciamo. Se non accogliamo il Figlio o vogliamo ucciderlo, non siamo figli né di Abramo né di Dio, al quale Abramo credette: siamo figli del diavolo, padre della menzogna e omicida (vv. 37-47). Ai ripetuti insulti, Gesù replica che chi ascolta la sua parola non muore in eterno. I suoi ascoltatori gli chiedono chi pretenda di essere, se tutti i servi della Parola, da Abramo ai profeti, sono morti. Gesù risponde proclamandosi colui il cui Padre è quello che essi chiamano loro Dio. Egli è il Figlio, che era al principio: è «Io-Sono». La sua rivelazione provoca il tentativo di lapidazione (vv. 48-59).

Gesù è la verità che ci fa liberi. È infatti il Figlio che rivela l’identità nostra come figli e di Dio come Padre, liberandoci dalla menzogna che ci rende schiavi di una falsa immagine di lui e di noi.

La Chiesa, pur credendo in Gesù, scopre in sé una doppia paternità, che si manifesta rispettivamente come fiducia/ascolto o sfiducia/non-ascolto del Figlio.

2. Lettura del testov. 31: Gesù diceva ai giudei che avevano creduto a lui. Questi giudei hanno creduto «a

lui», ma ancora non credono «in lui». Si possono, infatti, accettare le parole di Gesù su Dio, senza accettare che lui stesso è Dio. È una fede incipiente, che, se non fiorisce nell’adesione alla sua persona, abortisce nel suo contrario (vedi v. 59!).

se voi dimorate nella mia parola. Per aderire a Gesù, non basta dar credito alla sua parola: bisogna «dimorare» in essa (cf. 14,21.23s; 15,1-10). La parola è la casa dell’essere. Il discepolo ha come dimora la parola del Figlio (cf. v. 31). È Gesù stesso la Parola, che lo «informa» e gli dà il potere di diventare quello che è: figlio di Dio (1,12). In concreto, dimorare nella parola significa osservarla e farla. Si può ascoltare la parola per possederla e manipolarla, oppure per esserne presi e trasformati.

siete veramente miei discepoli. Discepolo non è colui che conosce e dice la Parola, ma colui che la fa, o, meglio, «è fatto» da essa (cf. Mt 7,21-27; Lc 6,46ss).

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v. 32: conoscerete la verità. Dimorare nella Parola significa avere con essa quella familiarità che ci assimila a Gesù, il Figlio, e ci fa progressivamente conoscere chi è lui e chi siamo noi. La verità è conosciuta solo da chi la vive e nella misura in cui la vive.

la verità vi libererà. La verità del Figlio ci fa liberi perché ci ridà la nostra identità di figli. Gesù intende portare chi lo ascolta a dimorare nella sua parola per conoscere la verità che gli apre la sua vita autentica, nella libertà di figlio di Dio e di fratello dell’altro. «Conoscerete» e «libererà» sono al futuro: è il futuro, senza fine, concesso a chi dimora nella sua Parola.

Il fine della Parola di verità è la libertà. Però, come la verità è insidiata dalla menzogna, la libertà è prigioniera dell’abitudine alle varie schiavitù. La nostra intelligenza è sempre esposta a errori e la nostra volontà è in ostaggio dei suoi vizi. Essere discepoli è un lento cammino di illuminazione dell’intelletto e di liberazione della volontà, che ci viene dal dimorare nella Parola.

Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi (cf. Gal 5,1ss). È costante il pericolo di ricadere nella schiavitù. Come per Israele uscito dall’Egitto, così anche per noi la libertà è minacciata dalle difficoltà e dalle prove del cammino.

v. 33: siamo stirpe di Abramo, ecc. Abramo, nominato undici volte in queste righe, è il primo uomo che, a differenza di Adamo, ha creduto e dimorato nella parola di Dio, diventando suo figlio. L’uomo è figlio di colui nella cui parola ripone fiducia: vive di fiducia nel Padre. Gli ascoltatori di Gesù presumono di essere liberi perché discendono da Abramo. Ma non sono suoi figli, perché non agiscono come lui. Di fatto siamo tutti figli di Dio; suoi veri figli sono però quelli che si comportano come tali.

non siamo mai stati schiavi di nessuno. Nonostante le varie dominazioni straniere, i giudei si ritengono interiormente liberi, perché discendenti di Abramo, eredi della promessa. Però la vera libertà non è possedere Abramo e le promesse, ma essere, come lui, in comunione filiale con Dio che promette. Il religioso facilmente pone fiducia nella propria appartenenza, osservanza o dottrina, trascurando il suo rapporto personale con il Padre e con i fratelli.

v. 34: chiunque fa il peccato è schiavo [del peccato]. Le opere dimostrano in quale parola si dimora. Chi fa il male non dimora nella verità e non è libero: vive nella menzogna, schiavo del male che fa. «Il peccato» per Giovanni è non credere nel Figlio, non vivere da figli e fratelli. Per credere bisogna essere sufficientemente liberi dai pregiudizi e dai vizi che ci tengono schiavi dell’ignoranza e dell’egoismo.

v. 35: lo schiavo non dimora nella casa per sempre, ecc. La metafora mostra la diversa condizione dello schiavo e del figlio. L’uno sta in casa, ma come schiavo, e poi se ne va; l’altro invece vi dimora come libero e per sempre. La persona pia e religiosa può stare nella casa del Padre da schiavo e non da figlio, considerandolo come padrone e non come Padre. È il caso del «fratello maggiore» (cf. Lc 15,29), prototipo delle persone per bene che giudicano gli «altri».

v. 36: se il Figlio vi libera, sarete davvero liberi. La libertà del figlio non è oggetto di rapina: è dono del Figlio. È infatti il suo amore verso di noi, al quale noi rispondiamo amando lui e i fratelli.

v, 37: so che siete stirpe di Abramo, ecc. Sono discendenti, ma non «figli» di Abramo, perché non sono simili a lui: vogliono uccidere il Figlio, alla cui vista Abramo esultò (cf. v. 56).

perché la mia parola non trova posto in voi. Il motivo per cui cercano di uccidere Gesù è perché la sua parola non trova spazio in loro. Il loro cuore è ancora occupato da un’altra parola.

v. 38: io dico le cose che ho visto presso il Padre. Gesù è la Parola, il Figlio che racconta il Padre (1,18).

anche voi dunque fate le cose che avete ascoltato dal padre [vostro]. Se si elimina «vostro», ben attestato nei codici, e si intende «fate» come imperativo, queste parole sono

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un’esortazione a compiere opere degne del padre Abramo. Nella versione offerta, più probabile dal contesto, si tratta di una constatazione negativa: mentre Gesù dice ciò che ha «visto» presso il Padre, essi fanno ciò che hanno «ascoltato» dal padre loro (v. 41), il diavolo (v. 44).

v. 39: se siete figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. Abbiamo lasciato anche in italiano la costruzione errata che c’è in greco. Si dovrebbe dire: «Se siete, fate», oppure: «Se foste, fareste». Il significato è chiaro: «Siete figli di Abramo, ma solo secondo la carne; perché, se lo foste davvero, fareste le opere di Abramo».

Alla loro pretesa di avere Abramo come padre, Gesù risponde che non si comportano da suoi figli. L’agire rivela l’essere. Abramo è il nuovo Adamo, l’uomo che torna ad essere figlio perché crede a Dio e dimora nella sua promessa. Essi, al contrario, hanno davanti il Figlio della promessa, anzi Dio stesso che ha promesso, e non lo accolgono.

v. 40: voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità, ecc. La menzogna non può uccidere la verità. Uccide però chi la dice, il quale in questo modo diventa martire e la testimonia con la vita. Il Figlio è necessariamente ucciso da chi, schiavo della menzogna, non accetta la propria verità di figlio.

questo, Abramo non fece. Abramo è presentato come modello di fede in Dio e nella sua Parola (cf. Gal 3 e Rm 4).

v. 41: voi fate le opere del padre vostro (cf. v. 38b). Non sono figli di Abramo, perché non compiono la sua opera, che è la fede: «Egli credette; e questo gli fu computato a giustizia» (cf. Gen 15,6). Infatti credere che Dio è buono è la giustizia fondamentale dell’uomo, che gli dà un rapporto corretto con sé e con tutto.

non siamo nati da prostituzione, ecc. Gli ascoltatori reagiscono dicendo che conoscono il vero Dio come Padre e non sono «figli di prostituzione»: non sono idolatri, ma hanno la fede genuina.

v. 42: se Dio fosse vostro padre, amereste me. Chi ha Dio come Padre ama il Figlio che lo fa conoscere. Altrimenti ama una sua idea di Dio, un suo idolo: è figlio di prostituzione.

io, infatti, da Dio uscii e vengo. Gesù è uscito e venuto dal Padre tra i fratelli per salvarli con la verità che fa liberi. La verità radicale dell’uomo è quella di essere figlio: ognuno è nato da un altro e il rapporto con chi gli ha dato la vita è decisivo per la sua esistenza.

non sono infatti venuto da me stesso. Gesù non è un uomo che «si è fatto da sé», come dicono i potenti: è figlio, fatto dal Padre, nel cui amore trova la propria origine e il proprio compimento.

v. 43: perché non comprendete il mio linguaggio? La resistenza dell’uomo alla parola di verità è un mistero che sconvolge il Signore stesso. «Adamo, dove sei?» (cf. Gen 3,9), perché non sei più di casa nella tua verità? È la prima domanda di Dio in cerca dell’uomo, che si è nascosto dalla luce e dalla vita. È avvenuto un incidente grave, che gli impedisce di capire la Parola da cui e per cui è fatto. C’è in lui una menzogna che lo tiene schiavo della paura, nelle tenebre di morte.

perché non potete ascoltare la mia parola. Non siamo in grado di ascoltare la parola del Figlio: nel nostro cuore è subentrata un’altra parola, che ci fa vivere contro la nostra verità.

v. 44: voi siete da quel padre (che è) il diavolo. Non sono figli del Padre della verità: loro padre è il diavolo, la cui menzogna li ha divisi dal Padre.

volete fare i desideri del padre vostro. Il loro agire è mosso dai desideri del divisore, che sono omicidi, perché fuori dalla verità. Il vero omicidio è togliere all’uomo la sua realtà di figlio: alienarlo dal Padre è renderlo estraneo a sé e a tutto.

quando dice la menzogna, ecc. Il diavolo è un ottimo comunicatore, come qualunque disonesto che voglia accalappiare l’altro (cf. Gen 3,1ss). All’origine dei mali dell’uomo c’è una menzogna che uccide la sua realtà di figlio. Il divisore infatti gli presenta un dio che nessuno vuol avere come padre: un dio contrario a ciò che è buono, bello e desiderabile, antagonista della sua libertà e invidioso della sua felicità. Con gran fede l’uomo credette, e

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crede ancora, a questa menzogna; per questa fede cieca rifiuta il Padre, diventando lui stesso simile al padre detestabile che si è raffigurato.

v. 45: io invece, che dico la verità, non mi credete. Non si crede al Figlio perché non si dimora nella Parola, ma nella menzogna.

v. 46: chi tra voi mi convince di peccato? Gesù è il Figlio, che vive pienamente la verità di Dio come Padre. Pecca chi non dimora nella verità, chi ha per padre il diavolo, menzognero e omicida.

se dico (la) verità, perché voi non credete a me? Ritorna la domanda angustiante del v. 43.

v. 47: chi è da Dio ascolta le parole di Dio, ecc. Solo chi dimora nella verità e ha Dio come Padre, ascolta la parola del Figlio che lo manifesta. Chi ha prestato fede alla menzogna, non può dare ascolto al Figlio. L’ascolto è sempre filtrato da ciò che si ha nel cuore.

v. 48: tu sei un samaritano. Gesù è chiamato «samaritano» (= eretico), perché non approva il loro culto. Infatti li accusa di aver come padre il diavolo.

hai un demonio. È un’accusa ancor più forte: Gesù è un pazzo, perché pretende di essere come Dio. Proprio lui, che li accusa di avere il diavolo come padre, ha l’orgoglio e la stoltezza folle del diavolo, il nemico di Dio, che vuol usurparne il posto.

v. 49: non ho un demonio, ecc. La sua non è follia o arroganza: onora il Padre proprio rivelandosi come il Figlio che ama i fratelli. I suoi accusatori, disonorando lui, disonorano il Padre; non conoscono Dio.

v. 50: non cerco la mia gloria. Gesù non è come loro, che cercano la gloria l’uno dall’altro e per questo ignorano la gloria di Dio (cf. 5,44).

c’è chi (la) cerca e giudica. Il Padre cerca la gloria del Figlio, che è la sua stessa. E alla fine lo glorificherà, giustificando le sue parole (cf. v. 28).

v. 51: se qualcuno osserva la mia parola, non vedrà affatto morte in eterno. Dicendo così, Gesù pretende di essere Dio: la vita eterna è data a chi osserva la parola di Dio (cf. Dt 30,15-20). Chi ascolta lui, ha vinto il peccato e la morte: anche se muore vivrà (cf. 11,25).

v. 52: adesso abbiamo conosciuto che hai un demonio, ecc. Questa sua affermazione è per loro una conferma della loro accusa. Abramo ed i profeti sono morti: chi è lui, da porsi sopra la promessa, l’alleanza e la legge?

v. 53: sei tu forse più grande del nostro padre Abramo? Gesù pretende di essere superiore al padre dei credenti, che pure morì.

chi fai di te stesso? Chi crede di essere l’uomo Gesù, se sta sopra tutti coloro che credettero alla Parola? Chi può essere, se non la stessa Parola, alla quale Abramo credette? La risposta, chiara, sarà detta subito dopo, in un crescendo di rivelazione. A questo punto Gesù voleva condurre il dibattito.

v. 54: se io glorifico me stesso, la mia gloria è nulla. Se uno glorifica se stesso, è vanaglorioso e ignora la vera gloria, quella che viene da Dio (cf. 5,44).

è il Padre mio che glorifica me, quello che voi dite che è il vostro Dio. La gloria di Gesù, il Figlio, viene dal Padre suo, che è colui che essi chiamano loro Dio.

v. 55: voi non lo avete conosciuto. Infatti vogliono uccidere il Figlio che lo rivela.io invece lo conosco. Gesù lo conosce ed è venuto a mostrarcelo, perché anche noi lo

conosciamo.se dicessi che non lo conosco, ecc. Essi mentono quando dicono di conoscerlo; lui

mentirebbe se dicesse di non conoscerlo.v. 56: Abramo, il vostro padre, esultò alla vista del mio giorno. Il riso di Abramo, negli

antichi commenti, è interpretato anche come espressione di gioia. Gesù fa una «rilettura cristiana» del suo riso per il figlio promesso (cf. Gen 17,17): Isacco è visto come figura del Messia, il discendente nel quale saranno benedetti tutti i popoli. «Il mio giorno» è quello dell’esistenza di Gesù tra noi: Abramo, per la fede nella promessa, ha creduto e «visto» questo giorno.

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v. 57: non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo? Chi può aver visto Abramo se non colui che Abramo, nella fede, vide e credette?

v. 58: prima che Abramo fosse, IO-SONO! Abramo prima non era, poi è venuto all’esistenza e infine è morto. Prima di lui, e prima di tutto, c’è «Io-Sono». «Io-Sono» è il Nome, la rivelazione del Dio fedele e liberatore (cf. Es 3,14), che conosceremo dal Figlio dell’uomo innalzato (cf. vv. 24.28). Queste parole sono il vertice della manifestazione di Gesù: è il Figlio, uguale al Padre, che ci rivela Dio come Padre suo e nostro.

v. 59: presero allora pietre, ecc. Quando il Figlio si rivela come «Io-Sono», chi non si accetta come figlio lo vuole uccidere. Infatti l’ha già ucciso in se stesso. Il Figlio però, dando la vita per amore, rivelerà che «è» Dio e «chi» è Dio.

La sua morte, stipendio ultimo del peccato, sarà anche il prezzo del riscatto: ci libererà da ogni male, che viene dalla non conoscenza di Dio. Il capitolo si apriva con il tentativo di lapidare la donna che aveva peccato (v. 5); ora si chiude con il tentativo di lapidare il Figlio che porta ai fratelli il perdono del Padre.

Gesù si nascose e uscì dal tempio. Il nuovo tempio, pieno della gloria di Dio, è il Figlio, in cui si adora il Padre in spirito e verità (cf. 4,23).

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando il tempio, dove Gesù parla.c. Chiedo ciò che voglio: dimorare nella sua Parola e osservarla.d. Medito su ogni parola, vedendo chi la dice.

Da notare:• i giudei avevano creduto a lui, ma non ancora in lui• dimorate nelle mie parole• conoscerete la verità• la verità vi libererà• siamo liberi: stirpe di Abramo• chi fa il peccato è schiavo del peccato• la differenza tra il figlio e lo schiavo: dimorare o no per sempre nella casa• se il Figlio vi libererà, sarete liberi• chi cerca di uccidere ha come padre il diavolo• Gesù è ucciso perché dice la verità• Dio è Padre di chi ama il Figlio• la parola del Figlio non trova posto in noi• abbiamo dentro un’altra parola: la menzogna omicida• chi è da Dio, ascolta le parole di Dio• sei un samaritano, hai un demonio• chi ascolta la mia Parola, non morirà in eterno• Abramo e i profeti morirono: chi crede di essere Gesù?• mio Padre è quello che voi dite essere vostro Dio, senza conoscerlo• Abramo vide il mio giorno ed esultò• prima che Abramo fosse, Io-Sono!• tentano di lapidare Gesù• Gesù si nasconde ed esce dal tempio.

4. Testi utiliSal 8; Gen 3; Gen 12,1-3; 15,1ss; Gv 3,14-21; Gal 3,6-14; Rm 4,1ss; Gal 5,1ss; Fil

3,1ss; 1 Gv 3,1ss.

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25. SONO LUCE DEL MONDO9,1-41

9,1 E, passando, vide un uomocieco dalla nascita.

2 E gli chiesero i suoi discepolidicendo:

Rabbì, chi peccò,lui o i suoi genitori,per essere nato cieco?

3 Rispose Gesù:Né lui peccòné i suoi genitori,ma affinché si manifestinole opere di Dio in lui.

4 Noi bisognache operiamo le operedi chi mi inviòmentre è giorno;viene la notte,quando nessuno può operare.

5 Finché sono nel mondo,sono luce del mondo.

6 Dette queste parole, sputò a terrae fece del fango con lo sputoe unse con il suo fango sugli occhi

7 e gli disse:Va’, lavatialla piscina di Siloe– che si traduce: inviato –.

Andò dunque e si lavòe venne che ci vedeva.

8 Allora i vicinie quelli che lo vedevano primache era mendicantedicevano:

Costui non è forse quelloche sedeva e mendicava?

9 Alcuni dicevano:È lui.

Altri dicevano:Proprio no,ma gli somiglia.

Quegli diceva:io sono!

10 Gli dicevano allora:Come mai ti si sono aperti gli occhi?

11 Quegli rispose:Quell’uomo, chiamato Gesù,

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fece del fangoe unse sui miei occhie mi disse:

Va’ a Siloee lavati!

Andato dunque e lavatomi,ci vidi.

12 E gli dissero:Dove è quello?

Dice:Non so.

13 Lo conducono dai farisei,quello (che) una volta (era) cieco.

14 Era infatti sabato il giornoin cui Gesù fece il fangoe aprì i suoi occhi.

15 Allora di nuovo lo interrogavanoanche i fariseicome ci avesse visto.

Egli rispose loro:Fango pose sui miei occhi,e mi lavaie ci vedo.

16 Dicevano allora alcuni farisei:Non è da Dio quest’uomo,perché non osserva il sabato.

Ma altri dicevano:Come può un uomo peccatorefare tali segni?

E c’era divisione tra di loro.17 Allora dicono di nuovo al cieco:

Che dici tu di lui,che aprì i tuoi occhi?

Egli disse:È un profeta.

18 Allora i giudei non credettero riguardo a luiche fosse cieco e ci avesse visto,fino a che non chiamaronoi genitori di colui che aveva cominciato a vedere.

19 E li interrogaronodicendo:

È questo il vostro figlio,che voi dite che è nato cieco?Come mai ora ci vede?

20 Risposero allora i suoi genitorie dissero:

Sappiamo che costui è nostro figlioe che è nato cieco.

21 Come mai ora ci veda, non sappiamo,né chi gli aprì gli occhi, noi non sappiamo.Interrogate lui: ha l’età, parlerà lui di sé.

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22 Queste cose dissero i suoi genitoriperché temevano i giudei;già infatti si erano accordati i giudeiche venisse espulso dalla sinagogachi lo confessasse (come) Cristo.

23 Per questo i suoi genitori dissero:Ha l’età,interrogate lui.

24 Allora chiamarono per la seconda voltal’uomo che era ciecoe gli dissero:

Da’ gloria a Dio!Noi sappiamoche quest’uomo è peccatore.

25 Quegli allora rispose:Se è peccatore,non so;una cosa sola so:essendo cieco,ora ci vedo.

26 Gli dissero allora:Che ti fece?Come aprì i tuoi occhi?

27 Rispose loro:Già ve (lo) dissie non ascoltaste.Perché di nuovo volete ascoltare?Volete forse pure voidiventare suoi discepoli?

28 Allora lo ingiuriaronoe dissero:

Tu sei discepolo di quello,noi siamo discepoli di Mosè.

29 Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio;costui invece non sappiamoda dove è.

30 Rispose l’uomoe disse loro:

In questo infatti è lo straordinario,che voi non sapete da dove è,e aprì i miei occhi!

31 Sappiamoche Dio non ascolta dei peccatori;ma se uno è timorato di Dioe fa la sua volontà,questi lo ascolta.

32 Mai si ascoltòche uno abbia apertogli occhi di un cieco nato!

33 Se questi non fosse da Dio,non avrebbe potuto far nulla.

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34 Risposero e gli dissero:Sei nato tutto nei peccati,proprio tu insegni a noi?

E lo espulsero fuori.35 Ascoltò Gesù

che egli era stato espulso fuorie, incontratolo, disse:

Tu, credi nel Figlio dell’uomo?36 Rispose quello e disse:

E chi è, [Signore,]affinché creda in lui?

37 Disse a lui Gesù:E lo vedi:colui che parla con teè lui stesso.

38 Ora egli disse:Credo, Signore!

E lo adorò.39 E disse Gesù:

Per un processoio venni in questo mondo,affinché quelli che non vedono,vedanoe quelli che vedonodiventino ciechi.

40 Ascoltarono queste cose[alcuni] dei fariseiche erano con lui,e gli dissero:

Siamo forse ciechi anche noi?41 Disse loro Gesù:

Se foste ciechi,non avreste (alcun) peccato;ma adesso (che) voi dite:

Vediamo!il vostro peccato dimora.

1. Messaggio nel contesto«Sono luce del mondo», risponde Gesù ai discepoli che gli chiedono perché l’uomo che

hanno davanti è cieco, dalla nascita. Di notte nessuno ci vede; siamo tutti ciechi. Quando però viene la luce, c’è chi chiude gli occhi e resta nelle tenebre, c’è chi li apre ed è illuminato.

Nel prologo si dice che la Parola, vita di tutto ciò che esiste, è luce degli uomini (1,4). Gesù, Parola diventata carne, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, si è rivelato nei cc. 5-8 come vita; ora, nel c. 9, si manifesta come luce.

Vita e luce sono intimamente connesse: venire alla luce significa nascere. Inoltre ogni realtà è conosciuta e utile per l’uomo quando viene alla luce della sua intelligenza. Infine l’a-more dà una luce particolare al cuore, che fa vedere con occhi nuovi. La luce è principio di tutto: fa esistere e conoscere, godere e amare. Il contrario della luce è la tenebra e la notte, la cecità e l’inganno, la tristezza e l’odio: la morte.

In questo capitolo si presenta l’itinerario battesimale: è un cammino di illumi-nazione che ci fa uomini nuovi, nati dall’alto (3,3), da quell’acqua che è lo Spirito (3,5). I battezzati

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sono chiamati «illuminati» (cf. Eb 6,4; 10,32); un antico inno battesimale dice: «Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14).

Si dice spesso che la fede è cieca, confondendola con l’irrazionalità della creduloneria, equamente diffusa tra chi crede di credere e chi crede di non credere. La fede cristiana è essenzialmente un «vedere». Non si tratta di avere visioni singolari o strane: si tratta semplicemente di aprire gli occhi sulla realtà. L’uomo infatti è cieco dalla nascita: i suoi occhi, più che finestre sull’altro, sono specchi che riflettono i suoi fantasmi, scambiati per verità. Il buio e la paura gli hanno chiuso gli occhi e gli fanno proiettare sulle palpebre i suoi timori. Solo la luce dell’amore gli permette di aprire gli occhi e vedere ciò che c’è.

Il testo inizia con un cieco che vede e termina con dei presunti vedenti che restano ciechi. In mezzo c’è il processo di illuminazione dell’ex cieco. La conoscenza che egli ha di Gesù come «quell’uomo» (v. 11), diventa sempre più chiara e profonda: è un profeta (v. 17), è da Dio (v. 33), è il Figlio dell’uomo, è il Signore che vede e adora (vv. 35-38). Dall’iniziale «non so dove sia» (cf. v. 12), giunge ad accoglierlo come quello che parla con lui (v. 37).

Le resistenze che l’ex cieco incontra – sono fuori o dentro di lui? – lo portano a scoprire la sua identità: diventa una persona libera di pensare senza pregiudizi, indipendente dalle pressioni altrui e capace di contraddire chi nega la realtà. È un uomo nuovo, che torna a rispecchiare il Volto di cui è immagine: è «io sono» (v. 9), che sta davanti a «Io-Sono»!

Nel racconto noi siamo come i vari personaggi. O ci identifichiamo con il cieco, per fare la sua stessa esperienza di luce, o siamo tra quelli che vogliono restare ciechi, perché presumono di non esserlo (v. 41).

Dopo questo segno, le cui implicazioni sono sviluppate nel c. 10, segue nel c. 11 la risurrezione di Lazzaro, espressamente collegata alla guarigione del cieco (11,37). «Vedere» infatti è rinascere a vita nuova.

La Parola, luce e vita di tutto, testimonia di se stessa semplicemente mostrando ciò che è in ciò che fa: comunica se stessa illuminando e facendo vedere ogni realtà nella sua differenza. La sua venuta provoca una crisi, con un duplice esito: c’è chi l’accoglie e chi la rifiuta. Questo è il giudizio, di vita o di morte, che l’uomo compie su se stesso. Il testo evangelico ci pone davanti agli occhi questo processo perché lo conosciamo e, liberati dall’inganno, possiamo giungere alla verità che ci fa vivere.

L’ostilità incontrata dal cieco illuminato è la medesima che ha dovuto sostenere Gesù da parte dei suoi contemporanei. È la stessa che deve sostenere la Chiesa di Giovanni da parte del suo ambiente e ogni credente da parte del mondo. Il Vangelo è eterno e racconta una storia sempre attuale: in ogni tempo c’è un cieco che viene alla luce e mostra ai presunti vedenti che sono ciechi, perché aprano gli occhi sulla loro situazione. La luce fa breccia nelle tenebre di una persona concreta: gli altri sono chiamati a fare la stessa esperienza, superando le proprie resistenze uguali a quelle che emergono nel racconto.

Le parole ricorrenti danno continuità alla narrazione e ne offrono la chiave di lettura: cieco (13 volte), aprire gli occhi (7 volte), vedere (8 volte), vedere di nuovo (4 volte), lavarsi (5 volte), fango (5 volte), generare (5 volte), genitori (6 volte), conoscere (11 volte), peccare (2 volte su un totale di 4 in Giovanni), peccatore (4 volte, solo qui in Giovanni), come (6 volte), dove (2 volte), chi e che cosa (6 volte). Inoltre, ci sono vocaboli unici oppure rari in Giovanni: nascita, sputare, sputo, fango, ungere, timorato di Dio, straordinario, mendicare, essere espulsi dalla sinagoga, adorare e confessare. Questi termini illustrano cos’è il battesimo, come avviene e cosa comporta.

Dal punto di vista formale il racconto, introdotto da un dibattito sul peccato (v. 2s) ripreso più avanti (v. 25s), è ben congegnato: al segno (vv. 1-7) segue prima l’interrogatorio del cieco da parte della folla (vv. 8-12) e da parte dei farisei (vv. 13-17), poi quello dei suoi genitori da parte dei giudei (vv. 18-23) ed infine quello del cieco da parte dei giudei (vv. 24-34). Il tutto si conclude, come all’inizio, con un incontro con Gesù (vv. 35-38) e un giudizio:

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la luce del mondo è venuta a dare la vista ai ciechi e a convincere di cecità chi crede di vedere (vv. 39-41).

C’è una «lotta continua» nell’uomo, sia per chi viene alla luce sia per chi resta nelle tenebre. Chi viene alla luce deve sostenere l’opposizione delle tenebre; chi resta nelle tenebre avverte il dilagare della luce, che non riesce ad arrestare. È una lotta interiore a ciascuno di noi: «La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste» (Gal 5,17). Infatti quando vogliamo il bene, sentiamo le resistenze del male; quando facciamo il male, sentiamo il rimorso della coscienza, perché siamo fatti per il bene. È il dramma dell’uomo, in cui si compie il faticoso passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Oggi, come allora, le «tenebre» sono da individuare in quel sistema di «omologazioni» che ci impedisce di vivere la libertà di essere noi stessi.

Gesù è luce del mondo: ci fa venire alla luce della nostra verità, che è la sua stessa di Figlio.

La Chiesa si riconosce nel cieco e nel suo lento cammino battesimale, che la illumina e la porta a vedere e seguire il pastore della vita.

2. Lettura del testov. 1: E, passando. La congiunzione «e» lega questo capitolo al precedente, dove Gesù

ha mostrato la propria identità. Siamo nello stesso luogo e nello stesso tempo: il periodo è quello attorno alla festa delle Capanne e ci troviamo ancora nelle vicinanze del tempio, dal quale Gesù sta uscendo. Infatti, dopo essersi rivelato come «Io-Sono, cercano di lapidarlo (8,58s). In questo capitolo l’ex cieco è il primo discepolo che subisce lo stesso processo del suo maestro (cf. cc. 5-8).

vide. L’iniziativa, come già con l’infermo di 5,6, è di Gesù, che non è cieco: è il Figlio che, come vede il Padre, vede anche i fratelli. Il racconto inizia con lui che vede il cieco e si conclude con l’ex cieco che vede e adora lui (v. 37s). Non è l’uomo che vede Dio, ma Dio che vede l’uomo e gli dà la capacità di vedersi nuovo, col suo stesso sguardo. Ogni religione intende o pretende di portare all’illuminazione. Ma questa non può essere che dono della luce.

un uomo. Quest’uomo, come l’infermo, rappresenta ogni uomo che, oltre a non camminare, non vede; anzi, non può camminare perché non vede e non sa dove andare. L’umanità si divide in due categorie: c’è chi non cammina e chi crede di camminare, chi è cieco e chi crede di vedere.

cieco. È uno che non vede, né sé né l’altro. È nelle tenebre, non ancora venuto alla luce, come un non nato.

Il non vedere fisico è preso come immagine per indicare la cecità spirituale, propria di chi non sa dov’è, da dove viene e dove va. Questa cecità ci impedisce di vedere la verità che ci fa liberi (cf. 8,32). È il male che, da Adamo in poi, ha colpito ogni uomo, il quale non vede più Dio come Padre, se stesso come figlio e l’altro come fratello. Per questo vive una vita puramente biologica, non ancora umana. Il non vedente è spesso un veggente, che vede l’invisibile! La cecità interiore invece è quella di chi non ha incontrato la Parola. La Parola infatti, oltre che essere vita di tutto, è anche luce per l’uomo (cf. 1,4-5), unico depositario della Parola, con la quale comprende il creato e risponde al suo Creatore.

La condizione iniziale di questo uomo è analoga a quella dell’infermo del c. 5. Il risultato però è diverso: illuminato dalla fede, sarà testimone della luce, prima pecora che il pastore della vita conduce fuori dall’oppressione, verso la libertà (cf. 10,1ss).

dalla nascita. Il termine «nascita», posto all’inizio, dà il senso di ciò che segue: l’illu-minazione del cieco è il dono di una nuova nascita. Quest’uomo, da sempre cieco, non ha mai visto la luce né può desiderarla, pur essendo fatto per essa. Fino a quando non viene il sole, nessuno ci vede. Solo quando viene, è offerta la possibilità di vedere. Ma non è cosa scontata né senza difficoltà! Infatti, davanti al sole, l’occhio abituato alle tenebre si chiude.

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v. 2: rabbì, chi peccò, ecc. Spontaneamente associamo malattia a colpa. Ai tempi di Gesù si riteneva che, anche senza colpa, Dio potesse mettere alla prova, ma solo per amore, a scopo educativo (cf. Pr 3,11s LXX). Questa prova, però, non deve in nessun caso impedire lo studio della legge, che contiene le parole di vita. La cecità quindi deriverebbe sempre da una colpa, perché toglie la possibilità di leggere. Allora, nel caso di un cieco, o ha peccato lui prima di nascere, come Esaù e Giacobbe che lottavano già nel grembo materno (Gen 25,22s), o hanno peccato i suoi genitori. Un proverbio, citato e contestato da Geremia ed Ezechiele, dice: «I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ger 31,29; Ez 18,2). Sulla bocca dei discepoli troviamo l’opinione comune.

v. 3: né lui peccò né i suoi genitori. Peccare significa «fallire il bersaglio, mancare il segno». L’uomo peccatore è un uomo mancato, fallito nella sua umanità: è come un occhio che non vede.

Gesù non solo ritiene, con Ger 31,30 ed Ez 18,1ss, che uno è responsabile delle proprie azioni e non di quelle dei suoi padri (cf. v. 41), ma nega anche ogni connessione tra malattia e colpa.

In tutte le religioni si afferma che il bene è benedizione di Dio per i buoni e il male è sua maledizione per i cattivi. È quanto si sforzano di far capire a Giobbe i suoi amici, con un autentico accanimento teologico. Il risultato di questa teoria è una grave mistificazione: i ricchi e i sani sarebbero buoni e benedetti da Dio, mentre i poveri e i sofferenti sarebbero cattivi, maledetti dal cielo.

In realtà chi ruba è ricco, il derubato è povero; chi affama mangia bene, l’affamato sta male; chi ferisce non sente dolore, il ferito soffre. Noi pensiamo che la povertà, la fame e la sofferenza siano dei mali, anzi «il» male da cui guardarci con ogni cura. Per questo rubiamo, affamiamo e feriamo impunemente. Quando comprenderemo che il male non è essere poveri ma rubare, non essere affamati ma affamare, non soffrire ma far soffrire? Questa associazione tra male e colpa giustifica i potenti che fanno il male – e più ne fanno, meglio stanno (cf. Sal 73). Per questo Dio prende sempre la difesa dei poveri e dei perseguitati. Questa sua prerogativa, che esce con evidenza nel discorso della montagna e si mostra palesemente sulla croce di Gesù, è il filo rosso di tutta la Bibbia, che narra la liberazione dei poveri e degli oppressi dalla mano dei potenti.

Noi tutti, poveri e ricchi, siamo ciechi dalla nascita, perché abbiamo i medesimi desideri. Per questo ci contrapponiamo gli uni agli altri e diventiamo, alternativamente, carnefici e vittime. In quanto potenti siamo carnefici, autori del male e nocivi agli altri; in quanto poveri siamo vittime, oggetto del male e innocenti (= incapaci di nuocere).

Il Messia viene a liberarci da questa cecità, per farci camminare per vie sconosciute e guidarci su sentieri ignoti, trasformando davanti a noi le tenebre in luce (cf. Is 42,16). Egli è il Servo di JHWH (vedi i cantici del Servo: Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), il giusto che non fa alcun male e per questo porta su di sé il peccato degli altri. In questo modo egli pone fine al tragico gioco di morte al quale giochiamo e dal quale siamo giocati.

Quindi non è peccatore il cieco che sta male (vv. 3.34), né Gesù che fa il bene (v. 16.24s), né l’ex cieco che ha ricevuto il bene (v. 34). Peccatore è chi impedisce il bene, opprimendo gli altri e credendo di essere in regola con la legge (v. 41), che lui stesso, secondo opportunità, interpreta o addirittura inventa. Questa è la cecità colpevole, dalla quale il Vangelo vuol liberarci.

affinché si manifestino le opere di Dio. Il male, di qualunque tipo, non è mai l’ultima parola; è invece il luogo dove si manifestano le opere di Dio (cf. 5,17), il cui lavoro è salvare l’umanità dell’uomo (cf. Sal 146). Non che il male sia necessario al bene: la tenebra non serve alla luce. Si vuol solo dire che il male evidenzia per contrasto il bene ed è vinto dal bene, come la tenebra è dissolta dalla luce (cf. Rm 5,20).

v. 4: noi bisogna, ecc. Gesù non è solo: c’è il «noi» dei discepoli, con i quali si identifica. Sono i suoi fratelli, generati dalla parola di verità che fa liberi (cf. 8,32), figli

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capaci di compiere, come lui, le opere del Padre a favore dei fratelli. A questo «noi» si contrappone il «noi» finale dei farisei ciechi (v. 40), che compiono le opere del padre loro, menzognero e omicida dall’inizio (8,44). Il termine «bisogna» è connesso con l’opera per eccellenza, quando il Figlio dell’uomo, innalzato, donerà la vita al mondo (cf. 3,14).

mentre è giorno. Il giorno è quello in cui è venuto Gesù, quello che Abramo vide ed esultò (8,56). Mentre vive, il Figlio compie le opere del Padre. Il tempo della sua vita terrena è il giorno che ha illuminato e illumina ogni uomo, mostrandogli la sua realtà.

viene la notte. La notte rappresenta la fine del suo giorno, quando la tenebra catturerà la luce. La notte è la condizione del mondo senza di lui, sua luce; è la condizione stessa dalla quale sarà liberato il cieco.

v. 5: finché sono nel mondo, sono luce del mondo (cf. 8,12). La vita di Gesù sulla terra, dalla sua nascita alla sua glorificazione, è luce del mondo, per tutti e per sempre.

Con queste parole Gesù si presenta come il Servo di JHWH, luce delle nazioni, che apre gli occhi ai ciechi (cf. Is 42,6s; 49,6). Fino a che è nel mondo, egli manifesta ai fratelli l’amore del Padre. Quando sarà elevato da terra, finirà il suo giorno e verrà la notte; allora non farà più nulla. Ma resteremo grandemente stupiti: allora si compirà l’opera del Signore descritta in Is 52,13-53,12. Sarà l’«ora» nella quale egli ci amerà fino alla perfezione (13,1) e noi vedremo l’agnello/servo che toglie il peccato del mondo (1,29.36), il serpente di bronzo innalzato che ci guarisce dal veleno mortale (3,14), il Figlio dell’uomo che rivela «Io-Sono» e attira tutti a sé (8,28; 12,32). Proprio la sua notte sarà per noi fonte di luce perenne.

