Famiglia legittima, figli naturali, adozioni e rapporti di ... · La dichiarazione giudiziale di...

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1. Introduzione 2. I rapporti tra coniugi 2.1. I rapporti personali 2.1.1. L’obbligo della fedeltà coniugale: l’adulterio ed il concubinato 2.1.2. L’assistenza familiare in situazioni di particolare bisogno 2.1.3. La violazione degli obblighi di assistenza familiare 2.1.4. Interruzione volontaria della gravidanza ed eguaglianza tra i coniugi 2.2. La trasmissione del cognome al figlio 2.3. I rapporti patrimoniali tra i coniugi 2.3.1. L’obbligo di mantenimento del coniuge 2.3.2. La c.d. presunzione muciana 2.3.3. Le convenzioni matrimoniali 2.3.4. Il divieto di donazione tra coniugi 2.3.5. Il regime di separazione dei beni 2.3.6. Il trattamento fiscale dei redditi dei coniugi 2.3.7. La successione del binubo 2.4. Lo status civitatis dei coniugi 2.4.1. La perdita della cittadinanza per matrimonio 2.4.2. La comunicazione della cittadinanza al figlio 2.4.3. Il diritto applicabile in caso di diversa nazionalità dei coniugi 2.5. L’unità familiare ed il buon andamento della pubblica amministrazione 2.5.1. Il trasferimento finalizzato al ricongiungimento con il coniuge 2.5.2. Il collocamento in aspettativa per ricongiungimento con il coniuge 3. L’unità familiare e lo straniero extracomunitario 3.1. Il ricongiungimento familiare come diritto dello straniero regolare 3.2. I profili soggettivi del diritto al ricongiungimento 3.3. La disciplina di favore approntata per i minori 3.4. Le condizioni in presenza delle quali si fa luogo al ricongiungimento 3.5. Il diniego del nulla-osta al ricongiungimento 4. Matrimonio e sessualità 4.1. Matrimonio ed identità sessuale 4.2. Matrimonio ed orientamento sessuale 5. La separazione dei coniugi 5.1. L’uso del cognome del marito Famiglia legittima, figli naturali, adozioni e rapporti di fatto Quaderno predisposto in occasione dell’XI Incontro trilaterale con i Tribunali costituzionali della Spagna e del Portogallo a cura di M. Bellocci

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1. Introduzione

2. I rapporti tra coniugi

2.1. I rapporti personali

2.1.1. L’obbligo della fedeltà coniugale: l’adulterio ed il concubinato

2.1.2. L’assistenza familiare in situazioni di particolare bisogno

2.1.3. La violazione degli obblighi di assistenza familiare

2.1.4. Interruzione volontaria della gravidanza ed eguaglianza tra i coniugi

2.2. La trasmissione del cognome al figlio

2.3. I rapporti patrimoniali tra i coniugi

2.3.1. L’obbligo di mantenimento del coniuge

2.3.2. La c.d. presunzione muciana

2.3.3. Le convenzioni matrimoniali

2.3.4. Il divieto di donazione tra coniugi

2.3.5. Il regime di separazione dei beni

2.3.6. Il trattamento fiscale dei redditi dei coniugi

2.3.7. La successione del binubo

2.4. Lo status civitatis dei coniugi

2.4.1. La perdita della cittadinanza per matrimonio

2.4.2. La comunicazione della cittadinanza al figlio

2.4.3. Il diritto applicabile in caso di diversa nazionalità dei coniugi

2.5. L’unità familiare ed il buon andamento della pubblica amministrazione

2.5.1. Il trasferimento finalizzato al ricongiungimento con il coniuge

2.5.2. Il collocamento in aspettativa per ricongiungimento con il coniuge

3. L’unità familiare e lo straniero extracomunitario

3.1. Il ricongiungimento familiare come diritto dello straniero regolare

3.2. I profili soggettivi del diritto al ricongiungimento

3.3. La disciplina di favore approntata per i minori

3.4. Le condizioni in presenza delle quali si fa luogo al ricongiungimento

3.5. Il diniego del nulla-osta al ricongiungimento

4. Matrimonio e sessualità

4.1. Matrimonio ed identità sessuale

4.2. Matrimonio ed orientamento sessuale

5. La separazione dei coniugi

5.1. L’uso del cognome del marito

Famiglia legittima, figli naturali, adozioni e rapporti di fatto

Quaderno predisposto in occasione dell’XI Incontro trilaterale con i

Tribunali costituzionali della Spagna e del Portogallo

a cura di M. Bellocci

5.2. L’assegnazione del domicilio coniugale

5.3. L’obbligo di mantenimento a carico di un coniuge

6. La famiglia di fatto

6.1. La tutela delle unioni diverse da quelle fondate sul matrimonio

6.2. Famiglia di fatto e diritto all’abitazione

6.2.1. Il diritto reale di abitazione

6.2.2. Le locazioni ad uso abitativo

6.3. Famiglia di fatto e sospensione della prescrizione tra conviventi

6.4. Famiglia di fatto e diritto successorio

6.5. Famiglia di fatto e previdenza ed assistenza sociale

6.5.1. L’integrazione al minimo del trattamento pensionistico

6.5.2. Il trattamento pensionistico di riversibilità

6.5.3. La fruizione di una rendita per infortunio

6.6. Famiglia di fatto e sistema penale

6.6.1. Famiglia di fatto e processo penale

6.6.2. Famiglia di fatto e diritto penale sostanziale

7. Figli legittimi e figli naturali

7.1. Il diritto di procreare ed il riconoscimento dei figli naturali

7.2. La tutela dei figli naturali

7.2.1. In generale

7.2.2. I figli incestuosi

7.2.3. Il diritto all’identità personale

7.2.4. La ricerca della maternità

7.3. La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale

7.3.1. I presupposti dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale

7.3.2. L’impugnazione del riconoscimento del figlio

7.3.3. Il disconoscimento della paternità

7.4. La legittimazione dei figli naturali

7.5. Filiazione naturale ed atti di liberalità

7.6. Filiazione naturale e diritto successorio

7.6.1. La capacità dei figli naturali di ricevere per testamento

7.6.2. Figli naturali e successione legittima

7.6.3. Il concorso tra figli naturali e figli legittimi

7.6.4. La riserva ereditaria a favore dei figli naturali

7.6.5. Il diritto di commutazione a favore dei figli legittimi

7.6.6. Il diritto di rappresentazione

7.6.7. La successione dei c.d. parenti naturali

7.7. Le condizioni per il rilascio del passaporto

7.8. Filiazione naturale e cessazione della convivenza dei genitori

7.8.1. Il diritto all’abitazione

7.8.2. L’obbligo di mantenimento a carico di un genitore

8. L’adozione

8.1. Adozione ordinaria ed adozione speciale

8.2. I soggetti coinvolti nell’adozione

8.2.1. Il limite di età dell’adottando

8.2.2. Il divario di età tra adottando ed adottante

8.2.3. Adozione e presenza di altri figli

8.2.4. L’adozione del figlio del coniuge

8.2.5. L’adozione da parte di parenti

8.2.6. L’accertamento giudiziale dell’idoneità degli adottanti

8.2.7. Il consenso all’adozione del legale rappresentante del minore

8.2.8. L’opposizione al decreto di adozione da parte del genitore naturale

8.3. I presupposti per l’adozione

8.4. Adozione ed ambiente familiare degli adottanti

8.4.1. Adozione e famiglia di fatto

8.4.2. L’adozione del single

8.5. Gli effetti dell’adozione

8.6. L’adottato ed i suoi legami pregressi

8.6.1. Il cognome dell’adottato

8.6.2. Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini

8.7. L’adozione internazionale

8.8. La revoca dell’adozione

8.9. Adozione ed attività lavorativa degli adottanti

8.9.1. L’astensione dal lavoro

8.9.2. L’indennità di maternità

9. La potestà genitoriale

9.1. La potestà sul figlio naturale riconosciuto

9.2. L’assistenza ai figli minori da parte del genitore detenuto

9.3. La rappresentanza dei figli

9.4. L’amministrazione dei beni dei figli

9.5. La sottrazione di minori

10. Diritto penale e tutela della moralità dei rapporti familiari

1. Introduzione

Il diritto di famiglia costituisce uno dei settori nei quali la giurisprudenza costituzionale è più

ricca. Non si tratta, come è chiaro, di una valutazione puramente quantitativa, giacché l’attività della

Corte costituzionale è stata decisiva, nel corso del tempo, al fine di conformare la disciplina di molti

istituti tradizionali alle esigenze poste dalla Costituzione.

Pur senza poter proporre un panorama che aspiri ad un elevato grado di completezza, nel

presente quaderno verranno passate in rassegna quelle che si ritengono le più significative decisioni

rese dalla Corte a partire dal 1956, cercando peraltro di dare maggior risalto a quelle successive alla

riforma del diritto di famiglia del 1975.

2. I rapporti tra coniugi

2.1. I rapporti personali

2.1.1. L’obbligo della fedeltà coniugale: l’adulterio ed il concubinato

Sono ormai storiche le pronunce della Corte in tema di adulterio (sentenze nn. 126 e 127 del

1968), in cui la Corte valuta se – nel contesto storico-sociale inveratosi – continui a sussistere quella

diversità obbiettiva di situazione che, nella precedente sentenza n. 64 del 1961, la Corte ha ritenuto

di dover riscontrare, sì da giustificare il differente trattamento, fatto dal legislatore penale,

dell’adulterio della moglie rispetto a quello del marito.

Al riguardo, la Corte motiva, nella sentenza n. 126, che il principio secondo cui il marito possa

violare impunemente l’obbligo della fedeltà coniugale, mentre la moglie debba essere punita – più o

meno severamente – rimonta ai tempi remoti nei quali la donna, considerata perfino giuridicamente

incapace e privata di molti diritti, si trovava in stato di soggezione alla potestà maritale. Da allora

molto è mutato nella vita sociale: la donna ha acquistato pienezza di diritti e la sua partecipazione

alla vita economica e sociale della famiglia e della intera collettività è diventata molto più intensa,

fino a raggiungere piena parità con l’uomo; mentre il trattamento differenziato in tema di adulterio è

rimasto immutato, nonostante che in alcuni stati di avanzata civiltà sia prevalso il principio della

non ingerenza del legislatore nella delicata materia.

I rapporti fra coniugi sono disciplinati dall’art. 29 della Costituzione, che riconosce i diritti della

famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, afferma l’eguaglianza morale e giuridica dei

coniugi e dispone che questa eguaglianza possa subire limitazioni soltanto a garanzia dell’unità

familiare. Nel sancire, dunque, sia l’eguaglianza fra coniugi, sia l’unità familiare, la Costituzione

proclama la prevalenza dell’unità sul principio di eguaglianza, ma solo se e quando un trattamento

di parità tra i coniugi la ponga in pericolo.

Non vi è dubbio che, fra i limiti al principio di eguaglianza, siano da annoverare quelli che

riguardano le esigenze di organizzazione della famiglia, e che, senza creare alcuna inferiorità a

carico della moglie, fanno tuttora del marito, per taluni aspetti, il punto di convergenza dell’unità

familiare, e della posizione della famiglia nella vita sociale. Ciò indubbiamente autorizza il

legislatore ad adottare, a garanzia dell’unità familiare, talune misure di difesa contro influenze

negative e disgregatrici.

Queste considerazioni tuttavia non spiegano né giustificano la discriminazione denunciata.

È questione di politica legislativa quella relativa alla punibilità dell’adulterio. Ma, poiché la

discriminazione fatta in proposito dall’attuale legge penale viola il principio di eguaglianza fra

coniugi (il quale rimane pur sempre la regola generale), la Corte, alla stregua dell’attuale realtà

sociale, ritiene che la discriminazione, lungi dall’essere utile, è di grave nocumento alla concordia

ed alla unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all’adulterio del marito e punendo

invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest’ultima, la quale viene lesa nella sua

dignità, è costretta a sopportare l’infedeltà e l’ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale.

Per l’unità familiare costituisce indubbiamente un pericolo l’adulterio del marito e della moglie,

ma, quando la legge preveda un differente trattamento, questo pericolo assume proporzioni più

gravi, sia per i riflessi sul comportamento di entrambi i coniugi, sia per le conseguenze psicologiche

sui soggetti.

La Corte considera pertanto che la discriminazione sancita dal primo comma dell’art. 559 del

Codice penale non garantisca l’unità familiare, ma sia più che altro un privilegio assicurato al

marito; e, come tutti i privilegi, violi il principio di parità.

Tale sentenza comporta, per conseguenza, la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 151 del

Codice civile di cui alla sentenza n. 127. Ritiene la Corte che il legislatore è libero, nel suo

prudente apprezzamento politico, di stabilire se ed in quali casi l’infedeltà del coniuge possa dar

luogo alla separazione personale, ma non può determinare discriminazioni fra il marito e la moglie

che non siano giustificate dall’unità familiare. L’art. 151 del Codice civile prevede (primo comma)

che l’adulterio sia causa di separazione, ma considera l’adulterio del marito (secondo comma)

irrilevante a tal fine quando esso non sia accompagnato da circostanze che valgano a conferire al

fatto il carattere di ingiuria grave alla moglie: così statuendo, la disposizione crea a vantaggio del

marito una situazione di vero e proprio privilegio. L’infedeltà della moglie è sempre causa di

separazione personale, l’infedeltà del marito, tranne il caso suddetto, è priva di sanzione: anche qui,

dunque, come a proposito della disciplina penale dell’adulterio, il marito e la moglie vengono

sottoposti a trattamento diverso, nonostante che ad entrambi la legge (art. 143 del Codice civile)

imponga un eguale dovere di fedeltà. Né si può sostenere che il secondo comma dell’art. 151, con lo

stabilire un regime eccezionale per il marito, deroghi all’eguaglianza fra i coniugi in funzione

dell’unità familiare. Poiché non sarebbe ragionevole ipotizzare che l’irrilevanza giuridica

dell’infedeltà del marito contribuisca a conservare l’unità della famiglia, la disposizione impugnata

non può non essere considerata fonte di una non consentita discriminazione a favore dell’uomo od a

svantaggio della donna: di una disciplina, cioè, che è in contrasto con l’art. 29 cpv. della

Costituzione.

La conclusione non sarebbe diversa se si volesse supporre che l’art. 151, nella parte qui presa in

considerazione, tuteli non già il diritto alla fedeltà, ma l’onorabilità del coniuge, e se si ritenesse

che, a questo fine, il legislatore si sia conformato ad un diverso apprezzamento sociale

dell’adulterio del marito e di quello della moglie. La Costituzione, infatti, afferma il principio

dell’eguaglianza anche “morale” dei coniugi, ed esprime in tale modo una diretta sua valutazione

della pari dignità di entrambi, disponendo che a questa debbano ispirarsi le strutture giuridiche del

matrimonio: di tal che lo Stato non può avallare o, addirittura, consolidare col presidio della legge

(la quale, peraltro, contribuisce, essa stessa, in misura rilevante alla formazione della coscienza

sociale) un costume che risulti incompatibile con i valori morali verso i quali la Carta costituzionale

volle indirizzare la nostra società.

Nella sentenza n. 147 del 1969, sulla scorta del principio di eguaglianza morale e giuridica dei

coniugi, posto dall’art. 29 Cost., la Corte verifica se, dichiarati illegittimi il primo ed il secondo

comma dell’art. 559 del Codice penale, la residua disciplina contenuta nel terzo comma (relazione

adulterina) e quella dettata dal primo comma dell’art. 560 (concubinato) pongano in essere una non

consentita disparità di trattamento fra marito e moglie. A tal proposito, viene evidenziato che

relazione adulterina e concubinato sono reati fra loro strutturalmente diversi. Si prescinde dalla

questione se l’espressione “tenere una concubina” usata nel primo comma dell’art. 560 stia già ad

indicare che la legge richieda, ai fini della punizione del marito, qualcosa di più della semplice

relazione con una donna diversa dalla moglie. A mettere in evidenza la netta differenza fra i due

delitti è sufficiente la circostanza che per il reato di concubinato è necessario che la consumazione

abbia luogo “nella casa coniugale o notoriamente altrove”, mentre per la relazione adulterina

appaiono del tutto indifferenti le modalità di svolgimento: il che è quanto dire che quelle violazioni

della fedeltà coniugale che sono necessarie e sufficienti ad integrare il reato di relazione adulterina

imputabile alla moglie non bastano, se commesse dal marito, a renderlo colpevole di concubinato. E

se identici comportamenti sono penalmente rilevanti per l’un coniuge e irrilevanti per l’altro,

bisogna concludere che le disposizioni impugnate dettano una disciplina differenziata per il marito e

per la moglie, nonostante che la legge (art. 143 Cod. civ.) ponga a carico di entrambi il dovere di

fedeltà coniugale.

Per giustificare validamente sul piano costituzionale la riscontrata diversità di trattamento non

possono essere prese in considerazione ragioni che non siano strettamente connesse con l’esigenza

di salvaguardare l’unità familiare.

Rifacendosi alle sentenze nn. 126 e 127 del 1968, la Corte ribadisce che ai fini del controllo di

legittimità costituzionale dei diritti o degli obblighi conferiti o imposti dalla legge al marito ed alla

moglie occorre far riferimento non già all’art. 3, ma all’art. 29 della Costituzione, ai sensi del quale

la Costituzione direttamente impone che la disciplina giuridica del matrimonio – col solo limite

della unità della famiglia – contempli obblighi e diritti eguali per l’uomo e per la donna. Alla luce di

questi principi, si evidenzia che nella regolamentazione dei rapporti tra i coniugi nascenti dal

matrimonio è vietato al legislatore di dar rilievo a ragioni di differenziazione diverse da quelle

concernenti la predetta unità. Non possono, perciò, spiegare influenza tutte quelle valutazioni che si

connettano alla supposta maggior gravità della condotta infedele della moglie od al diverso

atteggiamento della società di fronte all’infedeltà dell’uomo e della donna. Tutto il sistema

desumibile dagli artt. 559 e 560 del Codice penale reca l’impronta di un’epoca nella quale la donna

non godeva della stessa posizione sociale dell’uomo e vedeva riflessa la sua situazione di netta

inferiorità nella disciplina dei diritti e dei doveri coniugali. Non sta alla Corte verificare se e quali

modificazioni in questo campo il nostro tempo abbia portato nella coscienza sociale. Ma è compito

indiscutibile della Corte accertare l’insanabile contrasto fra quella disciplina, quale che ne sia stata

la giustificazione originaria, ed il sopravvenuto principio costituzionale e dichiarare l’illegittimità di

tutte quelle disparità di trattamento fra coniugi che non siano giustificate dall’unità familiare: vale a

dire dall’unico limite che la Costituzione prevede.

A quest’ultimo proposito, la Corte non può non confermare che il trattamento più severo per

l’infedeltà della moglie, più indulgente per l’infedeltà del marito (e, cioè, proprio la disparità di

trattamento) può addirittura esser causa di disgregazione della famiglia: in ogni caso è certo che non

è possibile considerarlo come finalizzato alla tutela della sua unità. Per giungere ad opposta

conclusione non è certo pertinente affermare che la punizione della moglie fedifraga risponde

all’esigenza di salvaguardare la famiglia. Poiché la tutela di tale esigenza deve necessariamente

coordinarsi col principio di eguaglianza, occorrerebbe dimostrare che, una volta stabilito che la

relazione adulterina della donna debba costituire reato, punire il marito per una fattispecie identica

significherebbe mettere in pericolo l’unità del nucleo familiare. Ma è sufficiente enunciare questa

ipotesi di giustificazione per coglierne l’assoluta irrazionalità.

Conclusivamente, si riconosce che il terzo comma dell’art. 559 del Codice penale, poiché

punisce la moglie anche per fatti che se commessi dal marito sono penalmente irrilevanti, è

costituzionalmente illegittimo. La dichiarazione colpisce altresì il primo comma dell’art. 560, sia

perché è il concorso di entrambe le norme penali che dà vita, a causa dell’eterogeneità delle

fattispecie delittuose in esse contemplate, ad una non consentita disparità di trattamento fra moglie e

marito, sia perché, ove fosse annullata la sola previsione della relazione adulterina della moglie,

l’ordinamento verrebbe a dar rilevanza unicamente, nei limiti dell’art. 560, alla infedeltà coniugale

del marito, con conseguente identica violazione del principio di eguaglianza.

Derivando l’illegittimità delle due disposizioni dalla disparità di trattamento dei coniugi, il

legislatore conserva, nell’ambito della sua discrezionalità politica, il potere di stabilire se ed in quali

ipotesi la violazione del dovere di fedeltà coniugale debba costituire reato, ma nel rispetto dell’art.

29 della Costituzione sarà tenuto a dettare un’eguale disciplina per il marito e per la moglie.

2.1.2. L’assistenza familiare in situazioni di particolare bisogno

La famiglia riveste un ruolo chiave «nella assistenza del disabile e, in particolare, nel

soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione quale fondamentale fattore di sviluppo della

personalità e idoneo strumento di tutela della salute del disabile intesa nella sua accezione più

ampia»: nel ribadire la centralità della famiglia nell’assistenza alle persone disabili, la sentenza n.

158 del 2007, inserendosi nel solco già tracciato dal precedente di cui alla sentenza n. 233 del

2005, ha giudicato confliggente con gli artt. 2, 3, 29 e 32 Cost. l’art 42, comma 5, del d.lgs. 26

marzo 2001, n. 151, nella parte in cui non prevede, in via prioritaria rispetto agli altri congiunti

indicati dalla norma, anche per il coniuge convivente con soggetto con handicap in situazione di

gravità, il diritto a fruire del congedo straordinario retribuito indicato nella norma stessa.

Il congedo straordinario retribuito si iscrive negli interventi economici integrativi di sostegno

alle famiglie che si fanno carico dell’assistenza della persona diversamente abile, evidenziando il

rapporto di stretta e diretta correlazione di detto istituto con le finalità perseguite dalla legge n. 104

del 1992, ed in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica della persona handicappata e

di promozione della sua integrazione nella famiglia.

Perciò, è evidente che l’interesse primario cui è preposta la norma in questione – ancorché

sistematicamente collocata nell’ambito di un corpo normativo in materia di tutela e sostegno della

maternità e paternità – è quello di assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e

nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall’età e dalla

condizione di figlio dell’assistito.

Sulla base di tali premesse, appare evidente che la norma contestata, riguardante il trattamento

riservato al lavoratore coniugato con un soggetto con handicap grave e con questi convivente,

omette di considerare, in violazione degli artt. 2, 3, 29 e 32 della Costituzione, le situazioni di

compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tali da rendere necessario un

intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di

relazione ed in tal modo frappone un inammissibile ostacolo all’effettività dell’assistenza e della

integrazione del disabile nell’ambito di un nucleo familiare in cui ricorrono le medesime esigenze

che l’istituto in questione è deputato a soddisfare.

In conclusione, l’art. 42, comma 5, impugnato esclude attualmente dal novero dei beneficiari del

congedo straordinario retribuito il coniuge, pur essendo questi, sulla base del vincolo matrimoniale

ed in conformità dell’ordinamento giuridico vigente, tenuto al primo posto all’adempimento degli

obblighi di assistenza morale e materiale del proprio consorte, con conseguente trattamento

deteriore del coniuge del disabile, rispetto ai componenti della famiglia di origine.

2.1.3. La violazione degli obblighi di assistenza familiare

Nella sentenza n. 107 del 1964, la Corte nega il fondamento delle doglianze riferite all’art. 570

del Codice penale, secondo cui la disposizione altro non sarebbe se non una norma sanzionatrice

dell’altra contenuta nel Codice civile all’art. 144, giusta la quale la moglie è tenuta ad

accompagnare il marito ovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza, e sarebbe pertanto

violatrice della eguale condizione dei coniugi nel matrimonio. La norma impugnata non punisce la

moglie che si rifiuti di seguire il marito nella residenza da costui fissata, o che abbandoni il

domicilio domestico, ma il coniuge (sia il marito, sia la moglie), il quale, mediante codesto rifiuto o

abbandono (o in altra guisa prevista dalla medesima norma), viene meno all’obbligo fondamentale

della società coniugale, che consiste nella mutua assistenza materiale e morale. Non è dunque

l’abbandono del domicilio a integrare da solo la figura del reato, ma l’abbandono in quanto modo di

sottrarsi agli obblighi di assistenza ai quali i coniugi sono vicendevolmente tenuti. E le stesse

considerazioni, com’è evidente, valgono altresì ad escludere che la norma abbia il fine di conferire

la sanzione penale all’obbligo della coabitazione, posto dall’art. 143 del Codice civile, in sé e per sé

considerato.

Ne consegue che l’art. 570 del Codice penale, prevedendo come reato il comportamento di

“chiunque, abbandonando il domicilio domestico... si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti...

alla qualità di coniuge”, non viola il principio della eguaglianza morale e giuridica dei coniugi posta

dall’art. 29, secondo comma, della Costituzione come base sulla quale è “ordinato” il matrimonio.

La Corte non condivide, nella sentenza n. 46 del 1970, l’impostazione teorica del dubbio di

costituzionalità del primo comma dell’art. 570 fondata sull’opinione che la perseguibilità di ufficio

del reato di omesso adempimento degli obblighi di assistenza familiare si ponga in contrasto con la

posizione, assegnata dalla Costituzione alla famiglia, di “società naturale”, come tale dotata di

un’autonomia di fronte allo Stato, suscettibile di essere assoggettata a limiti solo quando questi si

palesino necessari ad assicurare l’eguaglianza dei coniugi e l’unità della famiglia. Il che non si

verificherebbe nei riguardi della sanzione irrogata dall’articolo in esame, in quanto il fatto di non

richiedere per la perseguibilità del reato la querela di parte può piuttosto condurre al risultato di

compromettere quell’esigenza della unità che è costituzionalmente protetta.

Per la Corte, a parte ogni indagine circa l’esatta portata della qualificazione di “società naturale”

attribuita alla famiglia, è da escludere che gli interventi autoritativi in ordine alla sua gestione siano

consentiti solo ai fini di assicurare l’unità del nucleo familiare. Infatti la stessa Costituzione, al

successivo art. 30, dispone che la legge può provvedere a che siano assolti i compiti di spettanza dei

genitori nel caso di una loro incapacità ad adempierli, allontanando quindi, se necessario, i figli

minori dalla famiglia. Del resto, le stesse ordinanze finiscono con il convenire che l’autonomia da

esse richiamata debba venir meno quando il suo esercizio sia tale da determinare un contrasto con i

fini dello Stato. E non si può dubitare del verificarsi di tale ipotesi allorché soggetti passivi della

violazione degli obblighi di assistenza siano i minori, ai quali, ove si aderisse all’opinione

confutata, verrebbe a mancare ogni possibilità di tutela di fronte alle inadempienze dei genitori,

almeno nel caso che esse siano da addebitarsi proprio ad essi o all’unico genitore superstite.

Anche se, seguendo siffatto ordine di considerazioni, la questione venga limitata alla sola ipotesi

della sottrazione degli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge, la si deve egualmente

ritenere non fondata. Il contrasto che viene allegato con l’art. 29, prospettato com’è sotto la specie

del pregiudizio all’unità della famiglia, è fatto discendere dalla considerazione che il

promuovimento ex officio dell’azione penale fa venire meno gli effetti riparatori di una

riconciliazione fra i coniugi che abbia a verificarsi prima del giudizio. Che siffatte considerazioni

appaiano in certo modo reversibili, è dimostrato dalla constatazione che, allorché il legislatore del

1930 ebbe ad introdurre il reato in parola, a giustificare la perseguibilità di ufficio si fecero valere,

non solo ragioni attinenti alla tutela dell’interesse generale al mantenimento di un sano ordine

familiare (che sarebbe potuto rimanere pregiudicato dal sistema della querela, il cui esercizio

avrebbe potuto trovare una remora nel timore suscitato nell’animo del soggetto passivo dall’indole

violenta del coniuge colpevole, oppure dalla tendenza del soggetto stesso a sopportare sofferenze,

pur se gravi, compatendo quegli che ne è causa), ma anche motivi desunti dalla preoccupazione di

evitare ragioni di rancore fra i coniugi, come quella derivabile dalla proposizione della querela.

Risulta pertanto come non sussistano elementi così decisivi da fornire un sicuro criterio atto a

vincolare il legislatore (sotto il riguardo della preservazione dell’unità della famiglia voluta

garantire dalla Costituzione) nella scelta del modo di procedibilità pel reato in esame. Scelta che

deve di conseguenza rimanere affidata a valutazioni discrezionali, insindacabili da parte della Corte,

circa l’opportunità di attribuire peso prevalente all’una o all’altra serie di motivi addotti a sostegno

dei due orientamenti prospettati.

Né sussiste il pericolo che, assumendosi un’interpretazione troppo rigida degli obblighi inerenti

alla qualità di coniuge, la perseguibilità d’ufficio della loro violazione possa condurre ad un

eccessivo controllo del pubblico potere sull’intimo andamento della società coniugale: infatti, la

norma impugnata colpisce solo quei comportamenti illeciti (come l’abbandono del domicilio

domestico, o la condotta contraria all’ordine ed alla morale della famiglia), che costituiscono le più

gravi mancanze ai doveri provenienti dal vincolo maritale, e non già tutti quelli che possono farsi

derivare dalla violazione degli artt. 143 e seguenti del codice civile.

La diversa rilevanza dei reati attinenti ai rapporti familiari, al fine della scelta delle modalità di

impulso processuale (scelta, come è noto, non collegabile a considerazioni relative alla maggiore o

minore gravità delle pene previste), è materia di politica legislativa, così da sfuggire a censure di

legittimità costituzionale, sotto l’aspetto della conformità all’art. 29.

2.1.4. Interruzione volontaria della gravidanza ed eguaglianza tra i coniugi

Il principio di uguaglianza tra i coniugi che gli artt. 29 e 30 Cost. pongono a base del matrimonio

non risulta violato dall’art. 5 della legge 22 maggio 1978 n. 194, che dispone di lasciare la donna

unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza, in quanto la norma impugnata è

frutto di una scelta politico-legislativa – insindacabile da parte della Corte – che non può

considerarsi irrazionale, in quanto è coerente al disegno dell’intera normativa e, in particolare,

all’incidenza, se non esclusiva sicuramente prevalente, dello stato gravidico sulla salute sia fisica

che psichica della donna (ordinanza n. 389 del 1988).

2.2. La trasmissione del cognome al figlio

In materia di attribuzione del cognome al figlio, deve segnalarsi la sentenza n. 61 del 2006. La

Corte riconosce che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione

patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di

una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore

costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna.

Né può obliterarsi il vincolo posto dalle fonti convenzionali, e, in particolare, dall’art. 16, comma

1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti

della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge

14 marzo 1985, n. 132, che impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per

eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio

e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla

moglie, compresa la scelta del cognome...».

In proposito, vanno, parimenti, richiamate le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271

del 1995 e n. 1362 del 1998, e, ancor prima, la risoluzione n. 37 del 1978, relative alla piena

realizzazione della uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei figli, nonché

una serie di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che vanno nella direzione della

eliminazione di ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome.

Tuttavia, l’intervento che si invoca con la ordinanza di rimessione richiede una operazione

manipolativa esorbitante dai poteri della Corte. Ed infatti, nonostante l’attenzione prestata dal

collegio rimettente a circoscrivere il petitum, limitato alla richiesta di esclusione dell’automatismo

della attribuzione al figlio del cognome paterno nelle sole ipotesi in cui i coniugi abbiano

manifestato una concorde diversa volontà, viene comunque lasciata aperta tutta una serie di opzioni,

che vanno da quella di rimettere la scelta del cognome esclusivamente a detta volontà – con la

conseguente necessità di stabilire i criteri cui l’ufficiale dello stato civile dovrebbe attenersi in caso

di mancato accordo – ovvero di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di derogare

ad una regola pur sempre valida, a quella di richiedere che la scelta dei coniugi debba avvenire una

sola volta, con effetto per tutti i figli, ovvero debba essere espressa all’atto della nascita di ciascuno

di essi.

Con l’ordinanza n. 145 del 2007, in tema di stato civile del figlio naturale, viene dichiarato

manifestamente inammissibile il dubbio di costituzionalità dell’art. 262, primo comma, secondo

periodo, cod. civ., nella parte in cui, per il caso di contestuale riconoscimento del figlio naturale

operato da entrambi i genitori, dispone la trasmissione automatica del cognome paterno, anziché

consentire ai genitori una scelta libera e concordata. La Corte, richiamandosi alla motivazione della

sentenza n. 61 del 2006, ribadisce la sussistenza, in materia, di un potere discrezionale del

legislatore, cui il giudice delle leggi non può sostituirsi.

2.3. I rapporti patrimoniali tra i coniugi

2.3.1. L’obbligo di mantenimento del coniuge

Anche in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, l’intervento della Corte è stato di estrema

rilevanza per eliminare le norme del codice civile in palese contrasto con la direttiva costituzionale

sulla parità. Tanto avviene in occasione della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art.

156, primo comma, del Codice civile, nella parte in cui pone a carico del marito, in regime di

separazione consensuale senza colpa, l’obbligo di somministrare alla moglie tutto ciò che è

necessario ai bisogni della vita, indipendentemente dalle condizioni economiche di costei (sentenza

n. 46 del 1966).

Le norme impugnate, nel determinare la misura delle prestazioni dovute dal marito per

soddisfare le esigenze della moglie, non richiedono che si abbia riguardo alle condizioni

economiche di lei, in difformità di quanto dispongono nel caso inverso, dell’obbligo a carico della

moglie, che viene invece condizionato al fatto della mancanza nel consorte di mezzi sufficienti.

Per accertare se la discriminazione fra i coniugi contrasti con la Costituzione, è da ricordare che

l’assoluto divieto fatto al legislatore dall’art. 3 di disporre qualsiasi diversità di trattamento

giuridico per ragioni di sesso incontra, per quanto riguarda i rapporti familiari, un solo e tassativo

limite, quello posto dall’art. 29, secondo comma, della Costituzione a garanzia dell’unità della

famiglia: limite che dov’essere interpretato restrittivamente, rivestendo carattere di eccezione al

principio generale della piena eguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

Avendo riguardo al regime di separazione, ricorrente nella specie, non è dato riscontrare alcun

elemento che consenta di ricollegare la diversità predetta con quelle esigenze. Infatti, comunque si

debba intendere l’unità voluta tutelare dall’art. 29, si deve ritenere che essa non sia invocabile di

fronte a coniugi rispetto ai quali, per il fatto stesso della separazione, sono venuti a mancare i

presupposti dell’unità, sia che di questa si consideri l’aspetto materiale o fisico, essendo cessata la

convivenza, e con essa la collaborazione della moglie alla gestione domestica, sia quello spirituale,

essendosi resa manifesta un’incompatibilità fra i due tale da rendere non più possibile la vita in

comune.

Per la Corte non è costituzionalmente illegittimo neppure l’art. 145, primo comma, cod. civ., che,

in relazione all’ipotesi dei coniugi non separati legalmente né consensualmente, stabilisce l’obbligo

del marito di somministrare alla moglie quanto sia necessario ai bisogni di lei, senza considerazione

delle sue condizioni economiche, laddove la moglie è tenuta soltanto a contribuire al mantenimento

del marito, se questi non ha mezzi sufficienti (sentenza n.144 del 1967).

La Corte ritiene che la disposizione denunciata non contrasti con la Costituzione poiché la

diversità della distribuzione degli oneri fra i due coniugi trova fondamento nella diversa posizione

che il vigente Codice, ritenendola necessaria ad assicurare l’unità della famiglia, conferisce loro e

che si concreta nell’attribuire al marito (oltre che l’esclusività dell’esercizio della “patria potestà”

sui figli) la titolarità di una “potestà maritale”, alla quale connette una ampia serie di particolari

poteri, tali da porlo in posizione di preminenza sulla moglie. A siffatta preminenza si accompagna,

poi, anche l’affievolimento delle sue responsabilità per l’inadempimento di qualcuno degli obblighi

derivanti dallo stato matrimoniale, come nel caso considerato dall’ultimo comma dell’art. 151 del

Codice civile.

Appare chiaro che, nel sistema del Codice, i particolari doveri imposti al marito, quali sono

quello della “protezione” della moglie e l’altro, del quale si controverte, della somministrazione ad

essa di tutto quanto le è necessario per la soddisfazione di ogni suo bisogno, senza riguardo alle

sostanze di lei, sono da valutare nel rapporto in cui si trovano di necessaria correlazione con la

situazione di vantaggio a lui conferita, sicché, ferma rimanendo quest’ultima, nessuna attenuazione

potrebbe apportarsi negli obblighi, venendo altrimenti meno l’equilibrio voluto costituire nei

rapporti reciproci.

Può convenirsi con l’opinione che considera il sistema del Codice non aderente in ogni sua parte

allo spirito informatore della sopravvenuta Costituzione repubblicana, la quale ha tenuto conto della

trasformazione verificatasi nella posizione della donna nella moderna società. Sull’esigenza di una

sollecita adeguazione del sistema al nuovo ordine sociale la Corte ha ripetutamente richiamato

l’attenzione del legislatore, senza tuttavia che abbia ritenuto possibile farne decadere singole

disposizioni, per l’incertezza che ne sarebbe derivata, data l’intima connessione che le lega fra loro

e ne fa un tutto unitario.

L’art. 145, primo comma, del codice civile, è, successivamente, oggetto di una dichiarazione di

illegittimità costituzionale nella parte in cui non subordina alla condizione che la moglie non abbia

mezzi sufficienti il dovere del marito di somministrarle, in proporzione delle sue sostanze, tutto ciò

che è necessario ai bisogni della vita (sentenza n. 133 del 1970).

Premesso che la salvaguardia dell’unità familiare costituisce il solo legittimo limite

dell’eguaglianza dei coniugi, la Corte ritiene che l’unico accertamento rilevante è se le diversità di

trattamento di volta in volta considerate trovino in quella esigenza – e solo in essa – la loro

giustificazione costituzionale.

Che l’art. 145 del codice civile tratti diversamente i due coniugi è cosa di cui non si può dubitare.

Si deve, è vero, riconoscere che il dovere del marito di somministrare alla moglie “tutto ciò che è

necessario ai bisogni della vita in proporzione delle sue sostanze” corrisponde al dovere di

“contribuire al mantenimento del marito” che il capoverso dello stesso articolo pone a carico della

moglie. Lo dimostra il successivo art. 146, che all’abbandono ingiustificato del domicilio coniugale

da parte della donna collega la sospensione dell’“obbligazione del marito di provvedere al

mantenimento della moglie”: ciò significa che obbligo di somministrazione di tutto ciò che è

necessario ai bisogni della vita equivale ad obbligo di mantenimento, e se a proposito della moglie

si parla di “contributo” ciò avviene perché la rilevanza dei mezzi economici di cui il marito

disponga importa necessariamente che il mantenimento sia totale solo se questi difettino del tutto e

parziale se essi sussistano in misura non pienamente sufficiente. Ma, nonostante questa equivalenza

di contenuto, è chiaro che i due obblighi restano nettamente differenziati, perché mentre quello a

carico del marito è incondizionato, nel senso che esso è imposto quali che siano le condizioni

economiche della moglie, quest’ultima è tenuta al mantenimento del marito solo se egli non abbia

mezzi sufficienti: l’assenza di questa condizione nel primo comma dell’art. 145 del codice civile

comporta una sostanziale ed assai rilevante diseguaglianza giuridica fra i due coniugi.

La Corte ritiene che siffatta disparità di trattamento non trovi giustificazione in funzione

dell’unità familiare. Si può, anzi, affermare che, quando si tratti dei rapporti patrimoniali fra i

coniugi, è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a

metterla in pericolo. Certo è, in verità, che, per quanti sforzi si facciano, l’obbligo del marito di

mantenere la moglie se questa disponga di mezzi sufficienti o più che sufficienti in nessun modo

riesce ad apparire come strumento necessario all’unità della famiglia: la quale, al contrario, si

rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla

parità.

Ciò è sufficiente a dimostrare l’illegittimità costituzionale di una diversità di trattamento che, un

tempo coerente con una concezione dei rapporti fra marito e moglie radicalmente diversa da quella

poi assunta dal legislatore costituente a fondamento della nuova disciplina, appare ora come fonte di

un puro privilegio della moglie, non conforme all’odierna valutazione dei rapporti familiari e

contrastante con l’art. 29 della Costituzione.

2.3.2. La c.d. presunzione muciana

Con la sentenza n. 143 del 1967, la Corte accoglie la questione di legittimità costituzionale

dell’art. 622 del Codice di procedura civile, che nega alla moglie convivente col debitore il diritto di

proporre opposizione al pignoramento di mobili di proprietà di lei, pignorati nella casa coniugale,

tranne che si tratti di beni dotali o di beni che si provi con atto di data certa esserle appartenuti

prima del matrimonio o esserle pervenuti per donazione o successione a causa di morte.

La norma impugnata si rifà ad una situazione non più rispondente all’attuale posizione

economica e sociale della donna nella famiglia e fuori di essa. Questa nuova posizione è

riconosciuta nell’art. 70 della legge fallimentare, che applica la c.d. presunzione muciana alla

moglie nel fallimento del marito e al marito nel fallimento della moglie, ed è presupposta nell’art.

207 del testo unico delle leggi sulle imposte dirette, che limita la proponibilità delle istanze in

separazione, sia alla moglie nell’esecuzione esattoriale contro il marito, sia al marito

nell’esecuzione esattoriale contro la moglie. Non si spiega che, nell’esecuzione forzata ordinaria,

soltanto la moglie subisca restrizioni nella tutela del suo diritto di proprietà, quando oggi la moglie,

non di rado, ha una propria posizione professionale e quindi ha la possibilità di acquisire beni suoi

con danaro non proveniente dal marito. Non si spiega nemmeno il perché la moglie deve provare,

con atto di data certa, l’appartenenza dei beni acquistati prima del matrimonio, mentre al marito la

giurisprudenza ordinaria suole applicare l’art. 621 del Codice di procedura civile, che consente al

riguardo maggiore libertà di prova: oggi anche la donna nubile riesce ad inserirsi nella vita

produttiva, e, quando ciò accade, diviene verosimile che essa, anteriormente alle sue nozze, possa

essersi formato un suo patrimonio attivo.

La norma impugnata ferisce il principio di eguaglianza anche perché pone una diversità di tutela

in ragione di una situazione dipendente dal sesso. Non vale il richiamo all’art. 29 della Costituzione,

perché la norma impugnata non è a protezione della unità della famiglia, ma vuole evitare una frode

ai creditori, e perché l’unità familiare non esclude la protezione integrale dei diritti patrimoniali

della moglie: essa anzi risulta rafforzata da questa protezione, che contribuisce ad evitare o a ridurre

il pericolo di incoraggiare le separazioni personali, come rimedio diretto ad evitare che la moglie

veda coinvolti i suoi beni nell’esecuzione forzata contro il marito, essendo la convivenza coniugale

il presupposto dell’applicazione della norma denunciata. Quanto all’esigenza di evitare frodi, queste

non possono avverarsi in danno dei creditori del marito più di quanto non possano organizzarsi in

danno dei creditori della moglie; una diversa valutazione presupporrebbe uno stato di soggezione

della moglie al marito, non solo non più corrispondente all’elevata posizione che oggi si dà alla

moglie nella famiglia, sulla base di una mutata coscienza sociale, ma nemmeno corrispondente alle

valutazioni compiute dalla legge fallimentare e dalla legge sulla riscossione delle imposte dirette,

che parificano, come detto, la situazione dei coniugi, ovviamente perché riconoscono che il pericolo

di frode coniugale è di intensità uguale, sia che lo si guardi sotto il profilo della protezione dei

creditori del marito, sia che lo si consideri con riguardo alla tutela dei creditori della moglie. E nei

rapporti dei creditori della moglie si è ritenuto che il pericolo di frode per accordi con il marito è

sufficientemente evitato applicando la limitazione della prova testimoniale sancita nell’art. 621 per

tutti i terzi, a parte l’azione revocatoria. Non v’è dunque ragione che giustifichi la diversità di

trattamento fatto alla moglie dall’art. 622 nel raffronto col marito.

Successivamente, la Corte affronta il connesso problema della questione di legittimità

costituzionale dell’art. 70 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui non esclude

l’operatività della presunzione muciana nelle ipotesi in cui tra i coniugi sussista il regime

convenzionale della separazione dei beni (sentenza n. 286 del 1995).

Premette la Corte che già agli inizi del Novecento numerosi studiosi ritennero che detto istituto –

a prescindere dal problema del suo esatto inquadramento giuridico – non fosse più giustificato in

una società in cui cominciavano ad essere frequenti i casi di separazione di attività e di patrimoni

della moglie. Questi dubbi contribuirono ad un ridimensionamento della disciplina dell’istituto nella

legge fallimentare del 1942, che non riferì più la “muciana” alla “moglie” ma al “coniuge”,

limitando la sua operatività al quinquennio anteriore al fallimento e confermando altresì la

possibilità di superamento della presunzione mediante prova contraria.

Subito dopo la riforma del diritto di famiglia, la prevalente dottrina e la giurisprudenza di merito,

confermata più tardi da quella della Corte di cassazione, interpretarono il sistema nel senso della

inoperatività, per ius superveniens, di detta presunzione nell’ipotesi di regime di comunione legale,

dal momento che la legge attribuisce gli acquisti ad entrambi i coniugi a prescindere dalla

provenienza del denaro. Ed anche in regime di separazione di beni, la Corte di cassazione, nel 1977,

escludeva l’applicabilità della presunzione nel caso in cui il coniuge non fallito fosse anch’egli

imprenditore.

Nel caso oggetto del giudizio della Corte costituzionale, l’ordinanza di rimessione motiva il

sospetto di illegittimità costituzionale della norma denunziata per quattro ordini di argomentazioni.

Viene denunziata innanzi tutto la sopravvenuta irragionevolezza (art. 3, secondo comma, della

Costituzione) di detta norma rispetto alle linee di fondo della riforma del 1975, che “ha tradotto in

regole giuridiche i principi enucleati dalla carta costituzionale in materia di famiglia, con lo scopo

di rafforzare il vincolo coniugale e di garantirlo … anche attraverso la valorizzazione del lavoro in

modo paritario di ciascuno dei coniugi, pur se soltanto casalingo”.

Osserva in particolare la Corte rimettente che detto ius superveniens “introduce una rete di

principi – ispirati al canone sovraordinato della parità delle posizioni dei coniugi – nella quale la

norma interferente pare impigliarsi e venire comunque a collidere, per la valenza assolutamente

antinomica dei presupposti da cui muove e del risultato cui è suscettibile di approdare,

assoggettando il coniuge in bonis all’onere spesso faticoso, se non addirittura impossibile, di

provare ciò che nella logica paritaria della riforma dovrebbe essere piuttosto il dato fattuale di

normale ricorrenza: l’effettività cioè degli acquisti personali, come corollario della pari dignità, che

esclude la sudditanza anche economica del coniuge all’imprenditore”.

Queste prime considerazioni dell’ordinanza non appaiono decisive per dedurre l’illegittimità

costituzionale della norma denunziata. Indubbiamente, tra le linee fondamentali della riforma del

diritto di famiglia, va ravvisata una logica paritaria nella posizione di entrambi i coniugi, principio

estensibile agli aspetti del lavoro e delle sfere patrimoniali. Ciò in maggiore aderenza all’odierna

realtà sociale delle famiglie, ed alla moderna concezione che valorizza l’attività di ciascuno dei

coniugi, escludendo la subordinazione economica di uno all’altro.

Si fa inoltre notare che nell’attuale sistema si presumono due situazioni normalmente

verificabili: a) per un verso, quanto osserva l’ordinanza di rimessione circa la “normale ricorrenza

dell’effettività degli acquisti personali” con denaro proprio; b) per altro verso, che – in mancanza

della prova della proprietà esclusiva – anche in regime di separazione dei beni, questi si intendono

comuni (art. 219 del codice civile, come novellato dalla legge del 1975). Sicché, in forza della

disposizione dell’art. 70 della legge fallimentare, si dovrebbe invece presumere un’ipotesi

eccezionale: che cioè il bene acquistato da un coniuge sia in realtà interamente dell’altro coniuge, in

contrasto con le predette due normalità presunte dai principi della riforma.

Nonostante queste disarmonie, mentre la logica paritaria in ordine alla sfera patrimoniale dei

coniugi ha contribuito a far ritenere, nel diritto vivente e quasi pacificamente in dottrina, non più

operante il vecchio istituto della presunzione “muciana” per il sopravvenuto regime di comunione

legale dei beni, non è altrettanto prevalente l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale nel

ravvisare analoga incompatibilità per l’ipotesi di regime di separazione dei beni.

Le predette incongruenze si risolvono prevalentemente in contrasti fra la norma impugnata

(come interpretata dal giudice rimettente) ed altre norme dello stesso rango, tra cui quelle di riforma

del diritto di famiglia, le quali, pur configurandosi come corretta attuazione dei principi della

Costituzione, non partecipano tuttavia della stessa forza di questi principi. Trattandosi quindi di

aspetti irragionevoli che non attengono all’ambito costituzionale, e di incompatibilità tra norme di

natura ordinaria, la loro soluzione resta affidata all’attività ermeneutica di competenza dell’autorità

giudiziaria.

In secondo luogo, l’ordinanza rileva l’ulteriore irragionevolezza della situazione normativa con

specifico riguardo alla disciplina di singoli istituti del nuovo diritto patrimoniale della famiglia.

Nella particolare prospettiva di raffronto con la comunione legale, si osserva che nel passaggio

(previsto dall’art. 193 del codice civile) dalla comunione al regime di separazione giudiziale dei

beni in presenza di situazioni di disordine negli affari del consorte, chi voleva porre più al sicuro

quella quota di proprietà degli acquisti che la comunione – anche per inoperatività della presunzione

“muciana” – gli avrebbe comunque garantito incapperebbe proprio in questa presunzione ancora

compatibile col regime di separazione dei beni. Che se invece detta presunzione non fosse operante

nel caso previsto dall’art. 193 (separazione giudiziale dei beni), sarebbe contraddittorio applicarla

nel regime sostanzialmente identico della separazione convenzionale dei beni. Inoltre, l’effetto della

“muciana” dovrebbe assurdamente prodursi anche nel caso di separazione personale dei coniugi.

Queste deduzioni relative a particolari censure del vigente sistema potrebbero essere

controbilanciate da opposte esigenze di mantenimento della presunzione “muciana”: quali

l’apprestamento di un rimedio rapido al frequente abuso di sottrazione dei beni alla responsabilità

patrimoniale del fallito; la maggiore facilità per il coniuge nel dare la prova contraria, rispetto alle

maggiori difficoltà per i creditori, obbligati ad esperire più complesse azioni di simulazione o di

intestazione fiduciaria. In ogni caso, anche per queste doglianze, viene ripetuto che esse vanno

risolte in via interpretativa o possono dare luogo ad una serie di auspicabili rimedi legislativi, in

quanto implicano articolate risposte eccedenti i poteri della Corte.

Con il terzo ordine di rilievi, l’ordinanza di rimessione prospetta dubbi di legittimità

costituzionale della stessa disposizione per diversi profili di ingiustificata disparità di trattamento

che essa introdurrebbe (art. 3, primo comma, della Costituzione) in danno delle famiglie che

abbiano scelto il regime di separazione dei beni, sia “all’esterno, rispetto a famiglie di fatto e ad

altre forme di libera convivenza, sia all’interno stesso della famiglia legittima rispetto ai nuclei che

abbiano optato per il regime di comunione legale: tutti del pari sottratti alla sfera di operatività della

norma suddetta”. Dal raffronto tra tali situazioni emergerebbe una disparità di trattamento anche tra

creditori (nell’uno o nell’altro regime patrimoniale) e tra creditori dell’uno o dell’altro coniuge.

Si osserva in generale che la predetta presunzione non sembra più in sintonia con i principi della

riforma del 1975 (a loro volta ispirati ai principi costituzionali), considerando che è venuto meno il

fondamento socio-economico di quella disparità fra i coniugi che la giustificava nei secoli passati.

Anche il superamento del principio dell’indissolubilità giuridica del matrimonio tenderebbe ad

indebolire la logica della presunzione “muciana” riguardo all’affidamento nell’altro coniuge,

privilegiando il ricorso all’intestazione dei beni ai figli o ad altri parenti.

Quanto, in particolare, al regime di separazione dei beni, si sottolinea che i principi della predetta

riforma hanno coinvolto sotto diversi aspetti anche tale convenzione, ove si consideri ad esempio

che, pure in presenza di detta separazione, viene ora ad operare la presunzione di comunione dei

beni di cui non è provata la proprietà esclusiva. Onde non sarebbe giustificata, in ordine alla

operatività della “muciana”, una disciplina nettamente differenziata tra i coniugi in regime di

comunione e quelli con la convenzione di separazione dei beni. Senza contare, infine, che ogni

disparità nel trattamento della famiglia legittima (realizzata mediante una norma di sfavore) rispetto

alle altre convivenze, oltre a menomare la posizione del coniuge, potrebbe contribuire a sviare la

stessa scelta matrimoniale.

A quest’ultimo proposito, particolarmente delicato è il discorso che si collega alle considerazioni

contenute nell’ordinanza di rimessione, e cioè alla violazione degli artt. 3, 29 e 31 della

Costituzione che tutelano la famiglia, con l’implicito divieto di farla oggetto di misure di sfavore.

Il giudice rimettente menziona la sentenza n. 179 del 1976 con cui la Corte ha dichiarato

l’illegittimità costituzionale della disciplina fiscale sul cumulo dei redditi coniugali, in quanto

normativa “che non agevola la formazione della famiglia ed anzi dà vita per i nuclei familiari

legittimi, e nei confronti delle unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze, ad un

trattamento deteriore”.

Potrebbe ricordarsi anche l’abolizione della presunzione “muciana” in Francia e quanto ha

osservato la Corte (sentenza n. 91 del 1973) dichiarando l’illegittimità del divieto di donazioni fra

coniugi (art. 781 del codice civile) per la considerazione che tale divieto rappresentava “una palese

ineguaglianza giuridica di coloro che sono uniti in matrimonio legittimo non solo rispetto alla

generalità dei cittadini, ma anche rispetto ad altri casi di unioni e di convivenze, quali il matrimonio

putativo, il matrimonio successivamente annullato, la convivenza more uxorio, di cui all’art. 269

del codice civile, il concubinato ed altre”.

Indipendentemente dai citati precedenti e dagli orientamenti della disciplina di altri Stati europei,

mentre può riconoscersi che l’art. 31 della nostra Costituzione non si limita ad impegnare la

Repubblica ad interventi di promozione sociale a tutela della famiglia, ma implica altresì il divieto

per il legislatore di introdurre discipline sfavorevoli alla famiglia stessa, si soggiunge che da ciò non

discende tuttavia l’illegittimità costituzionale anche di quelle norme che – in un equilibrato

bilanciamento di interessi contrapposti – pongano a carico dei coniugi oneri giustificati e non

pregiudizievoli ai delicati compiti che la famiglia assolve anche nell’interesse sociale.

Non si rivela necessario analizzare il fondamento delle doglianze fatte in proposito

dall’ordinanza di rimessione, essendo sufficiente osservare che, a tutto concedere, un ipotetico loro

accoglimento comporterebbe la scelta fra diverse soluzioni nel ridisegnare il giusto bilanciamento

delle esigenze dei rapporti fra coniugi rispetto a quelle dei creditori e delle regole di mercato,

potendosi riconsiderare la permanenza della giustificazione della presunzione, o la sua disciplina in

modo articolato rispetto ai diversi regimi patrimoniali della famiglia. Ciò rende auspicabile

l’intervento legislativo, finalizzato ad un razionale riordino della materia, inteso ad armonizzare

questo delicato aspetto della legge fallimentare ai principi ispiratori della riforma del 1975,

eliminando gli inconvenienti lamentati, tenendo presenti gli altri ordinamenti europei e

considerando in ogni caso i principi costituzionali sulla libertà dei coniugi e sulle esigenze di quel

nucleo familiare che la Costituzione ha voluto chiaramente privilegiare.

2.3.3. Le convenzioni matrimoniali

Nella sentenza n. 188 del 1970, la Corte accoglie la questione di legittimità costituzionale

dell’art. 164 del codice civile, che vieta ai terzi la prova della simulazione delle convenzioni

matrimoniali, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Per il primo comma dell’art. 164, “non è ammessa alcuna prova della simulazione delle

convenzioni matrimoniali, anche se risulta da controdichiarazioni scritte”. Viene, in tal modo, posto

un divieto assoluto nei confronti dei terzi, nonostante che gli stessi abbiano potuto risentire un

danno da quelle pattuizioni, e di contro (con il secondo comma dello stesso articolo), la stessa prova

è ammessa per le parti ed entro certi limiti; inoltre, e nel contempo, viene apportata una deroga alla

regola generale, risultante dagli artt. 1414 e segg. del codice civile, secondo cui ai terzi è dato di

agire per l’accertamento della simulazione dei contratti e di giovarsi di tutti i mezzi di prova.

La disciplina, dettata dall’art. 164, messa a raffronto con quella risultante dagli artt. 1414 ss.,

integra un’importante deroga alle norme ed ai principi in materia di simulazione dei contratti in

generale.

Si ha, in particolare, una evidente disparità di trattamento nei confronti dei terzi in relazione a

situazioni sostanzialmente omogenee o facilmente assimilabili. Tali infatti sono quelle in cui si

trovano i terzi qualora siano pregiudicati nei loro interessi da contratti in genere o da convenzioni

matrimoniali in particolare, che le parti abbiano posto in essere simulatamente: in entrambi i casi il

pregiudizio deriva da atti di autonomia privata ed appare astrattamente meritevole di tutela

l’interesse all’accertamento della realtà dei rispettivi rapporti contrattuali.

Rimane, però, da accertare se la differenziazione di trattamento giuridico, ora rilevata, non si

presenti razionalmente giustificata.

Può dirsi arbitrario ed illogico che il terzo, mentre può avvalersi della simulazione di un

qualunque contratto, non lo possa invece fare quando si tratti di convenzione matrimoniale (e tanto

più in quanto gli autori della simulazione possono al contrario avvalersene).

Non ha pregio l’assunto che la norma abbia la sua ragione nello scopo di garantire la stabilità

economica della famiglia. La famiglia, tanto nella Costituzione quanto nel codice, gode di una

particolare tutela. Ma questa si giustifica se tende a garantire l’intangibilità dei beni destinati

effettivamente a sostenere gli oneri del matrimonio e non di quelli che solo fittiziamente abbiano

una tale destinazione. Ed invece la norma impugnata, privando il terzo creditore della possibilità di

provare la finzione, si traduce in una tutela di quest’ultima piuttosto che degli interessi familiari. I

quali, del resto, secondo i principi di ragione e di giustizia, non possono essere protetti fino al punto

da sacrificare quelli del terzo, in ogni altro caso tutelati.

Il primo comma dell’art. 164, in conclusione, vietando di provare l’estraneità di certi beni alla

famiglia, rivela un’eccedenza del mezzo (divieto totale di prova) rispetto al fine (tutela

dell’economia familiare), e la relativa normativa risulta quindi irrazionale.

Nella sentenza n. 111 del 1995, la Corte esamina la complessa questione riguardante il

combinato disposto degli artt. 162, ultimo comma, 2647 e 2915 del codice civile, impugnati nella

parte in cui non prevedono che, per i fondi patrimoniali costituiti sui beni immobili a mezzo di

convenzione matrimoniale, l’opponibilità ai terzi sia determinata dalla trascrizione dell’atto sui

registri immobiliari anziché dalla annotazione a margine dell’atto di matrimonio. In particolare:

a) il tribunale rimettente ravvisa un’insanabile contraddizione fra l’ultimo comma dell’art. 162

del codice civile, che rende inopponibili ai terzi le convenzioni matrimoniali non annotate a

margine dell’atto di matrimonio, e gli artt. 2647 e 2915 dello stesso codice che continuano, invece,

a richiedere la trascrizione degli atti aventi ad oggetto beni immobili e che importano vincoli di

indisponibilità degli stessi. Questo contrasto determinerebbe tali incertezze ed incoerenze da

tradursi nella irragionevolezza della legge e non in un mero difetto di coordinamento;

b) la duplicità delle forme di pubblicità per i fondi patrimoniali con immobili, anche se una di

esse resta degradata a pubblicità-notizia, sembra al giudice a quo ingiustificatamente troppo

onerosa, indebolendo in modo irrazionale la difesa dei diritti della famiglia;

c) sarebbe, invece, conforme ai principi costituzionali il sistema secondo cui la norma sulla

necessità dell’annotazione delle convenzioni matrimoniali nei registri dello stato civile facesse

eccezione per i fondi costituiti con beni immobili, riservando per essi il regime della normale

trascrizione previsto dagli artt. 2647 e 2915 del codice civile.

In ordine a tali doglianze, la Corte riconosce che la certezza del diritto costituisce senza dubbio

un valore fondamentale dell’ordinamento da realizzare nella massima misura possibile e che, in

materia di pubblicità, la certezza è ovviamente lo scopo stesso del sistema. Purtuttavia, non ogni

difetto o confusione legislativa si risolve in irrazionalità tale da determinare un vizio di

incostituzionalità, tanto più che gli eventuali difetti riscontrabili in numerose formulazioni

normative sono suscettibili di soluzioni che restano affidate agli interpreti.

Sullo specifico problema che forma oggetto del giudizio, la Corte di cassazione – nell’affermare

che la costituzione del fondo patrimoniale avente per oggetto beni immobili deve essere, non solo

annotata nei registri dello stato civile ai sensi dell’art. 162 del codice civile, ma anche trascritta ai

sensi dell’art. 2647 dello stesso codice – ha fatto notare che, essendo stato abrogato il quarto comma

della originaria formulazione dell’art. 2647 (che ricollegava alla trascrizione del patrimonio

familiare l’effetto di opponibilità ai terzi), tale forma di pubblicità è stata degradata al rango di

pubblicità-notizia, anche perché la coesistenza di due forme di pubblicità aventi la medesima

funzione sarebbe inutile e contraddittoria. La stessa sentenza ha poi qualificato come “difetto di

coordinamento” il fatto che il legislatore del 1975 si sia dimenticato di riformulare l’art. 2915,

secondo cui “non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante (ipotesi diversa da quella in

esame, in cui i creditori avevano solo ipotecato gli immobili) gli atti che importano vincoli di

indisponibilità se non sono stati trascritti”. Tale residua disposizione appare comunque spiegabile

sulla base dei normali criteri interpretativi, tra i quali quello del rapporto fra norma generale e

norma speciale.

Si osserva, inoltre, che il dover estendere le ricerche sia presso i registri immobiliari sia presso i

registri dello stato civile (questi ultimi “meno facilmente accessibili e anche meno affidabili”)

costituisce un “onere che, pur fastidioso, non può dirsi eccessivamente gravoso al punto da

offendere il principio dell’art. 24 della Costituzione”.

La stessa conclusione può valere anche riguardo all’art. 3 della Costituzione ed ancor più all’art.

29, posto che tale norma, tutelando essenzialmente gli aspetti etico-sociali della famiglia, non

appare utilmente invocata. Senza contare che, mediante i moderni strumenti di ricerca che la scienza

continuamente perfeziona, le difficoltà e gli oneri lamentati si riducono sempre di più.

In ogni caso, la complessità del sistema pubblicitario in materia di regime patrimoniale della

famiglia, e in particolare una duplice forma di pubblicità (cumulativa, ma a fini e ad effetti diversi)

per la costituzione del fondo patrimoniale, trova giustificazioni razionali per il generale rigore

necessario alle deroghe al regime legale, e per l’esigenza di contemperare due interessi

contrapposti: da una parte presidiare, fino alla maggiore età dell’ultimo figlio, questo patrimonio di

destinazione per i bisogni familiari dall’aggredibilità da parte dei creditori, e dall’altra evitare che

del predetto istituto si faccia un uso distorto al fine di sottrarre ai creditori le garanzie loro spettanti

sui beni, atteso che l’azione revocatoria non è sempre possibile o efficace.

Da quanto precede si esclude che la predetta soluzione del sistema pubblicitario indicata dalla

Corte di cassazione sia in contrasto con i principi costituzionali, e che quella proposta dal giudice

rimettente vada considerata come l’unica conforme a Costituzione; tanto più che essa si risolve in

sostanza nel ripristino del vecchio regime di pubblicità che il legislatore del 1975 – in coerenza con

le linee della riforma – ha inteso superare facendo dell’annotazione nei registri dello stato civile a

margine dell’atto di matrimonio il perno del sistema di pubblicità, fondamentale per far conoscere

ai terzi quali siano il regime e le convenzioni patrimoniali di ciascuna famiglia.

La Corte non condivide, nella sentenza n. 217 del 1998, il dubbio secondo cui l’art. 2 della

legge 10 aprile 1981, n. 142, stabilendo il mantenimento della previa autorizzazione del giudice per

il mutamento delle sole convenzioni matrimoniali stipulate prima dell’entrata in vigore della legge

stessa, crea un’irragionevole diversità di trattamento tra situazioni in tutto identiche, basata

esclusivamente sull’elemento temporale (data della stipulazione).

Al riguardo, si rileva che, nel caso specifico, non si tratta della creazione di un vero e proprio

regime transitorio – la cui caratteristica è quella di cessare ad un determinato momento – quanto

della scelta del legislatore di mantenere due regimi, tra loro differenziati, sulla base dell’elemento

discriminante costituito dal fatto che i rapporti siano stati posti in essere anteriormente o

successivamente dall’entrata in vigore della legge n. 142 del 1981. Mentre, infatti, l’obbligo della

preventiva autorizzazione del giudice è stato eliminato per l’avvenire, il medesimo è stato

mantenuto soltanto per il mutamento, successivo al matrimonio, delle convenzioni stipulate prima

dell’entrata in vigore della legge stessa.

Siffatta scelta compiuta dal legislatore va scrutinata, secondo l’unico parametro indicato

nell’ordinanza di rimessione, in base al criterio della ragionevolezza.

Ad avviso della Corte, lo sdoppiamento del regime autorizzatorio previsto dalla citata legge non

viola l’invocato parametro costituzionale. La norma impugnata non si limita a distinguere le due

situazioni sulla base del semplice elemento diversificatore costituito dal fluire del tempo, ma,

seguendo il normale criterio secondo cui le modificazioni legislative non intervengono che per

l’avvenire, si fa carico di recepire gradualmente le innovazioni che la coscienza collettiva è andata

maturando nel corso degli anni. Invero, la necessità dell’autorizzazione del giudice per la modifica

delle convenzioni matrimoniali trovava il proprio fondamento, culturale e sociale prima ancora che

giuridico, in un determinato assetto che la famiglia italiana ha mantenuto fino ad un certo momento

storico. In questo contesto il provvedimento del giudice costituiva una garanzia sia per la base

economica della famiglia, sia per la tutela del coniuge più debole.

La permanenza dell’autorizzazione per il mutamento delle convenzioni anteriormente stipulate,

quindi, si giustifica anche per il principio dell’affidamento riposto dalle parti nella tendenziale

immutabilità del regime convenzionale adottato, risolvendosi così in un bilanciato e corretto punto

di equilibrio nel passaggio dal vecchio al nuovo regime, rispettoso dei diritti acquisiti e della

graduale evoluzione della coscienza sociale in materia.

2.3.4. Il divieto di donazione tra coniugi

Sempre nella direzione dell’affermazione dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la

Corte caduca, con la sentenza n. 91 del 1973, l’ormai anacronistico divieto di donazione tra

coniugi, rilevando che “evidente appare il contrasto della disposizione dell’art. 781 del codice civile

con l’art. 3 della Costituzione. La norma denunziata viola infatti il principio di uguaglianza fra

cittadini, in quanto stabilisce che la condizione di coniugato con una data persona costituisce un

elemento discriminante rispetto alla capacità del non coniugato o del coniugato con altra persona di

donare e correlativamente di ricevere per donazione. La disposizione, che limita la capacità

contrattuale dei cittadini coniugati nei loro reciproci confronti, riducendo la libertà della loro

iniziativa economica garantita dall’art. 41 della Costituzione, non trova alcuna ragionevole

giustificazione in motivi che attengano all’utilità sociale o alla sicurezza, alla libertà e alla dignità

umana o che comunque possano identificarsi con i principi e i valori tutelati dalla Costituzione o

che questa si propone di attuare.

Non solo riguardo al contenuto della norma manca ogni corrispondenza del fine legislativo con i

diritti della persona tutelati dalla Costituzione e con i principi dichiarati nell’art. 3, ma non si

rinviene lo scopo oggettivo del divieto né si ravvisa quali interessi esso protegga. È chiaro, al

contrario, che il divieto costituisce una palese ineguaglianza giuridica di coloro che sono uniti in

matrimonio legittimo, non solo rispetto alla generalità dei cittadini, riducendo la loro iniziativa

economica, ma anche rispetto ad altri casi di unioni e di convivenze, quali il matrimonio putativo, il

matrimonio successivamente annullato, la convivenza more uxorio di cui all’art. 269 del codice

civile, il concubinato ed altre. Ineguaglianza tanto più ingiustificata in quanto gli stessi pericoli, che

si afferma di voler impedire mediante il divieto di donare imposto ai coniugi legittimi, possono

incombere con assai maggiore frequenza e con conseguenze assai più gravi sulle persone che si

trovano nei casi sopra menzionati e per le quali il divieto non è comminato.

