Facoltà di economia - - Università degli Studi di Cassino · 2.3.3 Il campo di applicazione e le...

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CASSINO Facoltà di economia CORSO DI PIANIFICAZIONE FISCALE DIMPRESA PROF. STEFANO PETRECCA DISPENSE Anno accademico 2010 - 2011

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CASSINO

Facoltà di economia

CORSO DI PIANIFICAZIONE FISCALE D’IMPRESA PROF. STEFANO PETRECCA

DISPENSE

Anno accademico 2010 - 2011

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INDICE

I. CAPITOLO 1.1 LA PIANIFICAZIONE FISCALE pag. 6 1.2 CENNI GENERALI SUL SISTEMA DELLE IMPOSTE SUI REDDITI IN ITALIA pag. 7 1.3 IL REDDITO D’IMPRESA ED IL BILANCIO pag. 11 1.3.1 Nozione di reddito d’impresa pag. 11 1.3.2 La tassazione del reddito d’impresa in base al bilancio pag. 13 1.3.3 Cenni ai principi generali in materia di tassazione del reddito d’impresa pag. 15 1.3.4 Componenti positivi pag. 20 1.3.5 Componenti negativi pag. 24 1.4 L’IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETÀ (IRES) pag. 25 1.4.1 Presupposto, aliquota e soggetti passivi pag. 25 1.4.2 Tassazione delle società versus tassazione dei soci pag. 25 1.4.3 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti residenti pag. 27 1.4.4 CCeennnnii aall ssiisstteemmaa ddii ttaassssaazziioonnee ddeellllee ssoocciieettàà eedd eennttii nnoonn rreessiiddeennttii pag. 27 II. CAPITOLO 2.1 CENNI AL FEDERALISMO FISCALE Pag. 29 2.2 L’IMPOSTA REGIONALE SULLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE (IRAP) pag. 31 2.2.1 Caratteri generali dell’imposta pag. 31 2.2.2 Presupposto, base imponibile ed aliquota pag. 32 2.3 IL SISTEMA DELL’IVA pag. 34 2.3.1 Generalità e caratteri dell’imposta pag. 34 2.3.2 Presupposto soggettivo pag. 36 2.3.3 Il campo di applicazione e le operazioni escluse pag. 37 2.3.4 Regole impositive pag. 40 2.4 LE ALTRE IMPOSTE INDIRETTE NELLA FISCALITÀ D’IMPRESA pag. 44 2.4.1 L’imposta di registro pag. 44 III. CAPITOLO 3.1 LA SCELTA DEL MODELLO OPERATIVO: DITTA INDIVIDUALE, SOCIETÀ DI

PERSONE E SOCIETÀ DI CAPITALI pag. 48

3.1.1 Cenni sulla tassazione delle persone fisiche pag. 48 3.1.2 Le persone fisiche e le attività aziendali pag. 52 3.1.3 La tassazione della ditta individuale pag. 52 3.1.4 La tassazione delle società di persone pag. 54 3.1.5 La tassazione delle società di capitali pag. 55

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3.2 LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAINS PER LE

PERSONE FISICHE pag. 56

3.2.1 Cenni sulla tassazione dei redditi di capitale pag. 56 3.2.2 La tassazione dei dividendi per le persone fisiche pag. 58 3.2.3 La tassazione degli interessi per le persone fisiche pag. 60 3.2.4 LLee pplluussvvaalleennzzee ddeeii ttiittoollii aazziioonnaarrii ee oobbbblliiggaazziioonnaarrii ((ccaappiittaall ggaaiinnss)) pag. 61 IV. CAPITOLO 4.1 LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAIN PER LE

PERSONE GIURIDICHE pag. 64

4.1.1 La tassazione dei dividendi per le persone giuridiche pag. 64 4.1.2 La tassazione degli interessi per le persone giuridiche pag. 66 4.1.3 La tassazione del capital gain per le persone giuridiche pag. 68 V. CAPITOLO 5.1 COME FINANZIARE LE ATTIVITÀ AZIENDALI: CAPITALE SOCIALE E

FINANZIAMENTI pag. 71

5.1.1 Modalità di finanziamento delle attività aziendali pag. 71 5.1.2 La variabile fiscale nella scelta debt/equity pag. 74 5.1.3 Deducibilità fiscale degli interessi passivi pag. 76 VI. CAPITOLO 6.1 LE HOLDING DI FAMIGLIA ED I TRUST pag. 82 6.1.1 Holding di famiglia pag. 82 6.1.2 Il trust pag. 87 6.2 SUCCESSIONE NELL’IMPRESA FAMILIARE pag. 90 6.2.1 L’impresa familiare pag. 90 6.2.2 La successione nell’impresa familiare pag. 92 6.3 LE HOLDING E LE SOCIETA’ OPERATIVE pag. 95 6.3.1 Cenni alla disciplina sulle società di comodo pag. 95 VII. CAPITOLO 7.1 I GRUPPI NAZIONALI E INTERNAZIONALI: IL CONSOLIDATO NAZIONALE ED

IL CONSOLATO MONDIALE pag. 99

7.1.1 Aspetti fiscali del gruppo pag. 99 7.1.2 Il consolidato nazionale pag. 101

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7.1.3 Il consolidato mondiale pag. 105 VIII. CAPITOLO 8.1 LE OPERAZIONI DI FUSIONE, SCISSIONE, TRASFORMAZIONE E

CONFERIMENTO pag. 107

8.1.1 La fusione pag. 107 8.1.2 La scissione pag. 111 8.1.3 La trasformazione di società pag. 114 8.1.4 I conferimenti pag. 118 IX. CAPITOLO 9.1 LE OPERAZIONI STRAORDINARIE TRANSFRONTALIERE CON SPECIFICO

RIFERIMENTO ALLE DIRETTIVE EU pag. 121

9.1.1 Cenni introduttivi pag. 121 9.1.2 Le ffuussiioonnii ee sscciissssiioonnii ttrraannssnnaazziioonnaallii pag. 122 9.1.3 I conferimenti transnazionali pag. 123 9.2 LA LIQUIDAZIONE pag. 125 X. CAPITOLO 10.1 LA STABILE ORGANIZZAZIONE IN ITALIA E ALL’ESTERO pag. 130 10.1.1 La stabile organizzazione italiana pag. 130 10.1.2 La stabile organizzazione all’estero pag. 133 10.1.3 Branch e subsidiary – implicazioni nella scelta pag. 134 XI. CAPITOLO 11. 1 LA PIANIFICAZIONE FISCALE INTERNAZIONALE pag. 136 1.2 LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI CONTRO LA DOPPIA IMPOSIZIONE pag. 137 11.2.1 Rapporti tra norme convenzionali e norme interne pag. 138 11.2.2 Il Modello OCSE pag. 139 11.3 CENNI ALLA FISCALITÀ COMUNITARIA pag. 141 11.3.1 Armonizzazione delle imposte indirette pag. 142 11.3.2 Armonizzazione delle imposte dirette pag. 143 11.4 I RIMEDI NORMATIVI CONTRO L’ABUSO DELLA PIANIFICAZIONE FISCALE

INTERNAZIONALE pag. 145

11.4.1 La disciplina delle controlled foreing companies pag. 145 11.4.1.1 Controlled foreing companies pag. 146 11.4.1.2 Imprese estere collegate pag. 152

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11.4.1.3 Cenni alla disapplicazione delle clausole CFC a seguito di interpello pag. 153 11.4.2 L’esterovestizione delle attività d’impresa pag. 153 11.4.3 Il regime del transfer pricing nei rapporti internazionali pag. 155 11.4.4 L’indeducibilità dei corrispettivi pagati ad imprese localizzate in

paradisi fiscali pag. 156

11.5 LO SCUDO FISCALE pag. 158 11.5.1 Introduzione. pag. 159 11.5.2 Soggetti ammessi. pag. 160 11.5.3 Attività oggetto di emersione. pag. 162 11.5.4 Modalità attuative. pag. 163 11.5.5 Anonimato e riservatezza. pag. 163 11.5.6 Intermediari abilitati pag. 166 11.5.7 I costi. pag. 169 11.5.8 Effetti dello scudo fiscale pag. 169 11.5.9 Conseguenze per i redditi prodotti negli anni successivi al 2008 pag. 172 XII. CAPITOLO 12.1 L’ELUSIONE TRIBUTARIA pag. 174 12.1.1 Il concetto di elusione tributaria pag. 174 12.1.2 La disciplina dell’art. 37-bis del DPR 600/1973 pag. 177 12.1.3 L’interposizione fittizia pag. 185 12.1.4 Norme antielusive speciali pag. 186 12.2 IL DIVIETO DI ABUSO DEL DIRITTO pag. 189 12.2.1 Definizione di “abuso del diritto” pag. 189 12.2.2. Il divieto di abuso del diritto nell’esperienza italiana pag. 190 XIII. CAPITOLO 13.1 L’INTERPELLO ALLA AMMINISTRAZIONE FISCALE pag. 200 13.1.1 Cenni ai criteri di interpretazione della norma tributaria pag. 200 13.1.2 L’interpretazione amministrativa. La consulenza giuridica in generale pag. 202 13.1.3 L’interpello ordinario pag. 204 13.2. L’interpello antielusivo preventivo pag. 210 13.3 L’interpello antielusivo disapplicativo pag. 212 13.4 L’Interpello speciale per gli investitori non residenti pag. 214

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13.5 LL’’iinntteerrppeelllloo ssuull ccoonnssoolliiddaattoo nnaazziioonnaallee ee mmoonnddiiaallee pag. 214 13.6 L’interpello sulle partecipazioni acquisite per il recupero dei crediti

bancari pag. 215

13.7 L’interpello sulle CFC pag. 216 13.8 Ruling internazionale pag. 217 XIV. CAPITOLO 14.1 LA GESTIONE DEGLI ACCERTAMENTI E DELLE VERIFICHE FISCALI pag. 220 14.1.1 I poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria e della Guardia di

finanza pag. 220

14.1.2 I diritti del contribuente soggetto ad accessi, ispezioni e verifiche pag. 223 14.1.3 Il controllo liquidatorio pag. 224 14.1.4 L’accertamento tributario pag. 225 14.1.5 Definizione ed impugnazione dell’avviso di accertamento pag. 231

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CAPITOLO I

1.1 LA PIANIFICAZIONE FISCALE

La componente fiscale, rappresentando in ogni caso un costo connesso all’esercizio di un’attività d’impresa, gioca spesso un ruolo determinante sul piano economico-gestionale. Molto spesso, infatti, attraverso scelte fiscali mirate è possibile conseguire un risparmio d’imposta e, di riflesso, un miglioramento sul piano economico-finanziario. In tale ottica, la pianificazione fiscale può essere definita come ricerca e applicazione di norme, trattati, convenzioni nell’ottica di minimizzare il costo fiscale connesso all’esercizio di un’attività d’impresa. La riduzione della pressione fiscale in questo modo avviene non attraverso l’occultamento di redditi imponibili (il che darebbe luogo ad evasione fiscale), né attraverso il ricorso a costruzioni tecnico-giuridiche completamente avulse da qualsiasi esigenza economica (il che avvicinerebbe le operazioni dell’imprenditore all’elusione fiscale), ma attraverso il rispetto totale delle normative civilistiche e fiscali nazionali ed internazionali. In tale ottica occorre ricordare che esiste una pianificazione fiscale nazionale, volta ad utilizzare al meglio le differenze che attengono alla tassazione delle persone fisiche e delle persone giuridiche, nonché le varie modalità impositive scelte dalla legislazione fiscale nazionale in relazione alle differenti tipologie di reddito ma esiste anche una pianificazione fiscale internazionale, per le aziende di maggiori dimensioni, che tiene conto delle differenze che esistono nelle legislazioni fiscali nazionali degli Stati e va combinata con le esigenze di delocalizzazione dell’attività economica, legate anche alla globalizzazione dei mercati di riferimento. In un contesto internazionale che va caratterizzandosi per una crescente liberalizzazione dei fattori produttivi, la variabile fiscale viene a giocare infatti un ruolo sempre più rilevante nella localizzazione degli investimenti. Il concetto di pianificazione fiscale d’impresa ha una finalità molto simile alla “politica di bilancio” del diritto commerciale. Attraverso il c.d. tax planning, invero, la società programma sulla base del quadro normativo di riferimento, le scelte fiscali più opportune e più convenienti per cercare, quanto più possibile, di ridurre l’incidenza anche solo finanziaria della componente fiscale sul proprio conto economico. Affinché tuttavia possa essere elaborato un programma di pianificazione fiscale risulta importante oltre che una diretta conoscenza della normativa fiscale di riferimento anche un’attenta analisi dello scenario in cui l’impresa si dovrà muovere, tenendo in considerazione in particolare l’attività svolta dall’impresa, le sue caratteristiche

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strutturali ed i suoi obbiettivi nel medio e lungo periodo. A seconda dei diversi scenari di riferimento sarà dunque possibile programmare le soluzioni fiscali che meglio si adattano alla specifica realtà che contraddistingue ogni singola impresa. Ad esempio quando un’impresa è stabilmente redditizia, potrà risultare opportuno anticipare la deduzione di componenti negativi di reddito, ritardando l’imponibilità dei componenti positivi. In questo modo infatti si potrà ottenere un temporaneo vantaggio finanziario, differendo nel tempo il pagamento di una parte delle imposte. Altre volte, invece, quando l’impresa è in perdita o beneficia di agevolazioni di imminente scadenza, la pianificazione fiscale induce al comportamento opposto. Gli strumenti in genere impiegati nella pianificazione fiscale per ottenere un vantaggio economico sono essenzialmente tre: a) spostamento di reddito da una tasca ad un’altra: questo strumento presuppone

una differenza di tax rate a favore della tasca che beneficia del trasferimento. Tale tecnica si può utilizzare spostando il reddito nell’ambito di un gruppo verso società con perdite pregresse o con più favorevoli tax rate a causa sia di localizzazioni agevolate sia di particolari agevolazioni (nazionali e non);

b) spostamento di reddito da un periodo all’altro: un esempio significativo in ambito finanziario riguarda la cessione di titoli che incorporano forti capital gain. E’ certamente possibile vendere i titoli e realizzare immediatamente la plusvalenza, ma si può lavorare con uno schema alternativo. Si può, ad esempio, prendere in prestito dei titoli fortemente correlati a quelli in portafoglio e venderli realizzando cassa. Alla scadenza del prestito si vendono i titoli di proprietà e si chiude la posizione. In questo modo la plusvalenza è stata rinviata con un rischio molto basso;

c) cambio della natura di un reddito: con questa tecnica si può sfruttare il diverso peso impositivo sulle varie fonti. Per esempio è possibile trasformare un capital gain su una partecipazione in un dividendo effettuando una distribuzione prima della cessione oppure interponendo una sub holding nella struttura societaria.

1.2 CENNI GENERALI SUL SISTEMA DELLE IMPOSTE SUI REDDITI IN

ITALIA

Nel nostro ordinamento le imposte sono variamente classificate, secondo criteri e scopi assai diversi. La distinzione basilare è quella tra imposte dirette e indirette. In particolare, sono dirette le imposte che hanno come presupposto il reddito o il patrimonio, indirette tutte le altre. I giuristi spiegano questa terminologia in ragione del fatto che le imposte dirette colpiscono manifestazioni dirette (o immediate) della

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capacità contributiva (reddito, patrimonio, ecc.), mentre le indirette (imposte sui consumi, sugli affari, sui trasferimenti, ecc.) colpiscono espressioni indirette di capacità contributiva.

Le imposte dirette, a sua volta, si distinguono in personali e reali. Nelle imposte personali sul reddito assumono rilievo elementi che concernono la situazione personale o familiare del contribuente (ad esempio: l'ammontare del reddito complessivo, la struttura del nucleo familiare, ecc.). Nelle imposte reali, invece, la tassazione si commisura ad un reddito o elemento patrimoniale, oggettivamente considerati mentre non hanno rilievo elementi di natura personale.

Le due principali imposte italiane (IRPEF ed IRES) sono imposte dirette perché tese a colpire una manifestazione concreta della capacità contributiva del contribuente, ossia, il reddito.

Nel nostro Ordinamento vi sono poi anche alcune imposte indirette quali l’IVA, l’imposta di registro, le accise che colpiscono atti e fatti posti in essere dal contribuente in quanto espressivi di una indiretta capacità contributiva del cittadino.

L’attuale sistema impositivo italiano risulta il frutto di un’evoluzione storica

molto articolata, scandita da importanti riforme1. All’atto di unificazione il sistema italiano era basato su un’imposta diretta

fondamentale e su un’insieme di imposte indirette su cui prevaleva l’imposta di registro. Nell’imposizione diretta l’imposta per eccellenza era l’imposta fondiaria in cui la fonte principale di ricchezza era rappresentata dal possesso della terra. Il presupposto era costituito dal possesso di immobili e la base imponibile era determinata col sistema catastale. Tra le imposte indirette prevaleva invece l’imposta di registro che colpiva i trasferimenti di ricchezza immobiliare e le prestazioni a privati di pubblici servizi (quale quello dell’attestazione della data certa e della conservazione degli atti). Altre forme di imposizione indiretta erano l’imposta di bollo basata sulla realizzazione di un’entrata fiscale con l’imposizione dell’uso della carta e dei valori bollati la cui produzione e vendita erano riservate allo Stato. Infine vi erano le accise che colpivano l’attività di produzione di beni ed i tributi doganali che colpivano le importazioni di beni.

Dopo l’unificazione del Regno d’Italia, nel 1864 fu introdotta un’imposta generale sul reddito delle persone fisiche – imposta di ricchezza mobile – diretta a colpire tutti i redditi non assoggettati all’imposta fondiaria e, quindi, redditi derivanti dall’esercizio dell’impresa agricola, dell’impresa commerciale, i redditi di capitale, di

1 Per una disamina dell’evoluzione storica del sistema impositivo italiano cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2005, 3 e ss; FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 773.

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lavoro autonomo e lavoro subordinato. Tale imposta è rimasta in vigore per più d’un secolo, ossia sino alla riforma dell’imposizione diretta, entrata in vigore il 1° gennaio 1974.

Accanto all’imposta di ricchezza mobile fu poi inserita un’imposta complementare a carattere sussidiario con finalità di integrare, con caratteri di personalità, l’imposta reale. A seguito di un forte dibattito in ordine alla configurabilità o meno di una capacità contributiva autonoma delle società, nel 1954 fu infine anche introdotta un’imposta sulle società che colpiva il patrimonio delle società e il reddito eccedente il 6% del patrimonio. Sul versante delle imposte indirette la principale novità fu data dall’introduzione di un’imposta sul consumo, l’IGE (imposta generale sull’entrata), – poi sostituita dall’IVA – diretta a colpire a cascata tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate da imprenditori e professionisti e che finiva con l’incidere economicamente, attraverso un meccanismo di traslazione economica, sul consumatore finale. Il sistema fiscale italiano è stato oggetto di due importanti riforme attuate negli anni ’70 e negli anni ’90. In particolare, il sistema introdotto con la riforma del 1971-1973 si imperniava, in via primaria e principale, su due imposte dirette a colpire tutti i redditi delle persone fisiche e degli enti (IRPEF e IRPEG); nella logica di tali imposte ciò che acquistava specificatamente rilievo è “l’esistenza di un reddito complessivo a disposizione del soggetto, che pur essendo composto, e non potrebbe essere diversamente, dai vari redditi posseduti, assume una distinta rilevanza sia materiale che concettuale, in ordine agli adempimenti previsti per la determinazione della base imponibile e per l’applicazione dell’imposta”2. Tale sistema tassava con imposte generali l’insieme dei redditi degli individui e degli enti, realizzando la progressività nella tassazione personale e non duplicando tra tassazione dei redditi prodotti dalle società e tassazione dei medesimi redditi presso i soci. Alle due imposte generali si aggiunse poi l’ILOR, abolita a partire dal 1998, che colpiva solo i redditi di natura patrimoniale, ritenuti espressivi di una maggiore capacità contributiva dei cittadini. Successivamente, con la Legge 23 dicembre 1996, n. 662, collegata alla Finanziaria 1997, il Parlamento accordò al Governo una serie di deleghe, la cui realizzazione apportò modifiche di rilievo al sistema tributario italiano. Tra le deleghe concernenti i tributi diretti, sono da ricordare quelle riguardanti:

2 Così POLANO, Attività commerciali e impresa nel diritto tributario, Padova, 1984, 4.

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a) l’istituzione dell’IRAP con contemporanea abolizione dell’ILOR3; b) il riordino dell’IRPEG con l’introduzione di due aliquote (Dual Income Tax)4; c) il credito d’imposta correlato agli utili societari e l’imposta sostitutiva della

maggiorazione di conguaglio5; d) la disciplina fiscale delle operazioni straordinarie6; e) il trattamento fiscale degli enti non commerciali e delle ONLUS7.

Infine, l’ultima importante riforma del sistema tributario italiano è stata attuata nel 2003. Con il DL 7 aprile 2003, n. 80, è stata infatti approvata una delega per la riforma del sistema fiscale statale i cui tratti salienti sono due: i) la riforma della disciplina dei singoli tributi con la progressiva riduzione di quest’ultimi a cinque imposte (due sui redditi, una sul valore aggiunto, una sui servizi, ed infine l'accisa) e (i) la formazione di un «codice tributario». In particolare l’art. 2 del citato DL prevedeva la realizzazione di un unico codice tributario nel quale raccogliere tutte le disposizioni normative relative al sistema fiscale nazionale. Questo codice doveva articolarsi in due parti: la prima, definita parte generale, relativa ai criteri e principi base ai quali si sarebbe dovuto uniformare il sistema tributario; la seconda, definita parte speciale, che doveva raccogliere le disposizioni che disciplinano i singoli tributi.

Sul versante del diritto tributario sostanziale l’art. 3 prevedeva invece l’introduzione di una nuova imposta, l’IRE, in sostituzione dell’IRPEF, caratterizzata da due sole aliquote (23% per i redditi fino a 100.000 euro e 33% per i redditi d’importo superiore). Mentre l’art. 4 dettava i criteri direttivi per la riforma dell’imposizione del reddito delle società, con l’istituzione dell’IRES. La riforma in argomento, tuttavia, ha trovato compimento solo in relazione all’IRES grazie all’emanazione del D.Lgs. 344/2003. A decorrere dal 1° gennaio 2004 l’IRES ha infatti sostituito l’IRPEG. I tratti innovativi dell’IRES sono i seguenti8: a) previsione di una sola aliquota (33% e dal 1°.1.2008 27,5%9); b) tassazione consolidata di gruppo con l’introduzione dei consolidati fiscali,

nazionale e mondiale; c) ulteriori norme di contrasto alla sottocapitalizzazione delle imprese; d) nuovo regime dei dividendi e delle minusvalenze e plusvalenze connesse alla

cessione di partecipazioni;

3 D.Lgs. 446/1997. 4 D.Lgs. 466/1997. 5 D.Lgs. 467/1997. 6 D.Lgs. 358/1997. 7 D.Lgs. 460/1997. 8 Gli aspetti principali dell’IRES verranno esaminati successivamente sub. par. 1.4.1. 9 La Finanziaria 2008, attuata con la L. 244/2007, ha infatti abbassato a decorrere dal 1° gennaio 2008 l’aliquota IRES al 27,5%.

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e) regime di trasparenza per le società di capitali; f) revisione della disciplina del credito per le imposte pagate all’estero e delle CFC; g) regime della partecipation exemption; h) introduzione di una tassazione alternativa per alcune imprese marittime (tonnage

tax). 1.3 IL REDDITO D’IMPRESA ED IL BILANCIO 1.3.1 Nozione di reddito d’impresa Il reddito d’impresa costituisce una categoria reddituale che colpisce sia gli imprenditori individuali sia le società ed enti e, pertanto, interessa sia l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) che l’imposta sul reddito delle società (IRES).L’impianto normativo del TUIR, in riferimento al reddito d’impresa, è stato notevolmente modificato dalla citata riforma del sistema fiscale statale entrata in vigore il 1° gennaio 200410: la disciplina di base riguardante il calcolo del reddito d’impresa, prima racchiusa all’interno dell’IRPEF, è stata, infatti, trasferita all’interno della sezione che regola la determinazione dell’IRES (precisamente nel Capo II relativo alla determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali). Per le persone fisiche, quindi, la disciplina del reddito d’impresa si ottiene combinando la disciplina di base, racchiusa nelle norme relative all’IRES, con alcune norme specifiche pensate per le persone fisiche e per le società di persone.

La normativa sul reddito d’impresa si può idealmente scomporre in due gruppi di norme: uno dedicato all’identificazione della fonte del reddito, ed uno volto a disciplinarne il calcolo. Rispetto alle altre categorie di reddito, la disciplina del reddito d’impresa si contraddistingue per l’analiticità con cui è regolata la determinazione del reddito.

L’individuazione del reddito in esame si base sia su criteri oggettivi, che fanno riferimento alle modalità di svolgimento dell’attività esercitata, contenuti nell’art. 55 del TUIR, sia su criteri di tipo soggettivo, ancorati alla natura giuridica del soggetto passivo, i quali trovano la propria fonte, in particolare, negli artt. 6 e 81 del TUIR.

Infatti, in forza di tali ultimi disposizioni, i redditi delle società di persone, delle società di capitali, nonché degli enti commerciali, da qualunque fonte provengano, sono sempre considerati redditi d’impresa, e come tali, determinati secondo le regole proprie previste per tale categoria.

10 Introdotta dal D. Lgs. 344/2003.

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Da ciò consegue che, in relazione a tali soggetti, non si pone il problema della qualificazione del reddito, che è sempre e comunque reddito d’impresa, indipendentemente dall’attività da essi svolta o dalla fonte dei proventi dai medesimi percepita.

I criteri di tipo oggettivo assumono, invece, rilievo con riferimento ai soggettivi diversi da quelli appena menzionati, vale a dire le persone fisiche, gli enti non societari di tipo non commerciale e le società di fatto. Al riguardo il comma 1 dell’art. 55 del TUIR prevede che sono redditi d’impresa “quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d’impresa”.

Dunque, nel disciplinare le regole di carattere oggettivo necessarie per l’individuazione del reddito d’impresa, l’art. 55 richiama le attività di cui all’art. 2195 c.c., in forza del quale hanno l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano le seguenti attività: a) l’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; b) l’attività intermediaria nella circolazione dei beni; c) l’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; d) l’attività bancaria o assicurativa; e) le altre attività ausiliare delle precedenti.

Tuttavia il richiamo alla disciplina civilistica presenta carattere recettizio, nel senso che la norma del codice civile viene richiamata ai fini fiscali soltanto per indicare una serie di attività la cui commercialità non può essere messa in discussione ed il cui esercizio implica automaticamente la produzione di reddito d’impresa.

Tali attività, in particolare, danno luogo a reddito d’impresa solo se “esercitate in modo abituale”. Il concetto di abitualità, tuttavia, non è definito espressamente dalla legge, essendo quindi rimesso all’attività dell’interprete sulla base della comune esperienza.

Invero, il suo significato assume un ruolo fondamentale nell’ambito dell’imposizione del redditi, in quanto la stessa attività commerciale, a seconda che sia esercitata in modo abituale o non abituale, dà luogo rispettivamente ad un reddito d’impresa oppure ad un reddito diverso (art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR), sottoposto a differente regole di determinazione e d’imputazione al periodo d’imposta.

Peraltro, il concetto di abitualità non può essere considerato come assoluto, ma relativo, dovendosi verificare, di volta in volta, in base all’attività concretamente esercitata dal contribuente, se essa sia caratterizzata dalla regolarità e dalla continuità nel tempo oppure rivesta carattere meramente occasionale.

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In particolare, l’abitualità pur non implicando una durata minima dell’attività, richiede, comunque, che sia volta con un sufficiente grado di stabilità; pertanto l’esistenza di interruzioni non è incompatibile con l’abitualità specie quando si tratta di attività a carattere stagionale o, comunque, caratterizzate dalla presenza di fasi di pausa. Invero, anche un unico affare può dare luogo all’esercizio abituale quando presenti una rilevanza economica non trascurabile ed implichi una pluralità di operazioni funzionali alla sua realizzazione.

Secondo la previsione dell’art. 55, inoltre, non è necessaria l’esclusività dell’esercizio dell’attività commerciale; pertanto, è produttiva di reddito d’impresa anche un’attività commerciale svolta contemporaneamente ad altre di diversa natura (ad esempio, di lavoro dipendente) che, peraltro, possono presentarsi anche marginali da un punto di vista quantitativo, rispetto alla prima.

Nel più volte menzionato art. 55 il legislatore considera infine rilevante nella definizione del reddito d’impresa “l’organizzazione in forma d’impresa”11. Invero tale elemento assume rilevanza sotto un duplice profilo; in negativo, per le attività di cui all’art. 2195 c.c. e per le attività agricole, nel senso che per esse non è necessaria l’organizzazione per essere considerate commerciali, nonché in positivo, per le attività di prestazioni di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c., per le quali tale elemento è invece indispensabile per qualificare il relativo reddito come d’impresa.

Il legislatore tributario invece considera irrilevante ai fini della definizione di reddito d’impresa l’esistenza o meno di uno scopo di lucro. 1.3.2 Tassazione del reddito d’impresa in base al bilancio

Tanto premesso, il punto di partenza per la determinazione del reddito d’impresa da assoggettare a tassazione è rappresentato dal conto economico, che, insieme allo stato patrimoniale e alla nota integrativa, costituisce il bilancio di esercizio di una impresa. Si ricorda che, dal punto di vista puramente civilistico, la redazione del bilancio è prescritta obbligatoriamente soltanto per le società di capitali. Dal punto di vista fiscale, tale obbligo, invece, appare più esteso, in quanto, per poter determinare il reddito, tutte le imprese soggette alla tenuta delle scritture contabili in regime ordinario, comprese le imprese individuali e le società di persone, devono redigere il bilancio. Tale obbligo non sussiste per le imprese ammesse a regimi contabili semplificati, che

11 Quanto al suo concreto significato, la dottrina ha ravvisato l’organizzazione in forma d’impresa in presenza di un’attività che si esteriorizza secondo modalità tipiche dell’attività imprenditoriale, desumibili sia da elementi giuridici, quali l’iscrizione nel registro delle impresa, l’uso della ditta o di altri elementi esteriori tipici dell’impresa, sia da elementi tecnici o di fatto, come l’esistenza di collaboratori, di strutture organizzative di lavoro e simili.

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determinano il reddito utilizzando regole più semplici. Ai sensi dell’art. 83 del TUIR il reddito d’impresa è determinato apportando all’utile o alla perdita risultante dal conto economico, relativo all’esercizio chiuso nel periodo d’imposta, le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri stabiliti nelle disposizioni dello stesso TUIR. Conseguentemente, il punto di partenza è rappresentato dal dato risultante dal conto economico su cui vengono effettuate le suddette variazioni. Essendo fiscalmente rilevante il risultato del conto economico, sono indirettamente rilevanti tutti i componenti, positivi e negativi, che concorrono a determinare quel risultato. Se si tratta di componenti positivi, essi sono tassabili anche se non disciplinati e contemplati nelle norme fiscali sui componenti positivi. I componenti negativi sono parimenti rilevanti anche se non espressamente disciplinati nel TUIR, purché risultino rispettate le norme generali cui la normativa fiscale subordina la deducibilità dei componenti negativi. Le norme fiscali sul reddito d’impresa non mirano dunque a dare una disciplina organica e compiuta di tutti i componenti reddituali, ma mirano a determinare delle “variazioni”. In particolare, in materia di componenti positivi, essendo tassabili tutti i componenti iscritti in bilancio, le norme fiscali non hanno lo scopo di istituire la tassabilità di tali componenti, ma di determinarne le modalità della tassazione. Parallelamente, le norme sui singoli componenti negativi non hanno lo scopo di istituire la deducibilità dei componenti negativi, ma, dopo aver posto le condizioni generali in materia di deducibilità dei costi, di determinare le condizioni particolari, i tempi e le modalità a cui è subordinata la deducibilità degli stessi.

Tenendo conto che le variazioni che le norme fiscali comportano rispetto ai dati di bilancio possono essere in aumento e in diminuzione, abbiamo una tipologia formata da quattro tipi di variazioni: a) variazioni fiscali che aumentano il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico,

in quanto variano in aumento un componente positivo del conto economico; b) variazioni fiscali che aumentano il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico

in quanto eliminano o riducono un componente negativo del conto economico; c) variazioni fiscali che riducono il reddito imponibile rispetto all’utile cicilistico in

quanto eliminano o riducono un componente positivo del conto economico; d) variazioni fiscali che riducono il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico in

quanto consentono il calcolo di costi non presenti, o presenti in misura minore, nel conto economico.

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1.3.3 Cenni ai principi generali in materia di tassazione del reddito d’impresa

Uno dei principi più importanti in materia di determinazione del reddito d’impresa è il criterio della competenza12. Come noto, invero, l’attività d’impresa rappresenta un continuum, che convenzionalmente viene frazionato in esercizi sociali annuali. In diritto tributario, come in diritto civile, l’imputazione temporale dei componenti positivi e negativi di reddito viene attuata applicando il principio di competenza economica, che si contrappone a quello di cassa. In base al principio di cassa, infatti, le componenti di reddito assumono rilievo quando avvengono i pagamenti (per i componenti negativi) e gli incassi (per quelli positivi); in altri termini rileva il momento finanziario. La competenza, invece, attribuisce rilievo il momento in cui si verifica il fatto economico-gestionale: i ricavi sono imputati all’esercizio in cui sono conseguiti in senso giuridico-economico. Il principio di competenza è sancito dall’art. 109, comma 1, del TUIR a norma del quale “i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e nativi, per le quali le precedenti norme della presente Sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza”. L’art. 109 prescrive al riguardo una serie di criteri per individuare in concreto l’esercizio di competenza ed, in particolare: a) per la cessione di beni mobili i corrispettivi si considerano conseguiti alla data di

consegna e di spedizione, con irrilevanza dei passaggi di proprietà anteriori a tale data (è da ricordare infatti che il passaggio delle proprietà segue il criterio del consenso e non quello della consegna);

b) per la cessione di beni immobili o aziende i corrispettivi si considerano conseguiti alla data di stipulazione dell’atto, anche se non accompagnata dalla consegna materiale del bene;

c) per le prestazioni di servizi il ricavo è da imputare nell’esercizio nel quale la prestazione viene ultimata e in caso di prestazioni periodiche (locazione, somministrazione, mutuo) rileva la data di maturazione dei corrispettivi. Il principio di competenza è applicabile a tutti i componenti di reddito, salvo

quelli in relazione ai quali le norma speciali del TUIR prevedano diversi criteri per l’imputazione a periodo. Si tratta, in tal caso, di alcuni componenti reddituali la cui rilevanza risulta agganciata all’effettiva variazione numeraria, per i quali si applica, dunque, il principio di cassa. Tale è il caso degli oneri fiscali e contributivi, che sono

12 Il principio di competenza è sancito dall’art. 109 TUIR a norma del quale “i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza”.

