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famiglie immigrate: costruire futuro insieme ATTI CONVEGNO 5 MAGGIO 2017 Istituto Salesiano San Marco di Mestre Venezia A cura di CONFERENZA EPISCOPALE TRIVENETO DELEGAZIONE CARITAS NORD-EST COORDINAMENTO IMMIGRAZIONE TRIVENETO

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famiglie immigrate: costruire futuro insieme

ATTI CONVEGNO5 MAGGIO 2017 Istituto Salesiano San Marco di MestreVenezia

A cura di

CONFERENZA E P I S C O P A L E T R I V E N E T O

DELEGAZIONE CARITAS NORD-ESTCOORDINAMENTO IMMIGRAZIONE TRIVENETO

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indi

ce

Indice

Prefazione 02

IntroduzioneOliviero Forti 03

Famiglie immigrate al tempo della crisi in alcuni territori del TrivenetoGruppo di lavoro sugli immigrati residenti a Treviso (Anolf, Caritas e Migrantes, Cooperativa Laesse) Don Bruno Baratto, Letizia Bertazzon,Francesca Marengo 05

Riflessioni 11

Le tre famiglie dei migranti: uncompito,unasfida,una speranza per tuttiMaurizio Ambrosini 12

Alcuni Interventi da parte dei partecipanti 19

Conclusioni 23

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pref

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nePrefazione

Nell’ambito della Delegazione Caritas Nord-Est si costituisce il Coordinamento Immigrazione Triveneto (CIT) si tratta di un gruppo tecnico che lavora a supporto della Delegazione nell’ambito immigrazione.

In particolare si propone di agire sul tema migrazioni, attraverso:- osservazione e monitoraggio del fenomeno;- raccordo con il territorio, con la Delegazione e con il Coordinamento Nazionale Immigrazione di Caritas Italiana;

- confronto, formazione e aggiornamento tra tecnici del settore, operatori e comunità;- progettazione di rete a livello di delegazione/regionale/nazionale/europea;

- condivisione e mappatura delle buone prassi e delle criticità;- iniziative coordinate di corretta informazione e comunicazione;

- supporto in azioni di advocacy e lobbying condivise e promosse con la Delegazione.

Negli ultimi anni il gruppo ha organizzato una serie di giornate formative rivolte ai volontari e operatori della rete Caritas (sia Centri di ascolto che servizi dedicati). La formazione diventa, pertanto, uno strumento indispensabile, secondo il mandato ricevuto, per imparare a leggere i fenomeni; favorire percorsi di emersione della richieste di aiuto, orientare e informare correttamente sulle possibili opportunità e risorse di un territorio.

Il CIT si è proposto per gli anni 2017 e 2018 di indagare il tema trasversale delle “Famiglie immigrate” nei suoi molteplici aspetti. Seguono gli atti del primo incontro di formazione dello scorso 5 maggio 2017.

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Introduzione di Oliviero Forti

Bentrovati a questa giornata di riflessione e scambio rispetto a un tema sempre meno praticato, in quanto siamo avvezzi a ragionare su temi contingenti come profughi, ONG, accoglienza, e sempre meno su temi di fondo sui quali ci siamo esercitati molto nel passato e che oggi invece sembrano meno interessanti, almeno per l’opinione pubblica. Parleremo della famiglia nella dimensione migratoria, un tema che qualcuno a volte immagina come un vezzo per chi lo affronta, mentre sono felice di constatare che la numerosità dei presenti di oggi dimostra invece che c’è non solo l’interesse, ma anche la voglia di stare sul pezzo della mobilità umana; fenomeno presente e che necessita di essere accompagnato attraverso la riflessione e le pratiche.

Come diceva Don Alessandro Amodeo, che ringrazio, come ringrazio la delegazione Caritas Nord Est per questa opportunità, oggi ci avvarremmo della presenza di colleghi che hanno dedicato parte della loro vita e della loro professione allo studio del tema delle migrazioni nelle sue molteplici sfaccettature per indagare la realtà di questa iniziativa, “Famiglie immigrate: costruire futuro insieme”.

Immaginando un’introduzione a questa giornata riflettevo sul fatto che effettivamente la dimensione familiare è una dimensione trasversale al fenomeno migratorio in tutte le sue rappresentazioni; quando pensiamo alla famiglia nelle dinamiche migratorie pensiamo alle famiglie che si lasciano nel paese di origine: vediamo persone sole che si portano dietro il carico di progetti migratori che nascono all’interno di famiglie che sono rimaste nel paese di origine e che non hanno voluto o potuto affrontare questo viaggio migratorio insieme con i propri famigliari. Abbiamo anche la dimensione sempre più familiare nel mondo della migrazione per quanto riguarda i paesi di destinazione; chi affronta un’esperienza migratoria lo fa spesso con l’idea di costruire o ricostituire la famiglia.

Altra dimensione delle famiglie migranti è il fatto che si muovono insieme e lo fanno sempre per necessità, sia a causa di guerre ma anche per altre situazioni o semplicemente per contingenze di tipo economico o sanitario: si spostano insieme e arrivano in altri paesi per costruire un futuro, sollecitandoci in maniera diversa da chi arriva da solo senza la famiglia. Oppure le famiglie che si costituiscono qui in Italia, molti arrivano da soli, decidono di costruire con connazionali o non una famiglia: le cosiddette famiglie miste, ma questi sono solamente degli esempi. È una dimensione che pervade tutto il mondo della mobilità umana; e quindi il progetto migratorio spesso nasce con il preciso intento o di sostenere la propria famiglia o di costruirne una nel paese di destinazione. Questo emerge anche dalla ricerca che ci

La dimensione familiare è una dimensione trasversale al fenomeno migratorio.

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presenterà Don Bruno Baratto. Il progetto migratorio spesso è un progetto che nasce in una situazione d’instabilità, senza certezze per il futuro; esso è l’inizio di un percorso che mira alla stabilità e spesso è nella famiglia che si trova questa stabilità. Ma questa ricerca di stabilità è sempre più messa in crisi; una crisi ormai nota e che è legata all’incapacità di trasformare questo progetto in stabilità perché nei paesi di destinazione mancano le condizioni affinché il progetto diventi stabile: manca il lavoro, mancano anche certezze di tipo giuridico-legislativo; abbiamo difficoltà economiche, ritardi istituzionali e si sconta anche l’attenzione eccessiva a nostro avviso verso le migrazioni forzate, che mette in secondo piano i 5 milioni di migranti stabili che vivono nel nostro paese e che si trovano ad essere considerati come migranti “di serie B” rispetto ai profughi che arrivano e che spesso manifestano il proprio disappunto per il trattamento differente che ricevono i profughi. Quindi si creano quelle tensioni che nessuno avrebbe voluto, che vanno registrate e non stigmatizzate. Diventa una guerra tra poveri, perché in questo frangente si inserisce una crisi che colpisce anche molti italiani. Quello che stiamo vivendo sembra quasi la volontà di qualcuno di distrarre l’opinione pubblica da temi di fondo che stiamo vivendo oggi; si parla tanto di responsabilità delle ONG del salvataggio in mare, ma nessuno parla delle tante famiglie in crisi, dei cittadini irregolarmente presenti sul territorio che vengono denegati costantemente e che diventeranno il vero problema nei prossimi anni; nessuno ha soluzioni quindi è bene distrarre l’opinione pubblica su altro. E’ un gioco pericoloso con il quale dovremo fare i conti; bene quindi riflettere sui temi che saranno le sfide di domani. Le famiglie di migranti 5/6 anni fa cercavano un futuro nel nostro paese, oggi hanno bisogno di risposte: al capo famiglia che perde il posto di lavoro ed ha 6 figli in carico una risposta va data e non è “torna al tuo paese”; perché anche quella potrebbe essere una risposta ma non per tutti. Possono essere i movimenti secondari una risposta, una nuova migrazione verso Svezia e Germania? Forse.. ma siamo in un contesto in cui i confini sono blindati.

Siamo chiamati a fare un ragionamento complessivo, mai astrarre il tema dal contesto quando si parla di migrazione. È l’errore che molti stanno facendo in questa fase storica. Detto questo chiediamo a questo punto a Don Bruno Baratto di illustrare gli aspetti emersi dalla ricerca “Le famiglie immigrate al tempo della crisi” con il gruppo Anolf, Caritas e Migrantes, Coop. Laesse; Don Bruno Baratto direttore Migrantes di Treviso entrerà nei temi che vi accennavo velocemente, spiegandoci il percorso di questa ricerca e provando a fare un inquadramento teorico. Poi chiederemo alle due ricercatrici che seguiranno di entrare nel dettaglio dei risultati della ricerca.