L’irragionevolezza della limitazione ex art. 781 a carico dei coniugi legittimi si appalesa

evidente anche nel fatto che il divieto non si applica ai fidanzati, con l’assurda conseguenza che le

medesime persone possono farsi fra loro donazioni sino al momento in cui contraggono matrimonio

legittimo.

Pertanto, necessariamente, a base del divieto di cui all’articolo 781 del codice civile vi è la

presunzione assoluta che il matrimonio legittimo crei fra i coniugi uno stato reciproco di

ineguaglianza e di inferiorità per cui l’uno possa sempre essere circuito o costretto dall’altro a

spogliarsi a favore di questo dei suoi beni, presunzione questa incompatibile con il disposto dell’art.

29, capoverso, della Costituzione che ordina il matrimonio sull’uguaglianza morale e giuridica dei

coniugi e con la stessa concezione giuridica del matrimonio.

Tale presunzione è, del resto, contrastante con la stessa realtà giuridica, in quanto la persona

unita ad altra da vincolo coniugale legittimo è meno esposta a soggiacere a seduzioni e pressioni

affettive da parte dell’altro coniuge dirette ad ottenere liberalità, le quali non possono in alcun modo

incidere sulla condizione di coniuge legittimo, che non invece la persona non unita ad altra con

siffatto vincolo, la quale più facilmente può essere indotta a cedere a ricatti affettivi e a compiere

liberalità sotto la minaccia di non effettuare un matrimonio o di far cessare un’unione illegittima.

Pertanto, l’incostituzionalità della norma denunziata risulta non solo estrinsecamente in quanto,

limitando l’attività negoziale dei coniugati legittimi, li pone, rispetto alla capacità di effettuare e di

ricevere donazioni, in una condizione differenziata in confronto a quella degli altri cittadini, senza

che la norma medesima risulti perseguire alcuna finalità apprezzabile, ma anche intrinsecamente, in

quanto il principio costituzionale di uguaglianza appare violato, mancando ogni ragionevole motivo

per fare ai cittadini coniugati con il donante un trattamento diverso da quello dei cittadini non

coniugati o non coniugati con il donante, creando situazioni di svantaggio in difetto di una fondata o

almeno plausibile giustificazione del precetto o desumibile da effettive esigenze oggettive.

2.3.5. Il regime di separazione dei beni

Sul piano dei rapporti economici fra coniugi, la legge di riforma del 1975 ha introdotto, come

regime patrimoniale ordinario, la comunione degli utili e degli acquisti verificatisi durante il

matrimonio, regime che la Corte ha auspicato espressamente (nella sentenza n. 187 del 1974),

specie a tutela della rivalutazione del lavoro domestico della donna, totalmente trascurato nella

precedente disciplina.

Al riguardo, la Corte ha ritenuto che il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi,

sancito dall’art. 29 della Costituzione, esige certamente che ad esso si adegui ed informi anche il

regime positivo dei rapporti patrimoniali; ed è incontestabile che la previgente disciplina legislativa

di questi rapporti poteva dar luogo a situazioni di inadeguata tutela giuridica, tra le quali appariva

particolarmente grave e meritevole di protezione, specie nel caso di separazione personale, quella

della donna priva di un proprio lavoro professionale autonomo, che avesse dedicato la sua attività

all’adempimento dei doveri di moglie e di madre, occupandosi assiduamente delle cure e faccende

domestiche. In regime di separazione dei beni, il contributo recato dall’operosità e dall’abnegazione

della casalinga all’economia familiare e al risparmio dell’azienda domestica, molto spesso

ragguardevole anche se difficilmente valutabile in denaro, rimaneva privo di efficace tutela, specie

quando il marito avesse investito i risparmi, frutto delle comuni fatiche e rinunzie, nell’acquisto a

nome proprio di beni immobili o mobili.

Se, sotto questo profilo, si doveva riconoscere che il previgente ordinamento italiano presentava

una vera lacuna, occorreva tuttavia dichiarare, con eguale chiarezza, che il potere di colmare tale

lacuna competeva esclusivamente al legislatore.

La riforma del regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi si è inserita in una più ampia,

organica riforma dell’intero ordinamento del matrimonio e del diritto di famiglia, con riflessi sul

sistema delle successioni, legittime e testamentarie. Solo in tale sede il legislatore ha potuto

procedere ad una piena attuazione del principio costituzionale della parità giuridica dei coniugi

anche sotto il profilo dei rapporti patrimoniali.

2.3.6. Il trattamento fiscale dei redditi dei coniugi

Con la sentenza n. 179 del 1976, la Corte dichiara l’incostituzionalità delle norme secondo cui,

al fine dell’individuazione dei soggetti passivi dell’imposta complementare progressiva sul reddito

complessivo, “i redditi della moglie si cumulano con quelli del marito” (art. 131, comma secondo) e

per cui sul reddito complessivo così formato l’imposta è applicata con aliquota progressiva (art.

139).

Con la prima parte del secondo comma dell’art. 131, in relazione alle altre norme dello stesso

articolo, sono evidenziati due profili o momenti: l’imputazione al marito dei redditi della moglie

che non sia legalmente ed effettivamente separata e cioè il riferimento ex lege del reddito di un dato

soggetto pienamente capace ad un soggetto diverso, ed il concorso dei redditi della moglie

trovantesi in quella situazione, alla formazione del reddito complessivo del marito. E si ha così che

il marito è soggetto passivo dell’imposta (anche) per i redditi della moglie che non sia legalmente

ed effettivamente separata, e che il debito di imposta è determinato in rapporto al reddito

complessivo del marito, ancorché a costituirlo abbiano concorso i redditi della moglie.

Due persone fisiche, che nelle norme in esame sono rispettivamente il marito e la moglie (non

separati), risultano in tal modo assoggettate ad un trattamento differenziato o particolare per cui: in

costanza di rapporto coniugale, il marito e non anche la moglie, è soggetto passivo dell’imposta; il

marito e non anche la moglie è debitore dell’imposta con riguardo a redditi di cui non ha il

possesso, ed il marito, stante la progressività del tributo, ha un debito di imposta superiore a quello

che avrebbe avuto se l’imposta fosse stata commisurata solo alla somma dei redditi propri e di

quelli altrui di cui abbia la libera disponibilità o l’amministrazione senza obbligo della resa dei

conti.

Le norme di cui alla denuncia violano il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla

legge e non sono ordinate sulla eguaglianza giuridica dei coniugi. A fronte di situazioni eguali si

hanno trattamenti differenti: da un canto, per il possesso di redditi vi è chi è considerato soggetto di

imposta e chi non lo è, e dall’altro, nonostante la mancanza del possesso di redditi, vi è chi (anche)

per questi è considerato soggetto di imposta e chi non lo è. Ed in entrambi i casi il trattamento

differenziato o diverso non ha alcuna razionale giustificazione né appare finalizzato a garantire o

tutelare l’unità familiare.

Con l’imposta complementare si tende a colpire il reddito non in sé, all’atto e per il fatto del suo

prodursi, bensì in quanto riveli una data capacità contributiva, e cioè una attitudine concreta a

concorrere alle spese pubbliche.

Può perciò apparire logico che sia tenuta presente la situazione in concreto del singolo soggetto,

ed, in rapporto a ciò, ragionevole che ai fini della determinazione del suo reddito complessivo netto

concorrano il criterio analitico e quello sintetico.

Ma non si spiega come e perché un soggetto (il marito) possa e debba presentare una maggiore

capacità contributiva per l’esistenza di redditi altrui di cui non abbia legalmente il possesso, e cioè il

godimento o l’amministrazione senza obbligo della resa dei conti.

D’altra parte, manca la possibilità che alla normativa de qua si riconosca la funzione di limite

(alla eguaglianza giuridica dei coniugi) posto “a garanzia dell’unità familiare”, giacché a costituire e

mantenere questa potrebbe giovare un regime di comunione dei beni e dei redditi relativi, ma non di

certo un sistema tributario basato sopra un fittizio possesso di redditi comuni.

E con ciò appare evidente anche il contrasto con l’art. 31 della Costituzione. La normativa in

esame non “agevola con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e

l’adempimento dei compiti relativi” ed anzi dà vita per i nuclei familiari legittimi e nei confronti

delle unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze familiari, ad un trattamento

deteriore.

2.3.7. La successione del binubo

La Corte ha avuto modo di pronunciarsi più volte sulla condizione giuridica del binubo. Ciò è

avvenuto, in special modo, con riferimento al diritto successorio.

Nel caso deciso con la sentenza n. 189 del 1970, viene avanzato il dubbio che gli articoli 595 e

599 del codice civile, assoggettando “ad un trattamento diverso il coniuge del testatore a seconda

che quest’ultimo avesse o meno contratto un precedente matrimonio, abbiano creato una situazione

di inferiorità per il coniuge del binubo, in relazione al coniuge del non binubo.

Sennonché, ad avviso della Corte, tale differenza di trattamento non appare irrazionale solo che

si tengano presenti le ragioni che hanno determinato la disciplina legislativa, relativamente alla

quale è stata sollevata la questione, e gli interessi oggetto della tutela.

Con i citati artt. 595 e 599, nell’ipotesi di sopravvivenza di figli di precedenti matrimoni e del

coniuge, e qualora il de cuius, con donazioni o disposizioni testamentarie, direttamente o a mezzo di

persone interposte, abbia voluto assicurare sulla disponibile al coniuge una posizione migliore di

quella conseguibile dal meno favorito di detti figli, il legislatore dispone che questi possono

ottenere la riduzione delle liberalità, inter vivos o mortis causa, fino a realizzare in concreto la

parità di trattamento tra il meno favorito di essi figli ed il coniuge.

Ora, tale disciplina legislativa è dettata per evitare che il coniuge del binubo in fatto possa

influire su questo a danno di figli di precedenti matrimoni e per salvaguardare costoro sul terreno

patrimoniale. Tutto ciò basta ad escludere l’irrazionalità della norma, ispirata per il resto a

valutazioni del legislatore non sindacabili in questa sede.

Del pari non ricorre il denunciato contrasto con l’art. 29 della Costituzione.

Secondo l’ordinanza di rimessione il disfavore nei confronti del coniuge del binubo porterebbe

ad un trattamento differenziato, per cui in relazione alla parte disponibile del patrimonio del de

cuius si avrebbero l’incapacità (ex artt. 595 e 599) a succedere per testamento del coniuge del

binubo e la piena capacità, invece, del coniuge del non binubo e addirittura delle persone estranee

alla famiglia; e tale trattamento differenziato mal si concilierebbe “con il principio costituzionale

della dignità dell’unione matrimoniale, senza distinzione tra le prime nozze e le ulteriori”.

La Corte, invece, avverte che nelle due ipotesi lo status di coniuge (marito o moglie)

sostanzialmente è caratterizzato dalle stesse situazioni giuridiche soggettive, per cui nel caso di

seconde o ulteriori nozze non si può parlare, almeno a proposito della normativa in esame, di

degradazione, neppure patrimoniale, di dette nozze rispetto alle prime.

La differenza di trattamento rilevata nei confronti del coniuge del binubo sussiste infatti solo sul

terreno successorio ed in una particolare ipotesi, ed entro quell’ambito non è irrazionale. D’altra

parte, data la sua limitata importanza ed incidenza, non basta a qualificare in modo speciale il

matrimonio ed i rapporti che ne conseguono e comunque non è tale da integrare un’entità in

contrasto con il principio di parità morale e giuridica dei coniugi.

Successivamente, la Corte ha ritenuto che la decisione n. 189 del 1970 si basasse essenzialmente

sull’assunto, tratto dalla relazione al codice che la disciplina impugnata fosse dettata per evitare che

“il coniuge del binubo in fatto possa influire su questo a danno di figli di precedenti matrimoni e per

salvaguardare costoro sul terreno patrimoniale”.

In base all’indirizzo giurisprudenziale iniziato con la sentenza n. 205 del 1970 e manifestatosi

particolarmente con la sentenza n. 91 del 1973, la Corte ritiene di dover approfondire l’intrinseca

ed estrinseca validità delle relative disposizioni rispetto ai principi consacrati negli artt. 3 e 29 della

Costituzione; ciò che porta la Corte, nella sentenza n. 153 del 1979, ad eliminare una indebita

restrizione della capacità di ricevere per testamento dei coniugi dei binubi, in quanto gli artt. 595 e

599 del cod.civ., assoggettando ad un diverso trattamento il coniuge del testatore a seconda che

questo abbia o meno contratto un secondo matrimonio, e prevedendo limitazioni alla capacità

successoria del coniuge del binubo, si rivelano incompatibili con il principio costituzionale della

dignità dell’unione matrimoniale di cui all’art. 29, indipendentemente dalla circostanza che tale

unione si sia realizzata in prime o ulteriori nozze.

La norma dell’art. 595, limitando la capacità dei binubi e dei loro coniugi in confronto a quella

degli altri coniugati, operava una distinzione giuridica fra il precedente matrimonio legittimo ed i

successivi, ponendo i coniugi di successivi matrimoni in uno stato di inferiorità giuridica in

confronto dei coniugi precedenti. Questa distinzione non si conciliava con l’art. 29 della

Costituzione, il quale non differenzia fra loro i matrimoni legittimi, ma vuole questi ordinati sulla

uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e tanto meno consente di disciplinare in modo diverso il

primo matrimonio da quelli successivi.

A base del divieto di cui all’art. 595, così come a base di quello dell’art. 781 dichiarato

costituzionalmente illegittimo, vi era la presunzione, denunziata dalla Corte nella sua citata sentenza

n. 91 del 1973, che il matrimonio legittimo creasse fra i coniugi uno stato reciproco di

ineguaglianza e di inferiorità, non riscontrabile nelle altre forme di unioni coniugali non legittime,

per cui ciascun coniuge potesse essere sempre circuito o costretto dall’altro a spogliarsi a favore di

questo dei suoi beni, presunzione questa incompatibile con l’uguaglianza civile e morale dei

coniugi. Come nella citata sentenza n. 91, riguardo alla statuizione di incostituzionalità dell’art. 781,

la Corte, anche rispetto all’art. 595, osserva che questa presunzione contrasta con la stessa realtà

giuridica in quanto la persona unita all’altra da vincolo coniugale legittimo è meno esposta a

soggiacere a seduzioni e pressioni affettive da parte dell’altro coniuge dirette ad ottenere liberalità,

che non invece la persona non unita ad altra con siffatto vincolo, la quale più facilmente può essere

indotta a cedere a ricatti affettivi e a compiere liberalità sotto la minaccia di non legittimare l’unione

illegittima o di farla cessare.

L’esame della legislazione italiana dopo la seconda guerra mondiale mostra, attraverso una serie

di abrogazioni di norme limitatrici della capacità giuridica dei binubi, il progressivo abbandono da

parte del legislatore del disfavore verso le seconde nozze. L’abrogazione effettuata dal legislatore

con la legge 19 maggio 1975, n. 151, dell’art. 595 del codice civile ha operato in questa direzione

adeguando il diritto di famiglia e di successione ai principi espressi nella Costituzione e giova anche

essa a rivelare uno stato di illegittimità costituzionale esistente prima della riforma del 1975.

2.4. Lo status civitatis dei coniugi

2.4.1. La perdita della cittadinanza per matrimonio

Un chiaro anacronismo concernente l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi viene, con la

sentenza n. 87 del 1975, rinvenuto nell’art. 10, comma terzo, della legge 13 giugno 1912, n. 555,

nella parte in cui dispone che una cittadina italiana che si marita ad uno straniero perde la

cittadinanza italiana, sempreché il marito possieda una cittadinanza che per il fatto del matrimonio a

lei si comunichi.

La norma impugnata stabilisce infatti che, rispetto all’ordinamento italiano, la perdita della

cittadinanza italiana avvenga automaticamente per il fatto stesso del matrimonio,

indipendentemente dalla volontà della donna ed anche se questa manifesti una volontà contraria,

sottoponendo la perdita ad una condizione dipendente dall’ordinamento del marito e pertanto

estraneo a quello italiano, cioè che nell’ordinamento straniero vi sia una norma che attribuisca alla

donna italiana la cittadinanza dell’uomo per effetto del matrimonio.

Per la Corte, l’art. 10 si ispira ad una concezione che non risponde (ed anzi contrasta) ai principi

della Costituzione, che attribuisce pari dignità sociale ed uguaglianza avanti alla legge a tutti i

cittadini senza distinzione di sesso e ordina il matrimonio sull’uguaglianza morale e giuridica dei

coniugi.

È indubbio che la norma impugnata, stabilendo nei riguardi esclusivamente della donna la

perdita della cittadinanza italiana, crea una ingiustificata e non razionale disparità di trattamento fra

i due coniugi.

La differenza di trattamento dell’uomo e della donna e la condizione di minorazione ed

inferiorità in cui quest’ultima è posta dalla norma impugnata si evidenzia ancora maggiormente per

il fatto che la perdita della cittadinanza, stato giuridico costituzionalmente protetto e che importa

una serie di diritti nel campo privatistico e pubblicistico e inoltre, in particolare, diritti politici, ha

luogo senza che sia in alcun modo richiesta la volontà dell’interessata e anche contro la volontà di

questa.

La norma impugnata pone in essere anche una non giustificata disparità di trattamento fra le

stesse donne italiane che compiono il medesimo atto del matrimonio con uno straniero, facendo

dipendere nei riguardi di esse la perdita automatica o la conservazione della cittadinanza italiana

dall’esistenza o meno di una norma straniera, cioè di una circostanza estranea alla loro volontà.

La norma viola palesemente anche l’art. 29 della Costituzione in quanto commina una

gravissima disuguaglianza morale, giuridica e politica dei coniugi e pone la donna in uno stato di

evidente inferiorità, privandola automaticamente, per il solo fatto del matrimonio, dei diritti del

cittadino italiano. Come rileva il giudice a quo, la norma non giova, rispetto all’ordinamento

italiano, all’unità familiare voluta dall’art. 29 della Costituzione, ma anzi è ad essa contraria, in

quanto potrebbe indurre la donna, per non perdere un impiego per cui sia richiesta la cittadinanza

italiana o per non privarsi della protezione giuridica riservata ai cittadini italiani o del diritto ad

accedere a cariche ed uffici pubblici, a non compiere l’atto giuridico del matrimonio o a sciogliere

questo una volta compiuto.

Pertanto, è in contrasto con la Costituzione non dare rilievo alla volontà della donna di

conservare l’originaria cittadinanza italiana, salva la discrezionalità del legislatore di disciplinare le

relative modalità.

2.4.2. La comunicazione della cittadinanza al figlio

Una disparità di trattamento tra coniugi viene rinvenuta, ad opera della sentenza n. 30 del 1983,

nell’art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912 “nella parte in cui non prevede che il figlio di cittadina

italiana, che abbia conservato la cittadinanza anche dopo il matrimonio con lo straniero, abbia la

cittadinanza italiana”. In realtà tale norma differenzia la situazione del marito straniero da quello

della moglie italiana quanto all’acquisto della cittadinanza italiana da parte dei discendenti diretti

del cittadino. Questa discriminazione tra coniugi in ordine alla determinazione dello status civitatis

dei figli legittimi comporta inoltre conseguenze molteplici e di non secondario rilievo, quando si

consideri che alla cittadinanza si riconnettono situazioni soggettive di segno diverso e di disparato

contenuto, ma tutte raggruppabili in una condizione complessivamente positiva nell’ambito

dell’ordinamento italiano.

La disposizione è in chiaro contrasto con l’art. 3, 1 comma, (eguaglianza davanti alla legge senza

distinzione di sesso) e con l’art. 29, 2 comma, (eguaglianza morale e giuridica dei coniugi).

Né giustifica la differenziata disciplina in tema di acquisto della cittadinanza per nascita il

richiamo ad un limite all’eguaglianza tra i coniugi, stabilito dalla legge a garanzia della unità

familiare. Tra l’altro non si vede come la diversità di cittadinanza tra i coniugi sia stata ritenuta

compatibile con l’unità familiare, mentre non potrebbe esserlo l’attribuzione congiunta al figlio

minore della cittadinanza paterna e di quella materna.

Nemmeno varrebbe, poi, a giustificare il mancato ossequio ai principi degli artt. 3, primo

comma, e 29, secondo comma, l’esigenza di evitare i fenomeni di doppia cittadinanza, per gli

impegni assunti anche in sede internazionale (Convenzione di Strasburgo del 1963, la cui ratifica fu

autorizzata con L. 4 ottobre 1966, n. 876). Deve infatti riconoscersi come prevalente, rispetto ad

inconvenienti pur seri, la necessità di realizzare il principio costituzionale di eguaglianza anche a

proposito di acquisto dello status civitatis per nascita. Né fanno difetto al legislatore i mezzi per

ridurre in limiti tollerabili le difficoltà nascenti dalla pluralità di cittadinanze in capo al figlio.

Del resto, anche la sentenza n. 87 del 1975 e l’art. 143 ter del codice civile danno luogo a casi di

doppia cittadinanza senza che ciò sia valso a porre in dubbio il fondamento costituzionale delle

soluzioni adottate. In questo senso, la pronuncia in esame costituisce la logica proiezione, in tema di

acquisto della cittadinanza per nascita, della ratio decidendi accolta nella sentenza n. 87 del 1975.

Tale ratio, più che porre in rilievo la volontà del soggetto, consiste proprio nel riconoscimento delle

conseguenze che derivano dai principi affermati nell’art. 3, primo comma, e nell’art. 29, secondo

comma, della Costituzione. Invero, anche nella fattispecie ora esaminata, ciò che si valorizza è

l’esigenza di una assimilazione giuridica nella comunità statale di coloro che vengono considerati,

effettivamente o potenzialmente, integrati nella realtà socio-politica che l’ordinamento deve

regolare. Tale rilievo, accolto dalla dottrina italiana che più si è occupata delle tendenze evolutive

del diritto della cittadinanza in ambito europeo, corrisponde anche alla evoluzione del nostro diritto

quale emerge dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975 e dalla giurisprudenza

costituzionale.

Certo non si può parlare, in senso tecnicamente proprio, di un diritto dei genitori di “trasmettere

ai figli” i rispettivi status civitatis: è sempre l’ordinamento statale a prevedere le fattispecie nelle

quali si realizza l’acquisto della cittadinanza jure sanguinis, acquisto che, dal punto di vista

giuridico, esclude ogni trasferimento o trasmissione. Ciò non toglie che la disciplina attuale, con il

prevedere l’acquisto originario soltanto della cittadinanza del padre, lede da più punti di vista la

posizione giuridica della madre nei suoi rapporti con lo Stato e con la famiglia. In particolare, non

può contestarsi l’interesse, giuridicamente rilevante, di entrambi i genitori a che i loro figli siano

cittadini e cioè membri di quella stessa comunità statale di cui essi fanno parte e che possano godere

della tutela collegata a tale appartenenza. Del pari, la disciplina vigente lede la posizione della

madre nella famiglia, se si considera la parità nei doveri e nella responsabilità verso i figli ormai

affermata negli ordinamenti giuridici del nostro tempo.

In definitiva, l’art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912 rappresenta una tipica espressione della

diversità di posizione giuridica e morale dei coniugi, ritenuta necessaria dal legislatore di quel

tempo per realizzare l’unità familiare, mediante l’assoggettamento della moglie e dei figli alla

condizione, rispettivamente, del marito e del padre. Né va dimenticato che la disciplina impugnata

contrasta con il principio di eguaglianza, giacché tratta in modo diverso i figli legittimi di padre

italiano e di madre straniera rispetto ai figli legittimi di padre straniero e madre italiana.

2.4.3. Il diritto applicabile in caso di diversa nazionalità dei coniugi

Nella sentenza n. 71 del 1987, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 delle

diposizioni preliminari al codice civile, nella parte in cui (in ipotesi di divorzio o separazione

personale tra coniugi), per il caso di mancanza di legge nazionale comune ai coniugi, stabilisce che

si applica la legge nazionale del marito al tempo del matrimonio.

La norma impugnata si inspira al principio di nazionalità, ma, al fine di superare le difficoltà

nascenti dall’applicazione cumulativa di normative “nazionali” diverse, lo integra con il criterio

della prevalenza della legge nazionale del marito al tempo della celebrazione del matrimonio.

Proprio tale criterio è specificamente impugnato in quanto ritenuto contrario ai principî, accolti

nella nostra Costituzione (così come nella maggior parte degli ordinamenti costituzionali stranieri)

del divieto di ogni discriminazione fra i sessi e dell’eguaglianza morale e giuridica fra i coniugi, dei

quali il secondo è specificazione del primo.

È noto come il nostro ordinamento si sia andato adeguando agli indicati imperativi costituzionali,

e che tale adeguamento è dovuto anche a pronunce della Corte. Per quanto concerne, in particolare,

il secondo dei due principi, l’esempio più evidente è costituito dalla riforma del diritto di famiglia,

con la quale è stata abbandonata la tradizionale concezione della preminenza del marito

nell’organizzazione della famiglia.

La Corte si chiede se analoghi risultati di adeguamento a Costituzione debbano ritenersi imposti

per le norme risolutive dei conflitti (norme di diritto internazionale privato).

Ciò fu dapprima negato in dottrina, con riferimento agli articoli 3 e 29 Cost.

In relazione a un dibattito sviluppatosi anche fuori del nostro Paese, sull’asserito presupposto del

carattere “neutro” o “neutrale” delle norme di collisione, fu sostenuto che esse, non disciplinando

direttamente il rapporto controverso, non siano idonee a incidere gli interessi in questo coinvolti e

quindi neppure la sfera di operatività della Costituzione nella relativa materia.

La giustificazione più profonda dell’orientamento negativo continuò a ritrovarsi nell’esigenza di

contemperare il principio di nazionalità con quello dell’unicità della normativa applicabile. È

tuttavia un dato comparatistico di qualche rilevanza che in alcuni Paesi europei sensibili ad

entrambi si preferì ricorrere a criteri diversi, quali quelli del domicilio o della residenza degli sposi,

se comune in un dato momento, mentre, in altri Paesi, all’introduzione, peraltro più recente, del

principio costituzionale della eguaglianza morale e giuridica fra i coniugi, seguì comunque, nel

breve periodo, l’eliminazione legislativa di norme di collisione, che (in materia di divorzio) si

inspiravano alla prevalenza della legge nazionale del marito.

Ma la riluttanza ad ammettere la sindacabilità costituzionale delle norme di diritto internazionale

privato e la configurabilità di un contrasto costituzionalmente rilevante fra una norma di rinvio

inspirata alla prevalenza della legge nazionale del marito e i principi costituzionali di eguaglianza

fra uomo e donna e fra coniugi è ormai largamente superata dalla dottrina, da ultimo anche in

considerazione di recenti giurisprudenze costituzionali di altri Paesi europei.

Tutto ciò posto, la questione viene dichiarata fondata. Intanto, non può non avere particolare

peso l’orientamento più recente della nostra legislazione e della Corte nel senso dell’adeguamento

agli imperativi costituzionali suindicati, sia della materia del diritto familiare, sia di altre materie

che avevano recepito i principi della prima.

Non può, comunque, essere condivisa la tesi che, argomentando dalla supposta “neutralità” delle

norme di diritto internazionale privato, perviene a negare la stessa configurabilità di un contrasto di

esse con gli imperativi costituzionali in argomento (e, in definitiva, con qualsiasi altro).

Nella formulazione dei criteri per l’individuazione della norma (interna o straniera) applicabile –

formulazione che è l’oggetto suo proprio – la norma di collisione, anche se prescinde dal modo in

cui gli interessi tipici coinvolti nel rapporto sono concretamente regolati dalla norma stessa,

nondimeno può inspirarsi a principi (o valori) sottesi alla disciplina civilistica interna dell’istituto

ovvero ad altri principî (o valori). Orbene, in entrambi tali casi, la norma di collisione adotta una

scelta di ordine normativo, che non può non confrontarsi con le scelte di fondo a livello

costituzionale rispetto alle quali assuma rilievo il principio (o valore) cui essa si inspira.

Ne discende che la scelta adottata dalla norma impugnata è senza alcun dubbio inspirata al

principio che si concreta nel riconoscimento al marito di una posizione preminente nella famiglia. E

non può negarsi che il detto principio si pone in contrasto con le scelte di fondo operate dall’art. 3,

comma primo, e dall’art. 29, comma secondo, della Costituzione.

Sempre con riferimento all’individuazione della legge applicabile tra coniugi di diversa

nazionalità, la Corte, con la sentenza n. 254 del 2006, censura la preferenza accordata, nei rapporti

patrimoniali, alla legge nazionale del marito, così dichiarando la illegittimità costituzionale dell’art.

19, comma primo, delle disposizioni preliminari al codice civile, nella parte in cui prevede che «i

rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge nazionale del marito al tempo della

celebrazione del matrimonio».

Al riguardo, la Corte ricorda che, con la sentenza n. 477 del 1987, nel ribadire le motivazioni

utilizzate nella sentenza n. 71 del 1987, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 20, comma primo,

delle disposizioni preliminari al codice civile, per violazione degli articoli 3, primo comma, e 29,

secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui, nell’individuare la legge regolatrice dei

rapporti tra genitori e figli, privilegiava la legge nazionale del padre.

Ad eguali conclusioni – sia in punto di ammissibilità del sindacato concernente le norme di

diritto internazionale privato, sia in punto di fondatezza della questione – si perviene ora in ordine

all’art. 19, comma primo, delle preleggi. Anche tale norma di “collisione”, infatti, componendo un

conflitto tra le leggi nazionali diverse dei coniugi, privilegiando, nell’individuazione della norma

regolatrice dei rapporti patrimoniali tra questi, la legge nazionale del marito, realizza una

discriminazione nei confronti della moglie per ragioni legate esclusivamente alla diversità di sesso,

in violazione sia dell’art. 3, comma primo, della Costituzione, sia dell’art. 29, comma secondo,

della Costituzione.

2.5. L’unità familiare ed il buon andamento della pubblica amministrazione

2.5.1. Il trasferimento finalizzato al ricongiungimento con il coniuge

Il bilanciamento tra la tutela dell’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione e

l’esigenza di garantire l’unità familiare è al centro della sentenza n. 183 del 2008, che ha dichiarato

non fondato il dubbio di costituzionalità sollevato nei confronti della norma – recata dall’art. 17

della legge 28 luglio 1999, n. 266 – che contempla il diritto, senza limiti, del coniuge convivente del

personale delle forze armate e di polizia, trasferito d’autorità da una ad altra sede di servizio, che sia

impiegato in una amministrazione pubblica, ad essere impiegato, per comando o distacco, presso

altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina.

Osserva la Corte che finalità dell’istituto del ricongiungimento è tener conto nel contempo del buon

andamento dell’amministrazione militare, che richiede un regime di più accentuata mobilità, e

dell’esigenza di tutela dell’unità familiare, che, in mancanza di tale istituto, per il militare e la sua

famiglia risulterebbe compromessa: «il ricongiungimento è, dunque, diretto a rendere effettivo il

diritto all’unità della famiglia, che […] costituisce espressione di un diritto fondamentale della

persona umana»; detto valore può giustificare «una parziale compressione delle esigenze di alcune

amministrazioni (nella specie, quelle di volta in volta tenute a concedere il comando o distacco di

propri dipendenti per consentirne il ricongiungimento con il coniuge), purché nell’ambito di un

ragionevole bilanciamento dei diversi valori contrapposti, operato dal legislatore». Inoltre, la

legittimità della norma rispetto al parametro di cui all’art. 97 Cost. deve essere valutata tenendo

conto dei suoi effetti sul buon andamento della pubblica amministrazione nel suo complesso:

perciò, se è vero che l’istituto del ricongiungimento sottrae un dipendente all’amministrazione di

appartenenza, è anche vero che esso attenua i disagi causati dalla mobilità del dipendente di un’altra

amministrazione.

2.5.2. Il collocamento in aspettativa per ricongiungimento con il coniuge

La discrezionalità del legislatore nel bilanciamento fra le esigenze organizzative della pubblica

amministrazione e la tutela dell’unità familiare è alla base del rigetto, con la sentenza n. 113 del

1998, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 26,

nella parte in cui non contempla – tra i titolari del diritto al collocamento in aspettativa per

ricongiungimento con il coniuge dipendente statale in servizio all’estero – anche i dipendenti degli

enti locali.

Dai lavori preparatori risulta, da un lato, che la legge n. 26 del 1980 trae origine da esigenze

manifestatesi in talune amministrazioni dello Stato, “con il notevole incremento di donne che hanno

intrapreso carriere statali e con il conseguente aumento di matrimoni fra dipendenti dello Stato”;

dall’altro, che si tratta di un ampliamento dell’aspettativa per motivi di famiglia di cui all’art. 69 del

d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3. Nel corso della discussione in assemblea, al Senato si è sottolineata

l’esigenza di tutelare l’unità della famiglia anche nel caso in cui il coniuge non sia dipendente

statale, ed in particolare nel caso in cui si tratti di dipendente privato. Tali auspici non si sono

tuttavia tradotti in un ampliamento dell’ambito di applicabilità della legge in discussione, cosicché

l’estensione dei benefici da essa previsti è rimasta affidata a futuri provvedimenti legislativi.

Anche in considerazione del tenore di alcune disposizioni della legge n. 26 del 1980, la

disciplina di cui il giudice rimettente chiede l’estensione appare preordinata in modo inequivoco ad

introdurre una nuova ipotesi di aspettativa senza assegni – revocabile in qualunque momento per

ragioni di servizio – nell’ambito dell’impiego statale. In particolare, l’impugnato art. 1 prevede che

il dipendente possa chiedere il collocamento in aspettativa, “qualora l’amministrazione non ritenga

di poterlo destinare a prestare servizio nella stessa località in cui si trova il coniuge, o qualora non

sussistano i presupposti per un suo trasferimento nella località in questione”, delineando in tal modo

una duplice condizione non realizzabile per i dipendenti degli enti locali. Lo stesso meccanismo di

cui all’art. 4 sembra presupporre piante organiche di una certa consistenza numerica, laddove

prevede che, qualora l’aspettativa si protragga oltre un anno, l’amministrazione ha facoltà di

utilizzare il posto corrispondente ai fini delle assunzioni e, in tal caso, l’impiegato che cessa

dall’aspettativa “occupa – ove non vi siano vacanze disponibili – un posto in soprannumero da

riassorbirsi al verificarsi della prima vacanza”.

Successivamente, la legge 25 giugno 1985, n. 333, ha stabilito che “il dipendente statale, il cui

coniuge presti servizio all’estero per conto di soggetti non statali, può chiedere il collocamento in

aspettativa a norma della legge 11 febbraio 1980, n. 26”. Tale estensione dei benefici

originariamente previsti dalla legge denunciata conferma la scelta del legislatore di riferire alle sole

amministrazioni statali l’istituto del collocamento in aspettativa per ricongiungimento con il

coniuge in servizio all’estero, beneficio peraltro configurato nei termini condizionali ed ipotetici di

cui all’art. 1, e suscettibile di essere revocato “in qualunque momento” per ragioni di servizio (oltre

che in difetto di effettiva permanenza all’estero del dipendente in aspettativa).

La scelta del legislatore di limitare all’ambito dell’impiego statale l’operatività di questo istituto

– volto a tutelare l’unità e l’integrità del nucleo familiare – muove da una non irragionevole

valutazione discrezionale delle differenti esigenze organizzative delle varie amministrazioni

pubbliche e, nonostante la possibilità di una diversa e più estesa disciplina dei benefici di cui si

tratta, non si pone in contrasto con gli invocati parametri costituzionali in materia di tutela della

famiglia. Tanto più che l’esigenza di salvaguardare l’unità del nucleo familiare, anche nelle ipotesi

non contemplate dall’art. 1 della legge n. 26 del 1980 può trovare un riconoscimento – sebbene si

tratti di strumenti non pienamente fungibili, quanto al grado di tutela, con l’istituto disciplinato dalla

disposizione impugnata – attraverso il ricorso ad altri benefici ed ipotesi di aspettativa, previsti dalla

legge, dai contratti collettivi, ovvero da norme di generale applicazione nell’ambito del pubblico

impiego.

3. L’unità familiare e lo straniero extracomunitario

Con riferimento alla condizione giuridica dello straniero extracomunitario, il diritto all’unità

familiare ha ricevuto, nella giurisprudenza costituzionale (oltre che in quella ordinaria), un ampio

riconoscimento in linea di principio, sia antecedentemente che successivamente all’entrata in vigore

del T.U. sull’immigrazione. Invero, nella sentenza n. 376 del 2000, nel dichiarare l’illegittimità

costituzionale dell’art. 17, comma 2, lettera d) della legge 6 marzo 1998, n. 40, ora sostituito

dall’art. 19, comma 2, lett. d) del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui non estende il divieto di

espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla

nascita del figlio, si è messo in evidenza come i principi di protezione dell’unità familiare, con

specifico riguardo alla posizione assunta nel nucleo dai figli minori in relazione alla comune

responsabilità educativa di entrambi i genitori, non trovano riconoscimento solo nella nostra

Costituzione, ma sono affermati anche da alcune disposizioni di trattati internazionali ratificati

dall’Italia. Dal complesso di tali disposizioni, pur nella varietà delle formulazioni utilizzate, emerge,

secondo la Corte, un principio, pienamente rinvenibile negli artt. 29 e 30 Cost., in base al quale

«alla famiglia deve essere riconosciuta la più ampia protezione ed assistenza, in particolare nel

momento della sua formazione ed in vista della responsabilità che entrambi i genitori hanno per il

mantenimento e l’educazione dei figli minori; tale assistenza e protezione non può non prescindere

dalla condizione, di cittadini o di stranieri, dei genitori, trattandosi di diritti umani fondamentali, cui

può derogarsi solo in presenza di specifiche e motivate esigenze volte alla tutela delle stesse regole

della convivenza democratica». Orbene, la norma censurata, secondo i Giudici, non estendendo il

divieto di espulsione al marito straniero convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi

successivi alla nascita del figlio, omette di considerare «proprio quelle ulteriori esigenze del minore

e cioè il suo diritto ad essere educato, tutte le volte che ciò sia possibile, in un nucleo familiare

composto da entrambi i genitori e non dalla sola madre» e pone la donna di fronte alla drammatica

alternativa tra il seguire il marito espulso all’estero e l’affrontare il parto ed i primi mesi di vita del

figlio senza il sostegno del coniuge. Tutto questo comporta la violazione del principio di «paritetica

partecipazione di entrambi i coniugi alla cura e all’educazione della prole, senza distinzione o

separazione di ruoli tra uomo e donna, ma con reciproca integrazione di essi». Successivamente,

peraltro, la Corte, con l’ordinanza n. 192 del 2006, nel dichiarare manifestamente infondata la

questione di costituzionalità dell’art. 19, comma 2, lettera d), del d.lgs. n. 286 del 1998, censurato là

dove prevede che il decreto di espulsione debba essere eseguito anche nei confronti

dell’extracomunitario legato da relazione affettiva con una cittadina italiana, in stato di gravidanza,

ha puntualizzato che, anche se la sentenza n. 376 del 2000 ha esteso al marito convivente la

sospensione del potere di espulsione per le donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi

alla nascita del figlio, tale estensione «presuppone una certezza dei rapporti familiari che non è dato

riscontrare […] nel caso di una relazione di fatto», con la conseguenza che «la questione di

legittimità costituzionale, sebbene prospettata in termini di tutela della famiglia di fatto e dei

conseguenti diritti-doveri, pone in realtà in comparazione trattamenti riservati a situazioni

profondamente diverse – e cioè quella del marito di cittadina extracomunitaria incinta e quella

dell’extracomunitario che afferma di essere padre naturale del nascituro – e, quindi, non

irragionevolmente disciplinate in modo diverso dal legislatore». Sulla stessa linea si è posta

l’ordinanza n. 444 del 2006, che ha dichiarato manifestamente infondata una questione di

costituzionalità del tutto analoga (si trattava, in quel caso, di extracomunitario legato da relazione

affettiva con una straniera in stato di gravidanza ed in attesa di permesso di soggiorno), richiamando

la parte motiva dell’ordinanza n. 192 del 2006 e mettendo in evidenza che «l’art. 31 della

Costituzione è volto a salvaguardare la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e non

può, quindi, essere invocato in riferimento ad una situazione quale quella prospettata dal

rimettente».

In precedenza la Corte, con l’ordinanza n. 481 del 2000, aveva dichiarato la manifesta

infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma che prevede il divieto di

espulsione per lo straniero convivente more uxorio con un cittadino italiano, ritenuta contrastante

con il principio di eguaglianza perché creerebbe una disparità di trattamento tra tale soggetto e lo

straniero che convive con il coniuge cittadino italiano. Secondo la Corte, «la previsione del divieto

di espulsione solo per lo straniero coniugato con un cittadino italiano e per lo straniero convivente

con cittadini che siano con lo stesso in rapporto di parentela entro il quarto grado risponde

all’esigenza di tutelare, da un lato l’unità della famiglia, dall’altro il vincolo parentale e riguarda

persone che si trovano in una situazione di certezza di rapporti giuridici che è invece assente nella

convivenza more uxorio» (negli stessi termini è l’ordinanza n. 313 del 2000).

3.1. Il ricongiungimento familiare come diritto dello straniero regolare

È ormai risalente la giurisprudenza della Corte secondo cui il diritto e il dovere dei genitori di

istruire ed educare i figli ed il diritto all’unità della famiglia sono diritti fondamentali della persona

che, in via di principio spettano anche agli stranieri.

Tanto avviene in occasione della decisione sul dubbio di costituzionalità nei confronti dell’art. 4

della legge n. 943 del 1986, laddove escludendo la possibilità di ricongiungimento familiare agli

stranieri extracomunitari residenti e sposati in Italia, che svolgono l’attività non retribuita di

casalinga, si potesse porre in contrasto con l’art. 29 della Costituzione che tutela la famiglia come

società naturale fondata sul matrimonio e con l’art. 30 della stessa Carta che equipara i figli nati

fuori del matrimonio ai figli legittimi (sentenza n. 28 del 1995).

Replica la Corte che la normativa in parola, pur essendo ricompresa in una legge di tutela delle

condizioni del lavoratore subordinato extracomunitario, acquista una sua autonoma rilevanza nel

momento in cui fa riferimento all’istituto della ricongiunzione familiare, nel quale si considerano e

si proteggono diritti - quali quelli della famiglia ed in particolare del minore - tutelati dalla

Costituzione e riconosciuti da una molteplicità di atti internazionali (a partire dalla Dichiarazione

dei diritti dell’uomo del 1948).

L’art. 4, primo comma, della legge n. 943 del 1986 attribuisce al lavoratore immigrato un vero e

proprio diritto al ricongiungimento della sua famiglia, diritto che implica l’ammissione e il

soggiorno del coniuge e dei figli minori nel territorio italiano; costoro, inoltre, una volta legalmente

residenti in Italia non possono essere privati del permesso di soggiorno nel caso in cui il lavoratore

immigrato perda il posto di lavoro (art. 11 comma terzo della legge).

La specificità della legge si esprime pertanto nella garanzia di una esigenza - la convivenza del

nucleo familiare - che si radica nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e

in particolare, nell’ambito di questa, ai figli minori.

Il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sé, e il diritto

dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell’unità della famiglia sono infatti

diritti fondamentali della persona che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri

contemplati dalla legge qui in esame.

Naturalmente, questi diritti possono essere assoggettati ai limiti derivanti dalla necessità di

realizzarne un corretto bilanciamento con altri valori dotati di pari tutela costituzionale, come del

resto avviene nel caso di specie in cui l’esigenza del ricongiungimento familiare viene collegata alla

condizione che lo straniero immigrato sia in grado di assicurare ai propri familiari “normali

condizioni di vita”. Così individuate le finalità della norma in esame, e i valori cui essa si ispira,

non può, anche per un’ulteriore e decisiva considerazione, ritenersi accettabile l’interpretazione che

restringe i destinatari dell’istituto del ricongiungimento familiare ai soli immigrati extracomunitari

titolari di lavoro subordinato, escludendone chi svolge lavoro familiare.

Infatti, anche il lavoro effettuato all’interno della famiglia, per il suo valore sociale ed anche

economico, può essere ricompreso, sia pure con le peculiari caratteristiche che lo

contraddistinguono, nella tutela che l’art. 35 della Costituzione assicura al lavoro “in tutte le sue

forme”. Si tratta di una specie di attività lavorativa che è già stata oggetto di svariati riconoscimenti

per il suo rilievo sociale ed anche economico, anche per via degli indiscutibili vantaggi che ne trae

l’intera collettività e, nel contempo, degli oneri e delle responsabilità che ne discendono e gravano -

ancora oggi - quasi esclusivamente sulle donne (anche per estesi fenomeni di disoccupazione).

In sostanza, il rilievo assunto dall’attività lavorativa all’interno della famiglia, non può non

comportare la conseguenza che tale attività debba essere assimilata alle forme di “occupazione” che

la legge qui contestata richiede per l’attivazione dell’istituto del ricongiungimento familiare.

Pertanto, la disposizione impugnata, nel caso di specie, deve intendersi nel senso che anche la

cittadina extracomunitaria che presti - nel nostro Paese - lavoro nella propria famiglia deve essere

ricompresa nel novero dei lavoratori che hanno diritto al ricongiungimento con figli minori che

risiedono all’estero.

La diversa interpretazione della norma impugnata postulata dal giudice a quo, non solo

apparirebbe insostenibile alla luce delle esposte considerazioni, ma, soprattutto, sarebbe lesiva delle

norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia, ai minori e al lavoro.

Con l’ordinanza n. 232 del 2001, la Corte costituzionale, nel dichiarare la manifesta

infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998, nella

parte in cui non prevede il divieto di espulsione dello straniero coniugato e convivente con altro

cittadino straniero in possesso di regolare permesso di soggiorno, ha testualmente dichiarato che

«l’esercizio del diritto al ricongiungimento può essere sottoposto dalla legge a condizioni volte ad

assicurare “un corretto bilanciamento con altri valori dotati di pari tutela costituzionale” […], ed in

particolare “alla condizione che sussista la possibilità di assicurare al familiare, con cui si opera il

ricongiungimento, condizioni di vita che consentano un’esistenza libera e dignitosa […]». In

applicazione di tali principi, «il legislatore può legittimamente porre dei limiti all’accesso degli

stranieri nel territorio nazionale effettuando un “corretto bilanciamento dei valori in gioco”,

esistendo in materia una ampia discrezionalità legislativa limitata soltanto dal vincolo che le scelte

non risultino manifestamente irragionevoli».

Il riferimento al corretto bilanciamento dei valori in gioco, nella disciplina concernente l’accesso

dello straniero nel territorio dello Stato, esistendo in materia un’ampia discrezionalità legislativa,

era stato in precedenza affermato dalla Corte costituzionale anche nella sentenza n. 353 del 1997,

richiamata successivamente dall’ordinanza n. 158 del 2006, che ha dichiarato la manifesta

infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 19, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 286 del

1998, nella parte in cui si limita a prevedere il divieto di espulsione degli stranieri conviventi con

parenti entro il quarto grado o con il coniuge di nazionalità italiana senza prendere in

considerazione la tutela degli stranieri tout court, già conviventi in Italia con il coniuge, in regola

con il permesso di soggiorno, ed eventualmente con i figli. In merito, la Corte ha sottolineato che

«la questione sollevata dal giudice rimettente, ove accolta, andrebbe a vanificare i fini sottesi alla

legge per il ricongiungimento familiare, dal momento che sarebbe consentito in ogni caso allo

straniero coniugato e convivente con altro straniero di aggirare le norme in materia di ingresso e

soggiorno» e che, comunque, non può essere effettuato alcun giudizio di comparazione tra la

situazione dello straniero coniugato con altro straniero – sia pur munito di permesso di soggiorno –

e quella dello straniero coniugato con un cittadino italiano. Le medesime argomentazioni si

rinvengono, ancora, nell’ordinanza n. 361 del 2007, che ha esaminato un’identica questione di

legittimità costituzionale, dichiarandola manifestamente infondata.

In un’altra occasione, la Corte, con l’ordinanza n. 140 del 2001, ha, invece, ritenuto che «le

esigenze di tutela del nucleo familiare, individuate dal legislatore, cedono di fronte a quelle di

ordine pubblico o di sicurezza dello Stato»: il doveroso assolvimento degli obblighi familiari non

giustifica sempre ed in ogni caso deroghe alle disposizioni del testo unico e la stessa Consulta mette

in risalto la necessità di un bilanciamento fra la tutela dell’unità della famiglia e gli altri valori,

dotati di pari dignità costituzionale, che potrebbero con la stessa confliggere, come la salvaguardia

della sicurezza e dell’ordine pubblico

3.2. I profili soggettivi del diritto al ricongiungimento

Nella sentenza n. 224 del 2005, la Corte costituzionale ha circoscritto il diritto al

ricongiungimento alla sola famiglia nucleare e segnatamente al coniuge e ai figli minori.

Invero, la Consulta, nel rigettare una questione di costituzionalità avente ad oggetto la disciplina

del ricongiungimento familiare contenuta nel T.U. sull’immigrazione, come modificato in parte qua

dalla legge n. 189 del 2002, ha escluso che la nuova e più restrittiva disciplina introdotta dalla legge

n. 189 del 2002 (che consente il ricongiungimento con i genitori solo nel caso di assenza di altri

figli nel paese di origine o provenienza ovvero di impossibilità degli altri figli, per documentati

gravi motivi di salute, di provvedere al sostentamento dei genitori ultrasessantacinquenni)

costituisca un ostacolo all’esercizio del diritto inviolabile ad una vita familiare – riconosciuto dalla

Costituzione anche agli stranieri, pienamente equiparati ai cittadini in relazione al godimento di

diritti fondamentali – con argomentazioni che valgono peraltro a definire il nucleo stesso del diritto

all’unità familiare. La Corte ha osservato che tale diritto «deve ricevere la più ampia tutela con

riferimento alla famiglia nucleare, eventualmente in formazione, e, quindi, in relazione al

ricongiungimento dello straniero con il coniuge e con i figli minori». Tuttavia, proseguono i Giudici

costituzionali, il principio contenuto nell’art. 29 Cost. «non ha una estensione così ampia da

ricomprendere tutte le ipotesi di ricongiungimento di figli maggiorenni e genitori, in quanto nel

rapporto tra figli maggiorenni, ormai allontanatisi dal nucleo di origine, e genitori, l’unità familiare

perde la caratteristica di diritto inviolabile costituzionalmente garantito, aprendosi contestualmente

margini che consentono al legislatore di bilanciare “l’interesse all’affetto” con altri interessi di

rilievo». In particolare, è legittima la limitazione del ricongiungimento «alle ipotesi in cui vi sia

un’effettiva e grave situazione di bisogno di quei familiari che non possono in alcun modo

soddisfare autonomamente le proprie esigenze di vita, non avendo nemmeno altri figli nel paese di

origine in grado di sostentarli». La Corte ha, poi, sottolineato che «il concetto di solidarietà non

implica necessariamente quello di convivenza, essendo ben possibile adempiere il relativo obbligo

mediante modalità diverse dalla convivenza».

Negli stessi termini è la sentenza n. 464 del 2005, nella quale si afferma che «il diritto al

godimento della vita familiare va garantito senza condizioni a favore dei coniugi e dei nuclei

familiari con figli minori, mentre negli altri casi esso può anche subire restrizioni, purché nei limiti

della ragionevolezza». Nella medesima pronuncia, la Consulta ha rilevato che la scelta del

legislatore (laddove ammette il ricongiungimento allo straniero residente in Italia dei genitori

ultrasessantacinquenni solo qualora gli altri figli, residenti all’estero, siano impossibilitati al loro

sostentamento per documentati gravi motivi di salute), non può ritenersi lesiva, oltre che dell’art.

29, dell’art. 3 Cost., dato che tale ultimo parametro può ritenersi riferito agli stranieri soltanto

allorché si deduca che la violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza involga diritti

fondamentali e inviolabili dell’uomo, ciò che è da escludere con riguardo al rapporto con i figli

maggiorenni.

Con l’ordinanza n. 368 del 2006, la Corte, richiamando le affermazioni della sentenza n. 224 e

dell’ordinanza n. 464 del 2005, nel caso di ricongiungimento tra figli maggiorenni e genitori, ha

precisato che il legislatore ben può bilanciare l’interesse all’affetto con altri interessi meritevoli di

tutela. Così, è stata giudicata manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 29,

comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 286 del 1998, censurato nella parte in cui non consente allo

straniero di ottenere il ricongiungimento con entrambi i genitori nel caso in cui uno solo sia

ultrasessantacinquenne ed il ricorrente abbia dimostrato che gli altri figli – che pure vivono nel

paese di origine o provenienza – sono impossibilitati al loro sostentamento per gravi motivi di

salute. Secondo la pronuncia, la scelta di limitare il ricongiungimento ai casi in cui vi sia

un’effettiva situazione di bisogno di quei familiari che non sono in grado di soddisfare

autonomamente le proprie esigenze primarie di vita è del tutto ragionevole, alla luce del corretto

bilanciamento dei valori che entrano in gioco quando si tratti di regolare l’accesso degli stranieri nel

territorio nazionale.

Da ultimo, le stesse argomentazioni sono state riprese nell’ordinanza n. 335 del 2007, che ha

dichiarato la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 29, comma 1, lettera

b-bis), del d.lgs. n. 286 del 1998, censurato in quanto, consentendo il ricongiungimento dei figli

maggiori d’età allorché risulti che non possono provvedere al proprio sostentamento a causa del

loro stato di salute, comportante invalidità totale, violerebbe gli artt. 3, 29 e 30 Cost. In merito, i

Giudici hanno ribadito i consolidati principi espressi con riferimento al diritto al ricongiungimento e

segnatamente che, in materia, «la discrezionalità del legislatore risulta ancora più ampia», poiché «il

concetto di solidarietà non implica necessariamente quello di convivenza, essendo ben possibile

adempiere il relativo obbligo mediante modalità diverse dalla convivenza». Quindi, il legislatore

può regolare l’accesso degli stranieri «sulla base di scelte che tengano conto di un corretto

bilanciamento dei valori in gioco», con la conseguenza che non appare irragionevole «consentire il

ricongiungimento dei figli maggiorenni nelle sole ipotesi in cui vi sia una situazione di bisogno

determinata dall’impossibilità permanente di provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita,

a causa del loro stato di salute». Inoltre, secondo la Corte, non appare praticabile neppure il giudizio

di comparazione fra la disciplina riservata al ricongiungimento del genitore, per il quale sarebbe

sufficiente l’assenza di figli nel Paese di origine che possano provvedere al suo sostentamento, e

quella prevista per il figlio maggiorenne, stante l’eterogeneità delle due situazioni messe a

confronto, posto che «solo per il figlio maggiorenne può ragionevolmente ritenersi che l’eventuale

situazione di dipendenza economica dal proprio genitore sia legata a fattori contingenti e,

conseguentemente, destinata a risolversi, salvo appunto il caso di uno stato di malattia che ne

pregiudichi irreversibilmente la capacità lavorativa».

Sotto altro profilo, è da sottolinearsi che, allorché il diritto al ricongiungimento coinvolga i figli

minori, esso non è più subordinato alla circostanza che i genitori siano uniti da un vincolo

matrimoniale.

Con la sentenza n. 203 del 1997 è stato, infatti, dichiarato costituzionalmente illegittimo, l’art.

4, comma 1, della legge 30 dicembre 1986, n. 943, nella parte in cui non prevede, a favore del

genitore straniero extracomunitario, il diritto al soggiorno in Italia – sempreché possa godere di

normali condizioni di vita – per ricongiungersi al figlio, considerato minore secondo la legislazione

italiana, legalmente residente e convivente in Italia con l’altro genitore, ancorché non unito al primo

in matrimonio.

In merito, la Corte ha innanzitutto premesso che la garanzia della convivenza del nucleo

familiare si radica nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e, in

particolare, nell’ambito di questa, ai figli minori e che il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed

educare i figli, e perciò di tenerli con sé, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita

comune nel segno dell’unità della famiglia, sono diritti fondamentali della persona, che perciò

spettano in via di principio anche agli stranieri. Conseguentemente, il diritto fondamentale del

minore di poter vivere, ove possibile, con entrambi i genitori, titolari del diritto-dovere di

mantenerlo, istruirlo ed educarlo, ed il conseguente diritto dei genitori di realizzare il

ricongiungimento con il figlio, sono, per la Corte, violati da una disciplina normativa che, ai fini del

ricongiungimento, ignora la situazione di coloro i quali, pur non essendo coniugati, siano titolari dei

diritti-doveri derivanti dalla loro condizione di genitori. In definitiva, la situazione alla quale si

collega il diritto al ricongiungimento familiare non concerne il rapporto dei genitori tra loro, bensì il

rapporto tra i genitori e il figlio minore, in funzione della tutela costituzionale di quest’ultimo.

3.3. La disciplina di favore approntata per i minori

Il Titolo IV del Testo Unico sull’immigrazione, intitolato “diritto all’unità familiare e tutela del

minore”, contiene puntuali disposizioni a protezione del minore extracomunitario.

L’art. 31 del T.U. dispone che il figlio minore dello straniero, con questi convivente e

regolarmente soggiornante, è iscritto nel permesso o carta di soggiorno di uno o entrambi i genitori

fino al quattordicesimo anno di età e segue la condizione giuridica del genitore; analogo trattamento

è riservato al minore affidato. Raggiunti i quattordici anni, al minore è rilasciato un permesso di

soggiorno per motivi familiari valido sino alla maggiore età; a quel punto, secondo l’art. 32, allo

straniero può essere rilasciato un permesso per motivi di studio, di accesso al lavoro, di lavoro

subordinato o autonomo, per esigenze sanitarie o di cura: questo vale, a determinate condizioni,

anche per i minori non accompagnati cittadini di Paesi terzi, ossia i minori che si trovino in uno

Stato di cui non sono cittadini e siano separati dai genitori e non assistiti da un adulto che sia

responsabile della loro cura e assistenza.

Oltre che a tali soggetti, il disposto dell’art. 32 del T.U. va riferito anche ai minori sottoposti a

tutela: questo è quanto emerge dalla sentenza n. 198 del 2003 della Corte costituzionale, che ha

concluso per la non fondatezza “nei sensi di cui in motivazione” della questione di costituzionalità

dell’art. 32, comma 1, che, secondo il rimettente, nel prevedere che possa essere rilasciato il

suddetto permesso di soggiorno agli stranieri che compiano la maggiore età e siano in condizione di

affidamento, non includerebbe i minori sottoposti a tutela. Ad avviso della Corte, la norma

censurata non determina alcuna ingiustificata disparità di trattamento in quanto può essere letta in

conformità a Costituzione, ossia «integrata in via analogica, sulla base della comparazione fra i

presupposti e le caratteristiche del rapporto di tutela del minore e del rapporto di affidamento».

Infatti, i due istituti, pur avendo diversi presupposti – poiché la tutela si apre con la morte o

l’assenza dei genitori o l’impossibilità di questi ad esercitare la potestà, mentre l’affidamento può

essere disposto allorché la famiglia di origine sia temporaneamente inidonea ad offrire al minore un

adeguato ambiente di vita – ed una diversa durata – poiché alla tendenziale definitività della prima

si contrappone la temporaneità del secondo – «sono entrambi finalizzati ad assicurare la cura del

minore», posto che l’affidamento ha lo scopo di favorire il reingresso nella famiglia di origine, ma

compito dell’affidatario è provvedere al suo mantenimento, alla sua educazione ed istruzione, allo

stesso modo del tutore che, oltre ad amministrare il patrimonio, deve prendersi cura dei bisogni del

pupillo. A ciò si aggiunga che sarebbe irragionevole una normativa che consentisse il rilascio del

permesso di soggiorno “ai minori stranieri non accompagnati che siano stati ammessi per un

periodo non inferiore a due anni in un progetto di integrazione sociale gestito da un ente pubblico o

privato” ex art. 25 della legge n. 189 del 2002 e non lo consentisse, invece, in favore del minore

straniero sottoposto a tutela. Pertanto, conclude la Corte, «una interpretazione meramente letterale

dell’art. 32, comma 1, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 condurrebbe ad un sicuro conflitto con i

valori personalistici che caratterizzano la nostra Costituzione ed in particolare con quanto previsto

dall’art. 30, secondo comma, e dall’art. 31, secondo comma, e determinerebbe fondati dubbi di

ragionevolezza».

3.4. Le condizioni in presenza delle quali si fa luogo al ricongiungimento

Oltre ai limiti soggettivi, esaminati nei paragrafi precedenti, il diritto al ricongiungimento

incontra limiti anche da un punto di vista materiale, nel bilanciamento con altri interessi meritevoli

di tutela.

Così, già con la sentenza n. 28 del 1995, la Corte costituzionale, dopo aver riconosciuto che il

diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sé, e il diritto dei

genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell’unità della famiglia sono diritti

fondamentali della persona che spettano in via di principio anche agli stranieri, ha affermato che

questi possono, tuttavia, essere assoggettati ai limiti derivanti dalla necessità di realizzarne un

corretto bilanciamento con altri valori dotati di pari tutela costituzionale. Ciò è quanto si è ritenuto

avvenire nel caso di specie, in cui l’esigenza del ricongiungimento familiare è stata collegata alla

condizione che lo straniero immigrato sia in grado di assicurare ai propri familiari «normali

condizioni di vita». Il principio è ribadito nella sentenza n. 203 del 1997, con l’ulteriore

precisazione che, nel caso in cui il ricongiungimento riguardi il genitore straniero di figlio minore

legalmente residente in Italia, la medesima condizione potrà essere assolta, secondo i Giudici, sia

attraverso le disponibilità economiche dell’altro genitore, sia attraverso le eventuali disponibilità

economiche di cui possa godere il medesimo genitore straniero che chiede di ricongiungersi al figlio

minore.

3.5. Il diniego del nulla-osta al ricongiungimento

Nel caso in cui l’autorità amministrativa competente non rilasci allo straniero il visto di ingresso

in Italia per ricongiungimento familiare, il legislatore ha previsto una procedura che gli consente di

presentare riscorso al giudice del luogo in cui risiede, che provvede ex art. 737 e ss. cod. proc. civ. e

può, accogliendo il ricorso, disporre il rilascio del visto anche in assenza del nulla osta. Con

l’ordinanza n. 140 del 2001 la Corte ha ritenuto manifestamente infondato il dubbio che investiva

proprio quest’ultima norma, contenuta nell’art. 28, comma 6, della legge 6 marzo 1998, n. 40,

giudicando non manifestamente irragionevole il modulo procedimentale predisposto dal legislatore:

infatti, la procedura ex art. 737 cod. proc. civ. – pur in camera di consiglio e senza formalismi non

indispensabili, per ragioni di speditezza – è «comunque idonea ad assicurare il rispetto

dell’essenzialità del contraddittorio e delle altre generali regole processuali, con la possibilità di

partecipazione dell’interessato e dell’amministrazione del cui rifiuto si discute la legittimità»,

considerato, altresì, che il giudice può avvalersi della documentazione che lo straniero deve aver

presentato, in sede di istanza originaria, alla questura competente nonché della documentazione che

successivamente abbiano prodotto sia lo straniero che la pubblica amministrazione. A ciò si

aggiunga il potere del giudice di assumere informazioni, utilizzabile nei confronti di qualsiasi

soggetto o ente pubblico o privato, operante nel settore dell’immigrazione e dell’assistenza.

4. Matrimonio e sessualità

4.1. Matrimonio ed identità sessuale

Con la sentenza n. 161 del 1985, la Corte, tra le varie questioni, decide quella avverso l’art. 1

della legge 14 aprile 1982 n. 164, in riferimento all’art. 29 Cost. su un duplice versante.

Il rimettente, da un lato, prende in considerazione l’ipotesi del transessuale che abbia contratto

matrimonio prima di aver ottenuto la dichiarazione giudiziale di rettificazione dell’attribuzione di

sesso, e, dall’altro, prospetta la diversa ipotesi del transessuale che contragga o celebri matrimonio

dopo la dichiarazione giudiziale medesima.

Le questioni così prospettate sono però chiaramente inammissibili per due ordini di

considerazioni.

Anzitutto, perché lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti

alla trascrizione del matrimonio celebrato col rito religioso è provocata non dalla rettificazione

anagrafica dell’attribuzione di sesso, di cui all’art. 1 della legge impugnata, ma dalla sentenza che

tale rettificazione dispone (art. 454 del codice civile; art. 4 della legge 164 del 1982).

In secondo luogo la norma o meglio le norme censurate vengono indubbiate sulla base della

ricorrente argomentazione per cui, essendo il mutamento di sesso del transessuale meramente

apparente, di talché costui continua, in realtà, ad appartenere al sesso originario, lo sconvolgimento

dell’“ordine naturale della società familiare” conseguente alla rettificazione giudiziale dell’identità

sessuale, del tutto ingiustificata, offenderebbe il dedotto parametro costituzionale sia nell’ipotesi di

scioglimento del precedente matrimonio sia qualora il transessuale, ottenuta la rettificazione

giudiziale, contraesse (nuovo) matrimonio.

Ora a tacere della considerazione che, nella prima delle ipotesi considerate, l’ordine naturale

della società familiare è sconvolto non dalla rettificazione anagrafica del mutamento di sesso e

neppure dalla sentenza che lo riconosce, ma dalla sindrome transessuale da cui è affetto il soggetto

interessato, limitandosi il legislatore a disciplinare gli effetti giuridici di una situazione di fatto

preesistente, che impone, operata la trasformazione anatomica, lo scioglimento del matrimonio tra

persone (divenute) dello stesso sesso; a tacer ancora che, nella seconda ipotesi, il giudice a quo,

quando non prospetta conseguenze meramente eventuali e di fatto del riconosciuto mutamento di

sesso, per le quali, peraltro, l’ordinamento prevede adeguati rimedi (ci si riferisce alla circostanza

che il transessuale abbia taciuto al coniuge la propria condizione), perviene ad affermazioni erronee,

come nel passo in cui sostiene che il transessuale dopo l’intervento chirurgico non ha capacità

copulativa, o in quello dove assume addirittura l’inesistenza del matrimonio da costui contratto, e

così arbitrariamente attribuisce alla capacità generativa il carattere di requisito essenziale per la

validità e l’esistenza stessa di tale matrimonio; decisivo è il rilievo che l’attore nel giudizio a quo

non ha mai contratto matrimonio, mentre la circostanza che egli possa contrarlo in futuro, ottenuta

che avesse la rettificazione giudiziale dell’attribuzione del sesso, è puramente eventuale.

Uguale conclusione di inammissibilità si impone per la questione sollevata con riferimento

all’art. 30 Cost.

A parte che anche il transessuale, ove mai avesse avuto figli da un matrimonio in precedenza

contratto o dovesse averne - ma non da lui generati - dal “nuovo” matrimonio, sarebbe tenuto

all’adempimento degli obblighi (di mantenimento, educazione ed istruzione) posti dalla legge a

carico dei coniugi (secondo anche la specifica previsione di cui all’art. 4 del testo normativo

denunziato), certo è che il giudizio a quo riguarda un soggetto incapace di procreare già prima

dell’intervento chirurgico e che non risulta abbia avuto o abbia figli adottivi.

Né la conclusione di inammissibilità può cambiare perché la questione è prospettata in modo tale

da ritenere illegittimo non già il semplice fatto che il transessuale possa svolgere le funzioni di

genitore, anzi di genitrice, nella eventuale (nuova) famiglia, ma per l’altrettanto eventuale

accavallarsi di funzioni parentali di segno diverso nella famiglia che il transessuale eventualmente

costituisse rispetto a quelle esercitate nella (non mai esistita) “vecchia” famiglia. L’assenza di prole,

infatti, toglie, nel caso in esame, qualunque rilevanza alla questione così sollevata.

4.2. Matrimonio ed orientamento sessuale

Sul rilievo che la disciplina codicistica (artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis , 156-bis) prevede

la eterosessualità dei coniugi quale connotazione dell’istituto matrimoniale delineato, la Corte viene

chiamata, nel giudizio definito con la sentenza n. 138 del 2010, a dirimere il dubbio di

costituzionalità sulla mancata previsione circa la possibilità che persone di orientamento

omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, denunciandosi la

irragionevole disparità di trattamento tra soggetti omosessuali rispetto ai transessuali, nonché la

violazione della tutela della famiglia quale “società naturale” nonché dei vincoli derivanti

dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Le ordinanze di rimessione muovono dal presupposto che l’istituto del matrimonio civile, come

previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una

donna. In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione

speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria

nozione di matrimonio».

La Corte deve dunque stabilire se il parametro costituzionale evocato dai rimettenti imponga di

pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata, estendendo alle unioni

omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto

che il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale.

L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia

come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento

dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa,

idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di

una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione

omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto

fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e

nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.

Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula

una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della

coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al

matrimonio.

Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento,

nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento

per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela

di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989

e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la

necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia

omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.