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deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento (art. 99, comma 1, TUIR); dei compensi in misura fissa spettanti agli amministratori di società, che sono deducibili nell’esercizio in cui non corrisposti (art. 95, comma 5) nonché delle erogazioni liberali (art. 100, comma 2).

L’art. 109, comma 1, secondo parte, precisa, inoltre che “tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obbiettivo l’ammontare concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”. Con i requisiti della certezza e della obbiettiva determinabilità il legislatore ha inteso escludere dalla formazione del reddito le componenti semplicemente “stimate”, che invece concorrono a formare il reddito civilistico ove assistite da un sufficiente grado di attendibilità.

In particolare, secondo la dottrina prevalente, la certezza cui fa riferimento il legislatore non va intesa in senso materiale, ma in senso giuridico, dovendosi escludere rilevanza a quelle componenti reddituali meramente presunte o congetturate, pur note nella tecnica contabile ed allo stesso diritto commerciale (ad esempi, gli ammortamenti e gli accantonamenti) le quali, salve le ipotesi espressamente disciplinate, non vengono considerate idonee a determinare il prelievo fiscale sul reddito d’impresa.

L’altra condizione che il comma 1 dell’art. 109 pone ai fini dell’imputazione dei componenti al periodo d’imposta è quella della oggettiva determinabilità dell’ammontare dei ricavi, costi e oneri. Tale condizione attiene quindi al quantum del componente di reddito già certo nell’esistenza e si pone, quindi, come logicamente successiva a quella precedentemente esaminata. Nello specifico questa condizione deve ritenersi sussistente in tutte le ipotesi in cui l’importo quantitativo, inteso nel significato numerario, possa desumersi da elementi oggettivi propri dello specifico componente. La funzione dei tale disposizione è dunque quella di sottrarre al computo del reddito d’impresa componenti quantificati in base a mere congetture soggettive oppure a calcoli probabilistici.

Altro principio importante in tema di determinazione del reddito d’impresa è il principio dell’inerenza. Tale principio attiene al rapporto che deve sussistere tra le varie componenti del reddito e l’esercizio dell’attività d’impresa; esso implica, in particolare, che tutti i componenti di reddito, sia positivi che negativi, si devono inserire nell’esercizio d’impresa e non si devono porre in un semplice rapporto di occasionale riferibilità soggettiva all’impresa. In altri termini, sia i componenti positivi che quelli negativi devono inerire all’esercizio dell’impresa e cioè per acquisire rilevanza ai fini impositivi devono porsi in un rapporto causale con l’esercizio dell’attività imprenditoriale individuata nell’art. 55 del TUIR. Questo rapporto di causa ad effetto tra il componente economico e l’esercizio d’impresa può ritenersi sussistente soltanto quando il costo o il provento, esaminato oggettivamente, si presenti come un elemento

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derivante dall’esercizio dell’impresa e, quindi, come effetto economico (positivo o negativo) della gestione dell’impresa. Quanto, poi, al significato di tale collegamento, esso deve intendersi sia in senso economico, quale riferibilità del fatto di gestione al tipo di attività svolta dall’impresa, sia in senso giuridico, tale che il componente economico dia luogo ad una modifica qualitativa e quantitativa del patrimonio destinato all’esercizio dell’impresa. Pertanto, il componente di reddito potrà ritenersi rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa,a allorquando il suo collegamento con l’attività dell’impresa presenti, al tempo stesso, sia un fondamento economico sia un fondamento giuridico, tale risultare economicamente in relazione all’attività dell’impresa e da costituire, al contempo, una variazione giuridicamente significativa del patrimonio imprenditoriale.

Il principio di inerenza, pur essendo applicabile sia ai componenti negativi, sia a quelli positivi, pone solitamente maggiori problemi applicativi in relazione ai primi, giacché nella pratica è molto frequente la tendenza da parte di contribuenti di dedurre costi che non sono inerenti all'attività dell'impresa ma che riguardano la loro sfera personale13.

Il TUIR, d'altronde, non fornisce criteri precisi per giudicare sull'inerenza di una spesa rispetto all'attività imprenditoriale, la quale deve, quindi, essere valutata caso per caso, trattandosi di un nesso che si atteggia diversamente da impresa ad impresa in funzione di diversi parametri (tipo di attività svolta, sue dimensioni, ecc.).

A tal proposito, può in linea di massima osservarsi che gli orientamenti giurisprudenziali e amministrativi sono progressivamente passati da posizioni fortemente rigoristiche, volte a riconoscere come inerenti solo le spese strettamente necessarie alla produzione dei ricavi, a posizioni più "elastiche", che considerano come inerenti all’impresa tutte le spese che obiettivamente afferiscono allo svolgimento dell’attività produttiva.

Ed è proprio per le difficoltà di stabilire in concreto il nesso causale tra una componente reddituale e l' attività d'impresa che la più recente evoluzione legislativa tende, mediante puntuali disposizioni, a limitare i comportamenti elusivi dei contribuenti. Rientra in tale logica, ad esempio, la disposizione di cui all'art. 108, comma 2, del TUIR, che limita la deducibilità delle spese di rappresentanza.

Esistono, tuttavia, aree problematiche ancora fortemente dibattute in dottrina ed in

13 Numerose sono le sentenze che affrontano il problema della deducibilità dei costi inerenti all' attività dell'impresa, in relazione a diverse fattispecie. Fra le tante cfr: Cass. 30 novembre 2001, n. 13478, in Corro trib., 2002, 597; Cass. 27 .settembre 2000, n. 12813, in Corro trib., 2000, 3174; Casso 19 maggio 2000, n. 6502, In Corr. trib. Banca dati, 2000, 1103; Cass. 29 maggio 2001, n. 7071, in Guida normativa, 2000, n. 95,55; Casso 4 ottobre 2001, n. 13181, in Corr. trib., 2001, 298.

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giurisprudenza circa l'applicazione del principio di inerenza. Uno dei problemi maggiormente affrontati è quello relativo alla possibilità di sindacare l'inerenza di quei costi che, seppur regolarmente documentati, siano quantitativamente sproporzionati rispetto ad altri fattori economici dell'impresa. Tale possibilità è stata spesso riconosciuta dalla Corte di Cassazione, ma si tratta di approccio fortemente discutibile in quanto l'eccessività del costo non può considerarsi prova della mancanza di inerenza, pur potendo costituire un sintomo di anormalità del costo stesso ai fini della verifica della corrispondenza del suo importo documentale con la realtà14.

Altro principio cardine in materia di tassazione del reddito d’impresa è il principio di imputazione. Tale principio è sancito dall’art. 109, comma 3, del TUIR a norma del quale “i ricavi; gli altri proventi di ogni genere e le rimanenze concorrono a formare il reddito anche se non risultano imputati al conto economico”; per altro verso, il comma 4 della medesima disposizione prevede che “le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza”.

A questo punto è bene porre in rilievo i lineamenti del regime fiscale dei beni relativi all’impresa. Qualificare un bene come relativo all’impresa significa postulare, per esso, l’applicazione del sistema di regole relative al reddito d’impresa. In particolare, sono relativi all'impresa quei beni materiali (ad esempio, macchinari, attrezzature, immobili, ecc.) e immateriali (ad esempio, diritti di utilizzazione delle opere dell'ingegno, brevetti, ecc.) stabilmente te collegati con l'esercizio dell' attività imprenditoriale, in quanto idonei a svolgere una loro funzione per il perseguimento dello scopo economico dell' attività svolta dall'imprenditore.

La nozione di beni dell'impresa è caratterizzata, in primo luogo, da un elemento oggettivo, dato dal nesso economico tra il bene stesso e l'esercizio dell'attività, costituito dall'idoneità del bene a costituire mezzo per lo svolgimento dell' attività medesima. In secondo luogo, occorre anche l'elemento soggettivo, costituito dalla volontà dell'imprenditore di inserire il bene nell'impresa con caratteri di stabilità funzionale.

Questi principi risultano anche dalla lettura dell'art. 65 del TUIR, il quale, per stabilire l'afferenza di un bene alla sfera fiscale dell'impresa, distingue a seconda che essa sia esercitata nelle forme della società commerciale (di persone o di capitali) oppure individualmente. In particolare: 14 Su tali problematiche V. ZOPPINI, Sul difetto di inerenza per "antieconomicità manifesta", in Riv. dir. trib., 1992, II, 937; LUPI, A proposito di inerenza ... il fisco può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali?, in Riv. dir. trib., 1992, II, 940; STEVANATO, Davvero sindaca bili i compensi agli amministratori?, in Riv. dir. trib., 1993, I, 1143; VOGLINO, Ancora sulla insindacabilità da parte dell'amministrazione finanziaria della convenienza economica delle operazioni poste in essere dai contribuenti, in Boll. trib., 1993, 1642.

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a) per le società commerciali sono relativi all'impresa tutti i beni ad esse appartenenti ed i redditi da essi derivanti concorrono comunque a formare il reddito d'impresa. Per appartenenza si intende tutta quella serie di situazioni giuridico-soggettive costituite dal diritto di proprietà e dagli altri diritti reali di godimento. Tale regola è prevista dal comma 2 per le società di persone, ma vale anche per i beni appartenenti alle società di capitali, in virtù del disposto di cui all'art. 81;

b) diverso è, invece, il discorso per le imprese individuali (art. 65, comma 1), in quanto in tal caso il legislatore distingue il patrimonio privato dell'imprenditore dalla massa dei beni relativi all'impresa. In particolare, sono sempre relativi all'impresa, indipendentemente dalla volontà dell'imprenditore, le materie prime, le merci, i crediti acquisiti nell'esercizio dell'impresa ed i beni strumentali diversi dagli immobili; questi ultimi, invece, si considerano relativi all'impresa solo se sono indicati come tali nell'inventario redatto e vidimato a norma dell'art. 2217 c.c.;

c) per le società di fatto (art. 65, comma 3) si considerano relativi all'impresa, oltre alle materie prime, alle merci, ai beni strumentali ed ai crediti acquisiti nell'esercizio dell'impresa, i beni iscritti in pubblici registri a nome dei soci ma utilizzati esclusivamente come strumentali per l'esercizio dell'impresa. I beni relativi all'impresa, inoltre, si dividono al loro interno in più categorie, cui

corrispondono diversi regimi fiscali. Per stabilire l'appartenenza del bene ad una categoria piuttosto che ad un' altra non occorre considerare il bene in sé, ma la sua relazione con l'attività dell'impresa. In particolare si distingue tra: a) i beni merce: sono quei beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta

l'attività dell'impresa (materie prime, sussidiarie, prodotti finiti, ecc.). La loro cessione dà origine a ricavi ed a fine esercizio sono oggetto di valutazione come rimanenze finali. Rientrano in tale categoria anche le partecipazioni ed i titoli iscritti in bilancio nell' attivo circolante destinati alla negoziazione15;

b) i beni strumentali: sono quei beni impiegati durevolmente nel ciclo produttivo come mezzo o strumento. In particolare, con riferimento ai beni immobili, il legislatore (art. 43 del TUIR) distingue tra beni strumentali per natura e beni strumentali per destinazione; i primi sono quegli immobili che, per le loro caratteristiche, non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni (ad esempio, una stazione di rifornimento del carburante, un

15 La normativa tributaria assume, quale criterio di distinzione tra immobilizzazioni finanziarie ed attivo circolante, le risultanze del bilancio, a loro volta basate sulla destinazione economica conferita ai titoli. In particolare, sono iscritti tra le immobilizzazioni finanziarie i titoli e gli altri valori mobiliari destinati ad essere utilizzati durevolmente dall'impresa e nell'attivo circolante i titoli e gli altri valori mobiliari detenuti per esigenze di tesoreria o al fine di negoziazione.

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capannone industriale, un teatro), mentre i secondi sono strumentali perché utilizzati come tali dall'imprenditore (ad esempio, un immobile classificato come civile abitazione). I beni strumentali concorrono a formare il reddito d'impresa sul fronte dei costi attraverso le quote di ammortamento e sul fronte dei componenti positivi attraverso le plusvalenze;

c) nei beni meramente patrimoniali, infine, si comprendono tutti i beni che non sono né beni merce, né beni strumentali (ad esempio, un terreno agricolo o un immobile ad uso abitativo). Anche tali immobili, in caso di cessione, possono dar luogo a plusvalenze ma, a differenza dei beni strumentali, non sono oggetto di ammortamento. Il valore di riferimento di un bene relativo all'impresa è comunemente definito

con l'espressione "valore fiscalmente riconosciuto". Esso consiste nel valore assunto dal bene al momento del suo ingresso nel patrimonio dell'impresa e destinato a conservare fino alla sua fuoriuscita, costituendo il parametro per la quantificazione di certi elementi reddituali ad esso collegati (ad esempi, ammortamenti e plusvalenze).

In via di prima approssimazione, il costo fiscalmente riconosciuto è determinato in base ai costi sostenuti per l'acquisto del bene e comprende anche gli oneri accessori di diretta imputazione (art. 110, comma l, lett. b)), cioè le spese strettamente collegate con il suo acquisto, inerenti sia alla fase negoziale (spese notarili, legali, ecc.), sia a quella esecutiva (spese di trasporto, collaudo, ecc.).

Sono esclusi dal costo gli interessi passivi e le spese generali. Tuttavia, per i beni strumentali è prevista una deroga, in quanto gli interessi passivi si comprendono nel costo dei beni in questione, a condizione che siano stati imputati nel bilancio ad incremento del costo. (c.d. patrimonializzazione degli interessi passivi). Inoltre, se gli immobili costituiscono oggetto di produzione o di scambio dell'attività dell'impresa (come si verifica per le imprese edili), la patrimonializzazione degli interessi passivi è automatica e tali oneri si includono sempre nel costo del bene. Il costo dei beni (diversi da quelli che originano ricavi) non comprende, tuttavia, le plusvalenze iscritte in bilancio derivanti da rivalutazioni economiche le quali, pertanto, hanno effetto soltanto ai fini civilistici (art. 110, comma l, letto c)).

1.3.4 Componenti positivi

Una volta esaminate le regole generali in tema di tassazione dell reddito di impresa, occorre analizzare le singole componenti dello stesso, iniziando con quelle attive.

Per ciascuna di esse il legislatore provvede a disciplinare i criteri identificativi, le fattispecie al verificarsi delle quali i proventi concorrono a formare il reddito (che, ad

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esempio, per le plusvalenze coincidono con la cessione a titolo oneroso del bene strumentale o con il conseguimento del risarcimento per la perdita dello stesso) nonché le regole per la loro individuazione. Normalmente, quasi tutte le poste attive del conto economico confluiscono nel reddito d'impresa, ad eccezione di quelle espressamente escluse dalla base imponibile (come i proventi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, ex art. 91 del TUIR). Ciò premesso, i principali componenti positivi di reddito sono: a) i ricavi; b) le plusvalenze; c) le sopravvenienze attive; d) i dividendi; e) gli interessi attivi; f) le rimanenze finali.

In questa sede affronteremo in maniera più dettagliata le prime tre categorie e quindi, i ricavi, le plusvalenze e le sopravvenienze attive.

In particolare, i ricavi sono dati, ai sensi dell' art. 85 del TUIR, dai corrispettivi derivanti da: a) cessione dei beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l'attività

dell'impresa (c.d. beni merce). Qualora si trattasse di un bene strumentale, non si originerebbe un ricavo, ma una plusvalenza;

b) cessione di materie prime e sussidiarie, semilavorati o altri beni mobili destinati al processo produttivo, esclusi quelli strumentali. Qui viene fatto riferimento sia alle materie prime e sussidiarie, ecc. che non sono state impiegate nel processo produttivo, sia a quelle acquistate per essere rivendute, senza la loro preventiva trasformazione o lavorazione;

c) costituiscono ricavi anche i corrispettivi derivanti dalle cessioni di azioni o quote di partecipazione al capitale di società ed enti soggetti all'IRES. Tale norma comprende non solo le azioni, ma anche le partecipazioni al capitale di società non rappresentate da titoli (ad esempio, le quote delle società a responsabilità limitata). In particolare, le partecipazioni oggetto di cessione non necessariamente devono costituire beni al cui scambio è diretta l'attività dell'impresa (quindi si può trattare anche di partecipazioni liberamente inserite nel patrimonio dell'impresa), ma non possono costituire immobilizzazioni finanziarie, giacché in tal caso la loro cessione darebbe origine ad una plusvalenza. Ed invero, la distinzione tra plusvalenza e ricavo assume una fondamentale importanza in quanto, come vedremo in seguito, solo la tassazione della prima, e non anche del secondo, può essere "rateizzata" in più esercizi;

d) costituiscono ricavi anche i corrispettivi derivanti dalle cessioni di strumenti

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finanziari similari alle azioni, ai sensi dell' arto 44, nonché di obbligazioni ed altri titoli diversi dai precedenti (c.d. "titoli non partecipativi"), purché non iscritti tra le immobilizzazioni finanziarie;

e) sono altresì ricavi le indennità conseguite a titolo di risarcimento per la perdita o il danneggiamento dei beni la cui cessione dà origine;

f) rientrano tra i ricavi anche due diversi tipi di contributi: quelli spettanti in base a contratto (lett. g) e quelli in conto esercizio (lett. h). I primi sono generalmente quei contributi di fonte privatistica che vengono erogati a favore delle imprese per il sostenimento di certe spese cui esse vanno incontro (ad esempio, di impianto) o per consentire lo svolgimento di certe attività (ad esempio, di ricerca). I secondi, invece, costituiscono in contributi di fonte pubblicistica, spettanti a norma di legge, generalmente disposti a favore delle imprese soggette a regimi di prezzi politici (ad esempio, le imprese di trasporto urbano) che, diversamente, non sarebbero in grado di coprire gli ordinari costi di produzione. Queste forme di contributo, pertanto, non devono essere confuse con i c.d. contributi in conto capitale che sono finalizzati al rafforzamento dell' apparato produttivo o all' acquisto di beni strumentali, i quali danno origine a sopravvenienze attive. Il comma 2 dell' art. 85 comprende, inoltre, fra i ricavi il valore normale dei beni

di cui al comma 1 assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all'esercizio dell'impresa16.

Per quanto concerne, invece, l’individuazione del periodo d’imposta in cui il ricavo concorrerà a formare il reddito, non assume rilevanza il momento dell’incasso del corrispettivo ma si applica il citato principio di competenza; pertanto, il ricavo si considera conseguito ai fini impositivi alla data di consegna o spedizione del bene mobile od a quella di stipulazione dell’atto del bene immobile, nonché alla data di ultimazione del servizio.

Come sopra accennato, altro componente positivo del reddito d’impresa sono le plusvalenze. Più in dettaglio, ai sensi del comma 1 dell’art. 86 del TUIR, le plusvalenze concorrono a formare il reddito in tre ipotesi:

16 Poiché il reddito d'impresa comprende qualunque incremento del patrimonio iniziale e delle sue componenti, il legislatore, tramite tale disposizione, impedisce che il bene possa fuoriuscire dal patrimonio dell'impresa senza che tale incremento abbia subito la tassazione. In particolare, due sono le ipotesi di espulsione del bene dall'impresa: l'assegnazione del bene al socio, che determina un passaggio di titolarità del bene, nonché la sua destinazione a finalità estranee all'esercizio dell'impresa, che comprende qualsiasi ipotesi di oggettiva sottrazione del bene all'impresa ed al suo regime (ad esempio, cessione gratuita di un bene merce). Ad ogni modo, in entrambi i casi, mancando un corrispettivo in denaro, il ricavo è dato dal valore normale del bene.

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a) cessione a titolo oneroso, dove 1'onerosità si realizza, analogamente ai ricavi, non solo quando il corrispettivo è in denaro, ma anche quando è in natura (ad esempio, nell'ipotesi della permuta);

b) risarcimento per la perdita o il danneggiamento dei beni; c) assegnazione dei beni ai soci o destinazione degli stessi a finalità estranee

all'esercizio dell'impresa. Ai sensi del comma 2 dell' art. 86, la plusvalenza è costituita dalla “differenza fra

il corrispettivo o indennizzo ricevuto” - o il valore normale del bene, se il corrispettivo non è rappresentato da una somma di denaro – “ed il costo non ammortizzato del bene”.

Quanto alle modalità di tassazione delle plusvalenze, l'art. 86, comma 4, prevede che esse concorrano a formare il reddito o per intero, nell' esercizio in cui sono realizzate, da individuare in base al principio di competenza, oppure in quote costanti in cinque esercizi.

Le sopravvenienze attive possono essere definite come quegli eventi che modificano componenti positivi o negativi di reddito che hanno già concorso a formare il reddito in precedenti esercizi; l'evento sopravvenuto può modificare in senso positivo il reddito (sopravvenienze attive) oppure in senso negativo (sopravvenienze passive).

Per quanto in questa sede di interesse l'art. 88, comma 1, del TUIR, elenca tre distinte ipotesi di sopravvenienze attive: a) i ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese, perdite od oneri dedotti o di

passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi (ad esempio, rimborsi di imposte dedotte in precedenti esercizi; recupero di crediti ritenuti inesigibili);

b) i ricavi o altri proventi conseguiti per ammontare superiore a quello che ha concorso a formare il reddito in precedenti esercizi (ad esempio, conseguimento di maggiori corrispettivi a seguito di revisione contrattuale);

c) la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi (ad esempio, riscossione di crediti già considerati inesigibili). Le sopravvenienze appena descritte, costituenti poste rettificative o correttive

della determinazione del reddito effettuata in precedenti esercizi, sono comunemente denominate sopravvenienze attive proprie. Ad esse si contrappongono le c.d. sopravvenienze attive improprie, le quali si accomunano alle prime per il fatto di rappresentare anch'esse variazioni positive della preesistente consistenza patrimoniale dell'impresa dovute ad eventi a carattere straordinario; tuttavia, a differenza di quelle “proprie”, non costituiscono poste rettificative di operazioni contabilizzate in esercizi precedenti risultando, al contrario, del tutto svincolate da qualunque vicenda imponibile intervenuta nei periodi pregressi. Rientrano in tale categoria:

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a) le indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, di danni diversi da quelli considerati alla lett. f) del comma 1 dell'art. 85 (che danno luogo a ricavi) ed alla lettera b) del comma 1 dell'art. 86 (che danno luogo a plusvalenze). In tale fattispecie rientra, ad esempio, l'indennizzo per la perdita di avviamento commerciale o per concorrenza sleale;

b) i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità, esclusi i contributi di cui alle lett. g) e h) del comma 1 dell' art. 85 e quelli per l'acquisto di beni ammortizzabili, indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato. Come si è già detto, i contributi pubblici possono dare origine sia a ricavi, sia a sopravvenienze attive. I primi sono i c.d. contributi in conto esercizio, diretti a coprire gli ordinari costi di gestione dell'impresa, mentre i secondi sono i c.d. contributi in conto capitale, finalizzati al rafforzamento dell' apparato produttivo o all' acquisto dei beni strumentali ed assumono i connotati della straordinarietà ed eccezionalità nella dinamica gestionale dell'impresa.

1.3.5 Componenti negativi Le principali componenti negative del reddito d’impresa sono: a) le minusvalenze che emergono quando il prezzo di vendita di un bene, diverso da

quello che genera ricavi, è inferiore al relativo valore fiscale. Tuttavia non sono deducibili le “minusvalenze iscritte”, derivanti cioè da una mera svalutazione del cespite, basata ad esempio sul diminuito costo di mercato;

b) le sopravvenienze passive, chiamate indifferentemente anche perdite, che si distinguono dalle minusvalenze in quanto non derivano dalla cessione di un bene, bensì dalla sua distruzione fisica o dalla perdita del relativo diritto: Le perdite dunque, ai sensi dell’art. 101, comma 5, del TUIR possono riguardare sia beni che i crediti. Le perdite di beni dell’impresa sono deducibili soltanto quando derivano dai beni c.d. patrimoniale e dai beni strumentali, cioè dagli stessi beni atti a generare plusvalenze, in quanto i beni merce rilevano ai fini delle rimanenze. Le perdite dei beni sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi; in sostanza, il contribuente deve essere in grado di dimostrare, normalmente tramite prove di tipo documentale, l’avvenuta sottrazione, eliminazione o distruzione del bene. Le perdite su crediti sono quelle che derivano dall’inadempienza del debitore, la cui deducibilità, analogamente a quanto previsto per le perdite dei beni, è condizionata alla circostanza che risultino da “elementi certi e precisi”, i quali possono consistere in prove documentali o di tipo presuntivo (si presume, cioè, che al verificarsi di certe condizioni, sulla base dell’id quod plerumque accidit, il credito non è più recuperabile);

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c) l’ammortamento che serve a dedurre fiscalmente il costo dei beni strumentali, suddividendolo in vari esercizi in cui i beni sono utilizzati. I terreni non sono ammortizzabili ed anche per i fabbricati è stata negata, dal 2006, la deduzione degli ammortamenti corrispondenti al valore ideale del terreno su cui insistono. Per armonizzare l’ammortamento fiscale alle regole civilistiche sul deperimento e consumo o sulla durata residua dei cespiti, il legislatore ha previsto l’applicazione di aliquote percentuali, stabilite con regolamento per settore economico e tipo di bene. La base ammortizzabile comprende il costo dei beni, comprensivo degli oneri accessori di diretta imputazione (trasporto, posa in opera). Il costo viene assunto al netto di eventuali contributi di terzi: questi contributi vengono quindi tassati indirettamente mediante una decurtazione del valore fiscalmente riconosciuto dei beni;

d) gli interessi passivi i cui criteri di deducibilità verranno esaminati successivamente;

e) oneri fiscali e contributivi; f) erogazioni a titolo di liberalità; g) le rimanenze iniziali; h) le spese di utilità pluriennale; i) le spese di manutenzione, riparazione,a ammodernamento e trasformazione dei

beni strumentali. 1.4 L’IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETA’ (IRES) 1.4.1 Presupposto, aliquota e soggetti passivi

L’IRES, l’imposta sul reddito delle società, ha sostituito, con la riforma attuata

con il D.Lgs. 344/2003, l’IRPEG, imposta sul reddito delle persone giuridiche. L’art. 72 del TUIR – riprendendo il dettato dell’art. 1 relativo all’IRPEF –

prevede che presupposto dell’IRES consiste nel possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6. L’aliquota d’imposta, proporzionale e non progressiva, era fissata fino al 31.12.2007 al 33% e dal 1°.1.2008 è stata ridotta con la Finanziaria 2008 al 27,5%. Il periodo d'imposta è costituito dall'esercizio o periodo di gestione della società o dell'ente (periodo amministrativo), determinato dalla legge o dall'atto costitutivo. Soltanto se la durata dell’esercizio o del periodo di gestione non è determinata dalla legge o dall’atto costitutivo, o è determinata in due o più anni, il periodo d’imposta è rappresentato dall’anno solare.

L'IRES, come l'IRPEG, colpisce quattro categorie di soggetti: a) le società di

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capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata); b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali; c) gli enti non commerciali; d) le società e gli enti non residenti. In definitiva, sono escluse soltanto le persone fisiche e le società di persone.

Gli elementi specificanti su cui si basa la classificazione delineata nell’art. 73, comma 1, sono essenzialmente due: la commercialità e la residenza. Sul primo si asside la distinzione tra i primi due insieme di soggetti ed il terzi. Sul secondo la distinzione tra i primi tre insiemi e il quarto. A seconda della diversa categoria di appartenenza vi corrispondono, come vedremo tra poco, diversi criteri di determinazione della base imponibile e dell’imposta.

Ai sensi dell’art. 74 del TUIR non sono assoggettati ad IRES alcuni enti pubblici (organi e amministrazioni dello Stato, comuni, comunità montane, province e regioni).

1.4.2 Tassazione delle società versus tassazione dei soci

L’IRES opera in maniera diversa a seconda che consideriamo le società commerciali e gli enti la cui finalità è quella di conseguire un lucro da distribuire ai soci oppure enti che non hanno tale finalità. I soggetti del primo tipo non sono i soggetti ultimi dell’imposizione, perché il reddito da essi prodotto è destinato ai soci; si pone quindi il problema di coordinare la tassazione del reddito delle società con la tassazione dei dividendi del socio, evitando o attenuando la doppia imposizione economica.

I sistema adottabili sono molteplici: a) il sistema della trasparenza, nel quale la società non viene tassata: sono tassati

solo i soci, ai quali imputato il reddito della società (la trasparenza di applica obbligatoriamente alle società di persone e, su opzione, anche in ambito IRES);

b) il sistema del credito d’imposta, con cui viene accredita al socio l’imposta che colpisce i redditi della società (tale sistema operava prima del 2004, mediante accredito al socio che percepiva dividendi dell’IRPEG dovuta dalla Società);

c) il sistema dell’esenzione (o esclusione da imposta) dei dividendi, che nel nostro Ordinamento è adottato nei casi in cui anche il socio è una società;

d) la tassazione ridotta dei redditi del socio, che in Italia è applicata nei confronti di soci persone fisiche. Il nostro sistema fiscale adottava, fino al 31 dicembre 2003, il metodo

dell'imputazione (e del connesso credito d'imposta): i redditi delle società di capitali, tassati presso la società, erano tassati anche come reddito del socio, ma la doppia tassazione (economica) era eliminata perché l'imposta dovuta dalla società era imputata al socio, che aveva diritto ad un credito d'imposta, la cui misura era pari all'imposta

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dovuta dalla società sugli utili distribuiti, In tal modo, per i redditi distribuiti, il prelievo tributario a carico della società operava, dal punto di vista economico, come una anticipazione dell'imposta dovuta dal socio.

La riforma entrata in vigore il l° gennaio 2004 ha soppresso il sistema del credito d'imposta collegato ai dividendi distribuiti da società residenti (il credito d'imposta rimane, invece, per i redditi provenienti dall'estero, con funzione diversa), ed ha introdotto un nuovo sistema, fondato sul seguente criterio: l'imposta dovuta dalla società non è imputata al socio (ma si «cristallizza» e diviene definitiva); i dividendi, se distribuiti a soci aventi forma di società di capitali, non sono tassati (o sono tassati nella misura del solo 5 per cento del loro ammontare), Solo i dividendi che escono dal «circuito intersocietario», e sono distribuiti a soci persone fisiche, subiscono una tassazione ulteriore (ma in misura ridotta, per limitare gli effetti della doppia tassazione). 1.4.3 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti residenti

In linea generale occorre premettere che le società e gli enti residenti vengono

tassati in Italia per i redditi ovunque prodotti in virtù del principio di tassazione del reddito mondiale.

Il reddito delle società e degli enti commerciali residenti è un reddito omogeneo, in quanto non discende dalla somma dei singoli redditi distinti per categorie, ma da qualsiasi fonte provenga è considerato con un presunzione assoluta reddito d’impresa (art. 81 TUIR). Ne deriva che, se una società possiede degli immobili, o dei capitali i relativi redditi non appartengono alla categoria dei redditi fondiari, o di capitale, ma sono componenti del reddito d’impresa. Ad esempio anche il reddito delle società di capitali e degli altri enti commerciali, derivanti dall’esercizio di un’impresa agraria, non costituisce reddito agrario ma reddito d’impresa. Il reddito complessivo verrà quindi determinato secondo i gli stessi criteri analizzati con riguardo al reddito d’impresa.

Il reddito degli enti non commerciali residenti è dato invece dalla somma dei redditi fondiari, di capitale, d’impresa, e diversi ovunque prodotti e a prescindere dalla loro destinazione (art. 143 TUIR). Ne consegue dunque che i ricavi e le perdite che partecipano alla formazione degli enti non commerciali devono essere determinati separatamente per ciascuna categoria reddituale. 1.4.4 Cenni al sistema di tassazione delle società ed enti non residenti

A differenza dei soggetti residenti, il reddito complessivo delle società e degli enti non residenti, siano essi commerciali o non commerciali, è formato solo da redditi

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prodotti nel territorio dello Stato, con esclusone di quelli esenti da imposta o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva (artt. 151 e 153 TUIR). L’art. 23 del TUIR prevede alcuni criteri di collegamento in virtù dei quali un reddito viene considerato prodotto in Italia. Alcuni criteri di collegamento sono basati sulla localizzazione del cespite. Ad esempio si considerano prodotti in Italia: a) i redditi fondiari derivanti da un immobile sito nel territorio italiano; b) i redditi di capitale quando il reddito è erogato da un residente in Italia. Altri criteri sono basati sul luogo di svolgimento dell’attività: a) i redditi di lavoro autonomo si considerano prodotti in Italia quando derivano da

attività prestate nel territorio nazionale; b) i redditi d’impresa si considerano prodotti in Itala quando l’attività è prestata in

Italia attraverso una struttura organizzativa permanente definita fiscalmente “stabile organizzazione. Per gli enti non residenti commerciali con stabile organizzazione nel territorio

dello Stato, fatta eccezione per le società semplici, il reddito complessivo è determinato secondo le disposizioni valevoli per gli enti commerciali residenti sulla base di un apposito conto economico, relativo alla gestione delle stabili organizzazioni e altre attività produttive di redditi imponibili nello Stato (art. 152 TUIR).