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Famiglie immigrate al tempo della crisi in alcuni territori del Triveneto Gruppo di lavoro sugli immigrati residenti a Treviso (Anolf, Caritas e Migrantes, Cooperativa Laesse) Don Bruno Baratto - Letizia Bertazzon - Francesca Marengo

Don Bruno Baratto

Il report presenta le principali evidenze emerse in un percorso di ricerca qualitativa compiutosi fra il 2015 e il 2016 nei territori del Triveneto, volto ad indagare le condizioni e le dinamiche delle famiglie immigrate nel protrarsi della crisi economico-occupazionale e con l’arrivo di nuovi soggetti migratori.Hanno contribuito alla realizzazione del lavoro Bruno Baratto, Marco Berdusco, Letizia Bertazzon, Davide Girardi, Franco Marcuzzo, Francesca Marengo ed Ester Moschini.

Le origini della ricerca: • il report annuale sui residenti stranieri in provincia di Treviso;• la sua integrazione con ricerche di tipo qualitativo;• l’ampliamento al territorio del Triveneto per una ricerca sul campo relativa alle condizioni

delle famiglie migranti.

Le fasi dei pionieri e dell’immigrazione di matrice prevalentemente economico-lavorativa hanno da tempo lasciato lo spazio a migrazioni di natura più compiutamente familiare.

Importante indagare come gli anni di crisi hanno sconvolto l’esperienza di molti, tra cui quelle famiglie di migranti che da tempo sono fra le protagoniste centrali dei nostri territori.

L’oggetto – soggetto dell’indagine (la famiglia migrante) chiede per la complessità che lo caratterizza uno sguardo:• plurale,• dinamico.

L’articolazione del percorso:• indagine esplorativa;• approfondimento in 3 focus group dedicati composti da studenti autoctoni e stranieri (1.o

filone);• componenti di famiglie migranti con lungo periodo di stanzialità (2.o filone) – quest’ultimo

si è ampliato sulla dimensione triveneta;• considerazioni interpretative.

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ti

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Indagine preliminare: circa 160 persone coinvolte, migranti di differenti nazionalità e con differente longevità di presenza in Italia; somministrazione di un questionario relativo alla situazione delle famiglie di migranti residenti sul territorio della provincia di Treviso.

I focus sulla famiglia: 5 focus di cui:• 1 a Montebelluna (TV); • 1 a Mareno di Piave (TV); • 1 a Verona; • 1 a Trento; • 1 a Pordenone (partecipanti da Pordenone e da Udine).

Sono stati coinvolti una quarantina di migranti, in prevalenza adulti, di differenti nazionalità, e con una lunga permanenza in Italia. Le evidenze emerse da tutti i focus tenuti sulla famiglia sono quelle che presentiamo oggi. la presentazione comprende, alla fine, una proposta di rilettura in chiave di antropologia culturale, alla luce della categoria simbolica incentrata sul tema del confine.

Alcune evidenze della ricerca possono sembrare scontate, metterle insieme e trovare i fili che le collegano è stata un’operazione interessante che ha confermato alcune ipotesi di ricerca, mentre in altri casi esse si sono sensibilmente modificate.

Letizia Bertazzon - Francesca Marengodell’equipe di ricerca sue famiglie immigrate al tempo della crisi

Cinque sono i punti critici emersi che si vogliono evidenziare dando voce ai partecipanti ai focus group e proponendo poi una possibile interpretazione rispetto a quanto emerso anche in relazione al tema dei confini.

UNA CONDIZIONE DIFFUSA DI DIFFICOLTÀ CHE IMPONE NUOVE SCELTEPrimo elemento emerso nei focus group in modo uniforme è il riconoscimento di una situazione difficile, di una condizione di diffuso deterioramento delle opportunità: molte famiglie si trovano a dover gestire ora una situazione complessa, caratterizzata generalmente da un peggioramento delle condizioni di vita. Per far fronte alle difficoltà e per sopravvivere sono diverse le strategie messe in atto dalle famiglie: in alcuni casi si cerca di tutelare e conservare il più possibile il progetto migratorio, in altri casi si passa per una ridefinizione o perlomeno per il tentativo di ridefinire i progetti migratori. Nel vissuto soggettivo dei migranti nel passato erano diverse le possibilità, anche di legalizzazione, a fronte di un futuro incerto e per molti aspetti ancora molto complesso e di difficile ridefinizione.

Un’indagine preliminare con 160 persone coinvolte e 5 focus group sui territori del Triveneto.

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La crisi che ha colpito il nostro territorio e i paesi del mondo ha ridisegnato confini che sembravano parzialmente eliminati. Sono riemersi confini materiali e confini simbolici che le famiglie migranti si trovano ora a dover affrontare attraversandoli, subendoli o partecipando ad innalzarli.

Tutto questo, rende evidente che il processo di inclusione che sembrava all’apparenza compiuto, in realtà forse non si era ancora completamente realizzato e rivela in questo periodo storico di difficoltà tutta la sua fragilità e precarietà.

LA CRISI COME MOMENTO DI ROTTURALa crisi e la conseguente difficoltà per le famiglie, in particolare immigrate, rappresenta un momento di rottura del percorso migratorio, che seppur segmentato e difficoltoso, ormai in molti casiconosceva una sua stabilità.La crisi è stata un momento destabilizzante, che interviene minando un lungo e faticoso processo di adattamento, di avvicinamento e di progressiva inclusione, anche se non completa.Con la crisi in un contesto di scarse opportunità si fa evidente un deterioramento delle condizioni sociali e relazionali, ma anche il riaffiorare di tensioni sociali; emergono nuove dinamiche di esclusione anche tra gli immigrati stessi, che si manifestano non da ultimo sul lavoro, innescando nuove forme di concorrenza.Il lavoro, che per anni è stato l’agente principale dell’inclusione, è percepito non solo come uno strumento materiale di sopravvivenza, ma anche e soprattutto come il principale mezzo di realizzazione e affermazione di sé.La perdita del lavoro quindi viene percepita non solo come perdita di capacità materiali ma anche e forse soprattutto come perdita di dignità come persona; d’altro canto la società civile, la politica oggi, contribuiscono a rendere il lavoro un requisito essenziale della legittimità della presenza dei migranti, indifferentemente dalla loro anzianità di immigrazione.È per questo che la scarsità di opportunità lavorative genera un nuovo confine, non solo tra italiani e migranti ma anche all’interno delle stesse comunità migranti e questo è soprattutto evidente tra gli stranieri africani e parzialmente asiatici e quelli europei, che il mercato del lavoro sembra preferire a svantaggio dei primi.Questo confine tracciato da stereotipi sulle proprie provenienze nazionali e culturali generano tensioni e rivalità tra i migranti e deteriorano legami nazionali che spesso si erano costruiti.Altro confine che sta emergendo e che i migranti stessi contribuiscono a disegnare è il confine tra chi è residente da molto tempo e chi chiede asilo, i nuovi arrivati. I primi infatti vedono nei richiedenti asilo una minaccia alla loro immagine di persone volenterose e dedite al lavoro, costruita faticosamente negli anni e vedono i richiedenti come persone privilegiate perché ricevono aiuti a titolo gratuito, aiuti non previsti per i migranti di lungo periodo.

La perdita del lavoro viene percepita non solo come perdita di capacità materiali ma anche come perdita di dignità come persona.

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VERSO UNA RIDEFINIZIONE DEI PROGETTI MIGRATORIUn altro importante elemento emerso dai focus è che si va verso ridefinizione dei progetti migratori. Il trasferimento temporaneo o definitivo all’estero rappresenta una strategia intrapresa di frequente dai migranti. Vi è il tentativo di preservare il progetto migratorio tramite la riapertura del capitolo della mobilità. Questi movimenti rappresentano spesso una seconda migrazione, non tanto “torniamo a casa” quanto piuttosto un “andiamo altrove, di nuovo”. Significa ripartire da zero, con tutti i rischi che ne conseguono, e naturalmente con un nuovo importante investimento di forze e risorse, anche se in molti di questi casi a spingere la nuova migrazione è un’idea mitizzata delle prospettive legate allo spostamento, un progetto dove prevalgono speranze e aspettative di vita migliori che non sempre sono realistiche.I confini territoriali riaffiorano con forza e una delle strategie per far fronte alla crisi è quella di riattraversare i confini per cercare un futuro più promettente fuori dall’Italia, ormai considerata come luogo che offre scarse opportunità per il futuro.