La questione, sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 2 Cost., deve

essere, quindi, dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non

costituzionalmente obbligata

Non fondata si rivela, invece, la questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli

artt. 3 e 29 Cost.

Quest’ultima disposizione, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto,

pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale

espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare

che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che

questo doveva riconoscere).

Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere

“cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati

della duttilità propria dei principî costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non

soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei

costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della

norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati

in alcun modo quando fu emanata.

Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del

tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non

fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva

una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza

di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio

definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora

stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il

secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica

dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e

diritti nel rapporto coniugale.

Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica,

perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi

interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa.

Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì

intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.

Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia

ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a

quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La

giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla

famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo

dall’unione omosessuale.

In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che,

contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul

piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la

normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni

omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.

Il richiamo alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di

sesso), non è pertinente perché prevede la rettificazione dell’attribuzione di sesso in forza di

sentenza del tribunale, passata in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso diverso da

quello enunciato dall’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri

sessuali (sentenza n. 161 del 1985).

Come si vede, si tratta di una condizione del tutto differente da quella omosessuale e, perciò,

inidonea a fungere da tertium comparationis. Nel transessuale, infatti, l’esigenza fondamentale da

soddisfare è quella di far coincidere il soma con la psiche ed a questo effetto è indispensabile, di

regola, l’intervento chirurgico che, con la conseguente rettificazione anagrafica, riesce in genere a

realizzare tale coincidenza. La persona è ammessa al matrimonio per l’avvenuto intervento di

modificazione del sesso, autorizzato dal tribunale. Il riconoscimento del diritto di sposarsi a coloro

che hanno cambiato sesso, quindi, costituisce semmai un argomento per confermare il carattere

eterosessuale del matrimonio, quale previsto nel vigente ordinamento.

Al riguardo, si osserva che: a) il richiamo alla citata sentenza della Corte europea (in causa C.

Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002) non è pertinente, perché essa riguarda una fattispecie,

disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso di un transessuale che, dopo l’operazione, avendo

acquisito caratteri femminili aveva avviato una relazione con un uomo, col quale però non poteva

sposarsi «perché la legge l’ha considerata come uomo». Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe

trovato disciplina e soluzione nell’ambito della legge n. 164 del 1982. E, comunque, già si è notato

che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono omogenee; b) sia gli artt. 8 e 14 della

CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in

ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in

larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono

specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialità,

dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame.

Orbene, l’art. 12 dispone che «uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di

formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto».

A sua volta l’art. 9 stabilisce che «il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono

garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».

In ordine a quest’ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza è stata recepita dal

Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la

Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell’art. 6, comma 1,

del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che «1. L’Unione

riconosce i diritti, le libertà e i principî sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione

europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore

giuridico dei trattati».

Non occorre affrontare i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito

dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo all’art. 51

della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione. Ai fini della presente pronuncia si deve

rilevare che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di

sposarsi, rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve aggiungere che le

spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della

Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio

strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «l’articolo

non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso

sesso».

Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo

che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle

regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna.

Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata

alla discrezionalità del Parlamento.

Ulteriore riscontro di ciò si desume, come già si è accennato, dall’esame delle scelte e delle

soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria

estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più

frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla tendenziale assimilabilità al

matrimonio delle dette unioni, fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso.

Sulla base delle suddette considerazioni si perviene ad una declaratoria d’inammissibilità della

questione proposta dai rimettenti, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.

5. La separazione dei coniugi

5.1. L’uso del cognome del marito

Un irragionevole contrasto con l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi si rinviene nella

sentenza n. 128 del 1970, che accoglie la questione relativa alla legittimità costituzionale

dell’ultimo comma dell’art. 156 del codice civile per violazione del secondo comma dell’art. 29

della Costituzione, in quanto esso prevede che dalla separazione personale dei coniugi, ove venga

disposta per colpa della moglie, possa farsi discendere anche il divieto per costei di usare del

cognome del marito, ma non regola il caso inverso di richiesta della moglie, in seguito a

separazione avvenuta per colpa dell’altro coniuge, di essere autorizzata a non assumere il cognome

di lui.

Infatti, la diversità del trattamento nei due casi, che pur presentano caratteri simili, si pone in

palese contrasto con il principio regolatore del rapporto matrimoniale che sanziona l’eguaglianza

giuridica e morale dei coniugi, suscettibile di venire limitata per opera della legge solo quando si

tratti di salvaguardare esigenze attinenti all’unità della famiglia. Esigenze che nella specie,

riferentesi alla situazione di separazione personale, non ricorrono, come risulta del resto dalla stessa

disposizione impugnata.

5.2. L’assegnazione del domicilio coniugale

La Corte censura, nella sentenza n. 171 del 1976, l’art. 45 del codice civile, primo comma (nel

testo anteriore alla sostituzione operata dall’art. 1 della legge 19 maggio 1975, n. 151), nella parte in

cui, in caso di separazione di fatto dei coniugi ed ai fini della competenza per territorio nel giudizio

di separazione, prevede che la moglie, la quale abbia fissato altrove la propria residenza, conservi

legalmente il domicilio del marito.

Il legislatore nella sua discrezionalità può dare rilevanza o meno al domicilio coniugale, ai fini

del rafforzamento dell’unità familiare, stabilendo che tale centro debba essere comune al marito e

alla moglie quando perdura la loro convivenza. Si tratta di discrezionalità legislativa sottratta, ove

razionalmente esercitata, ad ogni sindacato di legittimità costituzionale, sia nella scelta del mezzo

che nella scelta del coniuge presso il cui domicilio stabilire quello dell’altro, ed il legislatore può

ben mutare la sua valutazione, adeguandosi al mutamento della situazione e della coscienza sociale,

così come in effetti ha operato con l’articolo 1 legge 19 maggio 1975, n. 151, ribadendo per i

coniugi il principio valido per ogni soggetto per cui ciascuno ha il proprio domicilio nel luogo in cui

ha stabilito la sede principale dei propri affari o dei propri interessi.

La discrezionalità in questione trasmoda però in arbitrio e quindi in violazione del generale

principio di eguaglianza e dello specifico principio di parità dei coniugi, in quanto non era stato

dato rilievo, nella dizione originale dell’art. 45 del codice civile, allo stato di separazione di fatto tra

questi. Si prevedeva invece, prima della sostituzione effettuata dall’art. 1 della legge n. 151 del

1975, che soltanto la separazione legale faceva cessare il domicilio, presunto iuris et de iure, della

moglie presso il marito. Ma il mantenimento anche in questo caso di tale presunzione, attraverso

l’uso dell’avverbio “legalmente” nella formula dell’art. 45 c.c., non sembra tutelare alcun interesse

tale da derogare all’eguaglianza tra moglie e marito e tanto meno quello specifico dell’unità

familiare, considerato dall’art. 29 come peculiare limite alla parità. Ciò perché, la sentenza n. 46 del

1966, per la stessa circostanza della separazione di fatto sono venuti a mancare i presupposti

dell’unità, sia che questa si consideri sotto l’aspetto materiale e fisico, essendo cessata la

convivenza e con essa la collaborazione della moglie alla gestione domestica, sia sotto quello

spirituale, essendosi resa manifesta l’incompatibilità tra i due, tale da rendere non più possibile la

vita in comune.

La Corte dichiara, nella sentenza n. 454 del 1989, l’incostituzionalità dell’art. 155, quarto

comma, del codice civile, “nella parte in cui non consente al coniuge assegnatario della casa

coniugale di opporre ai terzi il titolo attribuente l’assegnazione”.

La norma impugnata dispone: “L’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove sia

possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli”.

Trattasi di norma dettata in tema di separazione tra coniugi pronunciata dal giudice in un

contesto dedicato ai “provvedimenti riguardo ai figli”.

La ratio seguita dal legislatore è dichiarata nel comma primo dell’art. 155: “il giudice che

pronunzia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro

provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di

essa”.

È dunque “l’esclusivo interesse morale e materiale della prole” a determinare la spettanza

dell’abitazione al coniuge cui la prole è affidata.

Il termine “abitazione” è qui assunto come voce sostantiva del transitivo verbale “abitare” con

oggetto la “casa familiare”, vale a dire quel complesso di beni funzionalmente attrezzato per

assicurare la esistenza domestica della comunità familiare. Come dunque la “casa familiare” non è

esauribile nell’immobile, spoglio della normale dotazione di mobili e suppellettili per l’uso

quotidiano della famiglia; così l’“abitazione” non è identificata dal legislatore in una figura

giuridica formale, quale potrebbe essere un diritto reale o personale di godimento, ma nella concreta

res facti che prescinde da qualsivoglia titolo giuridico sull’immobile, di proprietà, di comunione, di

locazione. Il giudice della separazione, assegnando l’abitazione nella casa familiare al genitore

affidatario della prole, secondo la ratio legis, non crea tanto un titolo di legittimazione ad abitare

per uno dei coniugi quanto conserva la destinazione dell’immobile con il suo arredo nella funzione

di residenza familiare.

Il titolo ad abitare per il coniuge è infatti strumentale alla conservazione della comunità

domestica e giustificato esclusivamente dall’interesse morale e materiale della prole affidatagli.

Tale assegnazione, mentre è immediatamente rilevante rispetto al coniuge non affidatario della

prole proprio perché escluso dall’abitazione nella casa familiare ancorché ne sia proprietario o

titolare di altro diritto di godimento o conduttore, non lo è rispetto ai terzi. La novella del 1975, non

prevedendo l’opponibilità al terzo della assegnazione giudiziale dell’abitazione, vanifica il vincolo

di destinazione della “casa familiare”.

Il legislatore che ha provveduto, con legge 6 marzo 1987, n. 74, a regolare la fattispecie

dell’“abitazione nella casa familiare”, spettante “di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli

o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età”, ha invece statuito all’art. 11 che modifica

l’art. 6, sesto comma: “L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi

dell’articolo 1599 del codice civile”.

Essendo le norme di cui all’art. 155, quarto comma, del codice civile, e all’art. 6, sesto comma,

della legge n. 74 del 1987 ispirate alla eadem ratio dell’esclusivo riferimento all’interesse morale e

materiale della prole, la diversità di disciplina tra l’assegnazione dell’abitazione nella casa familiare

al genitore affidatario della prole opponibile, previa trascrizione, al terzo acquirente nella ipotesi di

scioglimento del matrimonio e l’assegnazione dell’abitazione, non opponibile nell’ipotesi di

separazione personale dei coniugi, è del tutto priva di ragionevole giustificazione.

La violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione si concreta, non nel

deteriore trattamento del coniuge separato rispetto al divorziato, essendo l’uno e l’altro portatori di

status personali differenziati, ma nella diversità di trattamento di una situazione assolutamente

identica, quale è quella della prole affidata ad un genitore separato o ad un genitore non più legato

dal vincolo matrimoniale.

Il preminente interesse del minore è, in effetti, il criterio che deve orientare costantemente

l’interprete nella lettura delle norme che regolano l’assegnazione della casa familiare in caso di

separazione dei genitori: alla luce di tale principio la Corte, con la sentenza n. 308 del 2008, ha

dichiarato la non fondatezza nei sensi di cui in motivazione della questione avente ad oggetto l’art.

155-quater, primo comma, cod. civ., introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n.

54, anche in combinato disposto con l’art.. 4 della stessa legge, nella parte in cui prevede la revoca

automatica dell’assegnazione della casa familiare nel caso in cui l’assegnatario conviva more uxorio

o contragga un nuovo matrimonio. La Corte ricostruisce anzitutto la normativa vigente in materia:

l’art. 155-quater afferma che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente

conto dell’interesse dei figli; tale godimento viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o

cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo

matrimonio ed è su queste due ultime ipotesi che si concentrano i dubbi di costituzionalità. Già

secondo il diritto vivente formatosi sotto la vigenza della precedente disciplina, l’assegnazione della

casa coniugale era strettamente legata all’affidamento della prole. Posto che anche per

l’assegnazione della casa familiare vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo del

provvedimento per fatti sopravvenuti, la misura mantiene, però, sempre la sua funzione, essendo

posta ad esclusiva tutela della prole, con la conseguenza che anche in sede di revisione resta

imprescindibile il requisito dell’affidamento di figli minori nonché quello dell’accertamento

dell’interesse prioritario della prole». Pertanto, non solo l’assegnazione della casa familiare ma

anche la cessazione della stessa «è stata sempre subordinata, pur nel silenzio della legge, ad una

valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all’interesse della prole. Conseguentemente, la

costituzionalità della disciplina non può essere messa in dubbio ove la normativa sia interpretata nel

senso che l’assegnazione della casa coniugale non viene meno automaticamente al verificarsi degli

eventi indicati, ma che la decadenza sia subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del

minore.

5.3. L’obbligo di mantenimento a carico di un coniuge

Nella sentenza n. 278 del 1994, la Corte, al fine di rendere tempestivo ed efficace l’obbligo di

mantenere il coniuge bisognoso e soprattutto i figli dichiara l’incostituzionalità dell’art. 156, sesto

comma, del codice civile, nella parte in cui non consente che possa essere adottato anche dal

giudice istruttore nel corso della causa di separazione personale dei coniugi l’ordine ai terzi – tenuti

a corrispondere somme di denaro al coniuge obbligato al mantenimento – di versare una parte delle

stesse direttamente agli aventi diritto.

Nella disciplina del giudizio di separazione la possibilità dell’ordine di distrazione delle somme

dovute viene menzionata soltanto dal sesto comma dell’art. 156 del codice civile, che appare riferito

alla fase successiva alla pronuncia di separazione ed all’accertata inadempienza agli obblighi

economici in essa stabiliti.

Di qui la questione se sia coerentemente tollerabile una carenza di immediata tutela – quale

quella data dalla possibilità dell’ordine di distrazione – anche nel periodo che va dal momento in cui

sono adottati i provvedimenti presidenziali fino a quello della sentenza, e soprattutto se una tale

carenza si presenti come violazione di norme costituzionali.

Per dare risposta affermativa si rileva che i provvedimenti presidenziali hanno forza esecutiva

anche per gli obblighi economici con essi stabiliti, e che il loro inadempimento può determinare

effetti gravemente pregiudizievoli per gli aventi diritto, analogamente sia a quelli accertati nel

procedimento ex art. 148 del codice civile per il regime di convivenza, sia a quelli che vengono a

determinarsi per l’inadempienza agli obblighi fissati con la sentenza di separazione personale.

Se la competenza ad emanare l’ordine di distrazione si configura normalmente come accessoria a

quella relativa alla determinazione ed alla modifica della misura delle somme dovute per il

mantenimento, e se soprattutto tale ordine coercitivo risponde alla stessa ratio di dare effettiva

soddisfazione ai provvedimenti giudiziali, si perviene alla conclusione che, per evitare la disparità

di trattamento degli aventi diritto al mantenimento prima e dopo la sentenza di separazione, ed

apprestare un rimedio efficace all’inadempimento di obblighi costituzionalmente tutelati, va

riconosciuta anche al giudice istruttore la competenza ad emettere il predetto ordine di distrazione a

seguito dell’accertata inadempienza agli obblighi di mantenimento nel corso della causa di

separazione personale.

Le ragioni che hanno indotto la Corte a dichiarare l’illegittimità dell’art. 156, sesto comma, del

codice civile, nella parte relativa all’ordine di distrazione delle somme dovute, non possono non

valere anche per la parte relativa allo speciale potere di sequestro dei beni del coniuge obbligato,

previsto dal medesimo comma (sentenza n. 258 del 1996). Entrambe le misure coercitive

rispondono infatti alla ratio di dare tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di

mantenimento del coniuge bisognoso e, soprattutto, dei figli minori, esigenze penalmente tutelate

che sussistono anche prima della sentenza di separazione in relazione agli obblighi di mantenimento

stabiliti in sede presidenziale. L’omogeneità di dette situazioni postula un eguale trattamento,

mancando un valido motivo che giustifichi una diversità di disciplina.

Il provvedimento previsto dall’art. 156 cod. civ. – ancorché denominato “sequestro” – ha

caratteri del tutto peculiari rispetto all’ordinario sequestro conservativo disciplinato dagli artt. 671 e

seguenti del codice di procedura civile.

Viene riconosciuto, in effetti, che tra le due misure ora indicate esistono significative differenze.

Mentre il sequestro conservativo presuppone, secondo una consolidata tradizione, la sussistenza del

fumus boni iuris e del periculum in mora, il provvedimento previsto dall’art. 156 cod. civ.

presuppone un credito già dichiarato, sia pure in via provvisoria, e può essere disposto pur in

mancanza del secondo di detti requisiti, sulla base della semplice inadempienza agli obblighi di

mantenimento. Il sequestro conservativo, poi, può essere concesso anche prima dell’inizio della

causa di merito, mentre l’applicabilità della misura in esame è stata subordinata dal legislatore alla

conclusione del giudizio di separazione (e ora si intende riconoscerla anche nel corso del giudizio).

Ciò comporta, tra l’altro, che, mentre il sequestro conservativo ha un’efficacia strettamente

connessa all’esito del parallelo giudizio di merito (art. 669 novies cod. proc. civ.) e può colpire

anche tutti i beni mobili ed immobili del debitore, avendo natura di mezzo di conservazione della

garanzia patrimoniale finalizzato al pignoramento, la misura di cui all’art. 156 cod. civ. può invece

riguardare soltanto “parte dei beni” del coniuge obbligato, non può convertirsi in pignoramento e

non ha natura cautelare, essendo finalizzata, come ha riconosciuto la Corte di cassazione, ad una

funzione di coazione, anche psicologica, all’adempimento degli obblighi di mantenimento posti a

carico di uno dei coniugi.

Per le differenze ora tratteggiate, detto provvedimento non si sovrappone al sequestro

conservativo, né è possibile ricomprenderlo nel richiamo che l’art. 669 quaterdecies cod. proc. civ.

fa alle cosiddette misure cautelari atipiche. Ne deriva che, come si rileva nell’ordinanza di

rimessione, il diverso “sequestro” in esame è illegittimamente escluso dalla competenza del giudice

istruttore. Tale esclusione è ancor più censurabile ove si pensi che il provvedimento previsto

dall’art. 156, sesto comma, cod. civ. si configura con tali aspetti di specialità da doversi ritenere di

applicazione prevalente, se non esclusiva, in sede di separazione personale tra coniugi, rispetto

all’ordinario sequestro conservativo. La sua ammissibilità deve essere quindi riconosciuta per

coerenza con la già riconosciuta ammissibilità dell’ordine di distrazione previsto dalla stessa norma

e per rispetto dei principi costituzionali invocati.

Resta ovviamente affidato alla saggia valutazione del giudice istruttore bilanciare in modo

equilibrato l’uso dei vari strumenti offerti dalla legge per conseguire il risultato di soddisfare nel

modo migliore le ragioni economiche dei componenti più bisognosi della famiglia. In conclusione,

la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 156, sesto comma, del codice civile, nella

parte in cui non prevede che il giudice istruttore possa adottare, nel corso della causa di separazione,

il provvedimento di sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato al mantenimento.

Sul piano procedurale, la Corte avverte l’esigenza di agevolare misure idonee a garantire

l’adempimento delle obbligazioni a carico del coniuge non affidatario della prole; ciò che accade

nella sentenza n. 154 del 1999, che dichiara l’incostituzionalità dell’art. 19 della legge 6 marzo

1987, n. 74, nella parte in cui non comprende nella esenzione da esso disposta (per tutti gli atti, i

documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di

cessazione degli effetti civili del matrimonio) tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al

procedimento di separazione personale dei coniugi.

Con la sentenza n. 176 del 1992, la Corte ha già scrutinato la disposizione impugnata sotto il

profilo della mancata estensione della esenzione (non già a tutti gli atti e documenti del giudizio di

separazione personale dei coniugi, ma) al solo provvedimento di iscrizione di ipoteca a garanzia

delle obbligazioni assunte dal coniuge separato, pronunciandosi nei limiti dell’impugnazione.

Le stesse ragioni a suo tempo poste a fondamento del dispositivo di accoglimento – dichiarativo

dell’incostituzionalità dell’impugnato art. 19, nella parte in cui non comprende nell’esenzione dal

tributo anche le iscrizioni di ipoteca effettuate a garanzia delle obbligazioni assunte dal coniuge nel

giudizio di separazione – portano ad accogliere le questioni di legittimità costituzionale ora

formulate dalle Commissioni tributarie rimettenti in termini più ampi, in relazione alla totalità dei

tributi oggetto dell’esenzione.

Il parallelismo, le analogie e la complementarità funzionale dei procedimenti di scioglimento o

di cessazione degli effetti civili del matrimonio e del procedimento di separazione dei coniugi sotto

i profili che rilevano ai presenti fini portano anche in questo caso a concludere che il profilo

tributario non può ragionevolmente riflettere un momento di diversificazione delle due procedure,

atteso che l’esigenza di agevolare l’accesso alla tutela giurisdizionale, che motiva e giustifica il

beneficio fiscale con riguardo agli atti del giudizio divorzile, è con ancor più accentuata evidenza

presente nel giudizio di separazione: sia perché in quest’ultimo la situazione di contrasto tra i

coniugi – ai quali occorre assicurare una se non più ampia, almeno pari tutela – presenta di solito

una maggiore asprezza e drammaticità rispetto alla fase già stabilizzata dell’epilogo divorzile; sia in

considerazione dell’esigenza di agevolare, e promuovere nel più breve tempo, una soluzione idonea

a garantire l’adempimento delle obbligazioni che gravano, ad esempio, sul coniuge non affidatario

della prole.

Sulle differenze di presupposti e funzioni tra obbligo di mantenimento dei figli e obbligo degli

alimenti legali nei loro confronti fa leva la sentenza n. 373 del 2008, per giudicare non

irragionevole l’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, censurato ove

esclude la deducibilità dal reddito complessivo, ai fini delle imposte dirette, degli assegni periodici

corrisposti al coniuge, a seguito di separazione o divorzio, per il mantenimento della prole. Secondo

il diritto vivente della Cassazione l’obbligo di mantenimento consiste nel prestare ai figli quanto

occorre per le esigenze di vita, si commisura in proporzione alle sostanze dei genitori, prescinde

dallo stato di bisogno dei figli, decorre dal momento in cui sorge il rapporto di filiazione e termina

nel momento in cui il figlio maggiorenne è in condizione di avere una propria autonomia

economica. Viceversa, l’obbligo di prestare gli alimenti ha un contenuto più ristretto, perché

consiste nel somministrare il necessario per le fondamentali esigenze di vita dell’alimentando,

considerata la posizione sociale, si commisura in proporzione al bisogni di chi chiede gli alimenti e

alle condizioni economiche di chi li deve somministrare, sorge solo in mancanza di obbligo di

mantenimento, quando sussista il presupposto dello stato di bisogno dell’alimentando e la sua

impossibilità a provvedere al proprio sostentamento, decorre dalla domanda giudiziale e termina

con la cessazione dello stato di bisogno. Così, mentre l’obbligo di mantenimento è espressione del

dovere di solidarietà familiare sancito dall’art. 30 Cost. ed assolve la funzione di consentire il pieno

sviluppo della personalità dei figli, l’obbligo alimentare sussiste solo ove non vi sia obbligo di

mantenimento ed assolve la diversa funzione di assistenza familiare, in quanto è diretto

esclusivamente ad ovviare allo stato di bisogno ed all’incapacità dell’alimentando di farvi fronte.

Pertanto, le situazioni poste a raffronto dal rimettente non sono omogenee e la norma denunciata

si sottrae alla censura di ingiustificata disparità di trattamento fiscale rispetto all’assegno alimentare

per i figli, poiché la scelta di consentire la deduzione fiscale dell’assegno periodico alimentare e non

di quello di mantenimento appare ispirata alla non irragionevole ratio non solo di differenziare il

trattamento fiscale di prestazioni eterogenee, ma anche di favorire l’adempimento dell’obbligo

alimentare che sorge solo ove manchi quello di mantenimento e, quindi, ove sia divenuto meno

intenso il vincolo di solidarietà familiare.

6. La famiglia di fatto

6.1. La tutela delle unioni diverse da quelle fondate sul matrimonio

Chiamata a dirimere una questione di costituzionalità sollevata sulla base di una asserita diversità

tra convivenza matrimoniale e stato di separazione e di una egualmente asserita omogeneità tra

famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, la Corte sottolinea, nell’ordinanza n. 491 del

2000, che costituendo la separazione, in conformità alla sua natura ed alle sue origini storiche, una

semplice fase del rapporto coniugale, non può certo ritenersi manifestamente irragionevole una

disciplina che accomuna convivenza coniugale e stato di separazione; di contro, la diversità tra

famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio rappresenta un punto fermo di tutta la

giurisprudenza costituzionale in materia ed è basata sull’ovvia constatazione che la prima è un

rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei

diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della seconda.

In un’ottica diversa ci si muove nel giudizio concluso con la sentenza n. 372 del 2004. In esso,

lo Stato impugna l’art. 4, comma 1, lettera h), dello statuto della Regione Toscana, laddove dispone

che la Regione persegue, tra le finalità prioritarie, «il riconoscimento delle altre forme di

convivenza» con previsione che, ad avviso del ricorrente, potrebbe costituire la base statutaria di

future norme regionali recanti una disciplina dei rapporti tra conviventi lesiva della competenza

legislativa esclusiva dello Stato in materia di “cittadinanza, stato civile e anagrafi” e di

“ordinamento civile” (art. 117, secondo comma, lettere i) e l), Cost.). La norma violerebbe, inoltre,

l’art. 123 della Costituzione, ed il limite della «armonia con la Costituzione», qualora con essa si

«intenda affermare qualcosa di diverso dal semplice rilievo sociale e dalla conseguente giuridica

dignità» della convivenza tra uomo e donna fuori del vincolo matrimoniale, ovvero si «intenda

affermare siffatti valori con riguardo ad unioni libere e relazioni tra soggetti del medesimo sesso»,

in contrasto con i principi costituzionali, in relazione a situazioni divergenti dal modello del

rapporto coniugale, estranee al contenuto delle garanzie fissate dall’art. 29 della Costituzione, non

riconducibili alla sfera di protezione dell’art. 2 della Costituzione.

Ad avviso della Corte, risulta opinabile la “misura dell’efficacia giuridica” di tali proclamazioni

considerando che alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non

può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei

convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al

momento dell’approvazione dello statuto.

Ora, se si accolgono le premesse sul carattere non prescrittivo e non vincolante delle

enunciazioni statutarie di questo tipo, ne deriva che esse esplicano una funzione, per così dire, di

natura culturale o anche politica, ma certo non normativa. Nel caso in esame, enunciazioni siffatte si

rinvengono nei diversi commi – tra cui in particolare quelli censurati – degli artt. 3 e 4 che non

comportano né alcuna violazione, né alcuna rivendicazione di competenze costituzionalmente

attribuite allo Stato e neppure fondano esercizio di poteri regionali. È quindi inammissibile il

ricorso governativo avverso le impugnate proposizioni dei predetti articoli, per la loro carenza di

idoneità lesiva.

Di analogo tenore è la sentenza n. 378 del 2004, che decide il ricorso del Governo avverso l’art.

9, comma 2 dello statuto della Regione Umbria, impugnato nella parte in cui, avendo il primo

comma dell’art. 9 riconosciuto i diritti della famiglia e previsto l’adozione di ogni misura idonea a

favorire l’adempimento dei compiti che la Costituzione le affida, dispone che la Regione tutela

forme di convivenza, in quanto consentirebbe l’adozione di “eventuali future previsioni normative

regionali” concernenti i rapporti patrimoniali e personali tra i conviventi.

6.2. Famiglia di fatto e diritto all’abitazione

6.2.1. Il diritto reale di abitazione

Ispirata al favor per la famiglia legittima appare la reiezione dell’impugnativa avverso l’art. 540,

secondo comma, in quanto non riserva al convivente, anche se escluso dal novero dei successibili a

titolo di erede, almeno il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza della coppia, se di

proprietà del defunto o comune (sentenza n. 310 del 1989).

La Corte ritiene che il giudice a quo non ha considerato che i diritti di abitazione sulla casa

adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, attribuiti al coniuge dall’art. 540,

secondo comma, cod. civ., sono oggetto di una vocazione a titolo particolare collegata alla

vocazione (a titolo universale) a una quota di eredità, cioè presuppongono nel legatario la qualità di

legittimario al quale la legge riserva una quota di eredità. Tale collegamento, per cui i detti diritti

formano un’appendice della legittima in quota, si spiega sul riflesso che oggetto della tutela dell’art.

540, secondo comma, non è il bisogno dell’alloggio (che da questa norma riceve protezione solo in

via indiretta ed eventuale), ma sono altri interessi di natura non patrimoniale, riconoscibili solo in

connessione con la qualità di erede del coniuge, quali la conservazione della memoria del coniuge

scomparso, il mantenimento del tenore di vita, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti

durante il matrimonio, con conseguente inapplicabilità, tra l’altro, dell’art. 1022 cod. civ., che

regola l’ampiezza del diritto di abitazione in rapporto al bisogno dell’abitatore.

Pertanto il giudice remittente non chiede alla Corte semplicemente di inserire il convivente more

uxorio nella previsione dell’art. 540, secondo comma, ammettendo anche questa forma del rapporto

di coppia quale possibile referente della nozione di “casa adibita a residenza familiare”, bensì

sollecita l’introduzione nell’ordinamento della legittima di una nuova fattispecie strutturalmente e

funzionalmente diversa da quella portata a modello: strutturalmente, perché il diritto di abitazione

sarebbe attribuito al convivente indipendentemente dalla qualità di chiamato all’eredità;

funzionalmente, perché, secondo la prospettazione dell’ordinanza di rimessione, il diritto di

abitazione sarebbe qui destinato a tutelare direttamente e specificamente l’interesse alla

conservazione dell’alloggio.

Una siffatta innovazione nel sistema normativo esula dai poteri della Corte. Spetta al legislatore

valutare il grado di meritevolezza di tutela dell’interesse all’abitazione nell’ipotesi in esame, e

quindi decidere tra le due forme di tutela possibili, quella – gravemente limitatrice del diritto di

proprietà degli eredi – del diritto (reale) di abitazione, ovvero, in assenza di una disposizione

testamentaria più favorevole del de cuius, quella più moderata di un diritto personale di godimento

temporalmente limitato.

Nonostante il primario interesse per la Corte sia la tutela del diritto all’abitazione rileva

comunque, ai presenti fini, la sentenza n. 559 del 1989, in cui si rinviene il contrasto con il

principio di ragionevolezza – e la violazione del diritto sociale all’abitazione, collocabile fra quelli

inviolabili dell’uomo – da parte di una normativa regionale del Piemonte che, dopo aver stabilito, ai

fini dell’accesso ai concorsi per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale, l’appartenenza del

convivente more uxorio e della prole naturale al nucleo familiare dell’assegnatario, esclude tuttavia

il diritto del medesimo convivente affidatario dei figli a succedere nella posizione dell’assegnatario

se questi – per il venir meno dell’affectio – abbandoni l’alloggio.

6.2.2. Le locazioni ad uso abitativo

Si deve all’opera della giurisprudenza costituzionale il riconoscimento della rilevanza giuridica

delle unioni libere le volte in cui si rivelava irragionevole sottrarle alle disposizioni dettate

esplicitamente per i coniugi legali. In proposito, va segnalata la estensione ai conviventi more

uxorio del regime delle locazioni abitative.

In un primo tempo, la Corte (sentenza n. 45 del 1980) nega il diritto di proroga della locazione

in favore del convivente del locatario defunto adducendosi che la convivenza more uxorio è un

rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità o certezza e della reciprocità e corrispettività dei

diritti e doveri, previsti dagli artt. 143, 144, 145, 146, 147, 148 cod. civ., che nascono soltanto dal

matrimonio e sono propri della famiglia legittima. La coabitazione del convivente more uxorio può

infatti cessare per volontà di uno dei conviventi in qualsiasi momento anche mediante azione

giudiziaria.

In ordine, poi, alla disparità di trattamento tra convivente superstite, che non ha diritto alla

proroga, e figlio naturale dei conviventi, che vi ha diritto è sufficiente rilevare che l’attribuzione ai

figli naturali, del diritto alla proroga legale realizza la tutela giuridica dei figli nati fuori del

matrimonio espressamente prescritta dall’art. 30, comma terzo, della Costituzione, laddove il

precedente art. 29, nel riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul

matrimonio, considera il matrimonio elemento che distingue la famiglia legittima e ne giustifica la

particolare rilevanza giuridica.

La Corte cambia radicalmente il precedente indirizzo giurisprudenziale in tema di locazioni con

la sentenza n. 404 del 1988, che dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma,

della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del

contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio. Al riguardo, si

ritiene che non viene qui in evidenza un trattamento discriminatorio a sfavore della convivenza

more uxorio, che violerebbe il principio di uguaglianza e neppure un contrasto con la spontaneità

delle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell’uomo, di cui all’art. 2 della

Costituzione.

Come affermato dalla sentenza n. 217 del 1988, il diritto all’abitazione rientra fra i requisiti

essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione.

Quando il legislatore, nel contesto della legge n. 392 del 1978, detta l’art. 6, rubricandolo

“Successione nel contratto”, esprime il dovere collettivo di “impedire che delle persone possano

rimanere prive di abitazione”, dovere che connota da un canto la forma costituzionale di Stato

sociale, e dall’altro riconosce un diritto sociale all’abitazione collocabile fra i diritti inviolabili

dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione.

Ciò conduce ad ulteriore sviluppo le considerazioni già svolte nella sentenza n. 252 del 1983.

All’inizio degli anni Ottanta un indirizzo dottrinale e giurisprudenziale tendeva a costruire il

diritto all’abitazione come un diritto soggettivo perfetto, destinato a rendere sempre poziore la

posizione del locatario su quella del locatore, suggerendo come modello la disciplina francese e

tedesca della locazione abitativa a tempo indeterminato con recesso del locatore solo per giusta

causa.

La Corte dovette allora obbiettare che la “stabilità della situazione abitativa” non costituisce

autonomo e indefettibile presupposto per l’esercizio dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 della

Costituzione.

La Corte invece affermava in proposito che “indubbiamente l’abitazione costituisce, per la sua

fondamentale importanza nella vita dell’individuo, un bene primario il quale deve essere

adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge”.

Nel caso in esame, la Corte riconosce di non aver dato, nella sua precedente giurisprudenza, il

dovuto rilievo all’abitazione come bene primario, valutando su un piano prospettico di maggiore

rilevanza l’estraneità del convivente more uxorio dagli elenchi tassativi degli aventi diritto alla

proroga dei contratti di locazione di immobili adibiti ad uso di abitazione, in caso di morte del

conduttore, sia in base all’art. 2-bis, comma primo, parte prima, della legge 12 agosto 1974, n. 351,

sia in base all’art. 1, comma quarto, parte prima, della legge 23 maggio 1950, n. 253.

Ritiene adesso la Corte che la nuova normativa sulla disciplina delle locazioni di immobili

urbani adibiti ad uso di abitazione, introdotta dalla legge 27 luglio 1978, n. 392, realizzando con il

regime dell’equo canone un superamento di quella previgente, fondata sul meccanismo della

proroga, determini una minore compressione del diritto del proprietario-locatore e consenta pertanto

una più penetrante indagine sui fini che il legislatore ha inteso perseguire nel sostituire la fattispecie

“successione nel contratto” a quella della operatività della proroga.

Il legislatore del 1950 ha usato la formula “la proroga opera soltanto a favore del coniuge, degli

eredi, dei parenti e degli affini del defunto con lui abitualmente conviventi” (art. 1, comma 4, parte

I, l. n. 253/1950); quello del 1974 la variante: “del coniuge, dei figli, dei genitori o dei parenti entro

il secondo grado del defunto con lui anagraficamente conviventi” (art. 2-bis, comma 1, parte I, l. n.

351/1974).

La volontà di escludere qualunque soggetto diverso da quelli elencati è fatta palese dall’avverbio

“soltanto”.

Diversa formulazione è quella dell’art. 6, primo comma, della vigente legge n. 392 del 1978: “in

caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini

con lui abitualmente conviventi”.

Le species “figli, genitori, parenti entro il secondo grado, con lui anagraficamente conviventi”,

della corrispondente norma del 1974, si espandono nei genera “eredi, parenti, affini con lui

abitualmente conviventi”.

Il legislatore del 1978, cioè, ha voluto tutelare non la famiglia nucleare, né quella parentale, ma

la convivenza di un aggregato esteso fino a comprendervi estranei (potendo tra gli eredi esservi

estranei), i parenti senza limiti di grado e finanche gli affini.

È evidente la volontà legislativa di farsi interprete di quel dovere di solidarietà sociale, che ha

per contenuto l’impedire che taluno resti privo di abitazione, e che qui si specifica in un regime di

successione nel contratto di locazione, destinato a non privare del tetto, immediatamente dopo la

morte del conduttore, il più esteso numero di figure soggettive, anche al di fuori della cerchia della

famiglia legittima, purché con quello abitualmente conviventi.

Se tale è la ratio legis, è irragionevole che nell’elencazione dei successori nel contratto di

locazione non compaia chi al titolare originario del contratto era nella stabile convivenza legato

more uxorio.

L’art. 3 della Costituzione va qui invocato dunque non per la sua portata eguagliatrice, restando

comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente more uxorio, ma per la

contraddittorietà logica della esclusione di un convivente dalla previsione di una norma che intende

tutelare l’abituale convivenza.

Se l’art. 3 della Costituzione è violato per la non ragionevolezza della norma impugnata, l’art. 2

lo è quanto al diritto fondamentale che nella privazione del tetto è direttamente leso.

Successivamente, la Corte, ritornando sul tema, ha modo di dichiarare la manifesta infondatezza

della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, sollevata in

riferimento all’art. 3 della Costituzione nella parte in cui non prevede che, in caso di cessazione

della convivenza more uxorio, al conduttore di un immobile ad uso abitativo succeda nel contratto

di locazione il convivente rimasto nella detenzione dell’immobile, anche in mancanza di prole

comune (ordinanza n. 204 del 2003).

Il rapporto coniugale e il rapporto di fatto configurano comunque situazioni non assimilabili né

parificabili sul piano costituzionale; la convivenza more uxorio, basata sull’affectio quotidiana,

liberamente ed in ogni istante revocabile, presenta caratteristiche così profondamente diverse dal

rapporto coniugale da impedire l’automatica assimilazione delle due situazioni al fine di desumerne

l’esigenza costituzionale di una parificazione di trattamento; le stesse considerazioni valgono in

relazione alla comparazione tra la cessazione della convivenza con prole e la cessazione di quella

senza prole, trattandosi, pure in questo caso, di situazioni del tutto disomogenee, rispetto alle quali

non sono invocabili né il principio di eguaglianza, né le argomentazioni contenute nella sentenza n.

404 del 1988, la cui ratio decidendi per la conservazione dell’abitazione alla residua comunità

familiare si fondò appunto sull’esistenza di prole naturale e quindi sull’esigenza di tutelare un

nucleo familiare.

6.3. Famiglia di fatto e sospensione della prescrizione tra conviventi

Nella sentenza n. 2 del 1998 si afferma che non possono essere estese ai conviventi le regole

sulla sospensione della prescrizione ex art. 2941, n. 1), cod. civ.

Rileva la Corte che l’istituto della prescrizione è finalizzato ad un obiettivo di primaria

importanza, che è quello di garantire certezza dei rapporti giuridici, facendo venir meno il diritto

non esercitato per un determinato periodo di tempo. In tale prospettiva la sospensione della

prescrizione si caratterizza per la peculiarità, costituita dalla tassatività dei casi previsti dalla legge.

Se infatti ogni diritto, salvo specifiche eccezioni, “si estingue per prescrizione, quando il titolare

non lo esercita per il tempo determinato dalla legge” (art. 2934 cod. civ.), ne deriva coerentemente

che non è possibile riconoscere ipotesi di sospensione che non siano espressamente regolate dal

codice civile o da altre norme speciali in materia (v., ad esempio, l’art. 168, secondo comma, della

legge fallimentare). È per questo che l’art. 2941 cod. civ. contiene un elenco ben determinato di

casi, enucleabili in base a rigorosi criteri formali e giustificati dalla particolarità delle situazioni ivi

previste.

Il carattere eccezionale della sospensione della prescrizione non impedisce, tuttavia, alla Corte di

vagliare la legittimità costituzionale di ingiustificate omissioni da parte del legislatore sotto un

diverso profilo ed entro precisi limiti.

Poste queste premesse, la Corte osserva che – anche sotto questo profilo – la questione è

infondata per un duplice ordine di considerazioni: a) perché la famiglia legittima, essendo una realtà

diversa dalla famiglia di fatto, non costituisce un adeguato tertium comparationis; b) perché la

sospensione della prescrizione implica precisi elementi formali e temporali che si ravvisano nel

coniugio e non nella libera convivenza.

La Corte ribadisce che il rapporto coniugale implica, secondo quanto previsto dalla legge, una

serie di potenzialità che non si esauriscono nel mero dato materiale della convivenza accompagnato

dall’affectio pur verificabile anche nel rapporto more uxorio. I diritti e i doveri inerenti al

matrimonio si caratterizzano per la certezza e la disciplina legale del rapporto su cui si fondano; e

da ciò consegue che la non omogeneità delle due situazioni non consente di estendere dall’una

all’altra le regole sulla sospensione della prescrizione.

D’altronde la stessa natura della prescrizione – istituto finalizzato a conferire stabilità a rapporti

patrimoniali – impone per il decorso dei termini l’adozione di parametri di riferimento certi ed

incontestabili, quali possono essere offerti soltanto dall’esistenza o dal venir meno di un vincolo

giuridico quale il matrimonio.

Da quanto esposto deriva che nella norma denunziata non sussiste alcuna violazione dell’art. 3

della Costituzione.

6.4. Famiglia di fatto e diritto successorio

Nella sentenza n. 310 del 1989, la Corte, pur non negando dignità a forme naturali del rapporto

di coppia, riconosce alla famiglia una dignità superiore, con ciò negando una asserita identità di

posizione, mirante ad estendere ai conviventi diritti spettanti ai coniugi: così per le successioni

mortis causa, laddove si impugnavano gli artt. 565 e 582 cod. civ., nella parte in cui non includono

tra i successibili ab intestato, parificandolo al coniuge, il convivente more uxorio.

Per la Corte, la pretesa violazione dell’art. 3 è contraddetta dal rilievo che “la situazione del

convivente more uxorio è nettamente diversa da quella del coniuge” (sentenze n. 45 del 1980, n.

404 del 1988). È vero che l’art. 29 Cost. non nega dignità a forme naturali del rapporto di coppia

diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, ma è altrettanto vero che riconosce alla famiglia

legittima una dignità superiore, in ragione “dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e

corrispettività di diritti e doveri, che nascono soltanto dal matrimonio”.

Ma le norme in esame non meritano censura neppure sotto il profilo del principio di razionalità.

Il riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all’eredità, da un

lato, contrasterebbe con le ragioni del diritto successorio, il quale esige che le categorie dei

successibili siano individuate in base a rapporti giuridici certi e incontestabili (quali i rapporti di

coniugio, di parentela legittima, di adozione, di filiazione naturale riconosciuta o dichiarata),

dall’altro, per le conseguenze che comporterebbe nei rapporti tra i due partners (non solo

l’obbligazione alimentare, ma anche qualcosa di simile all’obbligo di fedeltà), contraddirebbe alla

stessa natura della convivenza, che è un rapporto di fatto per definizione rifuggente da

qualificazioni giuridiche di diritti e obblighi reciproci.

Nemmeno può dirsi violato il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la

persona umana. Ammesso, come pure questa Corte ha ritenuto (sent. n. 237 del 1986), che l’art. 2

Cost. sia riferibile “anche alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di

stabilità”, ciò non implica la garanzia ai conviventi del diritto reciproco di successione mortis

causa, il quale certo non appartiene ai diritti inviolabili dell’uomo, i soli presidiati dall’art. 2.

In ordine alla famiglia naturale la discrezionalità lasciata al legislatore ordinario dall’art. 42,

quarto comma, Cost. per la determinazione delle categorie dei successibili incontra soltanto il

vincolo derivante dalla direttiva di equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi nei rapporti con i

genitori che li hanno riconosciuti o nei confronti dei quali la filiazione è stata dichiarata, sancita

dall’art. 30, terzo comma.

6.5. Famiglia di fatto e previdenza ed assistenza sociale

6.5.1. L’integrazione al minimo del trattamento pensionistico

L’impossibilità di estendere, attraverso un mero giudizio di equivalenza, la disciplina prevista

per la famiglia legittima alla convivenza di fatto è stata chiaramente evidenziata nella sentenza n.

127 del 1997 nel corso dell’esame della disciplina della integrazione al minimo del trattamento

pensionistico, che prevede, se il titolare della pensione è coniugato e non legalmente ed

effettivamente separato, che l’integrazione non spetta a chi possegga redditi propri o cumulati con

quelli del coniuge per un importo superiore da tre a cinque volte, a seconda delle disposizioni che si

sono succedute nel tempo, il trattamento minimo.

Nell’occasione, la Corte ha rilevato che, se l’integrazione della pensione deve assicurare che la

prestazione previdenziale consenta di far fronte alle esigenze di vita minime dell’assicurato e della

sua famiglia, per converso non si può escludere che per valutare le necessità della famiglia, cui si

debba sovvenire con l’intervento solidaristico, si considerino i redditi percepiti da altri componenti

della famiglia medesima.

Con la sentenza n. 127 del 2007, la Corte ha negato fondamento alla questione di legittimità

costituzionale sollevata in riferimento all’art. 31, primo comma, della Costituzione, il quale,

secondo l’ordinanza di rimessione, sarebbe violato dal cumulo dei redditi propri del titolare della

pensione e del coniuge ai fini della integrazione al trattamento minimo, che non agevolerebbe la

formazione della famiglia ma incoraggerebbe le famiglie di fatto e la separazione tra coniugi.

Riconoscendo i diritti della famiglia fondata sul matrimonio, la Costituzione impegna ad

agevolarne la formazione e l’adempimento dei compiti, con misure in ordine alle quali si dispiega la

valutazione discrezionale del legislatore.

Il principio di favore e di sostegno per la famiglia non è contraddetto quando, nell’esercizio di

tale discrezionalità, il legislatore condiziona l’attribuzione di una prestazione solidaristica, quale è

l’integrazione della pensione al trattamento minimo, ai redditi non solo del titolare della pensione

ma anche del coniuge, purché l’importo dei redditi cumulati che escludono l’integrazione sia

ragionevolmente determinato in misura adeguatamente superiore a quello dei redditi propri del

pensionato che determinano analoga esclusione.

Non si può, infine, ritenere di minore favore per la famiglia il cumulo dei redditi dei coniugi, non

legalmente ed effettivamente separati, ai fini dell’integrazione al minimo, cumulo che non opera in

caso di convivenza di fatto o di separazione coniugale. Difatti la mancanza o il diverso atteggiarsi

dell’obbligo giuridico di assistenza diversifica le altre situazioni considerate dal giudice rimettente

dalla condizione della famiglia legittima e non ne consente il raffronto, giacché solo il rapporto

coniugale è caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri

che nascono dal matrimonio.

6.5.2. Il trattamento pensionistico di riversibilità

La mancata inclusione, nel novero dei beneficiari della pensione di reversibilità, del convivente

more uxorio, anche quando la convivenza presenti i caratteri della stabilità e della certezza propri

del vincolo coniugale, non configura disparità di trattamento, rispetto al coniuge beneficiario della

pensione, ancorché separato o divorziato, attesa la diversità delle situazioni confrontate (sentenza

n. 461 del 2000). Questa la conclusione che motiva il rigetto della questione di legittimità

costituzionale degli artt. 13 del regio d.-l. 14 aprile 1939, n. 636, convertito, con modificazioni,

nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, e 9, secondo e terzo comma, della legge 1° dicembre 1970, n.

898, come sostituito dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74, nella parte in cui non includono il

convivente more uxorio fra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità.

Per la Corte, la distinta considerazione costituzionale della convivenza more uxorio e del

rapporto coniugale, affermata dalla costante giurisprudenza, non esclude affatto “la comparabilità

delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie,

ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’invocato art. 3 della Costituzione” (sentenza n. 8

del 1996).

L’aspetto particolare che, nella specie, viene in considerazione è quello previdenziale,

assumendosi dal rimettente la irragionevolezza della disparità di trattamento insita nel riconoscere

la pensione di reversibilità al coniuge, ancorché separato o divorziato, negandola, invece, al

convivente more uxorio pur se il suo rapporto sia dotato di “quegli stessi requisiti di stabilità e

certezza tipici del rapporto di coniugio”.

In contrario, va affermato come gli attuali caratteri della convivenza more uxorio rendano non

irragionevole la scelta, operata dal legislatore in ambito previdenziale, di escludere il convivente dal

novero dei soggetti destinatari della pensione di reversibilità.

La mancata inclusione del convivente fra i soggetti beneficiari del trattamento di reversibilità

rinviene una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale pensione si ricollega

geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che nella convivenza more uxorio per

definizione manca. Con la conseguenza che, anche sotto l’aspetto considerato, deve ribadirsi la

diversità delle situazioni poste a raffronto e, quindi, la non illegittimità di una differenziata

disciplina delle stesse.

Nemmeno può dirsi violato il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la

persona umana.

E ciò in quanto la riferibilità dell’art. 2 della Costituzione “anche alle convivenze di fatto, purché

caratterizzate da un grado accertato di stabilità” non comporta un necessario riconoscimento, al

convivente, del trattamento pensionistico di reversibilità che non appartiene certo ai diritti

inviolabili dell’uomo presidiati dall’art. 2 della Costituzione. Le esigenze solidaristiche evidenziate

dal rimettente possono trovare la sede idonea alla loro realizzazione nell’attività del legislatore e

non già nel giudizio di legittimità costituzionale.

6.5.3. La fruizione di una rendita per infortunio

Alle differenze fra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio si richiama anche la

sentenza n. 86 del 2009, nel dichiarare manifestamente infondato il dubbio di legittimità avente ad

oggetto l’art. 85, primo comma, numero 1, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, censurato, in

riferimento agli artt. 2, 3, 10, 11, 30, 31, 38 e 117 Cost., ove prevede che, in caso di decesso del

lavoratore per infortunio, sia disposta una rendita per il coniuge senza garantire alcunché al

convivente more uxorio: le differenze, secondo la Corte, si legano ai caratteri di «stabilità, certezza,

reciprocità e corrispettitività dei diritti e doveri che nascono soltanto» dal vincolo coniugale. In

particolare, la mancata inclusione del convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari del

trattamento pensionistico di reversibilità trova una sua non irragionevole giustificazione nella

circostanza che il suddetto trattamento si collega geneticamente ad un preesistente rapporto

giuridico che, nel caso considerato, manca.

Di interesse in questa sede è anche la seconda questione trattata nella sentenza in esame, che ha

concluso per l’incostituzionalità dell’art. 85, primo comma, numero 2), del citato d.P.R. ove, nel

disporre che, nel caso di infortunio mortale dell’assicurato, agli orfani di entrambi i genitori spetta il

quaranta per cento della rendita, esclude che essa spetti nella stessa misura anche all’orfano di un

solo genitore naturale: secondo la Corte, ciò «introduce una discriminazione fra figli naturali e figli

legittimi che si pone in contrasto con gli artt. 3 e 30 Cost.» in quanto, mentre la morte del coniuge

per infortunio comporta, in presenza di figli legittimi, l’attribuzione della rendita al superstite nella

misura del 50% e a ciascuno dei figli del 20%, la morte del convivente non comporta l’attribuzione

al genitore superstite di alcuna rendita per infortunio. Pertanto, «la discriminazione deriva dal fatto

che solo i figli legittimi, e non anche quelli naturali, possono godere di quel plus di assistenza che

deriva dall’attribuzione al genitore superstite del cinquanta per cento della rendita».

6.6. Famiglia di fatto e sistema penale

6.6.1. Famiglia di fatto e processo penale

In ambito processual-penalistico, la Corte nega, con la sentenza n. 6 del 1977, la possibilità di

estendere al convivente more uxorio la facoltà di astenersi dal testimoniare, riconosciuta, invece, ai

prossimi congiunti. Nondimeno, viene lasciata al prudente apprezzamento del legislatore la facoltà

di valutare la necessità di approntare una disciplina per siffatta situazione, per più versi meritevole

di tutela.

Alla Corte è sostanzialmente chiesto di dire se sia o meno conforme all’art. 3 della Costituzione

la norma dell’art. 350 del codice di procedura penale nella parte in cui non consente che possa

astenersi dal deporre, in aggiunta ai prossimi congiunti di cui all’art. 307, ultimo comma, del codice

penale, chi, nei confronti dell’imputato o di uno dei coimputati del medesimo reato, si trovi in una

situazione affettiva di natura familiare, basata sulla convivenza e animata da intenti di reciproca

assistenza e da propositi educativi della prole comune, di fatto ed oggettivamente identica a quelle

disciplinate nel citato articolo del codice penale.

La situazione che, si assume, sarebbe stata omessa nella previsione di cui alla normativa

denunciata, sarebbe propria di chi (come l’imputata nel processo a quo, di falsa testimonianza) sia

legato ad altro soggetto di sesso diverso da una relazione sentimentale e da rapporti sessuali (con la

nascita di un figlio dall’unione), ed essa sarebbe identica, di fatto ed oggettivamente, a quella che

caratterizza il rapporto coniugale.

La relazione è instaurata, quindi, tra il coniuge e l’unione di fatto tra le dette persone.

Per la Corte non si può ritenere, facendo riferimento alla ratio dell’art. 350 del codice di

procedura penale, che gli interessi, i quali stanno a base delle situazioni ivi previste, siano ricorrenti

anche in quelle omesse, con la conseguenza, che codesto elemento o profilo comune possa bastare

perché tutte le anzidette situazioni (previste e omesse) debbano essere considerate identiche o

perché le situazioni omesse siano assimilate a quelle previste.

A tal riguardo, si tiene preliminarmente presente che il legislatore ha accordato ai prossimi

congiunti la facoltà di astenersi dal deporre nel processo penale, perché ha ritenuto meritevole di

tutela il sentimento familiare (latamente inteso) e, nel possibile contrasto tra l’interesse pubblico,

della giustizia, che su tutti gravi il dovere di deporre, e l’interesse privato, ancorato al detto

sentimento, che i prossimi congiunti dell’imputato, non siano travagliati dal conflitto psicologico tra

il dover deporre e dire la verità ed il desiderio o la volontà di non deporre per non danneggiare

l’imputato, ha altresì ritenuto prevalente l’interesse privato e non in generale ed in modo assoluto

ma se ed in quanto l’interessato (e cioè il teste) reputi di non dovere o potere superare quel conflitto,

ed a tale fine non ha imposto un divieto di testimoniare. Ciò posto, va considerato che per i prossimi

congiunti di cui all’ultimo comma dell’art. 307 del codice penale, nell’articolo 350 del codice di

procedura penale si ha una tutela per categorie di soggetti, individuate sulla base di tipici rapporti

giuridici (coniugio, parentela e affinità), presupponendosi che – secondo l’id quod plerumque

accidit – tali soggetti sono portatori dei detti interessi e perseguono quei determinati scopi; e che a

proposito delle situazioni che sarebbero state omesse, l’esistenza degli stessi interessi e il

perseguimento degli stessi scopi si presentano come dati del tutto eventuali e comunque non

necessari ed in ogni caso da dimostrare.

Che in concreto nelle situazioni previste ed in quelle omesse possano anche ricorrere eguali

interessi, in sé e finalisticamente considerati, non rileva. Nei due casi, la loro presenza è

rispettivamente presunta o da dimostrare. Ciò comporta che, nel processo, solo nel primo di detti

casi il giudice possa con immediatezza e sicurezza accertare se il soggetto chiamato a deporre debba

essere avvertito, a sensi del terzo comma dell’art. 350 del codice di procedura penale, della facoltà

di astenersi dal deporre. Per accertare, nel secondo dei due casi, se la situazione (ivi considerata)

presenti i caratteri per cui in fatto possa essere accostata al rapporto di coniugio, e se in essa in

concreto ricorra il sopraddetto interesse privato, con il relativo sentimento familiare, occorre,

invece, una indagine che può anche non essere breve né facile. Ed allora per tale caso affiora in

modo prevalente l’esigenza pubblicistica che il corso del processo non subisca ingiustificate remore

in contrasto con il carattere inquisitorio e con i principi della oralità e della concentrazione.

De iure condendo, la normale presenza di quegli interessi, però, non dovrebbe rimanere senza

una tutela per le dette situazioni omesse ed in particolare per quella che ricorre nella specie. E

sarebbe, quindi, compito del legislatore di valutare, per detti interessi, l’importanza e la diffusione.

6.6.2. Famiglia di fatto e diritto penale sostanziale

Per la Corte, nella sentenza n. 237 del 1986, un consolidato rapporto di fatto, non appare

costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle

formazioni sociali e alle conseguenti manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.). Tanto rappresenta

una apertura esplicita nella motivazione relativa alla fattispecie che segue.

Agli effetti della legge penale, l’art. 307, comma quarto, del relativo codice fornisce

l’elencazione tassativa dei prossimi congiunti e vi ricomprende il coniuge. Questi, pertanto, non è

punibile, giusta il successivo art. 384, allorché costretto a salvare da grave ed inevitabile nocumento

l’altro coniuge, così incorrendo con la sua condotta, tra le altre ipotesi contemplate, nel reato di

favoreggiamento personale.

La Corte dirime il dubbio di costituzionalità di tale disposizione fondato sul rilievo secondo cui

l’omesso inserimento nella elencazione dei prossimi congiunti del convivente more uxorio alla pari

del coniuge mostrerebbe il non volersi tener conto, nella realtà sociale e nell’ordinamento, dei

vincoli di solidarietà pur insiti nella famiglia di fatto, con ciò violando gli artt. 3 e art. 29, primo

comma, della Costituzione.

Argomenta la Corte che l’art. 29 riguarda, infatti, la famiglia fondata sul matrimonio, sì che

rimane estraneo al contenuto delle garanzie ivi offerte ogni altro aggregato pur socialmente

apprezzabile, divergente tuttavia dal modello che si radica nel rapporto coniugale.

In effetti, un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante

quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle

conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.). Tanto più allorché la presenza di

prole comporta il coinvolgimento attuativo d’altri principi, pur costituzionalmente apprezzati:

mantenimento, istruzione, educazione.

In altre parole, si è in presenza di interessi suscettibili di tutela, in parte positivamente definiti, in

parte da definire nei possibili contenuti.

Comunque, per le basi di fondata affezione che li saldano e gli aspetti di solidarietà che ne

conseguono, siffatti interessi appaiono meritevoli indubbiamente, nel tessuto delle realtà sociali

odierne, di compiuta obiettiva valutazione.

Nella fattispecie, tuttavia, l’adeguatezza in concreto di misure protettive d’ordine positivo

scaturenti dalla valorizzazione di legami affettivi esistenti di fatto trascende – e proprio per

l’esigenza di una complessa chiarezza normativa – i ristretti termini del caso, rivolto al mero intento

di parificare il binomio coniuge/convivente in presenza dei reati richiamati dall’art. 384 c.p.

Più incisivamente, va osservato che l’impugnato art. 307, comma quarto racchiude la nozione

positiva di prossimo congiunto con una portata di integrazione generale nel sistema legislativo

penale: la prospettata parificazione della convivenza e del coniugio, varrebbe, adunque, a

coinvolgere automaticamente, non solo le altre ipotesi di reato contenute nell’art. 384 pure

impugnato, ma – più ampiamente – altri istituti di ordine processuale penale, quali la ricusazione

del giudice (art. 64, nn. 3 e 4 cod. proc. pen.); la facoltà di astensione dal deporre (art. 350) già

esaminata dalla Corte nella ricordata sentenza n. 6 del 1977; la titolarità nella richiesta di revisione

delle sentenze di condanna e di connesso esercizio dei relativi diritti (artt. 556, 564) ovvero nella

presentazione di domanda di grazia (art. 595).

D’altronde, una volta parificato, in ipotesi, il rapporto di fatto a quello del coniugio, non sarebbe

dato sottrarsi, contestualmente, alla necessità di regolare la posizione dell’eventuale coniuge

separato, sia per il caso di coerenza d’intenti che di conflittualità con il convivente.

Ma su di una regolamentazione esaustiva di tal sorta, necessariamente involgente, senz’altro,

scelte e soluzioni di natura discrezionale, la Corte non avrebbe facoltà di pronunciarsi senza

invadere quelle competenze che spettano al Parlamento, nel razionale esercizio di un potere che il

solo legislatore è chiamato ad esercitare; per il che la Corte rinnova la sollecitazione contenuta nella

sentenza n. 6 del 1977.

Sul tema la Corte ritorna nella sentenza n. 8 del 1996, in occasione del dubbio di costituzionalità

riguardante l’art. 384, primo comma, del codice penale.

Per quanto attiene alla censura sollevata in riferimento all’art. 29 della Costituzione, a ragione

l’ordinanza del giudice a quo sottolinea la notevole diffusione della convivenza di fatto, quale

rapporto tra uomo e donna ormai entrato nell’uso e comunemente accettato, accanto a quello

fondato sul vincolo coniugale. Ma questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui

la giurisprudenza costituzionale non è indifferente, non autorizza peraltro la perdita dei contorni

caratteristici delle due figure in una visione unificante come quella che risulta dalla radicale ed

eccessiva affermazione, contenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo la quale la convivenza di

fatto rivestirebbe oggettivamente connotazioni identiche a quelle che scaturiscono dal rapporto

matrimoniale e dunque le due situazioni in nulla differirebbero, se non per il dato estrinseco della

sanzione formale del vincolo. La Corte, al contrario, in diverse decisioni, ha posto in luce la netta

diversità della convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante

revocabile – di ciascuna delle parti rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e

certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio.

Ma ciò che nel giudizio di legittimità costituzionale più conta è che la Costituzione stessa ha dato

delle due situazioni una valutazione differenziatrice. E la valutazione costituzionale del rapporto di

convivenza già elaborata nella sentenza n. 237 del 1986 rispetto al vincolo coniugale non può essere

contraddetta da opposte visioni dell’interprete. I punti di vista di principio assunti dalla Costituzione

valgono innanzitutto come criteri vincolanti di comprensione e classificazione, e quindi di

assimilazione o differenziazione dei fatti sociali giuridicamente rilevanti.

La pretesa equiparazione della convivenza di fatto al rapporto di coniugio, nel segno della

riconduzione di tutte e due le situazioni sotto la medesima protezione dell’art. 29 della Costituzione,

risulta così infondata.

La distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, come tali,

non esclude affatto, tuttavia, la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una

e dell’altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma

dell’invocato art. 3 della Costituzione: un controllo, già in passato esercitato numerose volte dalla

Corte costituzionale, il quale, senza intaccare l’essenziale diversità delle due situazioni, ha tuttavia

condotto talora a censurare l’ingiustificata disparità di trattamento (a danno ora della famiglia di

fatto, ora della famiglia legittima) delle analoghe condizioni di vita che derivano dalla convivenza e

dal coniugio.

Nella prospettiva della ragionevolezza delle determinazioni legislative, il giudice a quo fonda la

sua richiesta sulla ratio comune alle cause di non punibilità previste dall’art. 384 del codice penale

– in riferimento a ciascuno dei titoli di reato ivi elencati – a favore dei prossimi congiunti, ratio di

tutela del legame di solidarietà tra i componenti il nucleo familiare e del sentimento che li unisce.

Poiché tale sentimento e tale legame possono valere con la stessa intensità tanto per i componenti

della famiglia legittima quanto per quelli della famiglia di fatto, non vi sarebbe alcun ragionevole

motivo – ad avviso del rimettente – per discriminare questi ultimi dalla protezione accordata ai

primi.

Ma neppure sotto questo profilo – che pur si basa innegabilmente su un dato di fatto

incontestabile – la questione può essere accolta. Essa infatti mira, come risultato, a una decisione

additiva che manifestamente eccede i poteri della Corte costituzionale a danno di quelli riservati al

legislatore.

Innanzitutto, l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a

norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra

ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che

viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto

da questa Corte appartenere primariamente al legislatore.

Nel caso di specie, si tratterebbe di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti

contro l’amministrazione della giustizia, e quindi la garanzia di efficacia della funzione giudiziaria

penale, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro. Ma non è detto che i beni

di quest’ultima natura debbano avere esattamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della

famiglia di fatto e della famiglia legittima. Per la famiglia legittima, non esiste soltanto un’esigenza

di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali. A questa

esigenza, può sommarsi quella di tutela dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento

essenziale e caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio,

mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano. Posto che la posizione del

convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque coincidere con quella del

coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi e solidaristici. Ciò legittima, nel

settore dell’ordinamento penale che qui interessa, soluzioni legislative differenziate, della cui

possibile varietà dà abbondante dimostrazione la comparazione tra le legislazioni di numerosi Paesi.

In più, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità che assumesse in ipotesi la pretesa

identità della posizione spirituale del convivente e del coniuge, rispetto all’altro convivente o

all’altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione delle due

situazioni che - come si è detto - non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione,

determinerebbe ricadute normative consequenziali di portata generale che trascendono l’ambito del

giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

Non ci sarebbe motivo, infatti, per limitare l’equiparazione del convivente al coniuge,

nell’ambito del primo comma dell’art. 384 del codice penale, al solo caso del favoreggiamento

personale, anche perché una tale limitazione determinerebbe di per sé ulteriori problemi di

costituzionalità, sotto il profilo dell’irrazionalità, all’interno delle stesse fattispecie previste dal

medesimo articolo. Ma soprattutto si dovrebbe aprire il problema dell’equiparazione in tutti gli altri

numerosi casi di previsioni legislative, talora anche in malam partem, che danno rilievo, ai più

diversi fini e nei più diversi campi del diritto, all’esistenza di rapporti di comunanza di vita di tipo

familiare.

Sotto il profilo dell’irragionevolezza, la dedotta questione di costituzionalità è dunque

inammissibile.

Con la sentenza n. 140 del 2009, la Corte è tornata ancora sulla compatibilità con la Costituzione

dell’art. 384, comma 1, cod. pen., ribadendo le posizioni già espresse. Nel concludere per la non

fondatezza, i giudici hanno messo in evidenza le differenze esistenti fra i due istituti, valutati in

maniera diversa dalla stessa Costituzione che, all’art. 29, riconosce il matrimonio quale «elemento

fondante della famiglia come società naturale», mentre dà rilievo costituzionale alla convivenza

solo «nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali garantita

dall’art. 2».

Le diversità delle situazioni giustificano che la legge possa riservare in linea di principio alle due

situazioni trattamenti non omogenei. Infatti, se è vero che, in relazione ad ipotesi particolari, si

possono riscontrare tra i due istituti delle caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una

identica disciplina, che la Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza, nella specie, però,

il rimettente omette di verificare se i risultati, cui vorrebbe pervenire con l’assimilazione che egli

postula tra convivente e coniuge sotto il profilo degli stabili vincoli affettivi, siano compatibili con i

poteri che alla Corte competono in relazione alla discrezionalità del legislatore. In effetti,

l’estensione delle cause di non punibilità comporta un giudizio di ponderazione a soluzione aperta

tra ragioni diverse e confliggenti che appartiene in primis al legislatore.

Fattispecie del tutto diversa è alla base della questione di legittimità costituzionale, in riferimento

agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dell’art. 649, n. 1, del codice penale “nella parte in cui non

prevede la non punibilità di chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dal Titolo XIII cod. pen. in

danno del convivente more uxorio” (sentenza. n. 423 del 1988).

La non punibilità, prevista dalla norma impugnata, si fonda sulla presunzione che, ove i coniugi

non siano legalmente separati, sussista una comunanza di interessi che assorbe il fatto delittuoso.

Tant’è che nella ipotesi di separazione legale la punibilità ricorre, sia pure a querela della persona

offesa. Siffatto regime palesa che il legislatore rimette alla volontà del coniuge legalmente separato

l’applicazione della legge penale, laddove esclude che questa possa intervenire in costanza della

convivenza coniugale.

Fattispecie tutt’affatto diversa è quella della convivenza more uxorio, per sua natura fondata

sulla affectio quotidiana liberamente e in ogni istante revocabile di ciascuna delle parti.

Nel caso che ha dato origine alla questione di costituzionalità, la denuncia-querela della persona

offesa, nonché la sottrazione di mobili suppellettili ed elettrodomestici dall’abitazione comune ad

opera della convivente, che li ha trasportati in altro alloggio ove si è stabilita con il figlio nato dal

rapporto con il querelante, sono atti concludenti che attestano la revocazione dell’affectio e dunque

il venir meno della convivenza more uxorio.

Non sono pertanto ravvisabili nella norma impugnata profili di contrasto con i valori

costituzionali contenuti negli artt. 2 e 3 della Costituzione.

Nella sentenza n. 352 del 2000, la Corte respinge il dubbio di legittimità costituzionale, in

riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 649 cod. pen., nella parte in cui non stabilisce la non

punibilità dei fatti previsti dal titolo XIII del libro II del codice penale commessi in danno del

convivente more uxorio.