Qualora non vi siano stabili organizzazioni i singoli redditi che formano il reddito complessivo sono determinati secondo le disposizioni IRPEF relative alle varie categorie in cui essi si collocano. Questo criterio informa anche la determinazione del reddito complessivo degli enti non residenti non commerciali (art. 154 TUIR).

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CAPITOLO II

2.1 BREVI CENNI AL FEDERALISMO FISCALE Il federalismo fiscale consiste nell’attribuzione di un potere fiscale, differentemente graduato, ad una serie di enti territoriali diversi e subordinati rispetto allo Stato secondo la logica espressa del principio di sussidiarietà; ed invero, in linea di massima, in un assetto federale a ciascun ente territoriale viene il riconosciuto il potere di manovrare le entrate fiscali secondo il fabbisogno di risorse finanziarie in dipendenza dei compiti e dei servizi pubblici che devono essere assicurati da quel medesimo ente alla collettività amministrata. Il tema del federalismo fiscale costituisce da diversi anni uno degli argomenti di maggiore interesse nel dibattito giuridico attuale, in quanto attiene essenzialmente alla configurazione dei rapporti istituzionali tra lo Stato e gli enti territoriali e, dunque, al processo di trasformazione della Costituzione materiale del nostro sistema-paese17.

Il 5 maggio 2009 il Parlamento italiano ha varato il Disegno di Legge n. 42 (c.d. “Legge Calderoli”) che contiene una delega al Governo per l’attuazione del sistema. Federalismo fiscale. Entro ventiquattro mesi dall’entrate in vigore del predetto Disegno di Legge il Governo potrà realizzare la riforma del federalismo fiscale, con l’emanazione di una serie di decreti legislativi, cui è affidato anche il compito di individuare le disposizioni incompatibili con il nuovo assetto fiscale federalista e disporne, quindi, la cancellazione dal nostro ordinamento. L’attuazione in concreto del federalismo verrà quindi verificata da una Commissione bicamerale composta da 15 senatori e altrettanti deputati. Da punto di vista fiscale i punti fondamentali della riforma in esame sono:

a) il riconoscimento della piena autonomia di entrata e di spesa a favore delle regioni, province, comuni e città metropolitane che, tuttavia, saranno tenuti a gestire le risorse finanziarie nel rispetto degli obbiettivi di finanza pubblica nazionale e dei vincoli imposti dall’Unione europea. In particolare lo Stato

17 Cfr., ex multis, ANTONINI, Verso un nuovo federalismo fiscale, Milano, 2005; FREGNI, Riforma del titolo V della Costituzione e federalismo fiscale, in Rass. trib., 2005, 683; MAJOCCHI-MURARO, Verso l’attuazione del federalismo fiscale, in Riv. dir. fin., 2006, 3.

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riconoscerà agli enti locali la copertura dei c.d. “costi standard”. D’ora in poi, infatti, per ogni servizio erogato dagli enti territoriali si individuerà un “costo standard” cui tutti gli enti locali dovranno abituarsi entro un periodo transitorio di 5 anni. Viene così eliminato il meccanismo perverso che finora, facendo riferimento alla spesa storica, premiava con maggiori risorse gli enti che spendevano di più. I costi standard verranno finanziati con tre tributi (ossia quelli propri derivati, istituiti e regolati da legge statale; con le aliquote riservate a valere sulle base imponibili dei tributi statali e con i tributi locali), con compartecipazione alle attività di accertamento in materia di Irpef ed IVA (sono infatti previsti dei premi per gli enti locali che otterranno risultati positivi in termini di maggior gettito sul fronte dell’azione di contrasto dell’evasione e dell’elusione fiscale) e con il fondo perequativo statale (che servirà a sostenere le regioni con minor capacità fiscale per abitanti, garantendo l’integrale copertura delle spese corrispondenti ai fabbisogni standard per i livelli essenziali delle prestazioni);

b) fisco di vantaggio: sono previsti, in armonia con le norme comunitarie, interventi speciali a favore degli enti locali per il loro sviluppo economico e sociale e per sopperire al deficit infrastrutturale dovuto ad una loro non ottimale collocazione geografica. L’entità delle risorse verrà determinata, annualmente, in sede di manovra finanziaria;

c) fondi perequativi locali: saranno due, uno a favore dei Comuni, e l’altro delle province e delle città metropolitane, e verranno inseriti nel bilancio regionale, sebbene finanziati dallo Stato. Andranno a tamponare le esigenze degli enti locali per le attività svolte;

d) tributi nuovi: le regioni potranno istituire tributi nuovi, ma solo per i presupposti non già assoggettati ad imposizione erariale e, attraverso le legge regionale, valutare la modulazione delle accise su benzina, gasolio e gpl. Verranno istituiti anche nuovi tributi locali propri;

e) tasse di scopo: i Comuni potranno introdurre una o più tasse di scopo per finanziare la realizzazione di opere pubbliche e di investimenti pluriennali nei servizi sociali. Lo stesso potranno fare province e città metropolitane per provvedere a specifiche finalità;

f) premi e sanzioni: arriva un sistema che premia le amministrazioni più virtuose, anche dal punto di vista ambientale, e che incentivano l’occupazione e l’imprenditoria femminile. Verranno invece comminate delle sanzioni per le amministrazioni “sprecone” o per quelle che non assicurano ai cittadini residenti i livelli essenziali di prestazioni (sanità, istruzione, assistenza), ovvero non rispettano i criteri di redazione dei bilanci e non comunicano i propri dati ai fini

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del coordinamento della finanza pubblica; g) patrimonio degli enti locali: a tutte le amministrazioni locali sarà garantito, a

costo zero, un proprio patrimonio, commisurato alle dimensioni territoriali, capacità finanziarie e alle singole competenze svolte. I beni immobili saranno assegnati secondo il criterio della territorialità;

h) patto di convergenza: ogni anno, in sede di finanziaria, il Governo dovrà indicare lo stato dell’arte del passaggio ai costi e ai fabbisogni standard e stabilire, eventualmente, azioni correttive per quelle amministrazioni in difficoltà.

2.2 L’IMPOSTA REGIONALE SULLE ATTIVITA’ PRODUTTIVE (IRAP) 2.2.1 Caratteri generali dell’imposta

L'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) trova la sua disciplina fondamentale nel D. Lgs. n. 446/1997, emanato in base alla delega conferita con l'art. 3, commi 143 e ss. della L. 662/1997.

L'IRAP è stata introdotta in vista di una serie di ambiziosi obiettivi: in particolare, da un lato, attribuire alle Regioni un'imposta dal gettito rilevante e in parte modulabile per attuare proprie politiche finanziarie, come strumento del “federalismo fiscale”; dall'altro, sostituire vari prelievi considerati distorsivi (ILOR, ICIAP, contributi al SSN) con un tributo di nuova concezione, che avrebbe dovuto diminuire la pressione tributaria sui redditi d'impresa e quella contributiva sulle retribuzioni, semplificare i doveri dei contribuenti e ridurne la propensione a comportamenti economicamente non corretti, adottati in quanto vantaggiosi rispetto alle imposte sui redditi. Ai sensi dell’art. 1 del citato D.Lgs. 446/1997 l’IRAP: a) è un’imposta locale regionale, applicabile cioè alle attività produttive esercitate nel

territorio di ogni Regione; b) ha carattere reale e quindi colpisce il soggetto passivo in virtù della sua particolare

relazione all’attività oggetto di tassazione; c) è indeducibile dalle imposte sul reddito. La motivazione addotta a sostegno

dell’impossibilità di utilizzare l’importo pagato per abbattere le imposte sul reddito risiede nell’evitare che l’Erario consegua un minor gettito in conseguenza di aumenti di aliquota decisi a livello regionale Particolarmente discussa è la natura erariale o regionale dell’imposta: infatti

nonostante il tributo sia qualificato dalla legge come “imposta regionale”, la Corte costituzionale con sentenza n. 269/2003 ha precisato che la circostanza che l’imposta sia

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stata istituita con legge statale e che alle Regioni siano espressamente attribuite competenze di carattere solo attuativo rende palese che l’imposta non possa considerasi come tributo proprio delle regioni nel senso in cui tale espressione è adoperata nell’art. 119 della Costituzione, essendo indubbio il riferimento della norma costituzionale ai soli tributi istituiti dalle Regioni con proprie leggi. La Legge Finanziaria per il 2008 (art. 1, comma 43) tuttavia ha previsto che l’imposta assuma la natura propria di tributo della regione e che, a decorrere dal 1° gennaio 2009, venga pertanto istituita con legge regionale18.

Ai sensi dell’art. 3 del Decreto IRAP i soggetti passivi dell’imposta possono essere distinti in tre categorie: a) coloro che producono un reddito d’impresa, commerciale o agricola (società di

persone o di capitali, enti commerciali e non commerciali ecc.); b) coloro che esercitano un’arte o una professione, vale a dire un’attività

professionalmente organizzata di lavoro autonomo (non sono colpiti coloro che svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa né coloro che producono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente);

c) gli organi e le amministrazioni dello Stato, le province, i comuni e gli enti non commerciali. Sono esclusi invece dall’IRAP:

a) coloro che producono redditi occasionali di lavoro autonomo o d’impresa; b) gli imprenditori agricoli che producono redditi minimi; c) i fondi di investimento e i fondi pensione; d) i gruppo europei di interesse economico.

2.2.2 Presupposto, base imponibile ed aliquota

L'IRAP é un'imposta di tipo nuovo, perché, a differenza delle tradizionali imposte dirette, non ha come presupposto il reddito o il patrimonio, ma lo svolgimento di un'attività (economica o no), autonomamente organizzata19, per la produzione di beni e servizi; in altre parole, sono presupposti dell'IRAP lo svolgimento, con autonoma organizzazione, di un'attività imprenditoriale, di un'attività artistica o professionale, o

18 Termine prorogato al 1° gennaio 2010 dall’art. 42 del DL 207/2008, convertito dalla L. 14/2009. 19 Questo requisito ha la funzione di escludere l'applicazione dell'imposta, in primo luogo, a chi svolga un'attività confluente in un'organizzazione altrui, in particolare apportando ad un'impresa lavoro (come dipendente o collaboratore) o capitale (come socio o come finanziatore, purché diverso da un'impresa bancaria o finanziaria): sta infatti all'imprenditore impiegare detti apporti nel modo più conveniente, esercitando così il suo “potere organizzativo” sui fattori produttivi, le remunerazioni dei quali sono pertanto indeducibili.

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di un'attività amministrativa. Ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 446/1997 la base imponibile IRAP è data dal

“valore della produzione netta” realizzato nel territorio di ciascuna Regione, che è determinato secondo regole differenziate per i vari tipi di attività e soggetti passivi. In particolare, per le attività d'impresa, il valore della produzione netta è dato dalla differenza tra i proventi ed i costi della gestione “ordinaria” (da inserire nei settori A e B del conto economico ex art. 2425 c.c.), tranne il costo del lavoro; non rilevano invece i componenti positivi e negativi della “gestione finanziaria” (in particolare gli interessi) e della “gestione straordinaria”, in quanto afferenti ai settori C, D ed E del conto economico. Dunque, in tal modo l'IRAP colpisce la parte dell'utile che non deriva da operazioni finanziarie e straordinarie, nonché, in quanto non deducibili (diversamente dalle imposte sui redditi), le retribuzioni dei lavoratori e i proventi dei finanziatori dell'impresa, nei limiti in cui trovino capienza nel valore della produzione netta. Per le attività di lavoro autonomo, si deducono dai corrispettivi i costi diversi dal costo del lavoro e dagli interessi passivi (art. 8, D.Lgs. 446/1997). Per le attività non commerciali, invece, si sommano le remunerazioni per prestazioni di lavoro (c.d. criterio “retributivo”: artt. 10 e 10-bis, D.Lgs 446/1997).

Dal punto di vista economico, dunque l'IRAP ha ad oggetto questa forma di “ricchezza”, al tempo stesso “prodotta” e “da distribuire”, che nel D.Lgs. n. 446/1997 è chiamata “valore della produzione netta”, e risulta, come si è visto, dai proventi della gestione “ordinaria” meno i relativi costi salvo quello del lavoro. Tuttavia, al di là delle ragioni di politica tributaria sopra ricordate (federalismo, semplificazione, non distorsività), appare arduo sul piano del giusto riparto delle spese pubbliche comprendere una tassazione di chi svolge l'attività di impresa o lavoro autonomo su un' entità come il valore aggiunto prodotto, il quale corrisponde ad arricchimenti in parte altrui, cioè dei lavoratori o finanziatori. Non giova a tal fine la proclamazione da parte dell'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 446/1997 (con un'inconsueta cura per le classificazioni teoriche) che l'IRAP ha carattere “reale”. Detta qualificazione appare corretta, risultando la determinazione del tributo insensibile alla situazione del soggetto passivo estranea all' attività “produttiva”, ma l'esplicitare la ratio di colpire una capacità contributiva diversa da quella “personale” non basta ad evitare i dubbi di illegittimità costituzionale. La realità, in altre parole, classifica l'imposta, ma non ne spiega la natura: rimane controverso in quale senso la produzione di valore tramite 1'esercizio di un' attività autonomamente organizzata sia indice di un'attitudine alla contribuzione misurata da detto valore, e la giurisprudenza costituzionale, consolidata nel senso che la scelta fatta al riguardo dal legislatore rientrasse nella discrezionalità lasciatagli dall'art. 53 Costituzione, non sembra riuscita a fare chiarezza su questo punto.

La dottrina maggioritaria infatti dubitava fortemente della legittimità

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costituzionale dell'IRAP, specie per l'irragionevolezza della tassazione in capo al titolare dell' attività su una ricchezza altrui, per la tassabilità anche di soggetti in perdita, per 1'equiparazione tra impresa e lavoro professionale. La Corte costituzionale, con sentenza n. 156/2001, ha respinto le censure sollevate, affermando che sta al legislatore desumere i fatti espressivi di capacità contributiva “da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale”, e la scelta a tal fine del “valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate” non sarebbe irragionevole, né contraria all'art. 53 Costituzione. Secondo la Corte, infatti, il valore aggiunto (sarebbe “comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione», e «la mancata previsione del diritto di rivalsa ... nei confronti di coloro cui pure il valore aggiunto prodotto è, pro quota, riferibile (e cioè i lavoratori ed i finanziatori)” non violerebbe il principio di capacità contributiva, perché, allo stesso modo di un “qualsiasi altro costo (anche di carattere fiscale) gravante sulla produzione, l’onere economico del!' imposta potrà essere ... trasferito sul prezzo dei beni o servizi prodotti, secondo le leggi del mercato, o essere totalmente o parzialmente recuperato attraverso opportune scelte organizzative”.

Infine si rileva che L'IRAP è dovuta per periodi d'imposta, che l'art. 14 determina per rinvio alle imposte sui redditi. L'aliquota ordinaria è del 3,9%. La disciplina degli adempimenti dei contribuenti e di controlli, liquidazione, accertamento e riscossione è modellata su quella delle imposte sui redditi, con limitate possibilità di modifica da parte delle leggi regionali.

2.3 IL SISTEMA DELL’IVA 2.3.1 Generalità e caratteri dell’imposta

L’IVA è stata creata in sede europea ed è stata introdotta nel nostro Ordinamento

con il DPR 26 ottobre 1972, n. 633. Si tratta di un’imposta indiretta che ha come giustificazione costituzionale il consumo, assunto come fatto espressivo di capacità contributiva. Si tratta dell’ unica imposta del sistema fiscale italiano che risponde ad un modello impositivo comune a tutti i paesi dell’Unione Europea. Molte considerazioni di ordine pratico hanno reso indispensabile l’introduzione di tale imposta, tra cui: a) la necessità di adeguare il sistema tributario italiano alla normativa UE: già la

direttiva dell’11 aprile 1967 fissava al 1° gennaio 1970 l’entrata in vigore di un sistema di tassazione indiretta sui consumi trasparente, neutrale ed uguale per tutti gli Stati UE che permettesse attraverso l’applicazione del principio della

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tassazione dei beni e servizi nel paese di destinazione una chiarezza nei rapporti di scambio tra i paesi UE;

b) l’istituzione di un’imposta neutrale sui consumi tale da non danneggiare alcuni tipi di imprese favorendone altre. L’IVA colpisce l’incremento di valore acquisito dal bene nelle singole fasi di

produzione e distribuzione, fino a incidere interamente sul consumatore finale, su cui graverà l’intera imposta. L’IVA, quindi, giunge a colpire il consumo finale mostrandosi neutrale nei passaggi intermedi di beni e servizi tra produttori, commercianti e professionisti. Tali soggetti, invero, attraverso il meccanismo della rivalsa e della detrazione non vengono incisi dal tributo che graverà totalmente sul consumatore finale. In particolare: a) la rivalsa consente al singolo operatore economico di recuperare l’IVA dovuta

all’erario addebitando la stessa imposta al proprio cessionario o committente; b) il diritto alla detrazione (o credito d’imposta) consente al cessionario o

committente di detrarre l’IVA corrisposta ai fornitori per beni e servizi acquistati nell’esercizio di imprese, arti o professioni dall’IVA sulle operazioni attive (cessione di beni e prestazioni di servizi). Per le eventuali eccedenze rimane la possibilità di attivare la procedura di rimborso. Da un punto di vista giuridico il meccanismo dell’IVA determina quattro diverse situazione giuridiche:

a) l’operatore economico che effettua un’operazione imponibile diventa debitore verso lo Stato dell’IVA commisurata ai corrispettivi che gli sono dovuti;

b) lo stesso soggetto diviene contemporaneamente creditore (in via di rivalsa) verso il cessionario o committente;

c) se il cessionario/committente è un soggetto IVA diventa debitore (per via di rivalsa) verso il cedente o prestatore del servizio ma contemporaneamente detrae l’IVA sugli acquisti di beni e sulle prestazioni di servizi dalla propria IVA maturata sulle operazioni attive;

d) se il cessionario/committente è un cliente consumatore finale paga l’IVA al fornitore, non la detrae e la tassazione si compie. Sulla base del meccanismo di funzionamento dell’IVA occorre precisare che:

i. da un punto di vista economico il soggetto passivo dell’imposta – inteso come soggetto effettivamente inciso dal tributo - è il consumatore finale ossia colui che acquistando un bene o un servizio non ha la possibilità di recuperare l’imposta pagata in via di rivalsa all’operatore economico. Il consumatore finale, quindi, è ravvisabile in chiunque non agisca nell’esercizio di imprese, arti o professioni. Tale soggetto, tuttavia, non è giuridicamente il soggetto passivo dell’imposta in quanto non è tenuto ad alcun adempimento e non ha alcun rapporto tributario con

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l’ente impositore; ii. da un punto di vista tecnico o giuridico, invece, sono soggetti passivi d’imposta

gli imprenditori e gli esercenti arti o professioni i quali sono chiamati ad osservare la normativa in materia di IVA pur non rimanendo economicamente incisi dal tributo.

2.3.2 Presupposto soggettivo

Secondo la sesta direttiva, è soggetto passivo IVA chiunque eserciti in modo indipendente e in qualsiasi luogo un’attività di produttore, commerciante, prestatore di servizi, ovvero una professione, nonché chi proceda, anche con una singola operazione, allo sfruttamento di un bene materiale od immateriale per ricavarne introiti di una certa stabilità. Gli enti pubblici sono soggetti passivi d'imposta quando pongono in essere attività economiche di tipo commerciale, non lo sono per le attività che esercitano in quanto pubbliche autorità. La normativa nazionale ha attuato tali previsioni raggruppando i soggetti passivi in due grandi categorie: imprenditori ed esercenti arti o professioni.

Le definizioni legislative delle due categorie di soggetti passivi IVA sono assai prossime alle definizioni che troviamo nella disciplina delle imposte sui redditi.

Secondo l'art. 4 del DPR 633/1972, “per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l'esercizio di attività organizzate in forma di impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell'art. 2195 del codice civile”.

Ai fini Iva, sono considerate in ogni caso imprenditoriali le operazioni effettuate da società ed enti commerciali. In altre parole, sono soggette ad imposta tutte le attività svolte da soggetti che hanno forma giuridica di società commerciale, o da enti che abbiano per oggetto principale od esclusivo l'esercizio di attività commerciali od agricole.

In deroga a questo principio, non sono attività commerciali il possesso e la gestione di immobili ed il possesso di partecipazioni che costituiscono immobilizzazioni.

Invece, per gli enti non commerciali, “si considerano effettuate nell'esercizio di impresa soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell'esercizio di imprese commerciali o agricole”; vi sono però attività considerate sempre commerciali, anche se fatte da enti pubblici (c.d. attività oggettivamente commerciali).

Ponendo a confronto la definizione di imprenditore ai fini Iva e quella di

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imprenditore ai fini delle imposte sui redditi, si notano identità e differenze: a) nelle due definizioni, vi è in comune il rimando alle attività qualificate

commerciali dall'art. 2195 c.c. e l'irrilevanza della “organizzazione in forma di impresa”; perciò, nei due settori, è imprenditore chiunque svolga un'attività commerciale, anche se non organizzata in forma di impresa; come ai fini IRPEF, però, le prestazioni di servizi a terzi, che non rientrano nell'art. 2195 c. c., sono ugualmente attività d'impresa se vi è l'organizzazione in forma d'impresa;

b) nelle due definizioni, vi è in comune il fatto che sono qualificate in modo onnicomprensivo come attività imprenditoriali tutte le attività svolte da società ed enti commerciali;

c) nelle due definizioni, vi è in comune il principio per cui le attività degli enti non commerciali sono da discriminare tra attività di impresa (soggette ad Iva) ed attività non imprenditoriali;

d) solo nella definizione IVA sono compresi gli imprenditori agricoli (mentre la definizione di imprenditore ai fini reddituali coincide con quella di imprenditore commerciale). Anche la definizione di esercizio di arte o professione è simile a quella data ai fini

delle imposte dirette; infatti, ai fini Iva, “per esercizio di arte o professione si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo”. Vi è quindi anche qui identità di significato tra “esercizio di arte e professione” e “attività di lavoro autonomo”. Esercenti arti o professioni possono essere, ai fini Iva, le persone fisiche, le società semplici e le associazioni professionali. Ciò che si richiede è: a) che l'attività sia svolta in modo autonomo (ossia senza il vincolo di subordinazione che caratterizza il lavoro dipendente); b) che non vi siano i connotati dell'imprenditorialità. Coloro che svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa non sono soggetti ad Iva, se non esercitano abitualmente altre attività di lavoro autonomo.

2.3.3 Il campo di applicazione e le operazioni escluse

Perché una operazione economica sia rilevante ai fini dell'IVA, è necessario, da un lato, che essa sia posta in essere da un imprenditore o da un lavoratore autonomo (presupposto soggettivo), e, dall'altro, che rientri nel “campo di applicazione” del tributo (presupposto oggettivo).

L'espressione “campo di applicazione” dell'IVA designa non soltanto l'area delle fattispecie imponibili, ma anche l'area delle operazioni altrimenti rilevanti; e dunque particolarmente importante la distinzione tra operazioni “incluse” ed operazioni “escluse” dal “campo di applicazione” dell'IVA.

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Le operazioni “escluse” sono quelle che non hanno alcun rilievo ai fini dell'applicazione dell'imposta: ciò significa non soltanto che non comportano il sorgere del debito d'imposta, ma anche che non determinano obblighi formali (fatturazione, annotazione, ecc.), che non incidono sul diritto di detrazione, che non rilevano ai fini del calcolo del “volume d'affari”, ecc..

Le operazioni che rientrano nel “campo di applicazione” dell'IVA, a loro volta, si distinguono in: a) operazioni “imponibili”; b) operazioni “non imponibili”; c) operazioni “esenti”.

A ciascuna di queste qualificazioni si collega un peculiare regime giuridico-fiscale.

Le operazioni “imponibili” comportano il sorgere del debito d'imposta e l'applicazione di tutto l'apparato di regole di cui è formato il meccanismo attuativo del tributo.

Le operazioni “non imponibili” e quelle “esenti” non fanno sorgere il debito d'imposta, ma comportano gli stessi adempimenti formali delle operazioni imponibili (devono essere fatturate e registrate, devono essere incluse nel calcolo del “volume d'affari”, ecc.).

L'elemento caratteristico delle operazioni “esenti” risiede nel fatto che esse limitano il diritto di detrazione, a differenza delle operazioni “non imponibili” (esportazioni), che non incidono su tale diritto. Non è qui il caso di elencare dettagliatamente tutte le operazioni esenti. Limitandoci a fornire indicazioni sommarie, noteremo che sono esenti: a) talune operazioni di carattere finanziario (operazioni creditizie, assicurative,

valutarie, relative a valori mobiliari); b) le operazioni relative alla riscossione dei tributi; c) l'esercizio di giochi e scommesse; d) le prestazioni di mandato e di mediazione; e) le operazioni in oro; f) le operazioni immobiliari; g) talune operazioni socialmente rilevanti (cessioni gratuite di beni a determinate

categorie di soggetti; taluni servizi di pubblica utilità; le prestazioni sanitarie; le attività educative e culturali);

h) le cessioni di beni acquistati senza detrazione dell'IVA. Le operazioni imponibili sono definite da uno schema normativo che è composto

da una definizione generale, da un elenco di fattispecie assimilate e da un elenco di esclusioni.

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Nella categoria delle “operazioni imponibili” sono comprese quattro specie di operazioni: a) cessioni di beni (all'interno del territorio nazionale); b) prestazioni di servizi (rese nel territorio dello Stato); c) acquisti intracomunitari; d) importazioni (da paesi extracomunitari).

Esaminiamo, innanzitutto, che cosa si intende per “cessione di beni”. Secondo la definizione legislativa, “costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere”. E da sottolineare che il termine “cessione” comprende non solo il trasferimento della proprietà (o di altro diritto reale) ma anche la costituzione di un diritto reale. Rientrano nella fattispecie in esame non solo i contratti, ma tutti gli atti giuridici che determinano effetti traslativi o costitutivi di diritti reali (si pensi, ad esempio, ai trasferimenti coattivi). Le cessioni imponibili, secondo la definizione riportata, sono quelle a titolo oneroso; ma le cessioni a titolo gratuito non sono sempre escluse da imposta, perché sono imponibili le cessioni gratuite di beni-merce (cioè di beni che l'impresa produce o commercia).

Vi sono poi operazioni che, pur presentando tutti i requisiti delle “cessioni” non sono considerate tali, e quindi sono “escluse” dal campo di applicazione dell’Iva. Tra di esse, sono da ricordare alcune “cessioni” che non si collocano nell’ambito dell'ordinaria attività d'impresa, ma nell'ambito delle attività straordinarie di organizzazione dell'impresa. L'IVA si correla alla gestione ordinaria mentre alle operazioni straordinarie corrisponde l'imposta tipica per la raccolta di capitali (imposta di registro).

Ai sensi dell’art. 3, comma 1, del DPR 633/1972 costituiscono prestazioni di servizi “le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, non fare e di permettere quale ne sia la fonte”.

Condizione essenziale perché le cessioni di beni e le prestazioni di servizi siano considerate imponibili è che siano effettuate nel territorio dello Stato (art. 7), in particolare: le cessioni si considerano effettuate nello Stato se hanno per oggetto beni

immobili o mobili nazionali, comunitari o in regime di temporanea importazione, tutti esistenti nel territorio statale;

le prestazioni, invece, si considerano effettuate nello Stato se sono rese da soggetti domiciliati nello Stato o ivi residenti (purché senza domicilio all’estero) o da stabili organizzazioni in Italia di soggetti domiciliati e residenti all’estero. Infine rientrano nel campo di applicazione dell’IVA le operazioni di importazione

indicate nell’art. 67 del DPR 633/1972 e ai sensi dell’art. 38 del DL 331/1993 gli

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acquisti intracomunitari di beni, ossia gli acquisti a titolo oneroso della proprietà o di altro diritto reale di godimento, spediti o trasportati in Italia da altro Stato membro dal cedente o dall’acquirente per loro conto.

2.3.4 Regole impositive

La base imponibile IVA è costituita, di regola, dall’ammontare complessivo dei

corrispettivi contrattuali dovuti al cedente o al prestatore secondo le condizioni contrattuali. Il valore venale della prestazione costituisce tuttavia una presunzione che può legittimare l’Amministrazione finanziaria a rettificare il corrispettivo dichiarato dalle parti nell’atto.

Sono compresi nel corrispettivo, ai sensi dell’art. 13 del DPR 633/1972 gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente nonché le integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti da altri soggetti.

Non concorrono invece alla formazione della base imponibile: (i) le somme dovute a titolo di interesse moratori o di penalità; (ii) il valore normale dei beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono in conformità alle originarie condizioni contrattuali;

L’IVA si applica con aliquote differenziate in relazione alle varie tipologie di beni e servizi, il che consente di agevolare o penalizzare una certa tipologia di consumi rispetto alle altre. L’art. 16 prevede un’aliquota generale del 20% mentre le aliquote speciali sono previste per categorie merceologiche, nelle Tabelle allegate al Decreto IVA.

L’aliquota applicabile deve essere scelta al momento di effettuazione dell’operazione e, pertanto, in caso di mutamento di aliquote, una stessa fornitura potrà scontare aliquote diverse ove una parte del corrispettivo sia stata pagata o fatturata prima della consegna e, quando quest’ultima interviene, l’aliquota applicabile sia mutata. Le prestazioni accessorie come ad esempio il trasporto o la posa in opera scontano in base all’art. 12 l’aliquota applicabile alla prestazione principale.

Come abbiamo visto, l'effettuazione di una operazione imponibile determina, da un lato, un debito verso il Fisco del soggetto passivo d'imposta; a tale debito si collega il diritto di rivalsa (del soggetto passivo) nei confronti di chi acquista il bene o il servizio. La rivalsa è quindi, innanzi tutto, un credito: un credito del soggetto passivo dell'IVA, nei confronti della controparte contrattuale, che si aggiunge, per effetto di legge, al corrispettivo pattuito. Il credito sorge, in concreto, dall'addebito dell'IVA nella fattura da cui scaturisce il diritto di rivalsa che è composta, perciò, di due elementi: la effettuazione di una operazione imponibile e la emissione della fattura.

Il rapporto di rivalsa è un rapporto tra privati, distinto dal rapporto tributario in

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senso stretto che intercorre tra Fisco e contribuente, ma correlato al rapporto tributario. Si discute se la rivalsa sia un diritto o un obbligo; ma la questione, posta in

termini alternativi, è mal posta, perché nel fenomeno vi è, al tempo stesso, l'una cosa e l'altra. La rivalsa è sia un diritto, sia un obbligo.

Va precisato, però, quale è l'oggetto di tali situazioni soggettive. Il soggetto passivo Iva, quando effettua una operazione imponibile, deve emettere fattura e deve “addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o committente”

L'obbligo ha per oggetto, quindi, non la rivalsa (nel senso di “esercizio del diritto di credito”), ma l'emissione della fattura, con addebito dell'imposta.

Poiché emissione della fattura e addebito dell'IVA in fattura sono elementi della fattispecie costitutiva del credito di rivalsa, si può concludere che il soggetto passivo Iva ha l'obbligo di far sorgere il diritto di rivalsa; ha l'obbligo, in altri termini, di costituirsi creditore.

L'obbligo riguarda, quindi, non l'esercizio del credito di rivalsa ma la nascita di tale credito; esso attiene alla fase costitutiva del diritto, non alle vicende del diritto già sorto.

Nel commercio al minuto non è obbligatoria l'emissione della fattura; in tal caso, il prezzo si intende comprensivo dell'imposta.

All'obbligo di far sorgere il credito di rivalsa corrisponde, dal lato del cessionario del bene o del committente del servizio, il diritto di ricevere la fattura con addebito dell'imposta; tale diritto è in funzione della detrazione da parte del cessionario o committente (la detrazione presuppone il ricevimento della fattura con addebito dell'imposta e l'annotazione della fattura nel registro degli acquisti). Aspetto tipico dell'IVA è il diritto di detrazione attribuito ai soggetti passivi, in misura pari all'imposta che è stata ad essi addebitata in via di rivalsa per gli acquisti di beni e servizi inerenti all'esercizio dell'impresa, dell'arte o della professione.

Tale credito viene denominato, nella nostra legislazione, “diritto di detrazione” (la direttiva usa il termine “deduzione”), in quanto, in sede di liquidazione del debito d'imposta, si detrae, dall'imposta dovuta sulle operazioni attive, il credito verso il Fisco sorto per effetto degli acquisti di beni o servizi.

Per effetto della detrazione, come sappiamo, l'IVA è neutrale per i soggetti passivi del tributo, mentre non lo è per i consumatori finali. La detrazione è dunque un elemento essenziale del meccanismo applicativo dell'imposta.

Oggetto del diritto di detrazione è l'importo “dell'imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione”. Nel caso di importazioni, l'importatore può detrarre l'IVA risultante dalla bolletta doganale; nel caso di acquisto “interno”, il soggetto passivo IVA può detrarre l’imposta che gli è

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stata addebitata nella fattura. La detrazione dell'IVA sugli acquisti richiede che vi sia inerenza: come per la

deduzione dei costi nel calcolo del reddito netto di impresa e di lavoro autonomo, così per la detrazione dell'IVA sugli acquisti occorre che l'acquisto sia “inerente” (o “afferente”) all'attività del soggetto passivo. Valgono, sul concetto di inerenza, le considerazioni fatte al riguardo nel campo delle imposte dirette.

L’inerenza è il rapporto tra l'acquisto di un bene o servizio e lo svolgimento di attività, che danno diritto alla detrazione; se invece l'acquisto si correla ad altre attività (come le operazioni esenti), il diritto alla detrazione è escluso o limitato. Il risvolto del requisito di inerenza è dato dunque dal complesso di regole, che escludono o limitano il diritto di detrazione, in ragione della relazione esistente fra operazioni di acquisto ed operazioni attive non soggette ad imposta. Tra le norme che incidono sul diritto di detrazione, va in primo luogo menzionata la regola della “indetraibilità analitica”, o “specifica” secondo cui “non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta”.