Il miracolo che segue è il «segno» di Gesù come luce del mondo.v. 6: sputò a terra. Lo sputo, fluido ed intimo, richiama il fiume d’acqua viva dello

Spirito (7,37s), il sangue e l’acqua che scaturiranno dal suo fianco aperto (19,34), l’acqua viva promessa alla Samaritana: è lo Spirito, che ci fa nascere dall’alto (3,3). Questo Spirito, mediante la Parola fatta carne, è ormai comunicato a ogni carne.

fece del fango con lo sputo. Il gesto richiama la creazione dell’uomo, fatto dalla terra (Gen 2,7; Is 64,7). Ma è una creazione nuova quella che Gesù pone davanti agli occhi del cieco: il fango non è più impastato con acqua, ma con lo Spirito. Questo è il progetto originario di Dio, che fece Adamo con terra animata dal suo soffio: lo fece suo figlio. L’uomo è un animale singolare: è imparentato con la terra e con il cielo, partecipe delle caratteristiche del creato e insieme del Creatore. Questa condizione lo rende essenzialmente «eccentrico»: il suo corpo è terra, ma il suo cuore sta altrove. Dio stesso, l’Altro da tutto, è la sua vita; per questo si sente «estraneo» a tutto e, pur essendo nel mondo, non è del mondo.

Il fango però richiama anche la perdizione: affondare nel fango, come Geremia nella cisterna, è l’esperienza peggiore (cf. Ger 38,6). Ma chi può togliere dal fango della morte l’uomo che è fango e in essa sprofonda, se non quel fango che è impastato di Spirito e vita?

unse con il suo fango sugli occhi. La parola ungere (qui usata in un verbo composto che significa «ungere sopra, spalmare») richiama l’Unto, il Cristo. Il «suo» fango, quello di Gesù, è la sua umanità, simile alla nostra ma anche divina. Egli è insieme uomo e Dio, il Figlio che vive dello stesso Spirito del Padre. La sua carne è l’unzione messianica che restituisce a ogni carne la sua umanità piena; il «suo» fango è l’umanità di Dio, che ci salva dal fango in cui affoghiamo. Gesù pone davanti agli occhi del cieco se stesso, l’uomo nuovo (cf. Gal 3,1 !), perché apra gli occhi, lo guardi, lo lasci entrare nel cuore e diventi così sua vita.

Per quattro volte si parla di «fare il fango» (vv. 6.11.14.15), mentre «l’unzione» dei vv. 6.11 diventerà successivamente «aprire gli occhi» (v. 14) e «vedere» (v. 15).

Questo «fare il fango» per i farisei è una trasgressione del sabato (vv. 14.16), per il cieco e per Gesù invece è l’azione sabbatica, la nuova creazione.

v. 7: va’, lavati. I termini cieco, nascita, peccare, peccatore, genitore, notte, giorno, luce, sputo, fango, ungere, lavarsi, piscina, inviato, richiamano i riti di iniziazione battesimale.

Gesù non guarisce il cieco. Gli ordina, come Eliseo al lebbroso, di andare a lavarsi (cf. 2Re 5,10). Gli ha messo sopra gli occhi il suo fango, gli ha posto davanti l’uomo nuovo. Sta

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ora al cieco dire sì o no alla proposta: la sua vita dipende dalla sua libertà di ascoltare o meno la Parola. La fede è risposta libera dell’uomo al progetto liberante di Dio.

L’illuminazione è insieme azione di Dio, che rende possibile la libertà, e dell’uomo che liberamente l’accoglie.

alla piscina di Siloe – che si traduce: inviato. I proseliti pagani venivano battezzati in questa piscina, posta fuori dalle mura e legata alla memoria di Davide, padre del Messia. Ora anche chi è nel tempio deve uscire per incontrare il Signore.

Gesù si è già identificato con questa sorgente (cf. 7,37ss), dalla quale si attingeva l’acqua per la festa delle Capanne.

«Siloe» è tradotto dall’evangelista come «inviato», uno dei titoli di Gesù, il Figlio inviato dal Padre (cf. 3,17.34; 5,36.38; 8,42; 11,42; 17,8.21-25). Da lui viene (3,13.31; 6,38.42.46; 7,29; 8,42; ecc.) per dire le sue parole (3,34; 7,16; 8,26-28; 12,49s; 14,24; 17,8.14), per fare la sua volontà e compiere le sue opere (4,34; 5,17; 9,4; 10,32-37; 14,10).

Gesù ordina al cieco di lavarsi, di immergersi in lui, inviato dal Padre, che si è presentato ai suoi occhi. La fede è accogliere lui, il Figlio venuto dal Padre per donarci la nostra verità di figli.

andò dunque e si lavò. Il cieco obbedisce, è il caso di dirlo, «a occhi chiusi»! Doppiamente chiusi: dalla propria cecità e dal fango. Ma obbedisce a ragion veduta: il fango, di cui i suoi occhi sono unti, è Gesù stesso, luce del mondo, e l’acqua in cui si lava è il Figlio stesso, inviato dal Padre.

venne che ci vedeva. È inimmaginabile la sorpresa e la gioia della luce, soprattutto per chi non ha mai visto nulla. È lo stupore mattinale di Adamo, che vede per la prima volta la creazione, appena uscita dalle mani di Dio. La fede in Gesù lo ha illuminato. Vedere, forma piena del conoscere, in Giovanni è credere nel Figlio. Chi crede in Gesù, conosce la verità che lo fa libero e viene alla luce come figlio.

Il dono della vista ai ciechi è l’azione messianica per eccellenza (cf. Sal 146,8; Is 29,18ss; 35,5.10; 42,6s; 49,6.9; cf. Lc 7,22).

Il mondo non è da fare o da cambiare: è da vedere con occhi nuovi. L’uomo infatti vive ed agisce secondo la sua visione delle cose. Se ascolta la parola di Gesù, guarda il «suo» fango – il Cristo crocifisso che Paolo così bene aveva posto davanti agli occhi dei Galati (cf. Gal 3,1) – e si battezza in lui, nasce come uomo nuovo: è un «illuminato», che vede la realtà. Prima invece era come i suoi idoli, che hanno occhi e non vedono (Sal 115,4-8).

Canta il grande salmo che tesse l’elogio della Parola: «Aprimi gli occhi, perché io veda le meraviglie della tua legge» (Sal 119,18). La legge, per chi ha gli occhi chiusi come i farisei, è un feticcio mortale, un vincolo che tiene seduti nelle ombre di morte (cf. Lc 1,79); per chi apre gli occhi è segno di colui che parla e rivela il volto del Padre della vita.

v. 8: costui non è forse quello che sedeva e mendicava? Finora è avvenuta solo la guarigione fisica del cieco, nella quale però sono impliciti vari significati, che in parte abbiamo visto. Essa non è solo un’opera prodigiosa, tanto meno magica. Ha il suo principio in Gesù e nell’unzione del suo fango, fatto con la sua saliva e posto sugli occhi del cieco, e avviene per l’ascolto della Parola che ordina di andare alla piscina dell’Inviato e di lavarsi in essa. Gesù infatti è la luce del mondo: il suo fango, terra impastata con lo sputo, è la sua umanità di Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, che, posta davanti ai nostri occhi, ci illumina sulla verità dell’uomo e di Dio; la fede che salva è proprio l’ascolto della Parola che ci immerge nel Figlio, inviato dal Padre ai fratelli.

La guarigione esteriore è «segno» di quella interiore. Questa avviene attraverso il dialogo che spiega e fa accadere, sia nel cieco che in chi legge con i suoi occhi, la realtà che il segno significa: l’illuminazione viene guardando semplicemente la realtà senza pregiudizi. Nel dialogo che segue, la Parola, luce degli uomini, appena brillata agli occhi del cieco che se ne fa testimone, si confronta con le voci delle tenebre.

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Ora cominciano gli interrogatori all’ex cieco, iniziando dai «vicini e conoscenti», ai quali era ben nota la sua condizione precedente. Per chi è abituato a vederlo seduto a mendicare, la nuova situazione pone un problema: è lui o un altro? La sua condizione precedente è descritta con le parole «sedere» e «mendicare»: era immobile e dipendente dagli altri. Ora invece cammina ed è libero. Qual è la sua identità? È importante come l’altro mi vede: sono come sono visto. L’uomo è relazione; e la relazione cambia quando anche l’altro mi vede altro da come mi vedeva «prima»; altrimenti resto inchiodato al suo giudizio precedente, al suo pre-giudizio, appunto. Ogni identità vera è dinamica e vitale; diversamente è falsa e mortale.

v. 9: alcuni dicevano: è lui. Altri dicevano: proprio no, ma gli somiglia. È in gioco l’identità dell’ex cieco. Le opinioni su di lui divergono: è o non è il cieco di prima? Effettivamente è lui e non è lui: è lui, ma liberato dalla sua cecità, nella quale, sia per lui che per gli altri, consisteva la sua falsa identità.

io sono. L’ex cieco accetta come sua la nuova realtà. La cosa, per quanto sembri assurdo, è sempre difficile, perché uno tende a identificarsi con il suo male. All’infermo ai bordi della piscina di Bethzathà Gesù chiede: «Vuoi guarire?» (5,6). Infatti non è così ovvio che uno sia disposto a uscire dalla sua condizione abituale. Per quanto disagiata, gli è anche comoda: ci convive. Anzi ne vive, muovendo gli altri a compassione. Ognuno vive dell’atten-zione altrui: se non la ottiene proponendosi con il bene, la trova di sicuro imponendosi con il male. L’ex cieco ora può dire: «Io sono», usando l’espressione di Gesù per indicare se stesso (cf. 4,26; 6,20; 8,24.28.58). La luce lo ha illuminato: è lui stesso luce, perché è venuta la sua luce (cf. Is 60,1s).

L’ex cieco è finalmente venuto alla luce, nella sua verità integra di uomo autosufficiente e libero, anche se nessuno gliela vuol riconoscere. Non è più il cieco seduto e mendicante, in balia degli altri perché non sa dove andare; ora cammina e parla, in libertà.

v. 10: come mai ti si sono aperti gli occhi? Il problema di tutto il capitolo è lo stesso di Nicodemo: come è possibile nascere di nuovo (cf. 3,1s)? Il dialogo che segue è un processo contro l’ex cieco, nel quale egli diventa, progressivamente, testimone della luce. In lui ci si mostra come avviene la nostra nascita; e, mentre la vediamo, veniamo noi stessi illuminati, passando dalle tenebre a una luce sempre più piena. In noi accade come in lui: ricordando quel fango e quell’acqua dell’Inviato, recuperiamo la vista interiore e riconosciamo sempre meglio chi è il Signore. Il ricordo di ciò che è avvenuto è la via della comprensione e dell’illuminazione.

v. 11: quell’uomo, chiamato Gesù. L’ex cieco non ha verità da dimostrare: ha una novità evidente da mostrare. E lo fa ricordando e raccontando la sua esperienza. Il punto di partenza è quell’uomo, chiamato Gesù, che ha messo in moto la sua nuova identità, con il suo fango e la sua parola. Gesù significa: il Signore salva. Il cieco ne ha fatto l’esperienza, eseguendo la sua parola che gli ha ordinato di lavarsi nell’acqua dell’Inviato.

ci vidi. L’ex cieco ripete con stupore l’avvenimento nuovo, sempre sognato -cosa e come può sognare un cieco dalla nascita? – e mai sperato. Che bello essere fuori dalla tenebra e vedere la luce! Qui, come nel v. 18, in greco c’è anablépô, che significa: «guardare in alto» verso qualcuno. Al v. 7 c’è solo blépô, che significa «guardare» e al v. 37 c’è invece il perfetto di oráô, che significa «vedere».

v. 12: dove è quello? «Dove» è un termine ricorrente in Giovanni: indica la dimora, la casa, le relazioni, l’identità. La prima domanda rivolta a Gesù dai discepoli è: «Dove dimori?» (1,38). La sua risposta è: «Venite e vedrete». Ma come posso venire, se non ci vedo, e come posso vedere se non vengo da te? Ora il cieco ci vede. Gesù però, compiuta la sua opera, se ne va altrove. Attende che liberamente lo cerchi per sapere «dov’è». Solo così conosce «chi è» e può dimorare con lui e aderire a lui (vv. 36-38). Il dialogo con gli altri, favorevoli o contrari, mette l’ex cieco sulla strada per cercare e trovare la luce.

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non so. L’ex cieco non sa ancora dove dimori Gesù. Lo saprà grazie ai suoi avversari. Nel processo che gli faranno, guardando e riguardando sempre di nuovo ciò che gli è accaduto, crescerà la sua conoscenza di lui. Anche la sua testimonianza, come quella del Battista, parte dalla dichiarazione di non sapere chi è Gesù (1,33). Ogni sapere nuovo suppone un non sapere; chi crede di sapere, non impara. L’ovvio è la tomba di ogni conoscenza e progresso.

v. 13: lo conducono dai farisei. Inizia una seconda tappa, la più feconda, del cammino di illuminazione. La gente conduce l’ex cieco dai farisei. Questi, conoscitori e osservanti delle tradizioni, dopo la distruzione del tempio nel 70 d.C., scomparso il culto e finita la nazione giudaica, rimasero gli unici capi accreditati, in grado di garantire l’identità del popolo. Fariseo significa «separato»: conduce una vita diversa, staccata dal mondo, che gli permette di vivere le proprie convinzioni religiose.

Non tutti i farisei furono ostili a Gesù e alla comunità cristiana. Nicodemo (3,1ss; 7,50-52; 19,39ss) è il prototipo dei farisei e dei capi che credettero in lui (cf. 12,42s). Tuttavia, da 7,32, i farisei diventano i suoi nemici dichiarati. Qui intentano contro l’ex cieco un processo, nel quale si compirà anche il suo cammino di illuminazione. Il processo della fede è lo stesso dell’incredulità; solo che l’una resta nelle tenebre dei propri pregiudizi, l’altra giunge a godere la luce della verità. Il processo ha tappe successive, che immergeranno sempre più i protagonisti nelle tenebre o nella luce.

I farisei partono da un pregiudizio, per loro indubitabile. Gesù, facendo del fango in giorno di sabato, ha trasgredito la legge divina (cf 5,10-17): è un peccatore. Chi non è disposto a cambiare il proprio concetto di sabato e di legge, non può pensare diversamente, anche se non tutti sono d’accordo (vv. 13-16). A corto di argomenti, cercheranno di negare il fatto della guarigione (vv. 18-23); non potendolo negare, si imporranno poi con il peso dell’autorità, sempre invocata dove manca autorevolezza (vv. 24-27), e alla fine lo espelleranno dalla comunità (vv. 28-34). La storia è sempre uguale. Nulla di nuovo sotto il sole, a tutte le latitudini e in tutte le istituzioni; soprattutto per chi resta chiuso nell’armadio delle proprie convinzioni. Ma l’opposizione e le difficoltà sono per l’ex cieco come le «doglie del parto»: lo espellono definitivamente dalle tenebre alla luce. Così egli nasce come discepolo, pronto all’incontro e capace di riconoscere in quell’uomo, che l’ha guarito, il Signore stesso (vv. 35-38). I farisei invece restano nelle tenebre e saranno dichiarati ciechi e peccatori, perché rifiutano l’evidenza della luce (vv. 39-41).

v. 14: era infatti sabato. La guarigione del cieco, come quella dell’infermo del c. 5, è operata in giorno di sabato. Là Gesù aveva ordinato una trasgressione, dicendo di portare la barella (5,8); qui compie lui stesso una trasgressione, facendo del fango. Ma ciò che per i farisei è trasgressione, per Gesù è compimento del sabato (cf. 5,18).

Gesù fece il fango e aprì i suoi occhi. Ai farisei interessa che lui abbia fatto del fango in giorno di sabato. Trascurano il fatto che proprio così abbia aperto gli occhi al cieco. Il fariseo rappresenta la persona religiosa, ligia alla legge, ma senza interesse per l’uomo: ignora che Dio è amore. La sua legge è libertà e vita, l’unico suo divieto è contro la schiavitù e la morte. L’immagine che il fariseo qui descritto ha di Dio e della sua legge è la stessa che satana suggerì al primo uomo (cf. Gen 3,1s). La sola differenza è che qui la menzogna è travestita di pietà e devozione, invece che di autonomia e ribellione. Ma il presupposto è uguale: si pensa che Dio sia contrario all’uomo e alla sua realizzazione, addirittura antagonista della sua integrità fisica.

Quando le persone devote, delle varie religioni, sapranno che ciò che è contro l’uomo è contro Dio? Anche Paolo fece fatica a capirlo: dovette scoprirsi cieco (At 9,1-9), lui che, irreprensibile nell’osservanza della legge, per zelo uccideva quelli che poi vide essere suoi fratelli (Fil 3,6).

Gesù, facendo il «suo» fango proprio di sabato, ci apre gli occhi sul sabato e su Dio: il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato (cf. Mc 2,27p), la legge è per l’uomo e non

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l’uomo per la legge, perché Dio stesso è tutto per l’uomo. L’illuminazione battesimale è scoprire, in quel fango che è Gesù, la verità che noi siamo figli e Dio ci è Padre.

v. 15: lo interrogavano anche i farisei, ecc. Dopo i vicini e conoscenti, che lo hanno condotto dai farisei, ora sono questi a continuare il processo. Per la gente semplice il problema era solo l’identità del cieco e come avesse ottenuto la vista. Per i farisei, invece, il problema è un altro: che Gesù abbia trasgredito il sabato. L’ex cieco racconta di nuovo la sua storia del «fango» posto sui suoi occhi, ricordando per la terza volta ciò che Gesù ha fatto per lui. L’opposizione dei farisei rinnova la memoria di ciò che è avvenuto. Ogni interrogatorio è per lui occasione di ulteriore ri-cordo e nuova comprensione, che lo coinvolge sempre di più con chi l’ha guarito. La sua, da testimonianza sulla propria guarigione, diventa testimonianza sulla luce che lo ha illuminato. Il suo vedere sarà segno del suo incontrare, conoscere e adorare il Signore Gesù, luce della sua vita.

v. 16: non è da Dio quest’uomo, perché non osserva il sabato. Secondo Dt 13,1-6 si deve condannare chi fa prodigi per screditare la legge. Per i farisei Gesù ha guarito il cieco disprezzando il sabato. Per loro è chiaro che Dio, ma soprattutto la sua legge, stanno al di sopra di ogni cosa. Non capiscono però che Dio è a servizio dell’uomo e ha dato la sua legge solo dopo aver liberato il popolo, per mantenerlo nella libertà (Es 20,1s; Dt 6,1-3). Anche per Adamo, l’unico divieto fu quello di non mangiare quel frutto che l’avrebbe fatto morire (Gen 2,16s). Al centro del giardino sta l’albero della vita (Gen 2,9); fu il nemico a porre al centro quello della morte (cf. Gen 3,3). Il Signore ci ha dato il comando di amarlo per essere simili a lui, che per primo ci ha amati e liberati (cf. Dt 6,4ss).

In questo processo, che porta all’illuminazione battesimale, è in gioco proprio l’imma-gine di Dio e di uomo: il punto di arrivo è vedere, con occhi nuovi, lui come Padre e noi come figli, grazie al «fango» di Gesù.

ma altri dicevano, ecc. Per altri Gesù non è un trasgressore della legge: ciò che ha fatto al cieco e ad altri – si parla di «segni» al plurale – segnala l’intervento di quel Dio liberatore che pure i farisei conoscono dalla storia di Israele.

c’era divisione tra di loro. Divisione in greco è «schísma», da cui la nostra parola «scisma». Sarà ciò che avvenne tra la Chiesa primitiva e il giudaismo. I primi cristiani, e ancora la comunità di Giovanni, si ritengono a pieno titolo giudei, come Natanaele, chiamato da Gesù vero israelita (1,47). Lo scisma non riguarda tanto la concezione di Dio, che pure i farisei riconoscono dalla storia d’Israele come il liberatore, bensì la domanda se la liberazione sia circoscritta al passato oppure si allarghi anche all’oggi: Dio ha operato una sola volta, oppure opera ancora a favore dell’uomo?

Questo è lo scisma più profondo, che sempre c’è anche all’interno della Chiesa. Pur professando la stessa fede, può essere radicalmente diverso il modo di intenderla e di viverla. Si può avere una dottrina corretta – a prova di qualunque Santo Uffizio di qualunque epoca o tradizione religiosa! –, che però imbalsama Dio relegando lui e la sua azione nel passato, senza riconoscere che la sua gloria è l’uomo vivente. Si può essere devotissimi e conoscere la tradizione sacra, con precisione di termini e zelo di osservanze, ed essere, nel contempo, empi uccisori dell’uomo in nome di Dio, nemici di Dio stesso. Basta pensare ai roghi passati, presenti (e futuri!), e alle guerre «sante» o «giuste», nelle quali la diversità è principalmente di vocaboli. Si nega infatti a Dio di esistere oggi com’è ed è sempre stato, nel suo amore e nella sua grazia, al di là della nostra idea su di lui. È questo il peccato, la tenebra e la cecità dalla quale il battesimo nello Spirito ci vuol guarire, per farci incontrare «oggi» il Signore. La fede che salva non è credere correttamente in Dio (cf. Gc 2,19), ma affidarsi a lui, qui e ora, facendo ciò che dice. In questo senso tradizionalismo e dogmatismo sono contro la «traditio fidei», contro il «sentire» di Dio proprio della fede cristiana. Esso è necessariamente un «sentire cattolico», universale, capace di percepire e rispettare ogni «differenza» come segno della prima «differenza», che sta all’origine di ogni esistenza.

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v. 17: che dici tu di lui, che aprì i tuoi occhi? L’ex cieco è chiamato a testimoniare di Gesù in prima persona. L’unico abilitato a parlare del Signore è chi ne ha fatto l’esperienza. Altrimenti è come un non vedente che parla di colori.

L’ex cieco è invitato a riflettere non più sulla guarigione, ma su chi l’ha guarito. Proprio gli avversari lo inducono a leggere il segno. Le tenebre non accolgono la luce, eppure non riescono a soffocarla; anzi, la evidenziano.

è un profeta. Per lui «quell’uomo chiamato Gesù» non è un peccatore, ma uno che parla ed agisce in nome di Dio. Il processo che subisce gli rivela Gesù come «profeta» (cf. 4,19). È il primo livello di fede, che gli fa riconoscere «chi» è quell’uomo che l’ha guarito: non è un trasgressore del sabato, ma un profeta, colui che coglie il vero significato della Parola, perché ha l’occhio per vedere Colui che parla.

v. 18: non credettero riguardo a lui che fosse cieco. Non sapendo che spiegazione dare, le autorità cercano di negare il fatto. In genere neghiamo esistenza a quanto non vogliamo o possiamo comprendere. Per lo più lo facciamo inavvertitamente. In questo modo eliminiamo tutto ciò che non entra nei nostri schemi. Siamo arrivati anche a eliminare persone e interi popoli. Oggi neghiamo perfino il diritto di esistere a ciò che non è a norma, omologato o omologabile.

Invece di mettere in crisi i principi che governano le proprie spiegazioni, è più comodo rimuovere ciò che non si può spiegare. Ci vuole libertà e coraggio per dubitare di ciò che si crede certo, per aprirsi alla faticosa ricerca della verità. Bisogna rinunciare a falsi prestigi, scendere dal trono della presunzione, togliersi i paludamenti di ovvia sapienza e scoprirsi ignoranti sulle cose principali. È, questa, la «dotta ignoranza», madre del sapere. Il sapere, non solo nella scienza, ma anche nella politica e nella religione, contesta sempre la posizione di chi detiene il potere. Ed è frutto di umiltà, la quale «è assai più di un sentimento: è la realtà vista con un minimo di buon senso».

chiamarono i genitori. Genitore è chi genera, fa nascere. È un termine ricorrente in questo testo battesimale. Vedere è venire alla luce e vedere il volto di chi ci ha generato. Chi ci fa venire alla luce e ci genera figli? La legge, che ci vuole schiavi, o l’opera del Figlio dell’uomo, che ci rende liberi?

v. 19: li interrogarono dicendo: è questo il vostro figlio, ecc. ? Per i genitori è una minaccia se costui, che ora ci vede, è loro figlio. Paradossalmente per loro la disgrazia non è che sia nato cieco, ma che ora ci veda. Secondo le autorità essi dovrebbero negare che sia loro figlio o che sia stato cieco.

v. 20: sappiamo che costui è nostro figlio e che è nato cieco. I genitori confermano l’identità del figlio e la sua cecità. Ma essi sono in regola: l’hanno generato cieco e non è colpa loro se ci vede.

v. 21: come mai ora ci veda, noi non sappiamo, né chi gli aprì gli occhi. Invece di gioire, hanno paura della sua guarigione (cf. v. 22). Non vogliono sapere come e chi gli abbia aperto gli occhi. Ignorano come sia venuto alla luce e non vogliono avere a che fare con chi gli ha dato la luce.

interrogate lui. I genitori non vogliono né possono testimoniare: sono ciechi, con gli occhi chiusi per paura dei capi.

ha l’età, parlerà lui di sé. L’ex cieco ha l’età, è adulto; e parla da sé, è responsabile. Infatti ci vede: è venuto finalmente alla luce della verità. Per questo, a differenza di chi l’ha generato nelle tenebre, è libero e non sottostà alla paura dei capi.

v. 22: queste cose dissero i suoi genitori perché temevano i giudei. La paura nei confronti dei capi rende i genitori schiavi del loro modo di pensare. Arrivano a dissociarsi dal figlio che ci vede e da colui che gli ha dato di vedere.

si erano accordati i giudei che venisse espulso dalla sinagoga chi lo confessasse (come) Cristo. Ciò che è capitato al cieco, è letto come anticipo di ciò che capitò alla Chiesa di Giovanni: i giudeo-cristiani furono espulsi come eretici dai giudei nel concilio di Jamnia (90

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d.C). Fino ad allora erano vissuti insieme, come fratelli: i cristiani erano semplicemente quei giudei che avevano riconosciuto in Gesù il Cristo promesso. La Chiesa di Giovanni è ancora sotto choc per essere stata esclusa dalla sinagoga a causa della sua fede nel Messia (cf. 16,1ss). Questa espulsione sarà letta positivamente al c. 10 come azione del «pastore bello», che porta le sue pecore fuori dagli ovili dove sono rinchiuse e sfruttate, per accedere in libertà ai pascoli della vita.

v. 23: per questo i suoi genitori dissero, ecc. Si ribadisce il motivo della paura che induce i genitori a rifiutare la complicità con il figlio. Si scomunica chi ci vede ed è libero. Vedere ed essere liberi è un crimine tra persone chiuse nei loro pregiudizi o schiave della paura. Le prime sono accecate dall’interesse, le seconde dal timore. Il potere acceca chi lo esercita e chi lo subisce. Ma, se uno comincia a vederci, il buio si incrina e la tenebra si dissolve, come la notte quando nel cielo, ad oriente, appare la luce dell’alba.

v. 24: chiamarono per la seconda volta l’uomo che era cieco. Il pregiudizio sulla legge ha impedito di leggere la guarigione del cieco nell’unico modo plausibile: come segno messianico. Non potendo più negare il fatto, si rinuncia a capirlo e si cerca di imporne una lettura distorta, diffondendo una versione secondo la «verità ufficiale», funzionale al potere costituito. Si vuole discreditare Gesù, per dissociare da lui il neocredente e scoraggiare altri a credere in lui.

da’ gloria a Dio. L’azione dei capi è subdola: piegarsi al loro dominio è, ovviamente, dare gloria a Dio. L’ex cieco invece darà gloria a Dio liberandosi da loro e dicendo la verità. In situazioni di falsità il dissenso, per quanto faticoso, è sempre meglio del comodo consenso. Ciò che non corrisponde alla realtà, non c’è e non può dar gloria a Dio. La menzogna è sempre contro di lui.

noi sappiamo che quest’uomo è peccatore. I capi fanno valere il peso della loro autorità: hanno il monopolio incontestabile della verità. Al di là di ciò che è accaduto, «quest’uomo», mai nominato, deve apparire come peccatore, altrimenti crolla il loro potere di guide indiscusse del popolo.

L’opposizione dei capi sortisce l’effetto opposto e farà vedere meglio l’ex cieco: capirà che la gloria di Dio è l’uomo vivente. Al «noi sappiamo» dei capi, oppone l’«io so» di un uomo che ci vede e non vuol rinunciare a dire ciò che sa. I capi vogliono ridurlo al silenzio. Il potere deve far tacere, con ogni mezzo, le voci discordanti. La verità è sempre altra rispetto a quella ufficiale. I nemici della luce accusano come peccatore colui che è la luce del mondo. Per difendere il proprio potere, o per paura di chi ha il potere, si dichiara peccato il vedere e, soprattutto, il far vedere: è meglio essere ciechi che vedenti, amare le tenebre più della luce! Questo è il processo all’incredulità, che si è avviato con la guarigione del cieco.

v. 25: se è peccatore, non so. L’ex cieco mette in dubbio la loro autorità e il loro sapere, perché è contro il dato di fatto, che lui conosce bene: si tratta di ciò che è capitato a lui. Per lui non è evidente che Gesù sia peccatore; anzi, gli è sempre più chiaro il contrario.

una cosa sola so. L’ex cieco parte da una constatazione: non ci vedeva ed ora ci vede. Ma ha pure un principio acquisito con l’esperienza: è meglio vedere che non vedere. A lui va bene la sua nuova identità di uomo libero e integro, venuto alla luce. Partendo da un fatto concreto e da un principio evidente, quest’uomo semplice mette in crisi l’autorità dei capi e la loro impalcatura ideologica, giungendo a una nuova immagine di Dio e di uomo. L’impor-tante è partire dalla realtà, non dalle verità indubitabili, che tali sono perché assai sospette e dubbie. Ciò che è indiscutibile, è sempre da discutere, per vedere che fondamento ha. Se è vero, guadagna in credibilità; se è falso, si smaschera. In genere invece, sia nelle religioni che nei partiti, almeno da parte di chi è ottuso (ma chi non ottunde il potere?), si nega ciò che non corrisponde alle proprie idee. Ciò avviene anche nelle discussioni tra le persone: si tengono fermi i propri principi; se poi i fatti non corrispondono, peggio... per i fatti! È una visione sclerotica della verità: la si scambia con le proprie certezze, che coincidono con i propri privilegi acquisiti, ma non sempre puliti.

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Ogni discussione onesta su religioni e dottrine, su partiti e idee, deve innanzitutto smontare i pregiudizi e guardare la realtà, discernendo tra ciò che fa crescere l’uomo verso una maggior libertà e ciò che lo opprime.

v. 26: che ti fece? Come aprì i tuoi occhi? C’è un nuovo interrogatorio, ossessivo, con le stesse domande. Sotto c’è la coscienza, non confessata, che aprire gli occhi è un’azione messianica (cf Is 42,7). Ciò che è taciuto e lasciato in ombra, ha l’effetto di una sottolineatura, che rende sempre più evidente la verità: Gesù è proprio quel Messia che essi vogliono negare!

v. 27: già ve (lo) dissi e non ascoltaste. Sono parole che alludono a Is 42,18, dove Dio si lamenta con il suo popolo, ostinatamente cieco e infelice perché non cammina secondo le sue vie: «Sordi, ascoltate; ciechi, alzate gli occhi e guardate».

volete forse pure voi diventare suoi discepoli? La battuta dell’ex cieco sa di ironia mordace. Nel frattempo lui stesso sta giungendo alla piena luce: sa che il miracolo è diventare «suoi» discepoli, discepoli della Parola fatta carne e fango. Il processo contro di lui diventa per lui un cammino di testimonianza e di fede. Chi non nega e testimonia ciò che conosce, alla fine riconosce la verità in modo più pieno.

v. 28: lo ingiuriarono. Se l’ironia è l’argomentare proprio del debole, l’insulto è proprio del potente a corto di argomenti.

tu sei discepolo di quello, ecc. Evitando di dirne il nome, gli danno la patente di suo discepolo. Loro, invece, si professano discepoli di Mosè, senza sapere che Mosè parla del Cristo (cf. 5,46s). Questi infatti realizza la volontà di Dio espressa nella legge: dare la vita. Ancora oggi il criterio per capire la verità o meno di una religione è chiedersi che Dio adora e che legge professa: un Dio e una legge che è per la libertà o l’oppressione, per la verità o per la menzogna, per la vita o per la morte, per la luce o per la tenebra?

v. 29: a Mosè ha parlato Dio. È vero! Ma Dio non è morto e sepolto nel passato: vive nella storia di liberazione dell’uomo. La sua parola non è un reperto archeologico: dietro c’è lui che parla e agisce, ora come allora.

costui non sappiamo da dove è. Questa è la questione: da dove è e da chi è inviato? Se non si sa la risposta, non si deve eliminare la domanda e chi la pone. Così fa chi si chiude in ciò che sa e non si apre alla novità.

v. 30: in questo è lo straordinario. Ciò che meraviglia l’ex cieco è che i competenti, invece di capire, sono ciechi sulla cosa fondamentale: non sanno neppure chi è colui che dà la luce. E resteranno sempre più ciechi fino a quando, grazie al «fango» del Figlio dell’uomo, non cambieranno la loro idea di Dio.

v. 31: sappiamo che Dio non ascolta dei peccatori, ecc. L’ex cieco, illuminato, si fa teologo e si pone al loro livello. Al «noi sappiamo» della classe dotta (v. 24), contrappone il «sappiamo» del buon senso popolare: se Dio ascolta i giusti, l’opera di Gesù lo rivela da Dio, perché è giusta. Il punto di partenza dell’ex cieco è un fatto concreto e il suo significato più evidente: è meglio vederci che essere ciechi! È un buon inizio di metodo teologico. Non vale però per chi ha interesse che lui non ci veda.

v. 32s: mai si ascoltò che, ecc. L’ex cieco sottolinea la novità assoluta di ciò che a lui è capitato. L’insistenza sull’espressione «aprire gli occhi ai ciechi» è il motivo dominante del testo e indica l’azione messianica per eccellenza: far nascere a vita nuova. Questo non può essere che opera di Dio. È anzi la «sua» opera, con cui fa nuove tutte le cose.

v. 34: sei nato tutto nei peccati. Chi è ancora cieco accusa l’ex cieco di essere totalmente nei peccati, proprio ora che in lui si sono manifestate le opere di Dio (cf. v. 3).

proprio tu insegni a noi. I capi vogliono restare gli unici detentori del sapere che fonda il potere, riducendo a ciechi e peccatori gli altri. Proiettano su di loro la propria realtà (cf. v. 41).

e lo espulsero fuori. Chi è libero dalla paura e dalla schiavitù, chi ha aperto gli occhi sulla verità che fa liberi, è espulso fuori da chi è ancora nelle tenebre. Le opposizioni l’hanno fatto crescere e, alla fine, staccato dalle tenebre: è nato alla luce della libertà. C’è un regista

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invisibile che, lasciando fare agli attori ciò che vogliono, si prende la libertà di tessere una storia bella anche dagli avvenimenti più impensati, anzi incresciosi (cf. Gen 50,20; At 4,27s; Rm 8,28). La commedia umana è ormai sempre anche una commedia divina. Ora l’ex cieco, espulso fuori dalla tenebra di chi lo vuole cieco alla luce di chi gli ha ridato la vista, può incontrare il Volto.

v. 35: ascoltò Gesù che egli era stato espulso fuori. Gesù ha ascoltato ciò che gli è accaduto: per causa sua è stato insultato e bandito dalla comunità, reso partecipe della sua stessa sorte (cf. 16,1-3). Ora, diventato come lui, avrà la beatitudine di vederlo.

incontrandolo. La chiamata dei primi discepoli è una serie di incontri (cf. l,41b.43.45). Ora anche l’ex cieco, come l’ex infermo (5,14), incontra Gesù, perché cercato e trovato direttamente da lui. Noi lo possiamo trovare e incontrare perché lui per primo ci viene incontro per cercarci.

tu, credi nel Figlio dell’uomo? All’ex infermo Gesù dice di non peccare più, perché non gli capiti di peggio (5,14). Là Gesù era presentato come colui che toglie il peccato; ora invece è colui che completa la creazione, facendo nascere dall’alto. L’ex cieco, infatti, ha già rotto con il male: è stato espulso! A lui Gesù propone la piena luce: la fede in lui, il Figlio, vita e luce del mondo.

Quella di Gesù è una domanda retorica, che suppone una risposta positiva. Ma è anche una domanda misteriosa. Il titolo «Figlio dell’uomo» è un’allusione al Figlio dell’uomo di Dn 7,13s, che viene per giudicare il mondo (cf. v. 39, dove si parla di giudizio). Ma in Giovanni, su dieci volte in cui esce questa espressione, solo in 5,27 si parla di giudizio; altre otto riguardano vari aspetti dell’opera di salvezza che il Figlio dell’uomo compie: l’apertura del cielo sulla terra (1,51), la sua discesa e ascesa al cielo (3,13; 6,62), l’innalzamento sulla croce (3,14; 12,34), la sua glorificazione (13,31) e il dono del pane (6,27.53). Qui è l’unica volta in cui l’espressione «Figlio dell’uomo» è usata in modo assoluto, senza nessuna azione che la specifichi: indica tutto il mistero del «suo» fango, quello che Gesù ha posto sugli occhi del cieco e che ora l’ex cieco vede davanti a sé.

All’ex cieco, dopo l’esperienza che ha fatto, Gesù domanda di credere al Figlio dell’uo-mo.

v. 36: chi è, [Signore,] affinché creda in lui? La domanda può significare «qual è» oppure «chi è» il Figlio dell’uomo. «Quale» sia, l’ha appreso dalla sua esperienza; «chi» sia, è ora in grado di vederlo, perché gli ha dato la vista.

La domanda di Gesù serve ad esplicitare il suo desiderio di conoscerlo e credere in lui. Il miracolo della vista è segno della fede, che è vedere lui, il volto del Figlio dell’uomo, vero volto di ogni figlio d’uomo.

v. 37: e lo vedi. In questo racconto «vedere» si dice per otto volte blépô o anablépô; qui, invece, si dice oráô, con un perfetto che ha valore di presente. Gesù si manifesta normalmente dicendo: «Io-Sono». Ora invece dice: «Tu lo vedi!». La rivelazione si compie solo quando lui si manifesta e uno lo vede, quando lui parla e uno lo ascolta. Il punto di arrivo della rivelazione di Dio è che uno finalmente lo veda, lo ascolti e lo accolga.

colui che parla con te, è lui stesso (ci. 4,26!). Il vedere è sempre connesso al parlare: visione e parola sono inscindibili. Il principio del vedere è la parola: il cieco, ascoltando l’ordine di Gesù, ha aperto gli occhi e, testimoniandolo davanti a chi lo interroga, l’ha riconosciuto come l’inviato da Dio. Ora, nel dialogo con lui che lo incontra e lo invita alla fede in lui, il cieco lo vede. Il Figlio dell’uomo si definisce come «colui-che-parla-con-te». E tu lo vedi, perché ti ha aperto gli occhi. Sta parlando anche con il lettore, che lo «vede» attraverso il racconto del processo al cieco.