La Corte ribadisce che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale, e a questo non

meccanicamente assimilabile al fine di desumerne l’esigenza costituzionale di una parificazione di

trattamento. In tale prospettiva, non può ritenersi dunque irragionevole ed arbitrario che –

particolarmente nella disciplina di cause di non punibilità, quale quella in esame, basate sul

“bilanciamento” tra contrapposti interessi (quello alla repressione degli illeciti penali e quello del

valore dell’unità della famiglia, che potrebbe essere pregiudicato dalla repressione) – il legislatore

adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell’art. 29 della

Costituzione, e per la convivenza more uxorio: venendo in rilievo, con riferimento alla prima, a

differenza che rispetto alla seconda, non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive

individuali, ma anche quella della protezione dell’“istituzione familiare”, basata sulla stabilità dei

rapporti, di fronte alla quale soltanto si giustifica l’affievolimento della tutela del singolo

componente, ravvisata da alcuni nell’art. 649 c.p. Di qui l’impossibilità di qualificare come illogica

e “discriminatoria” la mancata estensione del medesimo regime ad una situazione di fatto quale la

convivenza more uxorio.

7. Figli legittimi e figli naturali

7.1. Il diritto di procreare ed il riconoscimento dei figli naturali

Di particolare rilievo sono le affermazioni contenute nella sentenza n. 332 del 2000, che

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, punto 3, della legge 29 gennaio 1942, n. 64, nella

parte in cui include, tra i requisiti necessari per essere reclutati nel Corpo della Guardia di finanza,

l’essere senza prole.

Preliminarmente, la Corte non condivide la doglianza secondo cui la disposizione denunciata

sarebbe priva di ragionevole giustificazione, giacché il riconoscimento di un figlio naturale, da un

lato, non imporrebbe “necessariamente anche vincoli di convivenza del nucleo familiare”;

dall’altro, determinerebbe “minori obblighi rispetto alla paternità nell’ambito del matrimonio”,

compatibili con la frequenza del corso di addestramento per allievi finanzieri.

Al riguardo, la Corte sottolinea che la giurisprudenza costituzionale ha censurato il tradizionale

disfavore verso la filiazione naturale e ha sottolineato la pienezza della responsabilità e dei doveri

che, in base alla Costituzione, derivano per il genitore dal riconoscimento di un figlio naturale.

Ancora di recente, la Corte ha chiarito che la posizione giuridica dei genitori nei rapporti tra di loro,

in relazione al vincolo coniugale, non può determinare una condizione deteriore per i figli, perché

quell’insieme di regole, che costituiscono l’essenza del rapporto di filiazione e che si sostanziano

negli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole, trova fondamento nell’art.

30 della Costituzione, che richiama i genitori alla loro responsabilità; in altri termini – anche nello

spirito della riforma del diritto di famiglia del 1975 – l’esistenza del vincolo sorto tra i genitori non

costituisce più elemento di discrimine nei rapporti tra genitori e figli, legittimi e naturali

riconosciuti, identico essendo il contenuto dei doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti

degli altri (sentenza n. 166 del 1998).

Nondimeno, il contrasto della disciplina impugnata con gli artt. 2, 3, 30 e 31 della Costituzione

sussiste, non potendosi ravvisare, neppure nella delicata fase del reclutamento e dell’addestramento,

un’esigenza dell’organizzazione militare così preminente da giustificare una limitazione del diritto

di procreare, o di diventare genitore, sia pure prevista ai limitati fini dell’arruolamento e

dell’ammissione ai reparti di istruzione. Una così grave interferenza nella sfera privata e familiare

della persona – suscettibile di protrarsi eventualmente anche oltre il periodo di formazione del

militare, durante i primi anni dopo l’assunzione del servizio permanente – non può, sul piano dei

principi costituzionali, ritenersi giustificata dall’intensità e dall’esigenza di tendenziale esclusività

del rapporto di dedizione che deve legare il militare in fase di istruzione al corpo di appartenenza,

dovendo la necessaria continuità nella frequenza dei corsi di addestramento trovare garanzia in

regole e rimedi diversi dal divieto di avere prole.

Un divieto siffatto si pone in contrasto con i fondamentali diritti della persona, sia come singolo,

sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, tutelando l’art. 2 della Costituzione

l’integrità della sfera personale della stessa e la sua libertà di autodeterminarsi nella vita privata.

Ripetutamente, del resto, si è chiarito, da un lato, che “la Costituzione repubblicana supera

radicalmente la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare e riconduce anche quest’ultimo

nell’ambito del generale ordinamento statale, particolarmente rispettoso e garante dei diritti

sostanziali e processuali di tutti i cittadini” (sentenza n. 278 del 1987); dall’altro, che la garanzia dei

diritti fondamentali di cui sono titolari i singoli “cittadini militari” non recede di fronte alle esigenze

della struttura militare (da ultimo, sentenza n. 449 del 1999).

Né si potrebbe giustificare la disciplina in esame in base all’art. 51 della Costituzione, che affida

alla legge la determinazione dei requisiti per l’accesso ai pubblici uffici.

La mancanza di prole non può costituire requisito attitudinario, traducendosi invece la sua

previsione in una indebita limitazione dei diritti della persona.

7.2. La tutela dei figli naturali

7.2.1. In generale

Fin dalle prime pronunce, appare evidente l’esigenza della Corte di assicurare alla filiazione non

legittima ogni tutela giuridica personale e patrimoniale.

Una risalente pronuncia (sentenza n. 7 del 1963) riguarda la legittimità costituzionale delle

disposizioni transitorie del Codice civile contenute nel primo comma dell’art. 123, in quanto

riguardo ai figli illegittimi (e per quelli adulterini, nei limiti indicati nell’art. 278 del Codice) nati

anteriormente all’entrata in vigore del primo libro (1 luglio 1939) ammettono le indagini, per la

dichiarazione giudiziale della paternità, soltanto se ricorrono le condizioni previste dall’art. 189 del

Codice del 1865 (ratto o stupro violento). Ma poiché, in base all’art. 269 del Codice vigente, la

proponibilità dell’azione è invece estesa ai quattro casi ivi indicati, è palese che, nel passaggio dalla

precedente alla nuova legislazione, si è stabilito un trattamento diverso rispetto alla stessa categoria

di persone, ricollegato al fatto che la data della nascita delle medesime preceda, o segua, la data di

entrata in vigore del Codice.

Nella specie, occorre esaminare se le disposizioni impugnate, intese appunto a regolare, in via

transitoria, la materia relativa alle indagini sulla paternità, rispettino o meno il principio

fondamentale dell’eguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione. Principio che, come è noto,

secondo la costante giurisprudenza della Corte, consente bensì al legislatore ordinario di emanare

norme differenziate riguardo a situazioni obiettivamente diverse, purché queste norme rispondano

inoltre all’esigenza che la disparità di trattamento sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali

razionalmente ne giustifichino l’adozione.

Quest’ultima esigenza, peraltro, non appare soddisfatta dalle disposizioni impugnate, se si

tengono presenti, com’è necessario, non soltanto le ragioni che hanno determinato le nuove

provvidenze a favore della filiazione illegittima, ma, in special modo, i criteri di maggior larghezza

adottati dallo stesso legislatore nel regolarne la retroattività.

Com’è noto, il Codice vigente ha esteso i casi in cui è ammesso il riconoscimento,

consentendolo, con qualche limitazione, anche nei riguardi dei figli incestuosi ed adulterini; ed ha

pure allargato i limiti per la proponibilità dell’azione circa le indagini sulla paternità (artt. 269 e

278).

Ora, le disposizioni transitorie (art. 122) hanno attribuito piena retroattività a quelle relative al

riconoscimento, perché (come si legge nella relazione del Guardasigilli) “una soluzione diversa

avrebbe frustrato quasi completamente gli scopi della riforma”.

Ed in coerenza con lo spirito della riforma (come pure risulta dalla relazione) hanno inoltre

convalidato, in applicazione dello jus superveniens, gli atti di riconoscimento compiuti nel vigore

della precedente legislazione, quando ricorressero i casi preveduti dalla successiva.

Da queste osservazioni si può trarre agevolmente l’illazione che le provvidenze, stabilite nel

Codice vigente, a favore della filiazione illegittima, da tempo e generalmente auspicate,

assumevano, nell’intendimento del legislatore, tale rilevanza da rendere necessaria, nei casi ora

ricordati, l’efficacia retroattiva delle innovazioni anzidette. Onde non può fondatamente

disconoscersi che la limitazione circa le indagini sulla paternità, operata in via transitoria nel primo

comma dell’art. 123, e la disparità di trattamento che ne è derivata, costituiscono una deviazione da

quella finalità che il legislatore ha espressamente dichiarato di voler perseguire. Deviazione che non

trova congrua giustificazione obiettiva, rispetto alla logica del sistema, nella circostanza che il figlio

naturale sia nato prima o dopo il 1° luglio 1939. Giacché la discriminazione viene ad essere

ricollegata ad un fatto naturale (la nascita del figlio) di carattere analogo a quello cui lo stesso

legislatore, pure in altre provvidenze a favore dei figli naturali, come si è già accennato, non ha

ritenuto di attribuire alcuna efficacia per escludere, o limitare, la retroattività delle nuove

disposizioni.

L’accennata discriminazione, pertanto, nei riguardi della stessa categoria di soggetti, si appalesa

in contrasto con i principi sanciti nel primo comma dell’art. 3 della Costituzione.

È da aggiungere che le disposizioni impugnate non sono neppure in armonia con il terzo comma

dell’art. 30 della Carta costituzionale. Il quale, come si desume dall’ampia discussione presso

l’Assemblea costituente, risponde all’esigenza di un orientamento legislativo, a favore della

filiazione illegittima, inteso ad eliminare posizioni giuridicamente e socialmente deteriori,

compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima.

Ora le disposizioni impugnate vengono, in definitiva, a sminuire questa tutela nei riguardi dei

figli naturali nati prima del 1° luglio 1939, in quanto apportano ulteriori e non giustificate

limitazioni a quelle che il Codice vigente, circa le indagini sulla paternità, già prevede in relazione

all’ultimo comma del ricordato art. 30.

Una interpretazione restrittiva sulla parificazione si avverte però sempre nella giurisprudenza più

risalente, laddove si afferma – sentenza n. 54 del 1960 – che il primo comma dell’art. 30 si

riferisce a rapporti che riguardano il figlio naturale ed il suo genitore, cioè alla posizione di quello

in un ambiente che non va oltre la persona di questo, e non tocca la famiglia in senso lato; ma ciò è

dovuto solo al fatto che il primo comma, a differenza dal terzo, mira a imporre certi obblighi precisi

i quali non possono incombere se non al genitore naturale, dimodoché non avrebbe avuto senso

rifarsi agli ascendenti o ai collaterali di lui. Altrettanto si dica dell’art. 29, primo comma, secondo il

quale la famiglia legittima è una “società naturale fondata sul matrimonio”: questo articolo non

consente di affermare che la famiglia legittima, a cui si riferisce il citato art. 30, terzo comma, sia

quella formata col matrimonio del padre naturale e non anche quella che si sia costituita col

matrimonio degli ascendenti di lui.

Quel che si desume sia dal testo dello stesso art. 30, terzo comma, sia dal travaglio che portò,

nell’Assemblea costituente, alla sua formulazione definitiva, è soltanto un innegabile favore per la

prole naturale. Questo favore, tuttavia, non si poté concretare in una disciplina precisa da contenere

in un articolo, tanto più in quanto un’ampia tutela del figlio naturale poteva e potrebbe anche

portare a una profonda revisione di molte norme, e perfino del sistema familiare e successorio, del

Codice. Ad avviso della Corte questa è la ragione per cui il terzo comma dell’art. 30 si apre con un

accenno al legislatore ordinario e contiene per così dire una riserva che solo la legge potrà

sciogliere: sarà il legislatore a stabilire fino a che punto la maggiore tutela del figlio naturale sia,

caso per caso, cioè nella eventuale determinazione di uno status e delle conseguenze di esso anche

in campo successorio, compatibile coi diritti dei componenti la famiglia legittima.

7.2.2. I figli incestuosi

Una irrazionale discriminazione nei confronti dei figli incestuosi, in contrasto con il divieto di

differenziazioni basate su condizioni personali e sociali e con i doveri dei genitori al mantenimento,

all’istruzione e all’educazione dei propri figli, viene rinvenuta, con la sentenza n. 494 del 2002,

nell’art. 278, primo comma, del codice civile, nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale

della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251,

primo comma, del codice civile, il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato.

Rileva la Corte che la disciplina della condizione dei figli incestuosi, nati cioè da rapporti

sessuali tra soggetti appartenenti alla stessa cerchia familiare, come definita dall’art. 251, primo

comma, del codice civile (il matrimonio tra i quali è vietato dall’art. 87 del codice medesimo), è ciò

che residua del tradizionale orientamento di radicale disfavore nei confronti dei figli nati fuori del

matrimonio. Da qui, il divieto di attribuire al loro legame biologico con i genitori naturali un valore

giuridico formale, tramite riconoscimento o dichiarazione della pubblica autorità.

L’ art. 251 stabilisce che «i figli nati da persone, tra le quali esiste un vincolo di parentela anche

soltanto naturale, in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un

vincolo di affinità in linea retta, non possono essere riconosciuti dai loro genitori». La stessa cosa,

in forza dell’art. 269, vale per la dichiarazione giudiziale. In conseguenza, le indagini sulla paternità

o sulla maternità dei figli nati dalle persone anzidette non sono ammesse (art. 278, primo comma,

del codice civile). Questi divieti non operano soltanto in due casi, relativi a situazioni ed eventi che

riguardano i rapporti tra genitori, sui quali comunque il figlio nulla può: l’ignoranza in cui quelli, al

momento del concepimento, versassero circa il vincolo esistente tra loro (nel caso in cui uno solo

dei genitori fosse in buona fede, solo questi può effettuare il riconoscimento; ipotesi cui è assimilato

il caso di chi ha subìto violenza sessuale) e, ovviamente, la dichiarata nullità del matrimonio da cui

il rapporto di affinità sarebbe derivato.

I figli nati fuori del matrimonio indicati nell’art. 251, primo comma, del codice civile, salvi i

limitati casi ora menzionati, sono perciò privati della possibilità di assumere uno status filiationis.

Essi non mancano totalmente di una tutela, essendo loro riconosciuta l’azione nei confronti dei

genitori naturali per ottenere il mantenimento, l’istruzione e l’educazione o, se maggiorenni in stato

di bisogno, per ottenere gli alimenti (art. 279, primo comma, del codice civile). In conseguenza del

divieto di riconoscimento e di dichiarazione, però, nei loro confronti non può operare l’art. 261 del

codice civile, secondo il quale il riconoscimento e (per effetto del primo comma dell’art. 277) la

dichiarazione comportano da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che

egli ha nei confronti dei figli legittimi, compresa la potestà prevista dall’art. 317-bis; non può

operare l’art. 262, secondo il quale il figlio naturale riconosciuto o dichiarato assume il cognome

del genitore; non possono operare infine le disposizioni relative alla successione dei figli naturali,

che si applicano loro solo quando la filiazione sia stata riconosciuta o giudizialmente dichiarata (art.

573 del codice civile), essendo previsto invece che ai figli naturali aventi diritto al mantenimento,

all’istruzione e alla educazione, a norma del ricordato art. 279 del codice civile, spetti un assegno

vitalizio (artt. 580 e 594 cod. civ.).

Dalla disciplina testé indicata deriva, in danno della prole nata da genitori legati dai rapporti

familiari indicati dall’art. 251 del codice civile, una capitis deminutio perpetua e irrimediabile,

come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti; una discriminazione compendiata,

anche nel lessico del legislatore, nell’espressione «figli incestuosi». La violazione del diritto a uno

status filiationis, riconducibile all’art. 2 della Costituzione, e del principio costituzionale di

uguaglianza, come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni

legislative basate su condizioni personali e sociali, è evidente e non richiede parole di spiegazione.

Nessuna discrezionalità delle scelte legislative, con riferimento al quarto comma dell’art. 30 della

Costituzione, che abilita la legge a dettare norme e limiti per la ricerca della paternità, può essere

invocata in contrario: non è il principio di uguaglianza a dover cedere di fronte alla discrezionalità

del legislatore, ma l’opposto.

Si aggiunge la seguente annotazione, circa le conseguenze irragionevoli della normativa vigente.

Il figlio che intenda richiedere l’adempimento nei propri confronti dei doveri «naturali» che

gravano sui suoi genitori - il mantenimento, l’istruzione e l’educazione - dovrebbe esercitare

un’azione, quella prevista dall’art. 279 ricordato, che oggi (dopo la riforma del diritto di famiglia

del 1975 che ha reso riconoscibili e dichiarabili giudizialmente tutti gli altri figli nati fuori del

matrimonio) è riferibile solo ai «figli incestuosi», in quanto solo rispetto ad essi «non può proporsi

l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità» (ancorché la giurisprudenza,

talora, con interpretazione antiletterale, abbia riconosciuto l’azione in quella norma prevista anche

ai figli naturali riconoscibili ma non riconosciuti o dichiarati). Di conseguenza, il figlio nato da un

rapporto tra le persone indicate nell’art. 251, per ottenere l’adempimento dei doveri di

mantenimento, istruzione ed educazione nei suoi confronti, si trova nella necessità di proclamare

egli stesso la propria condizione di discriminato; a meno che, comprensibilmente, non preferisca

invece rinunciare a ciò che a lui, come a ogni figlio, è dovuto, con la conseguenza paradossale,

oltretutto, che i genitori - essi sì «incestuosi» - andrebbero totalmente indenni da quella

responsabilità alla quale, con la procreazione, sono soggetti, secondo ciò che è sancito come

principio, valido rispetto a ogni genere di prole, dall’art. 30, primo comma, della Costituzione.

L’attribuzione dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale ai figli

di genitori incestuosi, alla stessa stregua di quanto spetta ai figli naturali riconoscibili, è conforme

alla classificazione operata dalla Costituzione. Questa, come avviene nella stragrande maggioranza

degli ordinamenti oggi vigenti, conosce, all’art. 30, primo e terzo comma, solo due categorie di

figli: quelli nati entro e quelli nati fuori del matrimonio, senza ulteriori distinzioni tra questi ultimi.

La possibilità di prevedere sub-distinzioni, entro la seconda categoria, è stata tuttavia sostenuta sulla

base di due argomenti: (a) l’ordine pubblico familiare e (b) i diritti dei membri della famiglia

legittima.

Come misura di ordine pubblico familiare, la discriminazione dei figli di genitori incestuosi

varrebbe a tutela della concezione costituzionale stessa della famiglia, esigente che fatti tanto gravi

come quelli di endogamia, dalla «coscienza sociale» considerati alla stregua di attentati all’ordine

naturale dei rapporti interpersonali e, a certe condizioni, puniti come reato, restino fuori dell’ordine

giuridico e non possano determinare l’attribuzione di status filiationis.

La Costituzione contiene bensì una clausola generale di riconoscimento dei diritti della famiglia,

come società naturale fondata sul matrimonio (art. 29, primo comma), e ciò consente di esigere

comportamenti conformi e di prevedere conseguenze e misure, anche penali, nei confronti degli

autori di condotte che della famiglia compromettano l’identità, ciò che avviene, per l’appunto, nel

caso dell’incesto. Ma l’adozione di misure sanzionatorie al di là di questa cerchia, che coinvolga

soggetti totalmente privi di responsabilità - come sono i figli di genitori incestuosi, meri portatori

delle conseguenze del comportamento dei loro genitori e designati dalla sorte a essere

involontariamente, con la loro stessa esistenza, segni di contraddizione dell’ordine familiare - non

sarebbe giustificabile se non in base a una concezione «totalitaria» della famiglia. Lo stesso codice

civile prende in considerazione ipotesi di involontarietà, riferite ai genitori, di fronte alle quali la

difesa della famiglia come istituzione si arresta per fare posto alle posizioni individuali: il primo

comma dell’art. 251 attribuisce rilievo, ai fini del riconoscimento, alla buona fede dei genitori

incestuosi e il secondo comma dell’art. 278 deroga al divieto di indagini sulla paternità e sulla

maternità nel caso di forza maggiore (ratto e violenza carnale). La Costituzione non giustifica una

concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti: nella specie, il diritto del figlio,

ove non ricorrano costringenti ragioni contrarie nel suo stesso interesse, al riconoscimento formale

di un proprio status filiationis, un diritto che è elemento costitutivo dell’identità personale, protetta,

oltre che dagli artt. 7 e 8 della citata Convenzione sui diritti del fanciullo, dall’art. 2 della

Costituzione. E proprio da tale ultima disposizione, conformemente a quello che è stato definito il

principio personalistico che essa proclama, risulta che il valore delle «formazioni sociali», tra le

quali eminentemente la famiglia, è nel fine a esse assegnato, di permettere e anzi promuovere lo

svolgimento della personalità degli esseri umani.

Come misura di protezione della famiglia legittima, il divieto di agire per la dichiarazione della

filiazione, con le connesse limitazioni delle indagini sulla paternità e maternità naturali, varrebbe ad

escludere un evento perturbatore della tranquillità della vita familiare tanto grave, quale è l’ingresso

in essa, per atto formale, di figli nati da genitori incestuosi. Il fondamento costituzionale di tale

protezione sarebbe il terzo comma dell’art. 30 e la riserva ivi prevista a favore dei diritti dei membri

della famiglia legittima.

Sennonché tale riserva mal si presta a essere interpretata in modo tanto generico e atecnico, fino

a ricomprendervi la protezione di condizioni di serenità psicologica, ciò che potrebbe condurre a

negare del tutto il riconoscimento giuridico della filiazione naturale, premessa della tutela che la

Costituzione vuole assicurare nel modo più pieno possibile a tutti i figli nati al di fuori del

matrimonio. I diritti dei membri della famiglia legittima, di cui all’art. 30, terzo comma, della

Costituzione, sono diritti in senso proprio e il problema della loro compatibilità con la tutela da

assicurare ai figli nati fuori del matrimonio nasce logicamente solo in quanto vi sia stata una

constatazione formale del rapporto di filiazione. In ogni caso, l’ingresso di figli naturali in un

rapporto coniugale e in una vita familiare legittima di per sé non è una violazione di diritti ma un

incerto del mestiere di vivere.

Nemmeno varrebbe concepire la disciplina in esame come protezione dell’interesse del figlio

medesimo, contro l’eventualità che, con l’accertamento del carattere incestuoso del concepimento,

anziché vantaggi possano derivargli nocumenti morali e sociali. L’interesse del figlio a evitare

l’accertamento formale del rapporto di filiazione, nel caso dell’azione proposta per la dichiarazione

giudiziale della paternità e della maternità naturali, è in re ipsa protetto dal fatto che il diritto di

azione è riconosciuto a lui solo (e, in caso di morte, ai suoi discendenti) (art. 270 del codice civile),

mentre, per il figlio minore, possono agire, ma nel suo esclusivo interesse, il genitore esercente la

potestà o – previa autorizzazione del tribunale per i minorenni – il tutore (o il curatore speciale) (art.

273, primo comma, del codice civile). Inoltre, se il minore è ultrasedicenne, occorre comunque il

suo consenso (art. 273, secondo comma), mentre, se è infrasedicenne, la rispondenza al suo

interesse dell’azione promossa è oggetto di valutazione da parte del tribunale per i minorenni (art.

274, primo comma).

Dalla conseguente riconosciuta esperibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale della

paternità e della maternità naturali nelle ipotesi previste dall’art. 251, primo comma, del codice

civile e dalla connessa ammissibilità delle relative indagini – accoglimento che non coinvolge il

parallelo divieto di riconoscimento nelle medesime ipotesi – deriva, come conseguenza della

presente decisione, che l’art. 269, primo comma, del codice civile, deve essere interpretato (secondo

la sua formulazione letterale) nel senso che la paternità e la maternità naturali possono essere

dichiarate nelle ipotesi in cui il riconoscimento è ammesso, ma non nel senso reciproco: cioè anche

che il riconoscimento sia effettuabile in tutte le ipotesi in cui vi possa essere la dichiarazione

giudiziale.

7.2.3. Il diritto all’identità personale

La Corte ha più volte affermato l’opportunità di escludere ogni automatismo nell’attribuzione del

cognome paterno, onde evitare una lesione al diritto all’identità personale.

Esemplare al riguardo la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 262 del codice

civile, nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell’assumere il cognome del genitore

che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere,

anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli

con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua

identità personale (sentenza n. 297 del 1996).

La Corte motiva che, nella sentenza n. 13 del 1994, si è già riconosciuto che il cognome “gode di

una distinta tutela anche nella sua funzione di strumento identificativo della persona, e che, in

quanto tale, costituisce parte essenziale ed irrinunciabile della personalità”; tutela che è di rilievo

costituzionale perché il nome, che costituisce “il primo e più immediato elemento che caratterizza

l’identità personale”, è riconosciuto “come bene oggetto di autonomo diritto” dall’art. 2 della

Costituzione. D’altra parte il diritto all’identità personale costituisce tipico diritto fondamentale,

rientrando esso tra “i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana” sicché la

sua lesione integra la violazione dell’art. 2 citato.

Orbene, la disposizione censurata – dopo aver previsto (al primo comma) che il figlio naturale

assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto (con prevalenza del cognome del

padre in caso di riconoscimento contemporaneo di entrambi i genitori) – prescrive (al secondo

comma) che, se la filiazione nei confronti del padre è accertata o riconosciuta successivamente al

riconoscimento da parte della madre, il figlio naturale possa assumere il cognome del padre

aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre. In tal modo la norma appronta una specifica e

peculiare tutela del diritto all’identità personale, che comprende il diritto al nome come principale

segno identificativo della persona. Infatti, è possibile che nell’intervallo di tempo tra il

riconoscimento della madre e quello successivo del padre il figlio naturale abbia maturato una

precisa identità personale per il fatto di essere riconosciuto, nella comunità dove è vissuto, con il

cognome derivatogli dalla madre. Essendosi così radicata una corrispondenza tra soggetto e nome,

riferibile al contenuto tipico del diritto all’identità personale, l’ordinamento appronta un’idonea

garanzia, contemplando la facoltà del figlio naturale di aggiungere (invece che sostituire) il

cognome del padre a quello della madre. Una medesima ratio è sottesa all’art. 5, terzo comma, della

legge 1° dicembre 1970, n. 898, che, in caso di scioglimento del matrimonio, riconosce la facoltà

della donna di conservare il cognome del marito quando sussiste un interesse suo o dei figli

meritevole di tutela.

Per contro, analoga tutela la norma censurata non prevede nel caso, sostanzialmente similare, in

cui il primo riconoscimento di uno dei due genitori avvenga (come nel caso di specie) in epoca

ampiamente successiva alla attribuzione del nome e del cognome da parte dell’ufficiale di stato

civile. Anche in questo caso il figlio naturale ha visto intanto radicarsi la sua identità in tale nome,

la cui conservazione però non viene salvaguardata – come invece nell’ipotesi precedente – con il

riconoscimento della facoltà di aggiungere il cognome del genitore che ha operato il riconoscimento

al cognome originariamente attribuitogli. Né rileva il fatto che, ove il figlio – come nella specie –

abbia compiuto sedici anni, il riconoscimento non possa avvenire senza il suo consenso, negando il

quale l’interessato eviterebbe la conseguenza di vedere sostituire, allo stato attuale della normativa,

il nuovo cognome a quello che ormai lo individua nella comunità in cui vive, così preservando il

diritto alla sua identità personale: ciò invero potrebbe avvenire soltanto con la rinuncia al

riconoscimento stesso, e quindi il figlio ultrasedicenne si troverebbe costretto a scegliere se

privilegiare la sua identità personale o il suo stato di filiazione. Alternativa questa del tutto

incongrua ed irragionevole, ove si consideri che nessuna situazione di conflitto insorge tra tali

diritti, entrambi di rilievo costituzionale, ben potendo la tutela dell’uno conciliarsi con la tutela

dell’altro, senza necessità di sacrificare alcuno dei due, con l’attribuzione al figlio naturale, che

assume il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, del diritto di conservare – aggiungendolo o

anteponendolo, a sua scelta, a questo – il cognome precedentemente conferitogli con atto

formalmente legittimo, quando tale cognome – secondo il prudente apprezzamento del giudice – sia

da ritenersi divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale.

7.2.4. La ricerca della maternità

Emblematica la soluzione del problema circa il divieto, per un istituto assistenziale, di rivelare i

risultati delle indagini sulla maternità dei minori non riconosciuti, ospitati nelle sue strutture.

Con la sentenza n. 207 del 1975, la Corte è chiamata a decidere se sia in contrasto con l’art. 30,

comma terzo, della Costituzione, che assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica

e sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima, la disposizione contenuta

nell’art. 9, comma quarto, del r.d.l. 8 maggio 1927, n. 798, sull’“Ordinamento del servizio di

assistenza dei fanciulli illegittimi abbandonati o esposti all’abbandono”, la quale, con l’enunciare il

divieto penalmente sanzionato a carico della direzione sanitaria dell’istituto ricoverante di rivelare

l’esito delle indagini compiute per accertare la maternità degli illegittimi, porrebbe un limite,

secondo l’ordinanza di rimessione, alla ricerca e alla dichiarazione giudiziale della maternità.

La Corte premette che la lettera e il contenuto della norma denunciata indicano chiaramente che

lo scopo della stessa è unicamente rivolto alla tutela della filiazione naturale.

Dispone, infatti, l’art. 9 che quando venga richiesta la pubblica assistenza per un figlio

illegittimo abbandonato o esposto all’abbandono la direzione dell’istituto che provvede al ricovero

“deve compiere riservate indagini per accertarne la madre, allo scopo di constatare le condizioni

sanitarie di quest’ultima, di procurare all’infante l’allattamento materno e di indurre la madre stessa

a riconoscere il figlio”. In altre disposizioni dello stesso articolo il legislatore ha altresì stabilito che

la levatrice ed il medico, che hanno prestato assistenza durante il parto alla madre dell’infante, sono

tenuti a rispondere alle domande delle persone incaricate delle indagini”; che, infine, “è

rigorosamente vietato di rivelare l’esito delle indagini compiute per accertare la maternità degli

illegittimi” sotto comminatoria della applicazione, ove ne ricorrano gli estremi, delle sanzioni

stabilite per i reati di rivelazione dei segreti di ufficio e del segreto professionale (artt. 326 e 622 del

codice penale).

Questa normativa risulta dettata in relazione ad un fine ben individuabile: agevolare la ricerca

della maternità dei fanciulli illegittimi abbandonati per assicurar loro una migliore assistenza. Ed è

ovvio che questo fine può essere più agevolmente conseguito attribuendo il carattere della massima

riservatezza alle indagini svolte dall’istituto ricoverante.

La sanzione penale posta a garanzia del divieto di rivelare l’esito di dette indagini assolve la

funzione di stimolo ed esortazione per la madre che abbia partorito un illegittimo ad avvicinare la

sua creatura. La sicurezza che la sua identificazione viene effettuata unicamente allo scopo di

giovare al figlio, che l’esito delle indagini resterà rigorosamente segreto nei confronti di tutti e

senza eccezione alcuna e non potrà essere utilizzato per diversi scopi, consentirà in modo più

efficace la realizzazione della precipua finalità cui è indirizzata la norma in esame che consiste

nell’assicurare all’infante, specie nel momento più delicato del primo periodo della sua vita, quella

tutela e quell’assistenza di cui ha maggior bisogno e che soltanto la presenza attiva e l’affetto

materno possono dare in idonea misura.

E poiché queste finalità, al cui perseguimento concorre la norma censurata, sicuramente

rientrano nella tutela sociale che l’art. 30, comma terzo, Cost. garantisce ai figli nati fuori del

matrimonio, si conclude per l’infondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale.

7.3. La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale

7.3.1. I presupposti dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità

naturale

Il diritto alla filiazione, a seguito degli interventi della Corte, si caratterizza per il crescente

riconoscimento del problema degli interessi meritevoli di tutela, delle scelte e delle diverse

esperienze delle persone coinvolte nei rapporti familiari. Esemplare è la sentenza n. 341 del 1990,

con cui si dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 274, primo comma, cod. civ. nella parte in

cui, se si tratta di minore infrasedicenne, non prevede che l’azione promossa dal genitore esercente

la potestà sia ammessa solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del figlio.

Per la Corte, dall’art. 250, quarto comma, cod. civ. si argomenta che, se si tratta di minore

infrasedicenne, per il quale l’efficacia del riconoscimento non è subordinata al suo assenso, la legge

attribuisce un valore assoluto all’interesse di accertamento dello stato di filiazione quando il minore

sia privo di status o il genitore che per primo lo ha riconosciuto consenta al riconoscimento

successivo da parte dell’altro. In questi due casi, con una valutazione tipica, il riconoscimento è

reputato senz’altro conforme all’interesse del minore. Quando invece insorga conflitto tra i genitori,

in quanto il genitore che ha già riconosciuto il figlio si oppone al riconoscimento tardivo dell’altro

giudicandolo non conveniente all’interesse del minore, tale valutazione è assoggettata al controllo

del tribunale per i minorenni mediante un procedimento contenzioso promosso dal genitore che a

sua volta intende effettuare il riconoscimento.

Analogo controllo non è previsto nell’ipotesi in certo senso inversa di conflitto, in cui il genitore

esercente la potestà sul figlio ritiene conveniente al suo interesse anche il riconoscimento dell’altro

e, di fronte all’atteggiamento recalcitrante di questi, decide di promuovere, per conto del minore,

l’azione di reclamo della paternità o maternità naturale. Fino al 1983, la diversità di disciplina si

poteva spiegare in considerazione della competenza esclusiva del tribunale ordinario per l’azione di

cui all’art. 269 cod. civ., cioè di un giudice inadatto ad esprimere valutazioni del tipo di quella in

discorso. Ma, una volta trasferita la competenza al tribunale per i minorenni quando l’azione sia

proposta nell’interesse di minori di età (art. 38 disp. att., modificato dall’art. 68 della legge 4

maggio 1983, n. 184), non è più giustificabile, alla stregua del principio di pari trattamento di casi

simili, la preclusione a questo giudice, specializzato per la tutela dei minori, della possibilità di

esplicare anche in questa ipotesi la sua funzione istituzionale valutando, ove sia in causa un minore

infrasedicenne, se l’azione intentata dal genitore che per primo lo ha riconosciuto, al fine di imporre

all’altro una paternità o una maternità che quegli rifiuta di riconoscere, sia effettivamente

rispondente all’interesse del figlio o non rischi piuttosto di pregiudicarne gli equilibri affettivi,

l’educazione e la collocazione sociale. Siffatti inconvenienti non sempre e non interamente possono

essere evitati, dopo la costituzione dello status di filiazione, con i provvedimenti previsti dall’art.

277, secondo comma, cod. civ.

Indipendentemente dal confronto con l’art. 250, quarto comma, la norma impugnata appare

contrastante anche col principio di razionalità, essendo incoerente col rilievo sistematico centrale

che nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato sull’art. 30 Cost., assume l’esigenza di

protezione dell’interesse dei minori.

7.3.2. L’impugnazione del riconoscimento del figlio

Il preminente interesse del minore alla conservazione dell’ambiente familiare nel quale è inserito

viene in considerazione nel corso dell’esame della questione di legittimità costituzionale dell’art.

263 del codice civile, indubbiato nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del

riconoscimento del figlio minorenne per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia

ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore stesso (sentenza n. 112 del 1997).

Al riguardo, la Corte ricorda di avere già avuto modo di affermare che l’impugnazione del

riconoscimento per difetto di veridicità è ispirata al “principio di ordine superiore che ogni falsa

apparenza di stato deve cadere”, in quanto nella verità del rapporto di filiazione è stato individuato

un valore necessariamente da tutelare. L’attribuzione della legittimazione ad agire anche all’autore

in mala fede del falso riconoscimento e la imprescrittibilità dell’azione dimostrano infatti come il

legislatore, nel conformare l’istituto in esame, abbia voluto privilegiare il favor veritatis, in

funzione di un’imprescindibile esigenza di certezza dei rapporti di filiazione.

La tutela della verità deve porsi in relazione anche alla necessità di impedire che attraverso

fraudolenti atti di riconoscimento siano eluse le norme in materia di adozione, poste ad esclusiva

tutela dei minori. Il legislatore, infatti, per contrastare il diffondersi di prassi illecite, ha ritenuto di

dover istituire un sistema di controllo degli atti di riconoscimento, effettuati da parte di persona

coniugata, di figli naturali non riconosciuti dall’altro genitore, attribuendo al Tribunale per i

minorenni, ai sensi dell’art. 74 della legge n. 184 del 1983, il potere di disporre opportune indagini

al fine di accertare la veridicità del riconoscimento e, conseguentemente, il potere di nominare al

minore un curatore speciale per l’impugnazione del riconoscimento, in presenza di fondati motivi

per ritenere che questo non sia veritiero.

La finalità così perseguita dal legislatore deve individuarsi proprio nell’attuazione del diritto del

minore all’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica, ovvero, qualora ciò non sia

possibile, all’acquisizione di uno stato corrispondente a quello dei figli legittimi, ma solo attraverso

le garanzie offerte dalle norme sull’adozione.

Non si può contrapporre al favor veritatis il favor minoris, dal momento che la falsità del

riconoscimento lede il diritto del minore alla propria identità.

Non ignora la Corte che il perseguimento della verità del rapporto di filiazione può costituire

causa di grave pregiudizio per il minore, che può essere costretto, talvolta anche dopo molti anni, ad

un repentino allontanamento dall’ambiente familiare nel quale è stato inserito, eventualmente anche

con frode. Tale effetto tuttavia non deriva dalla pretesa incostituzionalità della norma censurata, la

quale intende tutelare il diritto alla verità del rapporto di filiazione, ma è per lo più connessa ai

tempi di durata delle varie fasi e dei gradi del giudizio di impugnazione, durante i quali si possono

consolidare legami affettivi, difficilmente rimovibili.

A tali situazioni ben può porsi rimedio con il ricorso ad altri strumenti, tipici di tutela del minore,

quali l’adozione in casi particolari, di cui all’art. 44, lettera c), della legge n. 184 del 1983, molto

spesso applicati dai Tribunali per i minorenni. In tal modo si rispetta l’esigenza di verità del

rapporto di filiazione, riconosciuta dal nostro ordinamento, e nel contempo si tutelano i legami

affettivi instaurati dal minore, che potrebbe restare nella famiglia nella quale si è formata e si è

sviluppata la sua personalità, acquisendo lo stato di figlio adottivo.

Sempre con riferimento all’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale, nella sentenza n.

625 del 1987 si dichiara non risulta fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263,

secondo comma, del codice civile, nella parte in cui ammette l’impugnativa del riconoscimento per

difetto di veridicità, anche dopo la legittimazione, da parte di chiunque vi abbia interesse, per il

dubbio ch’esso contrasti a) con l’art. 29 della Costituzione, che garantisce e tutela i diritti della

famiglia legittima fondata sul matrimonio e quindi anche la condizione dei minori, che da quel

matrimonio hanno tratto la fonte della loro legittimazione e b) con l’art. 30 della Costituzione, che

riconosce e garantisce pari tutela giuridica e sociale ai figli nati fuori del matrimonio e a quelli

legittimi.

I giudici a quibus istituiscono un confronto tra l’art. 263 e l’art. 253 del codice civile. Il primo

consente l’impugnazione del riconoscimento, per difetto di veridicità, all’autore del riconoscimento,

a colui che è stato riconosciuto e a chiunque vi abbia interesse anche dopo la legittimazione e senza

limite di tempo. Il secondo vieta il riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo o

legittimato.

Ma le due norme non sono tra loro comparabili, perché regolano oggetti non omogenei: a) il

riconoscimento da parte di un genitore esterno alla famiglia nella quale il figlio vive nello status di

legittimo o legittimato; b) l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, da parte del

genitore che ha già effettuato il riconoscimento, del figlio riconosciuto e del terzo che vi abbia

interesse.

Non è pertanto causa di contrasto se l’una, l’art. 253 del codice civile, è ispirata al favor per la

stabilità della famiglia legittima – ed entro di essa dello stato di figlio legittimo o legittimato – e

l’altra, l’art. 263 del codice civile, al favor per l’accertamento della verità biologica del rapporto di

filiazione.

A diversi ed indipendenti fini dirette, esse sono secondo ragione diversamente orientate: se può

essere provata la falsità del riconoscimento proprio o altrui, non può ovviamente essere più oltre

garantita la stabilità di una finzione, quale si riduce nella specie la filiazione legittimata; se, invece,

si volesse procedere ad un riconoscimento senza la previa dimostrazione del difetto di veridicità di

quello altrui, è giusto che debba prevalere su di esso – fino ad impedirlo come inammissibile – la

conservazione dello status di figlio legittimato.

I giudici a quibus sospettano la incostituzionalità dell’art. 263 del codice civile nella parte in cui,

“ammettendo l’impugnativa del riconoscimento, anche dopo la legittimazione, da parte di chiunque

vi abbia interesse, consente di sottrarre il minore alla famiglia legittima, per riportarlo, nella più

favorevole delle ipotesi, nella situazione deteriore di figlio naturale di genitori che hanno vincoli

matrimoniali con persone diverse”.

Ma il minore è parimenti privato della famiglia legittima quando sia il genitore ad impugnare la

veridicità del suo proprio riconoscimento o quando sia egli stesso, il minore riconosciuto, a

promuovere l’impugnativa.

Ciascuno dei tre legittimati ad impugnare per difetto di veridicità il riconoscimento – l’autore

medesimo del riconoscimento, il riconosciuto e il terzo – determina lo stesso effetto dell’uscita del

minore dalla famiglia ove egli si trova in forza del riconoscimento e susseguente legittimazione.

Non si può dunque far risalire l’effetto, che si presume violare valori costituzionali, solo

all’impugnativa del terzo.

È tutta intera la norma che andrebbe allora indubbiata. Ma si è visto già sopra che, dei parametri

costituzionali invocati, l’art. 29 della Costituzione non può avere forza per sostenere un vincolo

familiare che non sia contemporaneamente naturale e legale.

Quanto al secondo parametro, l’art. 30, terzo comma, della Costituzione, che garantisce tutela ai

figli nati fuori del matrimonio, anch’esso non ha forza di conservare ai riconosciuti e legittimati la

intangibilità dello status acquisito, se questo venga privato del fondamento della verità della

filiazione.

La Corte ha già altra volta osservato che la evoluzione della coscienza collettiva, che il

legislatore del 1975, nel riformare il diritto familiare, ha inteso interpretare, accorda preminenza al

fatto della procreazione sulla qualificazione giuridica della filiazione: “questa preminenza non

costituisce sopraffazione, né tanto meno negazione del valore legittimità, posto che di legittimità in

senso sostanziale metagiuridico si può parlare solo quando l’apparenza del rapporto di filiazione

corrisponde alla realtà della procreazione” (sentenza n. 134 del 1985).

Diritto e natura dunque non possono contrapporsi, quando è in discussione il vincolo genetico, in

base al principio “civilis ratio iura naturalia corrumpere non potest”.

7.3.3. Il disconoscimento della paternità

Nella sentenza n. 134 del 1985, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 244,

secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non dispone, per il caso previsto dal n. 3

dell’art. 235 dello stesso codice, che il termine dell’azione di disconoscimento decorra dal giorno in

cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie.

La Corte ritiene che, mentre dall’art. 30, comma primo, della Costituzione si possono prendere le

mosse solo per sottolineare l’importanza, che dal precetto si desume, del rapporto naturale di

filiazione, al fine dei diritti-doveri che ne derivano (avendo la stessa Corte avuto occasione nella

sentenza n. 118 del 1974, di affermare che per l’applicazione dell’art. 30 della Costituzione occorre

che “siano determinati, cioè individuati” i genitori), l’attenzione deve essere concentrata sulla

irrazionalità della limitazione, anzi dell’esclusione, nel caso della scoperta dell’adulterio oltre un

anno dopo la nascita del figlio, del diritto del padre ad avvalersi della facoltà, che l’art. 235 c.c. gli

attribuisce, di provare “che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno

incompatibili con quelle del presunto padre, o ogni altro fatto tendente ad escludere la paternità”.

In questo caso si può dire che l’azione sia inutiliter data con patente violazione non tanto del

diritto di difesa (art. 24, comma secondo, della Costituzione), quanto del diritto di agire in giudizio

(art. 24, primo comma).

Viene sottolineato che il rilievo attribuito dal legislatore del 1975, nel nuovo testo dell’art. 235

c.c., all’adulterio della moglie come elemento che facoltizza la prova dell’esclusione della paternità,

sta nel fatto che, mentre nella legge precedente l’adulterio era rilevante solo se accompagnato

dall’occultamento della gravidanza e della nascita, nel nuovo testo l’adulterio diventa rilevante da

solo. Quindi due ipotesi: adulterio o occultamento della gravidanza e della nascita. Rispetto alla

seconda ipotesi, il termine accordato al marito per proporre l’azione di disconoscimento decorre sì

dal giorno della nascita o, quando il marito era lontano, dal giorno del suo ritorno, ma “in ogni caso

se egli prova di non avere avuta notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in

cui ne ha avuto notizia” (art. 244, secondo comma, c.c.).

Rispetto alla prima ipotesi (adulterio), la data di conoscenza non conta più, oppure gratuitamente

si presume iuris et de iure quella della nascita o quella della conoscenza di essa. E ciò non soltanto

è palesemente irragionevole, ma non appare conciliabile con l’insegnamento della Corte (sentenza

n. 14 del 1977) che “la garanzia di cui all’art. 24 della Costituzione deve estendersi alla

conoscibilità del momento di decorrenza del termine stesso al fine di assicurarne all’interessato

l’utilizzazione nella sua interezza”.

Sul piano dell’esperienza, l’adulterio è fatto la cui conoscenza può essere preclusa per lungo

tempo. Di ciò ha certamente tenuto conto il legislatore quando ha fatto decorrere il termine per

l’azione di disconoscimento da parte del figlio divenuto maggiorenne dalla “conoscenza dei fatti

che rendono ammissibile il disconoscimento”. Perché per il padre la data di tale conoscenza diventa

del tutto irrilevante? Si può osservare, come ha fatto la Corte nella sentenza n. 64 del 1982, che in

ciò non si concreti una violazione del principio di eguaglianza, ma è difficile negare la oggettiva

irrazionalità della disposizione che impedisce al padre di proporre il disconoscimento dopo essere

venuto a conoscenza dell’adulterio, cioè dopo l’avvenimento da cui nasce il suo diritto di azione.

Né per giustificare questo sostanziale diniego del diritto di agire appare sufficiente il rilievo

secondo cui la conoscenza della nascita sia un evento di meno aleatoria prova rispetto a quello di

conoscenza dell’adulterio.

Un’ulteriore e più puntuale riflessione sul tema porta a considerare che la prova della conoscenza

della nascita (quando questa sia stata tenuta celata al marito che era lontano, anche dopo il suo

ritorno) possa, in ipotesi, essere altrettanto difficile di quella dell’adulterio.

E, del resto, che non si tratti di prova sempre “aleatoria”, e perciò inammissibile, lo riconosce lo

stesso legislatore quando ammette il marito a quella prova, purché entro un anno dalla conoscenza

della nascita del figlio.

Una delle ragioni che inducono la Corte al riesame della questione è la ulteriore evoluzione della

coscienza collettiva nel senso della accordata preminenza del fatto della procreazione sulla

qualificazione giuridica della filiazione. Questa preminenza non costituisce sopraffazione, né tanto

meno negazione del valore legittimità, posto che di legittimità in senso sostanziale metagiuridico si

può parlare solo quando l’apparenza del rapporto di filiazione corrisponde alla realtà della

procreazione. Il legislatore del 1975 che, anche in relazione alla sicurezza della prova negativa della

paternità assicurata dal progresso scientifico, ha allargato la possibilità di far valere la verità

sull’apparenza, pur con uno sbarramento – quello appunto relativo alla decorrenza del termine –

estraneo alla logica di quell’allargamento; il legislatore del 1983 che, come si è già ricordato, ha

ulteriormente operato, accordando l’azione nell’interesse del minore infrasedicenne al P.M., nel

senso di favorire ulteriormente il perseguimento del valore verità, non hanno fatto che seguire la

evoluzione della coscienza collettiva sempre più sensibile a quel valore. La Corte ritiene ancora una

volta di poter anticipare il legislatore cogliendo quella evoluzione e armonizzando con i principi

costituzionali l’istituto del disconoscimento della paternità.

Nel quadro di questi valori appartenenti alla odierna coscienza sociale va considerato anche

l’interesse del figlio e della sua protezione con riferimento non già all’ipotesi di filiazione non

contestata, ma alla ipotesi che, accertato l’adulterio nel tempo del concepimento, nasca la possibilità

di una prova che escluda la paternità del padre apparente. Da quel momento, o peggio ancora

quando la prova legale negativa della paternità stabilita nell’art. 235 sia incontestabilmente

raggiunta; quando non soltanto la madre, la cui sola dichiarazione è irrilevante, ma il curatore

nominato dal tribunale chiede nell’interesse del minore che la domanda sia accolta, è assai difficile

considerare corrispondente all’interesse materiale e spirituale del figlio la coatta continuazione di

rapporti familiari già distrutti.

Queste considerazioni tranquillizzano la Corte sulle conseguenze di una dichiarazione di

incostituzionalità dell’art. 244, secondo comma, c.c., nella parte in cui non prevede che per il marito

il termine dell’azione di disconoscimento di cui al n. 3 dell’art. 235 c.c. decorre dalla conoscenza

dell’adulterio della moglie nel tempo del concepimento, conclusione che comunque è comandata

dalla accertata irragionevole violazione del diritto di agire.

La Corte ha tratto successivamente un’ulteriore regola, applicata al disconoscimento della

paternità, dichiarando – nella sentenza n. 429 del 1991 – non fondata, nei sensi di cui in

motivazione, la questione concernente l’art. 244, ultimo comma, cod. civ., modificato dall’art. 81

della legge 4 maggio 1983, n. 184, il quale dispone che l’azione di disconoscimento della paternità,

di cui all’art. 235, “può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice,

assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i sedici anni, o del

pubblico ministero quando si tratta di minore di età inferiore”.

La censura investe la norma per la mancata considerazione dell’interesse del minore sia nella

fase dell’iniziativa del pubblico ministero, sia in quella del successivo provvedimento del tribunale.

Sotto questo profilo, la violazione dell’art. 3 della Costituzione viene argomentata dal confronto con

la disciplina dell’azione di dichiarazione della paternità o maternità naturale, quale risulta dopo la

sentenza n. 341 del 1990.

Rileva la Corte che il testo dell’art. 244, quarto comma, cod. civ. introdotto dalla legge 19

maggio 1975, n. 151, considerava soltanto il figlio minore ultrasedicenne, attribuendogli sia la

titolarità dell’azione di disconoscimento della paternità, sia la capacità di decidere in merito al suo

esercizio e correlativamente, essendo egli privo di capacità processuale, la legittimazione a chiedere

al tribunale la nomina di un curatore speciale che lo rappresenti in giudizio.

Il nuovo testo, sostituito dalla legge n. 184 del 1983, ha esteso la titolarità dell’azione al figlio

minore infrasedicenne, rimettendone l’esercizio ad un curatore speciale nominato dal tribunale su

istanza del pubblico ministero, senza però avvertire la profonda differenza del compito affidato al

giudice in quest’altro caso. La formula unitaria in cui la legge racchiude la previsione dei due casi

non impedisce tuttavia all’interprete di cogliere tale differenza alla stregua della genesi storica e

della ratio della norma, valutata anche alla luce della citata sentenza n. 341 del 1990. Da questa si

desume una regola per cui, se si tratta di un minore di età inferiore ai sedici anni, la ricerca della

paternità, pur quando concorrono specifiche circostanze che la fanno apparire giustificata ai sensi

degli artt. 235 o 274, primo comma, cod. civ., non è ammessa ove risulti un interesse del minore

contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo o, rispettivamente, all’assunzione dello stato

di figlio naturale nei confronti di colui contro il quale si intende promuovere l’azione: interesse che

dovrà essere apprezzato dal giudice soprattutto in funzione dell’esigenza di evitare che l’eventuale

mutamento dello status familiare del minore possa pregiudicarne gli equilibri affettivi e

l’educazione. In questo caso la decisione deve essere lasciata allo stesso figlio quando avrà

compiuto i sedici anni.

Raggiunta questa età, la legge reputa che il minore abbia una maturità sufficiente per valutare

autonomamente l’opportunità di esercizio dell’azione. Se ha lo stato di figlio legittimo, il giudice

investito della domanda di nomina di un curatore speciale, ai fini della promozione dell’azione di

disconoscimento della paternità, non può interferire in tale valutazione, ma deve limitarsi ad

appurare, assunte sommarie informazioni, il fumus boni iuris circa l’esistenza dei presupposti di

fatto ai quali l’azione è subordinata dall’art. 235.

Quando, invece, la domanda di nomina del curatore speciale è proposta dal pubblico ministero

nel presunto interesse di un minore infrasedicenne, al giudice è affidato un ufficio di tutela di un

soggetto incapace. Egli deve allora allargare il campo di acquisizione delle sommarie informazioni,

includendovi tutti gli elementi necessari o utili per valutare la sussistenza dell’interesse del minore

all’esperimento di un’azione che lo spoglierebbe dello stato di figlio legittimo senza garantirgli

l’acquisto dello stato di filiazione nei confronti del padre naturale. All’uopo il giudice non

mancherà, tra l’altro, di ordinare l’audizione dei genitori legittimi ed eventualmente anche delle

persone interessate che hanno eccitato l’iniziativa del pubblico ministero. Della purezza delle loro

intenzioni, come osserva giustamente la Corte remittente, il tramite del pubblico ministero non è

una sicura garanzia.

Perciò, nel secondo caso previsto dalla norma in esame, il provvedimento del tribunale – che ai

sensi dell’art. 737 cod. proc. civ. ha la forma del decreto motivato – deve giustificare congruamente

la valutazione dell’interesse del minore su cui la decisione si fonda e indicare i mezzi informativi

utilizzati. Correttamente interpretato, il diritto vigente fornisce strumenti sufficienti per proteggere

il minore contro iniziative avventate e i genitori legittimi contro azioni temerarie o ricattatorie.

Con la sentenza n. 170 del 1999, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 244,

secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione

dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare,

contemplata dal numero 2) dell’art. 235 dello stesso codice, decorra per il marito dal giorno in cui

esso sia venuto a conoscenza della propria impotenza di generare.

A tale conclusione la Corte perviene rilevando che l’art. 235, numero 2), del codice civile, nel

consentire l’azione di disconoscimento se nel periodo compreso fra il trecentesimo ed il

centottantesimo giorno prima della nascita del figlio il marito era affetto da impotenza, anche solo

di generare, detta una disciplina comune alle diverse forme nelle quali può manifestarsi

l’impotenza, la cui distinzione assume invece importanza fondamentale ai fini della verifica di

legittimità costituzionale della norma impugnata. Ed invero, in relazione all’impotentia coeundi

immediatamente conoscibile, appare razionale la scelta del legislatore di imporre il termine di un

anno dalla nascita del figlio per la proposizione dell’azione di disconoscimento, non essendo

ipotizzabile l’ignoranza di tale forma di impotenza.

L’impotenza di generare rappresenta, al contrario, uno stato fisico che può rimanere per lungo

tempo ignoto, poiché in una elevata percentuale di casi consiste in un’affezione, che può essere

priva di sintomatologia e di manifestazioni esteriori; inoltre tale stato è diagnosticabile solo

attraverso esami clinici cui non si ricorre usualmente.

Dei diversi parametri costituzionali invocati dal rimettente risulta palese la violazione degli artt.

3 e 24 della Costituzione.

Per un verso rispetto a tale forma di impotenza la norma appare irragionevole, in quanto preclude

l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità, decorso l’anno dalla nascita del figlio, se

il marito non sia stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima e precisamente

della propria incapacità di generare.

Per altro verso, è irrimediabilmente leso il diritto di azione quando si consente che il termine per

il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli

elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso; e ciò soprattutto in ipotesi, come quella di specie,

in cui è dato di comune esperienza che l’elemento costitutivo dell’azione, rappresentato

dall’impotenza di generare, può rimanere a lungo e a volte anche indefinitamente ignoto.

La Corte, nella sentenza n. 134 del 1985, ebbe già ad affermare, in relazione alla decorrenza del

termine nell’ipotesi di adulterio di cui all’art. 235, numero 3), cod. civ., la oggettiva irrazionalità

della disposizione impugnata, che impedisce al marito di proporre il disconoscimento dopo essere

venuto a conoscenza dell’avvenimento da cui nasce il suo diritto di azione; detta norma si ritenne

inoltre inconciliabile con il principio in base al quale “la garanzia di cui all’art. 24 della

Costituzione deve estendersi alla conoscibilità del momento di decorrenza del termine stesso al fine

di assicurarne all’interessato l’utilizzazione nella sua interezza”. Le medesime considerazioni

valgono in relazione alla questione oggi in esame, nella quale ancora una volta viene in rilievo

l’incolpevole ignoranza di un fatto costitutivo dell’azione; determinare in tale ipotesi la decorrenza

del termine dall’evento nascita può in concreto vanificare il diritto di azione, il che contrasta

insanabilmente con i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti.

Né potrebbe obiettarsi che il termine per l’esercizio dell’azione, essendo subordinato alla

conoscenza del fatto costitutivo (il che potrebbe avvenire anche dopo molti anni dalla nascita del

figlio), può esporre il medesimo alla perdita del proprio status a distanza di tempo.

Il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato la impostazione tradizionale che

attribuiva preminenza al favor legitimitatis attraverso la equiparazione della filiazione naturale a

quella legittima ed ha di conseguenza reso omogenee le situazioni che discendono dalla

conservazione dello stato ancorato alla certezza formale rispetto a quelle che si acquisiscono con

l’affermazione della verità naturale; anteriormente alla riforma, infatti, la condizione deteriore del

figlio naturale, significativamente denominato “illegittimo”, che non poteva nemmeno ottenere il

riconoscimento qualora uno dei genitori fosse coniugato, costituiva, unitamente alla riprovazione

sociale, una forte remora all’accertamento della verità biologica della procreazione contrastante con

quella legale.

L’attribuzione di pari diritti ai figli naturali rispetto a quelli legittimi, ad opera del riformato art.

261 del codice civile, determinando il venir meno della posizione di privilegio di questi ultimi, ha

consentito l’acquisizione di status conformi alla realtà della procreazione, senza più tema di gravi

conseguenze pregiudizievoli legate alla condizione di sfavore della filiazione naturale.

Contemporaneamente le ipotesi di accertamento della verità biologica sono state ampliate, sia

mediante l’eliminazione del divieto di riconoscimento dei figli “adulterini”, sia attraverso

l’estensione della categoria dei soggetti legittimati all’esperimento delle diverse azioni di stato,

come si è verificato nell’ipotesi dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità,

consentita anche all’autore in mala fede del falso riconoscimento, o in quella del disconoscimento

di paternità, cui sono oggi legittimati anche la madre, il figlio maggiorenne, il figlio che abbia

compiuto i sedici anni e, con la modifica introdotta dall’art. 81 della legge n. 184 del 1983

(Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), il pubblico ministero quando si tratta di

minori di età inferiore.

Le disposizioni normative che consentono di verificare la conformità dello status alla realtà della

procreazione hanno quindi comportato l’affermazione del principio della tendenziale

corrispondenza tra certezza formale e verità naturale, la cui ricerca risulta agevolata dalle avanzate

acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dall’elevatissimo grado di attendibilità dei

risultati delle indagini.

Nella crescente considerazione del favor veritatis non si è ravvisata una ragione di conflitto con

il favor minoris, poiché anzi la verità biologica della procreazione si è ritenuta una componente

essenziale dell’interesse del medesimo minore, riconoscendosi espressamente l’esigenza di

garantire al figlio il diritto alla propria identità e precisamente all’affermazione di un rapporto di

filiazione veridico (sentenze nn. 216 e 112 del 1997), rispetto al quale può recedere l’intangibilità

dello status, allorché esso risulti privato del fondamento della presunta corrispondenza alla verità

biologica e quando risulti tempestivamente azionato il diritto.

Certamente, il perseguimento del valore “verità” determina il sacrificio della posizione familiare,

affettiva e socio-economica acquisita medio tempore dal figlio; tuttavia, la sofferenza del figlio

legittimo consapevole dell’apparenza solo formale del proprio status contro la quale nessuno dei

soggetti legittimati abbia reagito, non è meno grave e profonda rispetto a quella di chi sia posto

innanzi alla verità della procreazione.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale viene estesa, in via consequenziale, all’art. 244,

primo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che anche per la madre il termine per

l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità a causa dell’impotenza solo di generare

del marito decorra dal giorno in cui essa sia venuta a conoscenza dell’anzidetta impotenza.

Mentre si giustifica la scelta del legislatore di far decorrere il termine semestrale dalla nascita del

figlio nelle ipotesi previste dai numeri 1) e 3) dell’art. 235 del codice civile, in considerazione della

ovvia conoscenza, da parte della medesima moglie, delle circostanze della procreazione, non

altrettanto può dirsi nel caso di impotenza di generare del marito; per quanto già affermato riguardo

alle caratteristiche di tale forma di impotenza, deve riconoscersi che anche la moglie può ignorare

l’incapacità di procreare del marito, sì che in questo caso le sarebbe precluso l’esercizio dell’azione,

in quanto la sola consapevolezza dell’adulterio non è elemento sufficiente ad escludere la paternità

del marito.

Una volta riconosciuto a favore della moglie un interesse autonomo all’esercizio dell’azione in

esame per tutte le ipotesi contenute nell’art. 235, ciascuna delle quali, pur presupponendo

l’adulterio, è tuttavia caratterizzata da una propria causa petendi, costituisce evidente lesione del

diritto di azione correlare la decorrenza del termine, nell’ipotesi prevista dal numero 2) dell’art.

235, alla nascita del figlio, anziché alla conoscenza della impotenza del marito. Occorre precisare

ancora che a differenza della mancata coabitazione dei coniugi, dell’adulterio e del celamento della

gravidanza e della nascita – elementi costitutivi dell’azione nei casi rispettivamente previsti dai

numeri 1) e 3) dell’art. 235 –, di cui la moglie ha sempre piena, diretta e completa cognizione,

l’impotenza di generare del marito è invece circostanza che può rimanere per lungo tempo

incognita, onde in tal caso il termine decorrerebbe nell’ignoranza, da parte del titolare dell’azione,

di un elemento costitutivo di essa.

Con la sentenza n. 266 del 2006 la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 235,

primo comma, numero 3, cod. civ. – nella formulazione introdotta dall’art. 93 della legge 19

maggio 1975, n. 151 sulla riforma del diritto di famiglia – il quale stabilisce che l’adulterio

commesso nel periodo compreso tra il trecentesimo e il centottantesimo giorno precedente la nascita

costituisce una delle ipotesi in cui l’azione di disconoscimento è consentita, e che in tal caso il

marito – o altro dei legittimati all’azione – è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche

genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, o ogni altro fatto

tendente ad escludere la paternità.

La Corte di cassazione, in una ormai risalente pronuncia (sentenza n. 5687 del 1984), aveva

affermato che l’art. 235, comma primo, cod. civ., il quale subordina la esperibilità delle prove

cosiddette tecniche, sulle caratteristiche genetiche o sul gruppo sanguigno, alla dimostrata

ricorrenza dell’adulterio della moglie, non osta a che il giudice del merito, ove ne ravvisi

l’opportunità, possa ammettere ed espletare tali prove tecniche contemporaneamente a quelle

inerenti all’adulterio, convalidando ed integrando il proprio convincimento sull’esistenza dello

stesso con la valutazione del rifiuto (ingiustificato) opposto dai controinteressati all’espletamento

della prova ematologica e ritenendo tale rifiuto come prova della non paternità, e ciò soprattutto

perché, a causa del progresso scientifico verificatosi negli ultimi tempi, detta prova ha assunto il

valore di piena prova della esistenza o non esistenza del rapporto di filiazione. Tale approccio

interpretativo – già all’epoca contrastato – è stato successivamente abbandonato, ed è ormai “diritto

vivente” quello per il quale l’indagine sul verificarsi dell’adulterio ha carattere preliminare rispetto

a quella sulla sussistenza o meno del rapporto procreativo, con la conseguenza che la prova genetica

o ematologica, anche se espletata contemporaneamente alla prova dell’adulterio, può essere

esaminata solo subordinatamente al raggiungimento di quest’ultima, e al diverso fine di stabilire il

fondamento del merito della domanda (v., tra le altre, Cass. n. 2113 del 1992, n. 8087 del 1998, n.

14887 del 2002); con l’ulteriore conseguenza che, in difetto di prova dell’adulterio, anche in

presenza della dimostrazione che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno

incompatibili con quelle del presunto padre, l’azione di disconoscimento della paternità deve essere

respinta. In presenza di tale “diritto vivente”, la Corte costituzionale non ha la possibilità di

proporre differenti soluzioni interpretative, ma deve limitarsi a stabilire se lo stesso sia o meno

conforme ai principi costituzionali.

Con la riforma del diritto di famiglia, il legislatore del 1975 ha esteso la legittimazione attiva per

la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità anche alla madre ed al figlio che

abbia raggiunto la maggiore età in tutti i casi in cui può essere esercitata dal padre (art. 235, ultimo

comma, cod. civ.). Successivamente, il legislatore del 1983 ha previsto che l’azione può essere

altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su

istanza del figlio minore che ha compiuto i sedici anni, o dal pubblico ministero, quando si tratta di

minore di età inferiore (art. 244, ultimo comma, cod. civ., aggiunto dall’art. 81 della legge 4 maggio

1983, n. 184).

Ai fini della decisione della questione assumono, pertanto, rilievo: l’ampliamento della

legittimazione attiva; i progressi della scienza biomedica che, ormai, attraverso le prove genetiche

od ematologiche, consentono di accertare la esistenza o la non esistenza del rapporto di filiazione; la

difficoltà pratica, chiaramente evidenziata in una delle ordinanze di rimessione, di fornire una piena

prova dell’adulterio; l’insufficienza di tale prova ad escludere la paternità.

Il subordinare l’accesso alle prove tecniche, che, da sole, consentono di affermare se il figlio è

nato o meno da colui che è considerato il padre legittimo, alla previa prova dell’adulterio è, da una

parte, irragionevole, attesa l’irrilevanza di quest’ultima prova al fine dell’accoglimento, nel merito,

della domanda proposta; e, dall’altra, si risolve in un sostanziale impedimento all’esercizio del

diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione. E ciò per giunta in relazione ad azioni

volte alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status e alla identità biologica (sentenza n. 50

del 2006). Ciò comporta la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata nella

parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordina l’esame delle prove

tecniche, da cui risulta «che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno

incompatibili con quelle del presunto padre», alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.

Sempre con riferimento al disconoscimento di paternità, ma in relazione ad una fattispecie di

diverso segno rispetto a quelle sin qui evocate, la Corte si pronuncia, con la sentenza n. 347 del

1998, sul dubbio di costituzionalità dell’art. 235, cod. civ., in relazione agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31

della Costituzione, in quanto il primo comma, n. 2, consentirebbe di esperire l’azione per il

disconoscimento di paternità al marito che, affetto da impotenza nel periodo che va dal trecentesimo

al centottantesimo giorno prima della nascita del figlio concepito durante il matrimonio, abbia dato

il proprio consenso all’inseminazione artificiale eterologa della moglie. Il giudice a quo presuppone

che nell’attuale sistema, stante il tenore letterale della disposizione in esame, al consenso prestato

dal marito all’inseminazione eterologa della moglie non possa essere collegato alcun effetto

preclusivo dell’azione di disconoscimento, ove ricorra una delle ipotesi (nel caso, impotenza a

generare) previste dalla legge.

Per la Corte, il giudice rimettente parte dal presupposto che il caso particolare sul quale è

chiamato a decidere (nascita di un bambino mediante fecondazione assistita eterologa, in costanza

di matrimonio, col consenso di entrambi i coniugi) rientri nella portata dell’art. 235, primo comma,

n. 2, cod. civ., ma solleva dubbi di legittimità costituzionale, considerate le conseguenze che egli

ritiene di dover trarre da questa disposizione.

Sennonché questa norma riguarda esclusivamente la generazione che segua ad un rapporto

adulterino, ammettendo il disconoscimento della paternità in tassative ipotesi, quando le circostanze

indicate dal legislatore facciano presumere che la gravidanza sia riconducibile, in violazione del

dovere di reciproca fedeltà, ad un rapporto sessuale con persona diversa dal coniuge.

La possibilità che ipotesi nuove, non previste al tempo dell’approvazione di una norma, siano

disciplinate dalla stessa non è da escludersi in generale. Ma tale possibilità implica un’omogeneità

di elementi essenziali e un’identità di ratio; nella cui carenza l’estensione della portata normativa

della legge si risolverebbe in un arbitrio.