Tale disposizione preclude la detrazione dell'imposta assolta in rivalsa per acquisti diretta mente destinati al compimento di operazioni esenti, non soggette od escluse dal campo di applicazione dell'IVA.

Si ha inoltre una riduzione dell'imposta detraibile nel caso di operazioni passive c.d. promiscue, ossia direttamente riferibili sia ad operazioni attive soggette ad Imposta, sia ad operazioni non soggette. In caso di uso promiscuo è detraibile la quota di imposta riferibile all'impiego imponibile, e non è detraibile la quota riferibile ad un utilizzo non soggetto ad imposta.

Quando non vi sono legami diretti tra acquisti e specifiche operazioni attive che non sono soggette ad imposta, ed il soggetto passivo IVA esercita sia attività che danno diritto, sia attività che non danno diritto alla detrazione, il calcolo della quota di IVA detrai bile è fatto con criterio forfetario (il pro-rata). Il criterio del pro-rata si applica dunque quando non è applicabile la regola della indetraibilità specifica, ossia quando il contribuente ponga in essere operazioni esenti in modo sistematico. La percentuale di detraibilità è pari al risultato della frazione avente al numeratore l'ammontare delle operazioni con diritto a detrazione, effettuate nell'anno, e al denominatore la somma delle operazioni che danno diritto alla detrazione e delle operazioni esenti effettuate nello stesso periodo.

Ad esempio, se le operazioni imponibili sono pari a cinquanta milioni di euro, e quelle esenti sono pari a cento milioni, la percentuale di detrazione è data dal risultato di una frazione che ha come numeratore cinquanta milioni, e come denominatore centocinquanta milioni (l'IVA detraibile è dunque pari ad un terzo dell'imposta relativa

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agli acquisti). Non tutte le esenzioni incidono sul diritto di detrazione, perché le operazioni

esenti che “non formano oggetto dell'attività propria del soggetto passivo o sono accessorie ad operazioni imponibili”, non si riflettono sul diritto di detrazione.

In sostanza, l'impresa che effettua un'operazione esente in via occasionale, o la effettua in aggiunta ad un'operazione imponibile, conserva intatto il diritto di detrazione; in tal modo, la neutralità del tributo non è intaccata da operazioni sporadiche, non significative della attività della impresa. Solo le attività esenti, che costituiscono attività “proprie”, limitano la detrazione. Circa i criteri con cui si individua l'attività propria, vi sono due orientamenti.

Secondo l'orientamento seguito dall'Amministrazione finanziaria, è attività propria quella prevista come oggetto sociale nello Statuto della società. In giurisprudenza, invece, prevale un indirizzo “sostanzialistico”, che dà rilievo all'attività effettivamente svolta dalla società. Vi sono beni e servizi per i quali risulta difficile stabilire la loro inerenza e la loro utilizzazione nell'attività esercitata dal contribuente; perciò, il legislatore esclude la detraibilità dell'Iva relativi ad essi, in quanto presume in modo assoluto la non inerenza.

Limitandoci ad indicare qualche ipotesi di indetraibilità, noteremo che non è detraibile l'imposta concernente aerei, auto, moto e imbarcazioni, né è detraibile l'imposta relativa all'acquisto di carburanti e lubrificanti.

Non è inoltre detrai bile l'IVA relativa a spese di rappresentanza ed a spese per alberghi, ristoranti, alimenti e bevande.

Infine, non è detrai bile l'IVA relativa all'acquisto o alla locazione di fabbricati ad uso abitativo. L'IVA relativa ai telefoni cellulari è deducibile per metà.

Le norme in tema di detraibilità che abbiamo esaminato non sono applicate in via definitiva, ma sulla base di una previsione dell'utilizzo che sarà dato al bene o al servizio acquistato

La detrazione può essere fatta al momento dell'acquisto, senza bisogno di attendere l'effettivo utilizzo; ma, se il bene o servizio è impiegato in modo difforme, la detrazione operata deve essere rettificata, in aumento o in diminuzione, alla stregua del concreto utilizzo che ne viene fatto.

Una particolare disciplina concerne la rettifica della detrazione dell'IVA relativa all'acquisto di beni ammortizza bili. Il legislatore consente la detrazione dell'IVA sui beni ammortizza bili in misura integrale nell'anno di acquisto del bene, ma la detrazione può venir meno, o essere modificata, se negli anni successivi aumenta la percentuale delle operazioni esenti. La percentuale di detraibilità può dunque variare di anno in anno per effetto del mutamento del rapporto tra operazioni esenti e volume di affari. Tale sistema è detto pro-rata temporis: con esso si vuole ovviare

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all'incongruenza che si verifica quando un soggetto, che acquista beni strumentali in un anno in cui non effettua o effettua in misura minima operazioni esenti, fruisca di tali beni in anni in cui aumenta sensibilmente la percentuale di operazioni esenti.

Più precisamente, il legislatore prevede che, di regola, è detraibile l'intero ammontare dell'IVA dovuta sull'acquisto di beni ammortizza bili , ma tale ammontare viene rettificato nei quattro anni successivi a quello di acquisto se si verifica una variazione della percentuale di detrazione superiore a dieci punti.

2.4 LE ALTRE IMPOSTE INDIRETTE NELLA FISCALITÀ D’IMPRESA 2.4.1L’imposta di registro

L’imposta di registro rientra nell’ampia categoria delle “imposte sugli affari”, categoria che comprende: a) le imposte sugli atti e negozi giuridici (ad es., imposte di bollo), da alcuni

qualificate anche come imposte sui trasferimenti (o sulla circolazione della ricchezza);

b) le imposte sugli scambi (come l’imposta sul valore aggiunto); c) le imposte sui trasferimenti (imposta di registro, sulle successioni, imposta

ipotecaria e catastale). L’imposta di registro è solitamente definita (soprattutto nei manuali di scienza

delle finanze) come imposta sui trasferimenti della ricchezza. Si tratta, però, di una imposta che ha un campo di applicazione che va al di là dei trasferimenti, in quanto sono soggetti ad imposta di registro anche atti non traslativi, purché abbiano contenuto economico. L’attuale assetto del tributo è il risultato di una complessa e lunga evoluzione. Esso fa parte delle imposte indirette collegate alla conservazione ed alla pubblicità degli atti; tali imposte possono atteggiarsi sia come tributi commutati (tasse), avendo come presupposto la prestazione di un servizio; sia come imposte, in quanto commisurate alla natura ed al contenuto economico dell’atto.

La disciplina dell’imposta di registro è contenuta nel DPR 131/1986 a cui sono allegate: a) la tariffa, divisa in due parti (la prima enumera gli atti soggetti a registrazione in

termine fisso, la secondo gli atti da registrarsi in caso d’uso); b) la tabella degli atti per i quali non vi è obbligo di registrazione. L’imposta (o tassa) di registro è cosi denominata perché viene applicata quando si ha la registrazione di un alto. Essa è dunque legata alla prestazione di un servizio amministrativo (la registrazione), ed ha natura di tassa quando i dovuta in misura fissa e non ha altra giustificazione che la prestazione del servizio.

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Vi sono, poi, i casi in cui il tributo è rapportato, in ragione proporzionale, al valore dell’atto: ed in tal caso di tributo assume natura di “imposta”, avente la sua ratio nella stipulazione o formazione di un atto a contenuto economico (contratto, sentenza, ecc.), assunta dal legislatore come indice di capacità contributiva. La registrazione di un atto comporta l’applicazione alternativa di una delle due forme di tributo; quando si applica l’imposta, non si applica la tassa e viceversa. La registrazione avviene per effetto di congegni giuridici di natura diversa e, cioè, a seguito di richiesta di registrazione o d’ufficio. Sotto tale aspetto gli atti giuridici vanno distinti in tre categorie: a) atti soggetti a registrazione in termine d’uso; b) atti soggetti a registrazione in caso d’uso; c) atti non soggetti a registrazione. Per gli atti soggetti a registrazione in termine fisso, Ia legge pone, a carico di determinati soggetti (contraenti, notai, ece.), l’obbligo di richiederne Ia registrazione entro un dato termine, presentando l’atto all’ufficio, che liquida l’imposta e ne richiede il pagamento. Per gli atti da registrare in caso d’uso, non vi è alcun obbligo di richiedere la registrazione; ma l’atto non può essere “usato” se non è stata previamente effettuata la registrazione (e pagata l’imposta); in simili casi, la registrazione non è un obbligo, ma un onere. Infine, per gli atti per i quali non vi è né obbligo, né onere di registrazione, é ammessa la registrazione c.d. volontaria, essendo previsto che, per qualsiasi atto scritto, può chiederne la registrazione “chiunque vi abbia interesse”. La legge disciplina minutamente le modalità e i termini della richiesta di registrazione. Qui ci limitiamo a notare: a) che la richiesta di registrazione é fatta su appositi stampati forniti dall’ufficio; b) che la richiesta di registrazione dei contratti verbali e delle operazioni societarie di cui all’art. 4 é fatta presentando all’ufficio apposita denuncia (non essendovi un alto scritto da registrare, viene registrata la denuncia). Di regola, la registrazione avviene a seguito di richiesta di parte, ma, se non é stato osservato l’obbligo di richiederla, la registrazione é fatta d’ufficio. Non esistono norme generali che consentano all’Amministrazione finanziaria o alla Guardia di finanza di porsi alla ricerca degli atti non registrati e di sequestrarli; la repressione dell’evasione é affidata, per questa imposta, ad altri strumenti, che tengono conto, da un lato, degli interessi fiscali, dall’altro del diritto dei cittadini alla riservatezza. La disciplina della registrazione d’ufficio, ispirata a tali principi, si articola nel modo seguente: a) per gli atti dei notai e dei pubblici ufficiali, la registrazione d’ufficio é possibile

solo se si rinvengano, nei registri o repertori, gli estremi di atti non registrati; qui non v’è un problema di riservatezza;

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b) si avverte più intensamente il problema della riservatezza per le scritture private non autenticate: per esse, quando non sia stato osservato l’obbligo della richiesta di registrazione in termine fisso, la registrazione d’ufficio é prevista solo nei seguenti casi: quando le scritture siano depositate presso pubblici uffici; quando l’Amministrazione finanziaria ne sia venuta legittimamente in

possesso in base ad una legge che autorizzi il sequestro; quando l’amministrazione ne abbia avuta visione nel corso di accessi,

ispezioni o verifiche eseguiti ai fini di altri tributi; c) per i contratti verbale e per le operazioni societarie, la registrazione (che in tali

ipotesi prescinde dall’acquisizione di un atto scritto) può essere effettuata d’ufficio sulla base di prove anche presuntive.

Nel lessico legislativo, sono detti “atti da registrarsi in termine fisso” gli atti per i quali vi é l’obbligo di richiederne la registrazione, entro venti giorni dalla redazione. Gli atti da registrarsi in termine fisso vanno distinti in quattro gruppi: a) atti scritti indicati nella tariffa; b) contratti verbali; c) operazioni societarie; d) atti formati all’estero. La definizione generale degli atti da registrarsi in termine fisso è molto ampia, in pratica il numero degli atti da registrare si riduce notevolmente, dato che gli atti della vita commerciale sono da registrare solo in caso d’uso. I contratti verbali soggetti a registrazione sono quelli di locazione o affitto di beni immobili e di trasferimento o affitto di aziende. Inoltre, devono essere registrate le operazioni di organizzazione societaria, quali: l’istituzione o il trasferimento in Italia della sede legale o amministrativa di enti o società estere, ecc. In tali casi, le operazioni societarie assumono rilievo indipendentemente dalla forma dell’atto scritto da cui prendono origine. Come anticipato, vi sono alcuni atti che devono essere registrati solo in caso d’uso. Per “uso” di un atto si intende l’uso a fini amministrativi dell’atto, ossia la sua produzione agli effetti dell’emanazione di un provvedimento amministrativo. L’atto, prima di essere depositato presso una pubblica amministrazione (dello Stato o degli enti pubblici territoriali), dev’essere registrato: esso deve essere quindi depositato con il timbro che attesta la registrazione. Tra gli altri, va notato che devono essere registrati solo in caso d’uso i contratti formati mediante corrispondenza e le scritture private non autenticate relative ad operazioni soggette ad IVA. In sostanza, i contratti dei ricorrenti nella vita economica (atti delle imprese commerciali), conclusi mediante corrispondenza, sono soggetti a registrazione solo in caso d’uso, e poiché è infrequente

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che si verifichi il caso d’uso per un contralto commerciale (ad esempio, cessione di merci), si comprende perchè, in genere, i contratti per i quali sorge l’obbligo di registrazione sono soprattutto quelli estranei alla vita ordinaria delle imprese. Sono invece soggetti a registrazione e ad imposta di registro gli atti organizzativi, come la costituzione delle società e gli aumenti di capitale, le cessioni e i conferimenti di azienda. Dal punto di vista tecnico la registrazione consiste nell’annotazione in apposito registro dell’atto o della denunzia e, in mancanza, della richiesta di registrazione. Per atti pubblici, scritture private autenticate e atti giudiziari, la registrazione va richiesta all’ufficio dell’Agenzia dell’Entrate, nella cui circoscrizione ha sede il pubblico ufficiale, negli altri casi può essere richiesta a qualunque ufficio. Infine, con riferimento ai soggetti passivi del tributo, dobbiamo premettere che non sempre vi è coincidenza tra soggetti obbligati a pagare l’imposta ma non a richiedere la registrazione, e soggetti obbligati a richiede la registrazione ma non a pagare l‘imposta. Infatti: a) per le scritture private non autenticate, sono obbligati a richiederne la registrazione le parti dell’atto che sono anche obbligate a pagare l’imposta; lo stesso vale anche per i contratti verbali e per gli atti formati all’estero; b) per gli atti pubblici e per le scritture private autenticate, l’obbligo di richiedere la registrazione è a carico dei notai (e in generale dei pubblici ufficiali; obbligati a richiedere la registrazione degli atti da essi redatti o ricevuti); per tali atti, i notai (e altri pubblici ufficiali) sono tenuti al pagamento dell’imposta principale (come responsabili d’imposta”), ma non delle imposte complementari e suppletive; c) cancellieri e segretari di organi giurisdizionali sono obbligati a richiedere la registrazione degli atti giudiziari, ma l’imposta i dovuta dalle parti del giudizio; d) gli impiegati dell’Amministrazione finanziaria e gli appartenenti alla Guardia di Finanza sono obbligati a richiedere la registrazione degli atti per i quali i prevista la registrazione d’ufficio; anche in alcuni casi, l’obbligo di pagamento dell’imposta grava sui soggetti che hanno dato vita all’atto.

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CAPITOLO III 3.1. LA SCELTA DEL MODELLO OPERATIVO: DITTA INDIVIDUALE, SOCIETÀ DI

PERSONE E SOCIETÀ DI CAPITALI 3.1.1. Cenni sulla tassazione delle persone fisiche

L’imposta che colpisce i redditi delle persone fisiche è denominata IRPEF. Questa imposta è stata istituita oltre 30 anni fa, in occasione della riforma fiscale varata nei primi anni ’70; in particolare in origine il testo normativo di riferimento era il DPR 597/1973. Oggi invece l’imposta è disciplinata dal TUIR.

Presupposto dell’imposta, in base all’art. 1 del TUIR, è il possesso (inteso non come materiale disponibilità ma come vera e propria titolarità giuridica) di redditi, in denaro o in natura. Il TUIR, tuttavia, non fornisce una definizione generale di reddito, ma individua e definisce sei categorie reddituali, la maggior parte delle quali indicano come reddito i proventi derivanti da fonti produttive.

Il reddito complessivo è costituito dalla somma algebrica dei redditi di ciascuna categoria, determinato in base alle regole proprie di ciascuna di esse. Le categorie individuate dal legislatore sono: a) redditi fondiari: si tratta dei redditi inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel

territorio dello Stato, che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano. I redditi fondiari sono assoggettati a tassazione sulla base delle risultanze catastali: si fa riferimento al reddito medio ordinario ritraibile in condizioni normali da tutti i terreni e da tutti i fabbricati che appartengono alla medesima qualità, categoria, classe;

b) redditi di capitale: sono i redditi derivanti da rapporti aventi per oggetto l’impiego di capitale. Contrariamente a quanto avviene per altre categorie reddituali, la legge non fornisce una definizione generale di redditi di capitale provvedendo invece a elencarli in modo analitico. L’art. 44, tuttavia, ha introdotto anche una fattispecie residuale ai sensi della quel rientrano nell’ambito dei redditi di capitale “gli interessi e gli altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto

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l’impiego del capitale, esclusi i rapporti attraverso cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto” (art. 44 lett. h);

c) redditi di lavoro dipendente: tali sono i redditi che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri (art. 49 del TUIR). In particolare, costituiscono reddito di lavoro dipendente tutte le somme e i valori in genere percepiti nel periodo di imposta, in relazione al rapporto di lavoro;

d) redditi di lavoro autonomo: ai sensi dell’art. 53 TUIR rientrano in tale categoria i redditi “che derivano dall’esercizio di arti e professioni. Per esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diverse da quelle considerate nel capo IV” (redditi d’impresa) “compresa l’esercizio in forma associata di cui alla lettera c) del comma 3 dell’art. 5”. I redditi di lavoro autonomo derivano, quindi, da attività che presentano tre connotati: (i) sono svolte in modo autonomo, e ciò distingue tali redditi da quelli di lavoro dipendente; (ii) sono abituali, carattere che differenzia tali redditi dai redditi diversi, i quali derivano da attività di lavoro autonomo svolta in modo occasionale; (iii) sono di natura non commerciale, a differenza delle attività che danno luogo a redditi d’impresa;

e) redditi d’impresa: sono i redditi che derivano dall’esercizio di un’attività commerciale20;

f) redditi diversi: rientrano in questa categoria una serie di fattispecie tra loro eterogenee, la cui unica comune caratteristica consiste nel non poter essere aggregate, per difetto di uno o più dei relativi presupposti specifici, ad alcun’altra delle categorie di reddito in precedenza esaminate; sono ad esempio redditi diversi: le plusvalenze, tra cui i cd. capital gains e i redditi derivanti da attività non esercitate abitualmente. Ai sensi dell’art. 3 del TUIR l’IRPEF si applica sul reddito complessivo del

contribuente, formato per i residenti da tutti i redditi posseduti al netto degli oneri deducibili indicati nell’art. 10 e per i non residenti soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato.

Le perdite d'impresa e di lavoro autonomo possono essere compensate solo con i redditi della stessa natura nei periodi di imposta successivi, ma non oltre il quinto (c.d. riporto a nuovo delle perdite); stessa regola vale per le perdite delle società di persone e delle associazioni di cui all' art. 5 del TUIR che, tuttavia, sono imputate direttamente ai singoli soci (proporzionalmente alla loro quota di partecipazione agli utili) (art. 8, comma 1).

20La disciplina del reddito d’impresa è trattato nell’ambito del Capitolo I.

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Sono esclusi dall’ammontare imponibile i redditi soggetti a tassazione separata. Si tratta di redditi maturati in archi temporali piuttosto lunghi ma percepiti in un unico periodo d’imposta (ad esempio le indennità percepite per cessazione di rapporto di lavoro dipendente a meno che il contribuente non abbia optato per la tassazione in modo ordinario). Inoltre non concorrono a formare la base imponibile IRPEF (i) i redditi esenti, soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva; (ii) gli assegni periodici destinati al mantenimento dei figli (iii) gli assegni familiari erogati nei casi consentiti dalla legge e (iv) le somme corrisposte a titolo di borsa di studio.

In un tributo a carattere personale come l'IRPEF l'attitudine individuale del soggetto passivo ad assolvere l'imposta è determinata, oltre che dalla somma dei singoli redditi e dall' aliquota dell'imposta, anche dal concorso di altri elementi che contribuiscono alla personalizzazione del prelievo, riferendosi più direttamente alla situazione personale e familiare del contribuente e, quindi, alla sua capacità contributiva.

A tal fine, il legislatore ha previsto due distinti istituti che contribuiscono alla valorizzazione della situazione personale del soggetto passivo: i cosiddetti oneri deducibili dal reddito complessivo e le detrazioni di imposta: i primi possono essere dedotti dal reddito complessivo. Le detrazioni di imposta, invece, riducono direttamente l’imposta lorda.

Dall'applicazione dei due strumenti deriva una diversa misura del vantaggio fiscale per il contribuente. In linea di massima, le deduzioni dal reddito complessivo favoriscono i redditi più alti in quanto l'abbattimento dell'imponibile per una somma pari alla spesa sostenuta si risolve in un beneficio crescente all' aumentare del reddito per effetto della mancata applicazione dell'aliquota progressiva marginale riferita al reddito complessivo. Le detrazioni di imposta, invece, in linea di principio arrecano un beneficio identico per tutti, interferendo direttamente sull'imposta lorda. In considerazione di questi diversi effetti, a partire dal 1993 molti oneri deducibili sono stati trasformati in detrazioni di imposta.

Gli oneri deducibili sono indicati nell’art. 10 del TUIR tra cui ricordiamo gli assegni periodi corrisposti al coniuge, i contributi previdenziali e assistenziali obbligatori per legge, le erogazioni liberali purché effettuate ai soggetti indicati nello stesso art. 10. Tali oneri, come detto, si scomputano dalla base imponibile secondo il principio di cassa.

Una volta individuata la base imponibile, l’imposta lorda viene calcolata applicando al reddito complessivo le aliquote crescenti per scaglioni di reddito. Il reddito viene scomposto in tante parti uguali quanti sono gli scaglioni compresi nel suo ammontare e su ciascuna parte viene applicata l’aliquota via via crescente, secondo il sistema della progressività per scaglioni.

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Aliquote IRPEF in vigore:

fino a 15.000 23% da 15.001 a 28.000 3.450 + 27% sulla parte eccedente 15.000 Da 28.001 a 55.000 6.960 + 38% sulla parte eccedente 28.000 Da 55.001 a 75000 17.220 + 41% sulla parte eccedente 55.000 Oltre 75.000 25.420 + 43% sulla parte eccedente 75.000

Una volta determinata l’imposta lorda si procede al calcolo dell’imposta netta applicando le apposite detrazioni previste e per i carichi di famiglia e per il lavoro prestato. In particolare vi sono le detrazioni per i coniuge a carico (da 690 a 800 euro a secondo del reddito del contribuente); detrazioni per figli a carico (800 euro e 900 euro per figli di età inferiore a 3 anni); detrazioni per redditi di lavoro dipendente e assimilati (ad esempio 1.840 se il reddito non supera gli 8.000 euro); oneri detraibili (interessi passivi e i relativi oneri accessori; spese per la frequenza di corsi di scuola secondaria o universitaria; spese sostenute per interventi di recupero edilizio)21. Una volta determinata l’imposta netta, si detrae l’importo dei crediti d’imposta spettanti al contribuente (ad esempio i crediti d’imposta per le imposte pagate all’estero; il credito d’imposta per le nuove iniziative produttive; il credito d’imposta per le nuove assunzioni; i crediti d’imposta per gli imprenditori che, nei periodi d’imposta 2000-2006 hanno effettuato nuovi investimenti in aree svantaggiate) e le ritenute d’acconto effettuate a suo carico dai sostituti d’imposta.

L’imposta viene liquidata dal contribuente in sede di dichiarazione mediante il sistema della cd. autotassazione. E’, cioè, lo stesso contribuente che provvede, nei termini stabiliti dalla legge, a determinare l’imposta e a versarla, mediante qualsiasi banca o ufficio postale. In particolare il contribuente, per il conteggio definitivo dell’imposta da versare all’erario (c.d. saldo), deve sottrarre dalla somma dovuta gli acconti d’imposta versati. Tali acconti sono dovuti per il periodo d’imposta in corso e sono pari ad una percentuale dell’imposta relativa all’anno precedente, quale risulta dalla dichiarazione dei redditi. L’acconto d’imposta è obbligatorio per coloro che hanno versato l’anno precedente un’imposta superiore a 51,65 euro: esso deve essere pari al 99% della somma versata l’anno precedente e va corrisposta in due rate, a meno che la somma da versare alla scadenza della prima rata sia inferiore a 103 euro. La prima rata è pari al 40% dell’intero acconto e va corrisposta entro il 16 giugno; la seconda rata

21 La documentazione relativa agli oneri deducibili e alle detrazioni di imposta non deve essere più allegata alla dichiarazione dei redditi, ma conservata per essere esibita in un'eventuale sede di controllo da parte dell'Amministrazione finanziaria; ciò dipende anche dalla previsione dell'invio telematico delle dichiarazioni che, per definizione, non consente l'inoltro di documenti cartacei.

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(60%) va versata tra il 1° ed il 30 novembre. 3.1.2. Le persone fisiche e le attività aziendali

Come abbiamo visto la strategia d’impresa consiste nella ricerca e

nell’acquisizione degli strumenti necessari per conseguire vantaggi realmente competitivi. Essa mira alla risoluzione di problemi critici legati alla missione aziendale, mediante l’identificazione, la progettazione e l’attuazione di cambiamenti di alto profilo in ambito strutturale ed operativo, in modo da ottenere significativi miglioramenti in termini di crescita del reddito, efficienza del funzionamento e gestione dei mezzi aziendali.

Tutto questo implica una visione d’insieme, associata alla capacità di comprendere le esigenze di ogni singola azienda, scegliendo per ciascuna le migliori tattiche di intervento.

Tutto ciò, come vedremo, vale anche per le persone fisiche che a seconda delle diverse necessità e scopi possono decidere di strutturare la propria attività imprenditoriale sotto forma di ditta individuale, società di persone o società di capitali.

3.1.3. La tassazione della ditta individuale

Attraverso la ditta individuale l’imprenditore persona fisica esercita in prima

persona un’attività commerciale. Dal punto di vista fiscale la persona fisica diviene quindi titolare di un reddito d’impresa, come tale imponibile ai fini IRPEF. In questo caso il reddito d’impresa sarà sommato a tutti gli altri redditi personali (salvo quei redditi che, per il principio di attrazione del reddito d’impresa, entreranno a far parte comunque di quest’ultimo), per essere assoggettato a tassazione secondo le regole di determinazione dell’IRPEF sopra esposte.

Come già illustrato nelle prime due lezioni, il reddito d’impresa deriva ai sensi dell’art. 55 del TUIR dall’esercizio di un’impresa commerciale. A titolo puramente riepilogativo ricordiamo che il punto di partenza per la determinazione del reddito d’impresa da assoggettare a tassazione è rappresentato dal risultato del conto economico (c.d. principio di derivazione). A tale risultato (perdita o utile di esercizio) occorrerà poi apportare le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri del TUIR.

In linea generale, il reddito d’impresa concorre a formare insieme alle altre categorie reddituali la base imponibile del contribuente persona fisica su cui, come visto prima, andranno applicate le aliquote IRPEF.

Tuttavia, occorre segnalare che la Finanziaria 2008 ha previsto la facoltà per le

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persone fisiche e per le società di persone di assoggettare il reddito d’impresa ad autonoma tassazione, escludendolo, quindi dalla formazione del reddito complessivo e applicando l’aliquota unica del 27,5% (pari a quella IRPEG). In questa maniera si è voluta assicurare l’omogeneità di trattamento ai redditi d’impresa prescindendo dalla forma giuridica di esercizio dell’attività. Tale omogeneità di trattamento dei redditi d’impresa allinea il nostro sistema impositivo al regime fiscale degli altri paesi, europei e non, ed assicura la possibilità di un prelievo identico a parità di reddito della medesima categoria. A ben vedere i soggetti che potranno trarre vantaggio della tassazione separata al 27,5% sono quelli con redditi medio-alti che, in caso di mancato opzione, a fronte di un reddito di circa 35.000 sconterebbero l’imposta con applicazione dell’aliquota pari al 43%.

Per le persone fisiche occorre tenere presente che la disciplina del reddito d’impresa si ottiene combinando la disciplina di base, racchiusa nelle norme relative all’IRES, con alcune regole specifiche: a) tra i ricavi si comprende il valore normale dei beni destinati al consumo personale

o familiare dell’imprenditore o assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa (nel caso di beni destinati al consumo personale o familiare, si parla di autoconsumo);

b) non vi è la possibilità di portare in deduzione le perdite d’esercizio dal proprio reddito complessivo; tali imprese, come già avviene per i soggetti in contabilità ordinaria, potranno dedurre le perdite unicamente dai redditi della stessa categoria di quella che le ha generate. Le stesse perdite potranno, quindi, essere scomputate dai redditi della stessa specie, nei successivi periodi d’imposta ma non oltre il quinto. Si passa, in sostanza, da un regime di “compensazione orizzontale” ad un regime di “compensazione verticale”;

c) mentre per le società sono “relativi all’impresa tutti i beni che appartengono ad esse”, ben diversa è la situazione dell’imprenditore individuale, il quale può essere contemporaneamente proprietario sia di beni “relativi all’impresa”, sia di beni personali che utilizza per propri scopi personali e familiari. Per le imprese individuali, allora, si considerano “beni relativi all’impresa”, oltre ai beni merce, a quelli strumentali per l’esercizio dell’impresa ed ai crediti acquisiti nell’esercizio dell’impresa stessa, anche i beni appartenenti all’imprenditore che siano indicati tra le attività relative all’impresa nell’inventario tenuto a norma dell’art. 2217 c.c. Gli immobili strumentali si considerano relativi all’impresa solo se indicati nell’inventario;

d) non sono ammessi in deduzione i compensi per il lavoro prestato dallo stesso imprenditore o dai suoi familiari (per impedire che vengano simulati rapporti di lavoro tra familiari, allo scopo di ridurre il reddito dell’imprenditore, riducendo la

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progressività dell’imposta di quest’ultimo); e) le plusvalenze realizzate con la cessione di aziende possono essere tassate

separatamente, a norma dell’art. 17, comma 2. Il trasferimento d’azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo delle plusvalenze dell’azienda: non si ha dunque tassazione della plusvalenza. Per gli eredi l’azienda ha lo stesso valore fiscalmente riconosciuto che aveva per il de cuius.

3.1.4. La tassazione delle società di persone

Nelle società di persone il coordinamento tra tassazione delle società e tassazione dei soci viene effettuato imputando direttamente ai soci il reddito della società (criterio della trasparenza), in proporzione alle quote di partecipazione e indipendentemente dall’effettiva percezione. Solo l’IRAP è pagata direttamente dalla società.

Le quote di partecipazione devono essere stabilite dall’atto costitutivo o da altro atto avente data certa anteriore all’inizio del periodo d’imposta. In mancanza di questa determinazione le quote si presumono proporzionali all’ammontare dei conferimenti e, se l’ammontare dei conferimenti non è determinato, si presumono uguali.

Attraverso il criterio della trasparenza viene eliminata la doppia imposizione dei redditi societari. Inoltre la trasparenza presenta questa peculiarità: realizza la tassazione esclusiva del socio, in un contesto, quale quello tracciato dalla riforma del 2003, complessivamente orientato a considerare esaustiva la tassazione della società (come già rilevato al par. 1.4.2 e ripreso sub. par. 3.1.5).

Dal punto di vista tecnico con la trasparenza i redditi dichiarati dalla società per un determinato anno saranno imputati ai soci per lo stesso periodo d’imposta, anche se sono reinvestiti nella società. L’eventuale successiva “effettiva percezione” di tali redditi risulterà irrilevante ai fini fiscali, in quanto i redditi sono stati già tassati in precedenza attraverso l’imputazione diretta ai soci.

Anche le eventuali perdite della società sono attribuite ai soci in proporzione alle quote di partecipazione, secondo il criterio della trasparenza; tali perdite sono compensabili con altri redditi di partecipazione dei soci, sia nell’anno di conseguimento sia in anni successivi, attraverso il riporto delle perdite dai redditi di partecipazione.

E’ dunque evidente il beneficio rispetto ai soci delle società di capitali, il cui reddito è tassato prima presso la società che lo produce con aliquota del 27,5% e, dopo la distribuzione, è ulteriormente tassato sotto forma di dividendi presso il socio persona fisica (con aliquota del 12,5% o con un abbattimento della base imponibile). Il regime della trasparenza, dunque, è più conveniente rispetto al regime ordinario delle società di capitali.

Occorre considerare che il regime di trasparenza può essere adottato anche dalle

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piccole società a responsabilità limitata, la cui compagine sociale è composta esclusivamente da un numero ristretto di persone fisiche.

In tal modo, da un lato, la tassazione delle piccole Srl è allineata a quella delle società di persone (dando rilievo, dunque, non tanto alla forma giuridica, quando alla sostanza economica di tali società); dall’altro, viene posto a disposizione dei soci delle piccole Srl un sistema di tassazione dei loro redditi conforme al sistema di tassazione dei dividendi.

Per queste società, si tratta di operare una scelta di campo fra la tassazione con IRES, come società, e la tassazione con IRPEF a carico dei soci. Se non si opta per la trasparenza, il reddito è tassato prima a carico della società, poi a carico del socio.

Invece, con il sistema della trasparenza viene eliminata la tassazione della società ed i soci delle Srl, come i soci delle società di persone, vengono tassati in ragione del reddito prodotto dalla società.

3.1.5. La tassazione delle società di capitali

Attraverso la forma societaria delle società di capitali viene attuato una netta divisione tra la società stessa ed i singoli soci. A differenza delle società di persone, il reddito prodotto dalle società di capitali viene tassato in capo alla società stessa. Tale reddito concorre infatti a formare la base imponibile IRPEG e soggiace all’applicazione dell’aliquota pari al 27,5%.