La fede nella Parola diventa visione. Eppure colui che si vede resta sempre anche Parola: è «colui che parla con te». È la Parola che fa vedere la verità; essa, come è principio, così è fine della rivelazione.

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v. 38: credo, Signore. Gesù gli chiede se crede nel Figlio dell’uomo; l’ex cieco risponde: «Credo, Signore». È questo il momento in cui il cieco è pienamente illuminato: vede il Signore che parla con lui e aderisce a lui. Colui che gli ha donato la vista, è il Signore della vita: quell’uomo, chiamato Gesù, che gli ha aperto gli occhi, è il Signore che gli ha aperto il cuore ad accoglierlo. La vista è stata per il cieco il segno, la fede il significato: vedere il Signore che parla con lui. In ciò che quell’uomo ha fatto per lui, l’ex cieco vede l’invisibile: il racconto di sé che il Padre gli fa attraverso il Figlio.

lo adorò. Il Figlio dell’uomo è il nuovo tempio, la dimora di Dio tra di noi. Credendo in lui e aderendo a lui, il Figlio, adoriamo il Padre in Spirito e verità (cf. 4,20-24). La fede è vedere Dio nel Figlio dell’uomo, che cambia la nostra visione di Dio e di uomo.

v. 39: per un processo io venni in questo mondo. Per l’unica volta qui Giovanni usa la parola kríma col significato di «processo», nelle sue varie fasi. Altrove significa giudizio o condanna, come risultato di un processo.

Il Figlio non è venuto per condannare, ma per salvare il mondo (3,17). E lo salva mediante questo processo che abbiamo visto nel cieco: egli viene alla luce, primogenito di numerosi fratelli. La venuta di Gesù, luce del mondo (8,12), compie in noi un processo che è l’opera di Dio: un uomo è illuminato e mostra la cecità di chi vuol restare nelle tenebre. Per il cieco è stato un «cammino» di visione sempre più chiara, per gli altri un accecamento sempre maggiore, in modo che riconoscano la loro cecità e possano essere guariti.

affinché quelli che non vedono, vedano. È la grande opera di Dio: far passare dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita (cf. Is 42,5-7).

e quelli che vedono diventino ciechi (cf. Is 6,9-10). Quando viene la luce, chi apre gli occhi per accoglierla è illuminato; chi la rifiuta rimane nelle tenebre. L’arrivo della luce svela la cecità dello spirito, che la rifiuta.

L’evangelista, con il suo racconto, pone anche davanti ai nostri occhi il «fango» di colui che è la luce del mondo: ci presenta la carne della Parola. Se, come il cieco, l’ascoltiamo, veniamo illuminati.

v. 40: ascoltarono queste cose [alcuni] dei farisei che erano con lui. Anche noi, che siamo stati con lui nel racconto, ascoltiamo queste parole di Gesù; gli facciamo la stessa domanda e riceviamo la medesima risposta.

siamo forse ciechi anche noi? È la domanda che facciamo anche noi che leggiamo il Vangelo: che immagine abbiamo di Dio e dell’uomo, della sua parola e del nostro rapporto con lui? Qui ovviamente si parla di cecità spirituale. Se ci riconosciamo ciechi, siamo già sulla via della guarigione.

I farisei presumono di essere illuminati e non vogliono cambiare la loro immagine di Dio e di uomo; per questo restano schiavi delle tenebre e rifiutano di nascere nello Spirito.

v. 41: se foste ciechi, non avreste (alcun) peccato. Né il cieco né i suoi genitori hanno peccato. Siamo tutti ciechi dalla nascita: non conosciamo Dio. Ma il nostro occhio è fatto per la luce e, quando essa viene, rivela in noi l’opera di Dio, che apre gli occhi ai ciechi (vv. 1-5). Quest’opera di Dio è il «fango» che Gesù ci pone davanti agli occhi: il suo modello di uomo, il Figlio. Siamo esortati a immergerci in lui, l’inviato dal Padre, per ascoltare la sua parola. Chi l’ascolta, viene alla luce (vv. 6-7): ha la sua vera identità di uomo libero, con una nuova immagine di sé e degli altri, di Dio e della sua legge (vv. 8-12). Questa vista giunge alla luce piena attraverso l’opposizione dei farisei, che rappresentano «l’altro» modo di vedere Dio e l’uomo (vv. 13-34). Una volta espulsi dalle tenebre, c’è il faccia a faccia con il Figlio dell’uomo e l’adesione a lui (vv. 35-41).

voi dite: vediamo. I farisei ritengono che il loro modo di vedere sia quello giusto. Hanno assolutizzato la legge, che pure viene da Dio, sacrificando ad essa e Dio e uomo: con dei buoni mattoni, si sono costruiti una prigione invece di una casa.

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il vostro peccato dimora. Invece di dimorare nel Signore, e lui in loro, dimorano nella falsa visione di Dio e dell’uomo. Riconoscere questo peccato è opera costante dello Spirito di verità, perché possiamo accogliere la luce (cf. 16,7-8).

La fine di questo capitolo ci riporta all’inizio. Attraverso il racconto del cieco, nato tale senza colpa, il Signore ci vuol guarire da quella colpa che acceca il nostro spirito.

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginandomi al tempio, il giorno di sabato.c. Chiedo ciò che voglio: riconoscermi cieco e accogliere la luce.d. Traendone frutto, contemplo i personaggi: chi sono, che fanno, che dicono.

Da notare:• cieco dalla nascita• chi peccò?• nel cieco si rivela l’opera di Dio• io sono la luce del mondo• sputò per terra, fece del fango, unse col suo fango gli occhi• va’, lavati alla piscina di Siloe• andò, si lavò, venne che ci vedeva• è lui / non è lui?• io sono!• come è avvenuta la guarigione• i farisei e la loro preoccupazione per l’osservanza del sabato• la «visione» che l’ex cieco e i farisei hanno di Dio e dell’uomo, del sabato e• della legge• come reagiscono i suoi genitori• le pressioni dei farisei sull’ex cieco per staccarlo da Gesù• la libertà dell’ex cieco nell’ammettere la realtà e nel leggerla• la sua espulsione dalla tenebra• il suo incontro con Gesù e la sua venuta alla luce credi nel Figlio dell’uomo?• lo vedi: colui che parla con te è lui stesso credo, Signore• il processo che la luce compie: fa vedere i ciechi e mostra la cecità di chi presume di

vederci.

4. Testi utiliSal 14; Rm 3,21-26; Gv 5,1ss; Mc 8,22-26; 10,46-52; 1Gv 1,5-2,2.

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26. IO-SONO LA PORTA, IO-SONO IL PASTORE10,1-21

10,1 Amen, amen vi dico:chi non entra per la portanel recinto delle pecore,ma sale da un’altra parte,costui è ladro e brigante.

2 Chi invece entra per la portaè pastore delle pecore.

3 A lui il portiere apree le pecore ascoltano la sua vocee chiama le proprie pecore per nomee le conduce fuori.

4 Quando ha espulsotutte le proprie (pecore),cammina davanti a loro;e le pecore lo seguono,perché riconoscono la sua voce.

5 Un estraneo invece non seguiranno,ma fuggiranno da lui,perché non riconoscono la voce degli estranei.

6 Questa similitudine disse loro Gesù;ma quelli non capironocosa fosse ciò che diceva loro.

7 Allora disse di nuovo Gesù:Amen, amen vi dico:Io-Sonola porta delle pecore.

8 Tutti quelli che vennero prima di me,ladri sono e briganti;ma le pecore non li ascoltarono.

9 Io-Sonola porta:se uno entra attraverso di me,sarà salvoed entrerà ed usciràe troverà pascolo.

10 Il ladro non vienese non per rubare, immolare e distruggere.Io venniperché abbiano vitae l’abbiano in abbondanza.

11 Io-Sonoil pastore bello:il pastore belloespone la sua vitaa favore delle pecore.

12 Il mercenario e chi non è pastore,

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al quale le pecore non appartengono,vede venire il lupoe abbandona le pecore e fugge;e il lupo le rapisce e disperde,

13 perché è mercenarioe non gli interessa delle pecore.

14 Io-Sonoil pastore belloe conosco le miee le mie conoscono me,

15 come il Padre conosce mee anch’io conosco il Padre;e dispongo la mia vitaa favore delle pecore.

16 Anche altre pecore hoche non sono di questo recinto:anche quelle bisognache io conduca;e ascolteranno la mia vocee diventeranno un solo gregge,un solo pastore.

17 Per questo il Padre mi ama,perché io depongo la mia vitaper prenderla di nuovo.

18 Nessuno la toglie da me,ma io la depongo da me stesso:ho il potere di deporlae ho il potere di prenderla di nuovo.Questo comando ho presodal Padre mio.

19 Ci fu di nuovo una divisione tra i giudeia causa di queste parole.

20 Ora dicevano molti di loro:Ha un demonioe delira.Perché lo ascoltate?

21 Altri dicevano:Queste parole non sono di un indemoniato:può forse un demonioaprire occhi di ciechi?

1. Messaggio nel contesto«Io-Sono la porta, Io-Sono il pastore», dice Gesù a quei farisei ciechi (9,40s) che

pretendono di essere le guide del popolo. Si rivolge a loro per illuminarli sulla loro cecità, mostrando la bruttezza di ciò che seguono e fanno seguire.

Egli si proclama la porta attraverso cui si entra nella vita, il pastore che conduce verso la libertà. È infatti il Figlio, venuto a condurre i fratelli fuori dalle tenebre e dalla morte. I farisei, che stanno davanti a lui dopo la guarigione del cieco nato, sono falsi pastori, che opprimono e sfruttano il gregge dei loro fedeli, perseguitando chi è uscito dal loro controllo.

A noi oggi non piace l’immagine dell’«uomo pecora», che segua un pastore. A differenza dell’animale, programmato dall’istinto, l’uomo è libero. Non necessitato dai propri

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bisogni, è mosso dal desiderio di ciò che ritiene essere meglio per lui. Di sua natura l’uomo è cultura, aperto a un cammino e un progresso sempre maggiori. Ma la cultura nasce e cresce secondo degli ideali che si propongono, o impongono, da imitare: è un’imitazione dei desideri dell’altro. Oggi, coi mass media, questo meccanismo, ancor più oleato ed efficiente, lascia spazi sempre minori alla libertà. I nostri modelli culturali, incarnati da persone concrete che li rappresentano, sono i pastori, i capi che seguiamo. Il modello è da seguire e raggiungere, eventualmente da superare, in un crescendo di competizione e rivalità, prima con gli altri e poi con il capo stesso. Si tratta di una sudditanza inquieta che genera lotta e violenza, tenuta a bada da regole, perché non ci si distrugga a vicenda. La legge è dettata dal più forte, che si impone perché può eliminare chi si oppone. Il risultato è che siamo sudditi del modello-pastore vincente, che è sempre quello in grado di esercitare maggiore violenza. Chi si ribella è perdente, emarginato o ucciso, a meno che sia tanto forte da prenderne il posto. È la legge della giungla: l’uomo è un lupo per l’altro uomo e domina chi può nuocere di più, a spese dell’innocente (cf. Gdc 9,7-15).

Di questo sistema oppressivo non si accorge chi sta in alto, ma chi sta in basso e ne fa le spese. La violenza è un coltello: chi sta dalla parte del manico, non sente alcun male, a differenza di chi sta dalla parte della lama. Ma anche questi pensa di essere felice se riesce a impugnare il manico. Ne nasce un mondo di carnefici e vittime, nel quale giochiamo tutti al medesimo gioco: seguiamo ciecamente lo stesso pastore, che presto o tardi ci beffa tutti. In questo modo la violenza aumenta e aumenterà a dismisura, fino a quando le spade non si trasformeranno in vomeri e le lance in falci (Is 2,4). Ciò è possibile nella storia dell’umanità quando anche i potenti si scoprono vulnerabili come tutti; allora anch’essi «conoscono l’affanno dei mortali», perché «sono colpiti come gli altri» (Sal 73,5). In questo modo cade la maschera che li inganna e possono scoprire quanto è indesiderabile e brutto ciò che ritengono bello e desiderabile. Ma, fino a quando non si sperimenta sulla propria pelle quanto sia male ciò cui si aspira come a sommo bene, tutto continuerà come prima: «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono»; suo pastore è la morte: è condotto agli inferi, dove prima ha condotto gli altri (cf. Sal 49,13.15.21). Chissà che ciò non avvenga presto, constatando quanto è debole l’onnipotenza della tecnologia: è un colosso dai piedi d’argilla, tanto affascinante e tremendo quanto fragile (cf. Dn 2,31-35). Forse oggi, per la prima volta nella storia, se apriamo gli occhi e superiamo il complesso dello spettatore, televisivo o meno, vediamo che è vero quanto dice Gesù a proposito dei galilei trucidati da Pilato e del crollo della torre di Siloe: «Se non vi convertite, tutti allo stesso modo perirete» (Lc 13,3.5).

Gesù propone un modello alternativo, che fa uscire da questo gioco di morte: offre all’uomo di realizzare la sua umanità, chiamandolo a diventare come Dio. Propone infatti di imitare non i desideri dell’altro – con i conflitti che ne derivano –, bensì quelli del Padre, che non è rivale di nessuno, ma principio di vita e libertà per tutti. Facendo come lui, diventiamo figli, adulti e uguali a lui, come da sempre abbiamo desiderato. L’inganno originario è stato quello di pensare Dio come nostro antagonista e di averlo preso come modello, rendendoci impossibile la vita. Come può vivere uno, se gli è contro suo padre? Sarà contro di lui, contro di sé e contro gli altri, diventando simile al padre che detesta.

Gesù si presenta come il Figlio che conosce l’amore del Padre e ha i suoi stessi desideri: comunicare vita e libertà ai fratelli. Per questo si propone come il pastore «bello», vero, in contrapposizione al pastore brutto e falso, del quale siamo succubi. Seguendo lui, diventiamo ciò che siamo: figli del Padre e fratelli tra di noi. Solo così usciamo dalla tenebra e veniamo alla luce della verità, che ci rende liberi. A una cultura di competitività, rivalità e violenza, subentra una cultura di fraternità, solidarietà e amore. Finalmente una vita bella, vivibile, «da Dio»: felicità e grazia ci saranno compagne tutti i giorni della nostra vita e abiteremo nella casa dei nostri desideri (cf. Sal 23).

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Gesù pastore ci libera dal «brigantaggio» che governa i nostri rapporti, con il dominio del più violento di turno. In realtà colui che prendiamo come modello non è che un pastore di morte, la cui fine è scontata sin dall’inizio: è la vittima designata dal gioco stesso che sta giocando, quando arriva un bandito più nocivo di lui.

Se nel c. 9 si parlava di luce che apre gli occhi su una realtà nuova, quella del Figlio, ora si parla del pastore-modello che guida verso un nuovo tipo di vita. L’accostamento è suggerito anche dal libro di Enoch (composto prima del 164 a.C), che presenta la storia di Israele come quella di un gregge alle prese con i lupi: purtroppo i montoni alla guida del gregge sono ciechi, sino a quando viene il pastore che ridà loro la vista. «Vedere» la realtà è necessario per vivere senza farsi troppo male. Per salire rapidamente una scala al buio, non è bene spiccare un poderoso balzo verso la rampa che scende!

Il discorso di Gesù è una polemica con i capi del popolo, che per l’ex cieco non sono più il modello da seguire. Gesù qui mostra la diversità tra il suo ed il loro modo di agire: lui libera, dà luce e vita, essi invece opprimono, depredano e tengono schiavo il gregge.

Sullo sfondo del discorso c’è un’immagine familiare in Palestina. Il rapporto particolare che c’è tra gregge e pastore è figura di quello tra re e popolo, simile a quello tra Dio e i suoi fedeli. È l’antica figura del re pastore, di Dio stesso come pastore (cf. Sal 23; Is 40,11).

Abramo e i patriarchi erano pastori; Mosè, Giosuè e Davide sono chiamati pastori del popolo, guidato da loro in nome di Dio. La vita del pastore dipende dalle sue pecore e quella delle pecore dal loro pastore. Senza di lui esse sono in balia di fiere e predoni, senza alcuno che le conduca ai pascoli e alle acque.

I profeti hanno parlato spesso dei capi del popolo come di pastori cattivi e infedeli. Sono dei lupi, che usano i noti metodi della favola sul lupo e l’agnello. La promessa dei profeti mantiene viva l’attesa di veri pastori, anzi di Dio stesso come pastore (cf. Ger 23,1-6; Zc 11,4-17; Ez 34,1ss; Sal 23). Gesù si presenta come il vero pastore, che conosce e fa il suo lavoro in favore delle pecore: mentre gli altri le fanno morire, lui dà loro la vita, la sua stessa vita di Figlio.

Il discorso si presenta come una progressiva rivelazione di Gesù e della sua opera di Figlio per i fratelli.

Si può articolare il testo in due parti diseguali, ognuna delle quali contiene le parole di Gesù e le reazioni di chi ascolta.

La prima parte (vv. 1-6) è un racconto simbolico, in cui si contrappongono il pastore e il ladro. Il pastore entra dalla porta, riconosciuto dal guardiano e dalle pecore che conoscono la sua voce; le chiama per nome, le «espelle» dal recinto e cammina davanti ad esse, che lo seguono. Il ladro evita la porta e sale da un’altra parte; ma le pecore non riconoscono la sua voce e non lo seguono, anzi, fuggono da lui. Si sottolinea che gli ascoltatori non capiscono. Infatti sono ciechi che credono di vedere (9,41); neppure ammettono che ci sia altro modo di agire rispetto al loro. Per chi invece, come il cieco nato, è illuminato, il racconto è chiaro.

Nel recinto le pecore sono custodite di notte. Con Gesù, luce del mondo (8,12), è venuto il giorno (cf. 11,9s). Di giorno le pecore restano nell’ovile per essere munte e tosate, vendute o macellate; comunque languiscono e muoiono di fame e di sete. In altre parole: i capi tengono il popolo al chiuso, spogliato dei suoi beni e ucciso nella sua libertà. Si comportano da briganti, non da rappresentanti dell’unico pastore. Hanno ridotto il tempio stesso a luogo di mercato (cf. 2,16). Gesù, il pastore vero, è venuto a salvare i fratelli da questa schiavitù, dando inizio ad un nuovo esodo; li «espelle» dal recinto del tempio e, camminando innanzi a loro, come JHWH nel primo esodo, li conduce ai pascoli della vita. L’azione dei capi, che hanno «espulso» il cieco guarito (9,34), diventa, per ironia divina, la stessa del Signore che «espelle» le «sue» pecore fuori dalle loro mani. Quest’espulsione è un atto di nascita, come quello di Israele dall’Egitto.

C’è un’orribile schiavitù, la peggiore, che è quella ideologica e religiosa (probabilmente è la stessa cosa, che cambia solo abito). Ogni religione e ideologia che non rispetta l’uomo,

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perfino nella sua libertà di sbagliare, è anche contro Dio, soprattutto quando lo fa in suo nome. In ogni dialogo religioso la vera domanda teologica da porsi è «antropologica»: mortifica o vivifica l’uomo? Il rispetto che si ha per l’uomo corrisponde alla verità o meno dell’immagine che si ha di Dio. Infatti accettare Dio, l’Altro, significa in concreto accettare l’alterità di ogni altro. In nome di Dio quali intolleranze e abomini contro l’umanità, soprattutto contro la donna che, in una cultura maschilista, è il primo «altro», rimosso e negato! Maschio e femmina sono l’alterità originaria. Negarla è togliere all’uomo la sua immagine e somiglianza con Dio (Gen 1,27).

Più che l’ateismo, forma antidolatrica di derivazione ebraico-cristiana, oggi il problema è quale Dio si propone: uno che è principio di ogni alterità nell’amore, oppure uno che fagocita ogni altro e riduce tutto a nulla? Giustamente è stato osservato un forte legame, anzi una specularità perfetta, che genera una «guerra santa» bilaterale, tra il «Mac-Mondo» della globalizzazione e il fondamentalismo religioso. Rende davvero un cattivo servizio a Dio e all’uomo chi pensa che Dio e l’uomo siano come pensa lui!

Nella seconda parte (vv. 7-21), Gesù passa a un discorso in prima persona, dicendo: «Io-Sono la porta, Io-Sono il pastore bello». Rivela progressivamente la sua identità, sempre in contrapposizione ai capi, che sono ladri, predoni e mercenari.

Gesù è «la porta delle pecore»: attraverso di lui si accede ai pascoli della vita. In altre parole: ci fa uscire dalla schiavitù della legge alla libertà del Figlio (vv. 7-10). Ci dona infatti la sua stessa vita di Figlio, rendendoci partecipi del suo rapporto di conoscenza e di amore con il Padre (vv. 11-15).

Ma il Figlio non è pastore solo di Israele: è il salvatore del mondo (4,42). Il Signore non vuole fare un unico recinto in cui chiudere tutti come schiavi. Vuole invece tirare fuori gli uomini da ogni ovile per fare di tutti un popolo libero, abbattendo ogni steccato e inimicizia (cf. Ef l,3ss; 2,14-18). Come Israele, così anche gli altri uomini saranno da lui portati alla libertà. Il nuovo popolo è composto da persone libere, al di là di ogni recinzione religiosa e culturale (v. 16). Il Padre ama Gesù, perché è il Figlio che fa dono della sua vita ai fratelli. Questo è il potere, libero e liberante, del Figlio, «il comando» ricevuto dal Padre (vv. 17-18): quello dell’amore.

Davanti alla sua rivelazione c’è, come sempre, una duplice reazione: gli uni lo dichiarano pazzo delirante, gli altri lo difendono come uno che apre gli occhi ai ciechi (vv. 19-21). È la duplice reazione che avviene anche tra noi e dentro di noi che ascoltiamo.

In questo capitolo la Parola vuol operare, nei capi che ascoltano e in noi che leggiamo, la stessa illuminazione del cieco: intende cambiare il falso modello di uomo che ci tiene schiavi della menzogna e della morte.

Gesù è pastore in quanto «agnello di Dio», che con la sua mitezza vince la violenza dei fratelli. Egli ci libera dai capi che ci tiranneggiano, e per di più con il nostro consenso. Infatti seguiamo il loro falso modello e ci riconosciamo in loro, invece di considerarli come dei malati di cui avere cura. Con lui cessa il sistema di violenza che, da Adamo e Caino in poi, ha regolato il nostro rapporto con il Padre e i fratelli: inizia il nuovo esodo, verso la libertà del Figlio, che ama come è amato.

La Chiesa non prende come modello da imitare i vari pastori che schiavizzano l’uomo con il potere e la violenza. Segue il pastore bello, che non conosce altro potere che quello di servire, altra violenza che quella di amare, altra ricchezza che quella di donare, altra vittoria che quella di perdonare. La neutralità che la Chiesa dimostra nei vari conflitti, e giustamente quando non si tratta di prendere le difese del povero, deve venire solo da qui e non da palesi o occulti opportunismi.

2. Lettura del testov. 1: Amen, amen. Sono parole di rivelazione, con autorità divina.vi dico. Gesù si rivolge ai farisei, pastori ciechi (cf. 9,39-41), per illuminarli.

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chi non entra per la porta nel recinto delle pecore. Nella Bibbia la parola «recinto» (in greco: aulé) non indica l’ovile, ma il cortile, in genere del tempio o della tenda del convegno. Le pecore sono il popolo di Dio, tradizionalmente designato come «suo gregge». Abbiamo già trovato le pecore destinate al sacrificio, che Gesù espelle dalla casa del Padre suo insieme ai buoi (2,14ss). Con esse si identifica pure il popolo di oppressi che giacciono nelle vicinanze della porta «Pecoraia», da dove entravano le pecore per essere immolate nel tempio (5,2).

Le pecore nel recinto stanno di notte. Quando viene il giorno, arriva il pastore, che le conduce fuori al pascolo, altrimenti muoiono di inedia.

Gesù rimprovera i capi del popolo, che gli stanno dinanzi, di non essere pastori: non entrano dalla porta. Come il serpente nel giardino, entrano subdolamente, aggirando e raggirando l’intelligenza e la libertà, che sono la porta dell’uomo verso Dio. Il loro potere sul popolo è abusivo. Non rappresentano Dio: ne hanno usurpato il posto e fanno il contrario di lui.

costui è ladro e brigante. I capi del popolo hanno rubato a Dio il suo gregge: sono ladri. E sono briganti: opprimono ed esercitano violenza.

Ladro è Giuda, che si appropria di ciò che appartiene a tutti (12,6). Brigante è Barabba, che voleva imporsi con la violenza (18,40; cf. Mc 15,7p). In realtà è un brigante fallito, perché non abbastanza potente da vincere chi ha il potere: è un bandito diventato vittima, perché non è riuscito a prendere il posto del capo, facendolo sua vittima.

Il modello che regge la società è quello del «ladro/brigante», impersonato dai capi. Gesù, con il «suo fango» posto innanzi agli occhi del cieco, ha proposto un nuovo modello di uomo, a immagine di Dio: non ruba ma dona, non opprime né uccide ma dà libertà e vita.

v. 2: chi invece entra per la porta è pastore delle pecore. Il pastore, a differenza dei ladri e dei briganti, entra per la porta, perché è di casa. Ai capi Gesù oppone se stesso come pastore legittimo e unico: il pastore è il Signore stesso (cf. Ez 34,11ss) e il suo Messia (Ez 34,23), che prende il suo posto, usurpato dai falsi pastori. La sua opera di liberazione consiste nell’illuminarci: ci fa vedere la realtà, mostrando quanto sono falsi i modelli di vita che ciecamente seguiamo.

v. 3: a lui il portiere apre. L’immagine significa che il pastore è riconosciuto come tale. Ogni uomo riconosce ed apre il suo cuore alla libertà, all’amore e alla vita, che sa ben distinguere dalla schiavitù, dall’egoismo e dalla morte.

le pecore ascoltano la sua voce. Il popolo oppresso riconosce chi gli propone una via di uscita. L’ex cieco, che ha ascoltato il pastore, è stato espulso dal tempio ed è venuto alla luce. Anche Lazzaro udrà la sua voce e uscirà dalla tomba (11,43s). Il popolo, in quanto oppresso, è sensibile alla voce della libertà: quando si fa udire, l’ascolta volentieri. Il modello dell’oppres-sore gli è sempre come un paio di scarpe troppo strette, prese incautamente a prestito.

chiama le proprie pecore per nome. Per ladri e briganti le vittime non hanno né volto né nome: è una massa anonima da soggiogare e spogliare. Se pensassero di aver davanti persone come loro, agirebbero diversamente. Il che può avvenire, eventualmente, quando capita loro, presto o tardi, di subire la stessa sorte. Per il pastore, invece, ogni pecora ha il suo nome: chiama ciascuna per nome, in un rapporto personale di amicizia. I pastori di Palestina, ai tempi di Gesù, davano il nome alle pecore, come i nostri contadini lo davano alle mucche e noi oggi a cani e gatti.

le conduce fuori. Quando viene la luce, il pastore conduce le pecore fuori dal recinto. Gesù luce del mondo, porta il popolo fuori dal recinto della legge e del tempio, per farlo camminare alla sua luce.

v. 4: quando ha espulso tutte le proprie (pecore). «Espellere» è ciò che hanno fatto i capi con l’ex cieco (9,34.35) e con quanti hanno accolto il Messia (9,22; 15,21). Gesù assume come propria l’azione dei ladri/briganti e la capovolge: l’espulsione dell’ex cieco da parte delle tenebre diventa la sua stessa azione che lo fa venire alla luce. L’ex cieco è il prototipo delle pecore che hanno raggiunto la libertà, il primogenito dei molti fratelli che seguiranno.

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Giovanni è ebreo, come la sua comunità. Vive il dramma dell’espulsione dei cristiani dal popolo eletto e lo interpreta alla luce della croce di Gesù. Essa rappresenta il sommo male, il peggiore che possa capitare; eppure il Signore ne ha fatto la salvezza per tutti, giudei compresi. Questi stanno tanto a cuore all’evangelista, che indirizza il c. 10 ai loro capi religiosi, perché riconoscano il pastore promesso. Solo in questa luce si possono leggere correttamente le polemiche «antigiudaiche» di Giovanni: sono violente e passionali come quelle dei profeti, testimonianza di un amore ferito che si ostina a proporsi, con forza pari alla resistenza che incontra.

cammina davanti a loro. Come JHWH nell’esodo, Gesù guida il suo popolo verso la terra promessa.

le pecore lo seguono. Infatti è lui stesso la via che conduce alla vita (14,6): vive in pienezza l’amore del Padre e dei fratelli.

riconoscono la sua voce. Come appena detto, si ripete che ogni uomo sa riconoscere la voce della verità, distinguendola da quella della menzogna. I falsi pastori ci opprimono con subdola menzogna e, all’occorrenza, con violenza, terrore e paura; il vero pastore ci rende liberi, capaci di amare e servire, di sperare e osare. Ognuno è in grado di sentire la differenza tra le due voci.

v. 5: un estraneo invece, ecc. Le pecore, davanti al ladro e al brigante, hanno un atteggiamento opposto a quello che hanno davanti al pastore. Il giudizio sulla verità del pastore è compiuto dalle pecore stesse, non dai sondaggi o dalle pressioni dei capi. Come l’ex cieco, ogni uomo preferisce la verità alla menzogna, la libertà alla schiavitù, la vita alla morte; a meno che sia ingannato e manipolato. Se segue cattivi maestri e pastori – il ventesimo secolo ci offrì straordinari esempi, diversi dai precedenti solo per la maggior capacità di nuocere; cosa ci riserverà il nuovo? –, lo fa solo perché è mentalmente donato da chi detiene il potere e lo configura a propria immagine e somiglianza.

non riconoscono la voce degli estranei. L’uomo è oggi così estraniato da sé, che Dio pare sia l’unico estraneo. Ascoltiamo tutte le voci più strane, ma non quella della coscienza; siamo sedotti da qualunque mercante ci voglia comprare, ma non da colui che ci ama di amore eterno.

v. 6: questa similitudine disse loro Gesù. Quanto Gesù ha detto, più che una parabola o metafora, è uno specchio preciso dell’atteggiamento dei capi del popolo. Sono così ciechi che fanno esattamente il contrario di ciò che è bene, pensando che sia il meglio.

ma quelli non capirono, ecc. Anche l’evidenza può essere non vista. Dal cieco appunto! Se l’interesse è miope, il potere accieca: non fa vedere la realtà, ma i propri deliri – che purtroppo poi si realizzano, in una forma di pazzia così contagiosa da diventare collettiva. Ciò che Gesù dice è comprensibile a chi, come l’ex cieco, è ormai fuori dalla cecità del consenso che il potere induce. Ne può uscire chi ne subisce gli svantaggi; ma solo se apre gli occhi e sa resistere a inganni e ricatti di ogni tipo. Il fine dei vv. 1-6 è convincere i farisei che, con la loro immagine di Dio e di uomo, sono ciechi dalla nascita: non hanno mai visto e non vedono ancora la differenza tra il pastore e il ladro/brigante. Il riconoscimento di questa cecità è principio d’illuminazione. Con il discorso che segue, Gesù pone davanti ai loro occhi il «suo fango», il modello di uomo vero, perché, se vogliono ascoltare la sua parola, possano aprire gli occhi e vedere. La narrazione del cieco, che diventa uomo libero, suscita in noi il desiderio di essere come lui. Infatti se tutti siamo ciechi, prima del racconto di uno che ci vede neppure sappiamo di essere ciechi.

v. 7: disse di nuovo Gesù. Gesù chiarisce quanto ha detto, ampliando la metafora della porta (vv. 7-10) e del pastore (vv. 11-18): mostra se stesso come porta di salvezza in quanto vero pastore. Ai capi, che hanno un falso modello di uomo, egli si presenta ora come «il modello» vero di uomo, a immagine del Dio vivente.

Io-Sono la porta delle pecore. Nel v. 1 Gesù diceva che il ladro/brigante non passa dalla porta; ora dice: Io-Sono la porta, attraverso la quale le pecore possono uscire in libertà e

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raggiungere la vita. Lui stesso infatti, Parola diventata carne, è la porta tra terra e cielo. La porta è dove il muro della prigione è rotto. Chi è chiuso dentro può uscire; se non vuol uscire, brilla comunque ai suoi occhi la luce del giorno.

La tradizione ha per lo più applicato questa parola ai pastori: solo attraverso Gesù, buon pastore, comportandosi come lui, hanno accesso legittimo alle pecore. Il tema però è quello delle pecore che, attraverso l’unico pastore legittimo, possono uscire dal recinto e vivere in libertà.

v. 8: tutti quelli che vennero prima di me, ladri sono e briganti. Chi vuol essere capo del popolo, è un falso pastore; a meno che abbia come modello colui che ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Salvo improbabili eccezioni, non pare che sia proprio così. Il pastore bello ci rivela quanto sia brutto ciò che consideriamo normale, anzi appetibile: il Figlio ci fa vedere come il nostro stare insieme sia latrocinio e brigantaggio, negazione della fraternità.

I profeti hanno sempre denunciato l’ingiustizia e l’oppressione dei capi del popolo. Colpisce il fatto che «tutti» siano falsi pastori. Nessuno, infatti, prima di Gesù, ha visto il Padre: da Adamo in poi, tutti abbiamo una falsa immagine di Dio e, quindi, un falso modello di uomo. Quello dominante, impersonato da re, sacerdoti e capi, è proprio di chi si impone con violenza e, per giunta, si fa chiamare benefattore (cf. Lc 22,25), per coprire le sue malefatte. Grande è il potere della parola, sia vera che menzognera. La differenza, non trascurabile, è che la prima fa essere ciò che è, mentre la seconda fa apparire ciò che non è e riduce a nulla ciò che è.

ma le pecore non li ascoltarono. Anche se il popolo ha introiettato il falso modello, tuttavia lo avverte come estraneo. Appena gli si propone la luce, subito viene alla luce, come l’ex cieco.

v. 9: se uno entra attraverso di me, sarà salvo. La salvezza non è entrare nel tempio come pecore da macello, ma uscire con lui per entrare in lui, il Figlio, che ci dà la vita e in abbondanza (cf. vv. 15-18). Egli è infatti l’intelligenza amorosa del Padre: salva la nostra umanità, aprendola alla luce della sua verità.

entrerà ed uscirà. Questo entrare ed uscire si intende di solito come metafora della libertà di entrare ed uscire dall’ovile. Ma Gesù non propone di uscire dall’ovile per entrarci di nuovo, bensì di entrare in lui, che è la porta, per uscire definitivamente dalla schiavitù. Si può, quindi, intendere che chi entrerà (in lui) uscirà (dall’ovile), trovando finalmente cibo e acqua. Lui stesso infatti è il pascolo del gregge, il vero pane di vita (6,33.35.48), che soddisfa ogni fame e sete (cf. 6,35).

v. 10: il ladro non viene se non per rubare, immolare e distruggere. Quelli che non hanno lui come modello, vengono nel recinto solo per sfruttare e rubare le pecore, per immolarle nel loro tempio e distruggerle. Per i capi religiosi il popolo è un gregge su cui spadroneggiare, da sacrificare alla legge, di cui sono i padroni, oltre che le prime vittime.

io venni perché abbiano vita e l’abbiano in abbondanza. Gesù è il pastore/agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29): è venuto per liberare le pecore e dare loro la vita, la sua vita di Figlio. Sarà quanto illustra la parabola del pastore bello.

v. 11: Io-Sono il pastore bello. Dopo aver detto di essere la «porta» della salvezza, Gesù si identifica con «il pastore bello». «Bello» significa vero, autentico, buono, che sa fare il proprio lavoro; richiama però anche qualcosa di piacevole, di bello appunto. È importante vederne la bellezza e provarne piacere. Questa bellezza salverà il mondo, rendendoci spiacevole ciò che riteniamo piacevole. Solo allora cambieremo pastore, perché l’uomo agisce sempre seguendo ciò che più gli piace: è la «delectatio victrix» (sant’Agostino).

Gesù non è «un», ma «il» pastore, il pastore modello, che si prende cura delle sue pecore. Si propone come tale perché espone (vv. 11-13), dispone (vv. 14-16) e depone (vv. 17-18) la propria vita in loro favore. Egli è pastore in quanto agnello immolato e vittorioso, che guida il gregge alle fonti dell’acqua di vita (Ap 7,17). È il pastore promesso (Ez 34,1ss), il Signore stesso che si fa pastore (Sal 23). L’alternativa a seguire il pastore della vita è avere

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come pastore la morte (Sal 49,15). Così fanno i perversi, che si vantano della loro ricchezza e in essa fanno consistere la loro vita (Sal 49,6s).

espone la sua vita a favore delle pecore. Ora Gesù fa vedere il suo modo di essere pastore: espone la sua vita a favore delle pecore. Più avanti dirà anche che dispone e depone per loro la sua vita. È la bellezza dell’amore che si mostra in azione! Questa espressione esce uguale ai vv. 15.17.18. In greco non c’è il verbo «dare» (dídomi), come in 6,51, quando Gesù promette che darà la sua carne da mangiare. C’è invece il verbo «porre» (títhemi), che nei diversi contesti, con un procedimento caro a Giovanni, assume significati diversi. Nella traduzione abbiamo lasciato il verbo «porre», con dei prefissi: qui Gesù es-pone, al v. 15 dis-pone, ai vv. 17-18 de-pone la propria vita a favore delle pecore.

Qui non si vuole dire che il pastore offre o dà la sua vita nel senso che muore. Infatti, se muore, le pecore sono rapite e disperse. Si vuol dire che la prima caratteristica del pastore è l’amore e il coraggio con cui difende le pecore: egli, a differenza del mercenario, «es-pone» per loro la sua vita ad ogni pericolo.

v. 12: il mercenario e chi non è pastore, al quale le pecore non appartengono. Per il pastore le pecore sono «sue»: gli appartengono e ne ha cura come della propria vita. Il mercenario, invece, è preoccupato del suo salario: le pecore sono a servizio della sua vita, non lui della loro. Per questo non si es-pone: agisce per «vile interesse» (cf. 1Pt 5,2s). Nel momento del pericolo fugge da chi lo ha seguito. L’idolo, dopo averci sedotti e spremuti, ci abbandona sempre nel momento del bisogno: non mantiene la promessa e delude la speranza riposta in lui.

vede venire il lupo, ecc. Il lupo, nemico tradizionale del gregge, rappresenta le forze ostili del male. Gesù stesso ha mandato i suoi discepoli come agnelli in mezzo ai lupi (cf. Lc 10,3). Ogni epoca ha i suoi lupi. Talora hanno nome e cognome. Ma per lo più sono anonimi. Allora sono più insidiosi: indicano la mentalità diffusa, il falso modello di uomo, «la moda» che serpeggia e fa strage all’interno del gregge.