È quanto accadrebbe una volta che, ai fini dell’esperibilità dell’azione di disconoscimento di

paternità, l’ipotesi in esame fosse equiparata a quelle, tanto dissimili, previste dall’art. 235 del

codice civile.

L’estraneità della fattispecie oggetto del giudizio alla disciplina censurata comporta

l’inammissibilità della sollevata questione; dalla quale tuttavia emerge una situazione di carenza

dell’attuale ordinamento, con implicazioni costituzionali.

Nel presente giudizio di costituzionalità si tratta di tutelare anche la persona nata a seguito di

fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. E

preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato, non solo in relazione ai diritti e ai doveri

previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima –

in base all’art. 2 – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo

assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare.

L’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti,

nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del

legislatore. Tuttavia, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel

complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti

beni costituzionali.

7.4. La legittimazione dei figli naturali

Nella sentenza n. 237 del 1974, la Corte rileva che i diritti dei membri della famiglia legittima

non sono scalfiti dall’art. 284, n. 2, del codice civile “nella parte in cui esclude la legittimazione per

decreto del Presidente della Repubblica quando il genitore che la domandi abbia figli legittimi o

legittimati per susseguente matrimonio”.

Per la Corte non vi è dubbio che in via di principio la legge possa circoscrivere la legittimazione

dei figli naturali entro quell’ambito che, con valutazione discrezionale, sia ritenuto necessario per la

salvaguardia dei diritti dei membri della famiglia legittima (art. 30, terzo comma, Cost.). occorre,

tuttavia, che le limitazioni non siano esorbitanti rispetto a tale scopo.

A nulla rileva – e non vi è violazione né dell’art. 3 né dell’art. 30 Cost. – che la preesistenza di

figli legittimati per decreto non sia di ostacolo alla legittimazione per decreto di altri figli naturali e

sia, all’opposto, preclusiva la preesistenza di figli legittimati per susseguente matrimonio. Non si

tratta, invero, di due situazioni eguali alle quali la legge abbia fatto trattamento diverso. Ed infatti

con la legittimazione per susseguente matrimonio è venuta in essere una famiglia legittima

comprensiva del coniuge e dei figli; e il legislatore ben può disporre per i figli così legittimati una

tutela non diversa da quella che sussiste per i figli nati legittimi.

Rileva, invece, che la preesistenza di figli legittimi o legittimati per susseguente matrimonio o

discendenti da essi osti di per sé alla concessione della legittimazione per decreto del Capo dello

Stato, mentre la presenza del coniuge la renda possibile ove vi sia il suo assenso.

Posto che anche il coniuge fa parte di quella famiglia legittima a garanzia della quale possono

essere fissati ragionevoli limiti ai diritti dei figli nati fuori del matrimonio, non si vede perché

quando vi siano figli legittimi e maggiorenni (che, in quanto tali, hanno la capacità di esprimere un

valido assenso) la concessione della legittimazione per decreto venga del tutto esclusa e non già

solo condizionata al loro assenso. Se il legislatore ha ritenuto che la tutela dei diritti del coniuge sia

sufficientemente assicurata condizionando al suo assenso la legittimazione, è certamente

irragionevole che la stessa disciplina non debba valere quando preesistano figli legittimi

maggiorenni: la norma in esame viola, per questa parte, l’art. 3 Cost., perché impone una

limitazione che non appare strettamente necessaria alla tutela dei membri della famiglia legittima.

Il legislatore può, ovviamente, dare nuova strutturazione e nuova disciplina all’istituto della

legittimazione, sempreché siano rispettati i principi sanciti nell’art. 30 della Costituzione.

Sempre volta al complesso contemperamento tra gli interessi costituzionalmente garantiti al

figlio naturale e i diritti dei membri della famiglia legittima, la sentenza n. 97 del 1979 fa salvezza

dell’art. 284 del codice civile denunziato nella parte in cui consente la legittimazione per

provvedimento del giudice del figlio naturale concepito in costanza di matrimonio da colui che sia

ancora unito in matrimonio con persona diversa dal genitore naturale.

La censura si incentra essenzialmente sul rilievo che non sembra ammissibile la contemporanea

esistenza di più nuclei familiari legittimi, il primo fondato sul matrimonio e gli altri, “che

potrebbero formarsi con la legittimazione per provvedimento del giudice dei figli concepiti fuori del

matrimonio, ma in costanza del matrimonio stesso”.

Ad avviso della Corte occorre considerare che la Costituzione ha enunciato negli artt. 29 e 30 i

principi e i presupposti sui quali si fonda l’istituto giuridico della famiglia e ha individuato i doveri

e i diritti dei genitori e dei figli, attribuendo al legislatore ordinario il compito di regolare con

apposite normative gli istituti famigliari e i reciproci rapporti fra genitori e figli nel rigoroso rispetto

dei principi sanciti in tali articoli.

Una nuova disciplina è stata introdotta con la legge 19 maggio 1975, n. 151, che ha modificato

l’art. 284 cod. civ. Occorre pertanto verificare se l’art. 284 nella sua nuova formulazione tuteli nei

limiti costituzionali gli interessi dei legittimandi e quelli dei figli legittimi e legittimati e tener

presente che, contrariamente a quanto mostra di ritenere il rimettente, la legittimazione per

provvedimento del giudice di un figlio nato fuori del matrimonio non crea affatto una nuova

famiglia legittima che coesisterebbe accanto a quella basata sul matrimonio, ma ha il solo ed

esclusivo effetto di attribuire al nato fuori del matrimonio la qualità di figlio legittimo (art. 280 cod.

civ.).

Non sussiste pertanto e non può giuridicamente sussistere il pericolo denunziato dai rimettenti

che attraverso la legittimazione possa verificarsi l’esistenza contemporanea di più famiglie.

È infatti in palese contrasto col sistema previsto dalla Costituzione la concezione che il figlio

legittimo, in quanto tale, abbia il potere di impedire che altri possa assumere il medesimo stato e

che la famiglia legittima cui egli appartiene non possa, indipendentemente dalla sua volontà,

modificarsi nella sua consistenza e nel numero dei suoi membri con l’introduzione di altri figli

legittimi aventi il suo stesso stato e i diritti che tale stato comporta. Questa situazione può infatti

verificarsi sia attraverso la nascita di altri figli legittimi dagli stessi genitori, sia, dopo lo

scioglimento del matrimonio di questi per morte di uno dei coniugi, per annullamento o divorzio,

attraverso la nascita di altri figli legittimi da un successivo matrimonio del suo genitore con persona

diversa dal precedente coniuge (matrimonio per la costituzione del quale si prescinde

giuridicamente dalla volontà dei precedenti figli legittimi e legittimati), sia attraverso la

legittimazione di figli naturali per susseguente matrimonio di uno dei genitori del figlio legittimo o

legittimato, legittimazione che, ai sensi degli artt. 280-283 e del n. 2 dell’art. 284, appare un diritto

dei genitori del legittimando, dipendente dalla loro volontà.

Le variazioni attraverso queste introduzioni di altri figli legittimi nel nucleo familiare cui il figlio

legittimo appartiene per nascita da genitori uniti in matrimonio, non solo avvengono

indipendentemente dalla sua volontà - e anche contro di essa -, ma hanno la conseguenza, oltre che

di modificare le sue eventuali aspettative patrimoniali e successorie, anche di far sorgere nei suoi

confronti, sempre indipendentemente dalla sua volontà, una serie di rapporti e vincoli di parentela

con altri individui entrati a far parte della famiglia legittima e i relativi diritti o obblighi a questi

rapporti e vincoli connessi.

Pertanto, nel valutare l’estensione del principio proclamato dalla Costituzione nel comma terzo

dell’art. 30 (“la legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale”) e il

limite posto a questa tutela, che cioè essa deve essere “compatibile con i diritti dei membri della

famiglia legittima”, è chiaro che fra questi diritti non può ritenersi compreso quello che il giudice a

quo ritiene invece esistere a favore dei figli legittimi, di poter escludere che altri esseri umani

acquistino il medesimo stato di figli legittimi dello stesso genitore con i diritti e i doveri a questo

stato inerenti.

Nello stesso tempo è però innegabile che esiste un interesse non solo privato dei membri della

famiglia, ma anche pubblico in quanto connesso alla conservazione dell’ordine e della pace sociale,

che l’unità e l’armonia di un nucleo famigliare legittimo e la sua stessa esistenza non vengano

turbati e sconvolti da atti quale, in particolari situazioni, può essere la legittimazione di un figlio

nato da persona diversa dal coniuge legittimo fuori del matrimonio mentre questo perdura, atti i

quali possano, fra l’altro, costituire offesa al coniuge legittimo e favorire giuridicamente un

comportamento moralmente riprovevole e contrario all’unità della famiglia.

In questa visuale vanno considerati sia il diritto dei genitori naturali e l’interesse di essi e del

figlio naturale ad ottenere, attraverso la legittimazione, l’attribuzione a questo ultimo dei diritti e dei

doveri inerenti alla qualità di figlio legittimo sia, d’altra parte, l’esigenza di salvaguardare in

determinate circostanze valutabili singolarmente sul piano pratico, l’esistenza e l’unità di una

famiglia legittima.

Il legislatore, rispetto alla legittimazione dei figli naturali, ha assolto il compito demandatogli

dalla Costituzione di realizzare la compatibilità della duplice esigenza di assicurare ogni tutela

giuridica e sociale ai figli nati fuori del matrimonio e di non menomare la posizione giuridica dei

membri della famiglia legittima, con la normativa della legge 19 maggio 1975, n. 151, riconoscendo

ai genitori il diritto di legittimare per susseguente matrimonio il figlio naturale e, solo nel caso in

cui vi sia per il genitore l’impossibilità o un gravissimo ostacolo ad operare questa legittimazione,

affidando con l’art. 284 del cod. civ. alla cauta discrezionalità del giudice la valutazione obbiettiva

della compatibilità o della incompatibilità di fronte a situazioni volta a volta mutevoli e che nella

realtà pratica possono essere profondamente differenziate fra loro.

Questa norma che attribuisce al giudice il potere, in coerenza con quelli previsti in altri articoli

del medesimo codice, come, ad esempio, il 151, il 155, il 252, di concedere con suo provvedimento

la legittimazione di figli nati fuori del matrimonio, appare corrispondere ai principi e dettati

costituzionali con l’osservanza dei limiti da questi imposti.

La condizione posta nel primo comma che la legittimazione può essere concessa dal giudice solo

se corrisponda agli interessi del figlio e quella prevista nel n. 4 è conforme ai principi proclamati nel

primo e nel terzo comma dell’art. 30 della Costituzione. Le condizioni prescritte nel n. 3 e

nell’ultimo comma dell’assenso del coniuge non separato del genitore richiedente la legittimazione

e la audizione obbligatoria dei figli ultrasedicenni di questo vincolano il giudice a compiere una

valutazione consapevole della situazione della famiglia legittima e nell’interesse di questa, in base

alla quale fare luogo o meno alla richiesta concessione.

Non sono pertanto fondate le eccezioni delle ordinanze in epigrafe che l’articolo contempli

esclusivamente l’interesse del legittimando e non osservi i limiti indicati dal Costituente nel terzo

comma dell’art. 30.

Razionale è la norma del n. 3 dell’art. 284 che richiede l’assenso del coniuge solo quando questo

non sia separato. Con la separazione pronunziata dal giudice viene meno l’interesse del coniuge ad

evitare la concessione da parte del giudice della legittimazione, concessione peraltro che è sempre

affidata alla discrezionalità del magistrato che dovrà in ogni caso tener conto sia dell’interesse del

legittimando sia dell’interesse e dei diritti di coloro che sono già membri della famiglia legittima.

Altrettanto razionale appare anche la disposizione di cui all’ultimo comma che in presenza di

figli legittimi o legittimati fa obbligo al presidente del tribunale di ascoltare i figli di età superiore ai

sedici anni. Questi infatti sono in grado di scienza propria consapevolmente, con la prevedibile

esclusione del pericolo che possano essere condizionati o sottoposti a pressioni o persuasioni da

parte di altri interessati, di fornire il quadro della situazione famigliare al magistrato che deve

decidere in merito alla richiesta concessione della legittimazione.

Le condizioni tassativamente stabilite dal legislatore nell’art. 284 senza l’osservanza delle quali

il giudice non può emanare il provvedimento di legittimazione non escludono d’altra parte che il

giudice nella sua discrezionalità possa assumere le informazioni che ritenga opportune, disporre

l’audizione anche del coniuge separato e dei figli infrasedicenni, come di qualunque altra persona

che riterrà utile per accertare l’effettiva situazione di fatto, disporre perizie, acquisire documenti e

quanto altro allo scopo di conoscere tutte le circostanze e le situazioni oggettive e possa decidere in

merito alla richiesta legittimazione compatibilmente agli interessi del legittimando e dei suoi

genitori e agli interessi dei membri della famiglia legittima in conformità ai principi enunciati

nell’art. 30 della Costituzione ed alla loro applicazione nella specie.

Non sussiste pertanto la denunziata violazione del principio di uguaglianza.

Comunque nel codice civile sono previsti rimedi contro la concessa legittimazione attraverso le

azioni esperibili dopo la legittimazione di cui all’art. 289 cod. civ. e l’impugnazione, non soggetta a

prescrizione, del riconoscimento anche successivamente alla legittimazione.

7.5. Filiazione naturale ed atti di liberalità

La Corte, nella sentenza n. 250 del 2000, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 803,

primo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede che – in caso di sopravvenienza di un

figlio naturale – la donazione possa essere revocata solo se il riconoscimento del figlio sia

intervenuto entro due anni dalla donazione.

Al riguardo, si rileva che la revocazione della donazione ex art. 803 cod. civ. trova fondamento

nell’esigenza di consentire al donante una rivalutazione della perdurante opportunità della

donazione stessa in seguito al fatto sopravvenuto della nascita di figli o discendenti, ovvero della

conoscenza della loro esistenza. Sulla base di una valutazione legale tipica d’un particolare fatto,

potenzialmente idoneo – anche secondo il comune sentire – ad incidere sullo spirito di liberalità

manifestatosi nell’atto di donazione posto in essere quando il donante non aveva figli o non sapeva

di averli, è stato a lui concesso di riconsiderare appunto la perdurante opportunità di tale atto, alla

stregua della nuova situazione familiare venutasi a creare.

La revocazione consegue solo al concreto esercizio del diritto potestativo attribuito dalla norma

al donante, il quale è arbitro di decidere se esercitarla, così come, una volta che l’atto sia stato

revocato, è libero di disporre a piacimento dei beni rientrati nel suo patrimonio. Per cui va escluso

che l’istituto in esame sia approntato ad immediata garanzia degli interessi dei figli sopravvenuti o,

più genericamente, degli interessi familiari. Nel contempo, però, non può negarsi che,

potenzialmente, i conseguenti effetti patrimoniali si ripercuotono sulla posizione dei figli o dei

discendenti, la cui tutela, dunque, è pur sempre da considerare immanente alle finalità della norma.

Ed è alla luce di questa premessa che va condotto lo scrutinio di costituzionalità richiesto dal

giudice a quo.

La possibilità di agire per la revocazione è dalla legge subordinata ad un duplice presupposto.

Negativo il primo, legato al fatto che il donante, nel momento della donazione, non avesse o

ignorasse di avere figli o discendenti legittimi; positivo il secondo, alternativamente costituito:

a) dalla sopravvenienza, o dalla intervenuta conoscenza dell’esistenza, di un figlio o di un

discendente legittimo del donante, cui vanno equiparate la sopravvenienza della legittimazione del

figlio naturale, che ai sensi dell’art. 280 del codice civile attribuisce la qualità di figlio legittimo, e

la sopravvenuta adozione, quantomeno quella dei minori prevista dalla legge 4 maggio 1983, n.

184, poiché l’adottato acquista lo stato di figlio legittimo degli adottanti (art. 27 della legge stessa);

b) dal riconoscimento di un figlio naturale, ma solo se “fatto entro due anni dalla donazione”.

Ebbene, ove si consideri che, ai sensi dell’art. 261 del codice civile, nel testo novellato dalla

legge 19 maggio 1975, n. 151, il riconoscimento del figlio naturale comporta l’assunzione da parte

del genitore (con l’eventuale concorso degli ascendenti) di tutti i doveri che egli ha nei confronti dei

figli legittimi, primo fra tutti quello di mantenimento previsto dagli articoli 147 e 148 del codice

civile, appare di tutta evidenza come la limitazione temporale in discorso venga a menomare senza

ragione la facoltà del genitore (o adolescente) naturale in ordine all’esercizio del menzionato diritto

potestativo, allorquando egli ritenga che solo riacquistando il bene donato potrebbe adempiere ai

suoi doveri, in una situazione di fatto del tutto analoga a quella in cui, viceversa, al genitore (o

ascendente) legittimo, ed anche all’adottante, tale facoltà è concessa senza limiti.

Stante la descritta conformazione dell’istituto in esame, una tale disparità di trattamento non si

potrebbe certo giustificare facendo riferimento alla previsione costituzionale della necessaria

compatibilità della tutela dei figli nati fuori del matrimonio con i diritti dei membri della famiglia

legittima, imposta dall’art. 30, terzo comma, Cost.

Neppure varrebbe richiamare le preoccupazioni espresse da parte della dottrina relativamente ad

un’asserita minore garanzia che altrimenti sarebbe offerta al donatario, per via di possibili

riconoscimenti pretestuosi fatti dal donante. A quest’ultimo riguardo viene invero osservato, da una

parte, che il donatario è dal medesimo art. 803 ammesso a provare “che al tempo della donazione il

donante aveva notizia dell’esistenza del figlio” e, dall’altra, che egli è legittimato ad impugnare il

riconoscimento per difetto di veridicità, ai sensi dell’art. 263, primo comma.

D’altronde, a prescindere che identiche se non più gravi preoccupazioni potrebbero derivare al

donatario dalla sopravvenienza di un’adozione, è appena il caso di notare che al riconoscimento ex

art. 250 del codice civile è equiparato, quoad effectum, l’accertamento giudiziale di cui al

successivo art. 277, il quale addirittura suppone una volontà contraria al riconoscimento stesso e,

inoltre, per quanto attiene ai figli nati dopo la donazione, di norma viene pronunciato ben al di là del

previsto biennio, con la conseguenza che mai il donante così divenuto genitore sarebbe in grado di

esercitare il diritto potestativo che il legislatore ha inteso concedergli.

Si conclude, allora, che la denunciata norma potrebbe trovare giustificazione unicamente nel

tradizionale disfavore verso la filiazione naturale, che pervadeva ancora il nuovo codice civile

nonostante la cauta apertura manifestatasi nella disposizione stessa, in confronto col corrispondente

art. 1083 del previgente codice, che considerava del tutto irrilevante il riconoscimento d’un figlio

naturale.

Ma un tale disfavore appare incompatibile col principio espresso nell’art. 30, terzo comma,

Cost., attuato dal legislatore con la riforma del diritto di famiglia, alla quale la denunciata norma è

sfuggita.

Questa, dunque, proprio alla luce del richiamato principio, è da ritenersi in contrasto con l’art. 3

Cost., sotto i due concorrenti profili della disparità di trattamento e della palese irragionevolezza.

7.6. Filiazione naturale e diritto successorio

7.6.1. La capacità dei figli naturali di ricevere per testamento

Una accresciuta tutela patrimoniale in sede successoria per i figli naturali si rinviene nella

sentenza n. 205 del 1970, in cui la Corte ravvisa un contrasto col principio di uguaglianza nell’art.

593, comma primo, del codice civile, dove si stabilisce che, quando il testatore lascia figli legittimi

o loro discendenti, i figli naturali non riconoscibili, la cui filiazione risulti nei modi indicati nell’art.

279, non possono singolarmente ricevere per testamento più della metà di quanto consegue nella

successione il meno favorito dei figli legittimi e in nessun caso possono complessivamente ricevere

più del terzo dell’eredità. Con questa norma il legislatore ha posto in essere una gravissima

limitazione della capacità di ricevere per testamento di questi figli naturali.

Orbene, evidente appare l’incostituzionalità della norma ove si ponga mente alla condizione

ch’essa riserva ai figli naturali non riconoscibili rispetto a tutti gli altri soggetti estranei alla famiglia

legittima. Mentre per questi ultimi sussiste una piena capacità di ricevere per testamento, limitata è,

invece, la capacità dei primi con la conseguenza che il testatore può liberamente disporre a favore

dei terzi estranei, lasciando ad essi l’intera quota disponibile e non può usare lo stesso trattamento

nei riguardi dei figli naturali. Pertanto, proprio in relazione alla loro condizione personale e sociale

e cioè alla loro nascita avvenuta fuori del matrimonio, i figli naturali non riconoscibili vengono a

trovarsi in condizione di sfavore rispetto agli altri estranei alla famiglia legittima, subendo un

sacrificio dei propri interessi che non trova giustificazione né nel contenuto né nella finalità della

norma.

7.6.2. Figli naturali e successione legittima

La necessità di garantire una piena tutela ai figli naturali è avvertita dalla Corte, in una

particolare ipotesi, nella sentenza n. 82 del 1974, dichiarativa della illegittimità costituzionale

dell’art. 575 del codice civile nella parte in cui, in mancanza di figli legittimi e del coniuge del

genitore, ammette un concorso tra i figli naturali riconosciuti o dichiarati e gli ascendenti del

genitore.

Appare evidente l’incostituzionalità della norma impugnata nella parte in cui, pur non essendovi

prole legittima e coniuge del genitore, ammette un concorso nella successione degli ascendenti del

genitore con i figli naturali attribuendo a questi ultimi i due terzi dell’eredità. Questo trattamento,

che è diverso da quello riconosciuto ai figli legittimi, i quali conseguono l’intera eredità escludendo

dal concorso gli ascendenti, non è giuridicamente giustificato. I diritti ereditari dei figli naturali

riconosciuti o dichiarati possono essere legittimamente limitati allorché essi concorrono con i figli

legittimi ed il coniuge del genitore, ma non già quando vi siano soltanto gli ascendenti poiché questi

– agli effetti qui considerati – non sono membri della famiglia legittima.

I figli naturali riconosciuti o dichiarati debbono conseguire – nell’ipotesi in cui manchino

membri della famiglia legittima e non sussista quindi l’incompatibilità prevista dall’art. 30, comma

terzo, Cost. – lo stesso trattamento successorio riservato ai figli legittimi e cioè succedono in tutta

l’eredità.

Con la sentenza n. 76 del 1977, la Corte respinge la questione di legittimità costituzionale degli

artt. 586 e 570 del codice civile in relazione agli artt. 3 e 30 della Costituzione in quanto stabilisce il

586 che in mancanza di altri successibili (fra i quali, dalle disposizioni di legge che regolano le

successioni legittime, non è compreso il fratello naturale del de cuius) l’eredità è devoluta allo

Stato.

Per la Corte, l’art. 570 riguarda la successione dei fratelli e delle sorelle del de cuius, ma la

parentela collaterale da cui la norma fa discendere il diritto alla successione, fra le persone

summenzionate, deve essere legittima e non naturale. Come la famiglia legittima è quella

costituitasi col matrimonio e composta dal coniuge e dai figli legittimi e dà vita a rapporti

collaterali, la parentela naturale, risultante dal solo vincolo di sangue, acquista valore giuridico se

riconosciuta o dichiarata ed opera in modo ristretto in quanto il vincolo che si crea lega soltanto fra

di loro figlio naturale e genitore naturale e non ha valore estensivo.

La stessa legge di riforma del diritto di famiglia (19 maggio 1975, n. 151), pur avendo dato

larghissimo spazio alla riconoscibilità e dichiarabilità della filiazione anche adulterina e concesso

parità di trattamento dei figli naturali e di quelli legittimi non solo sul piano personale ma anche

patrimoniale e successorio, non ha tuttavia esteso la parentela naturale al di là del rapporto che

unisce vicendevolmente ascendenti e discendenti.

E poiché quando l’art. 30 della Costituzione afferma che la “legge assicura ai figli nati fuori del

matrimonio ogni tutela giuridica e sociale” si riferisce sempre ed unicamente ai rapporti fra genitori

e figli e non a quelli dei figli tra di loro e non sussistono, ragioni costituzionalmente valide per una

diversa interpretazione dell’art. 30 della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale

avanzate dal tribunale di Catanzaro, in relazione agli artt. 570 e 586 c.c., vanno disattese.

La Corte dichiara, nella sentenza n. 55 del 1979, la illegittimità costituzionale dell’art. 565 cod.

civ., nella parte in cui esclude dalla categoria dei chiamati alla successione legittima, in mancanza

di altri successibili, e prima dello Stato, i fratelli e le sorelle naturali riconosciuti o dichiarati, per

contrasto con gli artt. 3 e 30, terzo comma, della Costituzione.

Motiva la Corte che una posizione di minore tutela del figlio nato fuori del matrimonio in tanto

può trovare una sua giustificazione costituzionale in quanto tale condizione venga a confliggere con

i diritti dei membri della famiglia legittima. Ove – come nella specie – tale situazione di

conflittualità non possa ipotizzarsi, per essere lo Stato unico chiamato alla successione, la posizione

del figlio naturale viene assimilata a quella del discendente legittimo.

In assenza quindi di membri della famiglia legittima, trova giustificazione la successione tra

fratelli (o sorelle) naturali nei casi in cui non vi siano altri successibili ex lege, ad eccezione dello

Stato.

È chiaro, inoltre, che la devoluzione della eredità allo Stato, operante, ai sensi dell’art. 586 cod.

civ., nella assenza di altri successibili, è motivata, tra l’altro, da ragioni di ordine generale, per la

necessità di impedire che i beni restino in stato di abbandono: il che non ha modo di verificarsi tutte

le volte in cui esistano soggetti legati al de cuius da vincoli di sangue.

L’art. 565 cod. civ. contrasta anche con l’art. 3 della Costituzione. Ed infatti, una volta ritenuto

che la posizione giuridica del figlio nato fuori del matrimonio – ove non sussistano diritti dei

membri della famiglia legittima da tutelare – è analoga a quella dei figli legittimi, appare

contrastante con il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale un regime successorio che

escluda che i fratelli (o le sorelle) naturali possano succedere ai propri fratelli (o sorelle) naturali,

stabilendo conseguentemente per essi un trattamento deteriore rispetto a tutti gli altri successibili ex

lege.

Strettamente connessa alla sentenza che precede è l’ordinanza n. 363 del 1988, recante la

dichiarazione di manifesta inammissibilità della questione di costituzionalità relativa all’art. 565

cod. civ. “nella parte in cui esclude dalla categoria dei chiamati alla successione legittima, in

mancanza di altri successibili, e prima dello Stato, gli zii naturali riconosciuti o dichiarati del de

cuius”, poiché la qualifica, arditamente ellittica, più volte attribuita dal giudice a quo ai fratelli del

genitore che ha riconosciuto il figlio naturale o la cui paternità o maternità è stata dichiarata,

presuppone la norma alla quale si chiede alla Corte di dare ingresso con una sentenza additiva, cioè

una norma che all’accertamento formale della filiazione naturale colleghi l’effetto di far entrare il

figlio nella famiglia di origine del genitore, in guisa da attribuirgli uno status familiare rapportato

non solo a un padre o a una madre, ma anche a nonni, zii e cugini;

Una norma del genere non esisteva nell’ordinamento vigente all’epoca dell’apertura della

successione de qua, né esiste in quello attuale: l’art. 258, primo comma, cod. civ. (testo del 1942)

disponeva che “il riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui fu fatto”, e tale

disposizione è riprodotta nel testo novellato dall’art. 108 della legge n. 151 del 1975, con l’aggiunta

(superflua) “salvi i casi previsti dalla legge”.

Nessun argomento, nel senso della costituzione di un rapporto giuridico di parentela tra figlio

naturale riconosciuto e fratelli o sorelle del genitore, può trarsi dall’art. 87, terzo comma, cod. civ.,

che dichiara applicabile il divieto di matrimonio tra zio o zia e nipote “anche se il rapporto dipende

da filiazione naturale”, perché l’impedimento matrimoniale opera per il solo fatto della

consanguineità, indipendentemente dalla circostanza che la filiazione naturale sia stata o no

riconosciuta o dichiarata;

Peraltro, la tutela garantita dal terzo comma dell’art. 30 Cost. ai figli naturali, in quanto criterio

di conformazione dello status di filiazione naturale, è circoscritta al rapporto con il genitore la cui

paternità o maternità è stata accertata, come si arguisce sia dal confronto col primo comma, sia dal

limite di compatibilità “con i diritti dei membri della famiglia legittima”, unanimemente riferito

dagli interpreti alla (piccola) famiglia che il genitore abbia costituito mediante matrimonio con

persona diversa dall’altro.

La questione se per effetto del riconoscimento il figlio naturale entri nella famiglia di origine del

genitore, appunto perché estranea ai rapporti del figlio con il genitore, non è pregiudicata dall’art.

30 Cost., e quindi si prospetta come questione di politica legislativa rimessa alla valutazione

discrezionale del legislatore, il quale nemmeno in occasione della riforma del 1975 si è deciso a

questo passo.

Affermazioni di notevole interesse sono contenute anche nella sentenza n. 184 del 1990, che

accoglie la questione di legittimità costituzionale dell’esclusione dei fratelli e delle sorelle naturali

dalle categorie dei successibili ab intestato, in guisa che è ad essi negato il diritto di successione

reciproca pur in mancanza di altri successibili all’infuori dello Stato.

Vengono richiamate due notazioni, tra loro complementari, relative a due aspetti del significato

normativo dell’art. 30, terzo comma, della Costituzione.

Il primo significato si esprime in una regola di equiparazione dello status di figlio naturale

(riconosciuto o dichiarato) allo status di figlio legittimo nei limiti di compatibilità con i diritti dei

membri della famiglia legittima costituita dal matrimonio del genitore con persona diversa

dall’altro. In questo senso “l’art. 30 si riferisce ai rapporti tra genitori e figli, e non a quelli dei figli

tra loro” (sentenza n. 76 del 1977): il suo ambito normativo è commisurato alla regola dell’art. 258,

primo comma, cod. civ., che delimita l’efficacia del riconoscimento.

Nel secondo significato, concernente i rapporti della prole naturale con i parenti del genitore

(ossia con la famiglia di origine del genitore e con altri suoi figli, legittimi o naturali riconosciuti),

l’art. 30, terzo comma, non impartisce un comando immediato di parificazione giuridica alla prole

legittima anche in questi rapporti, ma si pone come “norma ispiratrice di un orientamento

legislativo a favore dei figli naturali” (sentenza n. 55 del 1979), la quale esclude che al limite di

efficacia del riconoscimento indicato dall’art. 258 cod. civ. possa attribuirsi valore assoluto. In

conformità di tale norma il testo novellato dell’articolo aggiunge una riserva che fa “salvi i casi

previsti dalla legge”.

Coordinato col principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il principio ora individuato

dell’art. 30 implica un limite alla discrezionalità legislativa nella determinazione dei casi e dei

contenuti di rilevanza giuridica del riconoscimento nei rapporti con i parenti del genitore. Il limite

può essere così formulato: nei detti rapporti le disparità di trattamento delle due specie di filiazione

non possono essere conservate più di quanto richiedano un ragionevole bilanciamento degli

interessi in gioco e il contemperamento con – o la sottordinazione ad – altri principi di pari o

maggior peso.

Alla stregua di questo criterio non vi sono ragioni idonee a giustificare la conservazione della

regola del codice civile che esclude il diritto di successione tra fratelli e sorelle naturali pur quando,

mancando altri successibili per titolo di coniugio o di parentela, il favore per i figli naturali non

entra in conflitto col principio della successione familiare, né con l’interesse dello Stato. L’istituto

dell’art. 586 cod. civ. non tutela un interesse patrimoniale dello Stato di natura privata, che possa

essere messo a confronto con l’interesse dei fratelli naturali superstiti, bensì l’interesse pubblico alla

conservazione dei beni del defunto e alla continuità dei rapporti giuridici che a lui facevano capo,

quando manchino soggetti legittimati a raccogliere l’eredità.

Non si può obiettare che l’apertura dell’ordine successorio ai fratelli naturali eccederebbe

l’ambito soggettivo della tutela dell’art. 30 Cost. perché avvantaggerebbe anche i figli legittimi del

genitore che ha riconosciuto il figlio naturale: in mancanza dei successibili indicati negli artt. 578 e

579 cod. civ., essi potrebbero pretendere l’eredità lasciata dal figlio naturale. Tale possibilità è

inclusa per ragione di necessaria reciprocità nella prospettata ultrattività del riconoscimento, la

quale investe gli altri figli dello stesso genitore indipendentemente dalla natura del rispettivo status

di filiazione, tutti essendo, naturali o legittimi, fratelli naturali nei confronti del figlio naturale

considerato.

Nemmeno la norma censurata può trovare una giustificazione tecnico-giuridica nella mancanza

di un rapporto civile di parentela tra fratelli e sorelle naturali. Il riconoscimento di un rapporto

giuridico di parentela è indubbiamente una scelta spettante alla discrezionalità insindacabile del

legislatore; ma è altrettanto fuori dubbio, da un lato, che la rilevanza del riconoscimento nei rapporti

con i parenti del genitore non è necessariamente legata al modello dell’efficacia nel rapporto tra

genitore e figlio, dall’altro, che il criterio tradizionale per cui i titoli di successione mortis causa

sono individuati nella sfera dei rapporti familiari del defunto non è assoluto. Il sistema delle

successioni a causa di morte ha conosciuto e conosce diritti successori direttamente collegati al fatto

naturale della consanguineità, in deroga alla regola della successione familiare.

L’accertamento della non conformità dell’art. 565 cod. civ. al principio sopra spiegato dell’art.

30 Cost., con conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua, comporta

l’attribuzione ai fratelli e alle sorelle naturali di un titolo reciproco di successione ereditaria fondato

sul vincolo di consanguineità indirettamente risultante dai rispettivi status di filiazione, titolo che

potrà essere fatto valere in mancanza di successibili per diritto di coniugio o di parentela, e con

precedenza sulla successione dello Stato.

La sentenza che precede viene richiamata dalla sentenza n. 377 del 1994, che dichiara la

inammissibilità della questione di legittimità costituzionale: a) in linea principale, degli artt. 565 e

572 cod. civ., nella parte in cui non prevedono la successione dei fratelli e delle sorelle naturali del

de cuius in mancanza di membri della famiglia legittima, intesa in senso stretto; b) in linea

subordinata, dell’art. 468 cod. civ., nella parte in cui non ammette i discendenti di fratello o sorella

naturale del de cuius a rappresentare il genitore che non può o non vuole accettare l’eredità.

Il giudice rimettente richiama il precedente della sentenza n. 184 del 1990, ma la questione da lui

sollevata prospetta un intervento sul regime successorio di natura diversa e ben più incisivo. La

sentenza n. 184 ha introdotto una nuova categoria (o classe) di successibili, rappresentata dai fratelli

e dalle sorelle naturali, senza però alterare l’ordine successorio della parentela del defunto. Per

effetto della sentenza i fratelli e le sorelle naturali sono chiamati all’eredità in mancanza di

successibili per diritto di coniugio o di parentela, con precedenza soltanto sullo Stato. Poiché la

successione dello Stato si inserisce nel sistema della successione legittima non come ordine

successorio, ma con funzione suppletiva della successio ordinum e come norma di chiusura del

sistema, l’attribuzione di un titolo successorio con efficacia così circoscritta non implica la

costituzione di uno status giuridico, nemmeno ridotto, di parentela col de cuius. Come precisa la

sentenza citata, il diritto da essa riconosciuto si fonda direttamente sul fatto naturale della

consanguineità, valutato alla stregua della direttiva di graduale miglioramento della condizione di

diritto familiare della prole naturale anche nei rapporti con i parenti del genitore (e quindi anche nei

rapporti dei figli naturali riconosciuti tra loro), enucleata al secondo dei due livelli di interpretazione

ammessi dall’art. 30, terzo comma, della Costituzione.

La questione in esame mira, invece, a ottenere l’inserimento dei fratelli e delle sorelle naturali

negli ordini successori dei parenti, costituendoli come terzo ordine tra gli ascendenti e i fratelli e le

sorelle legittimi (o i loro discendenti) e gli altri parenti collaterali dal terzo al sesto grado, i quali

degraderebbero a quarto ordine.

Ora, è vero che la discrezionalità lasciata al legislatore dalla suddetta direttiva costituzionale è

soggetta al limite della ragionevolezza dei tempi di attuazione, commisurati alla dinamica evolutiva

dei rapporti sociali. Dopo vent’anni dalla riforma del diritto di famiglia appare sempre meno

plausibile la regola che esclude dall’eredità i fratelli e le sorelle naturali del defunto a beneficio

anche di lontani parenti legittimi fino al sesto grado. Il legislatore deve prendere atto del notevole

incremento verificatosi nel frattempo, sebbene in misura inferiore che in altri paesi, delle nascite

fuori del matrimonio e del fenomeno parallelo della famiglia di fatto. Ma l’incostituzionalità

dell’impugnato art. 572 cod. civ. non è sostenibile nei termini assoluti e indiscriminati

dell’ordinanza di rimessione.

Nell’applicare il criterio di compatibilità “con i diritti dei membri della famiglia legittima”, il

giudice a quo fa riferimento alla famiglia in senso stretto definita dalla sentenza n. 79 del 1969,

senza avvertire la diversa referenzialità sottesa ai due significati normativi, primario e secondario,

distinguibili nell’art. 30, terzo comma, della Costituzione Il riferimento alla famiglia che il de cuius

si è formato mediante il matrimonio con persona diversa dall’altro genitore ha senso solo quando il

problema del trattamento dei figli naturali, in rapporto ai figli legittimi, si pone con riguardo alla

successione al genitore comune o ai suoi ascendenti. Quando il problema si pone, invece, con

riguardo alla successione a chi, avendo lo status di figlio legittimo, muore senza lasciare né

coniuge, né discendenti, il referente per la ponderazione della tutela costituzionalmente garantita ai

fratelli naturali del defunto è la sua famiglia di origine, ossia la parentela definita dall’art. 74 cod.

civ., e non vi sono indicazioni, normative o sociologiche, che autorizzino l’interprete a restringerne

senz’altro la rilevanza giuridica, sotto questo aspetto, ai membri della famiglia coniugale costituita

dai genitori del defunto. In rapporto non solo agli ascendenti e ai fratelli e alle sorelle, ma anche agli

zii e alle zie e ai loro figli – parenti di terzo e quarto grado, che già il codice del 1942 distingueva, a

certi effetti, dai parenti più lontani di quinto e sesto grado (art. 583, testo originario) – è sicuramente

riconoscibile ancor oggi una coscienza della parentela operante come fonte di solidarietà di gruppo.

Di questo dato sociologico e dell’inerente giudizio di valore occorre tenere conto nel

bilanciamento di interessi che deve guidare l’attuazione della direttiva costituzionale più volte

rammentata: bilanciamento che coinvolge una valutazione complessa eccedente i poteri della Corte,

essendo prospettabile una pluralità di soluzioni, non esclusa l’introduzione di nuovi casi di

concorso, tra le quali la scelta appartiene alla discrezionalità legislativa.

7.6.3. Il concorso tra figli naturali e figli legittimi

Il rispetto della valutazione discrezionale del legislatore, aderente alla realtà sociale dell’epoca

per le successioni apertesi prima dell’entrata in vigore della nuova legge del 1975, comporta –

secondo quando stabilito nella sentenza n. 168 del 1984 – che nel concorso di figli legittimi e

naturali spetti a favore dei primi una quota ereditaria maggiore (cod. civ., art. 541 abrogato dall’art.

177 della legge 19 maggio 1975, n. 151) senza che ciò violi gli artt. 3 e 30, comma terzo, della

costituzione.

La Corte ha ben presente che la modifica introdotta sul punto dalla legge di riforma del diritto di

famiglia, la quale, con l’art. 173, ha sostituito il testo dell’art. 537 del codice civile, disponendo, in

tema di riserva a favore dei figli, che, nella ipotesi di concorso all’eredità di figli legittimi e naturali,

agli uni e agli altri siano attribuiti in egual misura i medesimi diritti successori.

Dai relativi lavori parlamentari si evince che il legislatore, muovendo dalla consapevolezza che

“nessuna parte dell’ordinamento giuridico risente come il diritto familiare delle contemporanee ed

opposte sollecitazioni della tradizione da un lato e del costume in evoluzione dall’altro”, ha inteso

impegnare “saggezza ed equilibrio” al fine di “modulare le delicate correlazioni e l’intensità degli

strumenti di tutela dei diversi interessi in gioco... per la migliore sistemazione normativa

dell’istituto e sopratutto per la sua aderenza alla realtà sociale”. Per quanto in particolare concerne

l’operata parificazione dei figli naturali ai legittimi nell’ambito successorio, è stato nella medesima

sede escluso che “il limite costituzionale ai diritti dei figli nati fuori del matrimonio – rappresentato

dalla tutela della famiglia legittima – implichi una ridotta partecipazione alla successione

ereditaria”. Ed all’uopo si è affermato che, se vero che il dettato costituzionale non impone tale

parificazione, altrettanto vero è che esso non la vieta, trattandosi di “una scelta sul piano

dell’opportunità politica che non coinvolge valutazioni di ordine costituzionale”.

La ratio cui risulta ispirata la intervenuta parificazione dei figli naturali ai figli legittimi, in

ordine ai diritti riservati ai legittimari nella successione, appare dunque in armonia con quella

interpretazione del terzo comma dell’art. 30 della Costituzione, che la Corte aveva già accolto e che

qui riconferma, riconoscendo al legislatore ordinario, a proposito della concreta estrinsecazione del

limite di “compatibilità” ivi sancito, ampio margine di scelte egualmente ammissibili, pur nella loro

diversità: sempre che le scelte medesime non si rivelino palesemente irrazionali o vulnerino

interessi costituzionalmente garantiti.

Dalla menzionata disciplina che ha sostituito quella dettata dalla denunciata norma, non può,

pertanto, contrariamente all’assunto del giudice a quo, trarsi utile argomento per avvalorare il

prospettato dubbio di legittimità costituzionale sul quale la Corte è chiamata a pronunciarsi.

Significativa in proposito appare anche la considerazione che la medesima legge di riforma, nel

disporre (art. 237) che alcune delle modifiche da essa introdotte (artt. 580 e 594 del codice civile,

concernenti i diritti successori dei figli naturali non riconosciuti o non riconoscibili, nei testi

sostituiti rispettivamente dagli artt. 188 e 195) si applichino anche alle successioni apertesi prima

della sua entrata in vigore, non abbia disposto altrettanto per il nuovo testo dell’art. 537, che ha

operato, come innanzi detto, la cennata parificazione: il che sembra confermare che, nella

elaborazione della riforma del diritto di famiglia, non si è nutrito dubbio sulla legittimità

costituzionale dell’abrogato art. 541 del codice civile.

In conclusione, per quanto innanzi esposto, ritiene la Corte che l’art. 541 del codice civile,

abrogato dalla legge n. 151 del 1975, ma tuttora applicabile alle successioni apertesi prima

dell’entrata in vigore della legge medesima, nel determinare la quota ereditaria riservata ai figli

naturali in misura pari alla metà della quota riservata ai figli legittimi, non contrasti né con il

principio della tutela dei figli nati fuori del matrimonio, garantita dall’art. 30, comma terzo, né con

il principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 della Costituzione.

La diversità di trattamento cui la denunciata norma dà luogo, in ordine ai diritti riservati ai

legittimari nella successione, tra figli legittimi e figli naturali, appare infatti giustificata

dall’esigenza, sancita a livello egualmente costituzionale, di una conciliazione della tutela dei figli

naturali con i diritti dei membri della famiglia legittima. Frutto di una scelta operata in aderenza alla

realtà sociale dell’epoca, ed immune da vizi di irrazionalità, la disposizione in questione rientra

invero, nell’ambito che il precetto costituzionale, senza incidervi direttamente, ha lasciato, riguardo

ai modi di tale conciliazione, alle valutazioni discrezionali del legislatore.

Analoga questione viene proposta nel giudizio concluso con la sentenza n. 167 del 1992, in cui

la Corte respinge la questione di legittimità costituzionale dell’art. 574 cod. civ. – abrogato dall’art.

187 della legge 19 maggio 1975, n. 151, ma applicabile nel giudizio a quo, in quanto vertente su

una successione aperta prima dell’entrata in vigore della legge – nella parte in cui, nel concorso ab

intestato di figli legittimi con figli naturali, attribuisce a questi metà della quota che conseguono i

legittimi, anziché un pari diritto ereditario.

Ad avviso della Corte, non vi sono ragioni per modificare tale giudizio con riguardo alla norma

ora impugnata, formalmente diversa, ma sostanzialmente identica a quella oggetto della sentenza n.

168 del 1984.

Le norme abrogate del codice civile del 1942, che definivano i diritti successori dei figli naturali

in concorso con figli legittimi, non possono essere valutate anticipando nel tempo i criteri direttivi

della riforma del diritto di famiglia, dopo la quale, e in conseguenza di essa, si è accentuato il

mutamento della coscienza e della sensibilità sociale in ordine alla condizione di questa categoria di

figli.

Occorre, invece, rifarsi all’interpretazione dell’art. 30 Cost. vigente anteriormente alla novella

del 1975, dalla quale emergeva il comando di parificazione dei diritti ereditari dei figli naturali a

quelli attribuiti ai legittimi soltanto nelle ipotesi di mancanza di membri della famiglia legittima,

intesa nel senso stretto in cui è considerata dalla norma costituzionale.

Nei confronti dei figli legittimi e del coniuge superstite il principio costituzionale di

parificazione giuridica dei figli naturali è soggetto al limite della compatibilità con i diritti dei

membri della famiglia legittima. La determinazione di tale limite appartiene alla discrezionalità del

legislatore, di guisa che la disciplina in esame del concorso dei figli naturali con figli legittimi nella

successione intestata e nella quota di riserva fu giudicata dalla sentenza n. 79 del 1969 un modo di

attuazione ante litteram del precetto costituzionale di conciliazione della tutela degli uni con i diritti

degli altri.

Per quanto possa oggi apparire severa, l’attribuzione ai figli naturali di una quota ridotta alla

metà della quota conseguita dai legittimi non può ritenersi eccedente il limite della ragionevolezza,

la quale deve essere valutata nel contesto storico che aveva prodotto la norma. A quell’epoca essa

segnò un notevole progresso nell’evoluzione legislativa verso un migliore trattamento dei figli

naturali, avendo il codice del 1942 sostituito al precedente criterio di calcolo della quota secondo il

sistema della “quota di diritto” il più favorevole sistema della “quota di fatto”.

7.6.4. La riserva ereditaria a favore dei figli naturali

La Corte dichiara, nella sentenza n. 50 del 1973, l’illegittimità costituzionale dell’art. 539 del

codice civile, il quale dispone la riserva a favore dei figli naturali riconosciuti o dichiarati,

stabilendo che ad essi debba essere riservato un terzo del patrimonio del genitore se questi lasci un

solo figlio naturale, o la metà se i figli naturali sono più, salvo quanto è disposto dagli artt. 541,

542, 543, 545 e 546 per i casi di concorso.

Tale norma stabilisce, per la riserva ereditaria a favore dei figli naturali riconosciuti o dichiarati

quando manchino figli legittimi o coniuge del de cuius e quindi non sussistano diritti dei membri

della famiglia legittima, che l’art. 30, comma terzo, della Costituzione intende espressamente

tutelare, una disparità rispetto alla riserva ereditaria a favore dei figli legittimi dichiarata dall’art.

537 del codice civile.

Pertanto, l’art. 539 codice civile, in quanto in contrasto con l’art. 30, comma terzo, della

Costituzione, che assicura “ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei membri della

famiglia legittima” e con l’art. 3 della Costituzione, in quanto stabilisce, in mancanza di membri

della famiglia legittima, un trattamento non giuridicamente giustificato, di disparità successoria per

i figli naturali rispetto ai figli legittimi, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo «nelle

parti in cui fissa la riserva ereditaria a favore dei figli naturali riconosciuti o dichiarati nella misura

di un terzo del patrimonio del genitore se questo lascia un solo figlio naturale o la metà se i figli

sono più e non nella stessa misura prevista dall’art. 537 del codice civile a favore dei figli legittimi

e cioè nella misura della metà se il genitore lascia un figlio solo e di due terzi se i figli sono più».

Dato l’espresso richiamo dell’art. 539 del codice civile agli artt. 545 e 546 stesso codice, la Corte

prende in esame anche la legittimità costituzionale dell’art. 545 del codice civile, il quale dispone il

concorso di ascendenti legittimi con figli naturali e dell’art. 546, il quale dispone il concorso di

ascendenti legittimi, figli naturali e coniuge. Gli artt. 545 e 546 del codice civile risultano

incostituzionali in quanto limitano i diritti del figlio naturale anche quando manchino “membri della

famiglia legittima”, non rientrando fra questi gli ascendenti legittimi del de cuius e quindi quando

non sussiste l’incompatibilità prevista dal citato art. 30, comma terzo, della Costituzione, e in

quanto contrastano con l’art. 3 della Costituzione stabilendo un trattamento non giuridicamente

giustificato di disparità successoria dei figli naturali rispetto ai figli legittimi. Il concorso del

coniuge con i figli naturali è già regolato dall’art. 543 codice civile così come è regolato dall’art.

541 stesso codice il concorso di figli legittimi e figli naturali e dall’art. 542 il concorso di figli

legittimi, coniuge e figli naturali. Pertanto i diritti dei membri della famiglia legittima rispetto a figli

naturali riconosciuti o dichiarati risultano tutelati in piena conformità della disposizione dell’art. 30,

comma terzo, della Costituzione.

Conseguentemente, per l’attuazione del principio costituzionale di cui all’art. 30, comma terzo,

della Costituzione, la legge deve stabilire che a favore dei figli naturali, quando la filiazione è

riconosciuta o dichiarata, è riservata la metà del patrimonio del genitore se questo lascia un solo

figlio naturale o i due terzi se i figli naturali sono più, salvo quanto è disposto dagli artt. 541, 542,

543 per i casi di concorso.

7.6.5. Il diritto di commutazione a favore dei figli legittimi

Immune da censura si rivela l’art. 537, terzo comma, del codice civile, in base al quale “i figli

legittimi possono soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli

naturali che non vi si oppongano. Nel caso di opposizione decide il giudice, valutate le circostanze

personali e patrimoniali”.

Nella sentenza n. 335 del 2009, la Corte, dopo avere menzionato l’art. 30, terzo comma, Cost.,

ricorda il duplice significato normativo attribuito dalla propria giurisprudenza al precetto

costituzionale in esame, che, dal lato dei rapporti tra genitori e figli, si esprime in una regola di

equiparazione dello status di figlio naturale (riconosciuto o dichiarato) allo status di figlio legittimo

nei limiti di compatibilità con i diritti dei membri della famiglia legittima fondata sul matrimonio;

mentre, nei rapporti della prole naturale con i parenti del genitore (ossia con la famiglia di origine

del genitore e con altri suoi figli, legittimi o naturali riconosciuti), si pone come norma ispiratrice di

una direttiva di sempre più adeguata tutela della condizione di diritto familiare della prole naturale.

Di conseguenza, la Corte ha anche chiarito «come dall’art. 30 della Costituzione non discenda in

maniera costituzionalmente necessitata la parificazione di tutti i parenti naturali ai parenti

legittimi», in quanto «un ampio concetto di “parentela naturale” non è stato recepito dal legislatore

costituente, il quale si è limitato a prevedere la filiazione naturale ed a stabilirne l’equiparazione a

quella legittima, peraltro con la clausola di compatibilità» (sentenza n. 532 del 2000).

Nello specifico ambito dei rapporti tra il figlio naturale ed i membri della famiglia legittima, è

proprio il menzionato criterio di compatibilità che rappresenta lo snodo del sistema costituzionale

finalizzato alla composizione dei diritti coinvolti, che deve compiersi in un contesto (non già di

discriminazione della posizione dell’uno rispetto a quella degli altri, quanto piuttosto) di

riconoscimento della diversità delle posizioni in esame. Diversità nella parità di trattamento, quindi,

che si coglie immediatamente dalla semplice considerazione che l’art. 30, primo e terzo comma,

Cost., «come avviene nella stragrande maggioranza degli ordinamenti oggi vigenti», conosce «solo

due categorie di figli: quelli nati entro e quelli nati fuori del matrimonio, senza ulteriore distinzione

tra questi ultimi» (sentenza n. 494 del 2002).

Pertanto, l’approccio alla problematica relativa alla correttezza della scelta delle concrete

modalità di realizzazione del menzionato contemperamento con (o la sottordinazione ad) altri

principî di pari o maggior peso va interamente condotto sul versante della analisi della

ragionevolezza del trattamento differenziato, commisurata «alla dinamica evolutiva dei rapporti

sociali» (sentenza n. 377 del 1994).

L’art. 537 cod. civ. (come sostituito dall’art. 173 della legge 19 maggio 1975, n. 151), oltre a

prevedere e regolamentare il diritto di commutazione in esame (terzo comma), dispone che, nella

ipotesi di concorso all’eredità di figli legittimi e naturali, agli uni e agli altri siano attribuiti in egual

misura i medesimi diritti successori (primo e secondo comma). Il legislatore della riforma del diritto

di famiglia, quindi – modificando radicalmente quanto in precedenza previsto dall’art. 541 cod. civ.

(abrogato dall’art. 177 della stessa legge n. 151 del 1975) – ha equiparato i diritti successori dei figli

legittimi e naturali, contestualmente rimodulando il menzionato diritto di commutazione (che

riguarda la fase di divisione dell’asse ereditario), trasformato da insindacabile diritto meramente

potestativo attribuito ai figli legittimi a diritto ad esercizio puntualmente controllato, in quanto

soggetto alla duplice condizione della mancata opposizione del figlio naturale e della decisione del

giudice, «valutate le circostanze personali e patrimoniali».

Occorre rilevare che la Corte ha già avuto modo di affermare come la norma impugnata si

collochi nella prospettiva del progressivo adeguamento della normativa allo spirito evolutivo

promanante dal precetto costituzionale di cui al terzo comma dell’art. 30, che permea la riforma del

diritto di famiglia e che caratterizza (ed indirizza) l’ampia discrezionalità lasciata al legislatore in

materia; discrezionalità che, tuttavia, oltre a dover rispettare il canone di una ragionevolezza

commisurata alla dinamica evolutiva dei rapporti sociali, è soggetta anche al limite, stabilito dalla

medesima disposizione costituzionale, della compatibilità con i diritti dei membri della famiglia

legittima (sentenza n. 168 del 1984).

Se, dunque, la completa equiparazione nel quantum dei diritti successori dei figli legittimi e

naturali, stabilita dai primi due commi dell’art. 537 cod. civ. attua (in modo certamente obbligato) il

principio della necessaria uguaglianza delle posizioni dei figli nel rapporto con il genitore dante

causa (deceduto ab intestato), la scelta del legislatore di conservare in capo ai figli legittimi la

possibilità di richiedere la commutazione, condizionata dalla previsione della facoltà di opposizione

da parte del figlio naturale e dalla valutazione delle specifiche circostanze posta a base della

decisione del giudice, non contraddice la menzionata aspirazione alla tendenziale parificazione della

posizione dei figli naturali, giacché non irragionevolmente si pone ancor oggi (quale opzione

costituzionalmente non obbligata né vietata) come termine di bilanciamento (compatibilità) dei

diritti del figlio naturale in rapporto con i figli membri della famiglia legittima.

L’espresso riferimento della Costituzione al criterio di “compatibilità” assume la funzione di

autentica clausola generale, aperta al divenire della società e del costume.

È appunto in questa prospettiva che si è mosso il legislatore del nuovo diritto di famiglia,

attribuendo al giudice – cui viene in definitiva demandato il riscontro della sussistenza o meno di

quella che sostanzialmente può definirsi come “giusta causa” dell’opposizione del figlio naturale

alla richiesta di commutazione avanzata dai figli legittimi – il ruolo di garante della parità di

trattamento nella diversità, attraverso il continuo adeguamento della concreta applicazione della

norma ai principî costituzionali. La naturale concretezza della soluzione giurisdizionale (che, ove le

circostanze lo esigano, può ovviamente essere a favore del figlio naturale) permette, infatti, di

calibrare la singola decisione alle specifiche circostanze personali (attinenti ai pregressi rapporti tra

i figli) e patrimoniali (riguardanti la situazione dei beni lasciati in eredità, in considerazione, sia

della loro migliore conservazione e gestione, sia del rapporto che lega l’erede al bene), così da

scongiurare eventuali esercizi arbitrari, e quindi non meritevoli in concreto di tutela, del diritto di

commutazione o della facoltà di opposizione.

D’altronde, la (volutamente) elastica formula linguistica adoperata dal legislatore risulta

teleologicamente coerente al sistema, poiché lascia tutto il dovuto spazio all’apprezzamento

discrezionale del giudice (le cui decisioni, peraltro, sono soggette, come le altre, ai normali rimedi

processuali).

Lungi, dunque, dal dirsi anacronistica, la ratio sottesa alla norma in esame, questa – anche per la

sua formulazione “aperta” (analoga a quella prevista dall’art. 252 cod. civ. in tema di affidamento

del figlio naturale e suo inserimento nella famiglia legittima) – appare viceversa idonea a consentire

il recepimento nel suo ambito dispositivo (di volta in volta, e secondo il sentire dei tempi) delle

singole fattispecie, commisurate proprio a quella dinamica evolutiva dei rapporti sociali, che

attualizza il precetto costituzionale. Ciò, tanto più in quanto il giudice, nella propria opzione

ermeneutica, è tenuto a dare una valutazione costituzionalmente orientata, la quale appunto non può

ignorare (ma deve necessariamente prendere in considerazione) la naturale evoluzione nel tempo

della coscienza sociale e dei costumi.

7.6.6. Il diritto di rappresentazione

La Corte rileva, nella sentenza n. 79 del 1969 (ripresa più di recente dalla sentenza n. 259 del

1993), l’incostituzionalità degli artt. 467 e 577 del Codice civile perché non riconoscono il diritto di

rappresentazione ai figli naturali di chi, figlio o fratello del de cuius, non abbia coniuge o

discendenti legittimi.

La Corte sottolinea che nella Costituzione non è riposto un astratto “favore” per i figli naturali

(riconosciuti o dichiarati) da tradursi soltanto ad opera della legge ordinaria in tutela concreta nel

contenuto e nei limiti. La garanzia dei diritti del figlio naturale è invece tutta spiegata nel terzo

comma, prima parte, dell’art. 30 per il caso in cui non urti cogli interessi “dei membri della famiglia

legittima”: vale a dire che l’intervento del legislatore occorrerà solo per conciliare la protezione del

figlio naturale coi diritti di costoro. Ne deriva che, per l’ipotesi in cui non sussista una famiglia

legittima, una legiferazione speciale non è necessaria: infatti il figlio naturale gode già in virtù

dell’art. 30, di un’ampia protezione alla quale il legislatore ordinario è vincolato, diversamente da

quanto accade per altre materie.

Più precisamente, la Costituzione garantisce al figlio naturale (riconosciuto o dichiarato), non

una generica difesa, ma “ogni” tutela giuridica e sociale: il che non può intendersi altrimenti che

come tutela adeguata alla posizione di figlio, vale a dire (sempreché non vi siano membri della

famiglia legittima) simile a quella che l’ordinamento attribuisce in ogni campo ai figli legittimi: in

ogni campo, compreso evidentemente quello della successione ereditaria, dato che rispetto ad essa

lo status di figlio (legittimo o naturale) ha, secondo i principi, rilevanza precisa. Con ciò non si vuol

dire che la Costituzione abbia del tutto assimilato i figli naturali ai legittimi (ché anzi l’ampiezza dei

diritti dei primi nei confronti dei secondi dev’essere determinata, in ossequio alla preminenza di

questi ultimi e sia pure con criteri di razionalità, dal potere discrezionale del legislatore ordinario);

ma si riconosce tuttavia che l’assimilazione è innegabile (solo) là dove manchi una famiglia

legittima.

La Corte ritiene, scostandosi dalla precedente sentenza, che “famiglia legittima” sia quella

costituitasi col matrimonio del padre naturale e composta dal coniuge e dai figli legittimi. A questa

interpretazione conducono il linguaggio o il contenuto tanto delle norme costituzionali quanto della

legislazione ordinaria, oltreché la stessa sistematica del Codice civile.

Infatti, nell’art. 29 la garanzia costituzionale copre il gruppo “società naturale” fondato sul

matrimonio, quello, cioè, che, nato da tale unione, riposa appunto sulla parità dei coniugi, anche nel

governo della famiglia, e sull’unità familiare (secondo comma dello stesso art. 29): parità ed unità

che non possono esigersi né ipotizzarsi nei riguardi degli ascendenti o collaterali di chi ha costituito

col matrimonio una società naturale.

Del resto che solo del coniuge e dei discendenti si sia preoccupato il Costituente risulta anche

dall’art. 31, dove la famiglia e i suoi compiti sono quelli che derivano dal matrimonio; risulta inoltre

dall’art. 30, comma primo, che riconosce doveri e diritti dei genitori nei confronti dei figli e non nei

riguardi dei propri ascendenti o collaterali. Da questo quadro non è verosimile che sia uscito il terzo

comma dell’art. 30: anche qui, l’accenno alla famiglia legittima di chi ha figli naturali,

evidentemente, non comprende gli ascendenti o i collaterali; poiché si contrappongono i figli nati

fuori del matrimonio di lui alla sua famiglia legittima, questa non può essere che il gruppo

costituitosi col suo matrimonio. In tal senso depongono inoltre innumerevoli testimonianze dei

lavori preparatori che sovrastano a un isolato indizio contrario.

D’altra parte la stessa legislazione ordinaria, dinanzi ad un soggetto che abbia contratto

matrimonio, rifugge dall’inquadrare nella famiglia di lui tutto il gruppo degli ascendenti e dei

collaterali; anzi il Codice individua, dal punto di vista di tale soggetto riguardo a costoro, più che un

legame familiare un vincolo di parentela, mentre circoscrive la famiglia alla comunità che quegli ha

costituito col suo matrimonio. Anche la norma che sembra comprendere nel concetto di famiglia

d’un coniuge il gruppo dei suoi ascendenti e collaterali, in realtà ha un altro senso: l’art. 299, quarto

comma, parla di famiglia della moglie (che adotta il figlio del marito) proprio perché allude alla

situazione di lei prima del matrimonio e astraendosi da esso. È d’altronde sintomatico come, a parte

le convivenze, perfino il documento detto “stato di famiglia” non registri gli ascendenti e i

collaterali di chi abbia contratto matrimonio.

Da ciò non si vuol dedurre che la famiglia legittima d’una persona comprenda (come nello “stato

di famiglia”), oltre al coniuge, solo i figli “non coniugati” poiché gli altri hanno formato un nuovo

gruppo familiare; ma si trae piuttosto argomento per asserire che essa non include mai né i

collaterali né gli ascendenti. A livello costituzionale, poi, come ai figli naturali d’un soggetto è

dovuta protezione anche se hanno contratto matrimonio, così i figli legittimi di quel genitore vanno

difesi pur quando abbiano fondato una propria società coniugale; perciò la famiglia legittima

indicata dall’art. 30, terzo comma, ricomprende sicuramente tutti i figli, e coi loro diritti la legge

dovrà stabilire la compatibilità della tutela dei così detti illegittimi.

In conclusione, se il genitore naturale non ha coniuge né figli legittimi, manca una famiglia

legittima nel senso dell’art. 30, terzo comma, e si apre per il figlio naturale la tutela garantita da

questa norma. In particolare, qualora la persona, che non può o non vuole accettare l’eredità od il

legato del proprio genitore o fratello, non lasci e non abbia né coniuge né figli legittimi (e loro

discendenti che ne prendano il posto ex art. 469), al suo figlio naturale deve riconoscersi il diritto di

rappresentazione che spetterebbe al legittimo; diritto che appartiene anche quando sussista il

coniuge del così rappresentato: infatti, tra il figlio naturale e tale coniuge non v’è contrasto di

interessi da conciliare (ex art. 30 Cost.), dato che questi, a differenza del figlio naturale e dai

discendenti legittimi, non può subentrare per rappresentazione al proprio coniuge.

Di conseguenza, l’art. 467 del Codice civile, che sottrae quel diritto al figlio naturale, deve

dichiararsi illegittimo: anche perché la norma costituzionale che si riferisce alle successioni (art. 42,

quarto comma), così generica com’è, non legittima l’arbitrio del legislatore ordinario, ma contiene

soltanto una riserva di legge.

Per giustificare la disposizione dell’art. 467 la dottrina ha rilevato che, non essendovi “rapporto

civile” tra il figlio naturale e il genitore (il fratello) del proprio padre, sarebbe illogico un acquisto

ereditario, per rappresentazione, del primo dal secondo. Ma può rispondersi che l’affermazione non

è rigorosa se si pensa, a tacere dell’impedimento matrimoniale (art. 87, nn. 1-3 e penultimo

comma), all’obbligo alimentare del genitore verso il figlio naturale del proprio figlio (art. 435, terzo

comma) e al rapporto di parentela che fra l’uno e l’altro ha introdotto lo stesso articolo 577, come si

notò anche durante la compilazione del Codice; inoltre, quali che siano il fondamento e la natura

della rappresentazione, in concreto questa tutela gli interessi della famiglia (legittima) del mancato

erede o legatario, impedendo che i beni le siano tolti solo perché il genitore non può e non vuole

accettarli; perciò, una volta assimilato, rispetto al padre, il figlio naturale al legittimo, mancando

l’uno quei beni possono essere sottratti interamente all’altro. Illogico semmai è consentire, con la

norma denunciata, che il legato, pur essendo acquisito ipso iure al patrimonio del legatario, cioè alle

aspettative dei figli naturali, ne possa uscire per sua volontà; e più in generale sembra iniquo che il

rappresentato sia arbitro, non accettando, di frustrare volutamente quelle stesse aspettative.

Dichiarata l’illegittimità dell’art. 467 viene dichiarato incostituzionale anche l’art. 468, il quale

riserva la successione per rappresentazione ai soli discendenti di chi non può e non vuole accettare:

siccome per discendenti si sono intesi sempre, ovviamente, quelli legittimi, anche questa norma è

incostituzionale poiché nega il diritto al figlio naturale in assenza di discendenti legittimi del padre.

L’art. 577 ammette alla successione ab intestato il figlio naturale del figlio del de cuius, ma solo

se quest’ultimo non lasci né coniuge né parenti entro il terzo grado. La norma ha come presupposto,

nel Codice, l’assenza d’un diritto di rappresentazione del figlio naturale ed è stata emanata (si dice)

aequitatis causa, proprio in sostituzione di quel diritto. Perciò, comunque si qualifichi la situazione,

l’art. 577 è totalmente illegittimo, poiché risponde a un sistema successorio che contrasta col diritto

di rappresentazione del figlio naturale. Infatti, dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 467, quegli

succede o non succede a seconda che non vi siano o vi siano discendenti legittimi del rappresentato;

mentre a norma dell’art. 577 succederebbe o non succederebbe a seconda che non vi fossero o vi

fossero coniugi o parenti entro il terzo grado del de cuius: il che non si concilia con il principio

ricavato dal raffronto dell’art. 467 con l’art. 30 della Costituzione.

7.6.7. La successione dei c.d. parenti naturali

Di particolare rilevanza è la sentenza n. 352 del 2000, che respinge la questione di legittimità di

costituzionale dell’art. 565 cod. civ., in riferimento agli artt. 3, 29, primo comma, e 30, terzo

comma, della Costituzione, nella parte in cui, in mancanza di altri chiamati all’eredità all’infuori

dello Stato, non prevede la successione legittima dei c.d. parenti naturali di grado corrispondente al

quarto, fino al sesto.

Premette la Corte che, negli ordinamenti contemporanei, l’individuazione degli aventi diritto alla

successione in assenza di testamento è espressione di diverse scelte di politica legislativa, sicché vi

sono sistemi che tendono a restringere il novero dei successori ex lege e sistemi che, al contrario,

ampliano in modo significativo dette categorie. Vertendosi in tale ambito, anche il nostro legislatore

resta libero di disciplinare la successione legittima facendo uso della sua discrezionalità, non

sindacabile da questa Corte se non per violazioni del dettato costituzionale.

Nel caso specifico, a sostegno della predetta questione il giudice rimettente richiama anzitutto i

parametri di cui agli artt. 3 e 29 Cost., evidenziando da un lato la “lesione del principio di

eguaglianza e di pari dignità sociale”, dall’altro quella dei diritti della “famiglia intesa come società

naturale, ossia come gruppo che si pone quale fonte di solidarietà”. Tali parametri, però, non

risultano vulnerati, sol che si consideri la differenza che c’è tra la situazione delle persone tra le

quali esiste un rapporto di consanguineità e quella in cui i soggetti sono legati anche dal vincolo di

una vera e propria parentela.

Ne consegue che non ha neppure pregio invocare, come fa il rimettente, le sentenze n. 55 del

1979 e n. 184 del 1990, perché la remota consanguineità esistente nei casi in esame non può essere

posta sullo stesso piano del vincolo tra “fratelli e sorelle naturali dei quali sia legalmente accertato il

rispettivo status di filiazione nei confronti del comune genitore” (sentenza n. 184 del 1990), soggetti

che rientrano in una ristretta comunità nucleare socialmente rilevante.