Quando una società di capitali produce un reddito, potrà decidere di distribuire un dividendo ai soci se intende remunerare il capitale da questi investito. Quando le società di capitali distribuiscono i dividendi, i soci percepiscono un reddito che è già stato assoggettato ad imposizione: occorrerà, allora, coordinare la tassazione del reddito delle società con la tassazione dei dividendi dei soci, evitando od attenuando la doppia imposizione economica. I sistemi teoricamente adottabili sono molteplici. L’ordinamento italiano conosce i seguenti sistemi: a) il sistema della trasparenza, nel quale la società non è tassata e sono tassati

solamente i soci, ai quali è imputato il reddito della società (sistema caratteristico delle società di persone, attualmente usufruibile su opzione per le società di capitali);

b) il sistema del credito d’imposta, con cui viene “accreditata” al socio l’imposta che colpisce i redditi della società (tale sistema vigeva in Italia prima della riforma del 2004, introdotta con il D.Lgs. 344/2003);

c) il sistema dell’esenzione (rectius esclusione) dei dividendi (che attualmente nel nostro ordinamento rappresenta il regime “ordinario” nel caso in cui il socio sia una società di capitali);

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d) il sistema della tassazione ridotta dei redditi del socio (che attualmente in Italia è applicato nei confronti di soci persone fisiche).

3.2. LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAINS PER LE PERSONE FISICHE

3.2.1 Cenni sulla tassazione dei redditi di capitale

Come abbiamo già visto il legislatore non fornisce una definizione generale di redditi di capitale, provvedendo invece a fare un elenco analitico all’art. 44 del TUIR. Tuttavia, a chiusura di questa disposizione, viene introdotta anche una fattispecie residuale, ai sensi della quale rientrerebbero nell'ambito dei redditi di capitale, ravvisandone i criteri distintivi con un'altra categoria di reddito, quella dei redditi diversi. Più precisamente, fra i redditi di capitale si comprendono i proventi che derivano da un rapporto giuridico che ha ad oggetto l'impiego del capitale, mentre nei redditi diversi di natura finanziaria sono inclusi i differenziali positivi derivanti da un evento incerto.

In altri termini, mentre le plusvalenze (c.d. capital gains) che derivano dall' acquisto e successiva vendita di obbligazioni o di azioni non appartengono alla categoria dei redditi di capitale ma a quella dei redditi diversi (art. 67, lett. c e c-bis)), trattandosi di differenziali positivi derivanti da un evento incerto, fanno parte dei redditi di capitale gli interessi ed i proventi derivanti dai medesimi strumenti finanziari.

Ad ogni modo, l'elencazione casistica contenuta nel citato art. 44 consente di suddividere i redditi di capitale in due gruppi: a) quelli che derivano da rapporti aventi ad oggetto l'impiego del capitale, quindi

provenienti da un capitale che viene dato in godimento a terzi; in questo caso si viene ad instaurare un rapporto di finanziamento;

b) quelli che derivano da un capitale investito o conferito, in cui lo stesso è utilizzato in una struttura produttiva organizzata alla quale il soggetto titolare del capitale partecipa e la cui partecipazione è rappresentata da un titolo (azione, quota o simili): in questo caso si viene ad instaurare un rapporto di partecipazione, dal quale derivano proventi certi magari nell'an ma non nel quantum). Tra le fattispecie più significative indicate nell'art. 44 che appartengono al primo

gruppo (impiego del capitale) si possono segnalare: a) gli interessi e gli altri proventi derivanti da mutui, depositi o conti correnti (lett.

a). Si tratta di una fattispecie che la dottrina riconduce alla nozione di frutto civile, inteso secondo la definizione offerta dall' art. 820 c.c., come il corrispettivo derivante dalla concessione in godimento di un capitale - ossia di denaro o altri beni considerati fungibili fra le parti - a terzi;

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b) gli interessi ed altri proventi delle obbligazioni e titoli similari ed altri titoli, diversi dalle azioni e titoli similari, nonché dai certificati di massa (lett. b). Come nell'ipotesi precedente, anche in questo caso gli interessi costituiscono il corrispettivo del godimento di un capitale da parte di terzi; tuttavia, a differenza della precedente fattispecie, il finanziamento è attuato attraverso la sottoscrizione di titoli di credito (obbligazioni e titoli similari);

c) le rendite perpetue (che durano cioè oltre la morte dell' avente diritto) e le prestazioni annue perpetue di cui agli artt. 1861 e 1869 c.c. (lett. c). Anche in questo caso si tratta di un'ipotesi tendenzialmente annoverabile tra quelle in cui il reddito deriva dalla concessione in godimento a terzi di un capitale;

d) i compensi per prestazioni di fideiussione o altra garanzia (lett. d); in tale ipotesi si ha un potenziale impiego del capitale, destinato a diventare attuale nel caso in cui il debitore garantito si renda inadempiente delle proprie obbligazioni;

e) gli utili derivanti da associazioni in partecipazione (lett. f), salvo il caso in cui sia conferita esclusivamente un' attività lavorativa, poiché in tal caso, come abbiamo già avuto modo di vedere, l'utile dell' associato è assimilato ai redditi di lavoro autonomo (art. 53, comma 2, lett. c);

f) gli utili derivanti da contratti di cointeressenza propria (lett. d) indicati nell'art. 2554 c.c.; tali proventi, invero, non sono riconducibili né alla nozione di frutti civili, né a quella di trasferimento della disponibilità di un capitale a terzi, poiché in questi casi il diritto alla partecipazione agli utili si riconnette solo all' assunzione dell' obbligo di sopportare (parte) delle perdite dell'affare cui si partecipa. Quindi, in tale ipotesi l'impiego del capitale è solo eventuale;

g) i proventi derivanti dalla gestione di masse patrimoniali, nell'interesse collettivo di una pluralità di soggetti, costituite con somme di denaro e beni affidati da terzi e provenienti dai relativi investimenti (lett. g). Questa ipotesi concerne le gestioni collettive dei patrimoni mobiliari, in cui si ha separazione tra i risultati dell'attività di gestione, tassata in capo al gestore, e redditi del mandante, cui si riferisce la norma in commento;

h) i proventi derivanti da operazioni di pronti contro termine e contratti di riporto su titoli e valute (lett. g-bis), fattispecie equiparabili ai contratti di finanziamento, consistendo nella reciproca messa a disposizione di titoli e di denaro e, quindi, a forme di concessione di disponibilità di capitali. Con riguardo ai criteri di determinazione del reddito, preme ricordare che i redditi

di capitale, a differenza di altre categorie reddituali, non sono sempre tassati in via ordinaria, come componenti del reddito complessivo soggetto ad imposta progressiva. Con la tassazione ordinaria coesistono infatti altre forme diverse di tassazione –

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sostitutive ed agevolate – per ragioni connesse al favor verso il risparmio e, soprattutto, per evitare la fuga di capitali verso ordinamenti fiscali più favorevoli. Abbiamo così regimi di ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (come quello che si applica, ad esempio, agli interessi dei depositi e dei conti correnti bancari ed ai dividendi derivanti da partecipazioni non qualificate) ed altri regimi fiscali sostitutivi, che riguardano il risparmio gestito, il risparmio amministrato, i fondi comuni di investimento, ecc. La ritenuta alla fonte e i regimi sostitutivi comportano un carico fiscale (proporzionale) che oscilla tra il 12,50% e il 27%.

La tassazione dei redditi di capitale presenta inoltre alcune peculiarità. Innanzitutto vi è da considerare che sono irrilevanti i costi di produzione. Infatti benché il reddito di capitale possa in teoria dar luogo a costi di produzione (si pensi ad esempio al caso degli interessi gravanti su un soggetto che prende a mutuo una somma prestandola a sua volta con un interesse maggiorato) quest’ultimi sono irrilevanti in base all’art. 45 TUIR, secondo cui il reddito di capitale è determinato nella misura risultante dai relativi titoli e senza alcuna deduzione a titolo di costo.. Chi intendesse quindi dedurre dagli interessi attivi eventuali interessi passivi, o perdite su crediti, dovrebbe agire nella qualità di imprenditore individuale ovvero creare una società di persone o di capitali (in tal caso infatti opererebbero le ordinarie regole di tassazione del reddito d’impresa).

Infine occorre ricordare che per i redditi di capitale in linea di principio (salvo alcune eccezioni su cui infra) non vige il principio di competenza bensì quello di cassa; infatti il reddito di capitale non diventa rilevante ai fini delle imposte dirette nel periodo d’imposta in cui viene a maturazione, bensì in quello in cui viene percepito.

3.2.2 La tassazione dei dividendi per le persone fisiche

Tralasciando le ulteriori previsioni contenute nell'art. 44 del TUIR, che non rivestono grande importanza, è invece necessario soffermarsi sul secondo gruppo di redditi di capitale innanzi evidenziato, costituito dai proventi che derivano da un capitale conferito.

A tale categoria appartengono gli utili da partecipazione al capitale o al patrimonio di società di capitali ed enti commerciali (art. 44, comma 1, lett. e), con l'eccezione degli utili spettanti ai promotori e fondatori di società, i quali sono inclusi nei redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo (art. 53, comma 2, lett. d)).

Questa ipotesi si distingue da quelle esaminate in precedenza in considerazione della strumentalità dell'impiego del capitale ad una struttura associativa volta all'attuazione di un programma imprenditoriale al quale il soggetto che opera il conferimento non resta affatto estraneo.

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Assume, quindi, rilievo il possesso di azioni o di altri titoli, individuati in ragione del fatto che rappresentano una frazione del capitale o del patrimonio della società emittente.

I redditi di partecipazione (c.d. dividendi) cui si riferisce la disposizione in commento sono soltanto quelli relativi al capitale di società ed altri enti che siano soggetti passivi dell'IRES, quindi società di capitali, enti commerciali, enti non commerciali. La norma non si riferisce, invece, agli utili che provengono dalle società di persone che, come si è visto in precedenza, non sono tassati come reddito della società, ma come redditi dei singoli soci, secondo il principio di trasparenza.

Prima della riforma entrata in vigore il 1°gennaio 2004, il sistema di tassazione dei redditi delle società di capitali coordinava la tassazione delle società con quella dei soci, mediante il credito di imposta sui dividendi. In altri termini, la società scontava sull'utile prodotto l'imposta (che allora si chiamava IRPEG) e poi, al momento della distribuzione del dividendo in capo al socio, l'utile stesso scontava l'IRPEF. Ora, poiché in tal modo si veniva a creare un'ipotesi di doppia imposizione (essendo l'utile tassato una prima volta in capo alla società ed una seconda volta in capo al socio), il legislatore riconosceva al socio un credito di imposta (quindi una somma da scomputare dall'imposta dovuta), corrispondente all'imposta pagata dalla società distributrice (c.d. principio dell'imputazione). In tal modo si evitava la doppia tassazione ed il prelievo tributario complessivo veniva posto unicamente a carico del socio.

La recente riforma, con la quale è stata introdotta l'IRES, ha invece eliminato il meccanismo del credito di imposta sui dividendi introducendo il c.d. principio dell' esenzione: in altri termini, la tassazione dell'utile avviene in capo alla società e, per evitare la doppia tassazione del dividendo, è previsto che quest'ultimo sia esente in capo al socio.

Tale esenzione, tuttavia, non è totale e la sua misura varia in funzione delle caratteristiche soggettive del socio percipiente. Più precisamente: a) se è il socio è una persona fisica imprenditore l'esenzione è del 50,2822 per cento

(quindi solo il 49,72 per cento del dividendo è soggetto ad IRPEF e costituirà una componente positiva del reddito d'impresa) (art. 59, comma 1);

b) se il socio è una persona fisica non imprenditore, l'esenzione varia in ragione della quota di partecipazione da lui posseduta; in tal caso, infatti, occorre verificare se la partecipazione è “qualificata” o “non qualificata”. In particolare, la partecipazione è “qualificata” quando rappresenta una percentuale dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinario superiore al 20 per cento, o al 2% se la società è quotata ovvero una partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 5 o al 25 per

22 Cfr. DM 2 aprile 2008.

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cento, secondo che si tratti di titoli negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni (art. 67, comma 1, lett. c)). Qualora non vengano superati tali percentuali, la partecipazione si considera “non qualificata”. Quindi, posta questa distinzione fra partecipazioni qualificate e non qualificate, sui dividendi distribuiti ai soci (non imprenditori) che detengono le prime è prevista un'esenzione del 50,28 per cento (art. 47) e non deve essere operata alcuna ritenuta, mentre per i dividendi distribuiti ai soci (sempre non imprenditori) che detengono le seconde è prevista 1'applicazione di una ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 12,5 per cento (art. 27 del DPR 600/1973 ). In entrambi i casi, il dividendo è qualificato come reddito di capitale;

c) se il socio è una società o un ente commerciale residente, i dividendi sono esclusi da tassazione per il 95 per cento del loro ammontare (art. 89, comma 2). Il regime fiscale appena esaminato relativo ai proventi azionari si applica anche ai

proventi dei titoli similari alle azioni, nuovi strumenti finanziari introdotti con la riforma del diritto societario per mezzo dei quali le società raccolgono la liquidità necessaria per il finanziamento dell' attività sociale. Questi strumenti finanziari si differenziano dalle tradizionali categorie di titoli di debito (obbligazioni) e di titoli di partecipazione (azioni), permettendo di ottenere una remunerazione completamente condizionata, nell'an e nel quantum, dai risultati economici della società emittente. I proventi da essi derivanti non sono qualificabili come “utili” da partecipazione, in quanto non sottendono una partecipazione al capitale o patrimonio della società emittente (nel senso richiesto dalla letto e), comma 1, dell'art. 44); tuttavia, ai fini tributari questi titoli si considerano similari alle azioni (art. 44, comma 2, lett. a)), e, conseguentemente, i proventi da essi derivanti sono considerati utili e assoggettati allo stesso trattamento fiscale dei dividendi sopra illustrato. 3.2.3 La tassazione degli interessi per le persone fisiche Per le persone fisiche non imprenditori gli interessi e gli altri proventi derivanti da mutui, depositi e conti correnti, interessi e altri proventi delle obbligazioni e titoli similari, costituiscono redditi di capitale. La tassazione di tali componenti di reddito è generalmente attuata tramite ritenute alla fonte a titolo d’imposta e altri regimi sostitutivi, che comportano un carico fiscale che oscilla tra il 12,5% e il 27%. Per gli imprenditori individuali la ritenuta è effettuata a titolo di acconto e il provento finanziario è attratto al reddito d’impresa e viene a costituire un componente positivo di reddito di quest’ultimo. In tema di interessi il TUIR prevede due presunzioni legali, l’una riguardante gli

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interessi derivanti da mutui in generale, l’altra gli interessi derivanti da finanziamenti dei soci alle società: a) gli interessi si presumono percepiti alla scadenza ed alla misura pattuite. Se le

scadenze non sono pattuite, gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta. Se la misura non è determinata per iscritto, gli interessi si computano al saggio legale;

b) l’altra presunzione riguarda le somme versate dai soci alle società ed enti commerciali soggetti ad IRES. La qualificazione giuridica del rapporto può non essere chiara: tra socio e società può esservi un rapporto di mutuo, con diritto quindi del socio a percepire gli interessi e a vedersi restituire il capitale. Ma la prassi conosce anche altri tipi di rapporto: ci si riferisce in particolare ai versamenti in conto capitale o a fondo perduto, a seguito dei quali il socio non ha diritto ad alcune remunerazione, né ha diritto alla restituzione del capitale ad una scadenza predeterminata. Per la società tali versamenti non sono sopravvenienze attive, ma conferimenti. Ora, nel primo caso il socio si pone nei confronti della società come qualsiasi altro soggetto che abbia dato in prestito delle somme di denaro; nel secondo caso, il versamento del socio dà vita ad un rapporto sostanzialmente, anche se non formalmente, simile a quello dei conferimenti; si parla, in tal caso, di versamento a fondo perduto, di versamento in conto capitale, di conferimento atipico. Ciò che decide, ai fini fiscali, la natura del rapporto, è il bilancio (in questo risiede la presunzione): le somme si presumono date a mutuo se dal bilancio non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo (art. 46 del TUIR).

3.2.4 LLee pplluussvvaalleennzzee ddeeii ttiittoollii aazziioonnaarrii ee oobbbblliiggaazziioonnaarrii ((ccaappiittaall ggaaiinnss))

Come si è già rilevato esaminando i redditi di capitale, le “rendite finanziarie”

possono essere qualificate come redditi di capitale o come redditi diversi (ovviamente di natura finanziaria). I primi sono quelli che derivano dall’impiego del capitale (interessi bancari, interessi sui buoni postali, interessi sui certificati di deposito, interessi sui titoli di Stato, dividendi azionari), mentre i secondi sono quelli che contribuente realizza attraverso le negoziazione.

Le plusvalenze realizzate con la cessione di azioni o di altre partecipazioni sociali, e con la cessione di titoli obbligazionari o di altre attività finanziarie, per le persone fisiche non imprenditori costituiscono infatti redditi diversi. Queste plusvalenze, come anticipato, sono anche indicate come guadagni di capitale (capital gains). La plusvalenza è pari alla differenza tra il corrispettivo pattuito (ovvero la somma o il valore normale dei beni rimborsati se si tratta di titoli partecipativi o crediti) e il costo o

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il valore di acquisto aumentato degli oneri inerenti. La tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di azioni o di

partecipazioni sociali si differenzia a seconda della percentuale di diritti di voto o della quota di capitale posseduta (come avviene per i dividendi): a) se la partecipazione è qualificata (ossia rappresenta una percentuale di diritto di

voto esercitabili nell’assemblea ordinaria superiore al 20%, o 2% se la società è quotata, ovvero una partecipazione al capitale o al patrimonio che è superiore al 25%, o 5% se la società è quotata), la base imponibile è costituita dal 49,72% della plusvalenza; a tale base imponibile si applicano le aliquote ordinarie dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Le plusvalenze in questione sono calcolate per differenza tra il corrispettivo percepito e il costo di acquisto delle partecipazioni medesime. Se sono state realizzate minusvalenze, le plusvalenze per il 49,72% del loro ammontare, sono sommate algebricamente alla corrispondente quota delle relative minusvalenze; se le minusvalenze sono superiori alle plusvalenze l’eccedenza è riportata in deduzione, fino a concorrenza del 49,72% dell’ammontare delle plusvalenze dei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il quarto, a condizione che sia indicata nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta nel quale le minusvalenze sono state realizzate (art. 68, comma 3, TUIR);

b) se la partecipazione non è qualificata, le plusvalenze sono soggette ad imposta sostitutiva del 12,5%. Il differenziale da sottoporre ad imposta sostitutiva è determinato confrontando il corrispettivo percepito ed il costo (o valore di acquisto), aumentato di ogni onere inerente alla sua produzione (ad esempio, le provvigioni dell’intermediario, i bolli, le spese notarili). Il regime ordinario di tassazione dei proventi finanziari in esame è quello della

dichiarazione: il contribuente deve cioè indicare nella dichiarazione annuale dei redditi le plusvalenze e le minusvalenze conseguite nel periodo d’imposta, versando le imposte sostitutive nei termini e con le modalità previste per i versamenti delle imposte sui redditi dovute a saldo. Limitatamente alle plusvalenze diverse da quelle derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate è previsto un regime semplificato di riscossione dell’imposta sostitutiva, denominato regime del risparmio amministrato, subordinato all’esercizio di un’esplicita opzione da parte del contribuente e all’esistenza di un intermediario abilitato che provvede ad effettuare il prelievo fiscale e il versamento dovuto in relazione a ciascuna operazione posta in essere.

E’, infine, previsto un terzo regime, anch’esso opzionale e non applicabile alle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate, denominato del risparmio gestito. L’opzione per questo regime, che comporta la tassazione non delle singole operazioni produttive di plusvalore, ma del risultato complessivo della gestione

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maturato nel periodo d’imposta può essere esercitata solamente nell’ambito delle gestioni individuali di patrimoni (non relativi all’impresa).

Per gli imprenditori individuali i capital gains non costituiscono redditi diversi ed, nel rispetto del principio dell’inerenza, entrano a far parte del reddito d’impresa come componenti positivi di reddito. Le plusvalenze si distinguono in plusvalenze che godono del regime di participation exemption e plusvalenze tassabili. Gli imprenditori individuali in possesso di partecipazioni che godono del regime di participation exemption godono di una esenzione limitata al 50,28% del loro ammontare. Correlativamente le minusvalenze sono deducibili per il 49,72%.

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CAPITOLO IV 4.1. LA TASSAZIONE DI DIVIDENDI, INTERESSI E CAPITAL GAIN PER

LE PERSONE GIURIDICHE 4.1.1. La tassazione dei dividendi per le persone giuridiche

Come già visto in materia di tassazione dei dividendi per le persone fisiche, i dividendi sono suscettibili di essere tassati due volte: una prima volta in capo alla società all’atto della produzione ed una seconda volta in capo al socio al momento della distribuzione.

Abbiamo altresì visto che prima della riforma del 2003 questa doppia imposizione era eliminata attraverso il meccanismo del credito d’imposta (cd. imputation system). Tale sistema considerava il socio e non la società l’effettivo possessore dell’utile societario e conduceva a determinare il prelievo definitivo in relazione alla situazione soggettiva del primo e non a quella della seconda, mediante l’attribuzione al socio stesso di un credito fiscale relativo all’imposta “anticipata” dalla società all’atto della produzione dell’utile.

In vigenza di tale metodo, quindi, si era creata l’opportunità di posizionare le società con perdite in testa al gruppo. In questo modo le tasse pagate dalla partecipata potevano essere rimborsate ai soci. Si trattava di un sistema complesso, che non garantiva la determinazione del tax rate in capo alla società operativa. Nel sistema introdotto con la riforma ha assunto invece rilevanza, ai fini della tassazione, il soggetto che ha prodotto gli utili: una volta tassato il reddito in capo alla società all’atto della produzione, con la successiva distribuzione del dividendo si attiva la fase di tassazione dell’utile in capo al socio. È evidente, peraltro, che, una volta operata questa scelta, il legislatore delegato si è dovuto necessariamente far carico del problema della doppia imposizione economica, dal momento che tanto i dividendi percepiti dal socio, quanto le plusvalenze dallo stesso realizzate per effetto della

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cessione delle partecipazioni detenute, costituiscono, di fatto, flussi di “ricchezza” geneticamente collegati ad una fonte di produzione (la partecipazione) dalla quale si è già generato un reddito pienamente tassato in capo al soggetto che lo ha prodotto. A fronte della soluzione, teoricamente ottimale, di rendere del tutto esenti il dividendo distribuito al socio e la plusvalenza dallo stesso realizzata, il legislatore ha ritenuto al momento sufficiente optare (con alcune eccezioni) per un sistema di esenzione parziale, finalizzato a contenere fortemente, ma non ad eliminare, gli effetti di doppia imposizione. Il regime di esenzione parziale varia a secondo del tipo di soggetto. Abbiamo visto infatti come opera l’esenzione quando il soggetto percettore è un soggetto IRPEF (con le differenze che vi sono a seconda che lo stesso eserciti o meno un’attività d’impresa) ed adesso vedremo la particolare disciplina che il TUIR ha previsto quando il soggetto percettore è invece un soggetto IRES. In particolare, se il soggetto percettore è una società di capitali o un ente commerciale (o un ente non commerciale) vi è una tassazione limitata al 5% dell’ammontare del dividendo, senza alcuna distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate. In caso di opzione per il “regime di trasparenza” o per il “consolidato fiscale” , la tassazione viene meno. Recentemente, tuttavia, la Finanziaria 2008 ha previsto che i dividendi distribuiti infra-gruppo scontino una tassazione pari al 5% del loro ammontare anche in presenza di un consolidato fiscale. Se non hanno già concorso a formare il reddito dei soci “per trasparenza”, sulla base del nuovo regime fiscale introdotto dall’articolo 167 per le controllate estere residenti in paesi a fiscalità privilegiata, anche i dividendi percepiti dai soggetti IRES e provenienti da società ed enti non residenti concorrono nei limiti del 5% a formare il reddito imponibile.

Con riguardo al tax planning si rileva che è diventato impossibile per una società in perdita ottenere il rimborso delle tasse pagate dalle controllate, inoltre il tax rate di gruppo sconterà una maggiorazione dell’1,375% sui dividendi incassati (5%*27,5%). I dividendi corrisposti da società residenti a soggetti non residenti (detti dividendi “in uscita” o “outbound”) scontano una ritenuta a titola d’imposta con aliquota del 27%. L’aliquota della ritenuta è ridotta al 12,50% per gli utili pagati ad azionisti di risparmio. I soggetti non residenti, diversi dagli azionisti di risparmio, hanno diritto al rimborso, fino a concorrenza dei quattro noni della ritenuta, dell’imposta che dimostrino di aver pagato all’estero in via definitiva sugli stessi utili mediante certificazione del competente ufficio fiscale dello stato estero (art. 27 DPR 600/1973). La finanziaria 2008 ha previsto tuttavia che i dividendi corrisposti da società residenti a soggetti non residenti domiciliati nell’Unione Europea o in paesi aderenti allo spazio economico europeo (che saranno individuati da una apposita white list)

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saranno assoggettati ad una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta dell’1,375% (equiparazione con i residenti). Diverso è il regime dei dividendi infrasocietari se trova applicazione la c.d. Direttiva madre-figlia (Direttiva 435/90/CEE) come recepita nell’ordinamento italiano. Tale Direttiva, infatti, impedisce la tassazione dei dividendi distribuiti da società madri a società figlie all’interno della Comunità europea, vietando l’applicazione di ritenute, sia da parte dello Stato della figlia sia da parte dello Stato della madre. La Direttiva madre-figlia è stata recepita in Italia con l’art. 27-bis DPR 600/1973 secondo cui, ricorrendo le condizioni che permettono l’applicazione di questo regime, la società madre non residente può chiedere la non applicazione della ritenuta del 27% o chiederne il rimborso. Il regime, previsto dalla Direttiva madre-figlia, essendo diretto ad incrementare la formazione dei gruppi transfrontalieri, non si applica a tutti i dividendi, ma solo alle società che detengono una partecipazione diretta non inferiore al 20% del capitale della società-figlia. Inoltre tali società devono presentare i seguenti requisiti: a) rivestire una delle forme giuridiche previste nell’apposito allegato alla citata

Direttiva madre-figlia (società per azioni, società in accomandita semplice, srl, società cooperative);

b) risiedere, ai fini fiscali, in uno Stato membro dell’Unione europea; c) essere soggette nello Stato di residenza ad una delle imposte indicate nel

medesimo allegato alla predetta direttiva, senza possibilità di fruire di regimi di opzione o di esonero che non siano territorialmente o temporalmente limitati;

d) detenere la partecipazione ininterrottamente per almeno un anno. E’ inoltre necessario che le società madri residenti nell’UE non siano controllate da società non residenti nella Comunità; possono tuttavia ottenere l’applicazione del regime madre-figlia se, mediante procedura di interpello, dimostrino che non siano state costituite allo scopo, esclusivo o principale, di beneficiare del regime in esame. La non applicazione o il rimborso della ritenuta sugli utili evita la c.d. doppia tassazione giuridica internazionale (cioè la doppia tassazione di un medesimo soggetto, da parte di due Stati diversi). Non evitata tuttavia la doppia tassazione economica (che si ha quando due norme colpiscono, per un medesimo fatto economico, soggetti diversi) e cioè la somma della tassazione degli utili della società figlia (da parte dello Stato della fonte) e della tassazione dei dividendi, nello Stato di residenza del socio. 4.1.2. La tassazione degli interessi per le persone giuridiche La tassazione degli interessi per le persone giuridiche presenta caratteristiche

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diversa a seconda che gli interessi in esame siano o meno interessi di mora. In particolare, gli interessi attivi diversi da quelli di mora concorrono a formare il reddito d’impresa per l’importo maturato nell’esercizio, secondo il criterio di competenza (art. 110, comma 1, lett. e), TUIR). Sono tassati per competenza in particolare: a) gli interessi derivanti da mutui, depositi e conti correnti (anche bancari e postali) e

da ogni altro rapporto contrattuale produttivo di interessi; b) gli interessi derivanti dalle obbligazioni e dagli strumenti finanziari diversi dalle

azioni e dagli strumenti finanziari similari alle azioni; c) gli interessi compensativi e per dilazione di pagamento, compresi gli interessi per

ritardati rimborsi d’imposta. Qualora la misura del tasso di interesse non è determinata per iscritto, si presumono maturati al tasso legale. Le somme versate alle società commerciali, alle associazioni, ai consorzi e agli altri soggetti IRES, dai loro soci o partecipanti, si considerano date a mutuo e quindi produttive di interessi, se dai bilanci o rendiconti di tali soggetti non risulta che il versamento sia stato fatto ad altro titolo. Per i rapporti di conto corrente e le operazioni bancarie regolate in conto corrente (compresi i conti correnti reciproci per servizi resi intrattenuti tra aziende e istituti di credito) si devono considerare componenti positivi di reddito anche gli interessi compensati a norma di legge o di contratto. Gli interessi compensati, quindi, concorrono alla determinazione del reddito per il loro intero importo e non solo per l’importo corrispondente all’eventuale saldo (differenza tra interessi attivi e passivi). Gli interessi di mora, compresi quelli che si producono automaticamente in caso di ritardato adempimento di obblighi di pagamento concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui sono incassati (art. 109, comma 7, TUIR) (principio di cassa). Tale criterio di imputazione per cassa degli interessi (così come la disposizione speculare per cui gli interessi di mora sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti) introdotta dal D.Lgs. 344/2003 si applica, con effetto retroattivo, a decorrere dal periodo d’imposta in corso all’8.8.2002, benché siano stati fatti salvi tutti i comportamenti conformi alla previgente disposizione (art. 109, comma 7, TUIR). Nell’ambito della tassazione degli interessi per le persone giuridiche merita un particolare cenno la disciplina delle operazioni pronti contro termine (cui sono assimilate le operazioni di prestito titoli) dove il compratore a pronti, che ha l’obbligo di rivendere a termine i titoli (qualora sia prevista una mera facoltà di rivendita, non si applica la regola in argomento, realizzandosi una ordinaria cessione di titoli), è considerato un soggetto che compie un’operazione di finanziamento. Pertanto, in bilancio i titoli permangono nell’attivo della società che li cede a pronti e li riacquista a

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termine, mantenendo ai fini fiscali, il costo e la categoria di appartenenza che avevano prima dell’operazione. Gli interessi derivanti dai titoli acquisiti mediante contratti di pronti contro termine concorrono a formare il reddito del cessionario per l’ammontare maturato nel periodo di durata del contratto: lo scarto, cioè la differenza positiva o negativa tra il prezzo a pronti e quello a termine, concorre a formare il reddito del compratore a pronti per la quota maturata nell’esercizio, al netto degli interessi maturati sulle attività oggetto dell’operazione per il periodo di durata del contratto. In particolare, lo scarto positivo costituisce un onere finanziario che si aggiunge agli interessi prodotti dai titoli stessi (art. 89, comma 6, TUIR). 4.1.3. La tassazione del capital gain per le persone giuridiche. Come abbiamo già visto i regimi di tassazione delle plusvalenze realizzate su partecipazioni in società variano in funzione del soggetto percettore, in particolare: a) la plusvalenza realizzata, nell’esercizio di imprese commerciali, dai soggetti

passivi IRPEF (i capital gains, in questo caso, entrano a far parte del reddito d’impresa);

b) la plusvalenza realizzata, al di fuori dell’esercizio di imprese commerciali, dai soggetti passivi IRPEF (i capital gains, in questo caso, costituiscono redditi diversi);

c) infine, la plusvalenza realizzata da società ed enti soggetti all’IRES (i capital gains, in questo caso), entrano a far parte del reddito d’impresa.

Pertanto i capital gains realizzati da soggetti IRES concorrono a formare il reddito d’impresa degli stessi. Nello specifico, le plusvalenze sulle partecipazioni classificate nelle “immobilizzazioni finanziarie”, nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso, sono soggette ai seguenti regimi fiscali: a) regime della participation exemption (art. 87 TUIR); b) regime della tassazione sull’intera plusvalenza, in assenza dei requisiti richiesti

dalla participation exemption (art. 86 del TUIR). Le disposizioni contenute nell’art. 87 TUIR, disciplinanti il regime c.d. di participation exemption prevedono l’esenzione al 95 % (originariamente era totale, poi è stata ridotta al 91%, poi all’84% e infine la Finanziaria 2008 ha rialzato la percentuale di esenzione al 95%) delle plusvalenze da realizzo di partecipazioni in società, con o senza personalità giuridica, sia residenti che non residenti, al verificarsi delle seguenti condizioni:

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a) ininterrotto possesso dal primo giorno del dodicesimo mese (originariamente era il diciottesimo) precedente quello dell’avvenuta cessione. Se le partecipazioni sono state acquistate in date diverse si considerano cedute per prime le quote acquistate per ultime (criterio LIFO utilizzato per tutte le plusvalenze da partecipazione);

b) classificazione nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso. L’assunzione del dato emergente dal primo bilancio riflette l’esigenza di impedire riclassificazioni a ridosso della cessione meramente strumentali all’ingresso (nel caso di plusvalenze latenti) o all’uscita (nel caso di minusvalenze latenti);

c) residenza fiscale della società partecipata in uno Stato o territorio diverso da quelli a regime fiscale privilegiato. Per evitare manovre sulla residenza in prossimità della cessione questa condizione deve ricorrere al momento del realizzo ininterrottamente dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso o, se successiva, dalla costituzione della partecipata;

d) esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale. L’apposizione della condizione in esame va interpretata in chiave antielusiva, quale disincentivo alla costituzione di società-contenitore, da utilizzare per trasferire singoli cespiti (in particolare immobili) plusvalenti sfruttando l’esenzione prevista per le plusvalenze relative alle partecipazioni. Senza possibilità di prova contraria si presume che il requisito considerato non sussista relativamente alle partecipazioni in società il cui patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione e al cui scambio è diretta l’attività d’impresa (e cioè dagli immobili costituenti beni merce) e dagli impianti e fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio dell’impresa.