La venuta del lupo evidenzia chi è pastore e chi mercenario, chi sa es-porre la propria vita e chi invece pensa solo a salvare se stesso.

il lupo rapisce e disperde. L’azione di rapire e disperdere è tipica del nemico, il diavolo: rapisce all’uomo la sua verità e lo fa fuggire dalla sua vita. Egli fa il contrario del Figlio, che è venuto per dare la vita e raccogliere tutti i dispersi (11,52), riunendoli a sé e al Padre.

Anche i discepoli, nell’ora del lupo, quando il pastore sarà colpito, si disperderanno (Mc 14,27p; cf. Zc 13,7).

v. 13: perché è mercenario e non gli interessa delle pecore. L’atteggiamento del mercenario evidenzia per contrappunto quello del «pastore bello». Davanti ai lupi, che hanno appena rinnovato la decisione di ucciderlo (8,59), Gesù non abbandona i suoi e non fugge. Difende le sue pecore perché gli interessano (inter-esse – essere-dentro): le ha a cuore perché le ha nel cuore. Anche il mercenario ha un interesse; ma non sono le pecore, bensì il vantaggio che ne trae. È un prezzolato.

v. 14: Io-Sono il pastore bello e conosco le mie e le mie conoscono me. Gesù, dopo aver parlato del pastore bello in termini di coraggio, che gli fa esporre la propria vita, ora dice cosa «dispone» a favore delle sue pecore: mette a loro disposizione la sua stessa vita, che è la conoscenza e l’amore del Padre. C’è una conoscenza, un’intimità, un amore reciproco tra pastore e pecore. Chiama ciascuna per nome (v. 3): «Ti ho chiamato per nome; tu mi appartieni [...], sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,1.4). L’insieme delle pecore non è un «gregge»: ognuna ha un rapporto personale con lui.

v. 15: come il Padre conosce me e anch’io conosco il Padre. Il rapporto di conoscenza e amore che c’è tra Gesù e ciascuno di noi è il medesimo che c’è tra il Padre e lui: «Come il Padre amò me, così io amai voi» (15,9). L’amore reciproco tra Padre e Figlio, il mistero che è la loro stessa vita, è il medesimo che circola tra noi e lui. L’espressione richiama il «detto

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giovanneo» di Lc 10,21s, dove Gesù danza di gioia perché la sua conoscenza reciproca con il Padre è comunicata ai piccoli (cf. anche Mt 11,25-27).

e dispongo la mia vita. Se al v. 11 il pastore es-pone, qui dis-pone della propria vita a favore delle pecore: la mette a loro disposizione, la offre loro. Il verbo è al presente, perché la sua vita ci è sempre offerta, qui ed ora. Il Figlio infatti non la tiene gelosamente per sé: come la riceve così la dona, come è amato dal Padre così ama i fratelli.

a favore delle pecore. Giovanni non dice tanto che Gesù muore «al posto» delle pecore, quanto che egli dona loro la sua stessa vita. Sottolinea la trasmissione della «Gloria» dal Figlio ai fratelli.

v. 16: anche altre pecore ho che non sono di questo recinto. «Questo recinto» è quello del tempio, in cui sta Israele. Ci sono altri «recinti», religiosi o laici, che tengono schiavo l’uomo. Il Figlio ha fratelli non solo nel popolo di Dio, ma dovunque: tutto è stato fatto per mezzo di lui (l,2s), luce e vita di ogni uomo (1,9), che è figlio nel Figlio. Per questo il Padre ama il mondo (3,16) e il Figlio, salvatore (4,42) e luce del mondo (8,12), sarà innalzato non solo per radunare i figli dispersi d’Israele, ma per tutti i popoli (11,52). Gesù vuol condurre anche questi alla libertà. Il suo gregge non è una setta di eletti: ogni uomo è figlio amato dal Padre, che lui non si vergogna di chiamare fratello (Eb 2,11).

Il cristianesimo è di sua natura universale (= cattolico): non esclude nessuno. Se si esclude qualcuno, si rinnega il Padre, che ama ciascuno, e il Figlio, che è come il Padre. Per un cristiano non amare «i nemici», o addirittura odiarli, è negare Dio nella sua essenza di amore. È un «ateismo» peggiore di quello di chi lo nega perché non lo conosce o lo misconosce, spesso a causa della nostra cattiva testimonianza. Lo stesso concetto di «missione» non ha nulla a che fare con il proselitismo: è la spinta interiore dell’amore del Figlio verso i fratelli (cf. 2Cor 5,14).

anche quelle bisogna che io conduca. «Bisogna» richiama il dono della vita del Figlio dell’uomo innalzato. È questo amore che lo fa pastore dei suoi fratelli: come ha espulso dal recinto del tempio quelli che sono chiusi dentro (v. 4), così vuole condurre al pascolo della vita anche quelli che sono chiusi in altri recinti.

ascolteranno la mia voce. La voce del Figlio, che chiama ciascuno per nome (v. 3), e che ciascuno nel suo cuore riconosce come vera (v. 4), è rivolta a ogni uomo, perché gli è fratello.

diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Gesù, mediante la sua croce, ha abbattuto ogni muro di separazione tra gli uomini, per fare di tutti, vicini e lontani, un solo uomo (cf. Ef 2,14-22): il Figlio, mettendo la propria vita a disposizione di tutti gli uomini (cf. 11,52), ne fa un solo popolo di fratelli, un solo gregge.

Gesù dice «un solo gregge» e non «un solo ovile», come spesso si dice. Il Figlio non è venuto a fare un nuovo ovile, un recinto più grande dove imprigionare possibilmente tutti; tira invece fuori i suoi fratelli da ogni gabbia, religiosa o meno, per farli vivere nella legge di libertà (Gc 2,12), che è l’amore e il servizio reciproco (Gal 5,13). Quanto è facile fare edizioni aggiornate, e peggiorate, della proposta ecumenica di Ruggero Bacone, proprio oggi, che siamo un villaggio globale. Egli scriveva: «I greci ritorneranno nell’obbedienza della Chiesa romana, i tartari si convertiranno per la maggior parte alla fede, i saraceni saranno distrutti; e ci sarà un solo gregge e un solo pastore».

È chiaro che l’unione tra le Chiese non deve essere «un solo ovile» che racchiuda le varie comunità, omologandole e omogeneizzandole. Il corpo di Cristo, vivente nella storia, sarebbe irriconoscibile, ridotto a un frullato: più che un organismo bello e diversificato nelle sue membra, sarebbe una poltiglia indifferenziata.

L’unione non deve neppure essere un conglomerato di «diversi ovili», dove ognuno vuol semplicemente affermare la propria differenza sull’altro: sarebbero pur sempre ovili. In più ci sarebbe un pullulare di rivalità e guerre sante, una disgregazione che divide le varie

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membra e fa morire ogni singola parte. Si passerebbe da un corpo di Cristo ridotto a un omogeneizzato nell’unico ovile, a un suo smembrato in molti ovili.

Il solo gregge, e non ovile – la Chiesa «una», come il Signore la vuole –, è un popolo di persone libere, che hanno trovato in lui la loro verità di figli e vivono da fratelli. Questo popolo nuovo è aperto a tutti: è «cattolico» (= universale), globale. Rispetta però ogni differenza come luogo di intesa e di crescita. C’è infatti un solo Spirito che è amore, un solo Signore che è servo di tutti, un solo Dio che opera tutto in tutti; e ciascun membro, come in un unico corpo, mette la sua differenza a servizio delle altre membra (cf. 1Cor 12,1ss).

L’unione tra le Chiese e tra gli uomini – la Chiesa è destinata al mondo! – è la stessa che si ritrova in Dio: nell’unico amore reciproco, Padre e Figlio sono uno, nella distinzione di ciascuno (cf. v. 30; 17,20-23).

Gesù dice: «un solo gregge, un solo pastore», non: «un solo gregge e un solo pastore» o: «un solo gregge con un solo pastore». Pastore e gregge non sono distinti da congiungere con una «e» o da porre l’uno «con» l’altro: c’è identificazione tra pastore e gregge. Infatti chi segue il Figlio diventa come lui: a chi accoglie la Parola è dato «il potere» di diventare figlio di Dio (1,12). La pecora diventa come il pastore ed è passata, come lui, dalla morte alla vita, perché è in grado di «porre la propria vita a favore dei fratelli» (cf. 1Gv 3,14-16). Ogni pecora è chiamata, a sua volta, a diventare pastore, come l’agnello.

v. 17: per questo il Padre mi ama, perché io depongo la mia vita per prenderla di nuovo. La stessa parola, che al v. 11 significa «es-porre» e al v. 15 «dis-porre», qui significa «de-porre». Gesù depone la sua vita volontariamente. Il suo non è un morire, ma un realizzare la propria esistenza come dono totale d’amore: più forte della morte è l’amore (cf. Ct 8,6). Il suo deporre la vita ha come fine il riceverla di nuovo. Gesù, dando la vita, la riceve in pienezza: è uguale al Padre perché non solo si sa amato, ma ama i fratelli con il suo stesso amore. In lui la vita diventa ciò che è: circolazione viva d’amore, dono ricevuto e dato. Per questo è il Figlio diletto, compimento perfetto dell’amore del Padre.

v. 18: nessuno la toglie da me, ecc. Nessuno può togliere la vita a colui che è vita di tutto (l,3c.-4). Egli la depone, mettendola a nostra disposizione, con un atto libero d’amore.

ho il potere di deporla e prenderla di nuovo. La vita è amore: si realizza nel dono di sé. Il «potere» del Figlio è lo stesso del Padre: quello di amare. La croce in Giovanni è vista non come sconfitta, ma come «Gloria», manifestazione del Dio amore, che di sua natura si dona.

questo comando ho preso dal Padre mio. Il Figlio ha dal Padre un unico comando: quello di dare la vita come la riceve, di amare come è amato. Sarà il comando che presto darà ai suoi discepoli (cf. 13,34), per farli partecipi della sua vita (cf. 1Gv 3,14-16).

La vita la perdiamo comunque. Ma non è un vuoto a perdere, da riempire il più possibile di cose che pure andranno perse. È un vuoto da rendere, svuotato il più possibile dall’egoismo perché si riempia d’amore. In questo senso chi depone la vita, la prende di nuovo: chi la perde, la salva.

v. 19: ci fu di nuovo una divisione tra i giudei, ecc. La sua parola di amore, invece di unire, paradossalmente produce uno scisma: c’è chi l’accetta e chi la rifiuta. Ma anche chi la rifiuta è accettato; perché l’amore, anche se è crocifisso, non può rifiutare di amare.

v. 20: dicevano molti di loro: ha un demonio e delira (ci. 7,20; 8,48.52). Chi rifiuta il dono, considera pazzesca la sua parola, addirittura diabolica. Quanto Gesù dice non è la stessa proposta del serpente: «Sarete come Dio» (Gen 3,5)?

perché lo ascoltate? I capi del popolo non vogliono che le pecore ascoltino il pastore bello e ne accolgano la proposta.

v. 21: altri dicevano: queste parole non sono di un indemoniato, ecc. Tra il coro dei «molti» non c’è mai unanimità: ci sono sempre «altri», che mettono in crisi la propria posizione. Per loro le parole di Gesù non sono deliramenti; sono anzi parole di verità, che aprono gli occhi ai ciechi. Questi «altri» sono coloro che, al sopraggiungere della luce, si sono scoperti ciechi e si sono lasciati illuminare.

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Il pastore bello è venuto a guarirci dalla nostra cecità su Dio e su noi stessi: il «suo fango» vuol farci venire alla luce e nascere dall’alto, dall’acqua e dallo Spirito. L’ex cieco del c. 9, seguito da questi «altri», è il modello dell’uomo libero, quale Gesù vuol rendere ciascuno della massa di infermi, ciechi, zoppi ed essiccati, che stanno rinchiusi nella piscina di Bethzathà, presso la porta delle Pecore (5,2).

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando Gesù, davanti all’ex cieco e ad alcuni farisei, che racconta

queste parabole.c. Chiedo ciò che voglio: vedere la bellezza del vero pastore, essere come l’ex cieco che

accoglie il suo invito, non come quei farisei che preferiscono restare nelle tenebre.d. Traendone frutto, medito sulle parole di Gesù: mi presentano due modelli di uomo,

perché io veda la differenza tra ciò che dà vita e ciò che dà morte, scegliendo di conseguenza.

Da notare:• il recinto delle pecore• il pastore entra per la porta• il ladro/brigante non entra dalla porta• il pastore è riconosciuto dal portiere e dalle pecore• il pastore conosce e chiama ogni pecora per nome• le conduce fuori dal «recinto»• cammina davanti alle pecore, che lo seguono, perché riconoscono la sua voce• le pecore non seguono l’estraneo e fuggono da lui perché non conoscono la sua voce• Io-Sono la porta delle pecore• chi passa attraverso di me, sarà salvo• io venni perché abbiano vita e l’abbiano in abbondanza• Io-Sono il pastore bello• il mercenario, davanti al lupo, abbandona le pecore e fugge• il pastore bello espone, dispone e depone la propria vita a favore delle pecore• il pastore bello offre la sua stessa vita, che è l’amore reciproco tra Figlio e Padre• conosco le mie pecore e le mie conoscono me, come il Padre conosce me e anch’io

conosco il Padre• ho altre pecore che non sono di questo ovile: anche quelle bisogna che io conduca• ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore• Gesù è il Figlio perché ha lo stesso potere del Padre: deporre la vita e riprenderla

liberamente• il comando di Gesù: amare come è amato• le sue parole ci dividono: se le rifiutiamo siamo ciechi, se le accogliamo veniamo alla

luce.

4. Testi utiliSal 23; 37; 49; 73; Ger 23,1-6; Ez 34,1ss; Zc 11,4-7; Lc 15,4-7; Gv 17,1ss; 1Cor 12,1ss;

Ap 5,1-11.

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27. IO E IL PADRE SIAMO UNO10,22-42

10,22 Ci fu allora la (festa della) Dedicazione a Gerusalemme.Era inverno

23 e Gesù passeggiava nel tempionel portico di Salomone.

24 Allora lo circondarono i giudeie gli dicevano:

Fino a quando ci togli la vita?Se tu sei il Cristo,diccelo con franchezza.

25 Rispose loro Gesù:Ve lo dissie non credete.Le opere che io faccionel nome del Padre mio,queste testimoniano di me.

26 Ma voi non credete,perché non siete mie pecore.

27 Le mie pecore ascoltano la mia vocee io le conoscoe mi seguono;

28 io do loro vita eternae non periranno nei secoli,né alcuno le rapiràdalla mia mano.

29 Il Padre mio,riguardo a ciò che mi ha dato,è più grande di tuttie nessuno può rapiredalla mano del Padre.

30 Io e il Padre siamo uno.31 Portarono di nuovo pietre i giudei

per lapidarlo.32 Rispose loro Gesù:

Molte opere belle vi ho mostrato dal Padre:per quale opera di quelle mi lapidate?

33 Gli risposero i giudei:Non ti lapidiamoper un’opera bellama per una bestemmia:che tu, essendo uomo,ti fai Dio!

34 Rispose loro Gesù:Non è scritto nella vostra legge:

Io dissi: Siete dèi?35 Se disse dèi coloro

ai quali fu (rivolta) la parola di Dio

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– e non si può sciogliere la Scrittura –36 colui che il Padre

santificòe inviò nel mondo,voi dite:

Bestemmia!perché dissi:

Sono Figlio di Dio?37 Se non faccio le opere del Padre mio,

non credetemi;38 ma se (le) faccio

e non credete a me,credete alle opere,affinché sappiate e riconosciateche il Padre (è) in mee io (sono) nel Padre.

39 [Allora] cercarono di nuovodi catturarlo;e uscì dalle loro mani.

40 E andò di nuovo al di là del Giordanonel luogo dove prima Giovanni battezzavae dimorò là.

41 E molti vennero a luie dicevano:

Giovanni non fece alcuno segno;ma tutte quelle cose,che Giovanni disse di costui,sono vere.

42 E lì molti credettero in lui.

1. Messaggio nel contesto«Io e il Padre siamo uno», risponde Gesù agli avversari che gli fanno l’interrogatorio.

Dopo l’illuminazione di chi è venuto alla luce, c’è il giudizio delle tenebre contro il Figlio dell’uomo, luce del mondo (8,12). Alla fine lo eleveranno sul lucerniere, da dove splenderà in tutto il suo fulgore, facendo conoscere «Io-Sono» (8,28) e attirando tutti a sé (12,32). Anche chi è cieco capisce bene le sue affermazioni e lo accusa: «Tu, essendo uomo, ti fai Dio» (v. 33).

Il processo a Gesù, iniziato nella sua prima venuta nel tempio (2,13ss), condotto avanti nella seconda con la volontà di ucciderlo (5,1-18), sviluppato nella terza in una lunga sezione (7,1-10,21), culmina in questa quarta venuta, in cui si formula il motivo della condanna. La decisione di ucciderlo o di catturarlo non può ancora essere eseguita (vv. 31.39). Sarà sentenziata dal capo dei sacerdoti in 11,50 e richiamata in 18,14, quando Gesù comparirà davanti a lui.

Giovanni mette a questo punto l’interrogatorio sull’identità di Gesù che gli altri Vangeli pongono davanti al sinedrio (cf. Mc 14,53-64p), con particolari assonanze con Lc 22,67-71. Giovanni non riferisce il processo davanti al sinedrio, perché presenta tutta la vita di Gesù come un processo. Allo stesso modo non racconta la trasfigurazione, perché legge tutto alla luce della trasfigurazione. Il suo Vangelo è, dall’inizio alla fine, un processo: il processo del-l’uomo che accoglie o rifiuta la Parola che lo fa diventare figlio di Dio. È il dramma dell’uomo; ma anche di Dio, che gli è Padre. Nel giudizio che noi facciamo su Gesù, il Figlio, è dato il giudizio che noi facciamo su noi stessi. L’uccisione, che di lui decretiamo ed

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eseguiamo, svela quella violenza che è nel nostro cuore, la quale decreta ed esegue la nostra condanna, uccidendoci nella nostra verità di figli e fratelli. La sua uccisione però ci salva. Egli infatti è pastore in quanto agnello che toglie il male del mondo (1,29).

Siamo all’ultimo incontro/scontro tra Gesù e i «giudei», tra il Figlio e il nostro non volergli essere fratelli. Avviene d’inverno, nella freddezza, anzi nella tempesta che prelude la passione. Il destino di Gesù, già segnato dall’inizio, è voluto e preordinato da lui stesso, che prende l’iniziativa. Anticipando a questo punto i capi d’accusa, l’evangelista mostra con chiarezza il motivo della sua condanna. Il processo è il luogo di testimonianza della verità. La verità di Gesù è il suo essere Cristo e Figlio di Dio, il suo essere Cristo in quanto Figlio di Dio. Sarà ucciso perché presenta un Cristo e un Dio «altro» da quello che noi pensiamo.

Si pensava allora, e si penserà anche in seguito, a Dio e al suo Messia come a qualcuno che si impone su tutti, con una forza capace di vincere ogni potere avverso, compresa la malattia e la morte. Gesù presenta un Dio e un Messia che non corrisponde alle nostre attese e ai nostri timori: è Signore in quanto servo, è pastore in quanto mite agnello, è salvatore in quanto dà la vita. Ci salva mostrando chi è Dio per noi e chi siamo noi per lui: Dio è Padre che ama e noi suoi figli amati nel Figlio, che si fa nostro fratello, nonostante ogni nostra resistenza o rifiuto.

Le nostre idee sul Messia e sulla salvezza sono ambigue come le nostre concezioni di vita e di morte, di Dio e di uomo. Da qui il «segreto messianico», comune a tutti i Vangeli e tematizzato espressamente da Marco. La stessa funzione hanno gli equivoci giovannei. Il Signore infatti compie le sue promesse, non le nostre attese.

Gesù riprende qui delle immagini del brano precedente: le pecore, la conoscenza reciproca, l’unione con il Padre, il dare la vita, il rubare, il non ascoltare la voce, il seguire e ascoltare la voce. Il luogo è ancora il tempio, il tempo è una festa che richiama quella delle Capanne (7,1ss). È infatti la hanukkàh, che celebra la riconsacrazione del nuovo tempio ad opera di Giuda Maccabeo, dopo la profanazione. Gesù passeggia liberamente nel portico di Salomone, che corre lungo la facciata orientale del grande cortile esterno del tempio. Si trova nella casa del Padre suo, che i suoi avversari distruggeranno e che lui rinnoverà dopo tre giorni (cf. 2,13-22). Qui dirà che lui stesso è la casa del Padre, come il Padre è la casa del Figlio (v. 38). Egli infatti è il nuovo tempio, il vero pastore, il Signore stesso che conduce le sue pecore al pascolo della vita, e della vita in abbondanza. Offre, infatti, a tutti di partecipare alla sua vita di Figlio.

Il testo, che inizia nel tempio, termina al di là del Giordano (v. 40), dove Gesù era apparso all’inizio (l,28ss). Qui le folle riconoscono che è vero quanto Giovanni aveva detto di lui (vv. 41s; cf. 1,20-36). Si chiude così il cerchio della sua attività di Figlio, accreditata dal Padre con i segni che ha compiuto. L’evangelista li ha raccontati perché noi crediamo che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiamo la vita nel suo nome (20,30s).

Tra la cornice di un tempo e un luogo determinato – festa della Dedicazione e tempio (vv. 22-23) – e di un tempo e luogo indeterminato, dove Gesù dimora ed è riconosciuto (vv. 40-42), c’è il suo processo diviso in due parti (vv. 24-31.32-39), ognuna delle quali sfocia nella volontà omicida degli ascoltatori (vv. 31.39). Le due parti riguardano l’identità di Gesù, rispettivamente come Messia e Figlio di Dio. Siamo al nocciolo della fede cristiana.

La prima parte inizia con una provocazione a Gesù perché dica con chiarezza se è il Messia. Egli risponde che l’ha già detto, ma non vogliono credergli. Le sue opere e parole – il rinnovo dell’alleanza e del tempio (c. 2), la nascita dall’alto (c. 3), il dono dell’acqua viva e della vita (c. 4), la guarigione dalla paralisi (c. 5), il dono della manna (c. 6), dello Spirito (c. 7), della verità che ci fa liberi (c. 8) e della luce (c. 9) – lo mostrano come Messia (vv. 24-31). È lui il pastore, il Signore stesso che viene a prendersi cura del suo popolo (10,1-21).

La seconda parte è una provocazione di Gesù a riconoscerlo come Figlio di Dio (vv. 32-39). Egli apre l’attesa messianica a una prospettiva inaudita: il Messia è il Figlio stesso di Dio, la salvezza che porta è il dono della sua vita. Il sogno di Adamo, diventare come Dio (Gen

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3,5), è il dono che Dio vuole fargli. Ma la mano, chiusa nel tentativo di rapirlo, non è in grado di accoglierlo. C’è un crescendo nella storia del male: se il padre Adamo negò il Padre e suo figlio Caino uccise il fratello, i suoi discendenti uccideranno il Figlio che si fa loro fratello. Ciò che suona come bestemmia (v. 33) è la verità di Dio: Dio è amore e Gesù verrà ucciso in quanto Figlio che ama i fratelli con lo stesso amore del Padre.

Gesù testimonia la verità della sua rivelazione attraverso le Scritture e le sue opere, che lo manifestano come Figlio di Dio, che è nel Padre come il Padre è in lui (vv. 34-39). Siamo al culmine della sua rivelazione. A noi accoglierlo o rifiutarlo, ucciderlo o credere in lui.

Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio. È Cristo in quanto Figlio: libera la nostra libertà rivelandoci che Dio è Padre amante e noi suoi figli amati. Sarà ucciso perché si proclama Figlio; ma proprio in quanto ucciso, offrendo la vita per noi, rivela la gloria di Dio e salva ogni uomo.

La Chiesa ha come centro della propria fede ciò che per i religiosi è scandalo e bestemmia: un Dio che ama l’uomo, si fa suo simile e gli dona la propria vita.

2. Lettura del testov. 22: Ci fu allora la (festa della) Dedicazione. La festa ricorda la consacrazione del

tempio ad opera di Giuda Maccabeo dopo la profanazione di Antioco Epifane. È la hanukkàh (consacrazione), detta in greco enkainìa (rinnovazione) perché è la ri-consacrazione del tempio. È una festa simile a quella delle Capanne, collegata alla consacrazione del primo tempio di Salomone, nella quale Giovanni situa il suo racconto da 7,1 a 10,21. Anche se le due feste vengono a distanza di tre mesi, nel racconto si passa direttamente dall’una all’altra.

era inverno. La hanukkàh cade a metà dicembre: è la festa invernale delle luci. L’in-verno è la stagione morta, senza vita, con tempo brutto e burrascoso. In questo clima gelido si svolge il processo a Gesù, che porterà alla decisione di ucciderlo. Deve ancora passare una brutta stagione prima che i fiori appaiano nei campi e la voce della tortora, insieme a quella del diletto, si faccia udire nella gioia di Pasqua (cf. Ct 2,10-13).

v. 23: Gesù passeggiava nel tempio. Qui, a più riprese, hanno cercato di catturarlo (7,30.32.44; 8,20), di lapidarlo o ucciderlo (7,1.19.25; 8,37.40.59). È nella casa del Padre suo (2,16) e vi passeggia in libertà. Alla fine del processo ne uscirà, sfuggendo alle loro mani (v. 39). Nella festa della Rinnovazione del tempio sarà decisa la distruzione di quel tempio che lui ricostruirà dopo tre giorni, come disse nella sua prima visita al tempio (2,13-22).

v. 24: lo circondarono i giudei. Richiama il Sal 22,17, dove i nemici circondano il Messia. È accerchiato, senza scampo, come vittima designata. È l’ultimo scontro tra Gesù e i suoi nemici prima della passione. Come al solito in Giovanni, «i giudei» non sono il popolo d’Israele, ma i suoi capi, che non hanno accettato la testimonianza di Gesù e si oppongono a lui e ai suoi discepoli.

fino a quando ci togli la vita? 11 pastore, che «pone» la sua vita a vantaggio delle pecore (cf. brano precedente), è accusato di togliere la vita. L’espressione, carica di significato nel contesto, vuol dire: togliere il fiato, non lasciar vivere, lasciare in sospeso, in dubbio mortale. Effettivamente, se Gesù è il Messia, devono morire le false attese dei capi. Devono anzi morire loro stessi come capi.

se tu sei il Cristo, diccelo. È la stessa domanda che negli altri Vangeli è posta nel processo davanti al sinedrio (Lc 22,67a; cf. Mc 14,61; Mt 26,63). Nei discorsi precedenti Gesù si è rivelato come il Cristo, il pastore promesso, anzi Dio stesso pastore del suo gregge. Ma la sua rivelazione è scandalo e follia: è pastore in quanto ucciso dai sapienti, è Signore in quanto crocifisso dai potenti (1Cor 1,23). Se questo è il pastore, i capi del popolo sono i ladri e briganti, ai quali Dio è venuto a strappare di mano il suo gregge (cf. Ez 34).

con franchezza. Provocano Gesù a dichiararsi apertamente Messia per poterlo accusare davanti ai romani, che non erano teneri con chi coltivava aspirazioni messianiche. La domanda ha lo stesso scopo di quella del tributo a Cesare (cf. Mc 12,13-17p). Gesù finora si è

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rivelato con franchezza solo alla Samaritana (4,25s), che, dopo aver scoperto la sua sete, era disposta a credere; si è fatto vedere anche dall’ex cieco, perché illuminato.

v. 25: ve lo dissi e non credete. È la medesima risposta che Gesù dà in Lc 22,67b davanti al sinedrio. Quanto egli ha fatto e detto, e l’evangelista ha raccontato, ha infatti un unico scopo: che noi crediamo che lui è il Cristo, il Figlio di Dio (20,30s). Ma quelli che gli stanno davanti non possono vedere e credere: sono infatti ciechi che credono di vedere (9,40s). Altrimenti non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (1Cor 2,8).

le opere che io faccio nel nome del Padre mio, queste testimoniano di me. La risposta di Gesù è centrata sulle opere che compie nel nome del «Padre suo». L’ultima sua opera è stata quella di aprirci gli occhi per farci venire alla luce. Per l’uomo, depositario della Parola, è determinante «vedere» la realtà, conoscere la verità, perché in lui tutto il creato venga alla propria luce e raggiunga il suo senso pieno. Tra poco compirà anche l’opera di dare la vita a Lazzaro, il morto. Sono le sue azioni che parlano in suo favore.

Il criterio per riconoscere che la sua azione è da Dio, è il fatto che ci apre gli occhi, dandoci vita e libertà. È sbagliato dire che si crede alla sola Parola, per pura fede. Ogni parola esprime sempre un evento, colto nel suo significato: non è altro che la realtà in quanto capita e comunicata. La parola di Gesù fa leggere le sue opere come «segno» di quel Dio che dà luce, vita e libertà. Sono esse che testimoniano di lui come Messia.

v. 26: voi non credete, perché non siete mie pecore. I suoi avversari non possono credere in lui: non seguono lui, il pastore bello, ma un altro pastore, la morte. Credere o meno non è una questione teorica, ma pratica: è un atto di libertà nostra, in cui decidiamo quale fondamento scegliere per la nostra esistenza. L’uomo comunque vive di fede e crede in ciò a cui affida la sua vita, si tratti di cose, idee o persone. Se non si affida a chi dà la vita, si affida ai suoi idoli, che gliela tolgono (cf. Sal 115).

Ma il Figlio non taglia il dialogo con i fratelli: anche chi non crede è chiamato a seguirlo. Tutti infatti siamo suoi, predestinati a essere figli nel Figlio. Da 9,41 Gesù si sta esplicitamente rivolgendo a chi non crede, perché veda la propria cecità e desideri la luce. È il pastore bello che va in cerca della pecora smarrita.

v. 27: le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e mi seguono. È un aggancio al discorso precedente sul pastore (vv. 1-21). Anche gli avversari sono chiamati ad ascoltare la sua voce. Sta parlando proprio a loro.

v. 28: io do loro vita eterna e non periranno nei secoli. Chi crede nel Figlio mandato dal Padre, ha vita eterna (3,16): la sua stessa vita di Figlio, che egli è venuto a mettere a disposizione di tutti, perché non perisca niente di ciò che il Padre gli ha dato (6,39). È una vita che vince la morte (cf. 8,51), una fonte di acqua zampillante (4,14), offerta a chiunque ha sete e viene a lui (7,37s).

né alcuno le rapirà dalla mia mano. La «mano» indica la forza, il potere, la capacità di agire. Il pastore bello rassicura le sue pecore: la sua mano, che è la stessa del Padre, le difende efficacemente da ladri, briganti e lupi. Gesù, proprio mentre è in preda ai nemici suoi e del gregge, rinfranca i discepoli. Subiranno scandalo dalla sua morte e dalle difficoltà che incontreranno (cf. 13,36-38): «Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse» (Mc 14,27). Ma il risorto le riunirà dopo Pasqua. Allora capiranno che la sua mano è onnipotente in quanto inchiodata al legno della croce.

v. 29: il Padre mio, riguardo a ciò che mi ha dato, è più grande di tutti. I manoscritti presentano di questa frase quattro varianti principali, dovute al genere neutro o maschile del pronome (hó oppure hós) e dell’aggettivo «più grande» (meizon oppure meízôn). Ciò significa che all’origine c’era un testo di difficile comprensione, che si è cercato di interpretare. Abbiamo presentato la lezione più difficile, col pronome al neutro e l’aggettivo al maschile, che meglio si accorda a ciò che segue. Un’altra lezione, col pronome e l’aggettivo concordati al maschile, che ben si accorda al contesto e può essere una semplificazione intelligente, suona così: «Il Padre mio, che mi ha dato (le pecore), è più grande di tutti». Una terza lezione,

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col pronome e l’aggettivo armonizzati al neutro: «Ciò che il Padre mio mi ha dato, è più grande di tutto» non si adatta bene al senso. Infine, una quarta, col pronome al maschile e il predicato al neutro, si potrebbe tradurre: «Il Padre mio, che mi ha dato (le pecore), è (qualcosa di) più grande di tutto». Il significato di fondo rimane comunque invariato: il potere del Padre e del Figlio a favore delle pecore è superiore a quello di ogni ladro e brigante.

e nessuno può rapire dalla mano del Padre. Prima si parlava della mano del Figlio, ora di quella del Padre, per concludere subito dopo che Padre e Figlio sono uno. Per questo il loro potere è il medesimo: è quello di Dio, amore più forte della stessa morte.

v. 30: io e il Padre siamo uno. È il culmine della rivelazione di Gesù. Corrisponde alla sua affermazione sul Figlio dell’uomo che «siede alla destra della potenza di Dio» (Lc 22,69). Il Padre e il Figlio sono piena comunione d’amore, un unico essere e agire, capire e volere. È il mistero di Dio che è «uno», ma non solo: è perfetta unità d’amore tra Padre e Figlio. A chi gli aveva chiesto se è il Cristo, Gesù risponde che lo è, ma in modo «altro»: è l’Altro, Dio stesso, il Figlio che è una cosa sola con il Padre.

v. 31: portarono di nuovo pietre i giudei per lapidarlo. Gesù sarà ucciso in quanto Figlio di Dio, portando su di sé il nostro peccato, che è quello di aver ucciso il nostro essere figli del Padre.

v. 32: rispose loro Gesù. La scena è volutamente strana. Invece di sottrarsi alla lapidazione, Gesù, con impassibilità divina, si mette a parlare. Il suo è un discorso di autodifesa, fondato sulle opere che giustificano le sue parole.

molte opere belle vi ho mostrato dal Padre. Le «opere belle» di Gesù sono quelle di rifare la creazione come era al principio, di salvare il mondo dalla morte. L’opera di Dio è creazione e liberazione continua; e ciò che il Padre opera, anche il Figlio opera (5,17). Gesù non risponde accampando privilegi: dà come credenziali del suo essere Figlio le proprie opere a favore dei fratelli. E l’opera bella, per eccellenza, si va compiendo adesso: dà la sua vita a vantaggio di chi lo vuole lapidare.

Il processo contro Gesù diventa un processo contro i suoi avversari, che culmina nel loro peccato e nel suo dono.

per quale opera di quelle mi lapidate? Gesù è ucciso perché fa il bene: «Non ha fatto nulla di fuori posto» (cf. Lc 23,14s.41b.47). Altrimenti non potrebbe essere l’agnello che toglie il peccato del mondo (1,29).

v. 33: non per un’opera bella, ma per una bestemmia. Gesù non è ucciso per le sue opere o per la violazione del sabato (cf. 5,15ss), ma per la sua pretesa di essere Figlio di Dio, definita qui «bestemmia». Il cristianesimo è effettivamente una bestemmia, la più grande blasfemia che orecchio pio, di qualsiasi religione, possa udire.

tu, essendo uomo, tifai Dio. Si esprime l’accusa, già formulata in 5,18. La sua bestemmia consiste nel fatto che è uomo e si proclama Dio. Non è questa somma empietà (cf. Gen 3,5)? L’uomo Gesù è Dio; anzi, più precisamente, Dio è l’uomo Gesù! La sua umanità ci rivela un Dio totalmente diverso da quello che le religioni professano e che gli atei negano. Ciò che per ogni religione suona «bestemmia», è l’essenza del cristianesimo ed è la salvezza dell’uomo. Tutte le opere di Gesù, soprattutto quella di deporre la vita a favore dei fratelli, lo rivelano come il Figlio che ama con lo stesso amore del Padre. Se Gesù non fosse Figlio di Dio, sarebbe il più grande impostore della storia. Ma se lui è Figlio di Dio, la più grande impostura della storia è l’idea che noi tutti abbiamo di Dio. In nome del dio che immaginiamo, togliamo la vita all’unico che dà la vita!

Il nostro peccato non fu quello di aver pensato di diventare come Dio, ma quello di far diventare Dio come lo pensiamo noi: un dio di schiavitù e di morte, invidioso della libertà e della vita dell’uomo. Il male non è che l’uomo sia come Dio, ma che Dio sia come l’uomo l’ha pensato. Il Figlio dell’uomo ha fatto piazza pulita di ogni falsa immagine di Dio e di uomo, rivelandoci quel Dio che è amore di Padre verso il Figlio.

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v. 34: rispose Gesù. La risposta di Gesù si articola in due tappe: i vv. 34-36 argomentano dalla Scrittura, i vv. 37-38 dalle opere.

non è scritto nella vostra legge. Per «legge» si intende tutto l’AT. Gesù dice «vostra» non perché non la ritenga anche sua, ma perché essi se ne ritengono gli interpreti autorizzati. Proprio la legge parla di lui: «Se credeste infatti a Mosè, credereste anche a me, perché di me ha scritto» (5,46). Le Scritture infatti gli rendono testimonianza (cf. 5,39).

io dissi: Siete dèi, ecc. (Sal 82,6). Qui Gesù, usando il metodo dei rabbini, leva dal contesto un’affermazione del Sal 82,6 e la applica alla sua situazione, con un’allusione a Es 7,1 LXX, dove Dio dice a Mosè che, con i segni che compirà, l’ha fatto «dio sul faraone». Il suo ragionamento è «a fortiori»: se sono dèi e figli di Dio quelli che ricevono la parola di Dio, a maggior ragione sarà Dio e Figlio di Dio colui che è la Parola e compie opere superiori a quelle dello stesso Mosè.

v. 36: colui che il Padre santificò e inviò nel mondo. Il Padre santificò Gesù con il suo Spirito (cf. 1,32-34): è il Figlio inviato nel mondo per salvarlo (3,17). Colui che da sempre è rivolto verso il seno del Padre, è diventato carne per rivolgersi ai fratelli e narrare loro il mistero di quel Dio che nessuno mai ha visto (1,18).

voi dite: bestemmia. Ciò che i suoi avversari ritengono una bestemmia, è la rivelazione stessa di Dio, che nel Figlio manifesta agli uomini il suo vero volto. Con Gesù è messa in crisi ogni immagine religiosa di Dio e del suo rapporto con l’uomo. Ciò che riteniamo devozione, è empietà; ciò che riteniamo bestemmia, è conoscenza vera di Dio e dell’uomo. La sua croce, frutto di questa bestemmia, è la distanza infinita che Dio ha posto tra sé e ogni idolo. Il peccato dell’uomo, religioso o empio, è sempre l’idolatria. Un «Dio crocifisso», crocifisso dall’uomo e per l’uomo, è il grande mistero che rivela Dio.

sono Figlio di Dio. Gesù non dice: sono il Figlio di Dio, perché «il Figlio di Dio», nel linguaggio di allora, poteva significare «il Messia»; Gesù ha già affermato al v. 25 di essere il Messia. Ora rivela che lui è il Messia salvatore in quanto unigenito Figlio di Dio. Dicendo di essere Figlio di Dio, intende attribuire a sé, come ogni figlio, la stessa natura del Padre: è realmente uguale a lui.

v. 37: se non faccio le opere del Padre mio, non credetemi. Gesù ritorna ancora sull’argomento delle opere (v. 25): si può credere alla sua parola solo perché corrisponde alle opere.

v. 38: ma se (le) faccio e non credete a me, credete alle opere. Gesù ritiene che le sue opere siano motivo sufficiente per credere: sono infatti il segno che dà del suo essere Figlio, sono la rivelazione del Padre. L’agire manifesta l’essere.

affinché sappiate e riconosciate. La fede è un sapere e riconoscere che il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio.

che il Padre (è) in me e io (sono) nel Padre. «Il Padre è in me» significa che il Figlio è dimora del Padre; «io sono nel Padre» significa che il Padre è dimora del Figlio. Come fa uno a dimorare nell’altro e viceversa? Uno sta di casa dove sta col cuore: abita dove ama e dove è amato. Padre e Figlio si amano reciprocamente; dimorano quindi ambedue l’uno nell’altro. In questo senso il Padre e il Figlio sono «uno». Queste dichiarazioni di Gesù avvengono nella festa della Rinnovazione del tempio. È lui il nuovo tempio, la dimora di Dio tra gli uomini, inviato al mondo per salvarlo. E lo salva in quanto Figlio condannato e ucciso dai fratelli, ai quali offre lo stesso amore suo e del Padre.

v. 39: cercarono di nuovo di catturarlo (cf. 7,30; 8,20.59). Le parole di Gesù provocano in chi ascolta una reazione: o crede in lui (vv. 41-42) e ha la sua stessa vita di Figlio, o uccide il Figlio e la propria realtà di figlio. Ma – astuzia di Dio e salvezza nostra! – l’uccisione sua diventa il dono supremo che il Figlio fa di se stesso, testimonianza di amore incondizionato per i fratelli.

uscì dalle loro mani. Le tenebre non possono soffocare la luce (1,5): afferrandola, ne sono sconfitte. È un anticipo dell’esodo pasquale.