È inoltre da considerare che un ulteriore riconoscimento, tramite una sentenza additiva, di altre

categorie di eredi legittimi comporterebbe un’incidenza sull’ordine successorio tale da alterare

profondamente le scelte compiute dal legislatore. Nell’odierna sede, infatti, la Corte dovrebbe -

esulando dai propri compiti - provvedere a valutare ed a indicare l’ordine di precedenza (e di

esclusione reciproca) tra le diverse categorie di “parenti naturali”, giustificando razionalmente

anche la loro preferenza rispetto alla successione legittima dello Stato.

La Corte rileva inoltre come dall’art. 30 della Costituzione non discenda in maniera

costituzionalmente necessitata la parificazione di tutti i parenti naturali ai parenti legittimi. Può

dirsi, invece, che un ampio concetto di “parentela naturale” non è stato recepito dal legislatore

costituente, il quale si è limitato a prevedere la filiazione naturale ed a stabilirne l’equiparazione a

quella legittima, peraltro con la clausola di compatibilità. Tale equiparazione, pertanto, riguarda

fondamentalmente il rapporto che si instaura tra il genitore che ha provveduto al riconoscimento del

figlio naturale (o nei cui confronti la paternità o maternità sia stata giudizialmente accertata) ed il

figlio stesso. I rapporti tra la prole naturale ed i parenti del genitore, invece, non trovano riferimenti

nella Carta fondamentale e restano quindi estranei all’ambito di operatività dell’invocato parametro.

7.7. Le condizioni per il rilascio del passaporto

Con la sentenza n. 464 del 1997, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3,

lettera b), della legge 21 novembre 1967, n. 1185, nella parte in cui non esclude la necessità

dell’autorizzazione del giudice tutelare al rilascio del passaporto quando il genitore naturale

richiedente abbia l’assenso dell’altro genitore con lui convivente ed esercente congiuntamente la

potestà genitoriale, che dimori nel territorio della Repubblica.

Per la Corte, è ben vero che la regola generale cui si ispira la legge n. 1185 del 1967, in tema di

rilascio del passaporto al genitore di prole minore, è quella della necessaria autorizzazione del

giudice tutelare, a garanzia dell’assolvimento, da parte del genitore, dei suoi obblighi verso i figli.

Tuttavia il legislatore ha derogato a tale regola in presenza dell’assenso dell’altro genitore legittimo,

non separato e dunque convivente con il richiedente, sull’evidente presupposto che l’assenso

dell’altro genitore escluda un consistente rischio che il richiedente si sottragga all’adempimento dei

suoi doveri nei confronti del figlio, e che dunque risulti ingiustificato l’intervento autorizzativo del

giudice tutelare: il quale, peraltro, ben difficilmente potrebbe negare l’autorizzazione in contrasto

con l’assenso dell’altro genitore, senza sovrapporre indebitamente, in assenza di una ragione

giustificatrice evidente, la propria valutazione a quella concorde dei genitori. Il legislatore ha

evidentemente ritenuto che, in questa situazione, richiedere egualmente l’autorizzazione tutelare

significherebbe imporre una limitazione ingiustificata, perché eccessiva, all’esercizio di quello che

è pur sempre un diritto di libertà costituzionalmente garantito, e cioè della libertà di espatrio.

La norma denunciata risale ad un’epoca – anteriore alla profonda riforma del diritto di famiglia –

in cui la potestà genitoriale, anche nei confronti del figlio naturale riconosciuto da entrambi i

genitori, era esercitata in via normale dal solo padre, e in cui, soprattutto, la legge non attribuiva

alcuna rilevanza, a tal proposito, alla convivenza dei due genitori naturali fra loro e col figlio

medesimo. Si comprende dunque che il legislatore del 1967, nel compiere le scelte che si sono

dette, abbia limitato l’esclusione dell’autorizzazione tutelare al caso in cui vi sia l’assenso dell’altro

genitore legittimo, non separato e dimorante nel territorio della Repubblica, e non abbia invece

contemplato una previsione analoga nel caso di genitori naturali, nei cui confronti non si verificava

alcuna situazione pienamente confrontabile.

Ma a seguito della riforma il genitore naturale – il quale è titolare dei medesimi diritti e doveri

verso la prole, che spettano al genitore legittimo – si trova, allorquando conviva con l’altro genitore

che a sua volta abbia riconosciuto il figlio, in una situazione sostanzialmente identica a quella del

genitore legittimo non separato: quella cioè in cui i due genitori esercitano congiuntamente la

potestà nei confronti del figlio, e hanno dunque titolo e possibilità effettiva di valutare i rischi di

inadempimento, da parte di ciascuno di essi, dei doveri verso il figlio medesimo.

Non si giustifica dunque più la differente disciplina dettata dalla norma impugnata nei confronti

del genitore naturale, rispetto a quella prevista per il genitore legittimo. Non è infatti la formale

esistenza del vincolo matrimoniale che sta alla base della previsione legislativa di cui alla seconda

parte dell’art. 3, lettera b), della legge n. 1185 del 1967, bensì la situazione di convivenza dei due

genitori, dei quali ciascuno è in grado di valutare l’affidabilità dell’altro in ordine all’osservanza dei

doveri verso il figlio: come è reso palese dal fatto che l’autorizzazione tutelare torna ad essere

necessaria qualora i genitori legittimi siano legalmente separati.

La disposizione denunciata risulta pertanto in contrasto con gli artt. 3 e 16 della Costituzione, in

quanto non si giustifica ragionevolmente il diverso trattamento del genitore naturale rispetto al

genitore legittimo, e non si giustifica l’imposizione, a carico del genitore naturale che abbia

l’assenso dell’altro genitore naturale convivente con lui e con il figlio, della limitazione alla libertà

di espatrio consistente nella necessità di ottenere l’autorizzazione del giudice tutelare al fine del

rilascio del passaporto.

7.8. Filiazione naturale e cessazione della convivenza dei genitori

7.8.1. Il diritto all’abitazione

Nella sentenza n. 166 del 1998, la piena equiparazione fra figli, naturali e legittimi, viene

sottolineata dalla Corte, con riferimento all’inscindibile nesso tra l’interesse del figlio all’abitazione

ed il principio di responsabilità genitoriale. Tanto in occasione del giudizio sulla legittimità

costituzionale dell’art. 155, quarto comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede la

possibilità di assegnare in godimento la casa familiare al genitore naturale affidatario di un minore,

o convivente con prole maggiorenne non economicamente autosufficiente, anche se lo stesso

genitore affidatario non sia titolare di diritti reali o di godimento sull’immobile.

La Corte rileva che la questione involge profili di serio ed indubbio rilievo giuridico-sociale in

ordine alla concreta ed effettiva equiparazione tra filiazione legittima e filiazione naturale, che non

di rado, in assenza di specifiche previsioni normative, risulta affidata all’opera interpretativa della

giurisprudenza.

Gli interventi legislativi succedutisi in materia dimostrano come sia stata riconosciuta

all’interesse del minore una posizione preminente. L’espresso riconoscimento del diritto del minore

ad essere educato nell’ambito della propria famiglia e le norme dirette a garantire concreta

assistenza e cura ai minori privi di un idoneo ambiente familiare sono elementi sintomatici della

inversione di tendenza verificatasi nella valutazione comparativa dei diversi interessi, che situa in

posizione nitidamente sopraordinata le esigenze dei minori; del pari, l’effettiva attuazione dei

principi costituzionali a tutela della filiazione naturale può ritenersi una delle principali

caratteristiche della riforma del diritto di famiglia, evidenziata dall’attribuzione di specifici

contenuti al canone della equiparazione dei figli – naturali e legittimi – e dalla connotazione di

assolutezza riferita al valore della procreazione.

Nello spirito della riforma del 1975, il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei

rapporti tra genitori e figli – legittimi e naturali riconosciuti – identico essendo il contenuto dei

doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri.

La condizione giuridica dei genitori tra di loro, in relazione al vincolo coniugale, non può

determinare una condizione deteriore per i figli, poiché quell’insieme di regole, che costituiscono

l’essenza del rapporto di filiazione e che si sostanziano negli obblighi di mantenimento, di

istruzione e di educazione della prole, derivante dalla qualità di genitore, trova fondamento nell’art.

30 della Costituzione che richiama i genitori all’obbligo di responsabilità.

Il valore costituzionale di tutela della filiazione trova concreta specificazione nelle disposizioni

previste dagli artt. 147 e 148 del codice civile, che, in quanto complessivamente richiamate dal

successivo art. 261, devono essere riguardate nel loro contenuto effettivo, indipendentemente dalla

menzione legislativa della qualità di coniuge, trattandosi dei medesimi doveri imposti ai genitori

che abbiano compiuto il riconoscimento dei figli naturali.

Il primo obbligo enunciato dall’art. 147 del codice civile consiste in quello di mantenimento

della prole: è questo un dovere inderogabile, che nella sua concreta attuazione è commisurato in

proporzione alle rispettive sostanze dei genitori e alle capacità di lavoro di ciascuno. Procede per

necessità da ciò che i provvedimenti giudiziali inerenti all’entità dell’obbligo, poiché questa è

rapportata ad elementi variabili nel tempo, sono soggetti a modifica in conseguenza del mutamento

della situazione di fatto. L’assolutezza dell’obbligo in esame e l’indissolubilità del suo legame con

il rapporto di filiazione sono confermati dall’intervento imposto dal legislatore agli altri ascendenti

legittimi o naturali, che sono tenuti, quando i genitori siano privi di mezzi sufficienti, a fornire ai

genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere al loro dovere di cura nei confronti dei

figli, il quale dovere resta inderogabilmente a carico dei genitori.

Ora, il concetto di mantenimento comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze

materiali, connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto

sviluppo psicologico e fisico del figlio, e segnatamente tra queste, in ordine all’effettivo

adempimento del predetto obbligo, assumono profonda rilevanza la predisposizione e la

conservazione dell’ambiente domestico, considerato quale centro di affetti, di interessi e di

consuetudini di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della

personalità del figlio. La tutela dell’interesse della prole rappresenta infatti la ratio in forza della

quale il legislatore, prevedendo la disciplina circa l’assegnazione della casa familiare in sede di

separazione dei coniugi, ha introdotto il criterio preferenziale, ancorché non assoluto, indicato dal

quarto comma dell’art. 155 del codice civile, la cui applicazione è rimessa alla valutazione del

giudice in relazione alla situazione concreta. Sotto questo profilo l’obbligo di mantenimento si

sostanzia quindi nell’assicurare ai figli l’idoneità della dimora, intesa quale luogo di formazione e

sviluppo della personalità psico-fisica dei medesimi; onde l’attuazione di detto dovere non può in

alcun modo essere condizionata dalla assenza del vincolo coniugale tra i genitori, poiché la fonte

dell’obbligo de quo agitur è unica, ma sufficiente: quella del rapporto di filiazione.

La mancanza di una specifica norma che regoli le conseguenze, riguardo ai figli, della cessazione

del rapporto di convivenza di fatto dei genitori non impedisce allora di trarre da una interpretazione

sistematica delle norme in tema di filiazione la regula iuris da applicare in concreto, senza necessità

di ricorrere all’analogia, né ad una declaratoria di incostituzionalità. L’interprete è infatti al cospetto

di un sistema perfettamente coerente con i principi costituzionali, nel quale è già contenuta la norma

che gli consente di regolamentare, ex latere filii le conseguenze della cessazione della convivenza di

fatto: la linea di guida cui egli deve attenersi è l’interesse del figlio alla abitazione, come al

mantenimento, correlato alla posizione di dovere facente capo al genitore.

L’assegnazione della casa familiare nell’ipotesi di cessazione di un rapporto di convivenza more

uxorio allorché vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, deve

quindi regolarsi mediante l’applicazione del principio di responsabilità genitoriale, il quale postula

che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a

prescindere dalla qualificazione dello status (sentenza n. 99 del 1997).

La disposizione impugnata si sottrae pertanto alle dedotte censure di incostituzionalità, in quanto

il principio invocato dal giudice a quo – la tutela del minore attraverso l’assegnazione in godimento

dell’abitazione, oltre che la determinazione di una somma dovuta per il suo mantenimento – è

immanente nell’ordinamento e deve essere attuato sulla base di una interpretazione sistematica degli

artt. 261, 147 e 148 del codice civile in correlazione con l’art. 30 della Costituzione, senza necessità

dell’intervento caducatorio della Corte.

Una interpretazione adeguatrice della Corte riguarda gli artt. 261, 147 e 148, 2643, n. 8, 2652,

2653 e 2657 del codice civile, impugnati nella parte in cui non consentono la trascrizione del titolo

che riconosce il diritto di abitazione del genitore affidatario della prole naturale, che non sia titolare

di diritti reali o di godimento sull’immobile assegnato (sentenza n. 394 del 2005).

A conferma della preminenza attribuita al rapporto di filiazione ex se, l’art. 261 cod. civ.

stabilisce che il riconoscimento comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti i diritti e doveri

che spettano nei confronti dei figli legittimi e l’art. 317-bis cod. civ. riconosce ad entrambi i genitori

naturali, purché conviventi, la potestà sui figli, in modo corrispondente a quanto sancito per la

famiglia legittima dall’art. 316 cod. civ., espressamente richiamato.

Nel menzionare il complesso dei diritti e doveri facenti capo ai genitori, l’art. 261 cod.civ. fa

implicito rinvio al disposto degli artt. 147 e 148 cod. civ.

Pertanto, se l’obbligo di mantenimento si traduce anche nell’assicurare ai figli un’idonea dimora,

intesa come luogo di formazione della loro personalità, la concreta attuazione dello stesso non può

incontrare differenziazioni in ragione della natura del vincolo che lega i genitori.

Attraverso l’interpretazione sistematica delle norme che regolano i rapporti genitori-figli si

individua la regola iuris cui l’interprete deve attenersi in sede di applicazione concreta, nel rispetto

del principio di responsabilità genitoriale, che impone la soddisfazione delle esigenze della prole a

prescindere dalla qualificazione dello status della stessa.

Se il diritto all’assegnazione della casa familiare al genitore affidatario di prole naturale può

trarsi in via di interpretazione sistematica dalle norme che disciplinano i doveri dei genitori verso i

figli, alle medesime conclusioni deve pervenirsi con riguardo alla possibilità per il genitore naturale

affidatario di minore – e che non sia titolare di diritti reali o di godimento sull’immobile – di

trascrivere il provvedimento di assegnazione nei registri immobiliari, onde garantire effettività alla

tutela dei diritti della prole anche in caso di conflitto con i terzi.

Il provvedimento di assegnazione non ha la finalità di attribuire ad uno dei coniugi un titolo di

legittimazione ad abitare, ma è funzionale a mantenere la destinazione dell’immobile a residenza

familiare e ciò perché «il titolo ad abitare per il coniuge è strumentale alla conservazione della

comunità domestica e giustificato esclusivamente dall’interesse morale e materiale della prole

affidatagli» (sentenza n. 454 del 1989).

Conseguentemente, il provvedimento di assegnazione deve poter essere trascritto poiché, in caso

contrario, l’atto non sarebbe opponibile ai terzi e potrebbe essere vanificato il vincolo di

destinazione impresso alla casa familiare.

Di tale necessità si è, del resto, avveduto lo stesso legislatore nel momento in cui ha stabilito che,

in caso di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, l’assegnazione

dell’abitazione al genitore affidatario della prole, se trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai

sensi dell’art. 1599 cod.civ.

Se la ratio sottesa all’istituto dell’assegnazione della casa familiare e alla trascrizione del relativo

provvedimento è da ravvisarsi nel preminente interesse morale e materiale dei figli, la

conservazione del vincolo di destinazione impresso all’abitazione domestica deve essere garantita

agli stessi a prescindere dalle circostanze della nascita: i figli legittimi, di genitori che abbiano

ottenuto la separazione, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ed i figli

naturali debbono poter fare assegnamento su un identico trattamento e vedersi garantiti gli stessi

strumenti di tutela, anche nei confronti di terzi controinteressati.

A tal fine, peraltro, non è necessaria una norma esplicita, dal momento che la regula iuris è

immanente al sistema e si ricava per via interpretativa applicando il principio di responsabilità

genitoriale: l’assenza di una norma ad hoc che riconosca specificamente la trascrivibilità del

provvedimento di assegnazione della casa familiare al genitore affidatario della prole naturale non

impedisce, anzi suggerisce, di trarre la regola da applicare da un’interpretazione sistematica delle

norme del codice civile in tema di tutela della filiazione, lette alla luce del principio di

responsabilità genitoriale di cui all’art. 30 della Costituzione e del superiore interesse del figlio alla

conservazione dell’abitazione familiare.

Pertanto, come il diritto del figlio naturale a non lasciare l’abitazione in seguito alla cessazione

della convivenza di fatto fra i genitori non richiede un’apposita previsione, anche il diritto del

genitore affidatario di prole naturale ad ottenere la trascrizione del provvedimento di assegnazione

non necessita di un’autonoma previsione, dal momento che risponde alla stessa ratio di tutela del

minore ed è strumentale a rafforzarne il contenuto: il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli

e di garantire loro la permanenza nel medesimo ambiente in cui hanno vissuto con i genitori deve

essere assolto tenendo conto, prima che delle posizioni di terzi, del diritto che alla prole deriva dalla

responsabilità genitoriale prevista dall’art. 30 della Costituzione e tesa a favorire il corretto sviluppo

della personalità del minore.

Il principio evocato dal Tribunale rimettente – la garanzia del minore attraverso la trascrizione

del titolo che assegna al genitore affidatario il diritto di abitazione nella casa familiare – è ricavabile

da un’interpretazione sistematica delle disposizioni a tutela della filiazione: di conseguenza, le

norme censurate, interpretate come in motivazione, debbono ritenersi conformi a Costituzione.

7.8.2. L’obbligo di mantenimento a carico di un genitore

Una interpretazione secundum constitutionem consente la salvezza dell’art. 156, sesto comma,

del codice civile, nella parte in cui esclude che il provvedimento di sequestro ivi previsto possa

essere disposto anche in favore di un figlio naturale riconosciuto, poiché tale omissione si

tradurrebbe in un’ingiustificata disparità di trattamento tra figli legittimi e figli naturali (sentenza n.

99 del 1997).

Premette la Corte che la giurisprudenza costituzionale ha avuto più volte occasione, in

applicazione dei principi dell’art. 30 Cost., di estendere ai figli naturali, riconosciuti o dichiarati,

ogni forma di tutela, giuridica e sociale, ravvisando talvolta il limite, previsto dalla stessa norma

costituzionale, della incompatibilità con i diritti della famiglia legittima.

La disposizione sulla quale il giudice a quo richiede un intervento additivo è collocata

nell’ambito del procedimento di separazione personale, regolato secondo una autonoma scansione,

al fine di dare un assetto alla famiglia legittima in crisi, affrontando – a seguito dell’autorizzazione

dei coniugi a vivere separati – sia le questioni personali (tra le quali l’affidamento dei figli minori)

che quelle patrimoniali.

Tale specifica configurazione della norma denunziata nell’ordinanza di rimessione risulta

indirettamente confermata nella recente sentenza n. 23 del 1996, in cui questa Corte ritiene che la

divaricazione di competenza tra tribunale ordinario e tribunale dei minorenni, in relazione alle

controversie patrimoniali tra i conviventi ed alle controversie concernenti i figli naturali, non viola

gli artt. 3 e 30 della Costituzione, appunto perché “manca un processo necessariamente unitario che

coinvolga il momento della separazione, quello della sorte dei figli comuni e quello del regolamento

dei rapporti patrimoniali sia tra loro (coniugi) che relativamente al mantenimento della prole”.

Deve tuttavia rilevarsi che, pur disciplinando le conseguenze dell’allentamento del vincolo

matrimoniale, il denunziato art. 156 cod. civ. esprime riguardanti anche la responsabilità dei coniugi

in quanto genitori.

Sotto quest’ultimo profilo, osserva la Corte che la riforma del diritto di famiglia, portando a

compimento il progetto voluto dalla Costituzione riguardo ai figli naturali, ha sancito, con la

modifica dell’art. 261 cod. civ., che “il riconoscimento comporta da parte del genitore l’assunzione

di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi”. Il genitore naturale,

quindi, acquisisce nei confronti del figlio da lui riconosciuto una posizione sostanzialmente analoga

a quella del genitore legittimo; con la conseguenza che anche la prole naturale gode delle necessarie

garanzie nei confronti del genitore e che i limiti alla tutela essenziale della filiazione naturale – non

giustificati dalla incompatibilità con i diritti della famiglia legittima – non sono conformi ai principî

costituzionali.

Anche con riguardo agli strumenti processuali, l’ampia discrezionalità riconosciuta in proposito

al legislatore trova pur sempre un limite nei casi in cui la disparità di trattamento sia palesemente

irrazionale o arbitraria.

Alla luce di tali presupposti, la Corte ritiene che al sistema vigente debba darsi una lettura

diversa da quella indicata dal giudice a quo, tale da andare indenne da dubbi di costituzionalità. Pur

essendo vero, infatti, che la disposizione in esame è inquadrata nel procedimento di separazione dei

coniugi in un contesto diverso dalla convivenza e dalla filiazione naturale, è altresì vero che anche il

sequestro di cui all’art. 156 cod. civ. è una forma di attuazione del principio di responsabilità

genitoriale, il quale postula che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di

mantenimento del figlio (sentenza n. 258 del 1996), a prescindere dalla qualificazione dello status.

La norma che tale disposizione esprime deve pertanto ritenersi ugualmente applicabile (al di fuori

del procedimento di separazione), da parte del giudice competente nelle controversie concernenti il

mantenimento dei figli naturali, poiché il sequestro de quo consiste, secondo quanto detto, in un

ulteriore mezzo di tutela speciale ma non eccezionale della prole.

Una interpretazione che ne escludesse l’estensione a favore dei figli naturali, riconosciuti o

dichiarati, non coglierebbe l’intima ratio della norma, né la valenza sistematica del menzionato

principio, e condurrebbe ad una inaccettabile disparità di trattamento. È invece possibile una

interpretazione secundum constitutionem, ritenendosi che lo speciale sequestro in oggetto sia

autonomamente enucleabile come specifico strumento processuale entrato a far parte del nostro

ordinamento a garanzia del mantenimento dei figli, ivi compresi quelli naturali riconosciuti o

dichiarati.

La sentenza n. 202 del 2003 estende l’esenzione tributaria prevista per vari provvedimenti

inerenti ai rapporti familiari ai provvedimenti che definiscono i rapporti patrimoniali tra genitori e

figli naturali, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 8, lettera b), della Tariffa, parte prima,

allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro, nella

misura del 3%, gli atti dell’autorità giudiziaria ordinaria e speciale, in materia di controversie civili

che definiscono, anche parzialmente, il giudizio, recanti condanna al pagamento di somme o valori,

interpretata in modo da comprendere nella tassazione anche i provvedimenti giudiziari emessi in

applicazione dell’art. 148 cod. civ. nell’ambito dei rapporti fra genitori e figli.

Rileva la Corte che l’esenzione tributaria disposta in tema di atti recanti condanna al pagamento

di somme in materia di procedimenti relativi ai giudizi di separazione e divorzio ricomprende anche

i provvedimenti relativi alla prole, come è dimostrato dal richiamo, nell’art. 19 della legge n. 74 del

1987, all’art. 6 della legge n. 898 del 1970, e da ciò deriva che è irragionevole la mancata

estensione di tale esenzione anche ai provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 148 cod. civ., in tema

di determinazione del contributo di mantenimento fissato a carico del genitore naturale obbligato ed

a favore del genitore affidatario.

La mancanza del rapporto di coniugio fra le parti non può giustificare la diversità di disciplina

tributaria del provvedimento di condanna, in quanto ciò che rileva è che si è in presenza di identico

provvedimento di quantificazione del contributo di mantenimento a favore della prole, in relazione

al quale ricorrono le stesse considerazioni che militano a favore dell’esenzione tributaria qualora lo

stesso sia assunto in tema di separazione e di divorzio. La circostanza che tale provvedimento è

stato adottato, in un caso, in costanza di un rapporto di coniugio esistente o esistito e, nell’altro, in

mancanza di tale rapporto, non giustifica in alcun modo la diversità di disciplina fiscale.

Si rileva, poi, che, in caso di divorzio e di separazione, l’esenzione è prevista anche con

riferimento ai provvedimenti di revisione degli assegni e, cioè, in relazione ad ipotesi in cui il

rapporto di coniugio non viene in considerazione.

L’esenzione, seppure posta a favore del destinatario delle somme, in realtà tutela il figlio minore

per il cui mantenimento è disposta, con la conseguenza che la sua omessa previsione, quando si è in

presenza di prole naturale, oltre ad essere irragionevole, con violazione dell’art. 3 della

Costituzione, si risolve in un trattamento deteriore dei figli naturali rispetto ai figli legittimi in

contrasto con l’art. 30 della Costituzione.

Né in senso contrario può invocarsi la giurisprudenza secondo cui le disposizioni legislative

concernenti agevolazioni e benefici tributari di qualsiasi specie, quali che ne siano le finalità,

costituiscono il frutto di scelte discrezionali del legislatore, sicché la Corte non può estenderne

l’ambito di applicazione, dal momento che la stessa giurisprudenza riconosce che tale estensione è

consentita quando lo esiga – come nel caso di specie – la ratio dei benefici stessi.

8. L’adozione

8.1. Adozione ordinaria ed adozione speciale

La sentenza n. 11 del 1981 dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 314/17, primo comma,

del codice civile, nella parte in cui, anche quando l’adozione ordinaria è pronunciata da giudice

diverso da quello competente per l’adozione speciale, dispone che lo stato di adottabilità cessa per

adozione ordinaria.

La pronuncia compone alcuni dissensi sul rapporto, sostanziale e processuale, tra adozione

ordinaria e speciale, imperniato sull’interesse del minore alla luce delle finalità imposte dai principî

costituzionali.

La Corte ricorda che, con il nome generale di “adozione”, si designano, già nelle fonti romane e

medioevali, istituti assai diversi: la pronuncia reca un’ampia ricostruzione dell’evoluzione

normativa, dalla quale emergono le forti innovazioni succedutesi nel corso del ventesimo secolo.

Peraltro, la maggiore riforma sopravvenuta in questo campo è sicuramente rappresentata dalla

legge 5 giugno 1967, n. 431, che ha inserito nel titolo VIII del libro I del codice civile un nuovo

capitolo terzo intitolato “Dell’adozione speciale”. Questo complesso normativo, chiaramente

indirizzato alla tutela dell’interesse del minore infraottenne in stato di abbandono, interesse

considerato in posizione di preminenza rispetto a tutti gli altri, compresi quelli dei genitori naturali,

si caratterizza per alcuni tratti decisamente innovatori: a) ampi poteri degli organi giurisdizionali cui

spetta accertare lo stato di abbandono del minore, adottando i migliori mezzi per porvi rimedio; b)

applicazione più conseguente del criterio della imitazione della natura, intendendosi offrire al

minore una famiglia sostitutiva che, per completezza di ruoli – materno e paterno – e per l’età degli

adottanti, meglio supplisca la famiglia di origine; c) miglior garanzia di riuscita dell’inserimento del

minore nella nuova famiglia, giacché il provvedimento di adozione speciale deve essere preceduto

da un periodo di affidamento preadottivo, di natura esplicitamente sperimentale; d) scelta degli

adottanti più idonei in base ad un giudizio attitudinale tra le coppie disponibili all’adozione

speciale; e) tra gli altri effetti della adozione speciale, acquisto dello stato di figlio legittimo degli

adottanti e cessazione dei rapporti dell’adottato verso la famiglia di origine (salvi i divieti

matrimoniali e le norme penali fondate sul rapporto di parentela).

La riforma del 1967 ha spostato il centro di gravità dell’adozione dall’interesse dell’adottante a

quello dell’adottato. Ed è innegabile che a livello di legislazione ordinaria la legge n. 431 ha alterato

a favore del minore l’equilibrio che poteva ormai riconoscersi, nell’adozione ordinaria per i minori,

tra l’interesse di chi si continua attraverso un figlio-erede e l’interesse del minore ad essere allevato

ed educato in condizioni più vantaggiose. Ma lo spostamento del centro di gravità dell’istituto era

imposto ancor prima sul piano superiore della normativa costituzionale, per il combinato disposto

degli artt. 2 e 30, primo e secondo comma, della Costituzione. Queste norme, riconoscendo come

fine preminente lo svolgimento della personalità in tutte le sedi proprie, assumono a valore primario

la promozione della personalità del soggetto umano in formazione e la sua educazione nel luogo a

ciò più idoneo: da ravvisare in primissima istanza nella famiglia di origine, e, soltanto in caso di

incapacità di questa, in una famiglia sostitutiva. L’art. 30, secondo comma, della Costituzione,

prevede infatti il dovere del legislatore e dell’autorità pubblica in generale di predisporre quegli

interventi che pongano rimedio nel modo più efficace al mancato svolgimento dei loro compiti da

parte dei genitori di sangue: e cioè alle funzioni connesse al dovere-diritto di mantenere, istruire ed

educare i figli. Ma la finalità di una educazione sostitutiva al meglio comporta la soddisfazione del

bisogno di famiglia avvertito con forza dal minore, che richiede per la sua crescita normale affetti

individualizzati e continui, ambienti non precari, situazioni non conflittuali.

Del resto, anche sulla base di ben noti documenti di organismi internazionali (né è casuale che la

legge n. 431 del 1967 sia stata preceduta di pochi mesi dalla firma a Strasburgo della Convenzione

europea in materia di adozione dei minori), deve procurarsi al minore, mediante l’adozione, “un

foyer stable et harmonieux” (art. 8, n. 2 Convenzione europea - ratificata e resa esecutiva in base a

legge 22 maggio 1974, n. 357).

Se dai dati normativi presenti nel nostro ordinamento a livello costituzionale e legislativo

risultano il dovere-diritto dei genitori d’origine ed il dovere dello Stato di predisporre le condizioni

in cui possa meglio realizzarsi il diritto del minore all’educazione e all’educazione in famiglia, non

si possono trascurare talune conseguenze: così il carattere “funzionale” del diritto dei genitori del

sangue, che sta e vien meno in relazione alla capacità di assolvere i compiti previsti nel primo

comma dell’art. 30 della Costituzione; il carattere di “effettività” che deve rivestire l’assolvimento

dei compiti stessi, non delegabili ad altri e dunque da svolgersi con impegno personale e diretto;

infine il carattere di “adeguatezza” che deve presiedere alla individuazione della famiglia

sostitutiva, il che comporta la ricerca della soluzione ottimale in concreto per l’interesse del minore,

quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”.

La posizione preferenziale riconosciuta alla situazione soggettiva del minore non ha mancato di

riflettersi sulla disciplina legislativa delle varie forme di adozione. Per quella speciale è superflua

ogni ulteriore considerazione in merito, essendo unanime il riconoscimento che la legge n. 431 del

1967 rappresenta un esempio di legge chiaramente ispirata a precetti costituzionali.

Ma anche la normativa sulla adozione ordinaria dei minori è stata modificata nel periodo 1967-

1975, nel senso di consentire condizioni più favorevoli all’assistenza ed all’educazione dei soggetti

adottati nonché al loro inserimento nella famiglia adottiva; e le norme costituzionali predette

spiegano un’influenza non secondaria nella formazione del giudizio di convenienza per l’adottando

che tribunale dei minorenni e Corte d’appello (sezione corrispondente) debbono premettere alla

emissione del decreto di adozione (art. 312, n. 3, cod. civ.). Si può dire che la normativa

costituzionale ha esercitato una forte spinta tendente ad unificare le due forme di adozione per i

minori sul piano delle finalità ad esse comuni, orientando giudici ed amministratori (senza dire

degli organi del potere legislativo) a far prevalere, nella maggiore misura possibile, la tutela degli

interessi fondamentali del minore.

Questa tendenza unificante, promossa dalla Costituzione e dalla Convenzione europea del 1967,

ha reso entro certi limiti compatibili i vari istituti previsti a favore dei minori dal codice del 1942 e

dalla legge n. 431 del 1967 ed in particolare le due forme di adozione: ciò spiega perché già con la

sentenza n. 158 del 1971 la Corte abbia ritenuto “ben possibile ... che, sia pure rivolti a finalità

concorrenti o comuni, coesistano istituti distinti, quali l’affidamento e l’affiliazione, e le due forme

di adozione, e le norme circa l’assistenza pubblica all’infanzia abbandonata, ecc., e che la

complessiva disciplina sia variamente articolata”.

Peraltro la tendenza all’unificazione, pur agendo vigorosamente sul piano delle finalità degli

istituti e degli sviluppi interpretativi in sede giurisprudenziale e dottrinale, non era in grado di

superare certi limiti rappresentati dalla profonda diversità di struttura e soprattutto di procedimento

caratterizzante le due forme di adozione. La coesistenza può quindi essere pacifica quando ad un

unico giudice, territorialmente e funzionalmente competente, fanno capo il procedimento di

adozione ordinaria e quello di adozione speciale, per modo che la concordanza pratica dei criteri si

realizza attraverso la scelta del giudice, orientato a far precedere, nell’interesse del minore, l’una o

l’altra serie procedimentale. Ma la coesistenza rischia di divenire fonte di conflitti, quando diversi

siano il giudice chiamato a pronunziare sull’adozione ordinaria (sede dell’adottante) ed il giudice

competente a pronunziare sull’adozione speciale e, prima ancora, sullo stato di adottabilità (sede

dell’adottando).

È evidente che solo l’auspicata ed auspicabile revisione da parte del legislatore può rimuovere

del tutto simili antinomie dal corpo dell’ordinamento, attuando quell’opera coordinatrice e di

necessaria convergenza delle discipline richiesta dalla Costituzione, dalla Convenzione europea e

dalla unità del sistema. Tuttavia in questo giudizio non si domanda alla Corte costituzionale di porre

rimedio ad un mancato coordinamento legislativo, ma piuttosto di verificare se, alla luce degli artt.

2, 3 e 30, primo e secondo comma, della Costituzione, l’art. 314/ 17, primo comma, del codice

civile (secondo l’interpretazione contenuta nel principio di diritto enucleato dalla Corte di

cassazione) contrasti in modo positivo e diretto con i parametri costituzionali ora evocati.

Si potrebbe forse nutrire qualche dubbio circa la consistenza del “supporto normativo” che

sostiene il risultato ermeneutico acquisito a questo proposito nella pronuncia che ha dato luogo al

giudizio di rinvio; essendo quanto meno opinabile l’affermazione che lo stato di abbandono, da

accertare nei confronti dei genitori di origine e dei parenti tenuti all’assistenza del minore, possa

automaticamente venir meno, dopo la dichiarazione dello stato di adottabilità, per il sopravvenire

del decreto di adozione ordinaria. Ma in relazione ai giudizi di rinvio non può certo disconoscersi la

qualità di “diritto vivente” al principio di diritto affermato dalla Cassazione secondo il quale la

“dichiarazione definitiva” di adozione ordinaria di un minore nel corso del procedimento di

adozione speciale, cui lo stesso sia sottoposto, determina la cessazione dello stato di adottabilità già

dichiarato.

Orbene, l’ammettere che il decreto di adozione ordinaria possa ex se determinare la caducazione

dello stato di adottabilità contrasta, con la particolare tutela riconosciuta al minore dall’art. 30,

commi primo e secondo, della Costituzione.

In effetti, non si vede come l’esito di un procedimento che offre minori garanzie (tra l’altro il

decreto di adozione ordinaria non deve essere motivato) possa ragionevolmente caducare gli effetti

di un atto motivato, che conclude una serie procedimentale in cui i genitori di origine ed i parenti,

tenuti all’assistenza del minore, hanno tutti i mezzi per provare la idoneità e disponibilità loro ad

assolvere i compiti assistenziali ed educativi previsti in Costituzione. A differenza del decreto di

adozione ordinaria, il decreto sullo stato di adottabilità, in sé e nello stato che produce, è poi

suscettibile di impugnazione e di revoca, sicché la validità e la sussistenza dei suoi presupposti

possono essere rigorosamente vagliati.

Inoltre non si intende come sia possibile far prevalere sul procedimento certamente più

“comprensivo” previsto per l’adozione speciale quello in cui un solo soggetto o una sola coppia si

propone come adottante: da una parte i requisiti di cui ai nn. 2) e 3) dell’art. 312 del codice civile

possono in concreto non equipararsi alle condizioni dell’adottabilità speciale, dall’altra la

dichiarazione dello stato di adottabilità è all’origine di subprocedimenti (affidamento preadottivo e

dichiarazione di adozione speciale) nei quali si cerca, con criterio comparativo e non assoluto (e

cioè non in relazione ad un solo soggetto o ad una sola coppia), la soluzione migliore nell’interesse

del minore ad una assistenza ed educazione familiare.

La prevalenza accordata dall’art. 314/17, primo comma, del codice civile (secondo

l’interpretazione della Cassazione) al provvedimento di adozione ordinaria non è dunque conforme

ai principî costituzionali che impongono – anche sul piano della garanzia della difesa dei diritti in

sede di giudizio – una adeguata tutela dell’infanzia quando sia necessario avvalersi di una famiglia

sostitutiva di quella originaria; non assicura un trattamento ragionevolmente eguale di tutti i minori

in stato di abbandono; ed infine, favorendo indirettamente la conclusione di vicende iniziate in

chiara elusione delle norme sull’adozione speciale, può incentivare quel “mercato dei bambini” cui

si oppongono non soltanto lo spirito e la lettera della nostra disciplina costituzionale e legislativa

ma il comune sentire dei cittadini.

Coesistenza di istituti adottivi in ordine ad uno stesso soggetto di età infraottenne non può quindi

significare indifferenza dell’ordinamento riguardo ai procedimenti più o meno idonei che ad essi si

ricollegano: sicché non sarebbe in armonia con i principî costituzionali, ex art. 30, primo e secondo

comma, della Costituzione, un’applicazione ad effetto automatico del criterio di priorità temporale

che sacrifichi il preminente interesse del minore alla ricerca della soluzione più adeguata per lo

sviluppo della sua personalità. Del resto, anche a voler insistere su considerazioni di ordine

temporale, non sembra che debba parlarsi di possibilità di scelta tra la messa in opera dei due istituti

soltanto ex ante, giacché, quando il procedimento di adozione speciale ha dato luogo alla

dichiarazione dello stato di adottabilità, è piuttosto ex post che devono valutarsi gli effetti del

decreto di adozione ordinaria.

Questo non comporta una opzione in assoluto tra adozione speciale e adozione ordinaria, perché,

in concreto, può essere proprio questa forma dell’istituto adottivo ad offrire la soluzione più

adeguata alle condizioni particolari di un minore infraottenne (dovendo tra l’altro il giudice valutare

sempre la consistenza dei legami affettivi che si siano creati col tempo tra il minore e la famiglia

comunque affidataria). Ma ciò non significa che in sede di ricerca della soluzione più idonea per lo

sviluppo educativo del minore si possa da parte del giudice rimettere in gioco la scelta a suo tempo

compiuta dal legislatore, che fa discendere dalla pronunzia di adozione speciale la cessazione dei

rapporti dell’adottato verso la famiglia di origine; in particolare, il mantenimento di tali rapporti non

può essere invocato per giustificare l’automatica caducazione dello stato di adottabilità, previsto

dall’art. 314/17, primo comma, del codice civile.

Sempre in ordine ai rapporti tra i diversi tipi di adozione, assume rilevanza la sentenza n. 198

del 1986, nella quale si valorizzava la finalità, desumibile dalla nuova disciplina dettata dalla legge

n. 184 del 1983, diretta a favorire l’adozione legittimante nei confronti dell’adozione ordinaria.

Viene dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 79, primo comma, della legge 4 maggio

1983, n. 184, nella parte in cui, nella ipotesi di coniugi non più uniti in matrimonio alla data della

presentazione della domanda di estensione degli effetti dell’adozione, non consente di pronunziare

l’estensione stessa nei confronti degli adottati ai sensi dell’art. 291 del codice civile,

precedentemente in vigore.

Motiva la Corte che, stabilendo, in via generale (art. 6), che “l’adozione è permessa (solo) ai

coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni tra quali non sussista separazione personale neppure

di fatto”, il legislatore del 1983 ha ribadito una scelta già operata con la legge n. 431 del 1967

sull’adozione speciale, il cui art. 4 inserì nel codice civile una norma di tenore identico (art. 314/2,

salvo per quanto attiene alla durata minima del matrimonio in atto, allora fissata in cinque (anziché

tre) anni.

La scelta del legislatore appare razionalmente fondata sull’esigenza, da un lato di inserire il

minore adottando in una famiglia che dia sufficienti garanzie di stabilità, e dall’altro di assicurargli

la presenza, sotto il profilo affettivo ed educativo, di entrambe le figure dei genitori.

Dal criterio dell’“adeguatezza in concreto” – enunciato nella sentenza n. 11 del 1981 – discende

l’esigenza, da un lato che siano conferiti al giudice poteri sufficienti a consentirgli di individuare la

soluzione più idonea a soddisfare gli interessi del minore, e dall’altro che possano trovare tutela

positivi rapporti creatisi col tempo tra il minore e gli affidatari.

Entrambe queste esigenze hanno ampio riconoscimento nella disciplina introdotta con la legge n.

184 del 1983.

Sotto il primo profilo, si ricordano poteri prescrittivi attribuiti al giudice nei confronti della

famiglia di origine (art. 12) e soprattutto gli ampi poteri di indagine e di decisione riconosciutigli sia

ai fini della dichiarazione dello stato di abbandono (art. 15), sia ai fini dell’affidamento preadottivo,

della sua revoca o proroga e della definitiva dichiarazione di adozione (artt. 22, 23 e 25).

Sotto il secondo profilo, l’esigenza di adeguata considerazione di legami di fatto instauratisi

trova nella nuova normativa un riconoscimento tanto penetrante, da indurre il legislatore a derogare,

in taluni casi, al requisito generale dell’esistenza o persistenza di un rapporto di convivenza o di

coniugio tra gli affidatari. Così si dica: a) per l’ipotesi di cui alla lett. a) dell’art. 44, in cui

l’adozione “in casi particolari” viene consentita anche al non coniugato che abbia con l’orfano un

preesistente e stabile rapporto; b) per le ipotesi di cui al quarto e quinto comma dell’art. 25, che

consentono, nel superiore interesse del minore, l’adozione nei confronti di uno solo dei coniugi

affidatari in caso di morte o sopravvenuta incapacità dell’altro o di separazione intervenuta nel

corso dell’affidamento preadottivo.

In tali casi, la considerazione dei legami affettivi di fatto instauratisi prevale su quella –

affermata in via generale – di garantire al minore la presenza di entrambe le figure dei genitori; ed

in ciò la nuova legge va oltre la disciplina previgente dell’adozione speciale, sia perché nel caso di

morte o sopravvenuta incapacità prevede che l’adozione sia pronunciata nei confronti di entrambi

coniugi (e ciò nell’ottica di favorire il più possibile l’acquisizione dello status di figlio legittimo)

sia, e soprattutto, perché introduce l’ipotesi del tutto nuova della separazione di fatto. Il criterio

ispiratore è, anche qui, quello della “adeguatezza in concreto”, nel superiore interesse del minore: in

vista del quale la legge, in determinate situazioni, abbandona le soluzioni rigide, prevedendo che la

valutazione circa la prevalenza dell’una o dell’altra delle esigenze in gioco – presenza di entrambe

le figure dei genitori da un lato; valorizzazione dei rapporti affettivi di fatto instauratisi, dall’altro –

sia effettuata in concreto dal giudice, nell’esclusivo interesse del minore.

Esaminando alla stregua delle suesposte premesse l’impugnato art. 79, è innanzitutto da rilevare

che tale disposizione transitoria si iscrive nel quadro della già richiamata tendenza all’unificazione

della disciplina dei rapporti adottivi ed è espressione di una scelta – corrispondente a quella fatta col

circoscrivere la c.d. adozione ordinaria a casi particolari tassativamente indicati – mirante ad

eliminare il più possibile per il futuro (salvo casi particolari) le situazioni in cui il diritto ad essere

riconosciuto figlio legittimo pleno iure nell’ambito di un’unica famiglia non trova concreta

attuazione.

Significativo segnale di tale tendenza è pure la circostanza che con la nuova legge si sia

consentita l’estensione degli effetti anche nei confronti dell’adottato con adozione ordinaria che sia

nel frattempo divenuto maggiorenne; ipotesi questa che era viceversa esclusa nel corrispondente art.

6 della legge 431/1967.

Anche l’art. 79 è inoltre – come l’art. 25 – ispirato al criterio dell’“adeguatezza in concreto” e

della valorizzazione dei legami affettivi esistenti di fatto. A tali criteri si ispirano le disposizioni –

parallele a quelle di cui all’art. 25 – che prevedono: a) che l’estensione degli effetti non sia

automatica, ma frutto di una valutazione in concreto, da parte del tribunale, dell’interesse

dell’adottato, che va compiuto a seguito delle “adeguate indagini” di cui all’art. 57; b) che il minore

debba essere sentito se ultradodicenne, e debba prestare il consenso se ultra quattordicenne; c) che,

sussistendo l’interesse dell’adottato come sopra accertato, l’estensione possa essere disposta anche

in caso di irreperibilità o rifiuto non motivato dei genitori di origine; d) che il decreto che nega

l’estensione possa essere impugnato anche dall’adottato o affiliato se maggiorenne.

La norma è dunque chiaramente ispirata al criterio – che presiede alla complessiva disciplina di

cui alla legge 184/ 1983 – di garantire il diritto dell’adottato (o affiliato) ex art. 291 c.c. ad avere –

ove ciò risponda al suo interesse – un’unica famiglia, acquisendo lo status di figlio legittimo pleno

iure, recidendo residui legami con la famiglia di origine e così ponendo fine all’ambiguità della

condizione che deriva dalla disciplina dell’adozione ordinaria, in cui da un lato tali legami

permangono e, dall’altro, l’inserimento nella nuova famiglia è solo parziale.

Tale ispirazione della disposizione in esame subisce però, in forza del richiamo all’art. 6, una

notevole limitazione, che non appare superabile sul piano interpretativo argomentando dal

contemporaneo richiamo, contenuto nel settimo comma, agli artt. 25 (che prevede, al quinto

comma, l’ipotesi della separazione di fatto) e 27 (che prevede la stessa ipotesi al secondo comma):

limitazione della quale tra l’altro non si rinviene nei lavori preparatori specifica motivazione.

La rigidità della preclusione, d’altra parte, non sembra coerente con la complessiva disciplina

posta dalla norma impugnata. In aggiunta alle già rilevate caratteristiche di questa, viene in

proposito sottolineato, da un lato che il fatto che l’estensione degli effetti non sia automatica ma –

come nel caso di cui all’art. 25, quinto comma – rimessa alle valutazioni del tribunale garantisce

che essa venga disposta solo quando risponde in concreto all’interesse dell’adottato, quando cioè,

nonostante l’intervenuta separazione o divorzio, legami esistenti siano idonei a soddisfare il bisogno

di famiglia di costui; dall’altro che diritti della famiglia di sangue sono garantiti dalla necessità

dell’assenso dei genitori, il rifiuto dei quali è preclusivo se adeguatamente motivato.

Rispetto all’ipotesi prevista dall’art. 25, quinto comma, quindi, la fattispecie in esame presenta,

oltre alle già rilevate analogie procedimentali, una sostanziale omogeneità sotto due profili che

assumono rilievo decisivo. Innanzitutto, in entrambi casi vengono in considerazione situazioni

caratterizzate dalla preesistenza di legami tra soggetti dell’instaurando rapporto, della cui

consistenza occorre quindi tener conto ai fini della sua regolazione, onde non precluderne a priori il

consolidamento alla stregua del richiamato criterio dell’adeguatezza in concreto della famiglia

sostitutiva. In secondo luogo, in ambedue i casi la legge rimette al giudice la valutazione sul se

debba farsi o meno luogo all’adozione, alla stregua dell’interesse dell’adottando.

Il diverso trattamento riservato agli adottati con adozione ordinaria – cui è preclusa l’estensione

degli effetti dell’adozione in caso di separazione o divorzio degli adottanti – rispetto ai minori in

affidamento preadottivo – nei cui confronti è consentita l’adozione in caso di sopravvenuta

separazione dei coniugi affidatari – appare perciò privo di razionale giustificazione. È anzi da

rilevare, da un lato, che il rapporto che consegue all’adozione ordinaria ha consistenza ben

maggiore, sul piano degli effetti giuridici, di quello scaturente dall’affidamento preadottivo; e

dall’altro che, se vincoli affettivi di fatto instauratisi giovano a consentire l’adozione a chi si sia

separato nel corso dell’affidamento preadottivo – che ha durata annuale, solo eventualmente

prorogabile per un altro anno – a maggior ragione la devono consentire quando risalgono a molto

tempo addietro (e sono così diventati più saldi), come di norma accade nel caso dell’adozione

ordinaria. È da ritenere quindi giustificato che, in tale ipotesi, l’estensione degli effetti dell’adozione

possa essere disposta in caso di separazione e di divorzio tra gli adottanti.

8.2. I soggetti coinvolti nell’adozione

8.2.1. Il limite di età dell’adottando

Con riguardo al limite di età dell’adottando, va segnalata la sentenza n. 145 del 1969, che

affronta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314/4 del Codice civile in riferimento

all’art. 3 della Costituzione, assumendosi che, in funzione dell’acquisto da parte dei minori in

situazione di abbandono dello “stato di adottabile”, sussisterebbe una ingiustificata disparità di

trattamento tra coloro che siano e coloro che non siano stati segnalati prima del compimento

dell’ottavo anno.

Per la Corte l’asserita portata discriminatoria non è accettabile. È nella logica del procedimento e

risponde alla sua natura e funzione che l’inizio di esso sia ricondotto alla conoscenza del fatto da

accertare. D’altra parte, l’istituto dell’adozione speciale risponde alla esigenza di consentire e

favorire l’adozione del minore nei primi anni di vita, che sono ritenuti i più adatti per il migliore

inserimento del minore stesso nella famiglia adottiva.

In sé, quindi, codesta disciplina, la cui concreta determinazione va peraltro ricondotta alla

discrezionalità di pertinenza del legislatore, appare certamente appropriata. Con l’art. 314/5, tenuto

conto delle possibili situazioni di abbandono dei minori, è dettata una serie di norme in virtù e in

forza delle quali tutti coloro che di quelle situazioni siano o vengano a conoscenza, possono o

debbono informarne, direttamente o meno, il giudice tutelare o il tribunale per i minorenni; ed è così

previsto un insieme di strumenti e di modi che ragionevolmente dovrebbero essere idonei e

sufficienti per assicurare la conoscenza o conoscibilità di tutte le situazioni di abbandono relative ai

minori di età inferiore agli anni otto.

Tutto ciò, ovviamente, non può escludere in fatto che un minore, pur trovantesi in quella

situazione, non venga segnalato: ma sembra evidente come da una eventualità del genere non possa

dedursi l’esistenza dell’asserita disparità di trattamento giuridico.

Fino al compimento dell’ottavo anno, tutti i minori privi di assistenza materiale e morale (e

sempre che la mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore) godono sul terreno

legislativo di uno stesso trattamento: la situazione di abbandono in cui si trovano, può e deve essere

oggetto di denuncia e quindi la possibilità di essere dichiarati adottabili è aperta a tutti.

Il riferimento che con gli artt. 314/4 e 314/5 vien fatto alla denuncia ed al termine massimo entro

cui essa può aver luogo, appare sicuramente logico e razionale. E d’altra parte non è censurabile in

questa sede che il legislatore abbia scelto come necessaria la via dell’accertamento, ad opera del

tribunale per i minorenni, della situazione di abbandono, e non ne abbia ritenuto sufficiente altra tra

quelle astrattamente possibili.

Né può influire a favore della contraria tesi il fatto che l’acquisto di una posizione giuridica di

vantaggio, per i minori che siano segnalati, ed il mancato acquisto della stessa posizione da parte

dei non segnalati, dipendano dal compimento o meno di un dato atto (denuncia) ad opera di soggetti

diversi da quelli che siano direttamente e personalmente interessati. Il sistema prescelto, tenuta

presente l’età dei soggetti meritevoli di tutela, e valutati gli interessi e le esigenze in considerazione,

appare razionale. È previsto come possibile e doveroso l’intervento di chi ha la rappresentanza di

quei soggetti o attende alla loro cura o assistenza, ed è previsto pure come possibile l’intervento di

chiunque sia a conoscenza di situazioni di abbandono relative a minori di età inferiore agli anni

otto; ed è anche ammesso che la segnalazione venga effettuata, con l’istanza di cui al primo comma

dell’art. 314/4, dal pubblico ministero, dalle istituzioni per l’infanzia e da chiunque abbia interesse.

Si sono, così, tenute presenti le più varie, ampie ed articolate vie di informazione; ed è perciò

ragionevole ritenere che l’interesse di tutti i minori in situazione di abbandono sia adeguatamente

tutelato e salvaguardato.

Sempre in riferimento all’età dell’adottando, nella sentenza n. 80 del 1981, la Corte ritorna sul

quesito concernente la razionalità della norma di legge, che fissa il limite di età a otto anni come

periodo migliore per l’inserimento del fanciullo nella famiglia adottiva.

Nella specie, veniva sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 314/4, primo e terzo

comma, del codice civile, per contrasto con l’art. 3, primo comma della Costituzione, perché queste

disposizioni stabiliscono una diversa disciplina – in base alla condizione personale dell’età – tra

minori infraottenni ai quali può applicarsi l’istituto dell’adozione speciale e minori che, avendo

superato l’ottavo anno di età, non possono fruire di questo tipo di adozione: di qui una disparità di

trattamento in ordine ad un istituto che offre una tutela più completa al minore al fine del suo

inserimento in una famiglia sostitutiva di quella di origine.

Per la Corte la questione non è fondata, tenuto conto che già in precedenti sentenze (n. 145 del

1969 e n. 158 del 1971) si ammetteva senz’altro la possibilità che l’adozione speciale fosse

consentita “alle condizioni ed entro i limiti risultanti dalle scelte discrezionali che il legislatore

abbia posto in essere in modo adeguato e razionale”: atterrebbe poi al merito della normativa la

concreta determinazione di una disciplina fondata sul presupposto che i primi otto anni di età del

minore rappresentino il periodo più adatto per un buon inserimento nella famiglia adottiva.

Ciò non esclude che, alla luce dell’esperienza maturata nell’applicazione della legge n. 431 del

1967 ed in sede di coordinamento tra la disciplina dell’adozione ordinaria e quella dell’adozione

speciale, si riconsideri la normativa denunziata estendendo a tutti i minori la tutela accordata dalla

legge n. 431 del 1967; anche allo scopo di superare le difficoltà nascenti dal contemporaneo

abbandono di più fratelli, di cui solo alcuni in possesso del requisito di età attualmente richiesto.

Ma interventi di questa natura competono evidentemente al legislatore, nel quadro, tra l’altro,

delle misure da prendere per dare attuazione alla Convenzione europea in materia di adozione dei

minori, firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967 (ratifica ed esecuzione a seguito della legge 22

maggio 1974, n. 357). L’art. 3 di questa Convenzione contiene in particolare la significativa

indicazione di un limite massimo di età, allorché dichiara che l’accordo concerne unicamente

l’adozione di un minore il quale, nel momento in cui l’adozione è richiesta, non abbia raggiunto

l’età di 18 anni.

8.2.2. Il divario di età tra adottando ed adottante

La Corte, nella sentenza n. 89 del 1993, non condivide il dubbio di costituzionalità avverso l’art.

291 del codice civile, nella parte in cui, disciplinando le condizioni dell’adozione di persone

maggiori di età, stabilisce che l’adottante deve superare di almeno diciotto anni l’età dell’adottando,

senza prevedere che il giudice possa ridurre la differenza di età richiesta da questa disposizione, nel

caso di adozione del figlio maggiorenne, anche adottivo, dell’altro coniuge.

La Corte d’appello rimettente sollecita, in definitiva, l’applicazione anche all’adozione ordinaria

delle ragioni in base alle quali è stata ritenuta costituzionalmente illegittima, per l’adozione di

minori in casi particolari, la mancata previsione del potere del giudice di accordare una ragionevole

riduzione della differenza di età di diciotto anni tra il coniuge adottante ed il minore adottando,

quando quest’ultimo sia figlio, anche adottivo, dell’altro coniuge (art. 44, primo comma, lettera b),

della legge n. 184 del 1983).

Per la Corte, la premessa della ritenuta identità di situazioni nelle quali verserebbero gli

adottandi – nel caso di adozione del figlio del coniuge dell’adottante – tanto che si tratti di adozione

ordinaria quanto che si tratti di adozione di minori non è esatta, in ragione della differente disciplina

che caratterizza l’adozione di minori rispetto all’adozione di persone di maggiore età.

L’organica disciplina della adozione dei minori, dettata dalla legge n. 184 del 1983, ha come

essenziale e dominante obiettivo - in conformità alle convenzioni internazionali - l’interesse dei

minori stessi ad un ambiente familiare stabile ed armonioso, nel quale si possa sviluppare la loro

personalità, godendo di un equilibrato contesto affettivo ed educativo che ha come riferimento

idonei genitori adottivi.

Coessenziali all’adozione dei minori sono l’inserimento nella famiglia di definitiva accoglienza

ed il rapporto con i genitori adottivi, i quali assumono la responsabilità educativa dei minori

adottati. Ne deriva l’attribuzione ad essi delle potestà e dei doveri che caratterizzano la posizione

dei genitori nei confronti dei figli, anche quando, come nella adozione in casi particolari (art. 48

della legge n. 184 del 1983), il minore non sempre versi in stato di abbandono e non cessino del

tutto i rapporti con i genitori di origine. In questo contesto, che implica di necessità il pieno

inserimento del minore nella comunità familiare adottiva, si colloca l’obbligo dell’adottante di

mantenere, istruire ed educare l’adottato, in conformità a quanto prescritto dall’art. 147 del codice

civile per i figli nati nel matrimonio (art. 48 della legge n. 184 del 1983).

La specialità di questa disciplina legislativa risponde alla specificità delle esigenze di protezione

del minore. In funzione dell’interesse di quest’ultimo il provvedimento di adozione è circondato di

particolari cautele ed è pronunciato all’esito di un procedimento che implica un incisivo controllo

del Tribunale per i minorenni, volto a verificare, al di là della volontà delle parti interessate, se

l’adozione realizza il preminente interesse del minore. Lo stesso procedimento consente inoltre al

giudice di indagare sull’attitudine dell’adottante ad educare il minore, sui motivi dell’adozione,

sulla personalità del minore, sulla possibilità di idonea convivenza (art. 57 della legge n. 184 del

1983).

Tutte queste specifiche condizioni hanno consentito di valutare come l’adozione di un minore

figlio del coniuge dell’adottante sia necessaria per assicurare all’adottando, con l’inserimento a

pieno titolo nella famiglia e con l’attribuzione del cognome dei fratelli uterini generati in costanza

di matrimonio, il superamento “del disagio sociale della manifesta diversità di origine con possibile

disarmonia nella formazione psicologica e morale del minore stesso”. Si è così ritenuto che questo

interesse prevalga sul limite del divario di età tra adottante e adottato, limite che può essere

eccezionalmente superato quando sia indispensabile, secondo il rigoroso apprezzamento del

giudice, per salvaguardare i valori di protezione del minore, assicurando allo stesso una famiglia

(sentenza n. 44 del 1990).

L’esigenza di evitare gravi danni allo sviluppo della personalità del minore, causati dal venir

meno dell’unità di vita e di educazione tra fratelli minori, uno dei quali già adottato, ha consentito

inoltre, in casi altrettanto rigorosamente circoscritti ed eccezionali, il superamento dello stesso

limite del divario di età massimo tra adottante ed adottato (sentenza n. 148 del 1992).

L’adozione di persone maggiori di età, invece, non implica necessariamente l’instaurarsi o il

permanere della convivenza familiare, non determina la soggezione alla potestà dei genitori

adottivi, né impone all’adottante l’obbligo di mantenere, istruire ed educare l’adottato. Inoltre

l’adozione di persone maggiori di età è essenzialmente determinata dal consenso dell’adottante e

dell’adottando, giacché il controllo del Tribunale verte sui requisiti che legittimano l’adozione,

essendo rimesso al giudice il ristretto potere di valutare se l’adozione “conviene” all’adottando (art.

312 del codice civile).

Nell’adozione di persone maggiori di età al giudice non è attribuito alcun discrezionale

apprezzamento dell’interesse della persona dell’adottando; né possono essere effettuati quegli

incisivi controlli previsti per l’adozione di minori, che significativamente rispecchiano la diversità

di presupposti e di finalità dei due istituti.

Risulta quindi razionalmente giustificata una diversità di disciplina anche nel superamento –

consentito solo per l’adozione di minori, in casi eccezionali che esigono una specifica indagine e la

rigorosa valutazione del giudice – del limite posto dal divario di età ordinariamente richiesto tra

adottante ed adottando, superamento che si giustifica in ragione del raccordo tra l’unità familiare ed

il momento ineliminabilmente formativo ed educativo, che caratterizza lo sviluppo del minore in

una famiglia ed esige una particolare protezione che solo quella famiglia può assicurare.

Parimenti, nella sentenza n. 500 del 2000, non viene ritenuta fondata la questione di legittimità

costituzionale che investe l’art. 291 del codice civile nella parte in cui non permette l’adozione

ordinaria alle persone che non superano di almeno diciotto anni l’età di coloro che essi intendono

adottare, anche se l’adottando è figlio del proprio coniuge.

Il giudice rimettente, denunciando una ingiustificata disparità di trattamento nella disciplina del

divario minimo di età che deve intercorrere tra l’adottante e l’adottando maggiorenne, requisito che

ritiene non superabile mediante una diversa interpretazione del sistema normativo pur rimessa al

giudice comune nell’applicazione della legge, indica quale termine di comparazione la regola

prevista per l’adozione di minori, sul presupposto che le situazioni siano identiche quando

l’adozione riguardi il figlio del coniuge dell’adottante.

Questa premessa è stata già ritenuta inesatta, giacché l’adozione ordinaria ha struttura, funzione

ed effetti diversi rispetto a quelli che caratterizzano l’adozione dei minori.

Non mancano differenze tra l’adozione di minori e quella di maggiorenni idonee a giustificare

una diversità di disciplina che consenta solo per l’adozione di minori il superamento del divario di

età ordinariamente richiesto tra adottante e adottato, in ragione del raccordo tra l’unità familiare e

l’ineliminabile momento formativo ed educativo che caratterizza lo sviluppo della personalità del

minore in una famiglia e che solo quella famiglia può assicurare. Rimane invece rimessa alla

valutazione del legislatore la ponderazione di nuove esigenze sociali, che eventualmente sollecitino

una innovazione in questa disciplina.

Sotto un diverso profilo, nella sentenza n. 303 del 1996, la Corte dichiara l’illegittimità

costituzionale dell’art. 6, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui non

prevede che il giudice possa disporre l’adozione, valutando esclusivamente l’interesse del minore,

quando l’età di uno dei coniugi adottanti superi di oltre quaranta anni l’età dell’adottando, pur

rimanendo la differenza di età compresa in quella che di solito intercorre tra genitori e figli, se dalla

mancata adozione deriva un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore.

Premette la Corte che la questione, pur riguardando l’adozione di un minore straniero, è tuttavia

da considerare riferita al disposto della stessa legge, che stabilisce il requisito, generale e comune

tanto all’adozione nazionale che a quella internazionale, del divario di età tra coniugi adottanti e

minore adottato.

Difatti il legislatore, nel disciplinare l’adozione dei minori, ha stabilito, tra le disposizioni

generali della legge n. 184 del 1983, alcuni requisiti comuni per l’adozione, sia quando essa è

direttamente disposta dal giudice nazionale, sia quando, per i minori stranieri, è disposta dallo

stesso giudice, ma sul presupposto di un provvedimento di adozione emesso in altri paesi e che solo

così può acquistare efficacia in Italia.

L’unificazione dei requisiti risponde al principio della pari protezione dei minori e quindi della

omogeneità di disciplina sostanziale per la loro adozione, tanto che siano italiani quanto stranieri,

evitando, in danno di questi ultimi, discriminazioni ed abusi (sentenza n. 536 del 1989).

Tra i requisiti comuni alle due forme di adozione, nazionale ed internazionale, l’età degli

adottanti, rispetto a quella degli adottandi, ha un rilievo non secondario. Essa è presa in

considerazione anche dalla Convenzione europea in materia di adozione di minori, che prevede la

regola generale di una differenza di età, tra adottante e adottato, non diversa da quella che intercorre

di solito tra genitori e figli.

L’adozione di minori è, difatti, destinata a far cessare ogni rapporto tra la famiglia di origine e

l’adottato, il quale viene definitivamente inserito nella famiglia di accoglienza, assumendo in essa la

condizione giuridica di figlio legittimo. La famiglia di accoglienza è chiamata, quindi, ad assolvere

una funzione completamente sostitutiva della famiglia di origine e deve, pertanto, avere tutti i

requisiti di una famiglia nella quale ordinariamente avviene l’accoglienza della nascita, l’assistenza

e l’educazione del fanciullo. Così si spiega il divario di età tra genitori adottivi e minore adottato,

che deve essere conforme a tale modello.

Il legislatore ha ritenuto, facendo uso della discrezionalità che gli è propria, di stabilire, sia nel

minimo che nel massimo (rispettivamente in diciotto e quaranta anni), il divario di età tra adottanti e

adottando in modo rispondente alle finalità peculiari dell’adozione legittimante e tenendo conto

delle condizioni sociali nelle quali l’istituto è destinato ad operare.

Non viene ora posta in discussione la regola, ragionevolmente stabilita dal legislatore, ma la sua

assolutezza, tale da non tollerare eccezione alcuna anche quando l’adozione risponda al preminente

interesse del minore e la specifica famiglia di accoglienza, giudicata idonea, sia la sola che possa

soddisfare tale interesse, ma sia superato il divario di età rigidamente previsto, pur rimanendo tale

divario compreso in quello che di solito può intercorrere tra genitori e figli, sicché l’adozione non

può essere disposta ed in concreto ne deriva un danno per il minore stesso.

La Corte ha già ritenuto che la regola del divario massimo di età tra adottante e adottato non può

essere così assoluta da non poter essere ragionevolmente intaccata, in casi rigorosamente circoscritti

ed eccezionali, per consentire l’affermazione di interessi, attinenti al minore ed alla famiglia, che

trovano radicamento e protezione costituzionale, la cui esistenza in concreto sia rimessa al rigoroso

accertamento giudiziale (sentenza n. 148 del 1992).

Sotto questo profilo non viene in considerazione l’interesse dei coniugi ad avere figli legittimi di

derivazione adottiva. Né, per gli aspetti considerati, il limite di età stabilito dalla disposizione

denunciata per l’adozione di minori può essere valutato in relazione all’interesse ed alla posizione

dell’adottante, giacché l’intero sistema dell’adozione di minori è eminentemente incentrato sulla

valutazione e sulla protezione della personalità e dell’interesse del fanciullo, alla cui accoglienza è

preordinato lo stesso apprezzamento dell’idoneità della famiglia adottiva, e quindi dei requisiti

richiesti ai suoi componenti.

In continuità con la precedente giurisprudenza costituzionale, relativa al superamento

dell’assoluta rigidità delle prescrizioni normative, quanto alla differenza di età tra coniugi adottanti

ed adottando, deve essere riconosciuta la possibilità che il giudice valuti, con rigoroso

accertamento, l’eccezionale necessità di consentire, nell’esclusivo interesse del minore, che questi

sia inserito nella famiglia di accoglienza che, sola, può soddisfare tale suo interesse, anche quando,

pur rimanendo nella differenza di età che può solitamente intercorrere tra genitori e figli, l’età del

coniuge adottante si discosti in modo ragionevolmente contenuto dal massimo di quaranta anni,

legislativamente previsto.

Tuttavia, affinché non si trasformi in una regola, la cui fissazione è invece rimessa alla

discrezionalità del legislatore, l’eccezione deve rispondere ad un criterio di necessità in relazione ai

principî ed ai valori costituzionali assunti quale parametro di valutazione della legittimità

costituzionale della disposizione denunciata (artt. 2 e 31 della Costituzione).

Nel contesto di un istituto preordinato ad assicurare al minore in stato di abbandono una famiglia

di accoglienza idonea ad assolvere pienamente la funzione di solidarietà propria della famiglia

legittima, la necessità della deroga al criterio rigido del divario di età (fissato dall’art. 6, secondo

comma, della legge n. 184 del 1983) si verifica quando l’inserimento in quella specifica famiglia

adottiva risponde al preminente interesse del minore e dalla mancata adozione deriva un danno

grave e non altrimenti evitabile per lo stesso. Pertanto, la questione è, in questi limiti, fondata.

8.2.3. Adozione e presenza di altri figli

La sentenza n. 557 del 1988 dichiara, in riferimento all’art. 3 Cost., l’incostituzionalità dell’art.