Parallelamente all’esenzione (95%) sulle plusvalenze, l’art. 101, comma 1, TUIR prevede: a) l’indeducibilità delle “minusvalenze iscritte” (o “minusvalenze da valutazione”)

relative alle partecipazioni classificate nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie: tale indeducibilità opera con riferimento a tutte le partecipazioni, siano esse qualificate o meno per l’esenzione;

b) la corrispondente indeducibilità delle “minusvalenze realizzate” a seguito della cessione di partecipazioni che si qualificano per l’esenzione, in modo simmetrico all’esenzione prevista per le corrispondenti plusvalenze. Tuttavia c’è una differenza: se l’esenzione non è più totale come all’esordio della riforma e all’introduzione della pex, l’indeducibilità è rimasta totale.

In assenza dei requisiti richiesti dalla participation exemption, la plusvalenza sulle

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partecipazioni deve essere interamente tassata secondo l’art. 86, comma 4, TUIR, il quale dispone che le plusvalenze concorrono a formare il reddito, per l’intero ammontare, nell’esercizio in cui sono state realizzate, ovvero, per le partecipazioni iscritte negli ultimi tre bilanci tra le “immobilizzazioni finanziarie”, a scelta del contribuente, in quote costanti nell'esercizio del realizzo e nei successivi, ma non oltre il quarto.

Per quanto riguarda invece le partecipazioni iscritte in bilancio nell’attivo circolante l’art. 85, comma 1, lettere c) e d), TUIR qualifica “ricavi” i seguenti corrispettivi: a) i corrispettivi delle cessioni di azioni o quote di partecipazioni, anche non

rappresentate da titoli al capitale di società ed enti di cui all’art. 73, che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie, diverse da quelle cui si applica l’esenzione di cui all’art. 87, anche se non rientrano fra i beni al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa;

b) i corrispettivi delle cessioni di strumenti finanziari assimilati alle azioni, ai sensi dell’art. 44, emessi da società ed enti di cui all’art. 73, che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie, diversi da quelli cui si applica l’esenzione di cui all’art. 87, anche se non rientrano fra i beni al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa;

c) i corrispettivi delle cessioni di obbligazioni e altri titoli in serie o di massa (diversi da azioni e strumenti assimilati) che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie (art. 85, comma 1, lett. e). La loro compravendita determina “proventi” ed “oneri” (o impropriamente

“plusvalenze” e “minusvalenze”) che concorrono a formare il reddito imponibile nell'esercizio del loro realizzo.

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CAPITOLO V

5.1. COME FINANZIARE LE ATTIVITA’ AZIENDALI 5.1.1. Modalità di finanziamento delle attività aziendali Diverse sono le modalità attraverso cui l’impresa può essere finanziata al fine di essere messa nelle condizioni ottimali per poter svolgere la propria attività aziendale. Tuttavia, le principali modalità di finanziamento possono ricondursi a due categorie: a) apporto di capitale proprio (equity); b) finanziamento sotto forma di prestiti (debt). Prima di analizzare in concreto i due tipi di finanziamento, occorre premettere che la manovra debt/equity va effettuata ogniqualvolta occorra ragionare in merito alla copertura del capitale investito e questo avviene: a) con cadenza periodica in sede di budget iniziale o di sua revisione o di piano

triennale; b) ad hoc in caso di processi di start up, di ristrutturazione aziendale e/o di

operazioni di finanza straordinaria. In realtà la manovra del debt è molto più continuativa, giacché in tesoreria l’ottimizzazione dei saldi finanziari deve essere giornaliera. Cosa per contro che a livello di equity non avviene. La scelta tra le due forme di finanziamento deriva da decisioni che vengono prese dai soci e dal management sulla base di precise motivazioni imprenditoriali. Sul piano sostanziale, e soprattutto nelle realtà di piccola e media dimensione, la decisione del tipo di finanziamento risente di una discrezionalità che può variare in funzione della capacità patrimoniale dei soci o della capacità di credito propria dell’impresa. In tali circostanze la scelta di indebitarsi o di optare per il capitale di rischio deriva, prevalentemente, da decisioni di natura economico-finanziaria. Molto spesso sul mercato gli azionisti propendono per aziende che si finanziano

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soprattutto con operazioni di equity e ciò per le seguenti ragioni: a) i singoli azionisti spesso non hanno la possibilità di accedere alle forme di

finanziamento di cui può godere l’azienda, per cui in tal caso potrebbero essere disposti a pagare un premio per quelle aziende che hanno una capacità di indebitamento migliore della propria;

b) per i singoli azionisti l’indebitamento in proprio può risultare più rischioso, in quanto non limitato all’entità dell’investimento. Nel momento in cui l’azionista investe in un’azienda indebitata il suo rischio è limitato al corrispettivo versato per acquistare le azioni, viceversa se si indebita in proprio può rispondere in via illimitata del suo debito.

Chiaramente, se l’azionista è invece dotato di adeguate disponibilità liquide e/o di più ingenti capacità di credito (in genere nei gruppi di più grandi dimensioni), la scelta tra capitale di prestito e capitale di rischio diventa più flessibile e può assumere una rilevanza che va al di là dei vincoli finanziari o degli interessi economici delle singole entità che costituiscono il gruppo. Ciò detto la manovra dell’equity si articola su un orizzonte di medio/lungo periodo ed è finalizzata ad ottimizzare il costo medio ponderato prospettico del capitale. L’equity può essere manovrato attraverso due categorie di operazioni: a) aumento di capitale; b) autofinanziamento, ossia il rinvestimento degli utili all’interno dell’azienda. La manovra dell’equity attraverso le operazioni sul capitale avviene attraverso la sottoscrizione di aumenti di capitale sociale o il versamento da parte dei soci stessi di finanziamenti con vincoli di destinazione. La sottoscrizione dell’aumento di capitale sociale può avvenire da parte dei soci già esistenti o da parte di nuovi soci, allargando la compagine sociale. Il ricorso a una forma di ricapitalizzazione, piuttosto che all’altra, dipende anche dalla situazione particolare in cui si trova l’impresa e dalle sue caratteristiche patrimoniali. In particolare, un’impresa in perdita che vede il suo capitale sociale scendere sotto al terzo, si trova in una situazione tale da dover ricorrere ad un aumento di capitale per ripianare le perdite e ripristinare il capitale sociale iniziale. Analogamente un’impresa che decide di attivare alleanze strategiche con nuovi partner per lo sviluppo di nuovi business, potrebbe finanziare i propri progetti di investimento attraverso aumenti di capitale dedicati che permettano il progressivo ingresso di nuovi soci e consentano al tempo stesso di non minacciare l’equilibrio finanziario dell’impresa. Quando si pensa all’equity viene subito in mente il tema relativo al costo di tale forma di finanziamento, ma tale approccio è senz’altro miope in quanto i costi del ricorso a tale fonte possono essere largamente superati dal benefici. Parlando di oneri,

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evidentemente tale operazione comporta costi vivi non indifferenti: le fees degli sponsors, le fees di un’eventuale advisor, le fees degli studi legali, il processo di comunicazione (prospetto informativo, campagna di comunicazione); l’assunzione di nuovi profili professionali, per esempio l’investor relator. Si tratta di costi che possono ben superare il 5% dell’emissione azionaria, senza considerare il carico di lavoro addizionale sulle strutture aziendali, con conseguente temporanea defocalizzazione delle attività considerate ordinarie. Ma, a ben vedere, non si tratta di un costo bensì di un investimento, che offre preziosi ritorni, quali: (i) un momento di confronto e approfondimento delle proprie strategie e (ii) lo sviluppo di una maggiore capacità di controllo sui processi e sui risultati. La manovra dell’equity attraverso l’autofinanziamento, invece, si ha quando gli utili della società non vengono distribuiti tra i soci ma reinvestiti nell’attività dell’azienda. L’autofinanziamento equivale a una ricapitalizzazione dell’azienda e quindi corrisponde a tutti gli effetti ad una immissione di capitale di rischio da parte dei vecchi azionisti. Empiricamente le aziende preferiscono far ricorso in prima battuta all’autofinanziamento, per poi, se necessario, accedere al debito ed, in ultima istanza, all’immissione di nuovo capitale di rischio da parte degli azionisti. Le ragioni a favore dell’autofinanziamento possono essere varie. Sicuramente influisce il fatto che, se l’azionista non solleva eccezioni, è una forma di raccolta abbastanza immediata che non richiede lo sforzo di vendere l’azienda ai mercati finanziari per ottenere in cambio denaro sotto forma di debt o equity. Inoltre la preferenza può dipendere anche dalle asimmetrie negli obiettivi del managment rispetto agli azionisti; i primi privilegerebbero il fatto di poter disporre di riserve liquide per, ad esempio, realizzare un grado di autonomia decisionale degli investimenti che reputano necessari. Può dipendere anche da un fatto culturale: l’azionista non percepisce che la struttura finanziaria debba essere ottimizzata, fintantoché la sua azienda è in grado di autofinanziarsi. Quale che sia la ragione, il risultato è che spesso si fa ricorso al debito e all’immissione di nuovo capitale di rischio sole se costretti avendo esaurito l’autofinanziamento. Al di là delle modalità con cui viene realizzato il finanziamento sotto forma di equity, si deve rilevare che questo tipo di finanziamento presenta molti vantaggi: (i) stabilità pressoché assoluta, poiché tendenzialmente rimane per una durata illimitata nell’impresa; (ii) assenza di necessità di rimborso; (iii) assenza di obblighi formali di remunerazione minima; (iv) gli apporti mediante capitale proprio sono una forma di finanziamento relativamente semplice da ottenere che non presenta richiesta di garanzie particolari o procedure complesse per l’erogazione, cosa che invece talvolta accade per il finanziamento mediante capitale di debito. Fin qui abbiamo parlato della manovra dell’equity. La manovra del debt si ha quando l’azienda ricorre a prestiti esterni per finanziare

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le proprie attività. Nella prassi è diffuso parlare di debt perché di norma le aziende acquistano risorse finanziarie dall’esterno tendenzialmente per finanziarie la loro crescita e una volta raggiunta tale crescita, tali aziende dovrebbero invece generare liquidità; se questo non avviene vuol dire che sicuramente esiste uno squilibrio nella gestione del capitale circolante netto, non potendo essere gli investimenti responsabili del continuo fabbisogno finanziario, poiché in quest’ultimo caso avremmo investimenti che in media non garantiscono un ritorno positivo. Le forme di finanziamento cosiddette esterne, correlate al capitale di debito, possono riguardare sia finanziamenti di breve periodo, sia di medio-lungo periodo. Le prime riguardano la copertura di fabbisogni di liquidità temporanei, anche inattesi o collegati alla gestione del capitale circolante netto, che esprime tipicamente esigenze finanziarie di breve termine. Sono normalmente riferite alla copertura del ciclo produttivo dell’impresa e degli eventuali squilibri temporanei causati dalla non perfetta correlazione temporale tra incassi e pagamenti. Queste forme tecniche fanno riferimento per lo più agli scoperti di conto corrente, al denaro corrente, alle anticipazioni su fattura, al credito di fornitura, o ad altre forme simili che consentono all’azienda di disporre di affidamenti sui quali paga oneri finanziari in relazione all’entità e al tempo di utilizzo. Le seconde riguardano, invece, la copertura di fabbisogni finanziari di lungo periodo, correlati tipicamente agli investimenti in beni durevoli pianificati dall’impresa. Queste forme di finanziamento riguardano principalmente i mutui bancari, eventualmente assistiti da varie forme di garanzia, tra cui i mutui ipotecari, i prestiti obbligazionari o altre tipologie di finanziamento indiretto, come il leasing finanziario. Il capitale di credito, quale forma di finanziamento, presenta diversi oneri: (i) è una fonte di finanziamento che deve essere rimborsata secondo obblighi ben precisi, che dipendono dal tipo di forma tecnica e dagli accordi contrattuali; (ii) deve essere remunerata in base ad un tasso di interesse contrattuale che potrà essere fisso o variabile, a seconda che si scelga di agganciare l’andamento del costo delle risorse utilizzate agli indicatori di mercato. Sulla base di una prima analisi è evidente che, in linea generale, risulti più conveniente per l’impresa ricorrere all’aumento di capitale proprio o all’autofinanziamento piuttosto che contrarre finanziamenti esterni. Quest’ultimi, come visto, presentano infatti notevoli oneri. Tuttavia adesso vedremo come le valutazioni siano diverse quando entra in gioco la c.d. variabile fiscale. 5.1.2. La variabile fiscale nella scelta debt/equity La relazione tra le variabili fiscali e le scelte di finanziamento sono probabilmente

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quelle più critiche ed alle quali deve essere prestata maggiore attenzione. La struttura della tassazione del reddito d’impresa prevede, infatti, in linea generale (e con alcune limitazioni che vedremo), la deducibilità della remunerazione del capitale di credito, ma non del capitale proprio, con la conseguente creazione di un “vantaggio fiscale” per il debito. In altri termini la scelta tra debito e capitale di rischio viene influenzata da considerazioni che tengono conto del risparmio d’imposta ottenibile grazie al diverso regime tributario cui sono soggetti i dividendi rispetto agli interessi. Nel caso in cui si effettua un apporto di capitale di rischio, la remunerazione delle partecipazioni al capitale, ossia il dividendo distribuito dalla società al socio, non è deducibile dal reddito imponibile della società che lo eroga. Al contrario, nel caso di finanziamento tramite costituzione di un prestito, gli interessi passivi che ne derivano rappresentano un costo da imputare in bilancio. Nel sistema italiano la complessità della normativa ha creato dei veri e propri ordinamenti di convenienza fiscale delle fonti di finanziamento che, unite ad elementi specifici di governance (la tradizionale avversione all’allargamento della compagine azionaria), hanno reso la propensione per la scelta dell’indebitamento rispetto all’apporto di capitale proprio alla base delle scelte finanziarie delle imprese di dimensioni medio piccole. L’autofinanziamento è sempre stata infatti la fonte privilegiata, proprio per le caratteristiche di “autonomia” che lo contrappongono al rapporto creditizio o all’allargamento della partecipazione azionaria. Prima della riforma fiscale, intervenuta a limitare gli arbitraggi fiscali a favore del debito, nella logica della pianificazione fiscale la leva finanziaria aveva un ruolo di primo piano: attraverso opportune operazioni aziendali, infatti, era possibile ottenere arbitraggi fiscali favorevoli. Gli operatori economici strutturavano il patrimonio aziendale in modo da combinare il mix tra capitale proprio e capitale di indebitamento al solo fine della deducibilità fiscale. Ciò determinava che il capitale investito dal socio qualificato veniva remunerato per la maggior parte con la corresponsione di interessi attivi anziché dividendi; per la società partecipata, simmetricamente, si trasformavano dividendi da distribuire (non deducibili) in interessi passivi deducibili. È evidente che il ricorso alla capitalizzazione sottile (thin capitalization), in favore dell’indebitamento verso il medesimo soggetto finanziatore, era tanto più conveniente quanto maggiore era la differenza tra il risparmio d’imposta ad aliquota ordinaria (calcolato sull’aliquota vigente dell’imposta societaria), conseguito dalla società finanziata che deduceva interessi passivi, e l’aliquota, spesso ridotta, applicabile ai corrispondenti interessi attivi riferibili al socio finanziatore. Successivamente con la riforma del 2003 sono stati introdotti diversi strumenti volti a limitare la deducibilità degli interessi passivi. Nonostante ciò ancora oggi la variabile fiscale porta a propendere per il debt quale forma di finanziamento dell’attività

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aziendale. 5.1.3. Deducibilità fiscale degli interessi passivi Abbiamo visto sopra come la componente fiscale giochi un ruolo importante nella scelta debt/equity posto che la deducibilità fiscale degli interessi passivi rappresenta un vantaggio finanziario non indifferente per l’impresa. Prima della riforma del 2003 gli interessi passivi erano deducibili, ai sensi dell’art. 63 del vecchio TUIR, per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e di altri proventi che concorrevano a formare il reddito e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi. In vigenza di tale sistema, al fine di incentivare le imprese a ridurre la sottocapitalizzazione era stata introdotta la Dual Income Tax (DIT), una normativa volta ad incentivare l’apporto di nuovo capitale nell’impresa, e ridurre così la disparità di trattamento tra capitale di debito e di rischio23. Tale normativa prevedeva l’imposizione ad un’aliquota ridotta del 19% per la parte corrispondente alla remunerazione ordinaria della variazione in aumento del capitale investito rispetto a quello esistente alla chiusura dell’esercizio precedente. Il tasso di remunerazione ordinaria era determinato sulla base dei rendimenti dei titoli obbligazionari, pubblici e privati, aumentati fino ad un massimo di 3 punti percentuali. Per le società quotate l’aliquota era poi ulteriormente ridotta al 7%, mentre la rimanente quota di reddito continuava ad essere tassata secondo l’aliquota ordinaria. Un ulteriore intervento normativo mirante a disincentivare la sottocapitalizzazione delle imprese è stata la cd. Legge Prodi (art. 7 del DL 323/96). Scopo della Legge Prodi è quello di penalizzare l’imprenditore che, in luogo di apportare capitale di rischio nell’impresa e riceverne un compenso sotto forma di dividendo, fornisce gli stessi capitali ad un istituto di credito in deposito a garanzia di un prestito che lo stesso istituto eroga alla sua impresa. L’imprenditore continua, in questo modo, a percepire redditi dai titoli in deposito, mentre la società finanziata paga gli interessi passivi sul finanziamento (deducibili ai fini fiscali). La norma tende a scoraggiare simili comportamenti stabilendo che sui proventi derivanti da depositi di denaro, di valori mobiliari e di altri titoli diversi dalle azioni e titoli similari sia applicata una ritenuta del 20%, indipendentemente da ogni altro prelievo previsto per questa tipologia di reddito. Sono soggetti a questa norma le persone fisiche che non esercitano attività d’impresa (o

23 La Circolare Ministeriale n. 269/E del 5 novembre 1996 precisava in proposito che “tali disposizioni mirano a contrastare un diffuso fenomeno elusivo praticato per trasformare utili d’impresa, tassabili nella misura ordinaria ai fini dell’imposta personale, in interessi od altri proventi soggetti ad una tassazione in forma di imposta cedolare più contenuta”.

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che esercitano attività d’impresa, ma i beni depositati a garanzia non sono relativi all’impresa), le società semplici ed equiparate ai sensi dell’art. 5 del TUIR, gli enti non commerciali e i soggetti non residenti senza stabile organizzazione in Italia che prestano garanzia a favore di imprese residenti in Italia. La legge Prodi risulta per certi aspetti penalizzante e per altri facilmente eludibile. Infatti la normativa colpisce anche le garanzie prestate da terzi che non presentano rapporti partecipativi nell’impresa finanziata, non richiedendo nessun rapporto minimo di partecipazione nella società finanziata da parte del soggetto depositante (ad esempio il coniuge che pone in garanzia un proprio deposito amministrato per consentire all’impresa intestata all’altro coniuge di usufruire di un finanziamento bancario). Inoltre la norma riguarda solamente le garanzie reali, tralasciando quelle personali e non prevede nulla in tema di finanziamenti soci. La riforma fiscale del 2003 è intervenuta in maniera più radicale sul fenomeno della sottocapitalizzazione delle imprese italiane. Fino alla recente Finanziaria 2008 la deducibilità degli interessi passivi era regolata infatti attraverso un sistema articolato che si componeva di tre norme gerarchicamente ordinate: a) l’articolo 98 del TUIR - thin capitalization rule: le disposizioni anti thin

capitalization prevedevano, in caso di finanziamento erogato da un socio qualificato o da una sua “parte correlata” o garantito dal socio, l’individuazione di limiti quantitativi oltre i quali gli oneri finanziari non erano considerati fisiologici. In tale ipotesi si assisteva ad una riqualificazione degli interessi, i quali assumevano, da un punto di vista fiscale, le caratteristiche degli utili, in quanto venivano considerati una remunerazione di capitale di rischio e non di finanziamento. Pertanto gli interessi passivi risultavano indeducibili per la società finanziata e corrispondentemente gli interessi attivi, riqualificati in dividendi, erano esclusi da tassazione per il socio qualificato percettore o per la sua parte correlata. Senza entrare nello specifico della norma, occorre ricordare che il livello di indebitamento si considerava fisiologico se non superava di quattro volte il patrimonio netto contabile della società di pertinenza dei soci qualificati e delle loro parti correlate;

b) l’articolo 97 del TUIR – pro rata patrimoniale: tale norma prevedeva un pro rata patrimoniale di indeducibilità degli interessi passivi specificamente riferito all’ipotesi in cui l’impresa possedeva delle partecipazioni che si qualificano per l’esenzione di cui all’articolo 87 TUIR (regime pex). In particolare, tale norma trovava applicazione ogni qual volta il valore di libro delle partecipazioni esenti era superiore al valore del patrimonio netto contabile dell’impresa. Il pro-rata di indeducibilità veniva calcolato sulla base del seguente rapporto:

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______Partecipazioni esenti – PN_____ * 100 Totale attivo – PN – Debiti Commerciali c) l’art. 96 del TUIR – pro rata generale: infine tale disposizione ammetteva in

deduzione dal reddito “la quota di interessi passivi che residua dopo l’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 97 e 98 del TUIR per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e degli altri proventi che concorrono a formare il reddito e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi” .

Come prima anticipato la Finanziaria 2008 ha rivoluzionato il sistema delle deducibilità degli interessi passivi. Dal 1° gennaio 2008, infatti, per le imprese con esercizio coincidente con l’anno solare, la regola sulla deduzione degli interessi passivi è stata racchiusa nel nuovo art. 96 TUIR che prevede una limitazione alla deducibilità per la parte degli oneri finanziari e degli oneri e proventi assimilati nei limiti del 30% del risultato operativo lordo (ROL) della società. Accanto all’art. 96 citato vi sono poi altre tre norme che riguardano gli interessi: a) l’art. 1, comma 34, della Finanziaria 2008 che prevede l’applicazione di una

franchigia di deducibilità pari a 10.000 € e 5.000 € rispettivamente per il primo e per il secondo periodo di applicazione della nuova norma;

b) l’art. 102, comma 7, ultimo periodo del TUIR che prevede che la quota degli interessi impliciti desunti dal contratto di leasing è soggetta alle regole del citato art. 96;

c) l’art. 172, comma 7, ultimo periodo del TUIR che introduce regole che limitano il riporto a nuovo delle eccedenze nel caso di operazioni di fusione.

Tornando alla norma base, ossia all’art. 96 TUIR, la procedura per calcolare la quota di interessi indeducibili presuppone due fasi: a) in una prima fase occorre individuare il totale degli oneri finanziari interessati

dalla norma a cui corre aggiungere gli interessi impliciti relativi al canone di locazione finanziaria (art. 102, comma 7, TUIR). La quantificazione di questa componente deve avvenire sulla base delle informazioni desumibili dal contratto di locazione finanziaria;

b) nella seconda fase, l’importo così determinato deve essere scomposto in sei componenti.

Le sei componenti sono: 1) interessi capitalizzati: la legge prevede che dal conteggio siano esclusi gli

interessi che sono imputati ad incremento dei costi dei beni; 2) interessi comunque indeducibili: il secondo passaggio consiste nell’individuazione

degli interessi comunque indeducibili per applicazione di altre norme di legge (ad

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esempio gli interessi sui prestiti obbligazionari che eccedono il limite massimo). Dato che l’art. 96, comma 6, prevede l’applicazione prioritaria di queste altre disposizioni, questo importo va a decurtare gli interessi da assoggettare al calcolo percentuale previsto dalla nuova regola;

3) interessi comunque deducibili: la parte degli interessi che rimane comunque deducibile a prescindere dal rapporto operativo lordo è pari all’ammontare di interessi attivi, proventi finanziari e relativi oneri assimilati;

4) quota deducibile: l’importo degli oneri finanziari che residua dopo i calcoli precedenti deve essere posto a confronto con il 30% del ROL. Fino a questo ammontare, siamo in presenza di un importo deducibile dal reddito;

5) franchigia: nella disposizione transitoria è previsto che per il primo biennio di applicazione della norma il limite di deducibilità venga aumentato da una specifica franchigia. Trattando del periodo 2008, quindi, la franchigia sarà pari a 10.000 €;

6) eccedenza indeducibile: l’eventuale importo che residua ulteriormente dopo l’applicazione dei calcoli precedenti rappresenta la quota di oneri finanziari indeducibile. Si tratta dell’eccedenza che potrà essere riportata nei periodi d’imposta successivi. Per le società in consolidato fiscale, le eccedenze di interessi indeducibili (salvo quelle sorte prima dell’opzione) si trasferiranno nel gruppo e potranno essere compensate, dalla controllante, con eccedenze negative di altre società; è il caso degli interessi della holding, in genere dotate di ROL pari a zero. Per evitare fenomeni elusivi, il riporto delle eccedenze in caso di fusione e di scissione sarà soggetto alle condizioni previste per il riporto delle perdite. Facciamo ora un esempio concreto di applicazione della normativa sulla

deducibilità degli interessi nel 2007 e nel 2008. L’esempio che segue considera una società di capitali media che presenta i seguenti valori di conto economico:

Valore della produzione 10.000.000 Costi della produzione 9.400.000 (di cui ammortamenti 250.000)

Differenza tra valore e costi della produzione

600.000

Risultato operativo lordo (600.000+250.000)=850.000

Interessi passivi netti 320.000

Utile lordo 280.000

Variazioni fiscali nette 50.000

Imponibile IRES 330.000

IRES 33% 108.900 L’esempio che segue presenta una simulazione del carico fiscale che graverà sulla

80

società di capitali, applicando le nuove regole in vigore dal 2008, in tre ipotesi In confronto va fatto sempre con l’IRES del 2007, in quanto si è mantenuto costante l’utile lordo prima delle imposte e le variazioni fiscali diverse da quelle per interessi, modificando la sola struttura. a) indebitamento costante: nel primo caso si è ipotizzato che la società mantenga

l’indebitamento costante rispetto alla situazione del 2007, e così pure la struttura del conto economico. I calcoli evidenziano come, per una società con questa tipologia di indebitamento, e, conseguentemente, con questo carico di oneri finanziari, l’abbassamento dell’aliquota dal 33% al 27,5% sia controbilanciato dall’indeducibilità degli oneri finanziari. Il risultato finale è un importo di IRES analogo a quello con le norme del 2007.

b) indebitamento crescente: la seconda ipotesi si base invece su un elevato incremento degli oneri finanziari (ad esempio a causa di nuovi investimenti finanziati con debito bancario), il cui importo è coperto dall’aumento del risultato operativo (differenziale tra valore e costi della produzione), con l’utile lordo finale che resta immutato rispetto alla prima ipotesi del 2007. Si è ipotizzato che il risultato operativa comprenda maggiori ammortamenti (nuovi investimenti). La crescita degli interessi genera una forte indeducibilità, in quanto solo il 30% del maggior risultato operativo lordo può essere utilizzato per coprire gli oneri finanziari.

c) indebitamento ridotto: la terza situazione prevede una forte riduzione degli oneri finanziari a fronte di a una corrispondente diminuzione del ROL . Anche in questo caso l’utile finale resta invariato rispetto al 2007. Gli interessi diventano tutti deducibili, per effetto del fenomeno contrario a quello indicato nell’ipotesi precedente (la soglia di deduzione si riduce solo del 20% della diminuzione del ROL). Si sfrutta la riduzione dell’aliquota IRES (l’imposta scende di un sesto rispetto a quella derivante dalle norme 2007).

Conto

economico Indebitamento

costante Indebitamento in

aumento Indebitamento in

diminuzione Valore della produzione

10.000.000 10.000.000 10.000.000

Costi della produzione

9.400.000(di cui ammortamenti:

250.000)

9.100.000 (di cui ammortamenti: 500.000)

9.600.000 ( di cui ammortamenti:

200.000) Differenza tra valore e costi

della

600.000 900.000 400.000

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produzione

Risultato operativo lordo

(600.000+250.000)= 850.000

(900.000+500.000)= 1.400.000

(400.000+200.000)= 600.000

Risultato operativo lordo

X 30%

255.000 420.000 120.000

Interessi passivi netti

320.000 620.000 180.000

Utile lordo 280.000 280.000 280.000 Variazioni fiscali nette

(auto, rappresentanza

ecc.. )

50.000 50.000 50.000

Interessi indeducibili

65.000 200.000 0

Imponibile Ires 395.000 530.000 330.000 Ires X 27,5% 108.625 145.750 90.750

82

CAPITOLO VI

6.1. LE HOLDING DI FAMIGLIA ED I TRUST 6.1.1. Holding di famiglia

Come detto più volte il tax planing ha la funzione di rendere possibile

l’ottenimento e lo sfruttamento dei risparmi d’imposta, ma provvede anche ad una razionale distribuzione nel tempo dei flussi finanziari.

La scelta dello strumento più adatto dipende da molte variabili che possono non essere solo di carattere fiscale di modo che, fatta una scelta finalizzata ad obbiettivi diversi da quelli fiscali, questa possa poi essere coordinata ed adottata in modo da ottenere anche una razionalizzazione del debito d’imposta.

E’ possibile che alla base di un progetto di pianificazione fiscale ci sia la volontà di conservare e proteggere il patrimonio di famiglia affinché i comportamenti dei singoli membri della famiglia non possano mettere in pericolo la ricchezza accumulata, per differenziare e localizzare opportunamente gli investimenti al fine di ottenere il massimo rendimento minimizzando i costi, soprattutto fiscali, sia sul reddito prodotto dalla gestione del patrimonio, sia sulla circolazione all’interno della famiglia dei singoli beni facenti parte del patrimonio.

La vita dell’impresa familiare segue di solito tre fasi di sviluppo che sono così caratterizzate: a) inizialmente il fondatore dirige l’azienda concentrando nella sua persona la figura

di proprietario e amministratore; può essere costituita una società di persone tra membri della famiglia;

b) in un secondo momento si assiste all’ingresso di manager esterni, che contribuiscono allo sviluppo, anche organizzativo dell’azienda; si ha in questo momento il passaggio da una società di persone ad una piccola società di capitali (una Srl);

c) l’impresa si ingrandisce e necessita di nuovi capitali, magari con l’ingresso di nuovi soci che, solitamente, comporta il passaggio da Srl a S.p.A., con successiva divisionalizzazione dell’impresa e riorganizzazione delle funzioni aziendali.

Si delinea, di conseguenza, la necessità di ripensare l’intero sistema aziendale in

un’ottica di medio – lungo periodo. La ristrutturazione sarà basata non solo su aspetti economici, ma anche personali, come quelli legati al trasferimento generazionale.

83

Uno strumento utilizzabile in questi casi è la costituzione di una holding di famiglia che abbia all’attivo partecipazioni nelle società operative. Lo scopo può essere quello di allontanare tutti i conflitti dalle società operative, ovvero di coinvolgere azionisti terzi in queste mantenendo un ambito di controllo dove vi siano solo i familiari o ancora di preparare a favorire il ricambio generazionale.

Le holding permettono una blindatura dell’impresa familiare, rendono più facile il reperimento delle risorse finanziarie, chiariscono i confini tra ambito proprietario e ambito imprenditoriale-manageriale.

Nel sistema azienda-famiglia sono individuabili tre sottosistemi ai quali occorre contrapporre tre sistemi di obiettivi.

SISTEMA OBIETTIVI

FAMIGLIA COESIONE PATRIMONIO RITORNO SUL CAPITALE AZIENDA EFFICIENZA OPERATIVA

Questi tre sistemi sono integrati, ma relativamente indipendenti in quanto ciascun sistema persegue obiettivi differenti. In un tale contesto l’interposizione di una holding di famiglia a gestione professionale permette di “sterilizzare” il rapporto tra la famiglia e le società operative, affinché queste non siano colpite dalle vicende (come il passaggio generazionale o liti interne) che possono colpire la proprietà.

Questa configurazione porta ad una serie di vantaggi finanziari, societari e fiscali. Vantaggi finanziari:

a) razionalizzazione della struttura finanziaria: la holding può distribuire e raccogliere i fondi necessari tra le società del gruppo, senza dover ricorrere ai soci ogni volta che ci sia la necessità di trasferire risorse da una società all’altra;

b) razionalizzazione della distribuzione degli utili: la holding raccoglie gli utili delle controllate e li distribuisce ai soci in modo unitario, dopo aver valutato le esigenze finanziarie dell’intero gruppo;

c) accentrando in capo alla holding lo svolgimento di alcuni servizi comuni a tutte le società del gruppo potrebbe realizzarsi una riduzione dei costi di gestione e amministrativi.

Vantaggi societari: a) razionalizzazione del controllo societario: attraverso la holding si crea un unico

raggruppamento stabile di soci, posto indirettamente in capo a tutte le società; b) in caso di controversie tra i membri della famiglia non si hanno ripercussioni

negative sulla gestione operativa;

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c) viene favorito il passaggio generazionale dell’impresa di famiglia. Vantaggi fiscali: i vantaggi fiscali più spiccati sono connessi alla tassazione dei capital gains e dei dividendi. a) regime fiscale dei dividendi: esclusione del 95% dall’imponibile dei dividendi

provenienti da società non residenti in paradisi fiscali, per la holding e tassazione limitata al 49,72% per l’imprenditore che ha una partecipazione qualificata o limitata al 12,5% per i membri della famiglia che detengono una partecipazione non qualificata;

b) regime fiscale dei capital gains: esenzione all’95% per i capital gains se sono rispettate le condizioni per la participation exemption (iscrizione della partecipazione nelle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso; periodo di possesso pari almeno a 12 mesi; residenza fiscale in uno Stato che non sia a fiscalità privilegiata; esercizio di attività commerciale della società partecipata) per la holding e tassazione limitata al 49,72% per il socio (l’”imprenditore”) che ha una partecipazione qualificata o limitata al 12,5% per i membri della famiglia che detengono una partecipazione non qualificata;

c) possibilità di optare per la tassazione consolidata di gruppo (di cui si tratterà più oltre);

d) possibilità di pianificare il passaggio generazionale e limitare le imposte sui trasferimenti;

e) possibilità di intestare alla holding nuove partecipazioni utilizzando, per finanziare tali acquisti, i redditi accumulati nella holding senza che questi siano prima distribuiti alle persone fisiche, e quindi senza che siano tassati fino all’ultimo anello della catena societaria. I punti critici di una struttura di tal genere possono essere rappresentati da elevati

costi di struttura e di gestione. Inoltre le holding potrebbero ricadere nell’ambito di applicazione della disciplina delle società di comodo24, finalizzata ad evitare l’abuso degli schermi societari.