UNA STABILITÀ FAMILIARE MESSA IN DISCUSSIONETensioni e difficoltà hanno minato duramente la stabilità familiare e messo in discussione il ruolo della famiglia. Gli spostamenti, anche se temporanei, comportano un vero e proprio smembramento, i nuclei familiari rimasti sono incompleti. In molti casi ci sono situazioni in cui madre e figli sono rimasti in Italia, mentre il papà era all’estero in cerca di nuove opportunità lavorative, oppure situazioni in cui padre e madre non convivono proprio per cercare soluzioni alternative e preservare il progetto migratorio: molte di queste situazioni sono emerse nei focus group. Naturalmente queste separazioni hanno effetti molto importanti sugli aspetti relazionali. Cosa molto importante, si somma il fatto che non sempre aspirazioni di figli e genitori convergono. I rapporti intergenerazionali soprattutto all’interno dei progetti migratori di lunga durata sono molto complessi e si contraddistinguono per essere in bilico tra la disillusione e speranze disattese dei genitori, quasi completamente traslate sui figli, e le aspirazioni a nuovi modelli di vita della società dove sono cresciuti da parte dei figli.La scelta di ripartire quindi disegna confini nelle famiglie ricomposte e in quelle costrette nuovamente a spezzarsi. Nelle odierne strategie di mobilità è il capo famiglia o il fratello maggiore che solitamente riparte per cercare fortuna, lasciando spesso moglie e figli qui in Italia in attesa di una ritrovata stabilità. La crisi ha contribuito a marcare non solo questo confine, ma anche quello tra le vecchie e nuove generazioni. La percezione del fallimento del proprio progetto migratorio iniziale porta le vecchie generazioni, i genitori, a puntare tutto sui figli e sembra che il nuovo obiettivo del progetto di vita dei genitori sia proprio il futuro e la realizzazione dei figli; questo comporta aspettative dei genitori che non coincidono con quelle dei figli. Su di loro quindi ricade tutta la speranza dell’intero progetto di vita familiare e tutto il peso della responsabilità non desiderata dai figli. Figli che peraltro devono confrontarsi con un vissuto faticoso, in bilico tra due culture, paese di origine dei genitori e paese dove sono cresciuti e si sono socializzati.

Vi è il tentativo di preservare il progetto migratorio tramite la riapertura del capitolo della mobilità.

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BISOGNO DI APPARTENENZA E CITTADINANZAEsso emerge nonostante la situazione di crisi.Emerge una percezione identitaria non conclusa, la sospensione tra più appartenenze. Anche gli immigrati di lungo periodo si trovano costantemente in bilico tra due o più paesi, di origine e di migrazione e nelle esperienze sono presenti tratti distintivi di entrambe le culture, di origine e di immigrazione. Nelle esperienze raccolte sembra mancare un vero e proprio riconoscimento di un’appartenenza e identificazione con una cultura del paese di origine o di destinazione.Si sta in Italia con il pensiero alla patria ma quando si è in patria si ha la voglia di tornare in Italia. Questa è una forma di ambivalenza che porta l’immigrato e le famiglie in una sorta di limbo e di condizione sospesa, dove si rischia di perdere ogni forma di riconoscimento.Vi è un processo di acquisizione della cittadinanza italiana diffuso, che costituisce un passaggio importante, non tanto verso uno specifico riconoscimento identitario piuttosto quanto verso l’acquisizione di una rinnovata libertà di vita e di movimento in ambito nazionale e internazionale. Tali libertà di vita e di movimento in senso più ampio rappresentano per l’immigrato che acquisisce la cittadinanza una sorta di legittimazione e riconoscimento.L’acquisizione della cittadinanza italiana non è garanzia di riconoscimento sostanziale della propria appartenenza in Italia, e d’altronde sono alcuni dei migranti stessi che non la percepiscono come tale, si parla di acquisizione di passaporto più che di cittadinanza.L’acquisizione del passaporto costituisce proprio in molti casi acquisizione di più ampia libertà di movimento in Europa e in occidente e così i migranti per loro scelta si trovano di nuovo ad attraversare il confine tra appartenenza e rinnovata mobilità.

Don Bruno Baratto

Quali indicazioni dunque per superare i confini.Ben sappiamo che i confini possono essere necessari custodi di identità, utili dispositivi per diminuire l’ansia provocata dalla confusione e dalla paura e l’insicurezza che ne nasce. Tuttavia, perché la vita di una società sia sana, è necessario che i confini siano permeabili, attraversabili, nel modo meno conflittuale possibile.Ci sono dei confini che custodiscono e confini che non custodiscono: tra questi ultimi per primo il lavoro che scarseggia e che impone la necessità di spostarsi, perché spezza le famiglie. L’altro confine è tutto interno a questo territorio, è il confine di un territorio in piena crisi con un rallentamento dato dalla natalità, quindi in profonda crisi demografica, il confine di chi rischia di pensare di proteggersi chiudendosi verso chi viene da fuori, mentre non si accorge che rischia invece di entrare in un lento declino. Avremo enorme bisogno di persone giovani che si stabiliscano in questo territorio o rimangano in questo territorio lavorando con la creatività tipica dei giovani, perché questo territorio abbia futuro e invece la situazione di crisi economico-finanziaria ed occupazionale impedisce questo rimanere. Punto di domanda

L’acquisizione della cittadinanza italiana non è garanzia di riconoscimento sostanziale della propria appartenenza.

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enorme in questo territorio rispetto al problema su quali interventi attuare per ripensare il sistema economico-produttivo ed occupazionale.Due altri confini che in parte custodiscono: il confine intergenerazionale, custodisce una diversità di prospettive, ma per poterlo fare davvero, per poter custodire questa diversità sana di prospettive, tra una generazione e l’altra, bisognerebbe aprire a nuove opportunità, alla creatività necessaria per dare spazio ai giovani. Altro confine è emerso nel mondo del lavoro, anche questo può custodire alcune capacità di acquisizione di competenze, come ad esempio apprendere la lingua italiana. Per farne un custodire positivo però sarebbe necessario insistere, investire su un avviamento per chi è richiedente asilo e per una riqualificazione dei lavoratori presenti da più tempo, per evitare discriminazioni.

Altra serie di confini che in parte custodiscono e in parte no sono i confininazionali, che dovrebbero essere confini che

non impediscano di rientrare, non impediscano di ritornare in quella che si considera come casa o non impediscano

di riseminare un’altra casa altrove e quindi non tornare ad innalzare muri .Altro confine che può custodire è

quello fra migrazioni differenti, tra chi è qui come famiglia da lungo tempo ed ha bisogni ed esigenze differenti da chi è qui come richiedente asilo, con

tutta la pluralità delle situazioni relative . Bisogna prestare attenzione affinché questo confine non venga colto come discriminante e quindi gestire in maniera diversa l’accoglienza dei richiedenti asilo, in modo trasparente e attraverso l’accoglienza diffusa.L’ultimo confine è quello delle appartenenze plurime. Si pensava che il processo di inclusione tutto sommato avesse portato a dei risultati stabili, invece essi si sono rivelati in molti casi precari e facili da rimettere in discussione. La domanda che torna in modo radicale è: come far avanzare e rimettere all’attenzione il processo di inclusione inteso come processo reciproco, non solo da parte di chi arriva, ma anche da parte di chi abita qui da sempre o da un lungo periodo.Abbiamo la speranza necessaria per far ripartire il processo di inclusione e alla lunga il complesso processo di integrazione oppure no?

Come rimettere in moto il processo di integrazione, inteso come processo reciproco e bidirezionale?

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Riflessione di Oliviero Forti

Grazie a Don Bruno Baratto, Francesca Marengo e Letizia Bertazzon. Credo che ci siano numerosi spunti che possono essere oggetto di riflessione. Se potessi trovare un ulteriore sottotitolo a questo incontro e ricerca parlerei di “famiglie in bilico”; le due ricercatrici hanno illustrato il tema attraverso una dimensione di grande instabilità perché si è parlato di condizione diffusa di difficoltà, di crisi come momento di rottura, di ridefinizione dei progetti migratori, stabilità famigliare in discussione, bisogno di appartenenza e cittadinanza. È un quadro sconfortante: da un lato sconta un periodo complicato per tutti, dall’altro evidentemente rappresenta, per quelle che sono le risultanze della ricerca, dinamiche note anche nel passato e che non riguardano solamente questo territorio ma tutto il Paese. Il tema dei confini indagato,inoltre, ha bisogno di riflessione.