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v. 40: andò di nuovo al di là del Giordano, ecc. Gesù torna nel luogo in cui era comparso all’inizio, non si sa da dove, quando scese su di lui lo Spirito e fu manifestato come Figlio di Dio (1,29-34).

v. 41: molti vennero a lui. Gesù diviene il luogo di riunione di chi accoglie la luce.Giovanni non fece alcun segno, ma tutte quelle cose, ecc. Giovanni non ha fatto alcun

segno; ma lui stesso è il segno per eccellenza: è «voce» della Parola (1,23), la cui verità si è mostrata nelle opere di Gesù. Ciò che egli ha detto sul conto suo, ora è chiaro: davvero Gesù è il Figlio di Dio (cf. 1,34).

v. 42: molti credettero in lui. Gesù, con ciò che fa per noi, compie ogni promessa di Dio. Aderire a lui, è aderire a Dio e trovare la vita. Se al v. 20 «molti» lo rifiutano, qui «molti» credono in lui. Sono l’anticipo dei «tutti» che, volgendo lo sguardo a colui che hanno trafitto (19,37), saranno attirati a lui (12,32).

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che passeggia nel tempio, circondato dai suoi

avversari.c. Chiedo ciò voglio: credere che lui, giudicato e condannato, è il Messia che mi salva, il

Figlio di Dio che mi dona la sua vita.d. Traendone frutto, medito sul processo di Gesù.

Da notare:• la festa della Dedicazione del tempio• è inverno• Gesù cammina nel tempio• i nemici lo circondano• fino a quando ci togli la vita? Se sei tu il Cristo, diccelo con franchezza• ve l’ho detto e non credete• le mie opere testimoniano di me• voi non credete, perché non siete mie pecore• alle mie pecore do la vita eterna• nessuno può rapirle dalla mano mia e del Padre• io e il Padre siamo uno• lo vogliono lapidare• Gesù continua a parlare• per quale opera bella lo uccidiamo?• la bestemmia: tu, essendo uomo, ti fai Dio• Gesù risponde citando la Scrittura e ricordando le sue opere• le opere di Gesù manifestano che è Figlio di Dio: il Padre è in lui e lui nel Padre• Gesù sfugge alla cattura e torna dove aveva iniziato il suo ministero• molti accolgono la testimonianza di Giovanni.

4. Testi utiliSal 82; 22; Is 52,13-53,12; Lc 22,66-71; Gv 5,19-47; 8,31-59; 1Cor 1,17-21; 1Pt 2,21-

25.

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28. IO-SONO LA RISURREZIONE E LA VITA:CHI CREDE IN ME, ANCHE SE MUORE, VIVRÀ

11,1-54

11,1 C’era un infermo,Lazzaro di Betania,del villaggio di Mariae Marta sua sorella.

2 Ora Maria era quella che unse il Signore con profumoe asciugò i suoi piedi con i suoi capelli;suo fratello Lazzaro era infermo.

3 Le sorelle dunque inviarono da luiper dirgli:

Signore, ecco:colui che amiè infermo.

4 Ora Gesù, avendo ascoltato,disse:

Questa infermità non è per la morte,ma per la gloria di Dio,perché attraverso di essasia glorificato il Figlio di Dio.

5 Ora Gesù amava Martae sua sorellae Lazzaro.

6 Quando dunque ascoltò che era infermo,allora dimorò nel luogo dov’eradue giorni.

7 Poi, dopo questo, dice ai discepoli:Andiamo di nuovo in Giudea.

8 Gli dicono i discepoli:Rabbì,ora i giudei cercavanodi lapidartie di nuovo vai lì?

9 Rispose Gesù:Non sono forse dodicile ore del giorno?Se uno cammina nel giorno,non inciampa,perché vede la lucedi questo mondo.

10 Ma se uno cammina nella notteinciampa,perché la luce non è in lui.

11 Queste cose dissee dopo di questo dice loro:

Lazzaro, il nostro amico,dorme;

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ma vado a risvegliarlo.12 Allora gli dissero i discepoli:

Signore,se dormesarà salvato.

13 Ora Gesù aveva parlato della sua morte;quelli invece pensaronoche parlasse della dormizione del sonno.

14 Allora dunque disse loro Gesù apertamente:Lazzaro è morto.

15 E gioisco per voiche non eravamo là,affinché crediate.Ma andiamo da lui.

16 Allora Tommaso, detto gemello,disse ai condiscepoli:

Andiamo anche noia morire con lui.

17 Venuto dunque Gesù,lo incontròche già da quattro giorniera nel sepolcro.

18 Ora Betania era vicina a Gerusalemmecirca quindici stadi (= 3 km).

19 Ora molti dei giudeierano venuti da Marta e Mariaa consolarle per il fratello.

20 Quando dunque Marta ascoltòche Gesù viene,gli andò incontro.

Maria invece sedeva nella casa.21 Disse dunque Marta a Gesù:

Signore,se fossi stato qui,non sarebbe morto mio fratello.

22 Ma ora soche tutte le cose che chiedi a Dio,Dio te (le) darà.

23 Le dice Gesù:Risorgerà tuo fratello!

24 Gli dice Marta:So che risorgerànella risurrezionenell’ultimo giorno.

25 Le disse Gesù:Io-Sono la risurrezione e la vita:chi crede in me,anche se muore, vivrà.

26 E chiunque vive e crede in me,non morrà in eterno.Credi questo?

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27 Gli dice:Sì, Signore!Io credoche tu sei il Cristo,il Figlio di Dioche viene nel mondo.

28 E, detto questo, andòa chiamare Maria, sua sorella,dicendo di nascosto:

Il Maestro è quie ti chiama.

29 Ora quella, appena ascoltò,si destò velocee veniva da lui.

30 Ora Gesù non era ancora giunto nel villaggio,ma era ancora nel luogodove lo aveva incontrato Marta.

31 Allora i giudeiche erano con lei in casae la consolavano,avendo visto Mariarisorgere velocee uscire,la seguirono,credendo che andasseal sepolcro a piangere là.

32 Quando dunque Maria vennedove era Gesù,vistolo,cadde ai suoi piedidicendogli:

Signore,se fossi stato qui,non sarebbe morto mio fratello.

33 Allora Gesù, quando la vide piangeree piangere i giudei venuti con lei,fremette nello spiritoe si turbò

34 e disse:Dovel’avete posto?

Gli dicono:Signore,vieni e vedi!

35 Gesù versò lacrime.36 Dicevano allora i giudei:

Guardacome lo amava!

37 Ma alcuni di loro dissero:Non poteva costui,che aprì gli occhi del cieco,

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fare anche che questi non morisse?38 Allora Gesù, di nuovo fremendo in se stesso,

viene al sepolcro.Era una grottae una pietra giaceva sopra di essa.

39 Dice Gesù:Sollevate la pietra!

Gli dice Marta,la sorella del defunto:

Signore,già puzza:è infatti di quattro giorni.

40 Le dice Gesù:Non ti dissiche, se credi,vedrai la gloria di Dio?

41 Allora sollevarono la pietra.Ora Gesù sollevò gli occhi in alto

e disse:Padre,ti ringrazioperché mi ascoltasti.

42 Ora io sapevoche sempre mi ascolti,ma lo dissia causa della folla che sta intorno,perché credanoche tu mi inviasti.

43 E, dette queste cose, con gran voceurlò:

Lazzaro!Qui fuori!

44 Uscì il morto,legato ai piedie alle mani con bende,e il suo visoera avvolto da un sudario.

Dice loro Gesù:Slegateloe lasciate che se ne vada!

45 Allora molti dei giudei,che erano venuti da Mariae avevano viste le cose che fece,credettero in lui.

46 Ma alcuni di loro andarono dai fariseie dissero lorole cose che fece Gesù.

47 Allora i capi dei sacerdoti e i fariseiriunirono il sinedrioe dicevano:

Che facciamo?

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Quest’uomo fa molti segni.48 Se lo lasciamo così,

tutti crederanno in lui;e verranno i romanie porteranno via il nostro luogoe la nazione.

49 Ora uno di loro, Caifa,essendo capo dei sacerdoti in quell’anno,disse loro:

Voi non sapete nulla!50 Non calcolate che vi conviene

che un solo uomo muoiaper il popoloe non perisca tutta quanta la nazione?

51 Ora non disse questo da se stesso,ma, essendo capo dei sacerdoti in quell’anno,profetòche Gesù stava per morire per la nazione;

52 e non solo per la nazione,ma per radunare in unitài figli di Dio dispersi.

53 Da quel giorno dunque deliberaronodi ucciderlo.

54 Allora Gesù non camminava più in pubblicotra i giudei,ma se ne andò di làin una regione vicina al deserto,nella città detta Efraim,e lì dimorò con i discepoli.

1. Messaggio nel contesto«Io-Sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà», dice Gesù a

Marta. Egli infatti è vita e luce, luce che splende nelle tenebre, vita che risveglia dalla morte.L’ultima opera del Messia è stata l’illuminazione del cieco: ci ha aperto gli occhi sulla

realtà, mostrando la verità di Dio e dell’uomo. Ora ci dà la libertà davanti al nostro limite ultimo: la risurrezione di Lazzaro ci apre gli occhi sulla morte, ipoteca di tutta la vita. Guardare negli occhi la morte e scrutarne il mistero, è necessario per vivere. Altrimenti la nostra esistenza rimane una fuga, coatta e inutile, da ciò che sappiamo essere il sicuro punto d’arrivo.

L’uomo è l’unico animale cosciente di morire: sa di essere-per-la-morte. Per questo, di sua natura, è cultura. La cultura infatti è una «macchina di immortalità»; ogni nostro sapere e potere è finalizzato ad affrancarci dalla morte e avere più vita. È una macchina splendida e imponente. Ma anche assurda ed impotente: non potendo vincere, cerchiamo di rinviare e rimuovere, o, nel migliore dei casi, interpretare l’appuntamento ineluttabile. La morte comunque, finché viviamo, ci costringe al suo gioco e ci tiene sempre in scacco, che, presto o tardi, è matto. Salvarci da essa è il desiderio che detta ogni nostra mossa, ma sappiamo già in anticipo che sarà frustrato. Non siamo liberi di perseguire la nostra aspirazione: ci sentiamo incantati e dominati dal Fato, che vanifica ogni nostra opera. Restiamo in attesa che sia reciso il tenue filo che ci tiene sospesi nel vuoto, per ricadere nel nulla, noi e ogni nostra fatica. L’esistenza è una condanna. A pensarci bene, l’unica libertà che abbiamo è quella di chi deve essere giustiziato da un momento all’altro, con la tortura di non sapere quando.

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Gesù ci salva non «dalla» morte. È impossibile: siamo mortali. Ci salva invece «nella» morte. Non ci toglie quel limite che ci è necessario per esistere, né la dignità di esserne coscienti; ci offre però di comprenderlo e viverlo in modo nuovo, divino. Ogni nostro limite, compreso l’ultimo, non è la negazione di noi stessi, ma luogo di relazione con gli altri e con l’Altro. Invece di chiuderci in difesa o in attacco, possiamo aprirci alla comunione e realizzarci a immagine di Dio, che è amore.

Gesù non ci offre una ricetta, menzognera, per salvarci dal comune destino; ci fa invece vedere come si può vivere l’amore fino a dare la vita. Questa, come il respiro, non possiamo possederla e trattenerla: morremmo subito. Siamo però liberi di spenderla nell’egoismo o investirla nell’amore, sapendo che «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,25). Noi conosciamo una vita che è per la morte; Gesù ci rivela una morte che è per la vita.

Siamo all’ultimo dei «segni», che rivelano la gloria del Figlio di Dio. Dopo questo racconto seguirà la sua passione, che realizza il significato di tutta la sua azione: Gesù è il Figlio perché comunica la propria vita ai fratelli, e la comunica perché è il Figlio.

Gesù, come Lazzaro e ogni uomo, muore. Egli però ha il potere di offrire la vita e di riceverla di nuovo. Anzi proprio perché la offre, la riceve come Figlio uguale al Padre, datore di vita. Questo è il «comando» ricevuto dal Padre (10,18), che lo costituisce Figlio e lo rende nostro fratello.

Quest’ultimo segno richiama il primo: rivela la gloria del Figlio dell’uomo (vv. 4.40; cf. 2,11!), donata a ogni figlio d’uomo. È quella gloria che apparirà sulla croce: la gloria dell’U-nigenito dal Padre (l,14b), che dà, a chi lo accoglie, il potere di diventare figlio di Dio (1,12).

Gesù, dando la vita a Lazzaro, sarà condannato a morte (v. 53). Chi dona vita, riceve morte; ma, proprio ricevendo morte, dà vita. È il paradosso della croce, ormai all’orizzonte. Essa esprime l’apice sia del male che è nell’uomo, sia del bene che Dio gli vuole: manifesta la «sua gloria», amore senza limiti, che si fa carico di ogni nostro limite. Nel piano di Dio il nostro male è assunto come luogo in cui egli si rivela pienamente e ci salva.

Ogni segno, che Gesù finora ha compiuto, illumina un singolo aspetto della Parola come vita e luce degli uomini. La risurrezione di Lazzaro, invece, è un segno globale: dare la vita a un morto significa la vittoria sul nemico ultimo dell’uomo (1Cor 15,26). Siamo al culmine del «libro dei segni».

È vero che Lazzaro morirà ancora. Ma il suo ritorno alla vita indica che la morte non è più padrona dell’uomo ed è segno della risurrezione, che sarà comunione di vita con il Padre della vita. Gesù ci rivela che c’è morte e morte, come c’è vita e vita. C’è una vita morta, propria di chi, schiavo della paura di perderla, si chiude nell’egoismo per trattenerla; e c’è una morte vivificante, intesa come dono della vita, atto supremo di amore.

La risurrezione è credere in Gesù: chi aderisce a lui, già fin d’ora è in comunione con il Figlio e, anche se muore, vivrà (v. 25). Anzi, chi vive e crede in lui, non morrà in eterno (v. 26). Infatti partecipa della vita di Dio, che è amore: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14).

Il ritorno in vita di Lazzaro è segno di ciò che accade alle sorelle Marta e Maria: il fratello esce momentaneamente dal sepolcro, ma per tornarci ancora, mentre le sorelle escono dal villaggio di afflizione e dalla casa di lutto per incontrare, già adesso su questa terra, il Signore della vita. Il vero risorto non è Lazzaro, tornato alla vita mortale, ma le sue sorelle e quanti credono in Gesù, passati alla vita immortale.

In genere nel Vangelo di Giovanni c’è un racconto breve del segno, seguito da dialoghi e discorsi che lo illustrano. In quest’ultimo invece, come nel primo compiuto a Cana, parole e gesti si intrecciano con brevi annotazioni dell’evangelista, ottenendo uno svolgimento drammatico di grande efficacia. Questo racconto, come altri, è proprio di Giovanni. La sua struttura è simile all’episodio della figlia di Giairo (cf. Mc 5,22-24.35-43p). Troviamo un Lazzaro anche in Lc 16,19-31, dove il ricco epulone chiede che egli risusciti dai morti e sia

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inviato ai suoi fratelli. Può essere una reminiscenza del fatto narrato da Giovanni, utilizzato da Luca in una parabola. Da Luca conosciamo pure Marta e Maria (Lc 10,38-42).

Probabilmente Giovanni ha liberamente elaborato un evento storico in un racconto teologico, per illustrare che Gesù è risurrezione e vita. Posto alla fine del libro dei segni, dove si anticipa la gloria del Figlio, e prima della passione, dove si realizza, questo racconto mostra anche la causa e l’effetto della croce: Gesù è ucciso perché ci dà la vita, ma, proprio dando la vita, ci libera dalla morte.

Il capitolo si articola in due grandi parti diseguali: Gesù dà la vita (vv. 1-45) e per questo riceve la morte (vv. 46-54). Il protagonista del racconto non è Lazzaro, ma Gesù, nominato 22 volte. Anche i tre fratelli Marta, Maria e Lazzaro sono nominati 22 volte: rispettivamente 8 volte Marta, 8 volte Maria e 6 volte Lazzaro. Il tema è la fede in lui, risurrezione e vita. Il racconto, dopo l’antefatto (vv. 1-3), presenta Gesù, con i discepoli (vv. 4-16), con Marta e Maria (vv. 17-37), con Lazzaro (vv. 38-44) e, infine, le opposte reazioni nei confronti di lui, che sempre sta al centro dell’attenzione (vv. 45-53).

Tutti i personaggi sono in movimento: Gesù e i suoi discepoli da oltre il Giordano a Betania, i giudei da Gerusalemme, Marta dal villaggio, Maria da casa e Lazzaro dal sepolcro. Qui tutti si danno convegno, i già e i non ancora morti. La vita è un movimento, che inevitabilmente finisce nel rigore cadaverico della tomba. Lazzaro giace dentro; gli altri per ora stanno fuori. La Parola, che fece uscire dal nulla tutte le cose, nel Figlio dell’uomo si fa ascoltare anche dai morti, facendoli uscire dai sepolcri: è la nuova creazione, l’esodo definitivo dalla morte alla vita (cf. 5,24-29). «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri» (Ez 37,13).

Il messaggio primo del testo è Gesù come risurrezione e vita di quelli che credono in lui. Molti Padri hanno visto in Lazzaro, oltre che una prefigurazione di Gesù morto e risorto e della nostra risurrezione futura, anche un simbolo della vita nuova del battezzato, liberato dal peccato, vera morte dell’uomo (cf. Sap 2,24; Gen 3,19; Gb 18,5-21; Pr 11,19; Rm 5,12). Il testo, altamente simbolico ed evocativo, suggerisce varie interpretazioni. La risurrezione di Lazzaro fu chiamata da Pietro Crisologo «il segno dei segni». Ovviamente ogni singolo dettaglio è significativo, e spesso a vari livelli, come rileveremo nella lettura.

Il superamento della morte è il desiderio più profondo dell’uomo; egli non vuole che il suo essere al mondo abbia come destinazione il nulla. Se ciò che è bello e buono si tramutasse alla fine nella maschera brutta e cattiva della morte, che senso avrebbe vivere? Se il nulla fosse il fine di tutto, tutto sarebbe assurdo e nulla esisterebbe. Ma il nulla non può essere il fine, perché non può essere il principio della vita che effettivamente c’è. Il fine di ogni realtà corrisponde al suo principio.

Siamo destinati non all’annientamento, ma alla comunione con il Figlio e il Padre. Questo racconto ci presenta il cuore del messaggio cristiano, che risponde al bisogno di felicità e pienezza presente in ogni uomo. Seguendo questo desiderio, si può ragionevolmente aver fede nel Dio della vita e accettarlo. Si può anche rifiutarlo e aver fede nel nulla. Ma irragionevolmente, perché dal nulla non può venire nulla, mentre di fatto esistiamo e abbiamo quell’anelito di vita che ci costituisce uomini. Il rifiuto di Dio e della vita deriva, più che da una sua ragionevolezza, dal nostro modo tragico di concepire la morte, con i disturbi emotivi che ne conseguono. Da questo ci guarisce il presente racconto.

Gesù è risurrezione e vita. La risurrezione è una vita che non ignora la morte; anzi, passa attraverso di essa, dandole il suo vero significato.

La Chiesa crede che Gesù è il Figlio di Dio. Egli ha vissuto la sua morte violenta come dono della propria vita ai fratelli: in lui ci è offerta ora la possibilità di essere liberi dalla paura della morte, che ci tiene schiavi nell’egoismo, per vivere come lui nell’amore. Questa è la vita eterna, la vita piena che il Figlio è venuto a portare ai fratelli.

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2. Lettura del testov. 1: C’era un infermo, Lazzaro di Betania, del villaggio di Maria e Marta sua sorella.

La struttura di questo versetto richiama l’inizio del Vangelo, dove si parla della prima chiamata dei discepoli (cf. 1,44: «C’era Filippo di Betsaida, della città di Andrea e Pietro»). Qui siamo all’ultima chiamata, quella definitiva, che ci fa pienamente suoi discepoli.

«Betania» significa «casa del povero» o «dell’afflitto», e richiama l’altra Betania, al di là del Giordano (1,28), dove Giovanni il Battezzatore riconosce in Gesù il Figlio di Dio (1,34). Qui sarà riconosciuto da Marta (v. 27).

Lazzaro è «infermo»: non sta in piedi. Rappresenta ogni uomo che, davanti al male, prima vacilla, poi cade e infine muore. L’attività del Figlio dell’uomo è rialzare l’uomo dal suo male e risuscitarlo dalla morte. Lazzaro è l’unico miracolato di Giovanni che ha un nome proprio: è il primo che esce dal sepolcro per seguire il «pastore bello», che chiama ciascuna delle sue pecore per nome (cf. 10,3). Il suo nome significa «Dio aiuta»: nella morte, come nella nascita, nessuno se la cava da se stesso. Nessuno nasce senza madre, nessuno muore senza il Padre!

Al centro dei vv. 1-2 c’è Maria. Betania infatti è chiamato il villaggio di Maria, che unse i piedi di Gesù, Marta è indicata come sua sorella e Lazzaro come suo fratello (v. 2).

I termini fratello/sorella erano usuali per indicare i cristiani. Qui si tratta di una comunità che vive in ambito giudaico, come quella alla quale si rivolge il quarto Vangelo. Anch’essa, come tutti, si confronta con la malattia e la morte, chiedendosi cosa significhi in concreto che Gesù ci ha salvati.

v. 2: Maria era quella che unse il Signore con profumo, ecc. Si anticipa 12,1-3, dove si descrive la vita nuova della comunità, che festeggia il dono della vita con il servizio di Marta e l’amore di Maria. Amore per la presenza di chi si ama (vv. 3.5.11.36) e pianto per la sua assenza (vv. 31.33abis.35; cf. anche 33b.38) sono i sentimenti dominanti in questo racconto di risurrezione.

v. 3: colui che ami è infermo. Tra Gesù e i suoi discepoli c’è una relazione di amicizia, al cui inizio sta lui. L’origine di quanto compie per Lazzaro e per ogni uomo è questo amore che si preoccupa e si occupa dell’amico. Qualcuno ha voluto identificare Lazzaro con il discepolo «che Gesù amava» (13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20).

La fede nella risurrezione dai morti, in Israele, non è frutto di speculazioni filosofiche: è nata dall’esperienza che Dio ama il suo popolo, gli è amico e gli resta fedele sempre.

v. 4: questa infermità non è per la morte. Al paralitico Gesù dice di non peccare più, perché non gli accada di peggio (5,14). Del cieco nato dice invece che è senza peccato, come pure i suoi genitori: è così perché si manifestino in lui le opere di Dio (9,3). Anche «questa» infermità non è per la morte, ma per la gloria di Dio. C’è quindi un’infermità che conduce alla morte spirituale, che è quella prodotta dal peccato, e un’altra che conduce alla morte fisica, nella quale si rivela la gloria di Dio.

La parola «morte» qui è usata in due sensi, uno spirituale e uno fisico: ci può essere chi è fisicamente vivo, ma spiritualmente morto, e chi è fisicamente morto, ma spiritualmente vivo. La morte è il luogo primo di ogni equivoco sulla vita. Può infatti essere intesa come separazione da tutto o come comunione con Dio.

La malattia per la morte è il peccato: esso è il pungiglione che infetta la nostra esistenza (cf. 1Cor 15,56), rendendoci egoisti e chiudendoci all’amore del Padre e dei fratelli. Ma dove ha abbondato il peccato, sovrabbonda la grazia (cf. Rm 5,20): ora ogni malattia e morte può diventare «per la gloria di Dio», che a tutti usa misericordia (cf. Rm 11,32).

ma per la gloria di Dio, perché attraverso di essa sia glorificato il Figlio. «La gloria di Dio è l’uomo vivente»; la glorificazione del Figlio è la croce. Lazzaro, restituito alla vita, rivela la gloria di Dio e sarà causa della decisione di uccidere Gesù (vv. 47-53).

v. 5: Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Si sottolinea ancora l’amore di Gesù per i tre fratelli.

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v. 6: dimorò nel luogo dov’era due giorni. Gesù rimane dove si trova e lascia che l’amico muoia. Se fosse andato, non sarebbe morto (cf. vv. 15.21.32). Volutamente arriverà tardi.

Quando stiamo male, chiediamo dov’è il Signore, perché non agisce. A noi pare che rimandi il suo intervento e che l’ultima parola spetti alla morte.

v. 7: andiamo di nuovo in Giudea. Due giorni dopo l’annuncio della malattia dell’a-mico, quando sa che ormai il suo destino è compiuto, Gesù propone ai discepoli di tornare in Giudea. Da lì s’era da poco ritirato per l’ostilità incontrata da parte di chi ha il potere.

v. 8: cercavano dì lapidarti e di nuovo vai lì? (cf. 7,1; 8,59; 10,31.39). È l’obiezione dei discepoli a Gesù: temono la morte sua e loro. Gesù torna a Gerusalemme per l’ultima volta.

v. 9: non sono forse dodici le ore del giorno, ecc. «Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare» (9,4). «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce» (12,35s). Gesù invita i discepoli a seguirlo. Il giorno è lui, in cui splende il sole dell’amore del Padre: di esso vive e per questo è luce del mondo (8,12).

v. 10: se uno cammina nella notte inciampa. Viene la notte, quando nessuno può operare (9,4). Per i discepoli sarà il momento della prova e della caduta. Tutti saranno scandalizzati: percosso il pastore, le pecore saranno disperse (cf. Mc 14,27). Anche Pietro lo rinnegherà (13,36-38; 18,16-18.25-27). Il discepolo fallirà come discepolo: abbandonerà e lascerà solo il suo Signore (16,32).

v. 11: Lazzaro, il nostro amico. Lazzaro è chiamato «il nostro amico». Si ribadisce per la terza volta che l’amore del Signore per noi e la nostra amicizia con lui, che ci fa amici tra di noi, è principio di risurrezione e vita.

dorme. Per noi la morte è la fine di ogni speranza. Per Gesù invece, sulla linea della rivelazione biblica, è termine del giorno vecchio e inizio del sonno ristoratore, cui segue il risveglio di un nuovo giorno. La morte è sdrammatizzata: non è sprofondare nel buio, ma riposo pacificatore, popolato dai sogni segreti del cuore. La parola «cimitero» significa «dormitorio». Siccome il Figlio gli è amico e lo ama, Lazzaro, come ogni uomo, anche se è morto, vive. Amare uno significa dirgli: «Tu non morrai». Alla luce dell’amore del Figlio, la morte non è più l’attesa angosciante, l’abisso che risucchia, la tragedia della vita: è comunione con il Padre.

«È per nascere che si è nati!». Se la nostra gestazione alla nascita terrena è di nove mesi e, normalmente, va da sé, quella alla nascita divina può essere di novant’anni ed è lasciata alla nostra libertà. Alla fine apriamo gli occhi e veniamo alla luce: vediamo la nostra luce.

Circa i morti, i credenti non sono nell’afflizione come coloro che sono senza speranza perché ignorano l’amore del Padre (cf. 1Ts 4,13). Costoro vivono sotto il dominio del divisore, che li tiene schiavi per tutta la vita con la paura della morte (cf. Eb 2,14s): vivono la morte giorno dopo giorno, in attesa della fine. Il cristiano invece vive già fin d’ora la vita eterna, nell’amore di colui che lo ha amato e ha dato se stesso per lui (cf. Gal 2,20).

v. 12: se dorme sarà salvato. I discepoli pensano che si tratti del sonno naturale, buon segno per un infermo. Ignorano che si parla della morte. La salvezza viene proprio da lì, sia per il Figlio che per i fratelli. Se il sonno serale è medicina ai mali di un giorno, l’ultimo è medicina ai mali di una vita.

v. 13: aveva parlato della sua morte; quelli invece pensarono, ecc. L’evangelista sottolinea l’equivoco: per Gesù la morte è un sonno, per i discepoli è ancora la fine di tutto.

v. 14: Lazzaro è morto. Gesù ha atteso che Lazzaro morisse. Dopo aver parlato di sonno e di risveglio, chiarisce l’equivoco: sta parlando della morte, dalla quale lo risveglia per rivelare la gloria di Dio.

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Nella Bibbia sono raccontati sette ritorni in vita dopo la morte, due nell’AT e cinque nel NT: i figli della vedova (1Re 17,17-24) e della Sunammita (2Re 4,18-37), risuscitati rispettivamente dai profeti Elia ed Eliseo, la figlia di Giairo (Mc 5,22-24.35-43p), il figlio della vedova di Naim (Lc 7,11-17) e Lazzaro (Gv 11,1ss), risuscitati da Gesù,Tabità (At 9,36-42) ed Eutico (At 20,9ss), risuscitati rispettivamente dagli apostoli Pietro e Paolo.

v. 15: gioisco per voi. Sembra assurdo: annunciando che l’amico Lazzaro è morto, gioisce per i suoi discepoli di non essere stato là per guarirlo.

affinché crediate. La risurrezione di Lazzaro sarà per i discepoli il segno che fa loro credere in Gesù come risurrezione e vita.

andiamo da lui. Gesù esorta i discepoli ad andare da Lazzaro. Anche se il morto, separato da tutti, non è più amico di nessuno, il Signore gli resta amico e gli viene incontro. La sua decisione di andare verso l’amico corrisponde a quella di andare verso la propria morte, piena anche per lui di desiderio e di angoscia (12,27s; cf. Lc 12,50; 22,15).

v. 16: Tommaso, detto gemello, disse: Andiamo anche noi a morire con lui. Tommaso è chiamato «gemello»: è «l’altro» di Gesù, disposto a morire non «per» lui, come Pietro, (cf. 13,37), ma «con» lui. Non sa ancora che, per Gesù, il suo morire è un dare la vita a favore dei fratelli, per riceverla di nuovo (10,17).

Qui termina il confronto tra Gesù e i discepoli, che d’ora in poi resteranno sullo sfondo, sostituiti da Marta, Maria e Lazzaro.

v. 17: venuto dunque Gesù, lo incontrò. Gesù «incontra» l’amico Lazzaro che è già morto. Se all’inizio il discepolo arriva a Gesù per la chiamata di un altro che l’ha incontrato (cf. 1,41.43.45), alla fine è incontrato direttamente dal Signore, che lo chiama a uscire dal sepolcro. È la chiamata definitiva del «pastore bello».

già da quattro giorni era nel sepolcro. Si riteneva che dopo tre giorni la morte fosse definitiva, perché al quarto comincia la decomposizione.

Il numero quattro indica anche totalità: quattro sono gli elementi, quattro le direzioni. Ogni realtà, da ogni direzione, confluisce nella morte. Sepolcro in greco si dice mnemeîon, che ha la stessa radice di «memoria» e di «morte», come anche di méros (= parte, eredità) e di moîra (= sorte). L’uomo sa che è terra, da essa viene e ad essa ritorna: è memoria di morte. Questa è la sua sorte, la sua parte di eredità, che sempre ricorda.

v. 18: Betania era vicina a Gerusalemme. La morte/risurrezione di Lazzaro, avvenuta a Betania, richiama quella di Gesù, che presto avverrà a Gerusalemme.

v. 19: molti giudei erano venuti. Sono amici di Marta e Maria, venuti a consolarle. La solidarietà nel lutto è principio di «umanità»: ognuno si riconosce partecipe del destino del-l’altro. I giudei possono spendere buone parole sulla risurrezione futura; però non sanno dar vita a un morto o dare ai vivi, in attesa di morte, quella vita che vince la morte.

v. 20: Marta ascoltò che Gesù viene, ecc. L’ascolto della venuta di Gesù la fa uscire dal villaggio di afflizione per andare all’incontro con il Signore che viene. Principio di ogni cammino di fede è ascoltare, uscire e andare all’incontro con colui che viene.

Maria invece sedeva nella casa. Maria è ancora bloccata in casa, nel suo dolore. Sarà chiamata dalla sorella, dopo che avrà incontrato il Signore.

v. 21: Signore, se fossi stato qui, ecc. Gesù, all’annuncio della malattia di Lazzaro, dimorò dov’era due giorni (v. 6) e disse ai discepoli di essere contento per loro di non essere stato a Betania (v. 15), altrimenti avrebbe soddisfatto l’attesa qui espressa da Marta, poi da Maria (v. 32) e infine dai giudei (v. 37). La nostra richiesta è sempre la stessa: che il Signore ci salvi dal dolore e dalla morte. A che serve un Dio che non aiuta? Secondo noi è assente proprio nel momento del bisogno. Quando vorremmo che «fosse qui», lui sembra costantemente altrove.

v. 22: so che tutte le cose che chiedi a Dio, ecc. Marta si aspetta un miracolo (cf. 2Re 4,8ss). Sa che Gesù, se fosse stato lì, avrebbe guarito suo fratello; sa anche che è in grado di farlo tornare in vita, perché da Dio ottiene tutto (cf. v. 41s). Ha fiducia che rianimerà Lazzaro.

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Il Signore lo farà, ma come occasione per rianimare in lei la fiducia in lui, vita senza tramonto.

v. 23: risorgerà tuo fratello. La risposta di Gesù sembra una consolazione generica, che richiama alla speranza nella risurrezione dell’ultimo giorno (cf. 6,48-51.54).

v. 24: so che risorgerà nella risurrezione nell’ultimo giorno. La risposta di Marta denota una certa delusione: Gesù non sembra esaudire la sua richiesta. L’ultimo giorno è per lei lontano; la speranza di esso non toglie il suo dolore. Anche lei sa che Dio, alla fine, eliminerà la morte per sempre (Is 25,8): crede alla grande promessa, compimento della creazione. Ignora però che l’ultimo giorno è già presente in Gesù, che dà lo Spirito (cf. 7,37-39).

v. 25: Io-Sono la risurrezione e la vita. Gesù si rivela con la formula: «Io-Sono». Egli è per noi risurrezione, presente e futura, perché in se stesso è vita: l’ha ricevuta dal Padre e la comunica ai fratelli. La risposta di Gesù si pone a un livello più alto del desiderio di Marta. Ciò che ha chiesto le sarà concesso; ma questo è niente di fronte al dono che vuol farle, più grande di ogni sua attesa.

chi crede in me, anche se muore, vivrà. La fede in Gesù non ci salva dalla morte, ma ci dà qui e ora la vita eterna: è venuta l’ora, ed è adesso, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno (5,25). Noi tutti siamo dei morti viventi, in marcia verso il sepolcro; ma se ascoltiamo la voce del Figlio, vinciamo la morte. Infatti «chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (5,24). Ascoltare la sua parola è amare i fratelli: questo è il suo comando (13,34), che ci fa passare dalla morte alla vita. Infatti, chi ama, non dimora nella morte (cf. 1Gv 3,14), ma in Dio, che è amore (1Gv 4,16b). Credere in lui è già vivere oltre la morte: si muore fisicamente, ma si «vivrà» in lui quella vita nell’amore che inizia ora e si manifesterà, senza veli, nell’ultimo giorno.

v. 26: chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Gesù offre la possibilità di vivere «in lui». La fede infatti ci fa abitare in lui come lui in noi, ci fa vivere di lui, pane di vita (cf. 6,48-58). Chi vive e crede nel Figlio, pur morendo, non morrà in eterno: per lui la morte non sarà chiudere, ma aprire gli occhi su ciò che già ora ha in sé: l’amore del Padre e del Figlio. Questa è la vita eterna, pegno di risurrezione futura, che ci fa esporre, disporre e deporre la vita a favore dei fratelli, per realizzarla pienamente (cf. 10,11-18).

credi questo? In genere la fede riguarda la persona di Gesù, il Vangelo o Dio. Qui invece, sorprendentemente, riguarda quanto Gesù ha detto: lui infatti è la sua stessa parola. Marta deve passare da una fede nel suo potere miracolistico a quella fede che incontra Gesù e accetta la sua parola.

v. 27: sì, Signore. Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio. Marta dimentica la sua domanda iniziale e risponde alla domanda, ben più importante, del Signore. La vera risurrezione è la sua, non quella di Lazzaro, perché crede in Gesù come Cristo e Figlio di Dio. Se il fratello uscirà dal sepolcro, per questa sua fede Marta nasce alla vita stessa di figlia di Dio. La sua è la fede alla quale il Vangelo vuol portare il lettore: credere che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, per avere la vita nel suo nome (20,31). Infatti chi crede in lui non muore, ma ha vita eterna (3,16b): egli è la Parola, vita di tutto ciò che è (cf. 1,1-3). Marta giunge alla fede piena in Gesù, come il Battista prima di lei (1,34). A questo punto la sua attenzione non è più sulla morte del fratello o sull’attesa della sua restituzione alla vita: è tutta concentrata su Gesù, che dona qui e ora la vita a chi lo ascolta.