Nell’ambito della pianificazione fiscale è sempre importante, quindi, un’opportuna analisi costi-benefici, che prenda in esame tutti gli aspetti della gestione del gruppo che fa capo alla holding di famiglia.

Vengono qui di seguito esposte alcune esemplificazioni dei possibili arbitraggi fiscali che possono essere posti in essere attraverso una holding di famiglia.

La famiglia Rossi è titolare di alcune aziende di famiglia, che, da due generazioni hanno un buon posizionamento nel settore del tessile. Il gruppo si è pian piano

24 Art. 30 L. 724/97.

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ingrandito, tanto da essere attualmente composto da diverse società di capitali che corrispondono ad altrettante divisioni del sistema produttivo. I soci sono: la moglie del fondatore, l’ing. Rossi, la quale detiene, nella varie società, partecipazioni pari al 34%, e i figli Gianni e Gionni Rossi, i quali detengono entrambi partecipazioni pari al 33%. L’attuale assetto societario è, pertanto, il seguente:

Le partecipazioni dei membri della famiglia Rossi, essendo partecipazioni al capitale superiori al 25%, sono tutte qualificate. Ipotizziamo che: a) la ROSSI SETA Spa distribuisca un dividendo di 30.000 Euro; b) la ROSSI CASHMERE Spa distribuisca un dividendo di 60.000 Euro; c) la ROSSI COTTON Spa distribuisca un dividendo di 10.000 Euro.

Ad un certo punto la famiglia Rossi decide di vendere a terzi le tre società, e realizza una plusvalenza di 200.000 Euro su ogni società. La situazione personale dei soci sarà la seguente:

PLUSVALENZE

realizzate

Importo imponibile dei capital gains

(49,72% del totale ex

art. 68, c. 3 Tuir))

ALIQUOTA MARGINALE

relativa al reddito

personale del socio

Tassazione subita dai

capital gains25

Sig.ra Rossi (68.000+68.000+68.000) =

204.000

81.600 43% 35.088

Gianni Rossi (66.000+66.000+66.000) =

198.000

79.200 43% 34.056

Gionni Rossi (66.000+66.000+66.000) =

198.000 79.200 43% 34.056

Proviamo a vedere se l’interposizione di una holding di famiglia possa abbassare il

carico fiscale dei membri della famiglia Rossi in relazione alle partecipazioni nelle società del gruppo. L’assetto societario potrebbe diventare il seguente

25 Si veda la nota precedente.

86

a) tassazione al livello della holding I dividendi di 30.000, 60.000, 10.000 Euro in capo alla holding saranno tassati per

il 5% all’aliquota del 27,5%, ex art. 89, comma 2, Tuir [(100.000*5%) * 27,5%] = Euro 1.375.

Quando le società saranno vendute a terzi la holding realizzerà un capital gain di 600.000 Euro, che sarà tassato per il 5% all’aliquota del 27,5%, ex art. 87, comma 1, Tuir [(600.000 * 5%) *27.5%] = Euro 8.250 b) tassazione al livello dei soci DIVIDENDO

dalla holding Importo

imponibile dei dividendi

(49,72% del totale ex art.

47, c. 1 Tuir)

ALIQUOTA MARGINALE

relativa al reddito

personale del socio

Tassazione subita dai soci sui

dividendi26

Sig.ra Rossi 34.000 13.600 43% 5.848 Gianni Rossi 33.000 13.200 27% 3.564 Gionni Rossi 33.000 13.200 38% 5.016

PROVENTO DA

LIQUIDAZIONE Importo

imponibile (49,72

% del totale ex art.

47, c. 1 Tuir)

ALIQUOTA MARGINALE

relativa al reddito

personale del socio

Tassazione subita dal provento27

Sig.ra Rossi 204.000 81.600 43% 35.088 Gianni Rossi 198.000 79.200 43% 34.056 Gionni Rossi 198.000 79.200 43% 34.056

La semplificata struttura societaria dell’esempio rende evidente l’elevato

risparmio di imposta che si ottiene al livello della holding. Effettuando la comparazione tra il carico fiscale sopportato dalla holding e quello sopportato dai soci, appare evidente come in una struttura societaria più complessa, in cui una famiglia si trovi a capo di un articolato gruppo di società, (per inciso anche laddove residenti all’estero), l’interposizione di una holding sia in grado di “sterilizzare” l’effetto fiscale delle operazioni societarie sui dividendi e sui capitali gains; la holding, infatti, razionalizza l’erogazione di dividendi alla famiglia, dopo averli raccolti dalle società operative

26 Per esigenze di semplicità si applica l’aliquota marginale del 43% come se fosse un’aliquota proporzionale. 27 Si veda la nota precedente.

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controllate, considerando le specifiche esigenze di autofinanziamento. 6.1.2. Il trust Un altro strumento tipico di pianificazione fiscale (ma non solo) è costituito dal trust. Il trust è un istituto tipico della civiltà anglosassone che può assumere nella pratica forme diverse e variegate delle quali, di volta in volta, occorre individuare e valutare le peculiarità. In Italia il trust ha trovato riconoscimento giuridico attraverso la L. 364/1989, recante la ratifica della Convezione dell’Aja. Sul piano civilistico si ricorda che sono denominati trust i rapporti giuridici istituiti da una persona, detta disponente o costituente (o settlor) con atto inter vivos o mortis causa, qualora alcuni beni o diritti siano stati posti sotto il controllo di un amministratore o un affidatario (trustee), nell’interesse di un terzo beneficiario (o dello stesso disponente) ovvero per una fine specifico. Aspetto caratteristico del trust è quello di essere costituito con un negozio unilaterale, con collegati uno o più atti dispositivi, in base al quale, mentre la titolarità del diritto di proprietà è piena in capo al trustee, l’esercizio di tale diritto avviene secondo le modalità e gli scopi indicati nell’atto costitutivo. I beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto di esso, ma costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee stesso, il quale deve rendere conto di amministrare, gestire o disporre dei beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge scelta dal costituente o che ha più stretti legami con il trust. I beni conferiti nel trust non possono, pertanto, essere escussi dai creditori del trustee, del disponente o del beneficiario (ma possono essere aggrediti dai creditori del trust stesso e ciò è molto rilevante sotto il profilo fiscale). A ben vedere, il trust può essere visto come una particolare forma di “patrimonio separato”. Con l’espressione patrimonio separato s’intende descrivere quella situazione per la quale una determinata massa di beni viene diversificata dal resto del patrimonio del soggetto, per essere destinata ad assolvere ad una peculiare funzione. Tale definizione evidenzia la configurazione di una separazione non soltanto quantitativa del patrimonio, ma anche qualitativa in quanto la destinazione ad uno scopo particolare modifica l’intera fisionomia della massa separata, con implicazioni inevitabili sul regime giuridico applicabile. In questo senso, infatti, la disciplina speciale dei patrimoni separati prevede, da un lato, vincoli - per il caso in cui il patrimonio debba essere trasferito dal suo titolare per scopi diversi da quello impresso con la destinazione -, e, dall’altro, pone limiti (ai creditori che intendono aggredire i beni costituenti il

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patrimonio separato). Più precisamente i creditori del patrimonio separato prevalgono su quelli ordinari, ai quali è di fatto imposto di attendere che si verifichi la condizione che fa venire meno le separazione, affinché possano agire per vedere soddisfatti i propri crediti. Nel nostro Ordinamento viene considerato un esempio di patrimonio separato il fondo patrimoniale dei coniugi di cui all’art. 167 e segg. c.c., dove il patrimonio personale dei coniugi, sebbene in misura diversa a seconda del regime patrimoniale prescelto, risponde comunque per le obbligazioni contratte al fine di soddisfare i bisogni della famiglia esuberanti la capienza del fondo stesso. Come anticipato, l’Italia attraverso la L. 364/1989, recante la ratifica della Convezione Aja, ha recepito il trust nel proprio ordinamento in punto di riconoscimento giuridico dei suoi effetti. A ciò tuttavia fino al 2006 non ha fatto seguito l’adozione di specifiche disposizioni attuative civilistiche e fiscali. La Finanziaria 2007 per la prima volta ha dettato una disciplina fiscale per il trust. In particolare con la Finanziaria citata si è modificato l’art. 73 TUIR prevedendo espressamente che i trust sono soggetti passivi IRES in quanto enti titolari di autonoma capacità contributiva. E’ prevalsa dunque la tesi che vuole il trust come un soggetto autonomo da un punto di vista tributario e non già come un’entità sempre e comunque “trasparente”. Si applicano pertanto al trust gli obblighi previsti per i soggetti IRES quale quello di dotarsi di un codice fiscale, di presentare annualmente la dichiarazione dei redditi, di avere (se esercita un’attività commerciale) una propria partita IVA, di adempiere agli obblighi formali e sostanziali relativi all’IRAP. Gli adempimenti tributari del trust sono assolti dal trustee. I trust sono inoltre obbligati a tenere le scritture contabili secondo le disposizione del DPR 600/1973. Ai fini delle imposte dirette, il legislatore distingue tra i trust aventi beneficiari individuati (trust trasparenti) e quelli senza beneficiari individuati (trust opachi). Il trust è opaco quando i relativi beneficiari non sono individuati ed in questo caso i redditi sono imputati direttamente al trust. Il trust trasparente si ha quando l’atto istitutivo (o documenti successivi) del trust individui i beneficiari dello stesso. In questo, ai fini fiscali, i redditi conseguiti dal trust sono imputatiti a quest’ultimi in proporzione alla quota di partecipazione di ciascuno o, se non specificata, in parti uguali (art. 73, comma 2, ultimo periodo del TUIR). Solamente in questo caso, quindi, il trust può essere riguardato come un soggetto trasparente ai fini fiscali. Sulla base di quanto previsto dal novellato art. 44, comma 1, lett. g-sexies) i redditi così imputati ai beneficiari sono considerati per quest’ultimi redditi di capitale. La norma ricalca l’art. 5 TUIR relativo alla tassazione per trasparenza delle società personali.

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Ai fini del tax planing è evidente che il previsto doppio binario tassazione in capo al trust – tassazione in capo ai soci deve essere attentamente valutato al fine di prevenire ipotesi di doppia imposizione: si pensi ad esempio al trust che investe i propri beni per trarne un reddito e che, inoltre, attribuisce ai beneficiari anche una rendita vitalizia. Il beneficiario rischia di scontare una doppia tassazione: sul reddito prodotto dal trust e sulla rendita vitalizia imputatagli. Ovviamente, data la flessibilità propria del trust, è possibile che esso sia contemporaneamente trasparente e opaco quando l’atto costitutivo prevede, ad esempio, che parte del reddito di un trust sia accantonata a capitale e parte sia invece attribuita ai beneficiari. In tale ipotesi la parte del reddito accantonato verrà tassato in capo al trust – con assoggettamento ad IRES – mentre quello attribuito ai beneficiari, ricorrendone i presupposti, verrà imputato per trasparenza a questi ultimi che, quindi, provvederanno ad assoggettarlo alle imposte sul reddito. Con riguardo al trust particolarmente delicata risulta essere la questione della sua residenza. La residenza, invero, è particolarmente rilevante per il trust in quanto nel caso di trust residente tutti i suoi redditi, ovunque prodotti, sono imponibili in Italia, mentre per il trust non residente l’imponibilità in Italia trova ingresso solo per i redditi prodotti nel territorio dello Stato, secondo il disposto dell’art. 23 TUIR. Per evitare che il contribuente ottenga un risparmio d’imposta localizzando un trust in paese a fiscalità privilegiata il novellato art. 73, comma 3, TUIR ha previsto due presunzioni di residenza dei trust esteri: a) in particolare è prevista una presunzione legale relativa di residenza nel territorio

dello Stato del trust se almeno uno dei disponenti ed almeno uno dei beneficiari sono fiscalmente residenti nel territorio nazionale. La presunzione opera solo se i trust sono istituiti in paesi diversi di quelli appartenenti alla c.d. white list, per i quali è attuabile lo scambio di informazioni;

b) inoltre si considerano residenti in Italia i trust istituiti in uno Stato diverso da quelli compresi nella white list quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente effettua, in favore del trust, un’attribuzione che comporti il trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi. Con riguardo alle imposte indirette si precisa quanto segue.

L’atto costitutivo del disponente – se non prevede anche il trasferimento dei beni nel trust, destinato a realizzarsi in una fase successiva, ed è redatto con atto pubblico o scrittura privata autenticata – deve essere assoggettato all’imposta di registro in misura fissa, quale atto privo di contenuto patrimoniale.

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Il trust è tuttavia soggetto anche all’imposta di donazione. L’atto dispositivo con il quale il disponente vincola i beni in trust è infatti un negozio a titolo gratuito. In passato, tuttavia, era opinione generalmente condivisa che il trasferimento per atto tra vivi dal settlor al trustee dovesse scontare l’imposta di registro e non quella di donazione, trattandosi di atto gratuito non compiuto con spirito di liberalità, bensì finalizzato all’interesse del disponente alla costituzione del trust. Questo orientamento era stato sostanzialmente recepito nel DL 262/2006 (art. 6) che, tuttavia, è stato abrogato dalla L. 286/2006 che nel ripristinare l’imposta sulle successioni e donazioni ha assoggettato a tale tributo anche gli atti traslativi di beni e diritti a titolo gratuito e quelli costitutivi di vincoli di destinazione. Non è più dubbio quindi che il trasferimento dei beni dal settlor al trustee è in ogni caso soggetto all’imposta in esame in misura proporzionale. In particolare ai fini delle applicazioni delle aliquote, che in tale imposta risultano differenziate in funzione del rapporto di parentela e affinità, occorre fare riferimento al rapporto intercorrente tra il disponente e il beneficiario e non a quello tra disponente e trustee. Nel trust di scopo, invece, che è gestito per realizzare un certo obiettivo, in cui non vi è indicazione del beneficiario finale, l’imposta sarà dovuta con aliquota dell’8% prevista per i vincoli di destinazione a favore di altri soggetti. Dunque da un punto di vista fiscale la costituzione del trust è fortemente penalizzata. Infine si ricorda che il trust è assoggettato a tassazione indiretta solo in sede di costituzione del vincolo e non anche al momento della distribuzione al beneficiario. In tal modo la devoluzione dei beni vincolati nel trust ai beneficiari non costituisce un ulteriore presupposto impositivo, in quanto i beni hanno già scontato l’imposta sulla costituzione del vincolo di destinazione al momento della costituzione del trust. 6.2. SUCCESSIONE NELL’IMPRESA FAMILIARE 6.2.1. L’impresa familiare L’impresa familiare è disciplinata dall’art. 230-bis c.c. a norma del quale per impresa familiare si intende un’impresa in cui collaborano “il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo” (cioè fino ai cugini carnali e pronipoti). Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza affinché si possa parlare di impresa familiare è necessario che concorrano due condizioni, e cioè, che sia fornita la prova sia dello svolgimento da parte del partecipante di un’attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno), sia dell’accrescimento della produttività dell’impresa procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi).

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Ad integrare la fattispecie dell’impresa familiare, è sufficiente il fatto giuridico dell’esercizio continuativo di un’attività economica da parte di un gruppo familiare, non essendo a detto fine necessaria una dichiarazione di volontà o, addirittura, un negozio giuridico. Poiché l’art. 230-bis fa riferimento all’impresa, senza ulteriori specificazioni, deve ritenersi che l’impresa familiare sia configurabile sia in presenza di impresa commerciale ex art. 2082 c.c., sia di impresa agricola ex art. 2135 c.c. ed indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, che può essere piccola, media o grande. Nell’impresa familiare la qualifica di imprenditore spetta esclusivamente a chi ha la gestione ordinaria della stessa, mentre i familiari partecipanti si limitano ad una prestazione lavorativa. La dottrina attribuisce dunque natura individuale all’impresa familiare, ravvisando nell’imprenditore l’unico titolare del potere gestorio, non solo con riferimento agli atti di ordinaria gestione, ma anche a quelli di natura straordinaria. Ciò nonostante quanto previsto dall’art. 230-bis a mente del quale “le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessione dell’impresa sono adottate a maggioranza dai familiari che partecipano all’impresa stessa”. In caso di cessione a terzi dell’impresa familiare, l’art. 230-bis c.c. assegna ai partecipanti un diritto di prelazione in caso di trasferimento dell’azienda. Pertanto, il titolare quando intende trasferire l’azienda deve comunicarlo ai partecipanti, indicando, oltre al nome dell’acquirente, le condizioni e il prezzo di cessione. A tali condizioni il partecipante deve essere preferito rispetto al terzo acquirente. Nel caso in cui più partecipanti intendono avvalersi del diritto di prelazione loro riconosciuto dalla legge ha la meglio il titolare della maggiore partecipazione. La prospettata natura individuale dell’impresa familiare trova conferma anche nella disciplina tributaria, atteso che è solo in capo al titolare dell’impresa che viene ravvisata la formazione del reddito d’impresa e la soggettività IVA, nonché tutti gli altri obblighi di natura fiscale conseguenti. Quanto alle imposte dirette va posto in evidenza che il reddito viene determinato in capo al titolare ed è oggetto ad imputazione tra ciascun collaboratore, in proporzione alla quota di partecipazione agli utili, fermo restando il limite secondo cui almeno il 51% del reddito d’impresa prodotto deve rimanere in capo al titolare dell’impresa familiare (art. 5, comma 4, del TUIR)28.

28 L’imputabilità del reddito al titolare in misura almeno pari al 51% ha fatto sorgere dubbi di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, in quanto implicherebbe l’attribuzione a tale soggetto di redditi che, civilisticamente, apparterrebbero ai familiari. La Corte Costituzionale, tuttavia, ha respinto tali eccezioni rilevando che nelle imprese familiari l’imputazione di una quota del

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Ai sensi e per gli effetti del citato art. 5, comma 4, del TUIR l’imputazione dei redditi ai collaboratori (nel limite del 49%) è ammessa solo se sono soddisfatte le seguenti condizioni: a) i familiari partecipanti devono risultare nominativamente da atto pubblico o

scrittura privata autenticata anteriore al periodo d’imposta, sottoscritta dall’imprenditore e dai familiari interessati (contrariamente a quanto avviene ai fini civilistici);

b) la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore deve recare l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, durante il periodo d’imposta;

c) ciascun familiare deve attestare, nella propria dichiarazione, di avere prestato la sua attività lavorativa nell’impresa in modo continuativo e prevalente. La normativa fiscale in questo caso è dettata con lo scopo di evitare che attraverso

la normativa disciplinate l’impresa familiare possa essere splittato il reddito dall’imprenditore individuale per aggirare la progressività. Gli utili dell’impresa sono determinati in ragione dell’eventuale differenza positiva tra componenti positivi e negativi di reddito, deducendo previamente l’eventuale compenso per i beni immessi nell’azienda dai partecipanti. L’incremento è, invece, la risultante del confronto tra il valore dei beni aziendali al momento in cui il familiare è entrato a far parte dell’impresa familiare ed il valore dei beni stessi al momento del venir meno della partecipazione. Quanto al regime fiscale delle somme ricevute per effetto del diritto patrimoniale di partecipazione agli utili occorre tenere presente che, mentre per le società di persone, il reddito della società è imputato ai soci secondo il principio della trasparenza, nel caso delle imprese familiari non è un reddito d’impresa, imputato ai partecipanti come reddito omogeneo, ma vi è netta separazione tra reddito dell’imprenditore e reddito dei collaboratori. Il reddito dell’impresa familiare viene ripartito tra titolare e collaboratori nel periodo d’imposta in cui è conseguito. Il reddito del titolare costituisce reddito d’impresa, quello dei collaboratori costituisce invece reddito di partecipazione. Il criterio di riparto degli utili non vale per le perdite, perché, secondo le regole del codice civile, i collaboratori non partecipano alle perdite. 6.2.2. La successione nell’impresa familiare

reddito a ciascun componente della famiglia è correlata alla partecipazione diretta di ognuno all’attività lavorativa e, quindi, alla sua incidenza sul conseguimento del profitto. Cfr. in tal senso Corte Cost. 6 luglio 1987 n. 251 e Corte Cost. 17 dicembre 1987, n. 555.

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La successione nell’impresa familiare può chiaramente avvenire mediante un atto inter vivos (ossia, una cessione) ovvero mediante successione. La cessione potrà essere a titolo oneroso o gratuito. Ai fini delle imposte dirette la successione nell’azienda per causa di morte ovvero la cessione della stessa ai familiari a titolo gratuito non costituisce realizzo di plusvalenza ai sensi dell’art. 58, comma 1, TUIR. L’azienda viene assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. La cessione, dunque, non ha effetti realizzativi ed i beni si trasferiscono al beneficiario che prosegue l’attività in regime di neutralità fiscale ai fini delle imposte sui redditi, senza quindi emersione di plusvalenze o minusvalenze fiscalmente rilevanti29. L’esenzione spetta anche quando a seguito dello scioglimento, entro cinque anni dall’apertura della successione, della società esistente tra gli eredi, la predetta azienda resti acquisita da uno solo di essi. Con riguardo a tale regime di esenzione vi sono tuttavia alcuni dubbi interpretativi in ordine alla possibilità di ricomprendere nel regime agevolativo in esame anche la cessione di quote di aziende. Al riguardo si propende per la soluzione negativa, posto che la norma riguarda l’azienda nella sua globalità, in vista delle prosecuzione dell’attività oggetto dell’azienda stessa da parte dei beneficiari. E’ da ricomprendere in detto ambito, invece, il trasferimento di un ramo d’azienda, sempre che tecnicamente organizzato ed idoneo a produrre autonomamente beni e servizi. Per effetto del citato art. 58, comma 1, TUIR l’assoggettamento a tassazione, che non avviene alla morte dell’imprenditore a all’atto di donazione, viene quindi rinviato al momento dell’eventuale cessione dell’azienda da parte degli eredi o del donatario (a terzi dunque). Qualora il donatario o l’erede effettui una successiva cessione a titolo oneroso, il trattamento fiscale della plusvalenza si differenzia a seconda che il soggetto cedente sia o meno imprenditore al momento della cessione: a) se il donatario o l’erede non ha esercitato l’attività d’impresa, la plusvalenza

realizzata dà luogo ad un reddito diverso che viene tassato con il criterio di cassa; b) se il donatario o l’erede hanno continuato l’esercizio dell’attività d’impresa e,

quindi, riveste lo status di imprenditore al momento della cessione, la stessa dà luogo ad una plusvalenza determinata ex art. 86 che concorre a formare il redito di impresa con il criterio di competenza. In tal caso dovrebbe risultare applicabile, laddove l’azienda sia posseduta da più di cinque anni, la tassazione separata ex art. 17 TUIR e, unicamente se il cedente continua a rivestire lo status di imprenditore

29 Confrontare in tal senso Circolare n. 91/E del 2001.

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dopo la cessione, il differimento della plusvalenza ex art. 86, comma 4, TUIR30. Ai fini delle imposte indirette, la cessione a titolo gratuito dell’azienda o la successione mortis causa scontano l’imposta sulle successioni e donazioni. Sono previste delle franchigie nelle seguenti misure: a) nel caso del coniuge e dei parenti in linea retta sul valore complessivo netto, per

ciascun beneficiario, vi è una franchigia fino a 1.000.000 di euro; b) nel caso dei fratelli e delle sorelle sul valore complessivo netto, per ciascun

beneficiario, vi è una franchigia fino a 100.000 euro. Sulla parte eccedente le suddette franchigie l’imposta si applica nella misura del

4% nelle successioni a favore del coniuge e dei parenti il linea retta ovvero nella misura del 6% nei confronti degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta nonché degli affini in linea collaterale fino al terzo grado.

Il valore dell’azienda trasferita deve essere calcolato assumendo il valore complessivo dei beni e diritti che la compongono, al netto delle passività e senza tener conto dell’avviamento. Tuttavia, la Finanziaria per il 2007 ha disposto l’esenzione sia dall’imposta di donazione che dall’imposta di successione per i trasferimenti aventi ad oggetto aziende, quote sociali e azioni, realizzati a favore dei discendenti, se essi ne mantengono il controllo o la gestione per almeno cinque anni. In tal caso l’azienda non è soggetta a tassazione qualora gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso. Il mancato rispetto della condizione comporta la decadenza del beneficio. Detta regola è valida anche nel caso in cui, a seguito dello scioglimento della società esistente tra gli eredi, nei cinque anni successivi all’apertura della successione, la predetta azienda resti acquisita da uno solo di essi. In altre parole, nel caso in cui, a seguito della successione, sia stata costituita una società tra eredi, il suo scioglimento entro cinque anni dalla morte dell’imprenditore – con il conseguimento da parte di uno soltanto degli eredi (passaggio da società a ditta individuale) - non genera reddito tassabile, a condizione che i beni trasferiti dalla società alla ditta individuale abbiano gli stessi valori contabili.

In caso di trasferimento a titolo oneroso dell’azienda ad un familiare si applicano le ordinarie regole di tassazione previste dal TUIR. Il regime fiscale ordinario delle plusvalenze realizzate da un imprenditore, per effetto della cessione di una azienda è in linea di principio quello della tassazione delle plusvalenze d’impresa. Dispone infatti

30 Ciò deriva da un principio basilare: il differimento della plusvalenza è agevolazione che compete nell’ambito delle imprese; mentre il criterio del passare del tempo che agevola le plusvalenze vale per tutti.

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l’art. 86, comma 2, TUIR che “concorrono alla formazione del reddito anche le plusvalenze delle aziende, compreso il valore di avviamento, realizzate unitariamente mediante cessione a titolo oneroso”. Queste plusvalenze (pari alla differenza tra corrispettivo e valore netto fiscale del complesso dei beni aziendali) di regola, sono tassate per intero nell’anno in cui sono realizzate. Tuttavia se i beni sono stati posseduti per un periodo non inferiore a tre anni, il contribuente ha la facoltà di scelta tra tassazione immediata nell’esercizio del realizzo e tassazione frazionata in più esercizi (ossia frazionata in quote costanti, nell’esercizio del realizzo e nei successivi, non oltre il quarto). La tassazione immediata della plusvalenza realizzata può essere conveniente quando compensa perdite di esercizio o perdite pregresse. L’imprenditore può optare per la tassazione separata, se l’azienda è stata posseduta per almeno cinque anni. La tassazione della plusvalenza realizzata con la cessione di un’azienda può essere evitata ricorrendo alla seguente operazione: conferimento dell’azienda in regime di neutralità fiscale; iscrizione della partecipazione ricevuta come immobilizzazione; cessione della partecipazione in regime pex. 6.3. LE HOLDING E LE SOCIETÀ OPERATIVE 6.3.1. Cenni alla disciplina delle società di comodo

Le holding, per lo più qualificabili in sostanza come società di mero godimento,

impongono di affrontare il tema relativo alle società c.d. di comodo, verifica molto importante ai fini del tax planing quando si deve decidere se interporre o meno un veicolo societario (holding) per l’intestazione di uno o più assets a non alta redditività (es. società immobiliari).

Quest’ultime sono società che conseguono e dichiarano ricavi inferiori ad un determinato importo e per le quali il legislatore fiscale prevede la soggezione ad imposta sulla base di un imponibile minimo presunto.

La normativa sulle società non operative è stata introdotta nel nostro ordinamento con l’art. 30 della L. 724/1994. La ratio che soggiace all’introduzione di una simile disciplina è sicuramente antielusiva ed è ravvisabile nell’intento di arginare la nascita di società ed enti aventi finalità di mera intestazione di patrimoni allo scopo di creare uno schermo tra beni e reali proprietari, nonché, se del caso, fruire di vantaggi tributari non spettanti alle persone fisiche.

Sotto il profilo soggettivo rientrano nell’ambito applicativo della disciplina in esame tutte le società commerciali (società per azioni, società in accomandita per azioni,

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società a responsabilità limitata, società in nome collettivo, società in accomandita semplice e società ad esse equiparate, ovvero società ed enti di ogni tipo non residenti con stabile organizzazione nel territorio dello Stato). Viceversa, la particolare disciplina non si applica ai soggetti che si trovano nel primo periodo d’imposta, alle società in amministrazione controllata o straordinaria, alle società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani, ai soggetti cui per la particolare attività è stato fatto obbligo di costituirsi sotto forma di società di capitali, alle società esercenti pubblici servizi di trasporto e alle società con numero di soci pari o superiore a 100 (oggi per effetto della Finanziaria 2008 superiore a 50).

Inoltre, la Finanziaria 2008 ha escluso l’applicabilità della nuova disciplina anche per le società che nei due esercizi precedenti hanno avuto un numero di dipendenti pari ad almeno 10 unità, società in stato di fallimento o assoggettate a procedure di liquidazione giudiziaria, liquidazione coatta amministrativa o concordato preventivo, società con redditività incontestabilmente significativa, società partecipate da enti pubblici in misura non inferiore al 20% del capitale sociale e società che risultano congrue e coerenti ai fini degli studi di settore. Una volta accertata la sussistenza del requisito soggettivo, per individuare le società non “operative”, è necessario procedere alla verifica del requisito oggettivo. A tal riguardo, la norma prevede una doppia verifica (cd. test di operatività): una prima verifica va effettuata con riferimento ai ricavi; solo se l’ammontare dei ricavi è inferiore a quelli minimi previsti dal legislatore (determinati come percentuale del valore di alcuni aggregati dell’attivo dello stato patrimoniale) occorre effettuare la seconda verifica che riguarda direttamente il reddito risultante dalla ordinaria determinazione analitica rispetto al reddito minimo parimenti determinato come percentuale (più bassa) degli stessi aggregati dell’attivo di cui sopra. Solo se anche questa seconda verifica non è soddisfatta, la società si considera non operativa con conseguente presunzione legislativa di determinazione del reddito nella misura risultante dalle percentuali previste dal legislatore (e conseguente disconoscimento di eventuali perdite fiscali d’esercizio). I soggetti che non superano il test di operatività assumono la qualifica di società o ente non operativo. Conseguentemente, esse devono provvedere alla determinazione del reddito d’impresa sulla base di quanto previsto dall’art. 30, comma 3, della L. 724/1994 che dispone la presunzione secondo cui il reddito non può essere inferiore all’ammontare della somma degli importi derivanti dall’applicazione di talune percentuali al valore dei beni posseduti: a) 1,50% sul valore dei beni indicati all’art. 85, comma 1, lett. c), d) ed e) (tra cui

azioni, quote, strumenti finanziari similari alle azioni, obbligazioni e altri titoli in serie o di massa;

b) 4,75% sul valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili;

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c) 12% altre immobilizzazioni. La dichiarazione del reddito nella misura fissata ex lege non cristallizza il potere di

accertamento dell’Agenzia dell’Entrate che è comunque legittimata alla rettifica della dichiarazione a fronte di fattispecie di evasione che consentano di determinare un imponibile più elevato rispetto a quello risultante dalla scheda dichiarativa predisposta in conformità all’art. 30.

Al di là dei profili tecnico-applicativi, sui quali non vale la pena di soffermarsi, va sottolineato come le percentuali richiamate costituiscano il frutto di scelte effettuate nel contesto della predeterminazione normativa. Si tratta tuttavia di percentuali indimostrate sul versante dell’id quod plerumque accidit e non necessariamente idonee ad esprimere, secondo criteri di ragionevolezza, il reddito effettivamente prodotto dal soggetto non operativo. In verità, rimangono inespresse le ragioni per le quali, ad esempio, il possesso di un bene immobile dovrebbe direttamente tradursi nel possesso di un reddito pari al 4,75% del valore del cespite, come se il suddetto reddito obbedisse, ad una legge di stretta, immutabile derivazione dal patrimonio, con evidenti delimitazioni, oltretutto, sul piano quantitativo.

A tale critica si potrebbe obiettare che l’art. 30, comma 3, non poggia affatto su di un così rigoroso automatismo, perché il contribuente ha pur sempre il diritto di accedere al procedimento di disapplicazione di cui parleremo tra poco. Tuttavia, quest’ultima obbiezione presta il fianco ad una critica difficilmente sormontabile, se soltanto si considera che, nella sede disapplicativa, è richiesta la dimostrazione di non meglio precisate “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi”. L’art. 30 L. 724/1994 costituisce una forma di presunzione che, come tale, tuttavia può essere vinta dal contribuente fornendo la prova contraria. Tale prova contraria deve essere presentata mediante la proposizione di un’istanza disapplicativa ad hoc. L’istanza di disapplicazione può riguardare sia il profilo della non operatività della società o dell’ente, sia quello del reddito minimo ascrivibile al soggetto passivo ai sensi dell’art. 30, comma 3, prima analizzato.

L’impressione che si ricava dall’art. 30 è nel senso che, ai fini della disapplicazione, la società o l’ente non possa far leva su qualsivoglia situazione, ma soltanto su fattispecie che non siano influenzate da scelte del contribuente. In ciò starebbe, per l’appunto, il carattere di “oggettività” cui fa riferimento l’art. 30, riscontrabile per l’appunto in situazioni reali, oggettive come ad esempio la crisi del settore nel quale opera la società che ha reso impossibile il superamento del test. Come già anticipato fornire la prova contraria per il contribuente sembra piuttosto difficile anche perché la norma non offre indicazione in ordine alle modalità con cui possono essere provate le “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi”. L’art. 30, comma 4-bis, della L. 724/1994 non obbliga la

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società o l’ente non operativo ad avviare il procedimento volto alla disapplicazione della disciplina in esame. Invero, la richiamata disposizione prevede, testualmente, che la società interessata “può richiedere” la suddetta disapplicazione, lasciando in questo modo intendere che la scelta viene rimessa unicamente al soggetto passivo. La determinazione di non avviare il citato provvedimento non dovrebbe essere di ostacolo alla possibilità di fornire successivamente, in occasione di eventuale giudizio la c.d. prova contraria. Tuttavia questa linea interpretativa non è stata condivisa dall’Amministrazione finanziaria che ha invece abbracciato la tesi opposta secondo cui la dimostrazione della impossibilità di conseguire i ricavi o di produrre il reddito minimo può essere offerta unicamente in sede di interpello (Circolare n. 5/E del 2007).