Ora prima di lasciare la parola al prof. Ambrosini ricordo come assieme abbiamo contribuito alla ricerca “Le famiglie di fronte alla sfide dell’immigrazione”, una ricerca promossa dal CISF nel quale c’è un contributo del prof. Ambrosini, oltre che del sottoscritto, e nella quale abbiamo immaginato di continuare una riflessione, iniziata molto prima del 2014, sul tema della famiglia nell’esperienza migratoria. Vi leggerei due brevi paragrafi che ci danno il senso di questo disorientamento, che oggi appare accentuato ma che è il sottofondo di questa sfida che stiamo affrontando da qualche decennio e rispetto alla quale chiederemo un approfondimento al professore.

Si scriveva nel 2014 “L’ingresso sulla scena sociale delle famiglie immigrate è un fattore di movimentazione del quadro nel dibattito pubblico che ha suscitato negli ultimi anni nuove diffidenze. Un primo ambito problematico riguarda il rapporto tra famiglie, comunità etniche e società più ampia”.“Gli immigrati cominciano a diventare vicini di casa, genitori dei compagni di scuola dei figli, clienti dei medesimi esercizi commerciali, fruitori degli stessi spazi urbani. Diventano conosciuti personalmente e come famiglie, al di là degli stereotipi collettivizzanti”.È da un po’ di tempo che tutti siamo chiamati a vivere questa sorta di dissociazione: si va dalla narrazione del fenomeno dal punto di vista pubblico, a tratti molto stigmatizzante della migrazione, all’esperienza famigliare del vicino di casa, che sentiamo parte della nostra vita. Inserirsi in questo processo disallineato è sempre più complicato e genera disorientamento. Non è un tema recente, ma ce lo portiamo dietro da molti anni ed è frutto di un processo complesso. Per questo motivo chiederei al prof. Ambrosini di andare a dettagliare maggiormente, anche ricordandoci le fasi storiche che hanno connotato questo fenomeno.

Gli immigrati cominciano a diventare vicini di casa, genitori dei compagni di scuola dei figli, clienti dei medesimi esercizi commerciali, fruitori degli stessi spazi urbani. Diventano conosciuti personalmente e come famiglie, al di là degli stereotipi collettivizzanti.

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Le tre famiglie dei migranti: un compito, una sfida, una speranza per tuttiMaurizio Ambrosiniprofessore di Sociologia delle Migrazioni all’Università Statale di Milano

Grazie dell’invito e di queste gentili parole di introduzione. Una volta un rotocalco ha pubblicato un articolo sull’immigrazione. Era rappresentata la parola del cattolico– con il cardinal Tonini - e poi c’era la parola del laico, ed ero io. Non sapevo se piangere o ridere, per essere stato definito per la prima volta nella mia vita un laico, essendo io un cattolico impegnato fin da quando avevo i calzoni corti. Quindi essere chiamato qui è certamente un piacere ed è un piacere essere definito un amico della Caritas.

Come primo spunto, va sempre chiarito ormai, da almeno 2/3 anni a questa parte, che viviamo in un

contesto di drammatico contrasto tra il discorso sull’immigrazione e la realtà dell’immigrazione, tra

ciò che si dice, si rappresenta, si agita e i numeri, i fatti e i dati veri. Se parliamo di rappresentazioni - a me piace chiamarla l’immigrazione vista dal bar sport - questa rappresentazione sostiene

che l’immigrazione sia in aumento drammatico, che l’asilo ne sia la ragione prevalente, che l’immigrazione provenga dall’Africa e dal Medioriente, che sia un fenomeno largamente maschile e di persone di religione mussulmana. Andando a vedere i dati, i rapporti dell’ISTAT, il rapporto sull’immigrazione di Caritas Migrantes, gli altri disponibili, emerge un altro quadro. L’immigrazione nei dati appare stazionaria, 5 milioni e mezzo di persone circa, da un po’ non cresce - la crisi picchia - i fattori prevalenti sono prima di tutto il lavoro, e poi da 10-15 anni i ricongiungimenti familiari. I migranti iniziano in genere come adulti soli, ma poi dietro di loro arrivano le famiglie. In Europa e negli Stati Uniti è andata così. Ricorderete il noto aforisma dello scrittore svizzero Max Frisch riferito tra l’altro proprio agli emigranti italiani “Volevamo delle braccia, sono arrivate delle persone”. Noi oggi potremmo aggiornare l’aforisma dicendo “Volevamo delle braccia, e sono arrivate delle famiglie”, infatti sui 5 milioni e mezzo di persone residenti, 1 milione e centomila sono minori. Oggi la maggioranza dei permessi di soggiorno, negli ultimi 10-15 anni, sono accordati per ragioni di ricongiungimento familiare. Sapete quanti sono i richiedenti asilo ospitati nelle strutture di accoglienza? 176mila circa, facciamo 180mila, cioè il 3% rispetto ai 5 milioni e mezzo, molti meno dei minori per esempio; noi guardiamo da una parte, e i problemi veri sono da un’altra. Il dibattito sui salvataggi in mare, sugli arrivi e l’accoglienza è fuorviante, nel senso che inquadra come IL Problema dell’immigrazione una questione che riguarda il 3% degli immigrati e il 3 per mille dei residenti in Italia. Per finire, l’immigrazione qui residente è in maggioranza europea, è in maggioranza femminile e viene in maggioranza da Paesi di tradizione culturale cristiana. Nel Triveneto tra l’altro più che nella media nazionale, per aggiungere un elemento locale, quando parliamo di famiglie immigrate,

Viviamo in un contesto di drammatico contrasto tra il discorso sull’immigrazione e la realtà dell’immigrazione.

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i mass-media si immaginano una famiglia mussulmana con la signora con il velo se non col burqa, ma la famiglia immigrata che vive in Italia in prevalenza è un’altra cosa, è una famiglia di persone di origine europea, in cui tra l’altro le donne spesso lavorano fuori casa.Abbiamo detto immigrati e famiglie dei migranti come soggetto centrale: questo passaggio dai singoli alle famiglie è un passaggio cruciale, perché quando arrivano e si insediano le famiglie vuol dire che difficilmente gli immigrati se ne andranno. L’immigrazione diventa un fenomeno radicato, soprattutto poi quando i figli entrano nella scuola.

Possiamo dunque vedere il nostro tema come un tema in evoluzione, evoluzione che può essere caratterizzata parlando di 3 famiglie dei migranti. Come ho già accennato, oltre la metà degli immigrati in Italia sono donne, che sempre più spesso arrivano sole, a differenza del passato; molte sono donne che hanno responsabilità familiari, cioè madri, e questa è una novità dell’immigrazione degli ultimi 20 o 30 anni su scala mondiale. La migrazione delle madri, da sole, madri che trovano lavoro nelle famiglie italiane, oggi specialmente a fianco degli anziani, ci richiama una questione importante. Parlando di famiglie immigrate in un contesto ecclesiale dobbiamo sottolineare un punto che si collega a più ampie preoccupazioni. Riaffermare il valore della famiglia e la famiglia come luogo primario della cura e istituzione che ha il compito grande di farsi carico dei bambini, degli anziani, dei malati, dei disabili, tutto questo è profondamente intriso di valori cattolici, ma dobbiamo aggiungere che questa riaffermazione della famiglia come luogo della cura, come istituzione da tutelare, da difendere, si collega alla destabilizzazione degli assetti familiari delle donne migranti nei loro luoghi di origine. In altri termini le nostre famiglie riescono a fare quello che noi chiediamo loro di fare, sostanzialmente prendersi cura degli anziani, dei bambini, delle fragilità, perché attirano e si fanno sostenere da persone che arrivano da altri paesi e che lasciano una famiglia alle loro spalle. La nostra famiglia si rafforza, le loro famiglie si indeboliscono, diventano più fragili: non si pensa abbastanza a questo rapporto paradossale. Aggiungo subito però questa immigrazione delle madri non è da vittimizzare: uno dei rischi che si corrono quando si parla di questi temi in ambiti socialmente sensibili. Le donne non sono sempre e soltanto sacrificate, sono anche persone che acquistano autonomia, che ottengono margini di libertà, che si affrancano da rapporti patriarcali, che sperimentano un’emancipazione pratica quando vengono qui, lavorano, cominciano a guadagnare dei soldi, mandano a casa delle rimesse, consentono una vita migliore al resto della famiglia. Osservo poi che le famiglie delle donne immigrate non sempre sono famiglie coese all’origine, ho parlato di madri: alcune hanno un legame stabile, una famiglia che definiremmo convenzionale, altre sono madri sole. Queste ancora di più sperimentano una condizione lacerante: partire per amore, partire perché amano i propri figli, separarsi da loro per consentire una vita migliore ai loro figli, una scelta che credo nessuno di noi, soprattutto se genitore, vorrebbe fare. Di qui il tema delle 3 famiglie si sviluppa: la prima famiglia è quella coesa al paese di origine in cui un adulto parte, come ho detto sempre più spesso la madre; la seconda famiglia è quella che vive nella nostalgia, che vive nel ricordo, che vive negli affetti. Sono queste le famiglie in modo particolare delle

Possiamo parlare di tre famiglie dei migranti...