291 cod. civ., in quanto “non consente che possa procedersi all’adozione da parte di persone che

abbiano figli legittimi o legittimati, ancorché maggiorenni e consenzienti”.

La pronuncia incide notevolmente sulla logica dell’istituto dell’adozione, in quanto tale divieto

era imposto dalla funzione stessa dell’istituto – assicurare, nell’interesse dell’adottante, la

trasmissione del nome e del patrimonio – poiché la presenza della filiazione legittima avrebbe fatto

venir meno tale funzione e non avrebbe più giustificato casualmente il rapporto adottivo.

La Corte rileva come il legislatore possa, nell’esercizio del suo potere discrezionale, contenere

l’istituto dell’adozione entro l’ambito ritenuto più opportuno per salvaguardare i diritti dei membri

della famiglia legittima.

È tuttavia necessario che la normativa non comporti delle limitazioni eccessive – e come tali

irrazionali – rispetto allo scopo perseguito, sì da violare l’art. 3 Cost.

Nella fattispecie, mentre l’esistenza del coniuge non osta all’adozione, sempre che questi presti il

suo assenso (art. 297, primo comma, c.c.), la circostanza che vi siano figli legittimi o legittimati,

benché maggiorenni e consenzienti, impedisce che si possa procedere alla adozione medesima.

Tale differente valutazione legislativa dell’assenso di persone (rispettivamente coniuge e figli),

tutte facenti parte della famiglia legittima dell’adottante, ed egualmente interessate, sia sotto

l’aspetto morale che sotto quello patrimoniale, anche in relazione al favor sempre dimostrato del

legislatore verso l’istituto, appare chiaramente incongrua.

Non sussiste, infatti, un motivo razionale per ritenere sufficientemente tutelata la posizione del

coniuge attraverso la previsione del suo assenso, e per non disporre analogamente, in una situazione

sostanzialmente identica, rispetto ai discendenti legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti.

In questo quadro, si inserisce la sentenza n. 345 del 1992, che interpreta l’art. 291 del codice

civile, indubbiato nella parte in cui non permette a chi ha figli legittimi o legittimati maggiorenni,

ma incapaci di esprimere il proprio assenso, di adottare altra persona maggiore di età.

Ritiene la Corte che la questione ha per logico presupposto la ritenuta necessità ed inderogabilità

della manifestazione di volontà, da parte del figlio legittimo o legittimato, in ordine alla adozione di

altra persona maggiorenne voluta dal proprio genitore. Si tratta di una prospettazione che non tiene

adeguatamente conto della specifica disciplina normativa dettata dall’art. 297, secondo comma

ultima parte, del codice civile, per il caso in cui sia impossibile ottenere l’assenso all’adozione, per

incapacità delle persone chiamate ad esprimerlo. In tal caso il Tribunale può egualmente

pronunziare l’adozione, con le modalità previste dall’art. 297 del codice civile, apprezzando gli

interessi indicati nella stessa disposizione. Questa specifica disciplina, pur se inserita nel contesto

delle disposizioni relative all’assenso del coniuge e dei genitori, assume, nel rispetto del tenore

letterale del testo normativo che si riferisce a tutte le persone chiamate ad esprimere il proprio

assenso alla adozione, un significato ed un contenuto generale e quindi, a seguito della sentenza n.

557 del 1988, deve essere applicata anche ai discendenti legittimi o legittimati dell’adottante,

quando è impossibile ottenere il loro assenso per incapacità

Sotto un diverso profilo, nella sentenza n. 53 del 1994 si rigetta la questione di legittimità

costituzionale dell’art. 291 e “per quanto vi si connette”, dell’art. 297 del codice civile, nella parte

in cui non viene consentita l’adozione alle persone che hanno discendenti legittimi o legittimati

minorenni.

Appare, invero, evidente la differente condizione di detti figli minori sia rispetto ai figli

maggiorenni e consenzienti, sia rispetto ai figli maggiorenni e interdetti per infermità di mente. Gli

aspetti differenziali fra queste situazioni sono stati riconosciuti dallo stesso giudice a quo, il quale

ha, da un lato, ricordato che l’adozione ordinaria ha tra l’altro “le finalità della perpetuazione del

nome dell’adottante e della trasmissione del relativo patrimonio”; e, dall’altro, ha rilevato che “la

pur prudente valutazione del giudice porterebbe a soluzioni irrevocabilmente privative, per il

giovane soggetto interessato, dell’esercizio di quella facoltà personalissima di non assenso con il di

lui assoggettamento ai relativi effetti” tanto rilevanti sul piano morale e patrimoniale.

E tuttavia, in modo irragionevole e contraddittorio, il giudice a quo conclude ritenendo che tali

differenziali aspetti problematici potrebbero “in altra ottica” essere “affrontati con il saggio

apprezzamento del giudice”.

La Corte rileva, invece, che una tale conclusione non solo porterebbe a parificare situazioni che

sono tra loro differenti, privando i figli minori della personalissima facoltà – una volta divenuti

maggiorenni – di valutare e decidere sui delicati interessi in gioco, ma snaturerebbe eccessivamente

le finalità dell’istituto dell’adozione ordinaria, per la quale non sussistono peraltro né le esigenze, né

l’urgenza riscontrabili nell’adozione speciale.

A quest’ultimo proposito, si pone il dubbio circa un ulteriore profilo di disparità di trattamento.

Si fa cioè notare che nell’adozione speciale “l’esigenza di tutela del figlio minore degli adottanti sia

identica, se non maggiore con riferimento ai più pregnanti effetti, a quella del figlio minore

dell’aspirante all’adozione ordinaria”.

A dimostrazione dell’infondatezza di questa tesi, basata sull’asserita identità di situazioni, è

sufficiente osservare che, mentre con l’adozione speciale l’ordinamento giuridico intende inserire in

una idonea e stabile famiglia (preferibilmente già con figli) un minore moralmente e materialmente

abbandonato – e per questo interesse prevalente ritiene secondaria l’eventuale soddisfazione ridotta

degli interessi personali e patrimoniali dei figli legittimi (anche se minorenni) degli adottanti –, nel

caso invece dell’adozione ordinaria il legislatore non ha riscontrato analogo interesse prevalente, in

quanto l’adottando non solo è maggiorenne e continua ad essere legato ai propri genitori, ma,

entrando anche in una seconda famiglia, assorbe una parte degli interessi morali e patrimoniali del

figlio minore, legato soltanto alla famiglia dell’adottante.

La scelta del legislatore di valutare diversamente le due fattispecie è frutto pertanto di un

bilanciamento di interessi che conduce nei due casi a soluzioni differenti: tale bilanciamento non

appare irragionevole e pertanto, anche sotto questo aspetto, non risulta violato il principio di

eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.

Le pronunce finora esposte hanno lasciato scoperto un ulteriore profilo di incostituzionalità

dell’art. 291 c.c. nella parte in cui non prevede che l’adozione di maggiorenni non possa essere

pronunciata in presenza di figli naturali, riconosciuti dall’adottante, minorenni o, se maggiorenni,

non consenzienti. Omissione cui la Corte pone rimedio con sentenza n. 245 del 2004, evidenziando

una illegittima disparità di trattamento fra figli legittimi e figli naturali riconosciuti ed in pregiudizio

dei secondi, in quanto le ragioni di indole morale e patrimoniale, che consentono ai primi di opporsi

all’adozione, valgono anche per i figli naturali. D’altro canto, nella situazione presa in esame non

sono ipotizzabili profili di incompatibilità con i diritti dei membri della famiglia legittima che

giustifichino un trattamento normativo differenziato.

8.2.4. L’adozione del figlio del coniuge

Nella sentenza n. 27 del 1991, la Corte affronta la questione di legittimità costituzionale dell’art.

44, primo comma, lettera b), della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui, “prevedendo

l’adozione di un minore da parte del coniuge del genitore biologico del minore stesso, non consente

di dichiarare efficace nella Repubblica italiana un provvedimento adozionale straniero con cui si

pronunci l’adozione, da parte di entrambi i coniugi, di un minore che è figlio biologico di uno di

essi”.

Nel dichiarare non fondata la questione, la Corte sottolinea che l’istituto dell’adozione deve

avere il proprio centro di gravità nella tutela del preminente interesse del minore, rispetto al quale

devono essere subordinati tanto gli interessi degli adottanti (o aspiranti tali), quanto quelli della

famiglia di origine. In quest’ottica, la disciplina predisposta deve tendere alla soluzione che sia “in

concreto” ottimale per il minore, e quindi, da un lato, conferire al giudice poteri idonei alla sua

individuazione e, dall’altro, tenere in adeguata considerazione i legami che il minore abbia

instaurato in precedenza (sentenze nn. 11 del 1981 e 198 del 1986). Di conseguenza, ove manchi il

basilare presupposto per l’adozione piena costituito dallo stato di abbandono, non può dirsi precluso

il ricorso all’istituto dell’adozione ordinaria, sempreché nella sua regolamentazione sia

salvaguardata l’esigenza di tutela dei fondamentali interessi del minore.

L’adozione del figlio del coniuge è indubbiamente un “caso particolare” di adozione, e come tale

è stata considerata dal legislatore del 1983. La particolarità del caso sta nella congiunta esigenza,

per un verso, di consolidare l’unità familiare, agevolando l’inserimento in essa del minore che sia

figlio (anche adottivo) di uno solo dei coniugi, ed in particolare evitando il disagio sociale e le

disarmonie nella formazione morale e psicologica che possono derivargli dal restare estraneo

all’altro coniuge – pur se a lui affettivamente legato – e dal portare un cognome diverso da quello

degli altri figli facenti parte del medesimo nucleo familiare; per altro verso, di evitare che

l’instaurazione del nuovo rapporto comporti la rottura di quello esistente con l’altro genitore

biologico e/o con i di lui parenti, pur quando con costoro il minore abbia instaurato e mantenga

legami significativi.

Nella non facile composizione di tali esigenze, il legislatore del 1983 ha costruito un istituto che

non solo è ben lontano dall’adozione ordinaria di tipo tradizionale (ove era prevalente l’interesse di

chi si continua attraverso un figlio-erede) ma è effettivamente improntato alla tutela del preminente

interesse del minore. È sulla realizzazione in concreto di questo che si incentra infatti la verifica

demandata al Tribunale, cui è fatto carico di indagare, tra l’altro, sull’idoneità dell’adottante sul

piano educativo, sulla rispondenza all’interesse del minore dei motivi che lo spingono a desiderarne

l’adozione e sulla possibilità di idonea convivenza tra i due (art. 57).

Nella medesima prospettiva si colloca anche la disciplina dei presupposti dell’adozione.

Il consenso dell’adottante e dell’adottando (art. 45) non ha infatti carattere negoziale, ma è solo

un dato della procedura equivalente a due concorrenti domande di pronuncia dell’autorità

giudiziaria; e quello del legale rappresentante del minore non ha più carattere dirimente, essendo

degradato a mero parere non vincolante. L’assenso del genitore dell’adottando, poi, ha valore

decisivo solo se costui eserciti la potestà sul minore, ed il Tribunale può invece prescinderne non

solo se egli sia incapace o irreperibile, ma anche quando il rifiuto risulti ingiustificato o contrario

all’interesse dell’adottando; ed anche l’eventuale coniuge di questi può impedire l’adozione solo se

sia convivente (art. 46).

Sul piano degli effetti, il legislatore ha inteso, da un lato, garantire la pienezza dei rapporti

personali tra minore e coniuge del genitore, attribuendo a costui (art. 48) l’esercizio della piena

potestà – con i connessi obblighi di mantenimento, educazione e istruzione – e stabilendo che il

minore ne assuma il cognome, da anteporre al proprio (art. 55, che richiama l’art. 299 cod. civ.);

dall’altro, però, assicurare che il rapporto adottivo, nella sua origine e nel suo svolgersi, sia scevro

da interessi di altra natura. Ha disposto, perciò, che l’adottante abbia bensì l’amministrazione dei

beni dell’adottato, con obbligo di inventario, ma non abbia l’usufrutto legale sui medesimi e non

possa perciò destinarli al mantenimento proprio e degli altri membri della famiglia od

all’educazione e istruzione degli altri figli. Coerentemente a ciò, i diritti successori sono regolati a

senso unico: l’adottato, cioè, succede pienamente all’adottante, mentre questi non partecipa in alcun

modo alla successione del primo (art. 55, che richiama l’art. 304 cod. civ.).

Per converso, all’esigenza che non siano artificiosamente troncati i rapporti del minore con la

famiglia di origine – cioè con l’altro genitore biologico e con i suoi parenti – risponde la statuizione

per cui il minore, da un lato, mantiene nei confronti di costoro, tutti i diritti (anche successori) ed i

corrispondenti doveri; dall’altro, non instaura rapporti con i parenti dell’adottante né partecipa alla

loro successione (art. 55, che richiama l’art. 300 cod. civ.).

Certo, una regolamentazione più analitica della materia, che cioè tenesse conto del vario

atteggiarsi dei rapporti del minore col genitore biologico non convivente, avrebbe forse potuto

suggerire soluzioni parzialmente diverse e magari far propendere, in alcune peculiari situazioni, per

l’instaurazione di un rapporto di adozione piena. Ma nella valutazione generale dell’istituto che la

Corte è chiamata a compiere in questa sede, deve escludersi che le scelte compiute dal legislatore in

ordine al bilanciamento degli interessi in gioco siano meritevoli di censura.

Viene negato, in particolare, che ne resti violato il principio di parità morale e giuridica tra i

coniugi (art. 29, secondo comma, Cost.). Sul piano dei rapporti personali, una sostanziale parità è,

infatti, assicurata dall’attribuzione ad entrambi della piena potestà sul minore e dei correlativi diritti

ed obblighi; su quello dei rapporti patrimoniali, le differenze si connettono non all’intento di

privilegiare il genitore biologico ma a quello di meglio garantire l’interesse del minore, nei cui

confronti quello del genitore adottivo deve cedere.

La sentenza n. 315 del 2007 affronta, ritenendolo non fondato, il dubbio di legittimità avente ad

oggetto l’art. 44, comma 1, lettera b), della legge 4 maggio 1983, n. 184, giudicato dal rimettente

irragionevole nella parte in cui non consente l’adozione del figlio del coniuge da parte dell’altro

coniuge in caso di decesso del genitore-coniuge avvenuto prima della richiesta, considerato che il

successivo art. 47 consente l’adozione non legittimante anche qualora uno dei coniugi deceda

durante l’iter per l’adozione. L’ipotesi di cui alla norma impugnata – il minore può essere adottato

dal coniuge quando sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge – rientra fra le ipotesi eccezionali di

adozione non legittimante, casi in cui, in presenza di situazioni che non avrebbero potuto

giustificare l’adozione legittimante (o per la mancanza della condizioni di abbandono, o per la

difficoltà concreta, in considerazione di condizioni personali del minore), è ammessa una forma di

adozione che presenta la peculiarità di non avere effetto legittimante nei confronti dell’adottato, né

effetto risolutivo nei confronti della famiglia di origine. La ratio della norma è quella di consentire

al coniuge di soggetto che sia genitore convivente con il minore una adozione non legittimante dello

stesso, inserendolo in una famiglia nella quale si ricostituiscono le due figure genitoriali, una delle

quali è già genitore (legittimo, naturale o adottivo), mentre l’altra, l’adottante, lo diventa a seguito

dell’accoglimento della relativa domanda; condizione indispensabile è l’esistenza attuale, al

momento dell’inizio della procedura e comunque prima della prestazione dell’assenso da parte del

genitore, del rapporto di coniugio fra chi intende procedere all’adozione e il genitore del minore

adottando, con la conseguenza che la morte di quest’ultimo prima della proposizione della domanda

e della prestazione dell’assenso comporta il rigetto della domanda. Il fatto che, invece, nel caso di

cui all’art. 47 della stessa legge sia riconosciuta la possibilità dell’adozione non legittimante anche

nell’ipotesi in cui uno dei coniugi deceda durante l’iter per l’adozione, non rende irragionevole la

disciplina censurata: il legislatore, posto di fronte a situazioni che impedirebbero l’accoglimento

della domanda per essere venute meno successivamente alla proposizione della stessa le condizioni

necessarie previste dalla legge, facendo applicazione eccezionale, in tema di azioni costitutive di

uno status, del principio secondo cui il tempo necessario per l’attribuzione del bene della vita

richiesto non deve risolversi in un danno per l’interessato, ammette l’adozione, purché le condizioni

richieste preesistano ad un determinato momento successivo alla proposizione dell’azione ed

individuato, in caso di adozione non legittimante, in quello della prestazione dell’assenso. Secondo

la Corte, il pur preminente interesse del minore, se può giustificare l’adozione che sarebbe

impossibile per il venir meno, successivamente alla proposizione della domanda, delle condizioni

dell’azione, all’origine esistenti, non consente che si prescinda da tali condizioni fin dal momento

della proposizione della domanda stessa, anche perché ciò si porrebbe in contrasto con i principî

dell’adozione, introducendo una incertezza sulle condizioni dell’azione. Peraltro, non è escluso che

il legislatore ordinario possa consentire l’adozione al nuovo coniuge, per la tutela dell’interesse del

minore, anche in ipotesi di decesso del genitore in un momento precedente la prestazione

dell’assenso.

8.2.5. L’adozione da parte di parenti

La Corte respinge l’impugnazione avverso l’art. 44, lettera c), della legge 4 maggio 1983, n. 184,

laddove non si consenta ai parenti entro il quarto grado l’adozione stessa, poiché la subordina alla

constatata impossibilità di affidamento preadottivo e tale situazione verrebbe trattata in modo

differente rispetto a quella, ad essa analoga, dell’orfano di padre e di madre, regolata dalla lettera a)

del citato art. 44, che invece consente l’adozione da parte di parenti entro il quarto grado (sent. n.

383/1999).

A differenza di quella “legittimante”, la particolare adozione del citato art. 44 non recide i legami

del minore con la sua famiglia di origine, ma offre allo stesso la possibilità di rimanere nell’ambito

della nuova famiglia che l’ha accolto, formalizzando il rapporto affettivo instauratosi con

determinati soggetti che si stanno effettivamente occupando di lui: i parenti o le persone che hanno

con lui rapporti stabili e duraturi preesistenti alla perdita dei genitori, ovvero il nuovo coniuge del

genitore.

Le ordinanze di rimessione ritengono di dover trarre dal riferimento letterale della disposizione

impugnata alla “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” il presupposto interpretativo

secondo cui, per far ricorso all’ipotesi prevista dalla lettera c) della norma, occorre necessariamente

la previa dichiarazione dello stato di abbandono del minore e quindi la declaratoria formale di

adottabilità, nonché il vano tentativo del predetto affidamento. In realtà, l’art. 44 è tutto retto dalla

“assenza delle condizioni” previste dal primo comma del precedente art. 7 della medesima legge n.

184: pertanto, gli stessi principî relativi alle prime due ipotesi dell’art. 44 valgono anche per le

fattispecie ricadenti sotto la lettera c).

Sarebbe invero assurdo pensare, come fanno i giudici a quibus che dalla disciplina impugnata

discenda l’impossibilità di far luogo all’adozione in casi particolari da parte di parenti che già si

prendono cura del minore. Ma l’interpretazione logica e sistematica della lettera c) del citato art. 44

della legge n. 184 non conduce a tale conclusione.

Infatti, qualora vi siano parenti entro il quarto grado, i quali prestino al minore l’assistenza

materiale e morale che i genitori non sono più in grado di offrire, la legge, in mancanza del

presupposto dell’abbandono, non esige la dichiarazione dello stato di adottabilità (artt. 8 e 11 della

legge n. 184 del 1983): si realizza, così, uno dei casi in cui – esistendo già un nucleo con vincoli di

parentela disposto ad accogliere stabilmente il minore per fornirgli l’ambiente adatto alla sua

crescita – non è necessario tentare di trovarne altri, né si deve formalmente constatare

l’impossibilità di un affidamento diverso da quello già in atto.

Una ulteriore conferma della adottabilità dei minori in tutti i casi rientranti nelle tre lettere

dell’art. 44, anche quando non sono stati o non possono essere formalmente dichiarati adottabili, si

trae dal disposto del primo comma del precedente art. 11, il quale stabilisce che quando “risultano

deceduti i genitori del minore e non risultano esistenti parenti entro il quarto grado, il tribunale per i

minorenni provvede a dichiarare lo stato di adottabilità, salvo che esistano istanze di adozione ai

sensi dell’art. 44”. È evidente allora che, nelle ipotesi considerate, il legislatore ha voluto favorire il

consolidamento dei rapporti tra il minore ed i parenti o le persone che già si prendono cura di lui,

prevedendo la possibilità di un’adozione, sia pure con effetti più limitati rispetto a quella

“legittimante”, ma con presupposti necessariamente meno rigorosi di quest’ultima. Ciò è

pienamente conforme al principio ispiratore di tutta la disciplina in esame: l’effettiva realizzazione

degli interessi del minore.

L’art. 44, lettera c), non esige, dunque, che sia concretamente tentato l’affidamento preadottivo e

ne sia constatata l’impossibilità quando il minore venga richiesto in adozione da parenti entro il

quarto grado idonei a fornirgli l’assistenza materiale e morale di cui ha bisogno.

8.2.6. L’accertamento giudiziale dell’idoneità degli adottanti

Manifestamente infondata viene ritenuta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22

della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui non prevede che l’inidoneità degli aspiranti

all’adozione nazionale che non siano in possesso dei requisiti di cui all’art. 6 della stessa legge

venga dichiarata con un espresso provvedimento del giudice minorile, ritenendo che tale omessa

previsione violi gli artt. 24, primo e secondo comma, e 111, primo comma, della Costituzione

(ordinanza n. 192 del 2001).

Il giudice a quo osserva che, mentre nella disciplina dell’adozione internazionale la legge

prevede, in esito agli accertamenti compiuti dal tribunale, l’emissione di un provvedimento col

quale la coppia che aspira all’adozione viene dichiarata o meno idonea, un analogo provvedimento

non è previsto nella procedura di adozione nazionale e che tale omissione lederebbe il diritto degli

interessati ad agire e difendersi in giudizio secondo le norme del giusto processo;

Per la Corte, l’equiparazione della adozione nazionale a quella internazionale, da cui prende le

mosse il giudice rimettente, appare erronea poiché, pur essendo i due istituti connotati da principî

comuni, le relative procedure sono differenziate, dal momento che “solo nella prima il collegamento

tra coniugi adottanti e minore da adottare è tale da consentire l’immediata valutazione, da parte del

tribunale per i minorenni, dell’idoneità di quei coniugi ad offrire la famiglia di accoglienza adatta al

minore per il quale si pronuncia, dopo il periodo di affidamento, il provvedimento di adozione”

(sentenza n. 10 del 1998); occorre ulteriormente considerare che la Corte ha già affermato (sentenza

n. 281 del 1994) che “l’aspirazione dei singoli ad adottare non può ricomprendersi tra i diritti

inviolabili dell’uomo”.

L’adozione dei minorenni, “pur traendo origine da un atto di autonomia degli adottanti, non si

perfeziona con la mera domanda dei medesimi” ma solo col provvedimento giudiziario – dal quale

discendono le conseguenze giuridiche volute dalla legge – rispetto al cui contenuto il rilievo

attribuito alla volontà degli istanti è subordinato “alla preminente considerazione dell’interesse del

minore” (sentenza n. 197 del 1986); nella adozione nazionale l’idoneità della coppia adottante deve

riferirsi specificatamente al singolo minore adottabile, in modo da consentire un suo inserimento

mirato sulla base delle potenzialità di quella specifica coppia, per cui nessuna utilità potrebbe avere

un provvedimento che valutasse in astratto tale idoneità.

Nella fase relativa all’accertamento dei requisiti della coppia che aspira all’adozione non

vengono quindi per nulla in rilievo posizioni di diritto soggettivo di parti fra loro contrapposte,

trattandosi di accertamenti preliminari e propedeutici al successivo, eventuale, provvedimento di

affidamento preadottivo, da assumere nello specifico interesse di un minore.

8.2.7. Il consenso all’adozione del legale rappresentante del minore

L’art. 45, comma 2, della legge n. 184 del 1983, prevede che nell’adozione in casi particolari il

consenso all’adozione sia prestato dal legale rappresentante. Il problema che viene posto alla Corte

riguarda il condizionamento di tale assenso al prevalente interesse del minore.

L’esame della Corte, sorretto da un’ampia motivazione, si conclude con la declaratoria di

incostituzionalità degli artt. 45, secondo comma, e 56, secondo comma, della legge 4 maggio 1983,

n. 184, nella parte in cui è previsto il consenso anziché l’audizione del legale rappresentante del

minore (sentenza n. 182 del 1988). La Corte ricorda di aver già indicato funzione e limite della

volontà privata nel procedimento adozionale: “l’adozione, invero, pur traendo origine da un atto di

autonomia degli adottanti, non si perfeziona con la mera domanda dei medesimi, bensì solo con un

provvedimento giudiziario rispetto al cui contenuto il rilievo attribuito alla volontà degli istanti

soggiace alla preminente considerazione dell’interesse del minore”.

È dunque alla luce di questo unitario e unico principio informatore della legge n. 184 del 1983 –

l’esclusivo interesse del minore valutato dal giudice – che deve essere esaminato il regime dei

consensi contenuto nelle norme impugnate.

L’art. 45 della legge n. 184 del 1983, pur riproducendo la formulazione dell’art. 296 del codice

civile, non suffraga più la precedente costruzione dottrinale, condivisa anche dalla giurisprudenza,

di atto complesso negoziale e giudiziale. Se si dà il dovuto rilievo al potere discrezionale del

giudice di far seguire o meno la pronuncia dell’adozione dopo che i consensi gli sono stati

manifestati, in base alla valutazione dell’esclusivo interesse del minore, non si può non riconoscere

nel consenso dell’adottante e dell’adottando un dato del procedimento, equivalente a due

concorrenti domande della pronuncia dell’autorità giudiziaria, ormai privo di ogni residuo carattere

negoziale.

Se è immediatamente intuibile che in assenza di uno di questi consensi il procedimento non può

neppure incardinarsi, non altrettanto può dirsi per il consenso richiesto al legale rappresentante

qualora l’adottando non abbia compiuto il quattordicesimo anno. Legale rappresentante nella ipotesi

di cui alle lettere a) e c) dell’art. 44 della legge n. 184 del 1983 è il tutore già nominato dal giudice

tutelare a seguito dell’apertura della tutela ex art. 346 del codice civile o quello nominato dal

Tribunale per i minorenni ex art. 19, secondo comma, della legge n. 184. Nell’ipotesi sub b) del

citato art. 44, legale rappresentante è il coniuge di chi richiede l’adozione, nonché l’altro genitore se

esistente.

Il consenso del legale rappresentante non è considerato dal legislatore come integralmente

equivalente a quello dell’adottando, tanto che, ex art. 45, terzo comma, qualora costui abbia

compiuto i dodici anni deve essere personalmente sentito, e se ha un’età inferiore può, se

opportuno, essere sentito.

Siffatta modalità procedimentale, intesa a rendere il giudice il più possibile edotto e consapevole

del reale interesse del minore, attraverso quell’esperimento decisivo che è l’audizione del diretto

interessato, postula la non necessaria coincidenza della manifestazione di volontà del tutore con la

volontà del minore, e più in generale di ogni altro legale rappresentante con quella del minore. È,

pertanto, impropria la costruzione di una fictio iuris per la quale la manifestazione di volontà del

tutore sostanzia ed esprime la volontà del minore. Essa è invece volontà propria e personale del

tutore, che prescinde da quella del minore, ed ha come suo contenuto e fine l’adempimento delle

funzioni di cui all’art. 357 del codice civile, cioè la cura della persona del minore, la sua

rappresentanza in tutti gli atti civili, l’amministrazione dei suoi beni. Il consenso del legale

rappresentante di cui all’art. 45, secondo comma, della legge n. 184 del 1983, non solo non ha

carattere negoziale al pari dei consensi dell’adottante e dell’adottando, di cui al comma precedente

dello stesso art. 45, ma non è a quelli assimilabile, perché non è identificabile con la volontà

dell’adottando. La fictio iuris – per cui “la volontà del tutore è considerata, dal punto di vista

giuridico, come volontà del minore stesso”, che il giudice a quo denuncia come ostacolo al

perseguimento del reale interesse del minore – non ha alcun fondamento né storico né dogmatico e

non corrisponde al regime funzionalistico che l’ordinamento assegna all’istituto della tutela. Il

consenso del legale rappresentante si legittima e si motiva nell’ambito della funzione di protezione

degli interessi del minore e pertanto esso è subordinato alla valutazione ultima e decisiva che di

quegli interessi è chiamato a dare il giudice.

Il non avere il legislatore preveduto, nel rapporto tra legale rappresentante del minore e giudice

dell’adozione, la dissimmetria tra consenso prestato, che lascia libero il giudice di pronunciare o

rifiutare l’adozione, e consenso negato, che vincola il giudice a non pronunciare l’adozione, vizia la

norma di irrazionalità, con vulnus dei principî di eguaglianza e di ragionevolezza contenuti nell’art.

3 della Costituzione.

Il consenso del legale rappresentante è dunque più prossimo alla espressione di un parere che ad

una manifestazione di volontà ed è dogmaticamente definibile – data la connotazione pubblicistica

del procedimento di adozione – come un parere obbligatorio non vincolante. Che ad esso non si

accompagni un esplicito onere di motivazione non esclude che possa esserne sindacata la

giustificatezza, qualora sia rifiutato. L’analisi sinora svolta conduce altresì a rilevare la stretta

analogia del consenso del legale rappresentante con l’assenso dei genitori e del coniuge

dell’adottando, il cui rifiuto ex art. 46, secondo comma, della legge n. 184 del 1983, qualora il

tribunale lo ritenga ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando, non impedisce che

l’adozione, sentiti gli interessati, su istanza dell’adottante, sia egualmente pronunziata. Lo stesso

art. 46 sancisce la imprescindibilità solo degli assensi dei genitori esercenti la potestà e del coniuge

convivente, che se rifiutati risultano insindacabili ed impediscono la pronuncia dell’adozione.

Siffatto limite alla valutazione da parte del giudice dell’interesse dell’adottando ha una

giustificazione in valori costituzionalmente garantiti, quali quello della conservazione della

compagine familiare e della società coniugale effettivamente vissute, cui agli artt, 29 e 30 della

Costituzione, che prevalgono anche in presenza degli opposti consensi manifestati dall’adottante e

dall’adottando. L’interesse dell’adottando si deve intendere qui considerato in via definitiva dai

genitori o dal coniuge, i quali dalla richiesta di adozione da parte di un determinato adottante o dalla

richiesta di aggiunzione di un qualunque rapporto adottivo al vincolo originario di filiazione o a

quello di coniugio, l’uno e l’altro attualmente ed effettivamente convissuti, possono ritenere di

ricevere pregiudizio o presumere di soffrire turbamento o semplicemente interferenza non gradita

nella propria vita di relazione con il minore figlio o consorte.

Nell’ambito del diritto familiare, viene ricordato l’art. 250, quarto comma, del codice civile, che

in tema di riconoscimento di figlio naturale dispone che “Il consenso [scil. del genitore che abbia

già effettuato il riconoscimento] non può essere rifiutato ove il riconoscimento risponda

all’interesse del figlio”.

Anche nel contesto della legge n. 184 del 1983, nell’art. 79, sesto comma, si rinviene la regola

della superabilità da parte del giudice del rifiuto dell’assenso dei genitori degli adottati o affiliati,

che siano figli legittimi o riconosciuti. I dati richiamati valgono a rivelare l’esistenza di un principio

generale nell’ordinamento civilistico, secondo il quale l’atto di autonomia privata del soggetto

adulto, chiamato a consentire al riconoscimento del figlio o ad assentire alla adozione legittimante,

è subordinato all’interesse preminente del minore, fino al punto che il suo mancato esercizio è

sostituito da una pronuncia giudiziale.

Pertanto è sufficiente che il giudice dell’adozione proceda all’audizione del rappresentante e a

quella del rappresentato, quando quest’ultima sia richiesta dalla legge o quando sia opportuna,

senza spogliarsi del suo potere di ultima valutazione dell’interesse esclusivo del minore ai fini del

decidere sulla pronuncia dell’adozione, dopo avere esaurito gli adempimenti di cui all’art. 57.

8.2.8. L’opposizione al decreto di adozione da parte del genitore naturale

Varie questioni di legittimità costituzionale, implicanti la tutela del diritto di difesa, riguardano il

procedimento attraverso il quale si perviene alla dichiarazione dello stato di adottabilità. Tra queste,

si segnala la sentenza n. 401 del 1999, che dichiara infondata la questione di legittimità

costituzionale dell’art. 56, quarto comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, in relazione all’art.

313 del codice civile, nella parte in cui non contempla anche il genitore dell’adottando tra i soggetti

legittimati ad impugnare il decreto di adozione in casi particolari.

Secondo la Corte, una lettura adeguatrice della norma in esame impone di includere i genitori del

minore tra i soggetti legittimati all’impugnazione e di pervenire quindi ad una interpretazione

conforme a Costituzione.

Negare la loro legittimazione a proporre reclamo contrasterebbe con la tutela costituzionale del

diritto di azione, spettante a soggetti che in quanto esercenti la potestà genitoriale non possono non

essere contraddittori necessari nel procedimento di adozione in casi particolari.

A tal fine, è opportuno sottolineare che l’art. 313 cod. civ., benché modificato proprio dalla legge

n. 184 del 1983, è comunque una norma dettata espressamente per l’adozione di maggiorenni ed è

quindi destinata ad operare in relazione ad un procedimento nel quale l’adottando ha piena capacità

processuale, in quanto dispone del libero esercizio dei diritti che si fanno valere nel detto giudizio;

la mancata indicazione dei genitori dell’adottando tra i soggetti legittimati all’impugnazione si

spiega quindi agevolmente proprio in base alla considerazione che l’adozione disciplinata dal

codice civile riguarda esclusivamente soggetti maggiori di età, ai quali pertanto è riconosciuto un

autonomo potere di impugnazione. La diversa natura dell’adozione in casi particolari determina

invece la necessità di adattare la previsione stessa alle caratteristiche di tale procedimento; questo

infatti concerne i minori, i quali, essendo privi della capacità di agire, non possono stare in giudizio

se non rappresentati dai genitori che esercitano la potestà ovvero dal tutore.

È allora evidente che se nell’adozione di maggiorenni la legittimazione al reclamo spetta

all’adottando, in quanto provvisto di piena e autonoma capacità processuale, nell’adozione in casi

particolari il soggetto legittimato al reclamo deve intendersi non già l’adottando, perché minore,

bensì chi eserciti la potestà genitoriale.

Né appare utile al riguardo la distinzione tra l’esercizio dell’azione iure proprio e quella in

nomine minoris. Il fondamento della rappresentanza legale risiede nella assoluta incapacità del

minore di esercitare i propri diritti, sì che la cura degli interessi di quest’ultimo è in toto affidata ai

genitori, ovvero al tutore; essi tuttavia non si limitano ad esprimere e rappresentare la volontà di un

soggetto incapace, bensì esercitano la potestà genitoriale in base ad una propria valutazione circa

l’utilità e la convenienza per il minore dell’atto o del negozio da compiere. Mentre nella

rappresentanza volontaria il rappresentato conferisce ad un terzo il potere di spendere il proprio

nome, delimitandone le facoltà, in quella legale è invece il legislatore a conferire tale potere-dovere,

senza alcuna limitazione che non sia il perseguimento dell’interesse stesso del minore.

L’art. 57, numero 2), della legge in oggetto impone espressamente al tribunale di verificare “se

l’adozione realizza il preminente interesse del minore” ed è opportuno sottolineare che tale finalità

può raggiungersi solo attraverso un procedimento che sia esente da vizi sia di merito che di natura

formale o processuale; pertanto, il genitore che proponga reclamo può dedurre qualunque motivo a

sostegno dell’impugnazione, dal momento che ogni vizio del procedimento può costituire un

ostacolo alla realizzazione dell’interesse del minore, nell’ambito del quale interesse deve

comprendersi anzitutto quello diretto ad ottenere che la pronuncia sia emanata a seguito di un

corretto svolgimento del giudizio. L’impugnazione con la quale si lamenti l’ingiustizia sostanziale

del provvedimento e quella con la quale si deduca un error in procedendo non possono mai dirsi

estranee all’interesse del minore.

Per quanto sin qui affermato si conclude che nel procedimento di adozione in casi particolari la

legittimazione all’impugnazione spetta ai genitori dell’adottando, purché non decaduti dall’esercizio

della potestà, per far valere qualunque vizio del procedimento che possa essere ostativo alla

concreta ed effettiva realizzazione dell’interesse del minore.

8.3. I presupposti per l’adozione

L’adozione dei minori, in ragione della valenza del presupposto dello stato di abbandono ed in

conseguenza del venir meno dei rapporti con la famiglia di origine ha posto diversi problemi

interpretativi, che hanno dato luogo a varie questioni di costituzionalità.

Una questione ha riguardato lo stato di abbandono e la forza maggiore (sentenza n. 76 del

1974), laddove si è censurato l’art. 314/4 del codice civile in esame, sul rilievo che la situazione di

bisogno del minore abbandonato per comportamento comunque imputabile a coloro che sarebbero

tenuti a prestargli assistenza non si differenzierebbe, nella sostanza, da quella del minore

abbandonato invece per causa di forza maggiore, e sulla affermazione consequenziale che

l’esclusione, in quest’ultima ipotesi, della applicabilità dell’istituto della adozione speciale

concreterebbe una discriminazione ingiustificata a danno di una categoria di minori abbandonati,

priva, anche essa, di quell’assistenza materiale e morale che l’istituto in parola tenderebbe invece a

garantire in ogni caso.

La Corte osserva che la situazione del minore abbandonato, in relazione alla applicazione

dell’istituto della adozione speciale, non può essere considerata indipendentemente da quello che è

lo stato dei suoi rapporti con la famiglia di origine, dato che la legge 5 giugno 1967, n. 431,

introduttiva dell’istituto dell’adozione speciale, se è certamente informata all’esigenza di sovvenire

alle necessità dei minori abbandonati, ha altresì stabilito, proprio a garanzia della continuità del

vincolo istituendo con la famiglia di adozione, una sostanziale cautela prima di sostituire

definitivamente al nucleo familiare di origine, inefficiente, quello della famiglia adottiva. Dispone

infatti l’art. 314/26 cod. civ. (inserito con la citata legge n. 431 del 1967): “con la adozione speciale

cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali e le norme

penali fondati sul rapporto di parentela”. La presenza di questa grave conseguenza entra

indubbiamente quale elemento essenziale nella valutazione della situazione del minore, ai fini della

disciplina dell’adozione speciale, nel senso che non può, ovviamente, venire in considerazione

soltanto la di lui necessità di assistenza, ma deve tenersi anche conto dell’esigenza, di evidente

contenuto umano e sociale, di conservare sino al limite i legami naturali con la famiglia di origine.

Non risponde pertanto ad una necessità costante che, nel conflitto, gli interessi del minore

debbano prevalere in modo assorbente su quelli della famiglia di origine.

Elemento determinante, ai fini della prevalenza fra l’esigenza di intervenire a favore del minore

da una parte, e quella di salvaguardare i diritti della predetta famiglia, dall’altra, è stato

razionalmente identificato, dal legislatore, nella esistenza di constatati motivi di forza maggiore alla

base del comportamento omissivo. Motivi di tal natura, invero, che escludono la riferibilità

dell’abbandono alla volontà degli obbligati, conferirebbero al previsto distacco definitivo, secondo

la valutazione politico-sociale del legislatore, il carattere di un rigorismo eccessivo, come tale da

respingere.

Tutto quanto premesso conduce a negare che possano considerarsi indiscriminatamente la

situazione del minore abbandonato per forza maggiore e gli altri casi di abbandono volontario, e

quindi ad escludere la pretesa omogeneità delle rispettive situazioni.

Parimenti non fondata è la questione sollevata in relazione al preteso contrasto della norma

impugnata con l’art. 30, comma secondo, Cost., secondo cui nei casi di incapacità dei genitori, la

legge provvede a che siano assolti i loro compiti. Ed invero, come affermato con la sentenza n. 158

del 1971, “la norma invocata non impone una disciplina unica ed unitaria in ordine ai doveri dei

genitori verso i figli ed in ordine al caso della mancata osservanza degli stessi. È ben possibile,

infatti, che sia pure rivolti a finalità concorrenti o comuni, coesistano istituti distinti, quali

l’affidamento e l’affiliazione, le due forme di adozione e le norme circa l’assistenza pubblica alla

infanzia abbandonata, ecc. e che la complessiva disciplina sia variamente articolata; e che nel

campo specifico della adozione speciale, questa sia consentita alle condizioni ed entro i limiti

risultanti dalle scelte discrezionali che il legislatore abbia posto in essere in modo adeguato e

razionale”.

Sempre con riguardo allo stato di abbandono, incentrata sull’esclusivo interesse del minore si

rivela la sentenza n. 234 del 1975, laddove la Corte non ritiene che le norme, di cui agli artt. 314/4,

314/8 e 314/11, le quali consentono che sia dato corso alla adozione speciale dei figli legittimi,

nonostante l’opposizione dei genitori, siano in contrasto con le disposizioni costituzionali di

raffronto.

Per la Corte, pur dovendosi riconoscere che la situazione di abbandono materiale e morale di

minori di anni otto, più facilmente si verifica nell’ambito delle famiglie meno abbienti, non si può

tuttavia non tener presente che detta situazione, nella previsione normativa e nella sua pratica

verificazione, non è necessariamente collegata alla condizione economica familiare e può non

sussistere anche se i genitori non siano in grado di mantenere i figli (arg. ex art. 314/4, comma

secondo).

Non si presta, perciò, ad essere condivisa l’affermazione secondo cui “la legge colpisce

unicamente le classi povere, accentuando rispetto ai genitori, le diseguaglianze determinate da

situazioni di ordine economico, anziché contribuire a rimuoverle”.

La Corte, con un dispositivo di manifesta inammissibilità (ordinanza n. 97 del 1990), decide un

giudizio avente ad oggetto l’art. 8 della legge n. 184 del 1983, il quale prevede che la situazione di

abbandono sussiste anche quando i minori si trovino in affidamento familiare, la cui finalità

consiste nell’ovviare ad una esigenza del minore temporaneamente privo di un ambiente familiare

idoneo e di favorirne il reinserimento nella famiglia di origine. Traendo spunto dal dettato di legge,

la Corte viene investita della questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 2, 3,

secondo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, dell’art. 8, secondo comma, nella parte

in cui, ai fini della dichiarazione di adottabilità del minore, fa consistere la situazione di abbandono

nel fatto che il minore sia privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti

tenuti a provvedervi, senza prevedere che il giudice possa valutare singole situazioni diverse da

quella tipizzata dal legislatore, come nel caso di specie del minore in stato di affidamento familiare.

Replica la Corte che la ratio dell’affidamento familiare risiede nell’assicurare al minore un

ambito affettivo ed un’adeguata assistenza in una fase necessariamente transitoria, perché

finalizzata al reinserimento nella famiglia d’origine ovvero all’acquisizione dello status di figlio

adottivo; in quest’ultima prospettiva, l’istituto in esame postula situazione di abbandono

configurabile anche soltanto in una riduzione sensibile e non temporanea di cure morali e materiali.

Con la legge 4 maggio 1983, n. 184, il legislatore ha ispirato le sue scelte al valore costituzionale

della famiglia naturale come unico luogo di formazione primario della personalità del minore,

surrogabile soltanto con la famiglia adottiva, ed escludendo pertanto qualsiasi tertium genus privo

dei caratteri della stabilità e definitività; quindi, solo al legislatore spetta un intervento qual è quello

auspicato dal giudice a quo; comunque, l’art. 4 consente di modellare tempi e modi dell’istituto in

ragione delle situazioni concrete, ove il mantenimento di uno stato precario possa contingentemente

apparire come la migliore soluzione per il minore.

La Corte, nella sentenza n. 199 del 1986, si fa carico, nell’ambito di una più ampia tutela dei

valori espressi dall’art. 2 della Costituzione, di estendere la protezione assicurata dall’adozione

legittimante anche al minore straniero in stato di abbandono in Italia per il tempo precedente

l’entrata in vigore della legge n. 183 del 1983. Viene così dichiarata la illegittimità costituzionale

dell’art. 76 della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui esclude che la nuova normativa

sulla disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori in genere e gli artt. 29 e 37 in

particolare possano applicarsi alle procedure relative all’adozione di minori stranieri “in corso” al

momento dell’entrata in vigore della legge stessa.

Per la Corte, si verifica qui un vulnus innanzi tutto dei valori costituzionali di cui all’art. 2 Cost.,

che non può non essere implicitamente richiamato come norma di garanzia dei diritti umani

operante anche nei confronti dello straniero. Una lettura dell’art. 5 della legge n. 431 del 1967,

norma sull’acquisto della cittadinanza da parte del minore straniero per adozione legittimante,

adeguata ai valori dell’art. 2 Cost., conduce a qualificare il minore infraottenne straniero in stato di

abbandono in Italia cittadino potenziale cui la protezione assicurata con le procedure conducenti

all’adozione legittimante preannuncia lo status civitatis.

In tale prospettiva doveri inderogabili di solidarietà richiamati dallo stesso art. 2 Cost. appaiono

essere quelli dell’autorità deputata dalle leggi ordinarie a dare effettiva tutela ed esercizio ai diritti

umani, tra cui, nella specie dell’abbandonato, il diritto alla famiglia degli affetti in mancanza di

quella del sangue. Il che conduce al collegamento con la previsione generale dell’art. 2 di quella

specifica di cui all’art. 30, secondo comma, della Costituzione. Impedito dall’art. 76 della legge 4

maggio 1983, n. 184 il dispiegarsi di un munus di tale rilevanza costituzionale da parte dell’autorità

giudiziaria italiana, si viene a determinare la violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3

Cost., limitandosi il favor minoris, cui entrambe le leggi si ispirano, solo al minore italiano e non

anche allo straniero in stato di abbandono in Italia, per il tempo precedente l’entrata in vigore della

legge recenziore.

Così come innanzi prospettata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76 della legge n.

184 del 1983 risulta dunque fondata. Limitatamente all’art. 37, la scelta del legislatore per la

irretroattività appare incongrua e non coordinata con il fine del favor minoris cui pure essa è in ogni

sua parte ispirata. Da tale scelta di generale irretroattività espressa nell’art. 76 viene escluso l’art. 37

proprio per restituire razionalità all’intero corpus normativo di entrambe le leggi 431/67 e 184/83.

8.4. Adozione ed ambiente familiare degli adottanti

La Corte non condivide, nella sentenza n. 361 del 1985, il dubbio di costituzionalità avverso

l’art. 6 della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui, stabilendo i requisiti dei coniugi che

intendono adottare un minore, prevede che la valutazione della loro idoneità si debba riferire alle

attitudini e risorse degli stessi e non all’intero ambiente familiare (nella specie, si evidenziava la

presenza di un bambino sieropositivo nella famiglia).

Replica la Corte che la disciplina complessiva dell’adozione delineata dalla legge n. 184 del

1983 ha, come essenziale e dominante obiettivo, l’interesse dei minori ad un ambiente familiare

stabile ed armonioso, nel quale essi possano crescere sviluppando la loro personalità in un sano ed

equilibrato contesto di vita, affettivo ed educativo. L’adozione implica di necessità il pieno

inserimento del minore nella comunità familiare adottiva (sentenza n. 89 del 1993) e presuppone la

valutazione dell’idoneità dei genitori adottivi, non nella loro isolata individualità, ma nel contesto

della famiglia di definitiva accoglienza, nella quale l’adottato è chiamato ad integrarsi pienamente.

Le condizioni di vita e di salute nella comunità familiare concorrono, quindi, ad offrire al prudente

apprezzamento del giudice elementi di valutazione dell’idoneità dei coniugi, che nella stessa

comunità hanno naturale responsabilità ad educare, istruire e mantenere i figli anche adottivi, ai

quali deve essere garantito un ambiente che prevedibilmente assicuri loro, in un contesto familiare,

quella crescita sana e quello sviluppo armonioso, che costituiscono ragione e finalità dell’adozione

dei minori. Del resto, l’attitudine ad educare, la situazione personale ed economica, la salute e

l’ambiente familiare sono, tutti, aspetti che concorrono ad offrire elementi di valutazione

dell’idoneità degli adottanti (art. 22 della legge n. 184 del 1983) e che non sono ristretti alla sola

adozione nazionale.

Questi principî sono del tutto coerenti con quelli espressi dalle convenzioni internazionali dirette

a proteggere in modo specifico i minori, le quali ammettono e disciplinano l’adozione

esclusivamente nell’interesse superiore del fanciullo. Così, nel decidere sull’adozione, è previsto

che si tenga conto, oltre che della personalità, della salute e della situazione economica

dell’adottante, anche della vita della sua famiglia e della situazione del suo ambiente familiare (art.

9 della Convenzione europea in materia di adozione dei minori, firmata a Strasburgo il 24 aprile

1967, ratificata e resa esecutiva con la legge 22 maggio 1974, n. 357).

Non è dunque escluso dal complesso delle valutazioni rimesse al giudice, che deve decidere

dell’idoneità dei coniugi adottanti, l’apprezzamento in concreto, sulla base di tutti gli elementi di

fatto ritenuti utili per il giudizio, della loro attitudine ad educare ed istruire i minori tenendo conto

dell’intero ambiente familiare, senza che sia in astratto di ostacolo preclusivo, ma neppure in

principio indifferente, l’infermità di componenti della comunità familiare nella quale il minore

adottando sia chiamato a vivere e ad integrarsi, dovendo ogni situazione essere prudentemente

valutata dal giudice nel preminente interesse dell’adottando, anche quando questi, come

nell’adozione internazionale, non sia ancora individuato.

Questa interpretazione, coerente con le enunciazioni delle convenzioni internazionali che, rese

esecutive, concorrono a configurare il nostro ordinamento normativo, è adeguata ai principî

costituzionali indicati dal giudice rimettente e consente di ritenere non fondata la questione di

legittimità costituzionale.

8.4.1. Adozione e famiglia di fatto

Nella sentenza n. 281 del 1994, non viene condiviso il dubbio di costituzionalità dell’art. 6,

primo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui dispone che ai fini dell’idoneità

ad adottare gli aspiranti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni. A parere del giudice a quo, si

ravviserebbe un contrasto con l’art. 2 della Costituzione, per violazione della tutela che deve

riconoscersi alla famiglia di fatto come formazione sociale, e con l’art. 3, per disparità di

trattamento e irragionevolezza, posto che la tenuta di coppia dei coniugi da poco tempo sposati, ma

conviventi da dieci anni, appare superiore a quella offerta da coniugi uniti in matrimonio da un

triennio.

Secondo la Corte, non si può invero ravvisare la violazione dell’art. 2 della Costituzione, atteso

che, da un lato, l’aspirazione dei singoli ad adottare non può ricomprendersi tra i diritti inviolabili

dell’uomo, e, dall’altro, che anche qualificando la famiglia di fatto come formazione sociale, non

per questo deriverebbe che alla stessa sia riconosciuto il diritto all’adozione, come previsto per la

famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 della Costituzione).

La questione risulta invece inammissibile in ordine alla denunziata violazione dell’art. 3 della

Costituzione. Al riguardo il giudice a quo rileva che, se “lo scopo della norma è quello di poter fare

affidamento su potenziali genitori forti di un rapporto di coppia già sperimentato come stabile”, la

tenuta della coppia sposata da poco tempo, ma garantita da un lungo periodo precedente di

convivenza potrebbe risultare “superiore a quella offerta da coniugi uniti in matrimonio da più di

tre, cinque o sette anni”. Di qui la doglianza di discriminazione irragionevole.

In proposito, la Corte non ignora, per un verso, il sempre maggiore rilievo che, nel mutamento

del costume sociale, sta acquistando la convivenza more uxorio, alla quale sono state collegate

alcune conseguenze giuridiche. Né può per altro verso negarsi validità alla suggestiva

considerazione che, proprio ai fini della tutela dell’interesse del minore, la solidità di una vita

matrimoniale potrebbe risultare, oltre che da una convivenza successiva alle nozze protratta per

alcuni anni, anche da un più lungo periodo, anteriore alle nozze, caratterizzato da una stabile e

completa comunione materiale e spirituale di vita della coppia stessa, che assuma poi col

matrimonio forza vincolante.

Pertanto, fermo restando questo primo e indeclinabile presupposto matrimoniale (con i diritti e

doveri che ne conseguono), la scelta potrebbe, eventualmente, cadere anche su coniugi sposati da

meno di tre anni, ma con una consistente convivenza more uxorio precedente alle nozze.

Tuttavia, affinché l’esercizio di questo potere di scelta sia garantito da una certa uniformità di

ponderato comportamento su tutto il territorio nazionale, tale da evitare, nella delicata materia de

qua, possibili disparità di trattamento tra adottandi o tra coniugi, occorrerebbe definire alcuni criteri

oggettivi, svolgenti l’analoga funzione sopra ricordata del triennio di convivenza matrimoniale, in

ordine – ad esempio – alla durata ed alle caratteristiche del rapporto, soprattutto affinché la

convivenza non sia meramente occasionale, ma prodromica alla creazione di un “ambiente familiare

stabile e armonioso” (sentenza n. 184 del 1994).

Ma ciò appartiene alla competenza del legislatore, cui spetta operare scelte così complesse

attraverso una interpretazione combinata di diversi elementi e valori di una società in continua

evoluzione.

8.4.2. L’adozione del single

Il tema dell’adozione da parte di persone singole evoca delicati equilibri tra la tutela

costituzionale della famiglia, il superiore interesse del minore a crescere in una dimensione che

consenta il sano sviluppo della propria personalità, il discusso diritto a divenire genitori.

Al riguardo, va segnalata la sentenza n. 183 del 1994, che dichiara non fondata la questione di

legittimità costituzionale dell’art. 6 della Convenzione europea in materia di adozioni di minori,

firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967 e ratificata dall’Italia con legge 22 maggio 1974, n. 357,

“nella parte in cui permette senza limiti l’adozione di un minore da un solo adottante”. Più

esattamente, deve intendersi impugnata in parte qua la disposizione della citata legge di ratifica che

ha conferito efficacia nell’ordinamento interno all’art. 6 della Convenzione.

Ad avviso del giudice rimettente, la norma denunciata, in quanto “esclude ogni limite a che

l’adozione avvenga anche da parte di un singolo adottante”, è ritenuta contrastante con gli artt. 3, 29

e 30 Cost., alla stregua dei quali l’adozione legittimante, giusta il criterio dell’imitatio naturae, deve

essere “ispirata all’intento di dare una famiglia al minore che ne è privo, garantendogli tranquillità,

benessere e sana educazione”. Questo criterio esige che, di regola, “ad adottare sia una coppia di

coniugi avente una comunanza continuativa di vita e adeguate capacità educative”.

Premette la Corte che l’art. 6 della convenzione non è stato abrogato, né in tutto né in parte, dalla

legge n. 184 del 1983, ma la norma pattizia non conferisce immediatamente ai giudici italiani

competenti il potere di concedere l’adozione di minori a persone singole fuori dai limiti entro cui

tale potere è attribuito dalla legge nazionale, e nemmeno può essere interpretata nel senso di

vincolare il legislatore italiano ad ammettere senza limiti l’adozione del singolo.

Destinatari immediati della norma contenuta nell’art. 6 sono i legislatori nazionali: “la

legislazione non può permettere l’adozione di un minore che da parte di due persone unite in

matrimonio, sia simultaneamente sia successivamente, o da parte di un solo adottante”. Agli Stati

firmatari è impartito il divieto di permettere l’adozione di minori da parte di coppie non sposate e

insieme attribuita la facoltà di permettere l’adozione di minori, oltre che da coppie sposate, anche

da persone singole, coniugate o no.

L’interpretazione letterale, che ravvisa nell’art. 6 un solo principio vincolante per gli Stati

aderenti, cioè l’interdizione dell’adozione da parte di coppie non sposate, risponde al criterio

ermeneutico desumibile dal rapport explicatif del Consiglio d’Europa, il quale chiarisce che non si

tratta di una convenzione di diritto uniforme, bensì di “una convenzione contenente un minimo di

principî essenziali cui ciascuna Parte contraente darà effetto” (punto 4), e trova esplicita conferma

nel commento all’art. 6, dove si precisa che il paragrafo 1 non rende obbligatoria l’introduzione

dell’adozione da parte di una persona sola (punto 23).

In quanto attribuisce al legislatore nazionale una semplice facoltà, la norma in esame non è, per

definizione, autoapplicativa, ossia direttamente applicabile nei rapporti intersoggettivi privati,

occorrendo a tale effetto l’interposizione di una legge interna che determini i presupposti di

ammissione e gli effetti dell’adozione da parte di una persona singola. Di tale facoltà la legge n. 184

del 1983 si è avvalsa entro limiti ristretti, ammettendo l’adozione soltanto in speciali circostanze

(art. 25, quarto e quinto comma) o “in casi particolari” (art. 44), e in questi ultimi senza gli effetti

dell’adozione piena. La norma convenzionale rimane in vigore come norma che autorizza il

legislatore, se lo riterrà opportuno, ad ampliare l’ambito di ammissibilità dell’adozione di un minore

da parte di un solo adottante, qualificandola in ogni caso con gli effetti dell’adozione legittimante.

I principî costituzionali richiamati nell’ordinanza di rimessione non vincolano l’adozione dei

minori al criterio dell’imitatio naturae in guisa da non consentire l’adozione da parte di un singolo

se non nei casi eccezionali in cui è oggi prevista dalla legge n. 184 del 1983. Essi esprimono una

indicazione di preferenza per l’adozione da parte di una coppia di coniugi, essendo prioritaria

l’esigenza, da un lato, di inserire il minore in una famiglia che dia sufficienti garanzie di stabilità, e

dall’altro di assicurargli la presenza, sotto il profilo affettivo ed educativo, di entrambe le figure dei

genitori.

Fermo questo criterio di preferenza (ribadito nel preambolo della Convenzione di New York del

1989 sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176), gli artt. 3, 29 e

30 Cost. non si oppongono ad un’innovazione legislativa che riconosca in misura più ampia la

possibilità che, nel concorso di speciali circostanze, tipizzate dalla legge stessa o rimesse volta per

volta al prudente apprezzamento del giudice, l’adozione da parte di una persona singola sia

giudicata la soluzione in concreto più conveniente all’interesse del minore.

8.5. Gli effetti dell’adozione

Con riferimento a fattispecie di “comunicazione” degli effetti di un tipo di adozione ad un altro,

può menzionarsi, innanzi tutto, la sentenza n. 158 del 1971, in cui la Corte nega la sussistenza di

un contrasto con gli artt. 3, 29 e 30 della Costituzione nell’art. 6 della legge 5 giugno 1967, n. 431,

nella parte in cui “esclude dall’adozione speciale coloro che abbiano compiuto il ventunesimo anno

d’età alla data di entrata in vigore della legge stessa e siano affidati o affiliati”.

Con l’art. 6 della legge n. 431 del 1967 si consente, in via eccezionale e per la durata di cinque

anni, che venga dichiarata l’adozione speciale, prescindendosi dai limiti di età previsti dalla legge

per gli adottanti e per gli adottandi, di coloro che siano adottati e dei minori che siano in

affidamento o siano affiliati alla data di entrata in vigore della legge.

Il legislatore, ad avviso della Corte, richiede che a quella data tutti i possibili adottandi non siano

divenuti maggiorenni.

La contraria tesi, secondo cui solo gli affidati e gli affiliati e non anche gli adottati debbano

essere minorenni, poggia sopra argomenti letterali di dubbio valore. Ritenere che gli adottati

possano essere anche maggiorenni, solo perché l’art. 6, comma primo, ammette la dichiarazione di

adozione speciale “nei confronti di chi... è già adottato”; e che gli affidati e gli affiliati debbano

essere minorenni, solo perché, quando fa ad essi riferimento, la norma usa ripetutamente il termine

“minori”, significa non tenere nel dovuto conto altri argomenti di indubbia importanza, e soprattutto

la ratio dell’intera legge ed in particolare del regime transitorio.

Va, infatti, considerato che nello stesso art. 6, e nel quarto comma, si dispone che i soggetti, nei

cui confronti è chiesta la dichiarazione di adozione speciale, se sono di età compresa tra i

quattordici ed i diciotto anni debbono essere sentiti e se hanno compiuto gli anni diciotto debbono,

altresì, prestare il loro assenso, e si qualificano codesti soggetti come “minori”. E nulla si dice al

riguardo di coloro che eventualmente abbiano superato il ventunesimo anno di età, implicitamente

ammettendosi che solo la categoria dei minori è destinataria del regime dettato per i primi cinque

anni dalla data di entrata in vigore della legge.

Ed ancora non può essere trascurato che il legislatore, dopo avere dettato, al terzo comma, norme

per i minori affidati, col successivo comma si è riferito ai “minori” ed evidentemente a tutti i

minori, compresi gli affidati e quindi a tutti i soggetti eccezionalmente legittimati a conseguire lo

status di figlio legittimo per adozione speciale.

Con le norme istitutive dell’adozione speciale, il legislatore ha inteso tutelare l’infanzia

abbandonata ed in particolare i minori, privi di assistenza materiale e morale, che siano di regola di

età inferiore agli anni otto ed eccezionalmente di età superiore (nel caso in cui abbiano superato gli

otto anni durante il corso del procedimento). Con il detto regime transitorio ha reso possibile

l’accesso al nuovo status alle categorie di soggetti la cui situazione maggiormente si avvicina a

quella degli adottabili secondo il regime definitivo, e per tutte ha richiesto la minore età come

quella che di solito lascia presumere il bisogno di avere una famiglia, in chi non ne faccia

stabilmente parte.

A proposito, poi, di coloro che siano in affidamento o affiliati alla data dell’entrata in vigore

della legge, anche la asserita disparità di trattamento in danno di quelli maggiorenni apparirebbe

pienamente giustificata: chi è già adottato ha una posizione personale nella famiglia che è ben

diversa da quelle dell’affiliato o dell’affidato.

Attiene, infine, al merito della normativa, riservato alle scelte discrezionali del legislatore,

l’affermazione del giudice a quo secondo cui l’esclusione dall’adottabilità, ai sensi dell’art. 6,

opererebbe in danno di coloro che “hanno necessità e bisogno di una certezza giuridica che li leghi

al nucleo familiare nel quale sono da grandissimo tempo integrati”.

Non sussiste per ciò la asserita violazione dell’art. 3 della Costituzione. E non ricorre neppure il

preteso contrasto con gli artt. 29 e 30 della Costituzione.

Dal rilievo che “con l’adozione speciale si è creato uno strumento per proteggere i minori

allorché i genitori siano incapaci di adempiere i loro compiti e per dare altresì una tutela giuridica e

sociale pari a quella dei membri della famiglia legittima” non si può trarre la conseguenza che l’art.

6, là ove esclude la possibilità dell’adozione speciale per gli affidati ed affiliati ultraventunenni, sia

in contrasto con le citate disposizioni della Costituzione. Non appare violato l’art. 29 perché questo

tutela la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e garantisce l’uguaglianza morale e

giuridica dei coniugi con il rispetto dell’unità familiare. E neppure risultano disapplicati i principî e

le disposizioni dell’art. 30, e segnatamente dei primi due commi (essendo gli altri del tutto estranei

alla materia di cui alla specie), atteso che in ordine ai doveri dei genitori verso i figli ed in caso di

mancata osservanza degli stessi, non è costituzionalmente imposta una disciplina unica o unitaria. È

ben possibile, infatti, che, sia pure rivolti a finalità concorrenti o comuni, coesistano istituti distinti,

quali l’affidamento e l’affiliazione, e le due forme di adozione, e le norme circa l’assistenza

pubblica all’infanzia abbandonata, ecc., e che la complessiva disciplina sia variamente articolata; e

che nel campo specifico dell’adozione speciale, questa sia consentita alle condizioni ed entro i limiti

risultanti dalle scelte discrezionali che il legislatore abbia posto in essere in modo adeguato e

razionale.

Sempre per quel che attiene alla “comunicazione” degli effetti dell’adozione, è da segnalare la

sentenza n. 197 del 1986, in cui la Corte, con una pronuncia interpretativa di rigetto, dirime il

dubbio di costituzionalità dell’art. 79, primo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, in quanto

tale disposizione, stabilendo che “entro tre anni dall’entrata in vigore” della legge medesima possa

essere – a determinate condizioni – dichiarata “l’estensione degli effetti dell’adozione nei confronti

degli affiliati o adottati ai sensi dell’art. 291 del codice civile, precedentemente in vigore” (c.d.

adozione ordinaria), non prevede che analoga estensione degli effetti della adozione ex lege n. 184

possa avvenire nei confronti di coloro che sono stati adottati ai sensi della legge n. 431 del 1967.

Al riguardo, la Corte rileva che l’adozione, quale disciplinata dalla legge del 1983, non è istituto

nuovo rispetto all’adozione c.d. speciale di cui alla legge del 1967. Il legislatore, al contrario, nel

fondato convincimento che la disciplina dell’adozione dei minori contenuta in tale legge

corrispondesse, in linea generale alle direttive costituzionali in materia, ha inteso mantenerla in vita

nei suoi tratti fondamentali, elevandola a modello generale di adozione e prevedendo discipline

diverse solo per taluni casi particolari, tassativamente indicati. Il legislatore ha così provveduto a

redigere un testo organico comprensivo di tutta la materia (ivi compresa la nuova disciplina

dell’adozione internazionale), nell’ambito del quale, al titolo secondo, è stata integralmente

trasfusa, salvo rettifiche e adattamenti, la previgente disciplina dell’adozione speciale; e

correlativamente, il capo III del titolo VIII del libro del codice civile, in cui tale disciplina era stata

inserita, è stato espressamente abrogato.

Per quanto in particolare attiene alla disciplina degli effetti dell’adozione, il legislatore,

ispirandosi alla fondamentale esigenza di tutela dell’interesse del minore, ha mantenuto la scelta già

operata nel 1967 di garantire il diritto dello stesso ad avere un’unica famiglia, ove risulti necessario

sostituirne una nuova a quella d’origine. Tale scelta, corrispondente alle direttive di cui agli artt. 30,

secondo comma, e 31, terzo comma Cost., è stata anzi rafforzata e perfezionata: sia nel senso di

sancire la definitiva parificazione dello status del figlio adottivo a quella del figlio legittimo a titolo

originario, sia nel senso di recidere residui legami del minore adottato con la famiglia di origine.

Sotto il primo profilo, è stata perciò soppressa, nell’art. 27, primo comma, la disposizione –

contenuta nel corrispondente primo comma dell’art. 314/26, cod. civ. – che limitava l’acquisizione

di un pieno status di figlio legittimo escludendo l’instaurazione di rapporti di parentela tra l’adottato

ed parenti collaterali degli adottanti. Sotto il secondo profilo, col terzo comma del medesimo art. 27

è stata esclusa la rilevanza del vincolo dell’adottato con la famiglia di origine per quanto attiene agli

effetti penali previsti dall’art. 540 c.p., eliminando il rinvio alle “norme penali fondate sul rapporto

di parentela” contenuto nel secondo comma del citato art. 314/26 e lasciando inalterata solo per

divieti matrimoniali la rilevanza di tale rapporto. La tutela del diritto del minore ad avere un’unica

famiglia è stata, poi, ulteriormente rafforzata sia attraverso una più appropriata formulazione della

disciplina delle certificazioni attinenti al rapporto adottivo, sia attraverso la configurazione di

un’apposita previsione incriminatrice per qualsiasi rivelazione di notizie concernenti lo status di

figlio legittimo per adozione (art. 73).

Il rimettente, pur ammettendo che “l’adozione prevista dalla legge n. 184/1983 si pone come

perfezionamento e compimento della “adozione speciale” senza alcuna soluzione di continuità con

essa”, fonda la tesi dell’inapplicabilità della suesposta normativa ai rapporti adottivi sorti nel vigore

della legge n. 431/1967 sull’assunto che – “in assenza di esplicite disposizioni in tal senso – non è

consentito all’interprete (oltre che di dubbia legittimità costituzionale) ricollegare ad un istituto

giuridico, al di fuori della volontà degli interessati, conseguenze diverse e ulteriori rispetto a quelle

previste dalla norma nel momento in cui di tale istituto si è fatta applicazione”.

Tale tesi, però, non tiene conto né della natura e funzione della normativa disciplinante

l’adozione dei minori, né delle caratteristiche del fenomeno di successione di leggi verificatosi nella

specie.

Sotto il primo aspetto, l’assunto secondo cui la piena espansione dello status di figlio legittimo

dell’adottato ex lege 431/1967 non potrebbe verificarsi “al di fuori della volontà degli interessati”,

suppone evidentemente una concezione privatistica dell’istituto dell’adozione che non solo è

sfornita di qualsiasi aggancio normativo o supporto argomentativo, ma contrasta nettamente con la

funzione pubblicistica che a tale istituto va assegnata.