Gesù non è venuto per ridare a un cadavere la vita vecchia, ma per «risuscitare» a una vita nuova chi crede in lui. Non sarebbe stato un servizio da amico far vivere e morire due volte, come non bastasse una volta sola! Egli vuol farci vivere, nella nostra condizione mortale, la vita eterna, che è l’amore per il Padre e per i fratelli.

v. 28: detto questo, andò a chiamare Maria, ecc. Dopo la sua adesione a Gesù, nel quale ha trovato ciò che cercava, Marta va da sua sorella. La scoperta di una diventa chiamata per

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l’altra: la sorella invita la sorella ad andare dal «Maestro», che la chiama all’incontro con lui. Qui, come nei racconti di Pasqua, le donne hanno il ruolo principale: rispetto agli uomini, hanno più dimestichezza con la realtà, con la vita e la morte.

dicendo di nascosto. Marta parla di nascosto perché sono presenti i nemici di Gesù. Questa «comunità di fratelli» in Betania è immagine di tante comunità che vivono in ambiente ostile.

v. 29: appena ascoltò, si destò veloce e veniva da lui. L’annuncio di Marta è efficace: Maria si leva da dove si trova per uscire veloce all’incontro con il Signore della vita. Per Maria si usano i verbi «destarsi» e «risorgere» (cf. v. 31), con i quali si indica la risurrezione di Gesù stesso. Maria, uscendo dalla casa e dal villaggio per correre incontro al Signore che la ama e che ama (cf. 12,1ss), si risveglia e risorge a vita nuova. La vera risurrezione è per lei come per Marta, perché incontra Gesù, sua vita.

La velocità di Maria, sottolineata anche al v. 31, è la sollecitudine propria dell’amore.v. 30: Gesù non era ancora giunto nel villaggio, ecc. L’evangelista annota che Gesù

non è entrato neppure nel villaggio. Prende l’iniziativa e ci viene incontro; ma attende che noi andiamo nel luogo dove si fa trovare. Incontra Maria dove ha incontrato Marta, fuori dal luogo dove si celebra il lutto. Per tutti è necessario uscire dal villaggio e dalla casa di morte per incontrare la vita.

v. 31: i giudei che erano in casa, ecc. Questi giudei, seguendo Maria che pensano vada al sepolcro, si trovano davanti a colui che dona la vita. Anch’essi sono chiamati a credere in lui, per passare dalla morte alla vita.

v. 32: Signore, se fossi stato qui, non sarebbe morto mio fratello. Il desiderio di Maria è lo stesso di Marta. È quello di ogni uomo: l’attesa impossibile di non morire (cf. v. 37). Anche lei non sa ancora che c’è una qualità di vita che va oltre la morte.

v. 33: Gesù, quando la vide piangere e piangere i giudei. Davanti alla morte non resta che il pianto. È il dolore, rabbioso o rassegnato, per la perdita di ciò che più ci sta a cuore. Davanti alla morte, tutti, poveri e ricchi, saggi e stolti, siamo ugualmente sconfitti: impossibile ogni azione, resta solo questa reazione.

La risposta di Gesù a Maria, che lo ama e piange per il fratello, è diversa da quella data a Marta: mostrerà non «che», ma «come» il Signore è risurrezione e vita: mediante la sua «com-passione», che farà passare anche lui attraverso il pianto della morte.

La morte ci priva di tutto, senza risparmiare nulla. Lascia solo il pianto a chi, non ancora morto, sopravvive ricordando chi l’ha preceduto. Essa regna sovrana: ogni potente le offre il collo, ogni vita si spezza. È salario del peccato (Rm 6,23), suo pungiglione velenoso (cf. 1Cor 15,56). Senza il peccato la morte non sarebbe avvelenata: la nostra fine sarebbe il ricongiungimento con il nostro principio, il ritorno al Padre, l’incontro con lui. Ma il peccato ci ha fatto rifiutare il nostro principio e il nostro fine, ci ha fatto fuggire da lui e ci ha chiusi in noi stessi, nel disperato tentativo di salvarci.

La morte, così come noi attualmente la viviamo, è entrata nel mondo a causa del peccato e ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato (Rm 5,12). Esso ha fatto sì che la nostra fosse una vita-per-la-morte.

fremette nello spirito e si turbò (cf. Sal 42,6.12; 43,5). Il verbo «fremere» significa letteralmente «sbuffare, ansare»: esprime indignazione e ira. Gesù freme dentro di sé contro il male dell’uomo: è l’ira di Dio, che interviene a salvarlo. Il nostro male lo turba profondamente, più che se fosse suo; lo sconvolgerà fino a morirne (cf. 12,27). Tutta la Bibbia rivela l’azione di Dio come passione per l’uomo, che culmina nella «com-passione» della croce, dove «patisce-con» noi il nostro stesso male.

La compassione (in greco si dice sympâtheia, simpatia), con la pietà e la misericordia, sue parenti, non è un semplice turbamento dell’animo, disdicevole per un saggio e comunque impotente. È quel sentire tipico dell’uomo che lo rende simile a Dio, tanto potente da superare anche la soglia ultima della solitudine, la morte. Facendo il verso all’imperativo: «Siate santi,

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perché io sono santo» (Lv 11,44), Gesù specifica in cosa consista la sua santità: «Diventate misericordiosi così come anche il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Compatire è principio universale di ogni agire umano: l’azione che non nasce dalla compassione, è prevaricazione sull’altro.

La compassione non è il sentimento di chi è debole, ma di chi ha la forza di Dio, che è amore. «La compassione uccide»; ma anche dà vita: a chi compatisce, dà la vita di Dio e a chi è compatito, una compagnia più forte della morte. Per questo Giobbe, davanti al dolore, unico problema dell’uomo, chiede agli amici che cessino ogni spiegazione e gli accordino semplicemente compassione (cf. Gb 19,21).

v. 34: dove l’avete posto? Il Signore sa dov’è l’amico: là dove siamo tutti, prima con il ricordo e poi con il corpo. Vuole che ne prendiamo coscienza, per uscirne e andare nel luogo dove si incontra lui (cf. v. 30). La prima domanda di Dio ad Adamo è: «Dove sei?». Il cammino di Dio in cerca dell’uomo, cominciato nell’Eden, termina nel sepolcro: lì vede dove noi, i sopravvissuti, abbiamo posto i deceduti, in attesa di essere aggiunti a loro.

Signore, vieni e vedi. Ai discepoli che gli chiedevano: «Dove dimori?», Gesù rispose: «Venite e vedrete» (l,38s). Al Figlio che chiede dove hanno fissato la loro dimora, i fratelli rispondono: «Vieni e vedi!». «Signore, vieni e vedi» è l’invocazione di ogni uomo. Squarcia i cieli e scendi (Is 63,19) nelle nostre tenebre; apri gli occhi, guarda la nostra miseria e vieni a salvarci.

v. 35: Gesù versò lacrime. Mentre gli altri piangono, con clamore, Gesù lacrima. Le sue lacrime però non sono impotenza di dolore, ma potenza di amore: è il pianto di Dio per il male dell’uomo che ama.

v. 36: come lo amava. Proprio perché lo amava – e lo ama ancora! – scaturiscono da lui lacrime di com-passione: patisce il male dell’amico morto. «Chi ha sete venga a me e beva» (7,37): gli assetati di vita si possono dissetare a questa fonte. Dagli occhi di colui che è la luce del mondo sgorga l’acqua che ci fa venire alla luce. Il suo amore lo porterà a venire e vedere dove stiamo, sino a condividere la nostra sorte: allora dal suo cuore scaturirà per noi la sorgente di vita. Come la sua sete (cf. 4,7; 19,28) estinguerà ogni nostra sete, così le sue lacrime asciugheranno ogni nostra lacrima. Esse feconderanno la terra e faranno germinare il seme nascosto. Lazzaro stesso si leverà dal suolo, primo stelo di una messe sterminata di fratelli.

v. 37: non poteva costui, che aprì gli occhi del cieco, ecc. La risurrezione di Lazzaro è connessa al miracolo del cieco: la vera illuminazione è davanti al buio della morte. La gente si aspettava solo che Gesù gli ritardasse la sorte comune: è l’ossessione costante dell’uomo. Gesù invece compie il miracolo di aprirci gli occhi sulla morte, per liberarci dalla paura che essa incute e con la quale ci tiene schiavi. Essa non è la fine, ma il fine della vita, non è l’oscurità del nulla, ma la luce della Gloria, non è separazione da tutto, ma incontro con il Padre di tutti. Questa illumi-nazione è la vita eterna che l’ascolto del Figlio ci dona. Ciò che avviene a Lazzaro è segno di ciò che avviene a chi ascolta le parole di Gesù: «Io-Sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà. E chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (vv. 25s). Il passaggio dalla morte alla vita è quanto avviene in Marta, che dice: «Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio» (v. 27); è quanto avviene in Maria, che «si desta» e «risorge» per correre verso Gesù. Questa fede in lui è la vita eterna (20,31).

v. 38: Gesù, fremendo in se stesso, viene al sepolcro. Il cammino di Gesù che viene a vedere il luogo dove hanno posto l’amico Lazzaro, è incluso nella duplice menzione del suo fremito interiore (vv. 33.38). Qui, al sepolcro, dove termina il cammino dell’uomo, cessa ogni fuga da Dio. Qui arriva anche il faticoso cammino del Figlio in cerca dei fratelli: sarà la fatica dell’ora sesta, quella della croce (19,14; cf. 4,6).

Terminato il dialogo con le sorelle, ora comincia quello con Lazzaro. La voce del Figlio farà uscire dal sepolcro il fratello morto, che diventerà gloria di Dio e causa della sua glorificazione sulla croce.

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era una grotta. Questo sepolcro è una grotta, una cavità della madre terra, quasi grembo di vita diventato fossa di morte, bocca che mangia i figli che ha generato.

Nella grotta di Macpela, primo pezzo di terra promessa, fu sepolta la matriarca Sara (cf. Gen 23,1ss); e dopo di lei i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. In questa grotta stanno coloro che hanno dato origine al popolo; chi muore si ricongiunge ai suoi padri, che già sono morti.

una pietra giaceva sopra di essa. Questa pietra è principio di ogni separazione: distingue vita da morte. Essa chiude la grotta e vi sigilla dentro la tenebra, facendo della spelonca il «monumento» (mnemeîon), memoria fondamentale, rimossa eppur visibile, dell’uomo. L’uomo è humus, terra: è «umano» perché sa di essere humandus, da inumare, da porre sotto terra. Il sepolcro è «il segno» originario, il tumulo, una tumefazione della terra che indica ciò che resta di un corpo umano – segno che sta all’origine di ogni possibilità di significato. In greco la parola sôma (= corpo) richiama sêma (= tumulo, segno). L’uomo, corpo significante, per breve tempo esce dalla terra per farvi ritorno. La sua esistenza è un breve ricordo di morte, librato sul sepolcro, che presto lo risucchia.

v. 39: sollevate la pietra. È l’ordine di Gesù. Il Figlio è venuto per togliere questa pietra che separa i fratelli dalla vita. Nella sua risurrezione essa rotolerà via definitivamente, benché sia molto grande (cf. Mc 16,4), tanto grande da gravare su tutti.

già puzza. Il racconto era iniziato con il ricordo del profumo di Maria (v. 2); ora Marta parla di fetore. Che altro può uscire da una tomba scoperchiata? Fin che non conosciamo la luce del Figlio e viviamo schiavi della morte, la nostra vita è infestata di lezzo: il nostro volto diventa la maschera funebre di noi stessi, in attesa che ogni forma si decomponga e ogni bellezza svanisca.

è infatti di quattro giorni. Al quarto giorno dal decesso non c’è più speranza di vita. Quattro è anche il numero di totalità (cf. commento al v. 17): siamo al quarto giorno in cui regna la morte. In realtà ogni nostro giorno è sotto il suo dominio. Il primo è quello in cui nasciamo, eredi sicuri della tomba; il secondo è quello in cui cresciamo, soggiogati dalla paura della morte; il terzo è quello del nostro ritorno alla terra; il quarto è quello oltre la morte, che per tutta la vita ci prefiguriamo come separazione definitiva dalla luce.

v. 40: non ti dissi che, se credi, vedrai la gloria di Dio? La gloria di Dio, che si manifesterà attraverso la vicenda di Lazzaro (cf. v. 4), è la fede in Gesù come risurrezione e vita (cf. vv. 25-26). Se crediamo in lui e viviamo del suo amore, siamo già passati dalla morte alla vita (cf. 1Gv 3,14). Il lezzo lascia il posto al profumo; invece del volto sfatto dalla morte, vediamo l’uomo vivente, gloria di Dio.

v. 41: sollevarono la pietra. Sulla parola di Gesù è tolta la pietra, dietro la quale pensiamo che ci sia tutto ciò che temiamo. Tolta la pietra, la luce entra nelle tenebre.

Gesù sollevò gli occhi in alto. Noi sempre guardiamo in basso, verso la pietra, sulla quale proiettiamo le nostre paure. Gesù invece guarda in alto, verso il Padre della vita: «Tengo i miei occhi rivolti al Signore, perché libera dal laccio il mio piede» (Sal 25,15).

Padre, ti ringrazio perché mi ascoltasti. Gesù non chiede nulla. Ringrazia il Padre perché sempre ascolta il Figlio, come il Figlio sempre ascolta il Padre; vivono infatti dell’unico Spirito, che è il loro amore reciproco. È la seconda volta che Gesù ringrazia il Padre. Nella prima ringraziò per il pane, segno del dono della sua vita di Figlio; ora ringrazia perché questa è comunicata a chi ascolta la sua voce.

v. 42: lo dissi a causa della folla che sta intorno, perché credano, ecc. Gesù ringrazia il Padre ad alta voce, perché chi lo ascolta, creda in lui, il Figlio inviato dal Padre.

v. 43: con gran voce urlò (cf. 12,13; 18,40; 19,6.12.15; cf. gridò: 7,28.37; 12,44). Questo urlo scaturisce da un’azione di grazie al Padre della vita. Il Figlio dell’uomo urla; e quanti sono nei sepolcri odono la sua voce di tromba: è l’anticipo della risurrezione finale (cf. 5,28s).

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Lazzaro. Gesù chiama Lazzaro, il morto, per nome; lo chiama presso di sé, alla sua sequela (cf. Mc 1,17; Mt 4,19): «Hai gridato, hai infranto la mia sordità» (sant’Agostino).

qui. Il suo luogo non è il sepolcro, ma il Figlio. Anche i morti sono del Signore, suoi discepoli, chiamati per nome.

fuori. Lazzaro è chiamato ad uscire dal sepolcro, come noi a uscire dal ricordo di morte. Ciò che avviene a Lazzaro è segno di ciò che avviene in noi: tolta la pietra che ci separa da quelli che ci hanno preceduto, è ristabilita la comunione piena tra i fratelli. Tutti infatti, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con il Signore (cf. 1Ts 5,10): viviamo per Dio, che è un Dio dei vivi e non dei morti (cf. Lc 20,37s). Questa prospettiva di una morte-per-la-vita ci toglie dall’incubo di una vita-per-la-morte, che rende insensata e disperata la nostra esistenza, incapace di gioire e di amare pienamente.

v. 44: uscì il morto, legato ai piedi e alle mani con bende, ecc. Nel mattino di Pasqua, bende e sudario non saranno sul corpo di Gesù (20,5-7). Lazzaro, invece, porta ancora i segni della morte, che tornerà a visitarlo: la sua risurrezione è solo provvisoria.

Quest’immagine di Lazzaro, tornato in vita con addosso il velo e i legami della morte, mostra come noi pensiamo i morti: delle larve avvolte nell’ombra. Siccome sappiamo di finire così, conduciamo un’esistenza triste, incapaci di camminare e vivere nell’amore. I nostri piedi e le nostre mani sono legati nel seguire il Signore e nello spezzare il pane; il nostro volto, coperto dal sudario, non riflette la sua gloria.

slegatelo. È l’ordine di Gesù a coloro che guardano Lazzaro: è l’ordine rivolto a noi, che guardiamo ancora la morte come fine della vita. Siamo chiamati ad abbandonarne i segni e lasciarli nel sepolcro: saranno il trofeo della vittoria pasquale (cf. 20,5-7). Allora saremo capaci di gioire e amare, abbandonati al Padre ed ai fratelli, in ascolto della parola del Figlio, nel quale crediamo e viviamo.

lasciate. Dobbiamo lasciare, congedare il defunto dal nostro modo di pensare la morte, per essere anche noi riconciliati con la vita.

che se ne vada. La morte infatti non è più morte: è come quella di Gesù, che «se ne va» verso il Padre della vita (cf. 7,33; 8,21; 13,3.33.36; 14,4-5.28; 16,5-10.17). In quel giorno apriremo definitivamente gli occhi e non lo vedremo più come in uno specchio, in maniera confusa, ma faccia a faccia (1Cor 13,12). E saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3,2). Sarà il giorno della nostra nascita, in cui verremo alla luce piena della nostra realtà di figli di Dio.

Splendidamente sant’Ambrogio sente rivolte a sé, peccatore, queste parole di Gesù, come chiamata a uscire da quella tomba che lui è per se stesso: «Possa tu, Signore, degnarti di venire a questa mia tomba, di lavarmi con le tue lacrime, poiché nei miei occhi inariditi non ne ho tante da poter lavare le mie colpe! Se piangerai per me, sarò salvo. Se sarò degno delle tue lacrime, cancellerò il fetore di tutti i miei peccati. Se sarò degno che tu pianga qualche istante per me, mi chiamerai dalla tomba di questo corpo e dirai: “Vieni fuori” (11,43), perché i miei pensieri non restino nello spazio ristretto di questo corpo, ma escano incontro a Cristo e vivano alla luce, perché non pensi alle opere delle tenebre, ma alle opere della luce. Chi pensa al peccato, cerca di chiudersi nella propria coscienza. Chiama dunque fuori il tuo servo. Quantunque, stretto nel vincolo dei miei peccati, io abbia avvinti i piedi, legate le mani e sia ormai sepolto nei miei pensieri e nelle “opere morte” (Eb 9,14), alla tua chiamata uscirò libero e diventerò “uno dei commensali” (12,2) nel tuo convito. E la tua casa si riempirà di prezioso profumo, se custodirai ciò che ti sei degnato di redimere».

v. 45: molti dei giudei, che erano venuti, ecc. Molti dei giudei presenti credono in Gesù.v. 46: alcuni di loro andarono dai farisei. Alcuni invece lo denunciano: lo stesso segno

fa venire alla luce chi è cieco e accieca chi crede di vedere.v. 47: che facciamo? I capi dei sacerdoti e i farisei riuniscono il sinedrio per decidere il

da farsi. Al fare di Gesù che dà vita ai morti, si contrappone il fare di chi dà morte ai vivi. Il

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segno di Lazzaro, che rivela la gloria del Dio della vita, sarà anche causa della glorificazione del Figlio, ben presto elevato sul patibolo.

v. 48: verranno i romani e porteranno via, ecc. Ciò che muove la loro decisione è la paura dei romani, che distruggeranno e tempio e popolo. Infatti, se Gesù è il Messia, interverranno pesantemente per stroncare ogni pretesa di libertà. Non hanno capito che i romani faranno con loro esattamente come essi fanno con il Messia. Egli è venuto non a liberarli dai romani, ma a liberare loro e i romani dal gioco di morte che tutti facciamo. Il Signore, che in una notte fece uscire Israele dall’Egitto, non riuscirà in quarant’anni a far uscire l’Egitto dal cuore di Israele. E, se la sua storia è anticipo di ciò che accade a noi (1Cor 10,11), si può pensare che, in duemila anni, non sia ancora riuscito a liberare il nostro cuore.

v. 49: Caifa, essendo capo dei sacerdoti in quell’anno, ecc. È il capo del sinedrio, che detiene il potere, anche se subordinato ai romani. Ambedue, sinedrio e imperatore romano, sono sudditi della morte. Ma essa, alla fine, sarà assoggettata al Signore della vita, che è venuto a vedere il luogo dove abbiamo posto l’uomo.

v. 50: conviene che un solo uomo muoia per il popolo. Caifa dice il significato della morte di Gesù: è l’uomo, il solo, che muore a vantaggio di tutti, perché nessuno perisca.

v. 51: non disse questo da se stesso, ecc. Suo malgrado, in quanto capo dei sacerdoti, quella di Caifa è una profezia, che l’evangelista annota e interpreta. È la profezia che, da Abele all’ultimo giusto, svela la verità della storia: è sempre il giusto che paga l’ingiustizia. Egli porta il male degli altri, a salvezza di tutti.

v. 52: non solo per la nazione, ma per radunare in unità, ecc. Nel disegno di Dio la morte di Gesù non solo salva il popolo ebraico, ma raduna in unità i suoi figli dispersi nel mondo. Figli di Dio sono tutti gli uomini, che tali diventano, al di là di ogni distinzione di religione e di razza, credendo nel Figlio e amando i fratelli e il Padre. Per questo è importante l’annuncio del Vangelo, perché tutti conoscano la verità che fa liberi. Ciò che c’è, per chi lo ignora, è come se non ci fosse. Delle cose necessarie rimane però il desiderio, che, almeno alla fine, sarà appagato.

v. 53: da quel giorno dunque deliberarono di ucciderlo. Il giorno in cui Gesù dona la vita, è lo stesso in cui decidono la sua morte. Vita per vita; vita a caro prezzo, a prezzo della propria morte. Finisce così il suo giorno e viene la sua «ora», in cui svelerà la Gloria.

v. 54: Gesù non camminava più, ecc. Gesù scompare; si ritira in una regione vicina al deserto, nella città di Efraim, in Samaria, dove si era rivelato salvatore del mondo.

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando il cammino di Gesù verso il villaggio e dal villaggio alla

tomba.c. Chiedo ciò che voglio: credere alle parole di Gesù, risurrezione e vita di chi crede in

lui.d. Contemplo di seguito le varie scene: Gesù e i discepoli, Gesù e Marta, Gesù e Maria,

Gesù e Lazzaro.

Da notare:• Maria, Marta e Lazzaro di Betania• Maria profumò i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli• Lazzaro era infermo• Signore, colui che ami è infermo• questa infermità non è per la morte, ma per la gloria di Dio e la glorificazione del

Figlio• Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro• Gesù aspetta che l’amico muoia

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• le obiezioni dei discepoli ad andare in Giudea: temono la morte• Lazzaro dorme: vado a risvegliarlo• Lazzaro è morto: andiamo da lui• andiamo anche noi a morire con Gesù• Marta va incontro a Gesù• se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Ma so che Dio ti concede quanto

gli chiedi• risorgerà tuo fratello• so che risorgerà nell’ultimo giorno• io sono la risurrezione e la vita• chi crede in me, anche se muore, vivrà• chiunque vive e crede in me non morirà in eterno• credi questo?• credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio• Marta chiama Maria, che va veloce da Gesù• tutti piangono; Gesù, turbato, lacrima• dove l’avete posto?• vieni e vedi• togliete la pietra• già puzza: è di quattro giorni• Gesù prega ad alta voce il Padre, perché noi ascoltiamo e crediamo in lui• Lazzaro, qui, fuori!• slegatelo e lasciatelo andare• molti credettero in lui• la decisione di uccidere Gesù per salvare tutti• Gesù si ritira con i suoi discepoli, in attesa della Pasqua imminente.

4. Testi utiliSal 16; 23; 1Re 17,17-24; 2Re 4,18-37; 2Mac 7,1ss; Is 25,6-12; Ez 37,1-14; Sap 3,1-9;

4,7-19; 5,15s; Gv 5,24-29; 6,48-58; Mc 5,21-43; Lc 7,11-17; 1Cor 15,1ss; Rm 6,1-11.

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29. UNSE I PIEDI DI GESÙ11,55-12,11

11,55 Era vicina la Pasqua dei giudeie salirono molti dalla regione a Gerusalemme,prima della Pasqua,per santificarsi.

56 Cercavano dunque Gesùe dicevano l’un l’altro stando nel tempio:

Che vi pare?Non verrà per la festa?

57 Ora i capi dei sacerdoti e i fariseiavevano dato ordiniche, se uno sapessedov’era,avvisasse,per catturarlo.

12,1 Allora Gesù, sei giorni prima della Pasqua,venne a Betania, dove stava Lazzaro,[il morto] che Gesù aveva risuscitato dai morti.

2 Là gli fecero dunque un banchettoe Marta servivae Lazzaro era uno di quelliche giacevano (a mensa) con lui.

3 Allora Maria, presa una libbra di unguentodi nardo genuino, molto pregevole,unse i piedi di Gesùe asciugò con i propri capelli i suoi piedi.Ora la casa si riempìdel profumo dell’unguento.

4 Ora dice Giuda l’Iscariota,uno dei suoi discepoli,quello che stava per consegnarlo:

5 Perché questo unguentonon si è venduto per trecento denarie si è dato ai poveri?

6 Ora disse questo non perché gli importava dei poveri,ma perché era ladroe, avendo la borsa,portava (via) le cose messe (dentro).

7 Allora Gesù disse:Lasciala,che lo custodiscaper il giorno della mia sepoltura.

8 I poveri infatti (li) avete sempre con voi,me invece non avete sempre.

9 Allora seppe molta folla dei giudeiche era lìe vennero non solo per Gesù,

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ma anche per vedere Lazzaro,che destò dai morti.

10 Ora deliberarono i capi dei sacerdotidi uccidere anche Lazzaro,

11 perché per causa sua molti dei giudeise ne andavano e credevano in Gesù.

1. Messaggio nel contesto«Unse i piedi di Gesù»: Maria unge i piedi di colui che presto laverà i piedi dei suoi

discepoli; profuma i piedi del Messia, che il giorno dopo entrerà a Gerusalemme per regnare.Il racconto, uno dei più sorprendenti e delicati del Vangelo, segna l’inizio dell’ultima

settimana di Gesù: è il principio della nuova creazione, la luce che illumina ciò che il Signore è venuto a compiere a Gerusalemme. Questa donna è la prima che fa qualcosa per Gesù, il quale se ne compiace: dice che ha fatto «un’opera bella» (cf. Mc 14,6; Mt 26,10). È l’opera bella per eccellenza, che riporta la creazione alla bellezza originaria da cui è scaturita: finalmente una creatura risponde all’amore del suo Creatore! In questo gesto la creazione raggiunge il fine per cui è fatta. Dio è amore amante, presente ovunque è amato. Ciò che da sempre avviene tra Padre e Figlio, ora accade sulla terra, per la prima volta, tra il Signore e questa donna: «Il Signore crea una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l’uomo» (Ger 31,22b).

Il gesto, disapprovato da Giuda, unico discepolo nominato nella scena, è pienamente approvato da Gesù. Solo lui capisce la donna, come solo la donna capisce lui: con la sua passione per lui, lo consacra, quasi lo genera al suo cammino di passione.

La scena inizia e finisce richiamando l’atteggiamento delle folle, per ora favorevoli a Gesù (11,55s; 12,9), opposto a quello dei capi, che vogliono catturarlo e ucciderlo (11,57; 12, 10s).

Il contesto immediato dell’unzione è il banchetto per la risurrezione di Lazzaro. È la festa per il ritorno alla vita, che si celebra mangiando (cf. Mc 5,43). Ricorda gli incontri dei discepoli con il Risorto (cf. 21,9-14; Lc 24,29-31.41-43): «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

In questo banchetto si descrive la vita nuova della comunità, rappresentata dal servizio di Marta e dall’amore di Maria. Servizio e amore saranno il tema della seconda parte del Vangelo, la rivelazione della Gloria, di cui la prima parte è segno.

Servizio del prossimo e amore di Dio sono i cieli nuovi e la terra nuova, compimento di ogni promessa (cf. Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1). Infatti da questo «noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,14), non solo «a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18); d’altra parte «da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti» (1Gv 5,2). Con la risurrezione di Lazzaro, figura di quella di Gesù, inizia il Regno, caratterizzato dal servizio fraterno, risposta d’amore a colui che per primo si è fatto servo.

Il servizio di Marta è solo menzionato, il gesto di Maria invece è posto in particolare rilievo. Certamente esprime riconoscenza per la restituzione del fratello alla vita. Ma ciò non spiega perché Maria abbia fatto «questo» gesto, il cui significato è tanto grande da essere dichiarato da Gesù come prefigurazione del suo mistero. Si tratta di un atto d’amore gratuito, esagerato fino allo spreco, che riconosce in lui il Messia, il Figlio di Dio, che viene a dare la vita per i fratelli. Gesù connette direttamente questa unzione con la propria morte. Si tratta però di un preannuncio implicito della sua risurrezione: Maria infatti unge il Vivente, non un corpo morto, come invece farà Nicodemo (19,39s).

Il vero protagonista del racconto è il profumo, che di sua natura si dona, diffondendo piacere e gioia. È simbolo del Dio amore, che non può non amare e non comunicarsi a tutti.

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Ma di amore dato non si vive: si può solo morire. Chi ama dà la vita e vive solo se è corrisposto. Dio è amore, pienamente amante e amato nella Trinità; sulla terra effonde il suo profumo e vive ovunque è amato. Dove c’è amore, lì c’è Dio.

Il gesto di Maria è il principio della creazione nuova, che inizia quando la sposa risponde allo Sposo, che la ama di amore eterno (cf. Ger 31,3). In questa donna Dio trova ciò che da sempre cerca: essere amato da chi ama. Ciò che Maria fa, anticipa non solo ciò che Gesù farà tra poco, ma anche ciò che la Parola, alla fine del Vangelo, compirà in chi l’ascolta.

Questo racconto chiude la prima parte del Vangelo e apre alla seconda. Siamo a sei giorni dalla terza Pasqua, l’ultima delle sei feste menzionate nel Vangelo di Giovanni. La Pasqua «dei giudei», in cui il popolo sacrifica l’agnello a Dio, diventerà la Pasqua del Signore, con il sacrificio dell’agnello di Dio (19,28-30), che muore per la salvezza di tutti (11,51s). Con l’unzione di Betania comincia il racconto degli ultimi sei giorni di Gesù, che richiama i sei iniziali (1,19-2,12). I primi sei terminavano con le nozze di Cana e l’annuncio dell’«ora»; gli ultimi sei, in cui viene l’«ora», cominciano con questa scena nuziale a Betania. Il settimo giorno, vuoto, sarà il riposo della tomba e cederà il posto all’ottavo giorno, senza tramonto, che inizierà, a sua volta, con la scena nuziale di Maria, che finalmente abbraccia colui che ha cercato (20,1-18).

Sei è il numero dell’uomo, creato al sesto giorno. È però anche il numero del Figlio dell’uomo, con i sei giorni iniziali e finali, le sei feste e l’ora sesta della sesta festa, nella quale l’agnello è condotto al macello. La creazione dell’uomo si compie nel Figlio dell’uomo, nella sua Pasqua: il suo sangue lo libera per il nuovo esodo, la nuova alleanza e la nuova festa. Questa ormai non sarà più al settimo giorno, ultimo della settimana, ma al primo dopo il sabato: la domenica, il giorno del Signore, inizio del tempo nuovo. Se il numero sei indica incompiutezza e il sette compimento, l’otto è l’inizio oltre il compimento.

Il testo si articola in tre parti. La prima (11,55-57) espone le diverse attese nei confronti di Gesù: c’è chi l’attende per la festa, chi per ucciderlo. La seconda (12,1-8) è la celebrazione del dono della vita, con il banchetto e l’unzione. La terza (12,9-11) descrive l’accorrere delle folle per vedere Gesù e Lazzaro, con la successiva decisione dei capi di eliminare ambedue. Chi non aderisce alla festa per il dono della vita, si mette dalla parte di chi uccide.

Gesù è lo Sposo, il cui nome è «profumo effuso» (Ct 1,3). Tra sei giorni sarà spezzato il vaso del suo corpo e ne uscirà la gloria di Dio, la cui fragranza si espanderà per il mondo intero.

La Chiesa è rappresentata da Maria, la sposa, che risponde all’amore dello Sposo.

2. Lettura del testo11,55: Era vicina la Pasqua dei giudei, ecc. Il c. 11 termina con quest’annotazione: la

Pasqua è vicina. I «molti», che salgono a Gerusalemme, saranno ormai purificati non dai loro riti, ma dal fiume d’acqua viva che scaturirà dal tempio (Ez 47,1-12), dal sangue e dall’acqua che sgorgherà dal fianco dell’agnello immolato (19,34).

v. 56: cercavano Gesù (ci. 7,11; 12,9). Dopo la risurrezione di Lazzaro, tutti cercano Gesù. Come non si può cercare colui che dà vita, che è risurrezione e vita?

non verrà per la festa? Verrà per la festa. E sarà la Pasqua, nella quale si realizza ciò di cui la risurrezione di Lazzaro è stata il «segno dei segni».

v. 57: i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordini, ecc. I capi, che sono ladri e briganti, hanno deciso di ucciderlo. Cercano complici per arrestare il «pastore bello», che espone, dispone e depone la vita a favore delle sue pecore. Egli è il Figlio, che compie il comando del Padre (cf. 10,7-18).

12,1: Gesù, sei giorni prima della Pasqua. Gesù, nel testo greco, è nominato al principio e alla fine del versetto. Siamo all’inizio dell’ultima settimana, in cui compie la sua opera. Richiama il primo giorno delle origini, quando Dio fece la luce. La luce fa esistere e

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vedere il creato. Questo racconto fa «esistere» il Signore stesso nel cuore di una donna e fa «vedere» sulla terra la sua gloria.

venne a Betania. L’inizio del versetto richiama 1,28, dove si parla di Giovanni che, in un’altra Betania, riconobbe Gesù come Figlio di Dio. Betania significa «casa del povero». Il Signore viene nella nostra casa, riempiendola della sua ricchezza.

dove stava Lazzaro, [il morto] che Gesù aveva risuscitato dai morti. Si collega la scena con la risurrezione di Lazzaro. Qui si festeggia la vittoria sulla morte. Lazzaro, il morto, vive oltre la stessa morte. Il suo ritorno in vita è segno della condizione di chi vive e crede in Gesù: anche se muore, vive (11,25s). Sciolto dai lacci della morte, può andare verso il suo destino, che è quello di essere presso il Padre, insieme al Figlio.

v. 2: fecero dunque un banchetto. Non si dice chi fa il banchetto. Si accenna a Marta, che serve, e a Lazzaro, che giace «con» Gesù a mensa, mettendo in risalto Maria e il suo amore, principio di tutto, sia per Dio che per l’uomo.

La parola «banchetto» esce qui e nell’ultima cena (13,2.4; cf. 21,20). Qui domina il gesto d’amore di Maria, là il Signore ci amerà fino al compimento e darà il comando dell’amore: il Maestro lava i nostri piedi, la donna profuma i suoi piedi.

Questo banchetto è un’azione di grazie per il dono della vita, anticipo della festa che la comunità celebrerà dopo Pasqua. Sono i vivi che «mangiano» e fanno festa.

Marta serviva (cf. Lc 10,40). Il servizio di Marta, appena nominato, e l’amore di Maria, ampiamente descritto, costituiscono la vita nuova dei credenti, coloro che sono passati dalla morte alla vita. Servire è la manifestazione concreta dell’amore (Gal 5,13s; 6,2), in cui si celebra colui che si è fatto servo (cf. 13,12-19).

Lazzaro era uno di quelli che giacevano (a mensa) con lui. Lazzaro è in posizione privilegiata: prefigura coloro che sono già con il Signore. Gesù aveva ordinato di slegarlo e lasciarlo andare là dove doveva andarsene. Ora è giunto a «essere sempre con lui» (cf. 1Ts 4,17). Anche il povero Lazzaro, di cui parla Lc 16,19ss, è portato in alto, in seno ad Abramo.

Le sorelle non celebrano un banchetto funebre, ma una festa per il Signore e per il fratello, amico del Signore che lo ama.

v. 3: Maria, presa una libbra di unguento. È un olio profumato. Una libbra è un terzo di chilogrammo. Richiama le 100 libbre di mirra e aloe con cui Nicodemo ungerà il corpo morto del Signore (19,39). Se quella di Nicodemo è un’onoranza funebre, quella di Maria è un’es-plosione di vita.

«Profumo» in ebraico si dice shemen, che richiama shem, il Nome. Nel Cantico dei Cantici lo Sposo è chiamato «profumo effuso» (Ct 1,3). Il nome, l’essenza di Dio, è profumo. Infatti è amore, che di sua natura impregna tutto della sua presenza.

di nardo. È un profumo molto prezioso. Viene dall’India. La qualità migliore cresce sulle pendici dei monti a 5.000 metri: viene da lontano e da molto in alto! È fatto con le radici del fiore di nardo. Il fiore muore per dare un profumo particolarmente gradito agli uomini.

genuino. In greco c’è pistikós, che significa autentico e fedele. La parola non si usa per oggetti, ma per indicare l’amore autentico e fedele di Dio. L’amore stesso è la fede genuina.

molto pregevole. Giovanni non sottolinea tanto il costo, quanto il pregio grande del profumo. Giuda ne valuterà il costo in 300 denari, e anche più (cf. Mc 14,5). È il salario medio di un anno di lavoro.

Questa scena richiama quella di Luca 7,36ss, che avviene nella casa di «Simone il fariseo», ed è parallela a quella di Marco e Matteo, che avviene nella casa di «Simone il lebbroso» (Mc 14,3; Mt 26,6).

Maria compie un atto folle. L’unica misura dell’amore è il non aver misura. È una risposta all’amore dello Sposo, che viene a Gerusalemme per dare la sua vita: «Mentre il re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo» (Ct 1,12). L’amore è sempre sollecito nell’intuire e nell’anticipare.

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unse i piedi di Gesù. Gesù laverà presto i piedi ai suoi discepoli (13,1ss). Lavare i piedi è una manifestazione di affetto tra sposo e sposa. Gesù, lavando i piedi, manifesta la sua vita posta a servizio dell’amore: li lava con l’acqua, segno della sua morte. Qui, invece dell’acqua, c’è il profumo di gioia e di vita. Infatti di amore si muore; è della risposta d’amore che si vive. Con Maria finalmente l’amore è amato e vive. Essa è la prima che fa per Gesù ciò che Gesù ha fatto per noi. Il suo amore lo consacra Messia e Signore: accoglie lo Sposo, che può finalmente dimorare tra noi. Ora il suo profumo riempie la nostra casa.

asciugò con i propri capelli i suoi piedi. Sciogliere i capelli è seduzione e intimità. Maria non asciuga i piedi dalle lacrime (cf. Lc 7,38), ma dall’unguento sovrabbondante che ne fluisce. Lo stesso unguento profuma i piedi dello Sposo e il capo della sposa.

«Un re è stato preso dalle tue trecce» (Ct 7,6): il Signore è conquistato, irretito, e dice: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! Quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa, quanto più deliziose del vino le tue carezze. L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi» (Ct 4,9-10).

ora la casa. La festa per il dono della vita non si celebra nel tempio, ma nella casa, luogo delle relazioni quotidiane, che formano la nostra identità. Lì stanno gli amici che Gesù ama; lì Gesù è amato e lì c’è il profumo, perché Dio è amore. La casa del povero non ha più l’odore acre del fariseo Simone che giudica (cf. Lc 7,39s), né la puzza di Simone il lebbroso (cf. Mc 14,3), né il lezzo del fratello, che Marta temeva (11,39): è piena di profumo. Nella casa, dove prima regnavano lutto e morte, risuonano le grida di gioia, le voci dello Sposo e della sposa e si diffonde la fragranza del profumo (cf. Ger 25,10 LXX).

si riempì del profumo. «Riempire», in greco, è la stessa parola che indica «compiersi». Questa casa è il «compimento» del profumo, del Nome: vi regnano il servizio e l’amore. L’amore è amato; il profumo riempie la casa e trabocca sul mondo intero (cf. Mc 14,9): Dio è tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28).

«Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero. Noi siamo infatti davanti a Dio il profumo di Cristo» (2Cor 2,14s). Questo profumo, che è di vita per chi ama il Signore, sarà odore di morte per chi lo rifiuta (cf. 2Cor 2,16).

v. 4: dice Giuda l’Iscariota, ecc. L’obiezione, posta da Giovanni in bocca a Giuda, da Matteo è attribuita ai discepoli (Mt 26,8) e da Marco agli astanti (Mc 14,4). Tra di essi siamo anche noi, i lettori. Giuda è per Giovanni il prototipo dell’incomprensione dei discepoli: è infatti «uno dei suoi discepoli».

quello che stava per consegnarlo. «Consegnare» è la parola usata per indicare il gesto di Giuda che tradisce Gesù (6,64.71; 12,4; 13,2.11.21; 18,2.5.36; 21,20). Indica pure la sua consegna a Pilato (18,30.35; 19,11), che lo consegna alla croce (19,16), da dove il Signore ci consegnerà il suo Spirito (19,30). Alle nostre consegne di morte, egli risponde con la consegna della sua vita.

v. 5: perché questo unguento non si è venduto per trecento denari, ecc. Più di duecento denari servivano per sfamare la folla (6,7), trenta pezzi d’argento fu la vendita di Gesù (cf. Mt 26,15). Questo profumo vale molto di più, perché è fedele e di grande pregio, come l’amore. Giuda invece lo monetizza. E parla di «vendere», per «dare» ai poveri.

Ci sono due modi opposti di pensare e agire, due diverse economie: da una parte calcolo e vendita, dall’altra amore e spreco (cf. Mc 14,4; Mt 26,8). Una è l’economia dell’uomo, che uccide; l’altra quella di Dio, che dà vita. Allo stesso modo ci sono due diversi odori: quello di vita per la vita e quello di morte per la morte.

Il problema non è «dare» ai poveri qualcosa, ma «darsi» per amore. In Lc 10,40 Marta, tutta indaffarata, contrappone il suo servizio all’atteggiamento di Maria, che sta seduta e gioisce della presenza di Gesù. Qui Giuda contrappone l’aiuto dei poveri all’amore per il Signore. Non ha capito che qualunque servizio, se non nasce dall’amore, puzza di morte.

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v. 6: disse questo non perché gli importava dei poveri, ecc. L’aiuto ai poveri è una maschera per i propri furti. Giuda è ladro, come i capi del popolo (cf. 10,1.8.10), e personifica il male che è nel cuore dell’uomo: è un diavolo (cf. 6,70), menzognero e omicida, come il padre della menzogna che lo ispira (8,44s).

avendo la borsa. Giuda teneva la borsa comune, da cui si attingeva per vivere e dare ai poveri (cf. 13,29). Egli, invece di condividere, «ruba». L’elemosina è spesso un buon pretesto per il furto, già fatto o ancora da fare. È legge economica inderogabile: si può «dare» solo con profitto, per avere indietro di più. Per questo nella Scrittura c’è connessione abituale tra ricchezza e mammona, tra denaro e demonio. Non perché i beni siano cattivi, ma per l’uso ladronesco che ne facciamo; il denaro, che media ogni bene, è «diabolico» nella misura in cui, invece di mettere in comunione i fratelli, li divide tra di loro.

v. 7: lasciala, che lo custodisca per il giorno della mia sepoltura. Gesù approva il gesto della donna e la difende. E lo legge come intuizione d’amore del suo destino. Lei unge il suo corpo per la sepoltura, mentre è vivo. Il problema non è onorare un defunto, ma amare il Vivente. Quanto la donna compie è annuncio di risurrezione, risposta d’amore a un amore che sa dare la vita. Maria va «lasciata» compiere questo gesto, che la fa nascere come sposa, allo stesso modo di suo fratello Lazzaro, del quale Gesù dice: «Lasciate che se ne vada», per giacere al banchetto con lui. Il suo profumo è da «custodire» (= osservare) sempre, fin dentro la tomba e oltre: è il comando dell’amore, che fa vivere Dio in noi e noi in lui.

v. 8: i poveri infatti (li) avete sempre con voi. Come sempre abbiamo con noi il Signore (cf. Mt 28,20), che da ricco si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (cf. 2Cor 8,9), così abbiamo sempre con noi i poveri. La loro povertà è la nostra ricchezza. La nostra ricchezza ingiusta infatti ci viene da ciò che abbiamo tolto a loro; la nostra ricchezza vera ci viene da ciò che condividiamo con la loro povertà (cf. Mt 25,40).

me invece non avete sempre (cf. 12,35). Gesù tra sei giorni tornerà al Padre. Ma sarà sempre con noi, nel dono del suo Spirito che ci fa amare l’altro, cominciando dall’ultimo. L’amore che Maria dimostra per il Figlio, lo Sposo, sarà lo stesso che avremo verso i suoi fratelli. La storia di Cristo continua in tutti i poveri cristi della terra, nei quali egli ci viene incontro per salvarci: con essi il Signore si è identificato (cf. Mt 25,31-45).

v. 9: seppe molta folla dei giudei che era lì, ecc. Questa casa, dove si celebra la vita nel servizio e nell’amore, esercita una forza attrattiva sulle folle. È immagine della Chiesa, che ha custodito e osservato il profumo di Dio, l’amore reciproco.

v. 10: deliberarono i capi dei sacerdoti di uccidere anche Lazzaro. Per i capi, anche Lazzaro deve subire la sorte di Gesù (cf. 11,53). Chi non ascolta Mosè e i profeti, non sarà persuaso neppure da uno che risuscita dai morti (cf. Lc 16,31). Anzi, cercherà sempre di eliminare i testimoni della vita (cf. 16,1-4.33).

v. 11: per causa sua molti dei giudei se ne andavano e credevano in Gesù. All’at-teggiamento dei capi, si contrappone quello di «molti». Questi sono attirati a Gesù da Lazzaro, il morto che è risorto. Anch’essi, liberati come lui e sciolti dalle bende di morte, se ne vanno dietro a Gesù, per un cammino di luce.

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando il banchetto nella casa di Betania.c. Chiedo ciò che voglio: l’amore di Maria per il Signore Gesù.d. Contemplo la scena, guardando, considerando, «odorando» il profumo.

Da notare:• sei giorni prima della Pasqua• il banchetto a Betania per celebrare il dono della vittoria sulla morte• Marta serve

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• Lazzaro giace a mensa con Gesù• Maria prende una libbra di unguento• è nardo fedele, molto pregevole• unge i piedi di Gesù• li asciuga con i suoi capelli• la casa si riempie del profumo• la reazione di Giuda: vendere e dare ai poveri• Giuda è ladro, menzognero e presto omicida• Gesù difende la donna• lasciala, che lo custodisca per la mia sepoltura• i poveri li avete sempre con voi, me invece non avete sempre• la folla che accorre per vedere Lazzaro• la decisione di uccidere anche Lazzaro.

4. Testi utiliSal 45; 133; Cantico dei Cantici; Mc 14,3-9; Lc 7,36-50.

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30. IL TUO RE VIENE,SEDUTO SU UN PULEDRO D’ASINA

12,12-19

12,12 Il giorno dopo, la molta follache era venuta per la festa,avendo udito che Gesùarriva a Gerusalemme,

13 presero i rami delle palmee uscirono all’incontro con luie gridavano:

Osanna!Benedetto colui che vienenel nome del Signore[e] il re d’Israele.

14 Ora, incontrato Gesù un asinello,sedette sopra di esso,come è scritto:

15 Non temere, figlia di Sion.Ecco il tuo re viene,seduto su un puledro d’asina.

16 Queste cose i suoi discepolinon (le) capirono prima,ma quando Gesù fu glorificato,allora si ricordaronoche queste cose erano state scritte su di luie queste cose gli avevano fatto.

17 Testimoniava dunque la follache era con luiquando chiamò Lazzarofuori dal sepolcroe lo destò dai morti.

18 [Appunto] per questo la folla gli andò incontro,perché udironoche egli aveva fatto quel segno.

19 Allora i farisei dissero tra loro:Vedete che non giovate a nulla?Ecco: il mondo si allontanò dietro di lui!

1. Messaggio nel contesto«Il tuo re viene, seduto su un puledro d’asina». Queste parole annunciano la venuta del

Messia (cf. Sof 3,14; Zc 9,9). 1 discepoli vedono realizzarsi sotto i loro occhi la grande promessa; ma non la capiscono, anche se i profeti l’hanno predetta. La Scrittura e gli avvenimenti della vita di Gesù, che ne sono il compimento, saranno capiti solo dopo la sua glorificazione, ormai prossima.

Gesù è il re, l’unto del Signore che viene. Viene verso la sua città, portando su di sé il profumo con il quale Maria l’ha consacrato il giorno prima a Betania. Le folle gli vengono incontro, lo acclamano e lo seguono per le opere che ha compiuto, l’ultima delle quali è il

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dono della vita a Lazzaro. Già prima, quando aveva dato il pane, volevano farlo re (6,15). Gesù è capace di garantire il cibo per vivere e di far vivere chi muore. Cosa si vuole di più dal Messia, da Dio stesso?

Le folle gli vanno incontro come a un re che viene in visita: portano rami di palma, segno di vittoria. Lo acclamano re di Israele, colui che viene nel nome del Signore, per liberare il popolo dall’oppressione mortale in cui si trova (Sal 118,26). Finalmente viene l’atteso discendente di Davide (cf. 2Sam 7,8-16), che trionferà dei nemici (cf. Sal 2) e regnerà per sempre. La sorpresa, anzi lo scandalo, sarà vedere che il Signore farà testata d’angolo proprio la pietra che i costruttori hanno scartato, come dice lo stesso salmo con il quale acclamano Gesù (Sal 118,22).

Il titolo di re appare sedici volte in Giovanni, di cui dodici nella passione. Re è innanzitutto il Signore, del quale non bisogna farsi immagini, perché l’unica immagine a sua somiglianza è l’uomo che ne ascolta la Parola. L’uomo però, fin dall’inizio, non ha ascoltato la sua Parola e si è fatto molte immagini di Dio, riducendolo a propria somiglianza. Fare Dio simile a noi, invece di fare noi simili a lui, è l’origine dei nostri mali.

Il risultato di questa perversione nel concepire Dio e l’uomo prende corpo nella figura del re (cf. 1Sam 8,1ss; Gdc 9,8-15). Egli sarebbe l’uomo ideale, ideale di ogni uomo. È dio in terra e gode delle sue prerogative: è libero e potente, in grado di disporre di tutto e di tutti. Dio però è esattamente il contrario di ciò che noi pensiamo. Il suo modo di regnare è diverso dal nostro, come il «pastore bello» è diverso dai ladri e dai briganti (cf. 10,1ss). È vero che il Signore è re. Ma non usa la violenza per conquistare e mantenere il dominio, né si impone sugli altri perché ha il potere di ucciderli. Il suo simbolo è l’asinello, mite e umile (Zc 9,9): non spadroneggia, ma serve, non pratica violenza ma ama, non dà morte ma vita. Gesù è un Messia «politico», che da sempre mette in crisi le nostre concezioni politiche. Propone infatti un nuovo modo di rapporti civili: a un mondo fatto di padroni e di antipadroni, che produce libertà per pochi e schiavitù per gli altri, succede un mondo di uomini liberi, a servizio gli uni degli altri nel reciproco amore (cf. 13,l-15;Fil 2,5-11; Gal 5,13). Invece del delirio di onnipotenza del superuomo, che suppone un sottouomo, c’è l’accettazione cordiale della propria umanità e dei limiti naturali come luogo di solidarietà.

Solo dopo la gloria della croce i discepoli capiranno perché, in risposta alle folle che lo acclamano re, Gesù si trovi un asinello e cavalchi su di esso. Mostra così il suo modo di regnare. Gesù è l’unto di Dio e il salvatore del mondo proprio in quanto va verso la sepoltura (cf. v. 7). È «umile»: accetta la condizione «umana», che è quella di finire sotto terra, come l’amico Lazzaro e tutti. Gesù non nega né rimuove i limiti propri dell’uomo; la stessa morte è per lui luogo di «umanità», di comunione con i fratelli, frutto della sua comunione con il Padre.

Il seguito del testo mostrerà come Gesù è Messia e salvatore del mondo proprio in quanto crocifisso (vv. 20-36), con una gloria incomprensibile (vv. 37-50).

Giovanni pone il racconto in un contesto diverso dagli altri Vangeli, immediatamente dopo l’unzione di Betania e prima della predizione del suo innalzamento e rifiuto. Inoltre offre delle variazioni proprie, che rileveremo nella lettura del testo.

Il suo intento è mostrare che la gloria del re, insieme alle Scritture che ne parlano, è comprensibile solo dopo l’evento pasquale.

Gesù è il re che viene nel nome del Signore. Per questo è diverso dai re che vengono nel nome degli uomini.

La Chiesa, come ogni uomo, è chiamata a capire l’ambiguità di fondo che c’è nell’idea di Dio e di uomo; deve decidersi per il Signore che libera e dà vita, preferendolo ai vari signori che opprimono e danno morte.

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2. Lettura del testov. 12: Il giorno dopo. È il giorno dopo l’unzione di Maria, che ha «consacrato» Gesù

come lo Sposo che dà la vita (cf. v. 7). Confortato dal suo amore, dà inizio al suo regno: entra nella città di Davide, dove sarà incoronato e intronizzato, coronato di spine e innalzato sulla croce.

la molta folla che era venuta per la festa, avendo udito che Gesù arriva a Gerusalemme. La città è piena di pellegrini venuti per celebrare la Pasqua, festa di liberazione dalla schiavitù. Nella scena precedente Gesù aveva celebrato nella «casa» di Betania la festa per il dono della vita. Ora va verso Gerusalemme, per la «sua» Pasqua. Si chiude così il suo cammino, iniziato con la prima salita a Gerusalemme (2,12s), dopo aver compiuto il principio dei segni in Galilea (cf. 2,1-12).

Giovanni non descrive il suo entrare in città, ma l’uscire della folla per incontrarlo.v. 13: presero i rami delle palme. Con palme, canti e suoni si celebrò la vittoria di

Simeone, «perché era stato eliminato un grande nemico» (1Mac 13,51). Con palme una folla immensa, di ogni popolo e lingua, celebra la salvezza di Dio e dell’Agnello (Ap 7,9). Qui si celebra, anticipatamente, la vittoria sul capo di questo mondo, che sarà gettato fuori (cf. v. 31).

Queste palme sono il lulab (cf. Lv 23,40), un mazzo di rami di palma, salice e mirto che si tiene nella mano sinistra e un frutto di cedro nella mano destra. Nella festa delle Capanne (cf. Lv 23,39-43), come pure in quella della Dedicazione, il lulab viene agitato al canto del Sal 118, che è un inno di grazie per la vittoria. Giovanni in questo versetto intende unire insieme i significati delle tre grandi feste: Pasqua, Capanne e Dedicazione.

uscirono all’incontro con lui. Al suo arrivare corrisponde l’uscire dalla città per andargli incontro, come a un sovrano che torna da una grande vittoria. Ha infatti vinto la morte (cf. v. 17).

gridavano: Osanna! È un’invocazione di salvezza, diventata un grido di giubilo, un’ac-clamazione per il Signore che salva. Questa parola è tratta dal Sal 118,25, che chiede la liberazione da un’oppressione mortale.

benedetto colui che viene nel nome del Signore (Sal 118,26a). «Colui che viene» è il Messia, il salvatore atteso (cf. 1,25.27; 3,31; 6,14; 11,27). Gesù è il Figlio, che viene «nel nome» del Padre suo (5,43; 10,25; 17,11.12).

il re d’Israele. Quest’acclamazione della folla, aggiunta al Salmo 118, è presa da Sof 3,15, che parla del resto di Israele, un popolo povero e umile che sarà salvato dal Signore: «Re d’Israele è il Signore in mezzo a te» (Sof 3,15). In Israele solo Dio regna (cf. Sal 24; 47; 93; 96; 97; 99; 118). Gesù è il Figlio, che porta ai fratelli il regno del Padre.

A Dio dispiace quando il suo popolo, per essere come tutti gli altri, vuole un re che lo domini. È come rifiutare la sua regalità, rinunciare alla propria immagine e somiglianza con lui. Se Dio dà vita e libertà, gli altri re danno morte e oppressione (cf. 1Sam 8,1ss; Gdc 9,8-15). Per questo Dio aveva promesso a Davide un discendente che avrebbe liberato il popolo e regnato in eterno: è il Messia atteso (cf. 2Sam 7,8-16).

Gesù è acclamato esplicitamente come Messia politico: «re dei Giudei» sarà il suo titolo sulla croce (19,19), dove apparirà la sua gloria e non ci sarà più alcun fraintendimento. L’in-contro d’Israele con il suo re è un equivoco: lo acclamano come re glorioso, ma non capiscono la sua gloria.

Qui Gesù non può fuggire altrove, come dopo il dono del pane, quando si ritirò da solo sul monte (6,15). È stretto dalla folla e «deve» andare a Gerusalemme, dove sarà elevato da terra. Neppure fa un discorso di chiarimento, come a Cafarnao (6,22ss). Ha già detto che lui è re in quanto pastore che espone, dispone, e depone la sua vita a favore delle sue pecore, per riprenderla di nuovo (cf. 10,7-18). Ma queste parole saranno capite quando ne vedranno, tra pochi giorni, la realizzazione.

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Ora, senza dire alcuna parola, come Maria a Betania, compie in silenzio un gesto inteso a chiarire l’ambiguità.

v. 14: incontrato Gesù un asinello. Gesù ha le sue riserve su queste acclamazioni. I suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le sue vie non sono le nostre vie (Is 55,8). Esprime la propria regalità con la scelta di un asinello. La cavalcatura regale è in genere la mula (cf. 1Re 1,33-38). Gesù incontra l’asinello. È il grande incontro: ovunque lo incontra, il Signore viene a regnare. L’asinello, umile animale da servizio, indica il messianismo di colui che è mite e umile di cuore (cf. Mt 11,29). È vero che Gesù dà pane e vita; ma non come segno di potere, bensì di amore: si fa pane e dà la vita. La sua regalità si mostra nelle cose che gli faranno (cf. v. 16), nella sua passione, quando lui vincerà la nostra violenza offrendosi come l’agnello che toglie il peccato del mondo.

sedette sopra. Come acqua viva sedette sul pozzo di Giacobbe (4,6), ora come Messia siede sull’asinello. Per sovrimpressione è lui la fonte di vita, è lui l’asinello.

Un graffito paleocristiano rappresenta un crocifisso con la testa d’asino, con la scritta: «Alessameno adora il suo Dio». La regalità di Gesù è la stessa di Dio, che manifesta sulla croce la sua gloria. Egli ci dona la sua libertà, che è quella di essere a servizio gli uni degli altri (cf. Gal 5,13). Il suo comando è quello di amare come lui ci ama. E l’amore consiste nel servizio. L’asino è immagine del Figlio, che porta i pesi dei fratelli: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2).

Si può capire il messianismo di Gesù contemplando l’asino, come si capisce la sua persona odorando il profumo di Betania.

L’ultima domanda dei discepoli al Maestro riguarda il tempo della venuta del Regno (cf. At 1,6). Il Signore risponde non «quando» viene il Regno, ma «come» viene il Re: con l’asinello. Il Regno viene quando accogliamo il Re, così come viene; viene nel nostro essere suoi testimoni (cf. At 1,8), che vivono come lui.

come è scritto. L’interpretazione di questo gesto di Gesù viene dalla Scrittura (v. 15), che però sarà capita solo dopo che lui l’avrà realizzata sulla croce (v. 16).

v. 15: non temere, figlia di Sion. L’evangelista fa una citazione biblica composita (cf. Sof 3,14a.16b; Zc 9,9). La personificazione di Gerusalemme come «figlia di Sion» richiama l’immagine del Messia Sposo.

Il testo di Sof 3, parallelo a Zc 9, presenta un messianismo universale. Il Messia sarà il Signore stesso, accolto dal resto di Israele umile e povero, fedele e giusto, che raduna i dispersi di Israele (cf. Sof 3,9-20). Il centro della profezia è la venuta del Signore, re d’Israele, salvatore potente e Sposo, che «esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa» (Sof 3,17s; cf. Is 62,5).

ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro d’asina. È una citazione di Zc 9,9, che Giovanni riduce all’essenziale per presentare la venuta del re sull’asinello. Il profeta contrappone l’asino del Messia ai carri e ai cavalli dei vari re. I carri da guerra – a quei tempi c’erano i «carri falcati», che entravano nelle truppe nemiche e le falciavano – sono propri di chi vuol prendere il potere che non ha o mantenere quello che sta per perdere; i cavalli sono propri di chi lo esercita tranquillamente. Il Messia, con l’asinello, vince ogni nemico e porta la pace sino ai confini della terra (cf. Zc 9,9s). Il suo Regno non è fondato sulla violenza di chi domina e opprime, ma sulla forza dell’amore di chi si fa servo e libera (cf. Mc 10,42-45p).

Incrociando l’asino con il cavallo si ottiene un ibrido infecondo, mulo o bardotto. La nostra impotenza a vincere il mondo viene dalla nostra volontà di essere cristiani e aspirare al potere. Quando poi ci imponiamo con la violenza, allora diventiamo come l’anticristo: anche se abbiamo l’apparenza dell’agnello, parliamo il linguaggio del drago (cf. Ap 13,11). I «regimi cristiani» sono un bell’esempio di incrocio tra asino e cavallo; le crociate, a loro volta, sono un incrocio incredibile tra asino e carro armato. Sembra che tali incroci non sempre riescano, ma sempre li tentiamo.

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v. 16: queste cose i suoi discepoli non (le) capirono prima. Come non capirono il suo gesto e le sue parole nel tempio (cf. 2,22), così non capiscono «queste cose», ossia il suo gesto di sedere sull’asinello e le parole della Scrittura che in esso si compiono. Solo la croce farà capire la Gloria.

Gli altri Vangeli citano Zc 9,9 per illustrare la regalità di Gesù: leggono ciò che sta accadendo alla luce della profezia, interpretando il presente con il passato. Giovanni, invece, si pone non al presente dell’azione, ma nel futuro: solo dopo la sua glorificazione, sarà chiara sia la Scrittura che il suo compimento in Gesù.

quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono. Il principio di comprensione di tutto è la sua glorificazione, che fa «ricordare» quanto la Scrittura ha detto e come il Signore l’ha compiuta (cf. 2,22).

queste cose erano state scritte su di lui e queste cose gli avevano fatto. L’oggetto del ricordo è la Scrittura e ciò che hanno fatto a Gesù, non ciò che egli ha fatto. La sua azione infatti non è che il segno della sua passione: in ciò che hanno fatto a lui si compie la Scrittura e si realizza ciò di cui la sua azione è «segno». Se qui lo proclamano re, il titolo regale gli sarà posto sopra la croce (19,19).

Giovanni guarda l’avvenimento accaduto, ricordandolo con sguardo contemplativo, per coglierne il mistero: intende penetrare in profondità quanto gli altri evangelisti hanno raccontato e lui stesso, in parte, accenna. È l’ottica che propone alla sua Chiesa e ai suoi lettori.

v. 17: testimoniava dunque la folla che era con lui, ecc. Il motivo dell’entusiastica accoglienza è la testimonianza della folla che era stata con lui quando diede la vita a Lazzaro.

quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro. Con Gesù è giunta l’ora in cui i morti odono la voce del Figlio dell’uomo ed escono dai sepolcri (cf. 5,25). Allora si conosce chi è il Signore (cf. Ez 37,13). Come Lazzaro uscì dalla tomba, così ora le folle escono dalla città, incontro al Signore che viene. Ma soprattutto devono uscire dalle loro false attese per incontrare il salvatore del mondo.

v. 18: per questo la folla gli andò incontro, ecc. Gesù è accolto come il trionfatore sul nemico ultimo dell’uomo (cf. 1Cor 15,26): è il Messia che vince la morte. Ma quando vedranno che egli trionferà dando la vita, allora vedranno il significato del segno e resteranno grandemente stupiti: «Vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito» (cf. Is 52,15b).

v. 19: i farisei dissero tra loro, ecc. Alla reazione positiva del popolo si contrappone quella dei capi, che si incolpano a vicenda del successo di Gesù. Hanno cercato di ostacolarlo, ma senza riuscirci; le tenebre hanno cercato di arginare la luce, ma inutilmente. Dicono infatti: «Vedete che non giovate a nulla?». Nonostante tutto, restano uniti nell’ostilità contro di lui. C’è una misteriosa coesione nel male, più facile che nel bene. Il primo infatti è monotono e livella tutto nell’odio e nella morte; il secondo invece è creativo e diversifica le varie espressioni di vita.

il mondo si allontanò dietro di lui. Si sottolinea l’universalità della salvezza che Gesù porta: «il mondo» va dietro di lui, allontanandosi da loro. È infatti l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29), il Figlio che mostra quanto il Padre ama il mondo (cf. 3,16), per attirare tutti a sé (12,32).

Questa universalità della salvezza, causa prima ed effetto ultimo della sua uccisione, sarà l’argomento di ciò che segue.

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che scende da Betania e la folla che gli esce incontro

da Gerusalemme.c. Chiedo ciò che voglio: comprendere «come» viene il re e accoglierlo.

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d. Contemplo la scena, guardando le persone: chi sono, che fanno, che dicono.

Da notare:• Gesù va dalla «casa» di Betania alla città di Gerusalemme• le folle prendono palme ed escono all’incontro con lui• osanna• benedetto colui che viene nel nome del Signore• il re d’Israele• in risposta, Gesù, trovato un asinello, sedette sopra di esso• non temere, figlia di Sion• il tuo re viene seduto su un puledro d’asina• i discepoli non capiscono, se non dopo la glorificazione• la Scrittura e l’azione di Gesù sono «segno» della sua passione• la gente gli va incontro per il «segno» di Lazzaro• la reazione dei farisei• il mondo si allontanò dietro di lui.

4. Testi utiliSal 118; Gdc 9,8-15; 1Sam 8,1ss; 2Sam 7,8-16; Sof 3,1ss, Zc 9,9-10; Mc 10,42-45.

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31. È VENUTA L’ORA CHE SIA GLORIFICATOIL FIGLIO DELL’UOMO

12,20-36

12,20 Ora c’erano dei grecitra coloro che salivanoper adorare durante la festa.

21 Allora costoro si avvicinarono a Filippo,di Betsaida di Galilea,e lo pregavano dicendo:

Signore, vogliamo vedere Gesù.22 Viene Filippo e (lo) dice ad Andrea;

viene Andrea e Filippoe (lo) dicono a Gesù.

23 Ora Gesù rispose loro dicendo:È venuta l’orache sia glorificatoil Figlio dell’uomo.

24 Amen, amen vi dico:se il chicco di frumentocaduto nella terranon muore,esso rimane solo;se invece muore,porta molto frutto.

25 Chi ama la sua vitala perdee chi odia la sua vita in questo mondola conserverà per (la) vita eterna.

26 Se uno mi vuol servire,segua me;e dove sono io,lì sarà anche il mio servo;se uno mi serve,il Padre lo onorerà.

27 Adesso la mia anima è turbata.E che posso dire:Padre,salvami da quest’ora?Ma per questo venni a quest’ora.

28 Padre,glorifica il tuo nome.

Allora venne una voce dal cielo:E glorificaie ancora glorificherò!

29 Allora la folla, che stava (lì) e aveva ascoltato,diceva che era stato un tuono.Altri dicevano:

Un angelo gli ha parlato.

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30 Rispose Gesù e disse:Non è stata per me questa voce,ma per voi.

31 Adesso è il giudizio di questo mondo,adesso il capo di questo mondosarà espulso fuori.

32 E io, quando sarò innalzato da terra,tutti attirerò a me stesso.

33 Ora questo diceva significandodi quale morte stava per morire.

34 Allora gli rispose la folla:Noi ascoltammo dalla leggeche il Cristo rimane in eterno;e come mai dici tuche bisognache il Figlio dell’uomosia innalzato?Chi è questo Figlio dell’uomo?

35 Allora rispose loro Gesù:Ancora per un piccolo tempola luce è tra voi.Camminate finché avete la luceperché la tenebra non vi afferri.Chi cammina nella tenebranon sa dove va.

36 Finché avete la luce,credete nella luceper diventare figli della luce.

Queste cose disse Gesùe, allontanatosi, si nascose da loro.

1. Messaggio nel contesto«È venuta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo», dice Gesù. Ormai è alla fine

della sua azione e comincia la passione. È venuta l’ora (v. 23), l’ora decisiva, per la quale è venuto (v. 27). In essa si manifesta, a nostra salvezza, la gloria sua e del Padre, della quale ciò che finora ha compiuto è «segno».

Le folle lo hanno appena osannato come Messia. L’hanno visto venire sull’asinello, ma non hanno capito. Quanto Gesù ora dice di sé, confermato dalla voce dal cielo, toglie ogni ambiguità.

Anche i greci ora vogliono «vedere Gesù» (v. 21). Sono l’anticipo di «tutti» quelli che saranno attratti a lui quando sarà innalzato dalla terra (v. 32), primizia del molto frutto del chicco di frumento, caduto nella terra, che muore (v. 24). È vero: tutto il mondo va dietro a lui, anche i pagani (cf. v. 19).

Ma chi è questo re? Gesù, rispondendo ai discepoli che gli riferiscono la richiesta dei greci, chiarisce come lui è re e dove si fa vedere: è il Figlio dell’uomo, che presto vedranno innalzato sulla croce.

Le parole di Gesù sono un compendio, che chiarisce il significato della sua vita. È, come sempre in Giovanni, una visione retrospettiva, simile a quella di un gambero che corre all’indietro e vede il cammino ormai dalla fine, con l’occhio sul principio. È certamente il modo migliore, forse unico, per capire una storia.

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Gli elementi di questo brano, molto composito, si unificano attorno alla croce. Da essa il Signore regna e salva tutti. Nel suo essere innalzato dalla terra viene l’ora del Figlio che, nel suo amore di fratello, rivela quello del Padre.

La croce, che visivamente è un «innalzamento», è in realtà l’abbassamento sommo, ostensione nuda dell’obbrobrio. Eppure questa abiezione estrema mostra la gloria abissale di Dio. Dio infatti è amore; e la caratteristica più alta dell’amore è l’umiltà.

I vv. 20-22 contengono la domanda dei greci di «vedere» Gesù, ben agganciata al brano precedente, dove i farisei constatano che tutto il mondo va dietro a lui (v. 19). Gesù risponde indirettamente: parla della sua morte, dove tutti possiamo vedere ciò che occhio umano mai non vide (cf. 1Cor 2,9). Dopo l’unzione di Betania e l’ingresso regale in Gerusalemme, è giunta l’ora della glorificazione del Figlio dell’uomo, che è quella del seme che muore e porta molto frutto (vv. 23-24). Se negli altri Vangeli la Parola è il seme di Dio, in Giovanni Gesù stesso è il seme. Infatti è lui la Parola. Alla sua gloria è associato chiunque vuol seguirlo nel suo stesso cammino (vv. 25-26).

Dopo l’annuncio della morte come dono fecondo di vita, c’è un profondo turbamento, che richiama l’agonia nell’orto, accostato immediatamente alla voce dal cielo, che richiama la trasfigurazione (vv. 27-30). In poche righe Giovanni sbalza di seguito l’esperienza del Getsemani e quella del Tabor, che gli altri Vangeli raccontano in ordine inverso e a grande distanza l’una dall’altra. I due episodi si illuminano a vicenda e fanno comprendere agli ascoltatori il mistero del Figlio dell’uomo, che è Figlio di Dio.

Segue un’interpretazione del valore salvifico della croce: il Figlio dell’uomo innalzato sconfigge il «capo di questo mondo», che tiene l’uomo schiavo della menzogna e della paura. Il Crocifisso infatti svelerà quel Dio amore che attira tutti a sé (vv. 31-33).

Alla folla che non comprende come il Messia possa essere crocifisso e si chiede incredula chi sia questo Figlio dell’uomo, Gesù risponde esortandola a credere in lui, luce del mondo. Alla fine si allontana e si nasconde (vv. 34-36).

Il brano seguente sarà una considerazione dell’evangelista sul mistero dell’incredulità nei confronti della croce, già prevista dai profeti (vv. 37-43), seguita da un ultimo grido di Gesù, che invita a credere in lui e nelle sue parole (vv. 44-50).

Al centro del brano sta l’innalzamento del Figlio dell’uomo. Le predizioni del suo innalzamento corrispondono alle tre predizioni sulla morte e risurrezione, che gli altri evangelisti pongono nella seconda parte del Vangelo. Giovanni invece le pone fin dall’inizio e ne spiega successivamente la ricchezza di significato: dapprima come rivelazione dell’amore del Padre e salvezza del mondo (3,14-16), poi come conoscenza di Io-Sono (8,28) e infine come glorificazione del Padre e del Figlio, vittoria sul male e attrazione di ogni uomo a Dio. Sulla croce di Gesù, tutti possono vedere in pienezza il mistero di Dio. Sia i giudei che i pagani potranno conoscere e accogliere il Messia, salvatore del mondo, solo se guardano in alto, verso il Figlio dell’uomo elevato. In lui Dio si rivela pienamente: è amore tra Padre e Figlio, comunicato dal Figlio a tutti i fratelli.

Gesù, dalla croce, attira tutti a sé. Infatti rivela la verità del Dio amore, che vince la menzogna del capo di questo mondo.

La Chiesa, come tutti, è chiamata a conoscere e seguire il suo cammino che va dalla morte alla vita, a differenza del nostro che va dalla vita alla morte. L’inevitabile turbamento che esso provoca in noi, come in lui, è superabile solo nella forza della voce di Dio, che ne manifesta il mistero di gloria e di fecondità.

2. Lettura del testov. 20: C’erano dei greci. Il dominio del Messia si estende a tutti (cf. Zc 9,10). I greci

sono i non giudei, proseliti e simpatizzanti.salivano per adorare durante la festa. Sono saliti a Gerusalemme durante la Pasqua per

adorare il Signore; incontrano il Figlio, in cui si adora il Padre in spirito e verità (4,23).

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v. 21: si avvicinarono a Filippo, di Betsaida di Galilea. È uno dei primi discepoli di Gesù (cf. l,35ss). Insieme ad Andrea porta un nome greco. Andrea è il primo che, con un altro, ha cercato Gesù, ha sentito l’invito: «Venite e vedrete», ha dimorato con lui e lo ha seguito (l,39s). Filippo aderì il giorno dopo, chiamato direttamente da Gesù (1,43). Ambedue sono di Betsaida (casa della pesca!).

vogliamo vedere Gesù. Vedere significa conoscere, aderire, credere. La fede è «vedere». I greci desideravano vedere la luce che viene nel mondo per illuminare ogni uomo (1,9). Esprimono il loro desiderio a Filippo, non direttamente a Gesù. I «greci» infatti, e noi tra questi, accederanno a Gesù mediante i suoi discepoli.

v. 22: viene Filippo e (lo) dice ad Andrea; viene Andrea e Filippo e (lo) dicono a Gesù. Andrea e Filippo sono associati qui, in 1,44 e 6,7s. Sono i primi discepoli che ascoltano il desiderio dei pagani di vedere Gesù; ne parlano tra di loro e con Gesù stesso.

v. 23: Gesù rispose loro. Gesù non risponde ai greci, ma ai discepoli, che dovranno continuare la sua missione. Nella sua risposta mostra «dove», sia loro che gli altri, possono vedere il Signore: sulla croce, dove è abbattuta ogni separazione, distrutta l’inimicizia e annunciata la pace ai lontani e ai vicini, ai pagani e ai giudei (cf. Ef 2,14-18). Nelle parole che seguono Gesù espone sinteticamente il senso della sua vita, che propone a ogni discepolo, di ogni luogo e di ogni tempo.

è venuta l’ora. L’ora, di cui si è parlato per la prima volta a Cana (2,4; cf. anche 4,21.23; 5,25; 7,30; 8,20), è venuta (cf. 12,23.27; 13,1; 17,1). Tutto il «giorno» di Gesù culmina in quest’ora: è l’ora della glorificazione del Figlio e del Padre (cf. vv. 23.28).

che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In Giovanni la vita di Gesù è vista nella prospettiva di quest’ora: è illuminata dalla gloria del Dio amore, che si manifesta sulla croce. Lì il Figlio dell’uomo è glorificato: rivela Dio come Dio, nella sua distanza infinita da ogni immagine che l’uomo si è fatta e si farà di lui. Anche gli altri Vangeli hanno come punto di arrivo la rivelazione della Gloria nel Crocifisso. Giovanni ha però una prospettiva rovesciata: contempla la vita di Gesù all’indietro, dal suo compimento. Per questo il suo Vangelo è tutto una «trasfigurazione», che legge ogni evento come «segno» della Gloria.

v. 24: amen, amen vi dico. Con questa forma solenne di rivelazione divina, Gesù dice, a chi «vuole vederlo», dove lo può vedere: innalzato sulla croce. Questa è la sua gloria, il mistero di fecondità e vita del seme che muore.

se il chicco di frumento. Gesù prende un esempio dalla creazione per indicare il mistero della nuova creazione. Egli, che è Parola, pane e vita, si paragona al seme di frumento, che esplica la sua forza vitale proprio quando cade nella terra. Il destino del seme, che produce secondo la sua specie, è lo stesso del Figlio dell’uomo: come il seme cade nella terra, muore e porta molto frutto, così Gesù, innalzato dalla terra, attira a sé tutti gli uomini e comunica loro la sua vita di Figlio.

Gesù esprime con questa parabola la «necessità» divina (dei) della sua croce (cf. v. 34), che dà vita attraverso la propria morte.

rimane solo. Se il Figlio unico non comunica la propria vita ai fratelli, rimane «solo»: l’unigenito (monogenés) rimane unico (mónos). In questo caso non sarebbe Figlio di Dio, perché non vivrebbe nell’amore che il Padre ha verso tutti i suoi figli. Se non amasse i fratelli, perderebbe la sua identità di Figlio. Lo stesso vale per ogni uomo, creato in lui.