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madri che cercano di essere madri anche a distanza. Qui c’è una differenza di genere su cui riflettere. Il padre che parte come

lavoratore migrante, l’hanno fatto anche tanti italiani, tanti veneti, era considerato un buon padre, una persona che faceva

dei sacrifici per amore della sua famiglia. Non era tanto importante che continuasse a tenere vivi rapporti frequenti, che telefonasse, che scrivesse, che tornasse in visita. Gli si

chiedeva di mandare delle risorse, di provvedere alle necessità economiche della sua famiglia. Poi alcuni erano anche più capaci di scrivere, cosa che non era da tutti, e quindi di far avere notizie e di riceverle, altri no. Ma questo era abbastanza secondario rispetto alla funzione economica dei padri. Le madri invece da una parte interiormente sentono il dovere, l’obbligo morale di continuare a occuparsi dei figli, di farsi vive, di chiamare, di interessarsi. Ci sono madri, soprattutto quando vengono da Paesi non troppo lontani, che hanno appuntamenti telefonici fissi, che tutte le sere telefonano per sapere come si è svolta la giornata, per sapere come è andata la scuola, per sapere che cosa mangeranno. Oggi il computer e Skype aiutano, anche le madri migranti stanno imparando a usare queste risorse per poter vedere i loro figli. In ogni caso vivono questa condizione, che è una condizione anche di sofferenza, soprattutto per le donne latino-americane, che hanno più difficoltà a mettersi in contatto con i loro figli. In molte interviste le madri piangevano, raccontavano che quando riuscivano a tornare a casa dopo anni i bambini non le riconoscevano, scappavano, non si facevano abbracciare, chiamavano mamma la nonna. Le madri rivestono una condizione di responsabilità, diventano il perno della vita economica della famiglia, ma è una condizione anche di sofferenza. È una condizione in cui da una parte queste madri si sentono in obbligo di continuare a fare le madri, benché a distanza, e dall’altra parte le società da cui provengono le colpevolizzano, come cattive madri. Ci sono stati pronunciamenti pubblici in vari Paesi, come l’Ucraina, in cui i massimi responsabili politici hanno attaccato pubblicamente le madri che partono, come dicono, abbandonando i figli. Mi ricordo nel mio viaggio in Ecuador, anche nella chiesa locale, nelle Ande, una preoccupazione centrale del Vescovo ma anche dei parroci delle comunità locali era seguire i bambini delle madri e dei genitori che erano partiti per emigrare e in cui la cura, l’accudimento locale, non era sempre adeguato, c’erano situazioni di fragilità.

Troviamo quindi la seconda famiglia, famiglia che continua a vivere ma nella nostalgia, nella sofferenza, nel ricordo, nel tentativo di rimanere comunque connessi, di rimanere insieme. In particolare le madri continuano a vedere la cura dei figli come l’aspetto centrale della loro esperienza e subordinano una serie di pratiche a questa centralità della dimensione della cura e dell’accudimento. Esse cercano di gestire i rapporti familiari attraverso le frontiere e ridefiniscono, mantengono, troncano le relazioni con la rete dei loro parenti a seconda di quanto questi rapporti siano importanti per la cura dei figli. Rafforzano il rapporto con la loro madre, con la sorella che si fa carico dei figli, mentre lasciano cadere o mettono in secondo piano rapporti con i familiari che sono meno cruciali in questa loro situazione di vita.

La famigliache vivenella nostalgia...

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Ci sono poi diversi tipi di famiglie transnazionali: ci sono famiglie che hanno maggiore facilità di movimento, quelle che hanno una cittadinanza dell’Unione europea, rumene per esempio, in cui le madri possono tornare più frequentemente, in occasione di feste e ricorrenze familiari, i figli le possono eventualmente raggiungere per le vacanze o in certi momenti se i datori di lavoro sono d’accordo, e quindi la separazione è meno drammatica.

La seconda esperienza oggi emergente è quella di famiglie che qui io chiamo intergenerazionali, detto in un altro modo famiglie di donne mature: arrivano sempre più signore dall’est che hanno 50 e più anni, che non sono madri, ma nonne, e che quindi non vivono il problema più drammatico quello di aver lasciato a casa dei figli piccoli, ma ne hanno degli altri, per esempio farsi carico di diverse generazioni, i loro genitori, il marito se c’è, fratelli e sorelle con varie necessità, i figli e magari i nipotini. Ne derivano situazioni come quella che abbiamo visto in una ricerca a Trento, di donne ormai qui da anni, ormai abbastanza avanti negli anni, che si sentono stressate, anche per il lavoro con persone in declino, con situazioni di sofferenza, fino alla morte della persona accudita. Queste donne a un certo momento telefonano a casa e dicono “Non ce la faccio più, vorrei tornare”. Che cosa rispondono all’altro capo del filo? Risposte del tipo “Che cosa torni a fare, qui non c’è niente per te, per piacere rimani in Italia”. In Ucraina hanno diagnosticato una sindrome e hanno centri di cura, noi diremmo manicomi o cliniche psichiatriche, dove ricoverano delle donne che hanno quella che chiamano la “sindrome italiana”, cioè donne che hanno perso l’equilibrio psichico, vivono condizioni di depressione, di sofferenza psichica avendo lavorato per anni a fianco di anziani malati in declino e in fase di perdita di autosufficienza; perlopiù donne anziane nelle situazioni che ho descritto.

Il terzo caso è quello invece più classico delle famiglie che hanno bambini piccoli. Sono tipicamente latinoamericane, hanno figli distanti, e hanno problemi sia a raggiungerli al telefono sia a visitarli. Sono quelle che più puntano sui ricongiungimenti, a farli arrivare qui e trovare un assetto familiare che noi definiremmo normale. Eccoci allora alla terza famiglia. Qui va rilevato che il ricongiungimento familiare non è purtroppo un lieto fine ma è piuttosto un nuovo inizio. Non voglio spargere pessimismo, il ricongiungimento non è sempre fallimentare, ma certamente deve fare i conti con un problema: la famiglia che si ritrova non è la prima famiglia che ritorna al suo stato normale, abituale, è un’altra, perché tutti sono cambiati, i figli sono cresciuti e questo è ovvio, ma anche i genitori dopo anni di separazione e di vita autonoma, hanno cambiato mentalità, aspirazioni, interessi, bisogni, esigenze, abitudini più di quanto essi stessi non si siano resi conto. Dunque, consentitemi la metafora, re-incontrarsi dopo il ricongiungimento è quasi come ri-sposarsi: bisogna scegliere di nuovo di voler vivere insieme, imparare di nuovo a volersi bene, accettare che le cose non siano più come prima, che tutti siano diventati più autonomi, per esempio, e abbiano assunto abitudini diverse. Avviene una rinegoziazione dei rapporti, con la necessità di trattare alcuni problemi più specifici e complicati.

... e le famiglie transnazionali.

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Uno tipico è quello dei ricongiungimenti a ruoli rovesciati, cioè i crescenti ricongiungimenti in cui la parte attiva, quella che ricongiunge, è la moglie, e il marito è la parte ricongiunta. Per questi mariti arrivare qui e trovarsi in una situazione di dipendenza dalle loro mogli, dal punto di vista economico, ma anche culturale, linguistico, nella ricerca del lavoro, è una situazione difficile, precaria; simbolicamente, culturalmente l’idea che sia il marito a dover guidare la famiglia, e specialmente a dover provvedere alle esigenze economiche della famiglia, si sfarina: i mariti sono visibilmente spossessati di questo ruolo di guida. Non tutti reggono questa situazione, molti si sforzano anzi di prevenirla. Per esempio in Spagna, ma se avessimo dati adeguati credo che anche in Italia potremmo dire lo stesso, e qualche segnale nelle nostre ricerche lo abbiamo raccolto, la maggior parte dei ricongiungimenti degli uomini non è avvenuta attraverso i canali ufficiali del ricongiungimento familiare ma è avvenuta con arrivi turistici, con i soliti canali degli immigrati irregolari, che non sono gli sbarchi. Gli immigrati perlopiù arrivano col tipico visto turistico, trovano lavoro e aspettano una sanatoria o un decreto flussi, quindi affrontano una vita che per alcuni anni è precaria, e come appariva anche nella nostra ricerca in lombardia, in una situazione abitativa diversa da quella della moglie, finché non riescono a stabilizzarsi, cosa che è diventata più complicata negli ultimi anni.