Dai principî costituzionali di cui agli artt. 2 e 30, primo e secondo comma, Cost., discende,

invero, che l’adozione deve trovare nella tutela dei fondamentali interessi del minore il proprio

centro di gravità; il che significa, tra l’altro, che a questi interessi vadano subordinati tanto quelli

degli adottanti (o aspiranti tali) quanto quelli della famiglia di origine.

La connotazione pubblicistica dell’istituto trovava già sostanziale riconoscimento nella legge

431/1967; ed ora essa è stata per più versi accentuata e rafforzata con la disciplina introdotta con la

legge del 1983.

Ora, è evidente che tra preminenti interessi del minore rientra, innanzitutto, l’acquisizione dello

status di figlio legittimo pleno iure: sicché, sotto questo profilo, è quanto meno arduo comprendere

– né il giudice rimettente lo spiega – per quali motivi il conseguimento di tale status per legge ed

“al di là della volontà degli interessati” sarebbe “di dubbia legittimità costituzionale”.

Il rilievo, poi, che si pretende di attribuire alla volontà degli interessati è in netta contraddizione

con la struttura dell’istituto, quale configurato sia nella legge del 1967 che nella legge del 1983.

L’adozione, invero, pur traendo origine da un atto di autonomia degli adottanti, non si perfeziona

con la mera domanda dei medesimi, bensì solo con un provvedimento giudiziario rispetto al cui

contenuto il rilievo attribuito alla volontà degli istanti soggiace alla preminente considerazione

dell’interesse del minore.

Inoltre, le situazioni giuridiche che da tale provvedimento discendono – cioè gli status, le

potestà, diritti, le facoltà, gli obblighi, ecc. degli interessati e dei terzi – sono interamente

predeterminate dalla legge. Il legislatore perciò, così come è libero – nel rispetto dei principî

costituzionali – di configurare in un certo modo tali situazioni, altrettanto è libero – sempre nel

rispetto dei medesimi principî – di modificarle.

Ove, poi, per “interessati” il Tribunale rimettente abbia inteso parenti collaterali degli adottanti,

nei cui confronti l’adottato acquisisce con la nuova legge un rapporto di parentela, è agevolmente

osservabile che essi, allo stesso modo in cui subiscono le conseguenze dell’altrui filiazione legittima

o naturale, non possono non subirle ove trattisi di filiazione per adozione: tant’è che nessun ruolo

specifico è ad essi riservato nel relativo procedimento.

Sotto il secondo degli aspetti considerati, la legge n. 184 del 1983 ha non solo regolato l’intera

materia già disciplinata dalla legge n. 431 del 1967 ma ha, altresì, espressamente abrogato, con l’art.

67, l’intera normativa posta con quest’ultima.

A fronte di tale duplice fenomeno – e tenuto conto che esso verte in materia di status, regolati

con una normativa ispirata ad esigenze pubblicistiche – il dato che occorrerebbe desumere da

esplicite disposizioni legislative non è quello dell’attitudine della nuova disciplina a regolare per il

futuro gli effetti di rapporti anteriormente insorti, bensì quello dell’idoneità in tal senso della

normativa abrogata, che comporterebbe una sorta di ultrattività di essa.

A convincere che quest’ultimo fenomeno non si verifichi nel caso in esame, basta considerare la

singolarità – oltre che l’evidente contrasto con l’intento legislativo – delle conseguenze implicate

dalla tesi prospettata dal Tribunale rimettente: la quale condurrebbe, ad esempio, ad ipotizzare, in

relazione all’epoca di insorgenza del rapporto adottivo, un doppio regime di certificazione

anagrafica e differenti doveri al riguardo degli ufficiali di stato civile e di anagrafe; ed a ritenere la

non configurabilità del reato di cui al l’art. 73 1. 184/1983 ove le notizie e rivelazioni vietate da tale

disposizione concernano un minore adottato anteriormente all’entrata in vigore di tale legge.

8.6. L’adottato ed i suoi legami pregressi

8.6.1. Il cognome dell’adottato

Nella sentenza n. 120 del 2001, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 299,

secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che, qualora sia figlio naturale non

riconosciuto dai propri genitori, l’adottato possa aggiungere al cognome dell’adottante anche quello

originariamente attribuitogli.

Motiva la Corte che il secondo comma dell’art. 299 cod. civ., nel regolare l’assunzione del

cognome in caso di adozione di maggiorenne che abbia la qualità di figlio naturale, prevede, nel suo

primo periodo, che, qualora si tratti di figlio naturale non riconosciuto, l’adottato assuma solo il

cognome dell’adottante. La ratio di tale norma, sulla quale non ha inciso la sostituzione operata

dall’art. 61 della legge 4 maggio 1983, n. 184, risiede – come rileva la relazione ministeriale – nella

ritenuta opportunità di far scomparire il cognome imposto dall’ufficiale di stato civile ai sensi

dell’art. 71, ultimo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238.

Tale scelta, peraltro, risulta in contrasto con l’invocato art. 2 della Costituzione, dovendosi ormai

ritenere principio consolidato nella giurisprudenza costituzionale quello per cui il diritto al nome –

inteso come primo e più immediato segno distintivo che caratterizza l’identità personale –

costituisce uno dei diritti inviolabili protetti dalla menzionata norma costituzionale (sentenze n. 297

del 1996 e n. 13 del 1994).

Nel caso in esame, non solo l’interessato ha utilizzato da sempre quel cognome, trasmettendolo

anche ai propri figli, ma tale segno distintivo si è radicato nel contesto sociale in cui egli si trova a

vivere, sicché precludere all’adottato la possibilità di mantenerlo si risolve in un’ingiusta privazione

di un elemento della sua personalità, tradizionalmente definito come il diritto “ad essere se stessi”.

Ed è innegabile, d’altra parte, che l’antico sfavore verso i figli nati fuori del matrimonio è superato

dalla nostra Costituzione oltre che dalla coscienza sociale. Per queste ragioni il fatto che l’adottato

acquisisca uno status del quale era privo non è motivo sufficiente per negare la violazione dell’art. 2

della Costituzione.

Non può essere dimenticato, d’altronde, che la norma in esame è anche del tutto irrazionale alla

luce della riforma dell’adozione di cui alla legge n. 184 del 1983. Con questa legge, infatti, si è

compiuta una netta distinzione fra l’adozione di minori, sia essa legittimante o meno, e quella di

maggiorenni, regolata dal codice civile. Se la ratio della prima è, almeno in linea di massima, quella

di fornire al minore una famiglia che sia idonea a consentire nel modo migliore il suo sviluppo – il

che spiega l’assunzione, da parte dell’adottato, del solo cognome dell’adottante e la cessazione di

ogni rapporto con la famiglia d’origine (art. 27 della legge n. 184 del 1983), salvo la c.d. adozione

in casi particolari – l’obiettivo della seconda evidentemente non è il medesimo, poiché tale

adozione (art. 300 cod. civ.) non crea alcun vincolo di parentela tra l’adottato e la famiglia

dell’adottante, tanto che il primo conserva tutti i propri precedenti rapporti, specie quelli con la

famiglia di origine (v. sentenze n. 500 del 2000 e n. 240 del 1998 ed ordinanza n. 82 del 2001).

La scomparsa del cognome originario, dunque, nel caso del maggiorenne appare anche priva di

razionale giustificazione, sicché risulta violato l’art. 3 della Costituzione.

L’ordinanza di rimessione prospetta un’ulteriore contrarietà agli invocati parametri della regola

prevista dal primo comma dell’art. 299 cod. civ., in base alla quale il cognome dell’adottante deve

essere anteposto al proprio.

Alla luce delle considerazioni svolte, la precedenza del cognome dell’adottante non appare

irrazionale, così come non può costituire violazione del diritto all’identità personale il fatto che il

cognome adottivo preceda o segua quello originario. La lesione di tale identità è ravvisabile nella

soppressione del segno distintivo, non certo nella sua collocazione dopo il cognome dell’adottante.

Nel giudizio concluso con la sentenza n. 268 del 2002, la Corte viene chiamata a dirimere il

dubbio di costituzionalità, sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, secondo comma, 30, terzo comma,

e 31, secondo comma, della Costituzione, relativo all’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184,

nella parte in cui, rinviando all’art. 299 del codice civile per l’attribuzione del cognome al minore

adottato in casi particolari, non consente che il minore, o i suoi legali rappresentanti, o gli adottanti

possano ottenere, sempre nell’interesse del minore, che questi mantenga il suo precedente cognome,

ovvero lo anteponga o lo aggiunga a quello dell’adottante, o ancora sostituisca il cognome

dell’adottante al suo.

Nel dichiarare non fondata la questione, la Corte rileva che, quanto alla violazione dell’art. 2

Cost., costituisce principio consolidato quello per cui il cognome è una “parte essenziale ed

irrinunciabile della personalità” che, per tale ragione, gode di tutela di rilievo costituzionale in

quanto “costituisce il primo ed immediato elemento che caratterizza l’identità personale”; esso è

quindi riconosciuto come un “bene oggetto di autonomo diritto dall’art. 2 Cost.” e costituisce

oggetto di un “tipico diritto fondamentale della persona umana” (sentenze n. 13 del 1994, n. 297 del

1996 e, da ultimo, sentenza n. 120 del 2001).

In questi casi la Corte ha quindi ritenuto illegittime, per violazione dell’art. 2 Cost., norme che,

prevedendo dei criteri rigidi ed automatici per l’attribuzione alla persona di un cognome diverso da

quello col quale essa era conosciuta nell’ambiente sociale nel quale aveva sino a quel momento

svolto la propria personalità, finivano per far prevalere la corrispondenza del cognome allo status

familiare, sacrificando nel contempo il diritto all’identità personale del soggetto; in entrambi i casi

la soluzione adottata è stata quella di lasciare la scelta se mantenere il cognome originario - solo o

in aggiunta a quello adottivo - quale tratto consolidato della personalità.

La rimozione del carattere distintivo della vita precedente del soggetto non si verifica nella

disciplina per l’adozione in casi particolari, per la quale è stato previsto che l’adottato assuma il

cognome dell’adottante anteponendolo al proprio, che in questo modo non viene cancellato ma

continua a costituire, in uno col nuovo cognome attribuito al minore, un tratto essenziale della sua

identità personale.

L’adozione in casi particolari, prevista dagli artt. 44 e seguenti della legge n. 184 del 1983, è un

istituto diverso sia dall’adozione legittimante sia da quella tra persone maggiori di età, pur avendo

in comune con la prima la finalità di perseguire l’esclusivo interesse del minore e con la seconda

l’effetto non legittimante del provvedimento, col quale non vengono rescissi i rapporti dell’adottato

con la sua famiglia di origine.

Il legislatore, nello stabilire la disciplina dell’adozione in casi particolari, ha quindi compiuto una

“non facile composizione” di esigenze diverse, tra le quali quella di “evitare che l’instaurazione del

nuovo rapporto comporti la rottura di quello esistente con l’altro genitore biologico e/o con i di lui

parenti, pur quando con costoro il minore abbia instaurato e mantenga legami significativi”

(sentenza n. 27 del 1991), operando una scelta del tutto conforme alle finalità dell’istituto.

Nel disciplinare l’attribuzione del cognome all’adottato, la scelta fatta dal legislatore, nella sua

discrezionalità, è stata quella di non eliminare il legame del minore col proprio passato e, perciò,

con la sua identità personale come essa è stata ed è conosciuta nell’ambiente sociale di cui egli è, e

deve continuare ad essere, parte; per tale ragione, pur essendo astrattamente possibili soluzioni

differenziate per i diversi casi, il legislatore ha previsto una disciplina unitaria, rispettosa della

personalità del soggetto come tutelata dall’art. 2 Cost., proprio in quanto mantiene il cognome

originario, cui aggiunge, anteponendolo, quello dell’adottante, con ciò dando atto dei precedenti e

non interrotti legami familiari dell’adottato.

Non può neppure dirsi che la disciplina prevista dalla legge per l’attribuzione del cognome ai

minori adottati in casi particolari violi le altre norme costituzionali indicate dal giudice a quo;

l’attribuzione del cognome dell’adottante, anteposto a quello originario del minore facente già parte

della sua individualità, non può invero essere un ostacolo di ordine sociale allo sviluppo della

personalità umana ai sensi dell’art. 3, secondo comma, Cost., o costituire un trattamento deteriore

dei figli nati fuori dal matrimonio ai sensi dell’art. 30, terzo comma Cost., o risolversi in una

disciplina che non attua la protezione del minore richiesta dall’art. 31, secondo comma, Cost.

Si tratta, al contrario, di una disposizione rispettosa della personalità del minore e non

discriminatoria; l’attribuzione del doppio cognome, infatti, sta proprio a significare l’avvenuto

inserimento del minore nel nuovo nucleo familiare, senza che nel contempo venga imposta la

perdita del cognome col quale egli era ed è conosciuto nei diversi ambienti che frequenta e dei

legami con la famiglia di origine, secondo la ratio complessiva della adozione in casi particolari.

Il legislatore, avendo operato, nella sua discrezionalità, una scelta non irragionevole, ha voluto

quindi evitare, attraverso il mantenimento del cognome originario cui si antepone quello

dell’adottante, proprio quell’effetto di perdita di legami sociali, con conseguente difficoltà allo

sviluppo della personalità, che viene paventato dal giudice rimettente.

La norma impugnata non può neppure causare l’effetto di una minor tutela per i figli nati fuori

dal matrimonio, come sostiene il rimettente, qualora l’adozione riguardi figli naturali riconosciuti;

anche in questo caso, infatti, si tratta di un minore che già ha assunto il cognome del genitore che ha

effettuato il riconoscimento e che tramite esso è conosciuto nell’ambiente sociale; la successiva

adozione (in casi particolari) da parte del coniuge del genitore che ha effettuato il riconoscimento,

anche mediante l’attribuzione del secondo cognome, certamente non comprime la personalità del

minore.

Né infine la norma impugnata può integrare una omessa tutela della gioventù prevista dall’art.

31, secondo comma, Cost., dovendo tale norma costituzionale essere più propriamente riferita agli

istituti di legislazione sociale a protezione della famiglia e dell’infanzia, piuttosto che al novero dei

diritti della persona.

In sostanza, sarebbe contraria alla Costituzione una disposizione che imponesse la cancellazione,

attraverso la sostituzione automatica del cognome originario, di un tratto essenziale della

personalità del soggetto, mentre la scelta della posizione dei due cognomi, di per sé, non costituisce

violazione del diritto della personalità del soggetto.

8.6.2. Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini

La volontà dell’adottato di conoscere la propria famiglia biologica può creare problemi con

l’esigenza di riservatezza dei genitori naturali.

Nel giudizio concluso con la sentenza n. 425 del 2005, alla Corte viene chiesto di vagliare la

costituzionalità dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184, nel testo sostituito

dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di

protezione dei dati personali), «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l’adottato

all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della

volontà di non essere nominata da parte della madre biologica».

La violazione dell’art. 2 della Costituzione è prospettata dal rimettente sotto il profilo che la

norma impugnata farebbe prevalere in ogni caso l’interesse della madre naturale all’anonimato sul

diritto inviolabile del figlio all’identità personale. Censurando particolarmente tale assolutezza, il

rimettente chiede alla Corte una sentenza additiva che dichiari la norma costituzionalmente

illegittima nella parte in cui, ove la madre naturale abbia manifestato la volontà di non essere

nominata, non condiziona il divieto per l’adottato di accedere alle informazioni sulle origini alla

previa verifica, da parte del giudice, dell’attuale persistenza di quella volontà.

A prescindere da ogni altra considerazione sulla portata di una tale pronuncia, la tesi del

rimettente è infondata.

La norma impugnata mira evidentemente a tutelare la gestante che – in situazioni

particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale – abbia deciso di non

tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e

di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo

intende – da un lato – assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per

il figlio, e – dall’altro – distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi.

L’esigenza di perseguire efficacemente questa duplice finalità spiega perché la norma non

preveda per la tutela dell’anonimato della madre nessun tipo di limitazione, neanche temporale.

Invero la scelta della gestante in difficoltà che la legge vuole favorire – per proteggere tanto lei

quanto il nascituro – sarebbe resa oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura

medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il

rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto,

interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana

dichiarazione di volontà.

Pertanto la norma impugnata, in quanto espressione di una ragionevole valutazione comparativa

dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda, non si pone in contrasto con l’art. 2 della

Costituzione.

La violazione dell’art. 3 della Costituzione è dedotta sotto il profilo dell’irragionevole disparità

di trattamento fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e

l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione e abbiano anzi subito

l’adozione. Il rimettente ritiene irragionevole la scelta legislativa di vietare al primo l’accesso alle

informazioni sulle proprie origini e consentirla invece al secondo, mentre l’equilibrio dell’adottato e

quello dei genitori adottivi può essere esposto nell’ultimo caso ad insidie maggiori che non nel

primo, nel quale il genitore biologico a distanza di anni potrebbe avere elaborato la condotta

passata.

La censura è infondata, perché la diversità di disciplina fra le due ipotesi non è ingiustificata.

Solo la prima, infatti, e non anche la seconda, è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto

dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre naturale al rispetto della sua

volontà di anonimato.

8.7. L’adozione internazionale

L’art. 32, comma 1, lettera c), della legge n. 184 del 1983, nel testo previgente le modifiche

apportate dalla legge n. 476 del 1998, prevedeva che il Tribunale per i minorenni dichiarasse

l’efficacia nello Stato dei provvedimenti di adozione stranieri purché il provvedimento stesso non

fosse contrario «ai principî fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori».

Tale disposizione è stata portata al vaglio della Corte per i seguenti diversi profili: a) il

provvedimento adottivo straniero viene assunto nel nostro ordinamento quale mero presupposto per

l’instaurazione di una procedura che sfocia in un’adozione con effetti diversi da quelli che gli

sarebbero propri nello Stato in cui il provvedimento stesso è stato emanato, con conseguente

violazione dell’art. 10, comma 1, Cost., per lesione della norma di diritto internazionale,

universalmente riconosciuta, del rispetto della sovranità degli Stati; b) la disposizione, come

interpretata dalla Cassazione, consentirebbe che siano dichiarati efficaci provvedimenti stranieri

fondati sul solo consenso dei genitori biologici all’adozione, in violazione del principio di

ragionevolezza, in quanto si porrebbe in contrasto con le finalità della legge n. 184 del 1983 che, al

fine di tutelare l’infanzia abbandonata, ha ripudiato il modello adottivo c.d. consensuale. La norma,

inoltre, confliggerebbe con l’art. 2 Cost., in quanto consentirebbe di recidere il legame del minore

con la propria famiglia di origine, anche in mancanza di un effettivo stato di abbandono, nonché con

l’art. 3 Cost., in quanto il favor minoris, del quale è permeata la disciplina dell’adozione

legittimante, sarebbe riservato al solo minore di cittadinanza italiana. L’art. 3 Cost., infine, sarebbe

violato anche in ragione dell’ingiustificato privilegio accordato alle coppie italiane in grado di

disporre delle somme necessarie per le adozioni consensuali di minori stranieri, rispetto agli

aspiranti all’adozione sprovvisti di tali mezzi.

Replica la Corte, nella sentenza n. 536 del 1989, che la scelta del legislatore di attribuire

all’adozione dei minori stranieri effetto legittimante anche se il contenuto del provvedimento

straniero corrisponde ad un diverso modello di adozione, è coerente con i principî costituzionali, sia

perché risponde all’esigenza di favorire lo sviluppo della personalità dell’adottato (art. 2 Cost.) e gli

assicura parità di trattamento nei confronti del minore italiano (art. 3 Cost.), sia perché,

conformemente agli artt. 30, comma secondo, e 31, comma terzo, Cost., soddisfa il suo, preminente

interesse all’acquisizione, dello status di figlio legittimo pleno iure. Né è dimostrato che esista – e,

pertanto, che sia violata – una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta la quale

riponga che il provvedimento straniero sia rispettato nel suo contenuto senza modifiche.

Inoltre, l’interpretazione (della Cassazione) secondo cui l’art. 32, lett. c), legge n. 184 del 1983,

consente la dichiarazione di efficacia delle adozioni c.d. consensuali di minori stranieri non

contrasta, sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, con i principî ispiratori

della stessa legge n. 184, in quanto è coerente con l’esigenza che l’adozione internazionale possa

operare con ampiezza per realizzare gli obiettivi di solidarietà e collaborazione verso la popolazione

infantile di altri paesi, perseguiti dal legislatore.

Si sottolinea, altresì, che il principio secondo cui il minore ha diritto alla formazione della sua

personalità primariamente nell’ambito della famiglia di origine (art. 1, legge n. 184 del 1983), ha

valore generale, sicché anche per il minore straniero (come per quello italiano) l’adozione

legittimante postula un effettivo stato di abbandono, che non può desumersi in modo automatico dal

consenso all’adozione prestato dai genitori biologici, ma va valutato in un quadro di risultanze

obiettive – fra cui quelle del provvedimento straniero (giurisdizionale o amministrativo) – che dia

sufficienti garanzie circa la rispondenza dell’adozione all’interesse del minore.

La Corte conclude ribadendo il principio secondo cui l’individuazione della famiglia sostitutiva

deve rivestire carattere di “adeguatezza” (artt. 2 e 30, commi primo e secondo, Cost.) è valido anche

per l’adozione di minori stranieri, e riguardo ad essa la scelta di adottanti “idonei” non è rimessa ai

genitori biologici, ma a parte il controllo dell’autorità straniera, è sufficientemente garantita da

valutazioni preventive e successive del giudice italiano, circa l’attitudine in concreto, degli aspiranti

adottanti ad educare un minore straniero e circa gli esiti del congruo periodo di affidamento

preadottivo richiesto dalla legge.

In tema di adozione di minori stranieri va segnalata anche l’ordinanza n. 415 del 2002, che

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 34, comma

2, e 35, commi 3 e 6, della legge 31 dicembre 1998, n. 476 (Ratifica ed esecuzione della

Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a

L’Aja il 29 maggio 1993. Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in tema di adozione di

minori stranieri), nella parte in cui non prevedono, per l’adozione internazionale, l’affido

preadottivo del minore per la durata di un anno quale principio fondamentale del diritto italiano di

famiglia e dei minori.

Al riguardo, le norme italiane sull’adozione internazionale devono tenere conto della necessità di

favorire accordi tra gli Stati, volti alla creazione di una disciplina uniforme che consenta

all’adozione di operare con ampiezza, al fine di realizzare in concreto obiettivi di solidarietà e

collaborazione coi Paesi di provenienza dei minori che versano in condizioni di grave difficoltà.

La Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale,

fatta a L’Aja il 29 maggio 1993 e resa esecutiva in Italia con la legge n. 476 del 1998, costituisce un

atto di diritto internazionale che intende raggiungere l’obiettivo di un diritto internazionale

uniforme nell’ambito di equi rapporti in materia di adozione internazionale. La Convenzione,

all’art. 24, prevede il principio del riconoscimento dei provvedimenti di adozione pronunciati dalle

autorità dei Paesi di provenienza dei minori, da parte degli altri Stati contraenti – salvo il caso in cui

l’adozione risulti contraria all’ordine pubblico interno e tenuto sempre conto del migliore interesse

del minore – e il legislatore nazionale, ratificando la Convenzione con la legge n. 476 del 1998, ha

recepito tale principio, innovando il procedimento col quale viene data esecuzione in Italia ai

provvedimenti stranieri che, nel concorso di tutte le condizioni richieste, non necessitano di un

ulteriore periodo di affidamento preadottivo in Italia. La legge di ratifica, in linea con le

disposizioni convenzionali, ha comunque previsto che l’efficacia diretta nell’ordinamento interno

dell’adozione pronunciata all’estero sia subordinata ad una serie di adempimenti e controlli –

l’obbligo per i genitori adottivi, preventivamente dichiarati idonei, di rivolgersi esclusivamente ad

uno degli enti autorizzati, la non contrarietà ai principî fondamentali che regolano nello Stato il

diritto di famiglia e dei minori, la certificazione di conformità dell’adozione alla Convenzione e

l’autorizzazione all’ingresso ed alla permanenza del minore rilasciate dalla Commissione per le

adozioni internazionali – tali da comportare una verifica, da parte del giudice italiano, effettiva e

non limitata ad aspetti solamente formali, in ordine ai presupposti richiesti per il riconoscimento ed

alla regolarità della procedura.

Nessuna disparità di trattamento sussiste perciò tra le norme relative al procedimento previsto

per l’adozione nazionale e quelle che regolano il riconoscimento dell’adozione pronunciata

all’estero, dovendosi ribadire che il legislatore ha ampia discrezionalità nel prevedere diverse forme

per i diversi tipi di adozione; il minore adottato all’estero risulta comunque tutelato dalle

disposizioni censurate dal tribunale per i minorenni rimettente, pur in assenza di un periodo di

affidamento preadottivo in Italia, la cui previsione, del resto, verrebbe a porsi in insanabile

contrasto con la Convenzione e con lo stesso sistema del diritto internazionale privato.

Peraltro, nessuna norma costituzionale impone di riconoscere quale principio fondamentale del

nostro diritto di famiglia e dei minori l’obbligatoria previsione di un periodo di affidamento

preadottivo in Italia per il minore adottato all’estero.

8.8. La revoca dell’adozione

La centralità dell’interesse del minore viene in rilievo nel corso dell’esame del dubbio della

legittimità costituzionale dell’art. 27 della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui non

prevede che possa essere pronunciata la revoca per gravi motivi, nell’interesse dell’adottato,

dell’adozione e dell’acquisto dello stato di figlio legittimo (sentenza n. 344 del 1992).

La Corte sottolinea che la disciplina dell’adozione, quale risulta dalla legge n. 184 del 1983, è

volta ad attribuire al minore, che versa in stato di abbandono, un ambiente familiare definitivamente

stabile, idoneo ad assicurargli la educazione, la istruzione ed il mantenimento da parte dei genitori

adottivi, con i quali si costituisce, nell’interesse del minore, un vincolo di filiazione assimilato a

quello della filiazione legittima.

Il legislatore ha ritenuto opportuno costruire come definitivo questo vincolo, rendendo

irretrattabile la adozione, indipendentemente dalle vicende che seguono nella famiglia adottiva,

nella quale si intendono affermare rapporti affettivi, rischi di difficoltà, opportunità di un loro

superamento, non dissimili da quelli propri di ogni altra comunità familiare. Perché si possano

produrre effetti così profondi e duraturi il legislatore ha preordinato una procedura complessa,

articolata in più fasi volte ad accertare rigorosamente, prima della definitiva pronuncia di adozione,

la esistenza dei presupposti oggettivi per una adozione preordinata all’interesse del minore, la

idoneità dei soggetti, la sperimentata integrazione tra adottanti e adottato in una funzionale unità

familiare. Risultano così circondati da particolari cautele, in un disegno normativo che esige grande

accuratezza ed elevata responsabilità nelle sue applicazioni, la dichiarazione di adottabilità dei

minori che versano in stato di abbandono, la valutazione della idoneità dei coniugi che intendono

adottare un minore per svolgere in piena responsabilità il ruolo di genitori, la verifica della

soluzione adottiva che si prospetta, sperimentandone gli esiti nel corso del necessario e controllato

periodo di affidamento preadottivo.

In questo contesto, la scelta operata dal legislatore di escludere la revocabilità della adozione

muove in un ambito di discrezionalità che non attinge alla irragionevolezza. Inoltre, non può essere

invocata, come elemento di comparazione della assenza di tale revocabilità, la revoca dell’adozione

in casi particolari, prevista dagli artt. 51 e 53 della stessa legge n. 184 del 1983 per eventi del tutto

eccezionali nel rapporto tra adottante ed adottato (attentato alla vita, commissione di altri delitti

dell’uno in danno dell’altro o viceversa; violazioni dei doveri incombenti sugli adottanti).

Difatti, al di là della diversità di effetti e della non piena comparabilità tra adozione legittimante

ed adozione in casi speciali, per quest’ultima manca comunque la verifica che con l’affidamento

preadottivo precede la definitività dell’adozione.

Utili argomenti a favore della necessaria previsione dell’istituto della revoca della adozione non

possono neppure essere tratti dalla Convenzione europea in materia di adozione di minori, invocata

dal giudice rimettente, indipendentemente dal valore da attribuire a tale Convenzione quale

ipotetico parametro di raffronto. Difatti la Convenzione europea non prevede la necessità

dell’istituto della revoca dell’adozione, ma impone piuttosto cautele nel caso in cui la revoca sia

ammessa, come può esserlo, in base ad una valutazione discrezionale di opportunità operata dalla

legge (art. 13).

Parimenti inconferente si palesa il prospettato riferimento all’art. 30, secondo comma, della

Costituzione, se si considera che l’istituto dell’adozione di minori rappresenta uno dei modi con cui

si tende, nel disegno normativo, e si deve tendere, nella concretezza della esperienza, a provvedere

affinché siano assolti i compiti dei genitori nei casi di loro incapacità.

8.9. Adozione ed attività lavorativa degli adottanti

8.9.1. L’astensione dal lavoro

La Corte dichiara, nella sentenza n. 104 del 2003, l’illegittimità costituzionale dell’art. 45,

comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in

materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), nella parte in cui prevede che i riposi di cui

agli artt. 39, 40 e 41 si applichino, anche in caso di adozione e di affidamento, «entro il primo anno

di vita del bambino» anziché «entro il primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia».

Premette la Corte che gli istituti a protezione della maternità nascono e vivono per un certo

tempo in un contesto sociale e ordinamentale nel quale da un canto l’adozione, ed in particolare

quella dei minorenni, ha scarsa applicazione e svolge una funzione ben diversa da quella che

avrebbe successivamente assunto, dall’altro il ruolo del padre nella società e nella famiglia è ancora

concepito come del tutto secondario riguardo alla crescita e alla educazione dei figli nei primi anni

della loro vita, sicché ciò che ha preminente rilievo è pur sempre la maternità biologica.

Il quadro muta radicalmente a partire dagli anni settanta per effetto di una serie di leggi di

riforma (diritto di famiglia, parità di trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro, adozione dei

minori) e di alcune decisioni della Corte.

L’art. 6 della legge n. 903 del 1977 ha esteso alle madri adottive o affidatarie gli istituti

dell’astensione dal lavoro obbligatoria e facoltativa e l’art. 7 ha attribuito anche al padre lavoratore

il diritto all’astensione facoltativa, ma solo a determinate condizioni.

La legge, stabilendo che i benefici potevano essere goduti, in caso di adozione o affidamento, nel

primo anno d’ingresso del bambino nella famiglia dell’adottante o dell’affidatario, anche se

limitatamente all’ipotesi che il bambino non avesse superato i sei anni di età, ha attribuito rilievo

alla diversità di esigenze del bambino adottato rispetto a quelle proprie del bambino che vive con i

genitori naturali o con almeno uno di questi.

La Corte è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle norme

disciplinanti gli istituti a protezione della maternità e dei minori, in particolare sotto il profilo della

loro mancata o non totale estensione al padre lavoratore oppure ai genitori legali (adottanti o

affidatari).

Per effetto di una serie di decisioni, tutte di accoglimento, il diritto all’astensione obbligatoria ed

ai riposi giornalieri, a determinate condizioni, è stato esteso al padre lavoratore (sentenza n. 1 del

1987); il diritto all’astensione facoltativa è stato riconosciuto alla madre affidataria provvisoria e

quello all’astensione obbligatoria alla madre affidataria in preadozione (sentenza n. 332 del 1988);

il diritto all’astensione nei primi tre mesi dall’ingresso del bambino nella famiglia è stato attribuito

al padre lavoratore affidatario di minore per i primi tre mesi successivi all’ingresso del bambino

nella famiglia in alternativa alla madre (sentenza n. 341 del 1991); il diritto ai riposi giornalieri,

infine, è stato esteso, in via generale ed in ogni ipotesi, al padre lavoratore in alternativa alla madre

consenziente, per l’assistenza al figlio nel suo primo anno di vita (sentenza n. 179 del 1993).

Da quanto sinteticamente esposto risulta che gli istituti dell’astensione dal lavoro, obbligatoria e

facoltativa, ora denominati congedi, e quello dei riposi giornalieri oggi non hanno più l’originario

necessario collegamento con la maternità naturale e non hanno più come esclusiva funzione la

protezione della salute della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del

minore, ma sono diretti anche ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare

il pieno sviluppo della sua personalità.

Ciò che più rileva è la piena coincidenza tra la ratio delle decisioni della Corte appena

richiamate e l’attività del legislatore. Questi, nel momento in cui ha esteso misure previste in caso di

filiazione naturale alla filiazione adottiva ed all’affidamento ha avvertito che l’età del minore

diveniva un elemento, se non trascurabile, certamente secondario, mentre veniva in primo piano il

momento dell’ingresso del minore nella famiglia adottiva o affidataria, in considerazione delle

difficoltà che tale ingresso comporta sia riguardo alla personalità in formazione del minore, soggetta

al trauma del distacco dalla madre naturale o a quello del soggiorno in istituto, sia per i componenti

della famiglia adottante o affidataria.

I riposi giornalieri, una volta venuto meno il nesso esclusivo con le esigenze fisiologiche del

bambino, hanno la funzione di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali al fine dell’armonico e

sereno sviluppo della sua personalità. Essi, pertanto, svolgono una funzione omogenea a quella che

assolvono i congedi e, più specificamente, i congedi parentali. Ora, per questi il legislatore ha

ritenuto rilevante, in caso di adozione o di affidamento, il momento dell’ingresso del minore nella

famiglia, considerando l’età del minore, peraltro diversamente disciplinata a seconda delle varie

ipotesi di adozioni o affidamenti, esclusivamente come un limite alla fruizione dei benefici. Ne

consegue che restringere il diritto ai riposi per gli adottanti e gli affidatari al primo anno di vita del

bambino non soltanto è intrinsecamente irragionevole, ma è anche in contrasto con il principio di

eguaglianza, perché l’applicazione agli adottanti ed agli affidatari della stessa formale disciplina

prevista per i genitori naturali finisce per imporre ai primi ed ai minori adottati o affidati un

trattamento deteriore, attesa la peculiarità della loro situazione.

Né può indurre a diversa conclusione la richiamata disposizione sulla disciplina dei riposi in caso

di parto plurimo, poiché non solo le esigenze fisiche ma anche quelle affettive richiedono un tempo

maggiore quando debbono essere soddisfatte riguardo a più persone.

8.9.2. L’indennità di maternità

Un’ingiustificata disparità di trattamento fra i coniugi, nonché una disparità di trattamento tra

liberi professionisti e lavoratori dipendenti, viene rinvenuta negli artt. 70 e 72 del decreto legislativo

26 marzo 2001, n. 151, nella parte in cui non consentono al padre libero professionista, affidatario

in preadozione di un minore, di beneficiare – in alternativa alla madre – dell’indennità di maternità

durante i primi tre mesi successivi all’ingresso del bambino nella famiglia.

Al riguardo, a Corte ricorda, nella sentenza n. 385 del 2005, che il d.lgs. n. 151 del 2001

rappresenta l’esito di un’evoluzione legislativa che ha modificato profondamente la disciplina della

tutela della maternità, estendendo al padre lavoratore ed ai genitori adottivi i diritti in precedenza

spettanti alla sola madre, a protezione del preminente interesse della prole.

Tale evoluzione è espressa dal d.lgs. n. 151 del 2001 che, nel provvedere alla ricognizione

organica della materia, pone su un piano di parità ed uguaglianza i genitori che svolgono attività

lavorativa e sancisce definitivamente l’equiparazione dei genitori adottivi o affidatari a quelli

biologici.

La tutela offerta dalla normativa in esame non è, peraltro, completa.

Per il caso di adozione o affidamento, l’art. 31 stabilisce che il congedo di maternità di cui ai

precedenti artt. 26, primo comma, e 27, primo comma, nonché il congedo di paternità di cui all’art.

28 spettano, a determinate condizioni, anche al padre lavoratore.

Le espressioni “lavoratore” e “lavoratrice” che compaiono in tale norma devono essere

interpretate alla luce del disposto dell’art. 2, comma 1, lettera e), secondo cui «per “lavoratrice” o

“lavoratore”, salvo che non sia altrimenti specificato, si intendono i dipendenti […] di

amministrazioni pubbliche, di privati datori di lavoro nonché i soci lavoratori di cooperative»: la

lettera della legge è, pertanto, esplicita nell’escludere che in detta nozione possano essere fatti

rientrare coloro che esercitano una libera professione, con la conseguenza che agli stessi l’art. 31

non può essere applicato.

Alle madri libere professioniste è dedicato il Capo XII del d.lgs. n. 151 del 2001: in particolare,

l’art. 70, primo comma, riconosce «alle libere professioniste, iscritte ad un ente che gestisce forme

obbligatorie di previdenza […] un’indennità di maternità […]», che l’art. 72, primo comma,

estende, poi, all’ipotesi di adozione o affidamento. Anche in questo caso, la lettera della legge è di

chiara interpretazione e, nel fare esclusivo riferimento alle libere professioniste, esclude in linea di

principio i padri liberi professionisti dal godimento del detto beneficio.

Pertanto, il d.lgs. n. 151 del 2001 ha testualmente riconosciuto il diritto all’indennità al padre

adottivo o affidatario che sia lavoratore dipendente, escludendo, viceversa, coloro che esercitino

una libera professione, i quali non hanno, perciò, la facoltà di avvalersi del congedo, e

dell’indennità, in alternativa alla madre.

Tale discriminazione rappresenta un vulnus sia del principio di parità di trattamento tra le figure

genitoriali e fra lavoratori autonomi e dipendenti, sia del valore della protezione della famiglia e

della tutela del minore.

Gli istituti nati a salvaguardia della maternità, in particolare i congedi ed i riposi giornalieri, non

hanno più, come in passato, il fine precipuo ed esclusivo di protezione della donna, ma sono

destinati alla difesa del preminente interesse del bambino, che va tutelato non solo per ciò che

attiene ai bisogni più propriamente fisiologici, ma anche in riferimento alle esigenze di carattere

relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della sua personalità.

Ciò è tanto più vero nell’ipotesi di affidamento e di adozione, ove l’astensione dal lavoro non è

finalizzata alla tutela della salute della madre, ma mira in via esclusiva ad agevolare il processo di

formazione e crescita del bambino, creando le condizioni di una più intensa presenza della coppia, i

cui componenti sono entrambi affidatari, e come tali entrambi protagonisti, nell’esercizio dei loro

doveri e diritti, della buona riuscita del delicato compito loro attribuito.

Pertanto, se il fine precipuo dell’istituto, in caso di adozione e affidamento, è rappresentato dalla

garanzia di una completa assistenza al bambino nella delicata fase del suo inserimento nella

famiglia, il non riconoscere l’eventuale diritto del padre all’indennità costituisce un ostacolo alla

presenza di entrambe le figure genitoriali. Occorre garantire un’effettiva parità di trattamento fra i

genitori – nel preminente interesse del minore – che risulterebbe gravemente compromessa ed

incompleta se essi non avessero la possibilità di accordarsi per un’organizzazione familiare e

lavorativa meglio rispondente alle esigenze di tutela della prole, ammettendo anche il padre ad

usufruire dell’indennità di cui all’art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001 in alternativa alla madre. In caso

contrario, nei nuclei familiari in cui il padre esercita una libera professione verrebbe negata ai

coniugi «la delicata scelta di chi, assentandosi dal lavoro per assistere il bambino, possa meglio

provvedere» alle sue esigenze, scelta che, secondo la giurisprudenza menzionata di questa Corte,

non può che essere rimessa in via esclusiva all’accordo dei genitori, «in spirito di leale

collaborazione e nell’esclusivo interesse del figlio» (sentenza n. 179 del 1993).

La violazione del principio di uguaglianza appare ancor più evidente se si considera che il

legislatore ha riconosciuto tale facoltà ai padri che svolgano un’attività di lavoro dipendente: il non

aver esteso analoga facoltà ai liberi professionisti determina una disparità di trattamento fra

lavoratori che non appare giustificata dalle differenze, pur sussistenti, fra le diverse figure

(differenze che non riguardano, certo, il diritto a partecipare alla vita familiare in egual misura

rispetto alla madre), e non consente a questa categoria di padri-lavoratori di godere, alla pari delle

altre, di quella protezione che l’ordinamento assicura in occasione della genitorialità, anche

adottiva.

Appare discriminatoria l’assenza di tutela che si realizza nel momento in cui, in presenza di una

identica situazione e di un medesimo evento, alcuni soggetti si vedono privati di provvidenze

riconosciute, invece, in capo ad altri che si trovano nelle medesime condizioni.

Rimane comunque riservato al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che

consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela.

Di contro, non viene accolta – nella sentenza n. 285 del 2010 – la denuncia avverso l’art. 70 del

d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui esso, nel fare esclusivo riferimento alle «libere

professioniste», non prevede il diritto del padre libero professionista di percepire, in alternativa alla

madre biologica, l’indennità di maternità.

Il rimettente basa il proprio dubbio di costituzionalità sul presupposto che la disposizione, non

consentendo al padre libero professionista di usufruire, al posto della madre, della indennità di

maternità, non tiene conto del principio secondo cui, in ragione del preminente interesse del

bambino, i genitori devono godere di analoghe tutele in ambito lavorativo e, in particolare, del fatto

che il suddetto beneficio è riconosciuto al padre adottivo, libero professionista, per effetto della

sentenza n. 385 del 2005, e al padre lavoratore subordinato, in applicazione dell’art. 28 del d.lgs. n.

151 del 2001.

Tale questione non tiene conto che le situazioni poste a raffronto sono tra loro differenti, pur

essendo esse accomunate dalla finalità di protezione del minore.

Il legislatore, con il d.lgs. n. 151 del 2001, ha voluto disciplinare i diversi istituti posti a

fondamento della sopra indicata tutela (congedi, riposi, permessi), valorizzando l’uguaglianza tra i

coniugi e tra le varie categorie di lavoratori, nonché tra genitorialità biologica e adottiva, al fine di

apprestare la migliore tutela all’interesse preminente del bambino.

Sul punto assumono rilevanza le norme che riconoscono in condizione di parità, al padre e alla

madre, indipendentemente dall’essere genitori naturali o adottivi, il congedo parentale (artt. 32 e 36

d.lgs. n. 151 del 2001) e i riposi giornalieri (artt. 39, 40 e 45 del d.lgs. n. 151 del 2001).

Ora, l’uguaglianza tra i genitori è riferita a istituti in cui l’interesse del minore riveste carattere

assoluto o, comunque, preminente, e, quindi, rispetto al quale le posizioni del padre e della madre

risultano del tutto fungibili tanto da giustificare identiche discipline. Diversamente, le norme poste

direttamente a protezione della filiazione biologica, oltre ad essere finalizzate alla protezione del

nascituro, hanno come scopo la tutela della salute della madre nel periodo anteriore e successivo al

parto, risultando, quindi, di tutta evidenza che, in tali casi, la posizione di quest’ultima non è

assimilabile a quella del padre.

Sul punto appaiono significativi gli artt. 16 e 28 del d.lgs. n. 151 del 2001.

L’art. 16, nel disciplinare il congedo di maternità, stabilisce che la donna lavoratrice dipendente

non può essere adibita al lavoro nei due mesi antecedenti al parto e nei successivi tre. L’art. 28

prevede poi che «il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo

di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave

infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al

padre». Al suddetto periodo è ricollegato il godimento dell’indennità di maternità pari all’80 per

cento della retribuzione (art. 22 del d.lgs. n. 151 del 2001).

Dalla lettura dell’art. 28 risulta evidente che la posizione del padre naturale dipendente non è,

come invece erroneamente sostenuto dal rimettente, assimilabile a quella della madre, potendo il

primo godere del periodo di astensione dal lavoro e della relativa indennità solo in casi eccezionali e

ciò proprio in ragione della diversa posizione che il padre e la madre rivestono in relazione alla

filiazione biologica.

Nel caso di specie, alla tutela del nascituro si accompagna, appunto, quella della salute della

madre, cui è finalizzato il riconoscimento del congedo obbligatorio e della collegata indennità.

Nella sentenza n. 1 del 1987 si è affermato che il fine perseguito dal legislatore mediante

l’istituto dell’astensione obbligatoria è quello di tutelare la salute della donna nel periodo

immediatamente precedente e successivo al parto, tenendo conto anche delle esigenze relazionali e

affettive del figlio in tale periodo. Pertanto, la Corte ha ritenuto irragionevole non estendere al padre

il diritto all’astensione obbligatoria e, conseguentemente, all’indennità di maternità ad essa

collegata, nei casi in cui la tutela della madre non sia possibile a seguito di morte o di grave

impedimento della stessa, e ciò in quanto in simili ipotesi gli interessi che l’istituto dell’astensione

obbligatoria può tutelare sono solo quelli del minore ed è quindi rispetto a questi che esso deve

rivolgersi in via esclusiva. Tali condizioni non ricorrono evidentemente nel caso di specie.

9. La potestà genitoriale

9.1. La potestà sul figlio naturale riconosciuto

L’inadeguatezza dei rapporti familiari, disciplinati dal codice previgente, alla luce dei parametri

costituzionali è pienamente avvertita nella sentenza n. 71 del 1966, laddove viene denunciato l’art.

260, comma secondo, del Codice civile in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione: la norma

stabilisce che, se un figlio naturale è riconosciuto da entrambi i genitori, i diritti derivanti dalla

patria potestà sono esercitati di regola dal padre.

Per la Corte la questione è infondata, “anche se si deve ancora una volta osservare che la norma

impugnata e le altre che disciplinano i rapporti familiari richiedono ormai una revisione legislativa”.

In ogni caso, motiva la Corte, poiché i genitori naturali non costituiscono una famiglia e tanto

meno una famiglia legittima, l’art. 29 della Costituzione, che riguarda solo la “società naturale

fondata sul matrimonio”, è male invocato.

Quanto poi all’art. 3, sia che lo si guardi da solo sia che lo si legga insieme con l’art. 29, se ne

potrebbe vedere la violazione qualora la norma denunciata apparisse arbitraria. Ma ciò deve

escludersi quando si pensi che la patria potestà non è soltanto un diritto, ma notoriamente un potere

da esercitarsi nell’interesse del figlio e che questo è un motivo per cui, anche nella famiglia

legittima, il Codice ne attribuisce l’esercizio di regola al padre.

Il legislatore ha voluto evitare tra l’altro che il dissenso dei genitori possa compromettere

l’educazione o l’amministrazione dei beni dei figli. La norma, come che se ne giudichi il contenuto,

non è irrazionale perché, considerato pericoloso per i figli l’esercizio collegiale della patria potestà

là dove non esiste neanche l’unità familiare, non si poteva che attribuirlo ad uno dei genitori; salvo

a sostituirlo con l’altro o comunque a prevedere l’intervento del giudice “se l’interesse del figlio lo

esige” (art. 260, comma terzo).

9.2. L’assistenza ai figli minori da parte del genitore detenuto

Il diritto-dovere dell’assistenza ai figli minori riconosciuto ad entrambi i genitori consente alla

Corte di estendere anche al padre una serie di diritti inizialmente previsti solo per la madre

lavoratrice, come nel caso della sentenza n. 215 del 1990, che dichiara l’illegittimità costituzionale

dell’art. 47-ter, primo comma, n. 1, della legge 26 luglio 1975 n. 354, nella parte in cui non prevede

che la detenzione domiciliare, concedibile alla madre di prole di età inferiore a tre anni con lei

convivente, possa essere concessa, nelle stesse condizioni, anche al padre detenuto, qualora la

madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

Motiva la Corte che il trattamento differenziato previsto per la prole infratreenne che, pur avendo

la madre detenuta, è ammessa dalla legge impugnata a godere dell’assistenza della genitrice

mediante l’istituto della detenzione domiciliare, rispetto alla sorte di coloro che, essendo la madre

deceduta o impossibilitata, non possono ricevere pari beneficio riguardo al padre detenuto, non

sembra ispirato a razionalità alcuna.

In effetti, la manifesta incompatibilità di tale situazione nei confronti dell’art. 3 della

Costituzione emerge particolarmente del collegamento con i principî consacrati negli artt. 29, 30 e

31 della Costituzione stessa.

Il riconoscimento della eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, su cui è ordinato il

matrimonio, e il riconoscimento stesso dei diritti della famiglia (art. 29), il dovere e il diritto dei

genitori di mantenere ed educare i figli, e soprattutto, le provvidenze che la legge deve disporre

affinché siano assolti i compiti dei genitori nei casi di loro incapacità (art. 30), la protezione che la

Carta fondamentale accorda all’infanzia, sollecitando la Repubblica a favorire gli istituti necessari a

tale scopo (art. 32), rappresentano un complesso di eminenti valori che, mentre rendono

intollerabile la denunciata discriminazione, fondano a loro volta specifiche incompatibilità.

La previsione dell’art. 47-ter, secondo cui soltanto alla madre viene riconosciuto, mediante la

concessione della detenzione domiciliare, il diritto-dovere di assistere la prole infratreenne, nega

implicitamente al genitore l’esercizio dello stesso diritto e l’adempimento dell’identico dovere per il

caso in cui la madre manchi o sia assolutamente impossibilitata ad espletare quel compito: eppure si

tratta di compiti doverosi che la Costituzione affida, invece, alla pari responsabilità dei genitori.

Altrettanto dicasi per le provvidenze che la Costituzione impone alla legge quando i genitori non

siano in grado di espletare quei compiti. La legge impugnata prevede bensì la provvidenza della

detenzione domiciliare per la madre detenuta, ma non analoga provvidenza per il padre, quando

questi versi nello stesso stato di detenzione e la madre non vi sia, o sia comunque impossibilitata

all’osservanza di quei doveri.

Sennonché, poi, se fino a questo punto la tutela dei diritti e dei doveri dei genitori in condizioni

di parità, nel generale contesto dei diritti della famiglia, lascia intravvedere anche l’interesse

tutt’altro che secondario dei figli minori, con il secondo comma dell’art. 31 la protezione

dell’infanzia emerge in primo piano come valore centrale, e con essa gli istituti necessari a quella

protezione.

L’articolo impugnato è, invece, particolarmente carente proprio sotto tale profilo, perché,

precludendo all’infante la possibilità di ricevere l’assistenza del padre detenuto, quando la madre si

trovi nell’assoluta impossibilità di provvedere, viola direttamente anche la protezione costituzionale

che l’art. 31 accorda all’infanzia, particolarmente in quanto non prevede, in tale caso e a tale scopo,

la detenzione domiciliare anche per il padre.

Principî tutti che, vuoi di per se stessi, vuoi in correlazione a quello di eguaglianza, la Corte ha

già solennemente riaffermato in analoghe situazioni, anche considerando la rilevante influenza che

essi hanno esercitato sui nuovi profili del diritto di famiglia; con essi sono stati conferiti ad entrambi

i genitori quei compiti di mantenimento, educazione ed istruzione di cui parla l’art. 143 del codice

civile, o è stata stabilita per entrambi, in condizioni di parità, la potestà sui figli (art. 316 del codice

civile), o infine affidata a ciascuno di loro, in caso di assenza o assoluto impedimento dell’altro, la

titolarità esclusiva della detta potestà (art. 317 del codice civile).

9.3. La rappresentanza dei figli

L’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi viene, nella sentenza n. 102 del 1967, armonizzata

e giustificata con la patria potestà del marito in occasione dello scrutinio di costituzionalità dei

previgenti artt. 316 e 320 del Codice civile nelle parti con cui attribuiscono al marito l’esercizio

della patria potestà, e rispettivamente la rappresentanza dei figli in tutti gli atti civili nonché

l’amministrazione dei loro beni.

Nell’occasione la Corte ritenne che la patria potestà, cioè quel complesso di poteri e di doveri

tendenti appunto al mantenimento, alla educazione ed alla istruzione della prole, come alla cura dei

relativi interessi patrimoniali, è attribuita in modo congiunto ad entrambi i genitori, così come

risulta evidente dalla detta norma impugnata secondo cui “il figlio è soggetto alla potestà dei

genitori”; sicché ciascuno di essi, quando esercita la potestà, lo fa “iure proprio”. La madre quindi,

(mentre ha sempre il diritto-dovere di esercitare le funzioni inerenti alla patria potestà, sia pure in

conformità delle direttive paterne) quando, nelle ipotesi previste dalla legge, viene autonomamente

chiamata a tale esercizio, assume la pienezza di un potere di cui, peraltro, era già titolare. Con ciò,

pertanto, può escludersi senz’altro che alla madre venga conferita solo una potestà puramente

astratta e priva di pratica efficacia, come è invece sostanzialmente affermato nell’ordinanza di

rinvio.

E se indubbiamente, secondo il sistema del Codice, è riconosciuta una prevalenza della volontà

del padre in ordine alle funzioni in esame, è altresì vero che questa distinzione ripete la sua origine

dalla esigenza, comunemente avvertita in ogni umano consorzio, di apprestare i mezzi per la

formazione di una volontà unitaria riferibile al consorzio stesso. Questa esigenza infatti non può

ritrovarsi anche nella società familiare che, pur essendo una istituzione a base essenzialmente etica,

è tuttavia un organismo destinato a vivere ed operare nell’ambito dei concreti rapporti umani per

l’attuazione dei suoi fini sociali, primo fra i quali, indubbiamente, emerge quello dell’allevamento e

dell’educazione dei figli. È, pertanto, evidente la necessità che la legge garantisca nella famiglia la

formazione di una volontà unitaria che si traduca in un indirizzo unitario ai fini del conseguimento

dello scopo suddetto. Il sistema posto in essere dal legislatore quindi, sia pure risentendo

indubbiamente della tradizione storica che ha visto nel padre il capo della famiglia, non ha fatto che

provvedere alla descritta esigenza fondamentale quando ha affidato l’esercizio della potestà ad uno

solo dei genitori.

Ciò ovviamente non esclude la perfettibilità della soluzione adottata, nel senso di un sempre più

stretto coordinamento della disciplina di questo essenziale settore della vita sociale col precetto

costituzionale; ed anzi deve darsi atto della tendenza che in tale direzione si va attualmente

manifestando nel mondo giuridico.

D’altra parte, la parità morale e giuridica dei coniugi è garantita dall’art. 29 secondo comma

della Costituzione “con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia della unità familiare”. Il che vuol dire

che il legislatore ordinario è appunto autorizzato ad individuare e codificare quelle limitazioni che

siano obiettivamente necessarie ai fini delle fondamentali “esigenze di organizzazione della

famiglia e che, senza creare alcuna inferiorità a carico della moglie, fanno tuttora del marito, per

taluni aspetti, il punto di convergenza della unità familiare e della posizione della famiglia nella vita

sociale” (sentenza n. 64 del 1961).

Sempre nell’ottica del diritto-dovere dei genitori di rappresentare gli interessi del figlio, di

interesse in questa sede è altresì la sentenza n. 438 del 2008, che, muovendo dalle censure rivolte

all’art. 3 della legge della Regione Piemonte 6 novembre 2007, n. 21, secondo cui il trattamento con

sostanze psicotrope su bambini e adolescenti fino a 18 anni può essere praticato solo quando i

genitori e i tutori nominati esprimono un consenso scritto, libero, consapevole, attuale e manifesto,

ha puntualizzato il significato del c.d consenso informato. La Corte specifica anzitutto che detto

consenso, da intendersi «quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario

proposto dal medico», si configura come «vero e proprio diritto della persona e trova fondamento

nei principi espressi» negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione, essendo sintesi di due diritti

fondamentali della persona, quello all’autodeterminazione e quello alla salute: infatti, «se è vero che

ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune

informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere

sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative». Tali informazioni debbono essere le più

esaurienti possibili, «proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente

e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32 della Costituzione». Di

conseguenza, il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di

tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale. Le norme censurate

sono, pertanto, costituzionalmente illegittime, poiché con esse la Regione Piemonte non si è limitata

a fissare una disciplina di dettaglio in ordine alle procedure di rilascio del consenso, ma ha

disciplinato «aspetti di primario rilievo dell’istituto, sempre in assenza di analoga previsione da

parte del legislatore statale».

9.4. L’amministrazione dei beni dei figli

Nella sentenza n. 49 del 1966, la Corte non condivide la denuncia avverso l’art. 340 del Codice

civile per disparità di trattamento tra vedovo e vedova: mentre il vedovo che contrae nuovo

matrimonio conserva il potere di amministrare i beni dei figli minori di primo letto, la vedova,

prima di passare a nuove nozze, deve avvisarne il tribunale, che può anche toglierle

l’amministrazione, dalla quale decade, del resto, se manca quel preavviso.

La norma fa parte di quella complessa disciplina dei rapporti familiari sulla quale è opportuno un

sistematico intervento legislativo. Tuttavia la questione è infondata.

Poiché l’art. 29 della Costituzione garantisce l’eguaglianza dei coniugi come fondamento e

ordine del matrimonio, appare manifesto che l’una è voluta solo in funzione dell’altro; dimodoché

col cessare del vincolo matrimoniale, pur dovendosi rispetto al principio generale d’eguaglianza

(art. 3 della Costituzione), cade la ragione di quella speciale garanzia. Cade non tanto perché non si

possa ipotizzare un’eguaglianza fra i coniugi se uno di loro è mancato, quanto perché, con la

cessazione del matrimonio, vengono meno quei rapporti interconiugali che esigono l’assoluta parità

morale e giuridica dei soggetti: da quel momento, infatti, il rapporto familiare si pone soltanto fra il

coniuge superstite e i figli, la cui posizione inoltre, per la possibilità del genitore di crearsi un’altra

famiglia con un nuovo matrimonio, richiede una particolare tutela legislativa.

Dato ciò, nel sancire che alla madre rimasta vedova, e non al padre rimasto vedovo, possa essere

negata l’amministrazione dei beni, il legislatore è stato mosso indubbiamente dal proposito di

tutelare gli interessi dei figli di primo letto: se, da questo punto di vista e con questa

preoccupazione, ha ritenuto che la madre, per essersi creata una nuova famiglia ed essendo distratta

dalle cure che essa importa, possa dare minore affidamento od avere minori attitudini alla buona

amministrazione di quei beni, la norma, anche perché il suo motivo ispiratore ritorna in altre

disposizioni del Codice, non può dirsi arbitraria. Cosicché non risulta violato nemmeno il principio

generale d’eguaglianza (art. 3 della Costituzione), mentre una dichiarazione di illegittimità

costituzionale assimilerebbe la vedova al vedovo, ma sottrarrebbe al minore quella garanzia che, sia

pure limitatamente alla madre, la norma impugnata oggi gli offre.

9.5. La sottrazione di minori

La Corte, nella sentenza n. 231 del 2001, respinge il dubbio di costituzionalità in riferimento

agli artt. 2, 3, 11 e 31 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 7 della

legge 15 gennaio 1994, n. 64, nella parte in cui non consentono al giudice che ha emesso l’ordine,

previsto dall’art. 12 della convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, di ritorno immediato del

minore illecitamente trasferito o trattenuto, di revocare – anche, eventualmente, d’ufficio – il

suddetto provvedimento qualora successivamente risulti la sussistenza della opposizione del minore

al ritorno che, ai sensi dell’art. 13, secondo comma, della convenzione, avrebbe potuto giustificare

il rifiuto di emissione dell’ordine stesso.

La Corte rileva che alla stregua della disciplina essenziale dettata dalla convenzione dell’Aja del

25 ottobre 1980 appare evidente che l’art. 12 della suddetta Convenzione configura l’ordine di

ritorno come provvedimento urgente, da adottarsi in tempi brevissimi, fondato sulla ragionevole

presunzione che, in caso di illecita sottrazione internazionale di minore, l’interesse del minore

stesso vada innanzitutto tutelato mediante il ripristino immediato della situazione quo ante, salvo

che nell’immediatezza emerga taluna delle circostanze ostative all’emissione dell’ordine indicate

all’art. 13 ovvero la richiesta di rientro sia in contrasto con i principî relativi alla protezione dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Risulta, pertanto, del tutto coerente con la ratio dell’istituto l’esclusione di qualsiasi possibilità di

riesame del provvedimento, d’ufficio o su istanza di parte, in capo al medesimo giudice che lo ha

emesso, riesame che sarebbe del resto difficilmente compatibile con la stessa previsione di

immediata esecutività del decreto, non oggetto di specifica censura da parte del rimettente.

La disciplina dettata dalla convenzione, d’altro canto, non pregiudica in alcun modo i

provvedimenti di merito in materia di affidamento, ma semplicemente postula che tali

provvedimenti vengano adottati – qualora la giurisdizione appartenga alle Autorità dello Stato nel

quale il minore è stato illecitamente trasferito o trattenuto – dopo la cessazione della condotta

illecita, anche, evidentemente, al fine di impedire che l’autore dell’illecito possa trarre vantaggio dal

suo comportamento nel giudizio di merito grazie al consolidarsi della situazione di fatto in tal modo

creata.

Qualsiasi circostanza sopravvenuta, o comunque non conosciuta al momento dell’emissione

dell’ordine, potrà pertanto essere valutata non già in una fase di (inammissibile) riesame del

provvedimento di carattere urgente bensì nella sede di un eventuale giudizio sull’affidamento del

minore.

La normativa denunciata risulta in definitiva finalizzata alla più efficace tutela dei minori,

mediante la previsione di una procedura d’urgenza, aggiuntiva agli ordinari mezzi di tutela previsti

dagli ordinamenti degli Stati contraenti, e non contrasta perciò né con l’art. 2 Cost., posto a presidio

dei diritti fondamentali dell’uomo, né con l’art. 31 Cost., che impone la protezione dell’infanzia e

della gioventù, né con l’art. 11 Cost., evocato dal rimettente in riferimento alla convenzione di New

York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989. Deve d’altra parte escludersi la denunciata

violazione del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., attesa l’inesistenza di qualsiasi

discriminazione tra minori italiani e stranieri, dal momento che la Convenzione si applica,

ricorrendone i presupposti, agli uni ed agli altri con identiche modalità.

10. Diritto penale e tutela della moralità dei rapporti familiari

Nell’ordinanza n. 535 del 1987, la Corte ha modo di riaffermare che la diversa rilevanza dei

reati attinenti ai rapporti familiari al fine della scelta delle modalità di impulso processuale è

materia di politica legislativa e sfugge a censure di legittimità costituzionale sotto l’aspetto della

conformità all’art. 29 Cost.; con ciò dichiarando la manifesta infondatezza della questione di

legittimità costituzionale dell’art. 570 cod.pen. che prevede la procedibilità a querela per il reato di

condotta contraria alla morale della famiglia.

La Corte, nella sentenza n. 518 del 2000, non condivide il dubbio di costituzionalità rivolto

all’art. 564 del codice penale, nella parte in cui punisce – con la reclusione da uno a cinque anni –

chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un affine in linea retta.

Soffermandosi sul “bene giuridico” protetto dalla norma, la Corte esclude innanzitutto che esso

consista nella difesa delle relazioni familiari dalle prevaricazioni di natura sessuale. L’incesto è atto

di persone consenzienti, la violenza (effettiva o presunta) rilevando rispetto ad altri reati, non a

questo. È altresì da escludere che la norma miri a proteggere la fedeltà coniugale.

L’art. 564 del codice penale, invece, offre protezione alla famiglia, come è testimoniato dalla sua

collocazione nel Titolo XI del Libro II del codice penale, “Dei delitti contro la famiglia”. Più

precisamente, in corrispondenza ad un ethos le cui radici si perdono lontano nel tempo, mira a

escludere i rapporti sessuali tra componenti della famiglia diversi dai coniugi: un’esclusione

determinata dall’intento di evitare perturbazioni della vita familiare e di aprire alla più vasta società

la formazione di strutture di natura familiare. Non c’è nessuna ragione per escludere che il

legislatore possa dettare norme per il perseguimento di queste finalità: finalità che non

corrispondono solo a punti di vista morali o religiosi circa la concezione della famiglia. E, allo

stesso modo, non c’è motivo di dubitare che al legislatore spetti altresì il potere – da esercitare

nell’ambito delle sue facoltà di apprezzamento discrezionale, censurabili in sede di giudizio di

legittimità costituzionale nei soli limiti della manifesta arbitrarietà – di valutare l’estensione dei tipi

di relazione familiare, cioè di definire i confini della famiglia nella specie rilevante, in cui il divieto

penalmente sanzionato viene fatto operare. Sotto questo profilo – diversamente da ciò che si

dovrebbe ritenere se la ratio della norma denunciata fosse da rinvenire nella protezione di un

interesse eugenetico – non sembra potersi dubitare che l’inclusione degli affini in linea retta tra i

soggetti i cui rapporti sessuali integrano il reato di incesto rientri nell’ambito delle scelte

discrezionali del legislatore che questa Corte deve rispettare. Le ragioni anzidette conducono così a

ritenere l’infondatezza della questione di costituzionalità sollevata in riferimento all’art. 3 della

Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza delle scelte del legislatore.

Il giudice rimettente trae motivi di dubbio circa la legittimità costituzionale dell’art. 564 del

codice penale dalla previsione del pubblico scandalo per farne dipendere l’irrogazione della pena

prevista. La sanzione penale mirerebbe alla salvaguardia di un’immagine esteriore della famiglia

come valore astratto, al quale le posizioni dei singoli sarebbero finalizzate e, se del caso, sacrificate.

Dalla norma penale, per il modo in cui è strutturata, risulterebbe che lo stesso fatto di incesto, se

confinato nello spazio privato delle relazioni interpersonali, è penalmente irrilevante; se viene

invece a essere conosciuto all’esterno provocando scandalo, solo allora assume rilievo penale. I

singoli colpiti dalla sanzione penale fungerebbero da mezzi; il fine sarebbe la moralità, o la

percezione sociale della moralità della famiglia. Ma – questa è la conclusione del giudice rimettente

– nel sistema costituzionale fondato sulla priorità della persona rispetto agli organismi sociali in cui

si svolge la personalità, sono i secondi a poter essere finalizzati alla prima, non viceversa.

L’opportunità della previsione del pubblico scandalo fu oggetto di una certa divisione di opinioni

e lo stesso Ministro guardasigilli dell’epoca oscillò. Il Progetto preliminare del codice penale lo

menzionava solo come aggravante. Negli argomenti portati a favore della soluzione adottata, non

mancarono certo toni che avvalorano il punto di vista del giudice rimettente, come quando si

osservò, ancora dal Ministro che aprire l’adito a indagini nell’interno delle famiglie sarebbe stato

gravissimo per le “funeste conseguenze” che ne sarebbero derivate, con “danno incalcolabile alla

morale pubblica”. Tuttavia, la scelta alla fine prevalsa si può giustificare semplicemente come un

non irragionevole bilanciamento (non infrequente ove si abbia a che fare con la vita familiare) tra

l’esigenza di repressione dell’illecito e la protezione della tranquillità degli equilibri domestici da

ingerenze intrusive, quali investigazioni della pubblica autorità alla ricerca del reato (ricerca che in

ipotesi potrebbe non avere esito, derivando da informative infondate, pretestuose o persecutorie).

Una volta verificatosi il pubblico scandalo, però, non vi è più ragione per frapporre ostacolo

all’azione repressiva dello Stato. Così ragionando, senza evocare impegnativi dilemmi ideologici, si

finisce per giustificare la scelta, conforme a quella contenuta nel codice Zanardelli, compiuta dal

legislatore penale del 1930 e per escludere la violazione dell’invocato art. 2 della Costituzione.

Viene altresì respinto il dubbio di costituzionalità formulato in riferimento all’art. 13, primo

comma, in relazione all’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo della necessaria proporzione tra il

valore del bene protetto dalla norma penale e il valore della libertà individuale: dubbio prospettato

dal giudice rimettente sulla base della convinzione che la norma denunciata, per avere incorporato

l’elemento del pubblico scandalo, sia posta a presidio di un mero modo di apparire dell’istituto

familiare. Una volta confutata questa premessa, cade la possibilità di ragionare nei termini proposti

di esigenze di proporzionalità rispetto al valore della libertà personale.

Anche rispetto al principio della finalità rieducativa della sanzione penale (art. 27, terzo comma,

della Costituzione), la questione di costituzionalità non è fondata. Il giudice rimettente è scettico

sulla possibilità che, quando siano in campo relazioni affettive e sessuali, la pena detentiva possa di

per sé promuovere la rieducazione del condannato, secondo l’espressione e l’intendimento della

Costituzione.

Sennonché, l’argomento speso dal giudice rimettente, rilevante in sede di politica delle pene,

andrebbe troppo in là se applicato nel giudizio di costituzionalità sulle leggi. Esso assolutizza nella

sola rieducazione la funzione della pena e introduce una valutazione sulla congruità del nesso tra

tipo di reato e tipo di pena che, potendosi applicare per qualunque fattispecie incriminatrice,

potrebbe finire per sconvolgere il sistema sanzionatorio penale. E porterebbe all’assurda

conclusione che, per fatti di possibile rilevanza penale, possa accadere che non vi siano pene

idonee, per irraggiungibilità del risultato al quale, secondo l’art. 27, terzo comma, della

Costituzione, esse devono tendere.

Queste considerazioni portano a concludere che le censure mosse dal giudice rimettente all’art.

564 del codice penale non si basano su vizi rilevabili nel giudizio di legittimità costituzionale ma si

risolvono in critiche di opportunità alla norma, il cui apprezzamento rientra nella discrezionalità del

legislatore.