L’egoismo è sterile; il seme che volesse conservarsi, resterebbe solo e perderebbe la sua qualità di seme: non comunicherebbe vita. Una vita che non si dona è morta.

se invece muore, porta molto frutto. Un chicco che muore è fecondo: dando la vita, è principio di vita. La glorificazione del Figlio è la stessa del seme che muore: dando la vita, si rivela uguale al Padre, principio di vita per tutti. I greci, che vogliono vedere Gesù, sono la primizia di questa fecondità.

v. 25: chi ama la sua vita la perde. Risuonano le stesse parole che Gesù rivolge alle folle e ai discepoli in Mc 8,35p: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà». Questo vale

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per ogni uomo: l’egoista, attaccato alla propria vita, si ripiega su di sé e resta solo. Perde la sua vita, perché la vita è relazione e amore. Chi vuol trattenere il respiro, muore soffocato. Si vive perché si inspira e si espira: la vita circola in quanto ricevuta e data per amore.

chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per (la) vita eterna. Corrisponde al detto di Gesù: «Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35p). «Odiare» si contrappone a «amare», «conservare per la vita eterna» a «perdere la vita». Per quanto sembri paradossale, è vero: chi «ama» la propria vita, la «perde», anche nel presente; chi la «odia», la realizza pienamente e la «conserverà» anche per il futuro. La vita infatti è amore: si realizza nel dono di sé. È come il seme: solo se cade nella terra e muore, diventa fecondo.

Chi «odia» la sua vita, la ama veramente. Infatti non è più sotto il dominio del capo di questo mondo che lo tiene nella morte (cf. v. 31); ha vinto il maligno, padre della menzogna e omicida (8,44), ed è figlio del Padre della verità che dà vita.

v. 26: se uno mi vuol servire. L’invito di Mc 8,34p ad andare dietro di lui, in Giovanni diventa «servire lui», che per primo si è fatto servo dei fratelli. Servire è l’espressione concreta dell’amore: l’amore è servo della vita. Chi non ama è schiavo della morte.

segua me. Gesù invita chi vuol diventare come lui a seguire lui, facendo il suo stesso cammino.

dove sono io, lì sarà anche il mio servo. «Dove dimori?», sono le prime parole rivolte a Gesù (cf. 1,38). La dimora di Gesù è il Padre, che ama il Figlio (cf. 5,20) e tanto ama il mondo da dare suo Figlio (3,16). Anche noi siamo chiamati a dimorare con lui nel Padre mediante l’amore. L’amore fa chi ama casa dell’amato: uno abita dove sta con il suo cuore più che con il corpo. Seguendo Gesù che si fa servo (cf. 15,10.12-14), anche noi siamo dove è lui: dimoriamo in lui (15,4.9b), viviamo come lui nel Padre e viceversa (cf. 14,15-23).

Gesù chiama il discepolo «mio servo», conferendogli la sua stessa dignità di Figlio, che pone la propria vita a servizio dei fratelli.

se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Chi si fa servo, è onorato dal Padre come figlio. Chi ama e serve fino a dare la vita, ha vinto la morte e ha la vita: riceve quel nome che è al di sopra di ogni altro nome (cf. Fil 2,5-11).

v. 27: adesso la mia anima è turbata. «Adesso», giunta l’ora in cui si compie il destino del seme di frumento, Gesù è turbato, come davanti alla morte di Lazzaro (11,33). In questo versetto Giovanni sintetizza il racconto dell’agonia nell’orto. Gesù prova angoscia e paura; ha terrore e tremore davanti a una morte nel fiore degli anni, una morte violenta e ingiusta, infame e nell’abbandono totale (cf. Mc 14,33-34p). Lui, che ha vissuto e proclamato l’amore del Padre e dei fratelli, cade vittima dell’odio e dell’incomprensione. Lui, che è la luce del mondo, finisce sotto terra.

È importante questo turbamento di Gesù. Se non ci fosse, noi saremmo soli e smarriti davanti a ciò che ci rende soli e smarriti: la morte, la violenza, l’ingiustizia, l’infamia e l’abbandono. Egli invece è con noi e vive questa situazione da figlio, con fiducia nel Padre. Adamo, per la sua sfiducia, cadde nelle tenebre; Gesù, il nuovo Adamo, porta in questa tenebra la luce del Padre.

Gesù nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a chi poteva liberarlo dalla morte; e fu esaudito perché «prese bene» e grida e lacrime e morte. Proprio per questo è il Figlio pienamente unito al Padre, che salva tutti coloro che lo ascoltano (cf. Eb 5,7-9).

e che posso dire. In questa situazione, pur nel turbamento, Gesù non ha nulla da dire. Egli è la Parola rivolta verso il Padre e non ha altro da dire se non colui del quale è «la Parola».

Padre. È «la Parola», detta dal Figlio, che dice il Padre. In essa si esprime totalmente Dio come amore e consegna reciproca tra Padre e Figlio. L’invocazione richiama l’Abbà che risuonò sulle labbra di Gesù nel Getsemani (Mc 14,36p).

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salvami da quest’ora. Gesù, come ogni uomo normale, ha paura della morte. E la supera con la fiducia nel Padre della vita (Eb 2,14). Queste parole corrispondono alla domanda che passi da lui quell’ora (Mc 14,35p). Giovanni descrive in modo molto conciso il dramma interiore di Gesù davanti alla sua passione, che è quello di ogni uomo davanti alla morte: vorrebbe evitarla.

ma per questo venni a quest’ora. È la decisione di Gesù. È venuta l’ora (v. 23) per la quale egli è venuto; e l’accetta (cf. Mc 14,41p). Non perché non senta paura, angoscia e turbamento, ma perché vive con fiducia nel Padre tutto questo, che è la condizione dell’uomo dopo il peccato. Così vince il peccato. È il Figlio che, trovandosi nella stessa condizione dei suoi fratelli, si rivolge, a nome di tutti, al Padre.

v. 28: Padre, glorifica il tuo nome. Gesù chiede al Padre di glorificare il suo nome: di farsi conoscere, attraverso di lui, come Padre. La glorificazione del Padre avviene in quella del Figlio, che ama con il suo stesso amore i fratelli.

Queste parole corrispondono a quanto dice Gesù nel Getsemani: «Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Quest’unione di volontà tra Padre e Figlio è la vita stessa di Dio: è il loro amore reciproco, lo Spirito Santo, che in Gesù si comunica a ogni creatura.

allora venne una voce dal cielo. Nei vv. 28b-30 Giovanni riferisce il senso profondo della trasfigurazione, posta dagli altri Vangeli al centro della vita di Gesù. Giovanni non la racconta, perché è l’ottica nella quale legge tutta la sua vita: ogni parola e opera è «segno» della sua gloria di Figlio del Padre. Al Figlio dell’uomo, che nell’agonia lo chiama «Padre», la voce dal cielo risponde proclamandolo Figlio. Quanto gli altri Vangeli dicono esplicitamente della scena luminosa della trasfigurazione (cf. Mc 9,2-8p), qui è misteriosamente espresso dalle parole: «Glorificai e ancora glorificherò».

glorificai. Il verbo è senza oggetto; si riferisce al «nome» del Padre, di cui immediatamente sopra. Ma la glorificazione del Padre avviene in quella del Figlio, che rivela e offre a noi l’amore del Padre. Il nome del Padre è stato glorificato nel battesimo di Gesù con il dono dello Spirito, che lo costituisce Figlio suo e fratello nostro (l,33s). Inoltre è stato glorificato mediante le opere che il Padre gli ha dato da compiere, «segni» della Gloria, comune ad ambedue.

e ancora glorificherò. Il Padre glorificherà il suo nome sulla croce, quando il Figlio darà lo Spirito e rivelerà la sua gloria di Unigenito dal Padre (1,14). E lo glorificherà anche nella storia, attraverso i numerosi fratelli che vivranno del suo amore di Figlio e conosceranno il Padre.

v. 29: la folla, che stava (lì) e aveva ascoltato, diceva, ecc. La folla ha sentito la «voce» e ha intuito che c’è qualcosa di divino. C’è chi dice che è un tuono, voce di Dio (cf. Es 19,16-19; Dt 5,4; Gb 37,5), Signore del tuono (cf. Sal 29); c’è chi dice che è un «angelo», una voce che gli comunica un mistero divino (cf. Lc 22,43!).

Hanno sentito la voce del Padre dal cielo, come hanno sentito le parole del Figlio sulla terra. Ma per ora non hanno capito la voce celeste perché non hanno capito le parole della Parola diventata carne. Sia la voce che le parole sono dei «segni», leggibili alla luce della realtà che significano. La loro comprensione avverrà quando il Figlio dell’uomo sarà innalzato e tutto sarà compiuto (19,30).

v. 30: non è stata per me questa voce, ma per voi. Mentre la folla ritiene che la voce sia rivolta a Gesù (un angelo «gli» ha parlato, v. 29), Gesù dice che questa voce non è per lui, ma per la folla, tra la quale c’è il lettore stesso. Corrisponde alla voce della trasfigurazione che rivela il Figlio agli astanti e dice loro: «Ascoltate lui» (cf. Mc 9,7p).

Questa voce è per noi, affinché lo riconosciamo Figlio. Egli infatti non chiede conferme. È sempre unito al Padre e sa che sempre lo esaudisce (cf. 11,42).

v. 31: adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il capo di questo mondo sarà espulso fuori. Nell’ora in cui il nome del Padre è glorificato nel Figlio, nell’ora in cui l’uomo conosce l’amore di Dio per il mondo, c’è il giudizio che mostra la menzogna del «capo» di questo

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mondo. Satana, principio di menzogna e di morte, si è messo a capo (in greco árchôn) del mondo, sostituendosi al principio di verità e vita (cf. 1,1); ora è espulso dal mondo e vinto. Davanti al Figlio dell’uomo innalzato cessa la menzogna che ci ha fatto fuggire da Dio (cf. 3,14ss): finalmente ritroviamo nell’amore del Figlio, che è lo stesso del Padre, la sorgente della nostra vita.

v. 32: quando sarò innalzato da terra. «Il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato» (Is 52,13). La croce di Gesù, il servo, non è vista come uccisione e morte, ma come esaltazione e gloria: il suo cadere nella terra (v. 24) è il suo essere innalzato dalla terra.

Le parole di Gesù sul Figlio dell’uomo innalzato – che qui diventa «io» – corrispondono, come già detto, alle predizioni sulla morte e risurrezione degli altri Vangeli. Nella prima il Figlio dell’uomo innalzato dona salvezza al mondo perché rivela l’amore del Padre (3,14.16), nella seconda rivela «Io-Sono», l’essenza di Dio (8,28); in questa terza vince il capo di questo mondo e «attira tutti» a sé. Infatti, nel dono ormai imminente della vita, appare la Gloria: conosciamo l’amore del Padre, la verità che ci libera.

tutti attirerò a me stesso. Chi non conosce l’amore del Padre, è in fuga da lui come Padre, da sé come figlio e dagli altri come fratelli: entra nelle tenebre e nella morte. Però il suo cuore è fatto per la verità e per l’amore, per quella verità che è l’amore, luce della sua esistenza. Quando finalmente «vede» ciò per cui è fatto, lo riconosce subito, come la sete riconosce l’acqua. Allora, libero dalla cecità e dalle paure che lo bloccano, è attirato verso il Figlio che gli rivela la sua identità di figlio. Allora ritorna al Padre e si volge ai fratelli.

«Attirerò» è al futuro: vale da allora per un futuro senza fine. Il futuro del mondo è l’attrazione d’amore verso il Figlio. «Tutti», nessuno escluso, sulla croce vedranno la sua gloria e saranno attirati a lui. Lì lo vedranno non solo i greci, che volevano vedere Gesù (v. 21). Qualunque uomo lo voglia vedere, solo lì potrà vederlo; e il suo occhio attirerà il suo cuore. Ogni visione di Dio al di fuori della croce è satanica, sotto l’influsso del «capo» di questo mondo: la croce «sdemonizza» l’immagine che l’uomo ha di Dio, restituendo ad ambedue il loro vero volto, l’uno specchio dell’altro.

v. 33: questo diceva significando di quale morte stava per morire. Le parole di Gesù si riferiscono alla croce. È un commento dell’evangelista, sempre attento a leggere tutto dalla fine.

quale morte. La morte di Gesù non sarà per lapidazione, come più volte i suoi avversari hanno tentato di fare: sarà per «innalzamento» da terra.

v. 34: il Cristo rimane in eterno. È l’obiezione della folla a Gesù, accolto poco prima come Messia: come può dire che il Messia muore, e crocifisso, se la Scrittura dice che rimane in eterno (cf. 2Sam 7,16; Sal 89,37)? Il tema della regalità apparirà con chiarezza nel racconto della passione.

come mai dici tu che bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato? (cf. 3,14). Morendo sul patibolo, Gesù delude l’attesa dell’uomo, ma proprio così compie ogni promessa di Dio (cf. 19,30). Per questo «bisogna» che sia innalzato il Figlio dell’uomo.

Il rifiuto del Messia crocifisso (cf. Mc 8,32sp) è rifiuto di Dio e della sua gloria. Questo rifiuto è causa della croce ed è vinto solo dalla croce. Da lì infatti Dio si rivela come è: amore assoluto.

chi è questo Figlio dell’uomo? Corrisponde alla domanda dell’ex cieco (cf. 9,35s). Dobbiamo guarire dalla nostra cecità, per conoscere il dono di Dio. Gesù ha espressamente usato l’espressione «Figlio dell’uomo» per designare se stesso. È una figura gloriosa e divina, che emerge, sovrana e maestosa, da una situazione di sofferenza (cf. Dn 7,1ss).

Gesù non prende una parte della Scrittura, come i suoi ascoltatori che guardano solo alla promessa regale di 2Sam 7,8-16. Egli corregge la nostra falsa immagine di re (cf. Gdc 9,7-15; 1Sam 8,1ss) attraverso quella del Servo sofferente di Isaia e quella del Figlio dell’uomo di Daniele.

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v. 35: ancora per un piccolo tempo la luce è tra voi (cf. 7,33; 13,33; 14,19; 16,16). Gesù risponde alla domanda sulla propria identità invitando a guardare a lui, luce del mondo che tra poco scomparirà: il chicco cadrà nella terra, la luce entrerà nelle tenebre.

camminate finché avete la luce (cf. 8,12; 11,9). Gesù esorta ad una scelta: a «camminare» alla sua luce, per non restare nelle tenebre. È il tema del contrasto tra luce e tenebre che, come quello tra vita e morte, attraversa tutto il Vangelo.

chi cammina nella tenebra non sa dove va. Chi non cammina alla luce del Figlio dell’uomo innalzato, che rivela l’amore del Padre, «non sa dove va» perché non sa da dove viene: vive smarrito, nell’ignoranza del proprio principio e del proprio fine.

v. 36: finché avete la luce, credete nella luce. Camminare ora diventa «credere nella luce»: bisogna aderire a lui, il Figlio, luce del mondo, dal quale tutto il creato riceve vita e luce (cf. 1,3-5.9). Ancora per poco rimane tra loro: presto morirà. Ma proprio così sarà innalzato e illuminerà tutti: il suo andarsene sarà la luce definitiva, la Gloria.

per diventare figli della luce. Chi aderisce a lui, è acceso della stessa luce, che è l’amore: chi crede in lui, ha in sé la fonte d’acqua zampillante, lo Spirito del Figlio (cf. 4,14; 7,37s).

queste cose disse Gesù e, allontanatosi, si nascose da loro. Qui finisce la rivelazione pubblica e inizia quella ai discepoli. Misteriosamente il Figlio si allontana per tornare al Padre, là dove sta di casa, là dove noi non possiamo andare se non per mezzo di lui.

Gesù si nasconde da loro. È già il preludio della sua morte, quando la luce scompare nelle tenebre. Ma cosa fa la luce nelle tenebre? Gesù che si nasconde è il Figlio dell’uomo innalzato: sarà luce sul lucerniere. Lì tutti potranno vederlo.

L’allontanarsi e nascondersi richiama il «gioco» tipico di Dio con l’uomo: si allontana per chiamare vicino, si nasconde per farsi cercare. È il significato profondo del gioco di velarsi e svelarsi il volto, o quello del nascondino, che fanno i bambini: è come un morire per ritrovarsi, nuovi, nello stupore dell’incontro.

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando Gesù che parla ai discepoli, dopo che la folla l’ha osannato

e i greci vogliono vederlo.c. Chiedo ciò che voglio: vedere Gesù là dove si fa vedere, nel mistero del Figlio

dell’uomo innalzato che attira tutti a sé.d. Contemplo con attenzione le parole con cui Gesù sintetizza la sua esistenza di Figlio

e la nostra di suoi discepoli.

Da notare:• i greci vogliono vedere Gesù• la mediazione di Filippo e Andrea• è venuta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo• se il chicco di frumento caduto nella terra non muore, rimane solo• se muore porta molto frutto• chi ama la sua vita, la perde• chi odia la sua vita, la custodirà per la vita eterna• se uno mi vuol servire, segua me• dove sono io, là sarà anche il mio servo• il Padre mio lo onorerà• adesso la mia anima è turbata• posso dire: Padre salvami da quest’ora?• per questo venni a quest’ora• Padre, sia glorificato il tuo nome

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• la voce dal cielo• glorificai e ancora glorificherò• la folla dice che è un tuono, che un angelo gli ha parlato• Gesù dice che questa voce non è per lui, ma per noi• adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il capo di questo mondo è espulso• quando sarò innalzato dalla terra, attirerò tutti a me• Gesù dice di «quale» morte sta per morire• come mai il Cristo rimane in eterno e Gesù dice che il Figlio dell’uomo deve essere

crocifisso?• chi è questo Figlio dell’uomo?• ancora per un piccolo tempo la luce è tra voi• camminate finché avete la luce perché la tenebra non vi afferri• chi cammina nelle tenebre non sa dove va• finché avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce• Gesù si allontana e si nasconde da loro.

4. Testi utiliSal 22; 25; 26; 27; 30; 31; 38; 40; Is 52,13-53,12; Dn 7; 1Cor 1,18-2,16.

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32. NON CREDEVANO IN LUI12,37-50

12,37 Pur avendo egli compiuto tanti segni davanti a loro,non credevano in lui,

38 perché si compisse la parolache disse il profeta Isaia:Signore, chi credette al nostro ascolto?E il braccio del Signorea chi fu rivelato?

39 Per questo non potevano credere,perché Isaia ancora disse:

40 Ha accecato i loro occhie indurì il loro cuoreperché non vedano con gli occhie (non) comprendano con il cuoree si convertanoe (io) li guarisca.

41 Queste cose disse Isaia,poiché vide la sua gloriae parlò di lui.

42 Così pure molti dei capicredettero in lui;ma, a causa dei farisei,non confessavano,per non essere espulsi dalla sinagoga.

43 Amarono infatti la gloria degli uominipiù della gloria di Dio.

44 Ora Gesù gridò e disse:Chi crede in me,non crede in me,ma in chi mi inviò;

45 e chi vede me,vede chi mi inviò.

46 Io, luce,sono venuto nel mondo,perché chiunque crede in me,non dimori nella tenebra.

47 Se uno ascolta le mie parolee non le conserva,io non lo giudico;non venni infattia giudicare il mondo,ma a salvare il mondo.

48 Chi trascura mee non accoglie le mie parole,ha chi lo giudica:la parola che parlai,quella lo giudicherà

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nell’ultimo giorno.49 Poiché io non parlai da me stesso,

ma chi mi inviò, il Padre,egli stesso mi ha dato un comando(su) cosa dire e cosa parlare.

50 E so che il suo comandoè vita eterna.Le cose dunque di cui io parlo,come me (le) ha dette il Padre,così (ne) parlo.

1. Messaggio nel contesto«Non credevano in lui», nonostante i segni compiuti davanti a loro. Alla fine del libro

dei segni, Giovanni fa una riflessione teologica sull’incredulità che Gesù ha incontrato. L’e-vangelista è preoccupato di comprendere il mistero, sempre presente, della mancanza di fede. Essa, come la fede, ha il potere di meravigliare il Signore stesso (cf. Mc 6,6a; Lc 7,9): l’uso che l’uomo fa della sua libertà è qualcosa di inedito, una novità capace di stupire anche chi gliel’ha data.

I segni, compiuti da Gesù e narrati nel Vangelo, hanno un unico fine: portarci a credere in lui, il Figlio, per avere vita eterna (20,30s). Come mai davanti agli stessi segni c’è chi crede e chi non crede?

Ogni racconto di Giovanni conclude con una valutazione in termini di fede o di incredulità da parte di chi vede. Lo spettatore, come il lettore, è sempre «il terzo», colui per il quale il segno è compiuto o narrato. Per tutti, infatti, la salvezza è aderire al Figlio: il Figlio dell’uomo è la verità dell’uomo.

Già nel prologo si parla della luce venuta nel mondo e non accolta (1,11): il dramma luce/tenebra, vita/morte e fede/incredulità attraversa tutto il Vangelo. In 2,11 i discepoli vedono il primo segno e credono; qui invece le folle non credono, nonostante che abbiano visto tanti e tali segni.

Credere è un atto di intelligenza, che coglie ciò che i segni significano: è vedere l’in-visibile, la gloria che in essi si manifesta, come il significato in una parola.

Giovanni legge l’incredulità sotto vari aspetti. Innanzitutto non è una novità. Antica come Adamo, contagiò fin dall’inizio il popolo di Dio. Fu il male di cui soffrirono i padri nel deserto, come si allude al v. 37 (cf. Dt 29,1-3). Inoltre ha tre motivi.

Il primo motivo dell’incredulità nel Figlio dell’uomo innalzato è quanto dice Is 52,13-53,1 (cf. v. 38): l’incredibilità dell’opera di Dio, troppo sublime per essere compresa, luce eccessiva per il nostro debole occhio. Il secondo motivo è che l’uomo non è che non «vuole», bensì non «può» credere (v. 39), perché è misteriosamente accecato (v. 40; Is 6,9-10). Il terzo e ultimo motivo è che l’uomo, cercando la gloria che viene dagli uomini (v. 43), non conosce quella che viene da Dio.

L’uomo è fatto per la luce della verità, che è l’amore di Dio per lui. Ma questo non può essere imposto: è liberamente accettato da chi lo conosce e necessariamente rifiutato da chi lo ignora. Chi ignora l’amore del Padre, non può riconoscere il Figlio, se stesso come figlio e gli altri come fratelli.

L’incredulità è causa della croce. Ma proprio sulla croce Dio rivela il suo amore «incredibile», unico antidoto all’incredulità (cf. 3,14-16; 8,28; 12,32). Possiamo dire che il non credere produce il motivo ultimo per credere: la croce. È l’astuzia di Dio, che volge tutto al bene (Rm 8,28), anche il nostro male. Lui, che in un otre raccoglie la acque del mare (Sal 33,7), dalla croce si rivela come il Signore che dirige la storia al fine desiderato (cf. At 4,27s).

Il testo si articola in due parti. La prima (vv. 37-43), attraverso un’allusione a Dt 29,1-3, due libere citazioni di Isaia e un’annotazione dell’evangelista, esamina le tre cause dell’incre-

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dulità: l’incredibilità di Dio stesso, la cecità provocata nell’uomo e la sua conseguente vanità. Possiamo dire che, a diverso titolo, i «colpevoli» della croce sono tre: Dio, il nemico e l’uo-mo, ciascuno a modo proprio.

La seconda parte (vv. 44-50) è un ultimo appello di Gesù a credere in lui per avere vita. In esso risuonano i temi emersi nel prologo e giocati nel seguito del Vangelo, con una parafrasi della prima rivelazione di Gesù (cf. 3,16-21). Sullo sfondo c’è Dt 18,15-22, dove si parla del profeta pari a Mosè, al quale dare ascolto.

Credere nel Figlio è «la decisione» che salva l’umanità dell’uomo: lo rende ciò che è, figlio di Dio. Dio ha fatto di tutto per condurlo a credere al suo amore e fargli conoscere la verità che lo fa libero. Questo è il senso globale della Scrittura e dell’opera di Gesù, che compie verso i fratelli l’opera del Padre.

Questa riflessione sull’incredulità è posta dopo l’ultimo annuncio del Figlio dell’uomo innalzato e prima del suo innalzamento. Il problema della fede si pone davanti al mistero della croce: è l’accettazione di un Messia, anzi di un Dio crocifisso. Ciò che è stupidità e debolezza per gli uomini (cf. 1Cor 1-3), rivela la gloria di quel Dio che nessuno mai ha visto e che il Figlio ha rivelato.

Si tratta di una postfazione al libro dei segni: chi non accoglie questi, provoca il giudizio di Dio e la rivelazione della Gloria. Con queste parole si chiude il libro dei segni e inizia l’ora in cui si compie ciò che essi significano.

Gesù è il Figlio, inviato dal Padre per comunicare ai fratelli la sua stessa vita di figlio. La diffidenza che incontra è «il» peccato, vecchio come la menzogna che ha allontanato l’uomo da Dio. È l’incredulità, denunciata da Mosè e Isaia, da legge e profeti, che sarà la causa della croce.

La Chiesa ha le sue resistenze a credere, come tutti; ma sperimenta anche la resa di chi vede compiersi in esse e attraverso di esse il grande mistero di Dio: la croce, rivelazione sua e salvezza nostra.

2. Lettura del testov. 37: Pur avendo egli compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano. È un’allu-

sione al discorso di Mosè, che rimprovera il popolo che ha visto segni e prove grandiose, ma «fino ad oggi il Signore non vi ha dato mente per comprendere, né occhi per vedere, né orecchi per udire» (cf. Dt 29,1-3).

I segni che Gesù ha fatto sono le sue opere a favore dell’uomo, che l’evangelista ha raccontato: questi dovrebbero essere sufficienti per credere che lui è Figlio di Dio e avere vita eterna (20,30s). Infatti dice Gesù: «Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre» (10,37s). Già al primo segno, a Cana, i discepoli hanno creduto (2,11). Perché gli altri non credono alla Parola che dà il potere di diventare figli di Dio (1,12)? Perché le tenebre non accolgono la luce (1,11), perché gli uomini preferiscono le tenebre (3,19-21) e non vogliono venire a lui per avere vita (5,40)?

La vita e la morte dell’uomo si giocano nella fede. Il perché dell’incredulità è la domanda che si sono posti Mosè e i profeti, che si pone Gesù e ogni credente. È la domanda, anzi il dramma di Dio stesso, che ama l’uomo e non sa più che fare per guarirlo dal suo male.

v. 38: perché si compisse la parola che disse il profeta Isaia. Iniziano le citazioni di compimento della Scrittura, che diventeranno sempre più frequenti nel racconto della passione.

Giovanni spiega questa incredulità attraverso Isaia, nominato tre volte (vv. 38.39.41).Signore, chi credette al nostro ascolto? (Is 53,1a). Il profeta aveva già previsto questa

incredulità davanti al Servo di JHWH, esaltato ed innalzato. Infatti, al vedere la gloria di colui che era tanto «sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto», tutti si meraviglieranno, perché

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«vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito» (Is 52,14-15).

il braccio del Signore a chi fu rivelato? (Is 53,1b). Richiama «il braccio teso» (Es 6,6) con cui Dio liberò il suo popolo dalla schiavitù. Chi può riconoscere la potenza del Signore nelle braccia inchiodate del Crocifisso?

Il mistero della croce risulta incomprensibile perché presenta ciò che occhio umano mai non vide, né orecchio mai udì, né mai entrò in cuore di uomo e che Dio ha preparato per coloro che lo amano (cf. 1Cor 2,9; Is 64,3). Il primo motivo dell’incredulità è quindi l’incredibilità dell’amore eccessivo di Dio, che si manifesta nel dono del Figlio innalzato. Davvero Dio ha reso la sua promessa più grande di ogni fama (Sal 138,2).

v. 39: per questo non potevano credere, perché Isaia ancora disse. Non è che le persone non «volevano», ma non «potevano» e non possono credere, anche per un secondo motivo: la loro cecità, predetta da Is 6,9-10.

v. 40: accecò i loro occhi, ecc. (Is 6,9-10). Il testo è preso dal racconto della vocazione di Isaia. Ma Giovanni lo modifica. Mentre in ebraico è il profeta che rende il popolo duro di orecchi e cieco; mentre nella versione greca dei LXX è il popolo che non vuole convertirsi, Giovanni qui dice che un altro, non nominato ma ben riconoscibile, «accecò gli occhi e indurì il cuore». Autore della cecità non è né il profeta, né il popolo, né tantomeno il Signore: è il capo di questo mondo, che il Signore è venuto a gettar fuori (v. 31). E lo getta fuori con il suo essere innalzato, che ci fa vedere il suo amore incredibile. Si tratta del diavolo, il menzognero e omicida dall’inizio (8,44; 13,2), il satana che entra nel cuore di Giuda (13,27). Egli, con la sua menzogna, ha distolto l’orecchio dalla Parola di vita, accecando gli occhi e indurendo il cuore di tutti (cf. Gen 3,1ss): «Non potete ascoltare la mia parola. Voi siete da quel padre che è il diavolo e volete fare i desideri del padre vostro» (8,43b-44a). È lui che ci ha proposto un’immagine diabolica del Padre, precisamente la sua. Per questo non possiamo vedere, comprendere e volgerci al Signore.

Giovanni tralascia anche «l’indurimento di orecchi» di cui parla Is 6,10 per insistere sugli occhi e sul cuore. Infatti chi ha un cuore libero, può vedere dalle sue opere chi è lui (cf. v. 37; 5,36; 7,31; 10,37s). Egli non propone una dottrina: è luce del mondo proprio nella sua carne di Figlio, che fa vedere chi è il Padre. L’evangelista inoltre, a differenza di Is 6,9-10, non nomina «il popolo». Questo termine ha per lui un significato positivo; sono invece i suoi capi, anche se non tutti (cf. v. 42), ad essere ciechi e duri di cuore.

Quindi se la prima causa dell’incredulità è l’incredibilità dell’amore di Dio, la seconda è la cecità dell’uomo, ingannato dalla menzogna che solo la croce vincerà.

e (io) li guarisca. L’evangelista sta parlando di Gesù, luce, verità e vita in lotta con il potere di tenebra, menzogna e morte. Egli è venuto a gettar fuori il capo di questo mondo (v. 31), in modo che l’uomo sia guarito, come l’infermo presso la piscina (5,6.9.11.13).

v. 41: queste cose disse Isaia, poiché vide la sua gloria e parlò di lui. Isaia vide nel tempio la gloria di Dio (Is 6,1-4): è la stessa di Gesù, l’unigenito Figlio di Dio (1,14; 17,4.22). Egli ha visto la gloria che il Figlio da sempre ha presso il Padre, prima della fondazione del mondo (17,5): è l’amore tra Padre e Figlio, che si rivela pienamente nell’esaltazione «del Servo innalzato», di cui il profeta parla. I canti del Servo di JHWH, attribuiti a Isaia, sono i testi dell’AT che meglio aiutano a capire la gloria del Figlio dell’uomo crocifisso.

v. 42: pure molti dei capi credettero in lui (At 6,7). «Molti» dei capi credono in Gesù; non si parla però dei farisei, gli osservanti della legge, che restano i suoi oppositori. Dopo aver parlato dell’incredulità generale (v. 37), Giovanni, come spesso fa, corregge l’afferma-zione, precisandola e limitandola; c’è sempre uno spiraglio di luce: la fede si fa breccia nell’incredulità, la tenebra non vince la luce. Analogamente, nel prologo, dice che i suoi non l’hanno accolto, ma subito dopo afferma che, a quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio (1,11-12).

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Questi «molti» tra i capi sono quanti si sono sottratti al capo di questo mondo. Tra di essi conosciamo Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (3,1; 7,50; 19,38.39).

ma, a causa dei farisei, non confessavano. I veri avversari del Cristo sono quelli che intendono la legge non come libertà di figli, ma come schiavitù alla lettera. La paura di essere scacciati dalla sinagoga (cf. 9,22; 16,2) impedisce agli altri di confessare apertamente la fede in Gesù. Questa è la situazione della Chiesa giudeo-cristiana di Giovanni che, dopo aver convissuto in pace con la sinagoga (cf. At 2,46-47; 3,1), comincia ad esserne espulsa.

v. 43: amarono infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio. Amare la gloria degli uomini, oltre che ostacolare la confessione di fede, è anche il terzo motivo di incredulità (cf. 5,44), conseguenza dei due precedenti. Non conoscendo la gloria di Dio, sia per sublimità sua che per cecità nostra, siamo vanagloriosi, vittime della vanità: diventiamo schiavi degli occhi altrui (Ef 6,6; Col 3,22), preferiamo le tenebre alla luce (cf. 3,19) e non abbiamo in noi stessi l’amore di Dio (5,42). Solo dopo aver visto la gloria del Figlio dell’uomo innalzato, anche Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo supereranno la paura che prima avevano (19,38.39).

v. 44: Gesù gridò e disse. È la terza ed ultima volta che Gesù grida (7,28.37; cf. anche 11,43). È il grido della Sapienza, che invita a volgersi a lei per avere vita (Pr 8,1ss). Questi versetti sono la conclusione del libro dei segni, una sintesi di quanto finora la Parola ha detto.

Gesù non ha davanti degli uditori: il suo grido risuona, al di là dello spazio e del tempo, invitando ogni uomo a credere in lui per avere vita. Egli è al centro di tutto, perché tutto ha in lui la propria vita. Nei vv. 44-50 esce diciassette volte il pronome della prima persona (io/di me/me/mi) riferito a Gesù, che interpella direttamente chiunque lo ascolta. L’invito contiene le parole chiave del Vangelo di Giovanni: credere, inviare, vedere, luce, dimorare, ascoltare, parola, giudicare, salvare, mondo, trascurare, accogliere, parlare, Padre, comandare, vita eterna. All’inizio di tutto c’è il credere in Gesù: l’adesione a lui fa conoscere chi è veramente Dio e fa ascoltare le sue parole, che salvano dalla morte e danno vita eterna.

chi crede in me, non crede in me, ma in chi mi inviò. Credere in Gesù, il Figlio, è credere al Padre che l’ha inviato per salvare il mondo (3,16).

v. 45: chi vede me, vede chi mi inviò (cf. 14,9). Nessuno mai ha visto Dio: il Figlio unigenito l’ha raccontato (1,18). In lui vediamo la gloria dell’Unigenito dal Padre (1,14). Non nella legge, come la intendevano i farisei, si vede Dio, ma nella sua carne di Figlio dell’uomo innalzato. Attraverso di lui, crocifisso da noi e per noi, che ci ama come il Padre, conosciamo quel Dio che è amore (cf. 1Gv 4,8).

v. 46: io, luce, sono venuto nel mondo. La Parola è luce (1,4.5): fa esistere e vedere ciò che esiste. Gesù è luce del mondo (8,12; 9,5; 12,35): in lui veniamo alla luce come figli.

perché chiunque crede in me, non dimori nella tenebra. Il credere è connesso alla luce: fa conoscere la realtà. Chi crede in lui ha cambiato dimora: ha traslocato dalla tenebra alla luce, è passato dalla morte alla vita (5,24). Credere nel Figlio è vedere la luce della verità nostra e di Dio: conoscere lui come Padre e noi come suoi figli.

v. 47: se uno ascolta le mie parole. La fede in concreto è ascoltare le sue parole, che sono Spirito e vita (6,63.68).

e non le conserva. La Parola va conservata nel cuore, perché diventi vita (cf. 8,51-52b). Chi ascolta e non conserva le sue parole, dimora nella morte, come prima.

io non lo giudico. Il Figlio ha lo stesso giudizio del Padre (5,30s), che non giudica nessuno (5,22a). A lui è concesso il giudizio di Dio sugli uomini, perché è Figlio di Dio e Figlio dell’uomo (5,26s). E il suo giudizio sarà la croce, dove rivelerà l’amore incondizionato del Padre.

non venni infatti a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo. Dio ha mandato il Figlio non per giudicare il mondo, ma perché il mondo per mezzo di lui sia salvato (3,17). E il suo giudizio sarà essere giudicato e dare la vita per chi lo condanna.

v. 48: chi trascura me e non accoglie le mie parole, ha chi lo giudica. Se chi accoglie il Figlio non è condannato, chi non lo accoglie è già stato condannato (3,18). Non però da Dio,

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ma da se stesso: non ha accettato la propria realtà, ha preferito le tenebre alla luce (3,19), non ha accolto la Parola di vita.

La salvezza è la nostra adesione al Figlio. Gesù è il profeta definitivo al quale dare ascolto (cf. Dt 18,15ss).

v. 49: io non parlai da me stesso, ma chi mi inviò, il Padre, egli stesso mi ha dato un comando (su) cosa dire e cosa parlare. A questo profeta Dio porrà in bocca le sue parole; ed egli dirà quanto il Signore comanderà (Dt 18,18).

v. 50: e so. Gesù agisce e giudica secondo che il Padre gli mostra e gli dà da fare (5,19s.30).

che il suo comando è vita eterna. Ogni comando di Dio è per la vita (cf. 10,17s). Il fine della sua azione è ridestarci e farci vivere (5,21). Accogliere la parola del Padre ci dà il potere di diventare figli di Dio (1,12).

le cose dunque di cui io parlo, come me (le) ha dette il Padre, così (ne) parlo. Gesù è l’esegeta di Dio (1,18): ci dice la sua verità di Padre, che è la nostra salvezza di figli. Tutti i segni, che finora ha compiuto, mostrano la veridicità della sua parola (cf. Dt 18,20-22).

Con queste parole si chiude il libro dei «segni», scritti perché crediamo in lui e abbiamo vita. Al racconto dei segni seguirà quello della realtà che essi significano: la passione del Signore per noi. Essa ci farà vedere la potenza del suo amore, ci aprirà gli occhi e il cuore, ci farà contemplare la Gloria, che progressivamente, attraverso i suoi testimoni, illuminerà il mondo intero.

Così finisce «il giorno» di Gesù e inizia «l’ora». È l’ora decisiva, in cui viene la notte e la luce entra nelle tenebre.

3. Pregare il testoa. Entro in preghiera come suggerito nel metodo.b. Mi raccolgo immaginando l’evangelista che spiega il motivo dell’incredulità e Gesù

che grida il suo invito alla fede.c. Chiedo ciò che voglio: che io apra gli occhi e il cuore per vedere la gloria del Figlio

dell’uomo innalzato dalla terra.d. Traendone frutto, medito sui motivi dell’incredulità, riscontro le mie resistenze e

lascio risuonare nel mio cuore il grido di Gesù, che mi invita alla fede in lui.

Da notare:• non credevano in Gesù nonostante i segni visti• già il profeta Isaia parlò dell’incredibilità dell’opera di Dio• ancora Isaia parlò dell’accecamento e dell’indurimento del cuore• Gesù vuol guarirci dalla cecità e dalla durezza di cuore• Isaia vide la gloria di Dio, anticipo di quella che si rivelò sulla croce• molti dei capi credettero, ma avevano paura a confessare• amarono la gloria degli uomini più della gloria di Dio.

4. Testi utiliSal 34; Dt 29,1-3; 18,15-22; Is 6,1-10; 52,13-53,12; 1Cor 1-3.

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