L’altro problema serio è quello della perdita di status dei figli: i figli al loro Paese sono, dal punto di vista materiale, generalmente avvantaggiati rispetto agli altri ragazzi della loro stessa età e condizione sociale. Grazie alle rimesse hanno il cellulare di ultima generazione, hanno la moto, hanno delle cose che gli altri ragazzi del loro quartiere, della loro scuola spesso non hanno. Quando arrivano qui, magari contenti di ricongiungersi con i genitori, con la madre, scoprono di essere scesi socialmente, di esser diventati poveri. Quell’accesso ai consumi che era più facile quando potevano vivere al loro Paese con le rimesse, diventa più difficile. C’è poi il problema dell’età, soprattutto quando sono madri sole, e ricongiungono solo i figli. Devono aspettare che i ragazzi siano abbastanza grandi per poter vivere da soli mentre le madri sono al lavoro, e ricongiungere dei ragazzi a 15/16/17 anni, magari appena prima che scatti la maggiore età è operazione assai complicata. In tutti i Paesi, anche negli Stati Uniti e anche su minoranze di successo come quelle asiatiche, il ricongiungimento dei figli adolescenti è molto più carico di incognite del ricongiungimento dei bambini piccoli. Nel caso di madri sole sono situazioni di fragilità, perché le madri poi devono lavorare tutto il giorno per mantenere i figli, e i figli rimangono a lungo a casa senza adeguata supervisione.

Vorrei infine attirare l’attenzione su un ultimo caso, quello delle donne ricongiunte, perché le donne ricongiunte sono oggetto di molti stereotipi, come donne segregate in casa, non integrate, custodi della tradizione: sono viste in genere come le donne col velo. Noi abbiamo svolto una ricerca in cui abbiamo comparato donne rumene e donne bangladesi, arrivate entrambe per ricongiungimento: quindi non le donne che arrivano per prime, ma quelle che arrivano secondo la visione tradizionale, al seguito dei mariti. Abbiamo scoperto grandi

Il ricongiungimento è scegliere, di nuovo, di vivere insieme.

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diversità in questi due gruppi: le donne rumene, anche se arrivate per ricongiungimento imparano più facilmente e rapidamente la lingua italiana; trovano più facilmente lavoro, sviluppano reti di conoscenze, di amicizie, in cui più spesso ci sono anche italiani; cercano di mandare i figli a varie attività di tempo libero extrascolastiche e quindi hanno dei percorsi di integrazione più rapidi e più sviluppati, crisi economica permettendo. Le donne bangladesi invece hanno maggiori difficoltà linguistiche, hanno maggiori problemi di adattamento delle loro competenze al mercato del lavoro italiano, è più facile che rimangano confinate in casa, anche se non è sempre detto.

Un altro caso simile è il caso delle donne che arrivano per ricongiungimento, ma hanno uno status sociale superiore a quello del marito: i migranti combinano buoni matrimoni, perché il fatto di essere emigrati in Europa è un fattore che innalza la loro reputazione, il loro status sociale nel loro Paese d’origine. In altri termini, l’immigrato in Italia, se è celibe e giovane, è un buon partito nel mercato matrimoniale del luogo di provenienza e quindi riesce a combinare dei buoni matrimoni. Come emerge nella ricerca svolta da Francesco Della Puppa, nella Val di Chiampo, nel distretto della concia, queste donne con uno status sociale superiore a quello del marito si accorgono di non essere arrivate esattamente in paradiso, ma in un luogo un po’ più difficile e complicato. Queste donne fanno una silenziosa ma martellante campagna per spingere i loro mariti a una nuova migrazione, e quindi - una volta ottenuta la cittadinanza o un permesso di residenza permanente - a muoversi verso la Gran Bretagna, dove nuovamente sperano di trovare il paradiso. L’aspetto divertente nella ricerca è il fatto che questi mariti devono comunque far vedere agli altri che la decisione l’hanno presa loro, confermando l’immagine del capo della famiglia, e quindi spiegare in pubblico che si muovono in Gran Bretagna per assicurare una scuola migliore ai figli, un’istruzione più adeguata, o per cercare un lavoro migliore, ma dietro la realtà è un’altra, e di nuovo vede le donne come protagoniste.

Un altro caso interessante, non una ricerca, ma un’esperienza interessante rispetto a questo punto problematico della storia delle famiglie, cioè la situazione delle donne che rimangono in casa, che non escono, che non imparano l’italiano, è l’esperienza milanese di una fondazione animata da donne che ha organizzato la scuola di italiano per le donne mussulmane osservanti, queste sì col velo per davvero, o meglio col foulard, che non andavano alle scuole normali di italiano per gli adulti perché c’erano problemi di mescolanza uomini-donne che a loro, ai loro mariti, non piaceva. La fondazione con l’aiuto di volontari che si prendono cura dei bambini ha avuto un successo molto incoraggiante nell’attrarre le donne velate alla scuola di italiano, tanto che finita la scuola, esse hanno chiesto di organizzare un altro corso, un corso più avanzato, di continuare quest’esperienza, perché lì potevano andare, si trovavano tra donne, qualcuno si occupava dei bambini, i mariti non avevano obiezioni. Quest’esperienza, nel quartiere di Via Padova, quindi un quartiere difficile della periferia milanese, ha visto un passo avanti sulla strada dell’integrazione, mediante l’insegnamento di una risorsa fondamentale come la lingua italiana anche per le donne in

Dal 2008 è aumentata anche l’occupazione dei migranti.

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teoria più isolate e restie all’integrazione. Si è parlato di famiglie nella crisi, la recessione ha intaccato la vita delle famiglie su diversi piani, ma vorrei ricordare infine alcuni dati, meno scontati: il primo è che dal 2008 è aumentata sì la disoccupazione certamente, le situazioni di fragilità, ma anche l’occupazione degli immigrati (+850.000 unità). L’incidenza sull’occupazione complessiva è passata da meno del 7% a più del 10% cioè in cifre 2 milioni e 300mila immigrati lavorano regolarmente oggi in

Italia. 30 anni fa nessuno aveva previsto una cosa del genere. Questo aumento dell’occupazione degli immigrati è dovuto

principalmente alle donne: grazie anche alla sanatoria del 2009 sul lavoro domestico e assistenziale - sanatoria Maroni - è

aumentata l’occupazione femminile. I settori dove lavorano le donne, cioè l’assistenza e la cura principalmente, hanno tenuto meglio dei settori dove lavorano gli uomini, l’edilizia,

l’industria manifatturiera principalmente; questo vuol dire che in molte famiglie il pur precario e difficile equilibrio viene tenuto in piedi grazie al fatto che il minor lavoro o la disoccupazione degli uomini è compensato dal maggior impegno nel lavoro extradomestico delle mogli. Non solo: in una ricerca sulla recessione abbiamo trovato parecchi casi di famiglie italiane ma anche di famiglie immigrate provenienti da contesti religiosi e culturali che a noi sembrano molto lontani, cioè famiglie mussulmane, dove la moglie va a lavorare fuori casa, esattamente a casa degli italiani, magari dove ci sono uomini, mentre i mariti stanno a casa e azionano la lavatrice, stendono il bucato, accompagnano i figli a scuola, fanno da mangiare, eccetera. Un tale ribaltamento dei ruoli di genere avviene dove magari proprio non ce l’aspettiamo. Le culture sono importanti e nessuno di noi è un’isola, ognuno di noi è cresciuto in un contesto in cui ha appreso dei valori, delle norme e degli stili di comportamento, ma per fortuna le culture sono anche plastiche e possono cambiare, e questo credo sia un segno di speranza.

Le culture sono plastiche e possono cambiare.

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Alcuni Interventi da parte dei partecipanti

1. QUALI POSSONO ESSERE POLITICHE DA ADOTTARE AI FINI DI UN’INCLUSIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DELLE FAMIGLIE CINESI?

Maurizio AmbrosiniLe ricerche sui cinesi immigrati richiedono competenze specifiche. Alcuni punti fermi li abbiamo:- L’emigrazione cinese è molto più spesso un progetto familiare, rispetto ad altre

nazionalità di origine;- Ingenereaffrontanounadifficoltàdigestionedeifigli legataal lavoroeallafatica;o

li rimandano per alcuni anni in Cina oppure quando sono qui hanno dei problemi di supervisione. Ci aspettiamo figli che lavorano con i genitori, ma una ricerca fatto a Prato ha evidenziato che un problema che vivono i figli è che passavano la giornata e le notti nelle sale videogiochi mente i genitori erano nei laboratori a lavorare, vi è una sfida educativa. I risultati scolastici dei ragazzi cinesi sono sotto la media dei ragazzi immigrati; un caso quasi unico. Questo dato era stato spiegato come un problema culturale ma la mia risposta è che negli USA gli immigrati asiatici sono gli immigrati di maggior successo nella scuola. Quindi non sono i cinesi il problema, ma le condizioni in cui arrivano, vivono e lavorano in Italia i cinesi che producono queste difficoltà dei ragazzi nella scuola.

- Un terzo elemento che ricordo nelle mie letture è che i cinesi intervistati in genere dicono che sarebbero contenti di lavorare per gli italiani. Non c’è tutta questa volontà di stare con altri cinesi ma è più una situazione in cui si trovano in mancanza di alternative: per esempio per la debolezza delle capacità linguistiche. A Milano i cinesi ci sono da un secolo, arrivati dalla Francia quando vennero chiamati nel corso della prima guerra mondiale per sostituire gli operai francesi che andavano in guerra. Alla fine della guerra li volevano mandare via. I cinesi hanno provato a rimanere, nascondendosi in Francia o andando in Italia. Sono arrivati da non autorizzati; le ragioni di questo segreto, di questa chiusura sembra siano da ricercare oltre che nella distanza linguistica anche in questa storia particolare di una immigrazione non autorizzata che ha sempre cercato di nascondersi, di non far trapelare la propria storia. Ho in mente un paio di casi in cui anni fa in un incontro organizzato in Caritas per parlare di qualche cambiamento legislativo era previsto l’arrivo i 20 cinesi; in realtà c’era la coda fuori di 200 persone, tutte cinesi. A Prato ad un incontro vi erano circa 1.000 cinesi perché c’era una domanda di informazione che era mediata da pochi capi famiglia storicamente insediati e che hanno rapporti con le istituzioni e il mercato italiano.

- A Milano le famiglie presenti qui da 3 generazioni hanno i figli che studiano nelle migliori università, hanno commercialisti cinesi

Il tempo è una formidabile leva di integrazione, anche dove pare difficile.

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ed esercitano un dominio sulle altre. Nel dominio c’è anche questa tendenza a tenerli sotto controllo, cercando di far sì che tutte le informazioni siano canalizzate attraverso le reti intracomunitarie, mentre la domanda dei giovani cinesi è quella di uscire e trovare lavoro e relazioni altrove. Per sdrammatizzare il quadro, io vedo sempre più anche in università ragazzi cinesi, la componente maggiore di studenti stranieri che abbiamo; sui mezzi di trasporto a Milano sento ragazzi di origine cinese che parlano in italiano tra di loro, con accenti delle ragioni italiane in cui vivono e da cui provengono. Il tempo è una formidabile leva di integrazione, anche dove pare difficile. Io credo che si debba tentare di lavorare dalla scuola per costruire ponti e opportunità di scambio e integrazione, sapendo che i ragazzi cinesi hanno un problema di gestione del tempo libero. Forse opportunità di scambio e gioco, incontro potrebbe essere una risorsa anche per loro.

2. SONO MARIE, PROVENGO DAL BURUNDI. MI SENTO STRANIERA QUANDO TORNO NEL MIO PAESE E ANCHE PER I MIEI FIGLI NON È SEMPLICE FARVI RITORNO.

Maurizio AmbrosiniIl migrante cambia stando qui. È vero quanto detto dalla signora, spesso si sente straniero nel Paese di origine più di quanto si possa immaginare. Questa è una delle difficoltà rispetto al ritorno; gli studi sul ritorno dicono che si tratti di una seconda migrazione che spesso fallisce. Pensate a quanti preti provenienti dal mondo arrivano in Italia e poi non vogliono più tornare. Ci si abitua a fare la doccia tutte le mattine; sono cose banali ma tornare in un paese dove l’acqua è rara e non ci può lavare regolarmente come si è abituati a fare è un problema. C’è una ricerca degli anni ‘20 dove il ricercatore Thomas aveva intervistato dei migranti italiani siciliani che dopo il rientro in Sicilia erano ritornati negli Stati Uniti. Perché siete tornati negli USA? La risposta è stata: “da noi in Sicilia era tutto troppo piccolo”. Dopo aver fatto l’esperienza delle grandi città, tornare in un piccolo villaggio siciliano senza luce elettrica e con strade di terra battuta era un problema. Questa è una dimensione dell’immigrazione con cui dobbiamo fare i conti: le difficoltà del rientro e l’estraneità del migrante rispetto al suo stesso Paese. È possibile tornare in visita quando si viene accolti e trattati bene, ma è difficile rimettervi le radici.

3. UN FATTO DI CRONACA DI BASSANO: UNA RAGAZZA RASATA INTESTADALLAMADRE;FADISCUTEREL’AFFIDAMENTODI QUESTA RAGAZZA DA PARTE DEI SERVIZI SOCIALI. LA DECISIONE DEI SERVIZI SOCIALI È GIUSTA O È QUALCOSA DI TROPPO FORTE CHE VA AD IMPATTARE SU DINAMICHE CULTURALI DI CUI BISOGNA TENERE CONTO?

Maurizio AmbrosiniSono contrario all’idea di fare lo psicologo su questi fatti di cronaca, figuriamoci se lo posso fare io che sono un sociologo, cioè colui che generalizza ed

Non vi è un determinismo culturale per cui chi viene da certi Paesi o contesti tratta male le figlie.

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individua le tendenze. La prima cosa che direi è che bisognerebbe conoscere la situazione, quei genitori, quella figlia per capire se era un provvedimento giusto l’allontanamento. Io sono contrario alla tentazione di culturalizzare questi fenomeni. È diventato un caso clamoroso perché in realtà il produttore di informazione e il lettore fanno un processo mentale di generalizzazione culturale: “quel genitore ha reagito così perché la loro cultura tratta così i figli”. Magari era un padre manesco, tendo a pensare che sia così, che sia un caso particolare incardinato in relazioni particolari. Posso ammettere che in culture più tradizionali la soglia di tolleranza nei confronti della violenza domestica sia più bassa e quindi l’uso di maniere forti sia frequente, penso si possa accettare come generalizzazione, ma devo dire da ricercatore che in migliaia di famiglie immigrate queste cose non succedono. Non vi è un determinismo culturale per cui chi viene da certi Paesi o contesti tratta male le figlie. Allo stesso modo mi guardo dal giudicare l‘azione dei servizi sociali appunto non conoscendo la situazione specifica, ma posso solo dire che in termini generali e prudenti la tendenza dei servizi è di essere forti con i deboli e deboli con i forti. È più facile che si tolgano i figli a famiglie deboli, fragili e poco capaci di difendersi.

4. RISPETTO ALLA REALTÀ DEGLI ADOLESCENTI, DEI GIOVANI E AL MONDO DELLA SCUOLA ESISTONO RICERCHE SULL’INCLUSIONE DEI GIOVANI DI CULTURA, DI ORIGINE DA PAESI MUSULMANI?

Maurizio AmbrosiniCi sono delle ricerche sulle giovani musulmane. Ricerche che mostrano quello che vedo anche in università. Ragazze sveglie, mature, indipendenti. Noi abbiamo degli stereotipi: la ragazza musulmana si mette il velo perché la costringono. Se provassi a dire una cosa del genere a una delle ragazze che frequenta in università il mio corso mi coprirebbe di insulti. Nessuno le obbliga, loro lo vogliono o pensano sia giusto così. Possiamo dire che sia una tendenza: ci sono paesi in cui le donne portano il velo più ora rispetto ad anni fa in epoca di socialismo; è una tendenza come lo è per gli uomini mettere la cravatta sul blu perché va di moda. Vorrei sdrammatizzare e dire che queste ricerche ne mettono in evidenza lo statuto di persone adulte e che scelgono in autonomia una maggior osservanza religiosa rispetto alle loro madri. Possiamo argomentare sul fatto che ci sia una reattività rispetto un ambiente culturale percepito come ostile. C’è una tendenza a riaffermare le proprie radici. Abito in un quartiere in cui vi è la principale scuola ebraica, con una presenza notevole di iraniani. Vedo con i miei occhi più visibilità dell’identità ebraica, più persone con la kippah, con i riccioli, con abbigliamento identitario. Agli ebrei però non si dice niente, invece se una donna musulmana mette il foulard si fanno delle leggi in certi Paesi per impedirglielo. Io credo che qui dobbiamo interrogaci su di noi, sul fatto che le civiltà liberali si stanno scoprendo un po’ meno liberali, una tendenza inquietante. La libertà di abbigliamento è stata conquistata faticosamente dalle donne con decenni di travaglio; se mi consentite la battuta una volta si condannavano le donne perché si vestivano troppo poco, ora si condannano perché si vestono troppo. L’abbigliamento

Si può essere musulmani osservanti e culturalmente integrati.

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e il corpo delle donne sono oggetto di battaglie simbolico-culturali; nei paesi di origine le vogliono coprire per ripristinare l‘ordine sociale con accettazione da parte delle stesse donne, mentre da noi è considerato culturalmente accettato andare in università in shorts e invece c’è qualcuno che trova da ridire sulla ragazza con il foulard. Il titolo di un libro di una nostra ex studentessa “Porto il velo e adoro i Queen” è un esempio del fatto che si può essere musulmani osservanti e culturalmente integrati e pieni di interessi occidentali; dobbiamo cercare di farcene una ragione e di non rendere le barriere un prodotto dei nostri pregiudizi. La chiusura può essere performativa ed esito di certi comportamenti di esclusione; dobbiamo riuscire a fare i conti tutti con l’idea che si possa essere buoni cittadini e buoni amici con tradizioni culturali diverse. Invece stiamo andando tutti nella direzione opposta, a stare con i simili e socializzare a fatica con coloro che sono dissimili e lontani da noi.

5. UNA SIGNORA MAROCCHINA IN ITALIA DA 13 ANNI CHE ABBIAMO CONOSCIUTO PERCHÉ ERA VENUTA AL NOSTRO CENTRO DI ASCOLTO A CHIEDERE UN SOSTEGNO, DA ASSISTITA È DIVENTATA VOLONTARIA CARDINE PER IL CENTRO DI ASCOLTO. LEI AVEVA I CAPELLI SCIOLTI, SI IDENTIFICAVA NELLA CULTURA OCCIDENTALE. LA CRISI, LA PERDITA DI LAVORO, I PROBLEMI DI SALUTE HA PORTATO IN LEI E NELLA SUA FAMIGLIA UN CAMBIAMENTO: HA INIZIATO A FREQUENTARE LA COMUNITÀ MAROCCHINA, NON PORTA PIÙ I CAPELLI SCIOLTI, L’ABBIGLIAMENTO È CAMBIATO E SONO AUMENTATI I LORO VIAGGI IN MAROCCO IN CERCA DI RISPOSTE CHE QUI NON AVEVANO COME FAMIGLIA.

Maurizio AmbrosiniUna testimonianza molto interessante; a parte il caso, che non conosco, questa sembrerebbe una risposta alla crisi: quando la situazione economica e sociale si destabilizza le persone trovano una sponda nella comunità di simili, dove ci sono dei legami anche parentali dove possonosperareditrovaresolidarietà;l’altrolivelloèdoveattecchisceilfondamentalismo,dove c’è la sconfitta. Prendiamo il caso del terrorismo, pensiamo a quanti ex carcerati, falliti, gente che aveva visto fallire progetto, sogni, aspirazioni, tossicodipendenti trovano nel fondamentalismo e nel radicalismo religioso una nuova ragione fanatica, aberrante, ma soggettivamente nuova ragione di vita. Come il razzismo è una risorsa a disposizione di chi non ha niente, accessibile a tutti. Un italiano analfabeta si può sentire superiore ad un africano medico; sono italiano ed ho più diritti di te. La riaffermazione identitaria può essere una risposta al fallimento personale. L’identità è una risorsa che non può essere tolta; io non mi integro e non voglio integrarmi perché sono altro.. questo potrebbe essere l’esito di traiettorie fallite. Non è che i ghetti sono la causa del fondamentalismo, ma spesso il fondamentalismo è l’oggetto dei ghetti non solo in senso urbano ma anche sociale. Dobbiamo stare attenti a come si articola la dimensione identitaria con quella socio-economica. In questa storia leggo la parola del ripiegamento identitario come effetto di una parabola discendente dal punto di vista economico sociale.

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CONCLUSIONI – SINTESIInnanzitutto, oggi è emerso che la dimensione familiare è una dimensione trasversale al fenomeno migratorio.

La ricerca evidenzia la presenza di famiglie in bilico, che vanno verso una ridefinizionedei progetti migratori, a causa della crisi economica che ha costituito un momento di rottura nei loro percorsi migratori. Le persone hanno anche, nel contempo, un bisogno di appartenenza alla società italiana. È emerso il concettoantropologicodiconfine, inteso non come barriera ma come soglia che contenga le varie identità e istanze, e come limite che viene attraversato nei momenti di crisi e mutamento.

Con il prof. Ambrosini sono stati approfonditi i tre tipi di famiglie transnazionali: la famiglia in cui un solo componente migra, la famiglia in cui prevale la nostalgia e la voglia di riconnettersi ai familiari distanti e la famiglia ricongiunta, che è quasi una nuova famiglia.È emerso il ruolo della donna, che è centrale, anche nella famiglia migrante o con esperienza migratoria. È centrale nei processi di consolidamento della famiglie, di ridefinizione del progetto migratorio. I dati ci dimostrano come le donne hanno tenuto meglio alla crisi nel mercato del lavoro; hanno, sembrerebbe, maggiori chance di integrazione, accudiscono e accompagnano i loro figli, diventando il perno su cui si struttura la vita familiare.

Tutto ciò si inserisce in un contesto dove è evidente il divario tra realtà dell’immigrazione e discorso sull’immigrazione. Questo divario lo troviamo nei dati, nella quotidianità. Oggi si parla di profughi in accoglienza che sono il 3% della popolazione straniera in Italia: al di là della percezione non possiamo parlare di invasione. Abbiamo la percezione che siano tutti musulmani, ma non è così. Questuo divario va colmato attraverso la conoscenza e i dati. Ragionando sulla cronaca l’invito è quello di emanciparci dal dibattito pubblico corrente collegato al tema dell’immigrazione. Capisco che siamo bombardati, che le notizie che arrivano sono sempre quelle che parlano di invasione, ma cerchiamo di ragionare sui temi di fondo come abbiamo fatto oggi.

A volte si ragiona in termini di incontro e scontro culturale, ma bisogna guardarsi dal determinismo culturale, cioè dal voler spiegare tutto quanto agiscono gli immigrati sulla base della cultura di origine. Gli esseri umani agiscono invece in buona parte sulla base di intenzioni razionali, intenzioni e motivazioni che accomunano tutti gli esseri umani. Inoltre, va tenuto presente quanto emerso dalla relazione del prof. Ambrosini: le culture sono plastiche e possono cambiare. In particolare, il tempo è una formidabile leva per l’integrazione. “Gli immigrati cominciano a diventare vicini di casa, genitori dei compagni di scuola dei figli, clienti dei medesimi esercizi commerciali, fruitori degli stessi spazi urbani. Diventano conosciuti personalmente e come famiglie, al

conc

lusi

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Ragionare esclusivamente in termini di differenza, in termini di “noi” e “loro”, ci fa dimenticare i numerosissimi aspetti di somiglianza.

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di là degli stereotipi collettivizzanti”. Non a caso, gli immigrati, soprattutto quando insediati da vari anni sul territorio, modificano la loro cultura a tal punto da avere difficoltà a tornare nel Paese di origine, soprattutto per stabilirvisi, ed è questa una delle ragioni dell’insuccesso dei programmi di ritorno volontario assistito. Di conseguenza, ragionare esclusivamente in termini di differenza, in termini di “noi” e “loro”, ci fa dimenticare i numerosissimi aspetti di somiglianza, che spesso passano sottotraccia e che invece sono una delle basi per costruire futuro insieme.

Per informazioni rivolgersi alla Caritas Diocesana di riferimentodel proprio territorio.