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CAPITOLO VII

7.1 I GRUPPI NAZIONALI E INTERNAZIONALI: IL CONSOLIDATO

NAZIONALE ED IL CONSOLIDATO MONDIALE 7.1.1. Aspetti fiscali del gruppo La tassazione ordinaria delle società implica che ciascuna società è un soggetto a sé, tenuta al pagamento dell’IRES sui suoi redditi. La distribuzione dei dividendi comporta, per i soci, una tassazione ulteriore, in misura diversificata. Il diritto tributario prende però in considerazione i gruppi di società (ossia società tra cui intercorrono rapporti di controllo o di collegamento), per molteplici fini, adottando, volta per volta, un’apposita definizione del rapporto di controllo. È infatti noto che non esiste una nozione giuridica di gruppo, con validità generale, né in ambito civilistico, né in sede fiscale. In ambito civilistico, la nozione di gruppo deve essere tratta dall’art. 2359 c.c., che definisce “società controllata”: a) la società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili

nell’assemblea ordinaria (controllo interno di diritto); b) la società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare

un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (controllo interno di fatto); c) quella che è sotto l’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari

vincoli contrattuali con essa (controllo esterno di fatto). In ambito fiscale viene sovente richiamato l’art. 2359 cod. civ., soprattutto nelle norme antielusive: ad esempio in materia di CFC e di transfer price. In altri casi, tuttavia, viene adottata una nozione di gruppo più ristretta di quella civilistica. Ad esempio, ai fini del consolidato, viene richiamato il solo controllo interno di diritto, con ulteriori requisiti (in tema di partecipazione al capitale e agli utili), ed, inoltre, con l’applicazione del demoltiplicatore (per effetto del quale, come vedremo, le società che possono aderire al consolidato fiscale non sono tutte quelle che sono controllate secondo l’art. 2359 c.c.).

Il legislatore fiscale adotta insomma una nozione ampia di gruppo al fine di delimitare l’ambito di applicazione delle normative antielusive (come le CFC, il transfer price); adotta, invece, nozioni ristrette in altre normative (ad esempio ai fini della non applicazione del rimborso delle ritenute ex art. 27-bis DPR 600/1973 effettuate a società figlie di altri Stati europei).

Ai gruppi è dato rilievo, sotto il profilo finanziario, dalla norma che consente il

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trasferimento delle eccedenze (cioè dei diritti al rimborso derivanti da eccedenze di quanto versato rispetto a quanto dovuto) nell’ambito dei gruppi di società. Ad esempio, una società che chiuda l’esercizio in perdita ed abbia versato degli acconti, dei quali può chiedere il rimborso, può trasferire le “eccedenze” ad una società in utile del medesimo gruppo, che può compensare il diritto al rimborso - derivante dalle “eccedenze” acquistate - con il proprio debito d’imposta.

Prima della riforma del 2003, vi erano altre due normative, ora abrogate, che davano rilievo ai rapporti intersocietari. Una sorta di consolidamento tra utili e perdite di società appartenenti allo stesso gruppo era costituita dalla facoltà (dei soci) di svalutare le partecipazioni a fronte delle perdite della società partecipata. Le perdite avevano così indirettamente rilievo nel patrimonio della partecipante. La riforma, introducendo il sistema della participation exemption, ha tuttavia eliminato tale facoltà.

In secondo luogo, veniva data rilevanza alla coordinazione della tassazione del socio e della società partecipata attraverso il sistema del credito d’imposta. Con tale sistema, l’imposta assolta dalla società partecipata, che distribuiva dividendi, generava una credito d’imposta per il socio, che compensava tale credito con l’imposta dovuta sul suo reddito. Il socio in perdita poteva chiedere il rimborso del credito d’imposta che gli era stato attribuito con i dividendi. In tal modo, in definitiva, il socio in perdita recuperava le imposte assolte dalla partecipata, realizzando così una forma di consolidamento tra perdite e utili del gruppo.

La riforma, introducendo la participation exemption, ha eliminato sia la facoltà di svalutare le partecipazioni, sia il credito d’imposta, ma ha introdotto, dal 2004, due sistemi peculiari di tassazione, che rimediano sia all’abolizione del credito d’imposta, sia alla indeducibilità delle riduzioni di valore delle partecipazioni. In alternativa alla tassazione distinta di ciascuna società, i gruppi possono oggi optare per il consolidato, con notevoli vantaggi, tra cui l’esclusione da imposta dei dividendi in modo integrale e l’utilizzo immediato delle perdite. Se non sussistono le condizioni del consolidato, l’altra opzione che consente di evitare taluni aspetti negativi della tassazione ordinaria è il regime di trasparenza, che pure comporta la non tassazione dei dividendi e l’utilizzo immediato delle perdite. 7.1.2. Il consolidato nazionale

Uno strumento fiscale largamente utilizzato da gruppi in sede di pianificazione fiscale è il consolidato fiscale.

Si tratta di un istituto relativamente recente, introdotto dalla Riforma Tremonti del

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2003 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2004. In estrema sintesi il consolidato, disciplinato dagli artt. 117 a 129 del TUIR, consente su opzione facoltativa delle singole società che vi partecipano, di determinare in capo alla controllante un’unica base imponibile, corrispondente alla somma algebrica degli imponibili delle società partecipanti. Va notato, in via preliminare, che la tassazione unitaria del gruppo postula che il gruppo sia un’unità economica; giuridicamente, peraltro, il gruppo non è un soggetto giuridico unico: le diverse società che lo compongono conservano la loro soggettività, sia ai fini della determinazione del reddito, sia ai fini della responsabilità. In secondo luogo, il consolidato fiscale non è una forma di tassazione fondata sul bilancio consolidato; non si ha dunque un utilizzo fiscale del consolidato civilistico, simile al rilievo attribuito al bilancio d’esercizio nella determinazione del reddito d’impresa.

Il consolidato fiscale è radicalmente diverso dal consolidato civilistico. Infatti, il consolidato civilistico è un bilancio nel quale la pluralità delle società è rappresentata come un soggetto unitario; le poste di bilancio relative ai rapporti interni di gruppo sono elise ed i patrimoni netti sono integrati; il risultato finale è un bilancio che rappresenta la pluralità di soggetti che compongono il gruppo come un soggetto unitario, con un solo patrimonio ed un solo reddito.

Invece, nel consolidato fiscale, ferma restando la rilevanza dei rapporti tra società del gruppo, si sommano algebricamente i risultati fiscali conseguiti da ciascuna società. Si calcola il reddito di ciascuna società, secondo le norme ordinarie, compresa la capogruppo; quest’ultima somma algebricamente al suo risultato reddituale quello delle singole società del gruppo, apportando a tale somma le “rettifiche di consolidamento”.

Si ottiene così il “reddito complessivo globale”, che è dunque il risultato della somma dei “redditi complessivi netti” di ciascuna società (ossia dei risultati delle dichiarazioni dei redditi di ciascuna società). Il consolidato comporta, oltre all’unificazione dei risultati reddituali di ciascuna società, altri effetti, da cui scaturiscono le “rettifiche di consolidamento”, che devono essere effettuate dalla capogruppo in sede di dichiarazione.

Sul piano procedurale, ciascuna società deve dunque redigere la propria dichiarazione dei redditi, da presentare, oltre che al fisco, alla capogruppo, che dopo aver redatto la propria dichiarazione, dovrà redigere e presentare al fisco la dichiarazione del gruppo, avente per oggetto il “reddito complessivo globale”.

Alla controllante è dunque riferito il risultato globale, positivo o negativo, del gruppo. Dal risultato positivo del gruppo scaturisce un unico debito, di cui è responsabile, per l’intero importo, la controllante. Le società controllate sono invece responsabili solo per la parte del debito globale che è da collegare al loro reddito individuale. Alla controllante spetta “la liquidazione dell’unica imposta dovuta o

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dell’unica eccedenza rimborsabile o riportabile a nuovo”; se il risultato globale è negativo, alla controllante “compete il riporto a nuovo della eventuale perdita risultante dalla somma algebrica degli imponibili” .

L’opzione per il consolidato presenta natura bilaterale, dovendo essere esercitata congiuntamente da ciascuna società controllata e dall’ente o società controllante. In tal modo, all’interno del medesimo gruppo, potranno aversi tante opzioni a coppia quante sono le società controllate che esercitano la facoltà. Nell’ambito di un medesimo gruppo societario possono essere individuate diverse aree e livelli di consolidamento: in relazione a ciascuno di essi, peraltro, si avrà un unico consolidato, essendo unico il soggetto che al suo interno agisce in veste di consolidante. Ai sensi dell’art. 117, comma 1, TUIR sono ammessi a partecipare alla tassazione di gruppo le società e gli enti commerciali residenti fra i quali esista un rapporto di controllo. Le società di capitali residenti possono optare tanto in veste di consolidanti, quanto in veste di consolidate. Le società cooperative, gli enti commerciali residenti e, a certe condizioni, le società non residenti possono invece optare solo in qualità di consolidanti. In particolare le società non residenti possono optare se (i) sono residenti in paesi con cui è in vigore un accordo contro le doppie imposizioni, che consenta anche lo scambio di informazioni o se (ii) svolgono nel territorio dello Stato un’attività d’impresa mediante stabile organizzazione, nei confronti della quale sussista un’effettiva connessione tra l’attività d’impresa da quest’ultima esercitata e le partecipazioni nelle società controllate residenti che si intende includere nel consolidato.

L’opzione è vietata alle società che fruiscono della riduzione dell’aliquota IRES, a quelle sottoposte a fallimento o a liquidazione coatta amministrativa, a quelle che hanno optato, in qualità di partecipate, per la tassazione per trasparenza ed, inoltre, ma solo in qualità di consolidate, per quelle che hanno optato (come consolidanti) per il consolidato mondiale.

Tra le società che esercitano l’opzione deve sussistere, fin dall’inizio di ogni esercizio in cui ci si avvale della stessa, il rapporto di cui all’art. 2359 c.c., comma 1, n, 1 c.c., occorre, cioè, che la consolidante disponga, direttamente o indirettamente (tramite controllate ex art. 2359, comma 2) della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria della consolidata.

L’esercizio dell’opzione per la tassazione di gruppo esige, a pena di inammissibilità, il possesso di una “partecipazione rilevante”, ossia espressiva di un rapporto di controllo con i requisiti previsti dagli articoli 117 e 120 del TUIR. La partecipazione si considera rilevante agli effetti dell’opzione quando, congiuntamente: a) esiste un rapporto di controllo di diritto, nel senso precisato dall’articolo 2359,

comma 1, n. 1) c.c.; b) viene superata la soglia di partecipazione del 50% tanto in relazione al capitale

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sociale quanto agli utili di bilancio della società controllata di diritto ai sensi dell’appena citato articolo 2359, c. 1, n. 1). Per l’art. 2359, comma 2, c.c. ai fini

dell’applicazione del ricordato comma 1, n. 1, i voti posseduti dalle controllate intermedie si sommano a quelli (eventualmente) posseduti dalla controllante, si reputano cioè voti della controllante. Differente è l’approccio della normativa in esame, la quale, impone di considerare la demoltiplicazione prodotta dalla catena societaria di controllo. In ragione del demoltiplicatore: se la società Alfa detenesse una partecipazione dell’80% nella società Beta e questa a sua volta detenesse una partecipazione del 70% nella società Gamma, Alfa deterrebbe in Gamma una partecipazione del 56% e potrebbe consolidare sia Beta che Gamma; se la società Alfa detenesse una partecipazione del 70% nella società Beta e questa a sua volta detenesse una partecipazione del 70% nella società Gamma, Alfa deterrebbe in Gamma una partecipazione del 49% e potrebbe dunque consolidare solo Beta.

Ai sensi dell’art. 119 DEL TUIR l’opzione deve essere esercitata congiuntamente dalla consolidante e dalla consolidata, ed è irrevocabile per almeno un periodo di tre anni.

Perché le opzioni siano efficaci, occorre inoltre: a) l’identità dell’esercizio sociale di ciascuna società controllata con quello della

società o ente controllante; b) l’elezione di domicilio da parte di ciascuna controllata presso la società o ente

controllante ai fini della notifica degli atti e provvedimenti relativi ai periodi d’imposta per i quali è esercitata l’opzione. L’elezione di domicilio sopravvive alla cessazione del regime: è infatti irrevocabile fino al termine del periodo di decadenza dell’azione di accertamento;

c) la comunicazione dell’opzione all’Agenzia delle entrate entro il ventunesimo giorno (Finanziaria 2008 ha previsto tale comunicazione entro il sedicesimo giorno) del sesto mese successivo alla chiusura del primo esercizio cui si riferisce l’opzione. Gli effetti dell’opzione sono:imputazione dei redditi e delle perdite in proporzione alla quota di partecipazione demoltiplicata;

b) la quota di partecipazione agli utili è considerata alla data di chiusura dell’esercizio della società non residente o, se maggiore, alla data di approvazione o revisione del bilancio relativo;

c) si sommano le quote di partecipazioni detenute tramite una o più controllate residenti purché consolidate integralmente.

L’opzione per il consolidato non altera la disciplina del calcolo del reddito delle singole società partecipanti (consolidante e consolidata). Occorre quindi prima calcolare il reddito delle singole società consolidate. Dopodichè si acquisisce, con le dichiarazioni delle singole consolidate, la conoscenza dei redditi di quest’ultime. La consolidante

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deve quindi determinare il reddito imponibile di gruppo, in primo luogo, ai sensi dell’art. 118, comma 1, TUIR sommando algebricamente e per l’intero importo (indipendentemente, cioè, dalla quota di partecipazione ad esse riferibile) i redditi e le perdite di tutte le partecipanti. Tuttavia, in forza dell’art. 118, comma 2, le eventuali perdite (delle singole società) relative agli esercizi anteriori all’inizio della tassazione di gruppo non possono essere messe in comune, e quindi scomputate dal reddito di gruppo, devono invece essere utilizzate dalla società (consolidata o consolidante) che le ha conseguite, al fine di dedurle dal proprio reddito. Evidente la funzione antielusiva di questa regola, la quale serve ad impedire l’acquisto di partecipazioni di società in perdita al solo scopo di utilizzarne le perdite fiscalmente riconosciute per compensare gli utili di gruppo, mediante opzione per il consolidato. Una volta determinata la base imponibile consolidata, la consolidante deve presentare la dichiarazione dei redditi di gruppo. In base all’art. 118, comma 1, TUIR il riporto a nuovo della perdita risultante dalla somma degli imponibili e la liquidazione dell’unica imposta dovuta o dell’unica eccedenza rimborsabile o riportabile a nuovo competono alla sola consolidante, sulla quale gravano inoltre gli obblighi di versamento a saldo e in acconto relativi alla predetta imposta. Nella determinazione dell’imposta dovuta, alla consolidante spetta lo scomputo delle ritenute, delle detrazioni e dei crediti d’imposta di tutte le società aderenti al consolidato, nonché degli eventuali acconti autonomamente versati dalle stesse. Il consolidato può essere interrotto per la perdita del controllo (in caso di cessione di partecipazioni o per l’ingresso di nuovi soci), per la perdita dei requisiti soggettivi (in caso di trasformazione in società di persone o liquidazione coatta amministrativa) o per l’attuazione di determinate operazioni straordinarie (incorporazione della consolidante o della consolidata in una società non aderente al consolidato, la scissione totale della consolidante). Questa disomogeneità si riflette anzitutto in una diversa incidenza sul regime. In alcune ipotesi, infatti, nonostante l’evento interruttivo, il regime del consolidato continua su semplice opzione (è il caso della consolidante che opta, come consolidata con altra società, quando tutte le società aderenti al consolidato della prima optano per il consolidato con la seconda). In altre continua se, interpellata, l’Amministrazione Finanziaria acconsente (ad esempio nel predetto caso di incorporazione della consolidante).

7.1.3. Il consolidato mondiale

Il consolidato mondiale è attualmente previsto dai sistemi tributari di Danimarca e Francia; la disciplina del consolidato mondiale introdotta dalla riforma recata dal D. Lgs. 344/2003 è sostanzialmente ispirata al modello francese.

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Va subito notata la fondamentale differenza tra consolidato nazionale e mondiale. Il primo comporta la tassazione unitaria di più società residenti, ossia di più soggetti passivi d’imposta. Il consolidato mondiale, invece, concerne la tassazione di un solo soggetto (la controllante residente), e consiste sostanzialmente in una modalità di tassazione dei redditi delle controllate estere, imputabili alla controllante residente. L’opzione per il consolidato mondiale comporta infatti l’imputazione proporzionale alla controllante dei redditi (e delle perdite) di tutte le controllate non residenti (all in, all out), per un periodo non inferiore a cinque esercizi (i successivi rinnovi vincolano per almeno tre esercizi).

Al soggetto residente non può che imputarsi una quota del reddito della società estera: non avrebbe alcun fondamento tassare, presso la controllante residente, una quota di reddito delle controllate superiore alla frazione riferibile alla controllante, in base alla partecipazione posseduta.

Questo sistema di tassazione presenta dunque, al tempo stesso, vantaggi e svantaggi. Il lato positivo è dato dalla compensabilità delle perdite fiscali delle società controllate non residenti con i redditi imponibili delle società residenti. D’altro canto, però, divengono immediatamente tassabili in Italia, per imputazione (alla controllante), gli utili delle controllate non residenti (e questo sistema è meno conveniente rispetto ad altri regimi già operanti, come quello della Direttiva “madre-figlia”).

L’ente controllante, che può optare per il consolidato mondiale, deve essere una società di capitali o un ente commerciale residente in Italia, e dev’essere la società di “più alto livello” della catena di controllo.

La controllante può comunque optare per il consolidato mondiale: a) se è una società con titoli quotati in Borsa (in tal caso, è comunque “primo anello”

della catena, anche se controllata da altro soggetto residente); b) se è controllata dallo Stato, o da una persona fisica residente che non controlla

altra società. Il requisito del controllo sussiste quando l’ente residente possiede, direttamente o

indirettamente, una quota di partecipazione nel capitale della società non residente superiore ad una “soglia percentuale di rilevanza”, pari al 50%, tenendo in considerazione l’effetto “demoltiplicativo” della catena di controllo. Il requisito in parola deve sussistere al termine dell’esercizio della controllante (art. 135, comma 2), ma è fatta salva la facoltà di escludere dal consolidamento il reddito delle società estere che siano divenute “controllate” nei sei mesi antecedenti la chiusura dell’esercizio della controllante.

L’opzione per il consolidato mondiale, che deve essere esercitata unicamente da parte della società o ente controllante residente di grado più elevato, è efficace se sussistono le seguenti condizioni:

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a) ha per oggetto tutte le controllate non residenti (all in, all out); b) identità dell’esercizio sociale di ciascuna società controllata con quello della

controllante; c) revisione dei bilanci di tutte le società del gruppo; d) attestazione delle controllate da cui risulti il consenso alla revisione del proprio

bilancio e l’impegno a fornire al soggetto controllante la collaborazione necessaria per la determinazione dell’imponibile e per adempiere entro un periodo non superiore a 60 giorni dalla loro notifica alle richieste dell’Amministrazione finanziaria. Inoltre, è necessario che la controllante interpelli l’Agenzia delle entrate, affinché

si pronunci sulla sussistenza dei requisiti per il valido esercizio dell’opzione. Il risultato reddituale (utile o perdita) delle società non residenti, da includere

proporzionalmente nell’imponibile della controllante, deve essere determinato con il “metodo extracontabile” già previsto per le CFC, applicando le disposizioni vigenti in Italia in materia di IRES. Devono poi essere effettuate alcune “rettifiche di consolidamento” (ad esempio, in materia di dividendi infragruppo, componenti negativi deducibili, perdite su cambi relative a finanziamenti, cessioni infragruppo di beni strumentali, ecc.).

Per evitare effetti di doppia imposizione, sono detraibili le imposte pagate all’estero dalle società controllate, con le seguenti regole: a) concorso prioritario dei redditi prodotti all’estero alla formazione del reddito

imponibile; b) computo delle imposte detraibili effettuato separatamente per ciascuna società

estera (e non per ciascuno Stato estero); c) riporto nel tempo del credito per imposte pagate all’estero inutilizzato

nell’esercizio di competenza.

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CAPITOLO VIII

8.1.1 LE OPERAZIONI DI FUSIONE, SCISSIONE, TRASFORMAZIONE E CONFERIMENTO 8.1.1 La fusione

La fusione è disciplina dall’art. 2501 c.c. ai sensi del quale tale operazione può avvenire “mediante la costituzione di una società nuova o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre”.

La società che risulta dalla fusione, o la società incorporante, subentra in tutte le situazioni giuridiche che facevano capo alle società fuse o alla società incorporata. AI fini fiscali ciò vale sia per le situazioni giuridiche sostanziali, tra cui quelle relative alle imposte sui redditi (ad esempio le imposte non assolte dalla incorporata dovranno essere pagate dall’incorporante), sia per le situazioni giuridiche formali (ad esempio l’avviso di rettifica della dichiarazione dell’incorporata dovrà essere emesso nei confronti dell’incorporante).

Nel disciplinare le conseguenze della fusione l’art. 172 del TUIR esordisce disponendo che questa operazione “non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni delle società fuse o incorporante, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore dell’avviamento”. Questa disposizione riflette l’idea di fondo che poiché la fusione interessa solo l’organizzazione patrimoniale e societaria dei soggetti d’imposta ma non la loro gestione è un evento fiscalmente neutro ai fini reddituali. L’art. 172 definisce dunque la fusione come un’operazione neutrale dove neutralità significa continuità dei valori fiscalmente riconosciuti rispetto a quelli anteriori alla fusione. In parole povere la società incorporante o risultante dalla fusione unifica le proprie voci contabili con quelle provenienti dalla società incorporata o fusa, utilizzando gli stessi valori che erano riconosciuti in capo a quest’ultima.

La neutralità della fusione riguarda sia la società che i soci. Con riguardo alla società la neutralità incide su: a) le plusvalenze e minusvalenze insite nel patrimonio della società incorporata o

fusa: spesso nel patrimonio della società incorporata o fusa possono esservi beni il cui valore reale è diverso da quello contabile e fiscalmente riconosciuto. Possono esservi, quindi, plusvalenze o minusvalenze latenti in quanto il valore contabile di un bene è dato dal costo non ammortizzato e il valore reale può essere superiore, perché il bene si è rivalutato o è inferiore se si è deprezzato più di quanto computato con gli ammortamenti. In genere le plusvalenze latenti diventano

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tassabili e le minusvalenze deducibili, se si realizzano determinati eventi ma la fusione è irrilevante a tali fini perché “non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni delle società fuse o incorporate, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”;

b) le differenze di fusioni (avanzi e disavanzi): gli avanzi e disavanzi di fusione possono essere da concambio e da annullamento delle partecipazioni. L’avanzo e disavanzo da concambio si verifica nell’ipotesi in cui l’incorporante non possiede le partecipazioni nell’incorporata e deve perciò attribuire ai soci dell’incorporata proprie azioni o quote. Questa sostituzione di azioni o quote è denominata “concambio”. Tale espressione sottintende il rapporto numerico in base al quale, per ogni quantitativo di azioni dell’incorporata, viene attribuito al socio un certo numero di azioni dell’incorporante. Tale operazione di solito avviene aumentando il capitale dell’incorporante: quando l’aumento di capitale dell’incorporante risulta inferiore al patrimonio netto dell’incorporata si avrà un avanzo di fusione che sarà escluso da qualsiasi imposizione per la società, quando, invece, l’aumento di capitale dell’incorporante è maggiore del patrimonio netto dell’incorporata si ha un disavanzo che per la società non è fiscalmente utilizzabile né a titolo di perdita né attraverso rivalutazioni dell’attivo. L’avanzo e disavanzo da annullamento di partecipazioni si verifica quando l’incorporante possiede le partecipazioni nell’incorporata e quindi non vi è bisogno dell’operazione di concambio. Invece di aumentare il proprio capitale l’incorporante deve annullare le partecipazioni nell’incorporata che si trovano già nel proprio attivo patrimoniale. Nelle scritture contabili e nel bilancio dell’incorporante le attività dell’incorporata prendono il posto della partecipazione annullata. Il valore contabile delle attività dell’incorporata è però di solito diverso da quello della partecipazione annullata e ciò provoca le differenza cui viene dato il nome di disavanzi o avanzi da annullamento. In particolare si ha avanzo di fusione se il patrimonio netto contabile dell’incorporata è superiore al valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione. Tale eventuale avanzo è espressamente considerato intassabile. Per esempio, si ipotizzi una società Alfa, il cui patrimonio sia costituito da un immobile avente valore contabile e fiscale di cento; le azioni di Alfa sono possedute da Beta che le ha acquistate per cinquanta. Si procede all’incorporazione; Beta annulla le azioni (valore 50) ed iscrive il patrimonio dell’incorporata (100) con un avanzo di cinquanta. Il disavanzo che costituisce un’ipotesi più frequente nella prassi in quanto di solito il prezzo di acquisto della partecipazione eccede il patrimonio netto cantabile della partecipata, può essere iscritto in contabilità e in bilancio. A fronte di tale disavanzo è consentito effettuare rivalutazioni, che non saranno però fiscalmente riconosciute, ed i

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relativi cespiti continuano ad essere fiscalmente valutati in base a valori precedenti, con divergenze tra valori contabili e fiscali. Come abbiamo visto, dunque, la fusione è fiscalmente neutra con riguardo alle

differenze di fusione, in un duplice senso: a) nel senso che avanzi e disavanzi di fusione non hanno rilievo reddituale; b) nel senso che il disavanzo da annullamento può essere utilizzato per rivalutare

civilisticamente, ma non anche fiscalmente, i beni della società fusa o incorporata, nel bilancio della società incorporante o risultante dalla fusione. La fusione è un’operazione fiscalmente neutra anche per i soci: le partecipazioni

dei soci delle società fuse o incorporate sono annullate e sostituite con partecipazioni della società risultante dalla fusione o incorporante, e il concambio avviene in base al rapporto calcolato nel progetto di fusione. Tale concambio non rientra nelle ipotesi alla quali la legge ricollega il realizzo di plusvalenza tassabili: esso configura, infatti, una semplice sostituzione di titoli, per cui il legislatore ha previsto che “il cambio delle partecipazioni originarie non costituisce né realizzo né distribuzione di plusvalenze o minusvalenze, né conseguimento di ricavi per i soci della società risultante dalla fusione o incorporante” (art. 172, comma 3, del TUIR).

E tassabile solamente il conguaglio in denaro pagato ai soci in occasione del concambio (tassazione come reddito di capitale delle somme ricevute che eccedono il costo della partecipazione annullata).

Tra le situazioni soggettive che vengono acquisite dalla società incorporante (o comunque risultante dalla fusione), vi è il diritto di “riportare a nuovo” le perdite subite dalla società incorporata.

Che le perdite di una società siano “computate” dalla società che le realizza, o da altra società, che la incorpora, appare indifferente, se la fusione ha comportato la unificazione di due apparati produttivi. Il riporto delle perdite pregresse di una delle società fuse o incorporate da parte della nuova società non ha nulla di eccepibile quando la fusione è stata posta in essere per la causa giuridica che la contraddistingue, ed ha realizzato una razionale riorganizzazione di più apparati produttivi. L’operazione appare invece strumentale ad un risultato di pura elusione fiscale quando una società non viene fusa o incorporata per il suo valore economico produttivo, ma solo in quanto portatrice di un “beneficio fiscale”.

Il legislatore, perciò, limita tale diritto per scopi antielusivi, ossia per arginare il fenomeno di fusioni, non attuate per fini economico-produttivi, ma al solo scopo di permettere all’incorporante di utilizzare le perdite dell’incorporata. I limiti al riporto delle perdite sono i seguenti: a) il primo limite è di carattere quantitativo: le perdite riportabili non possono essere

superiori nè al patrimonio netto della società incorporata, né a quello della

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incorporante, risultante dall’ultimo bilancio o dalla situazione patrimoniale di cui all’art. 2501-quater c.c.; nel determinare il patrimonio netto di riferimento non si tiene conto dei conferimenti e dei versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione patrimoniale;

b) il secondo limite condiziona la stessa possibilità di riportare a nuovo le perdite: la legge richiede che nel conto economico della società le cui perdite sono riportabili, relativo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata risulti un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, superiore al 40% della media dei 2 esercizi precedenti. Tale previsione mira ad impedire l’incorporazione di società inattive;

c) il terzo limite riguarda le società che, prima di procedere all’incorporazione, abbiano svalutato la partecipazione nell’incorporanda. Per impedire all’incorporante di sommare alla svalutazione dei titoli della società incorporata il riporto delle perdite, la legge vieta il riporto (delle perdite) fino a concorrenza dell’importo della svalutazione operata dalla società incorporante. Infine con riguardo alla fusione occorre ricordare che il subentro dell’incorporante

nelle situazioni tributarie dell’incorporata riguarda anche le riserve in sospensione d’imposta: all’incorporante passa il “debito fiscale potenziale” ad esse collegato.

Vanno però distinte due categorie di riserve: quelle tassabili per qualunque utilizzo; quelle tassabili solo in caso di distribuzione. In linea generale, le riserve “in sospensione” devono essere ricostituite; se la società subentrante non le ricostituisce nel suo bilancio, diventano tassabili. La ricostituzione, presso l’incorporante, delle riserve in sospensione d’imposta equivale alla iscrizione di un debito; ne deriva, quindi, riduzione dell’avanzo o incremento del disavanzo.

Gli effetti fiscali della fusione, di regola, coincidono temporalmente con quelli civilistici, ma l’art. 172, comma 9, ammette che l’atto di fusione possa prevedere che l’operazione abbia effetti retroattivi ai fini fiscali, risalendo al momento in cui si è chiuso l’ultimo esercizio della società incorporata o, se più prossima, alla data in cui si è chiuso l’esercizio della incorporante. La retrodatazione è utile per semplificare gli adempimenti contabili e fiscali connesse all’operazione, perché impedisce che assuma valore di autonomo periodo d’imposta, per l’incorporata, l’intervallo di tempo che va dall’inizio del periodo d’imposta, in cui avviene la fusione, alla data in cui ha effetto, ai fini civilistici, l’atto di fusione.

Con la retrodatazione, gli effetti possono retroagire in modo da comprendere, sin dall’inizio, il periodo d’imposta in corso per l’incorporante al momento della fusione; tale periodo viene frazionato e i relativi effetti vengono imputati per intero, ai fini dell’imposizione sui redditi, all’incorporante (fermi restando gli adempimenti già

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compiuti dall’incorporata). La retrodatazione opera ex nunc: fermi gli adempimenti già posti in essere dalla

incorporata la retrodatazione implica soltanto che le conseguenza reddituali dei fatti di quel periodo sono imputate all’incorporante. La retroattività non è dunque assoluta, perché non viene cancellata retroattivamente la soggettività tributaria della incorporata, ma è relativa, perché attiene soltanto all’imputazione soggettiva dei fatto reddituali del periodo considerato.

In ultimo, sempre con riguardo alla fusione, si fa presente che recentemente la Finanziaria 2008 ha previsto la possibilità di applicare alla fusione il regime dell’imposta sostitutiva di cui al comma 2-ter dell’articolo 176 (che disciplina l’operazione di conferimento). Tale disposizione prevede la possibilità di optare nella dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio nel corso del quale è stata posta in essere l’operazione o, al più tardi, in quella del periodo d’imposta successivo, per l’applicazione, in tutto o in parte, sui maggiori valori attribuiti in bilancio agli elementi dell’attivo costituenti immobilizzazioni materiali e immateriali, di un’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, dell’imposta sul reddito delle società e dell’imposta regionale sulle attività produttive, con aliquota del 12 per cento sulla parte dei maggiori valori ricompresi nel limite di 5 milioni di euro, del 14 per cento sulla parte dei maggiori valori che eccede 5 milioni di euro e fino a 10 milioni di euro e del 16 per cento sulla parte dei maggiori valori che eccede i 10 milioni di euro. I maggiori valori assoggettati a imposta sostitutiva si considerano riconosciuti ai fini dell’ammortamento a partire dal periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata l’opzione; in caso di realizzo dei beni anteriormente al quarto periodo d’imposta successivo a quello dell’opzione, il costo fiscale è ridotto dei maggiori valori assoggettati a imposta sostitutiva e dell’eventuale maggior ammortamento dedotto e l’imposta sostitutiva versata è scomputata dall’imposta sui redditi ai sensi degli articoli 22 e 79. L’imposta sostitutiva può essere rateizzata in tre importi annuali, il primo pari al 30% e i secondi due pari al 40% del totale. 8.1.2 La scissione

Ai sensi dell’art. 2506 c.c. si ha la scissione quando “una società assegna l’intero

suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo patrimonio, in tal caso anche ad una sola società, e le relative azioni o quote ai suoi soci”.

La scissione è dunque un fenomeno inverso alla fusione e può avvenire in due modi:

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a) scissione totale: che avviene in caso di trasferimento dell’intero patrimonio di una società ad altre società (due o più), preesistenti o di nuova costituzione; le società, in cambio di ciò che ricevono dalla società scissa, non danno nulla a tale società ma assegnano proprie azioni ai soci della società scissa;

b) scissione parziale: che interviene nell’ipotesi di trasferimento di parte del patrimonio di una società (Alfa), che permane, ad una o più società (Beta e Gamma), con assegnazione ai soci di Alfa di azioni di Beta e Gamma. La differenza fondamentale, tra le due forme di scissione, è che nel primo caso la

società scissa diventa un guscio vuoto, in quanto non possedendo nulla è destinata ad estinguersi, mentre nel secondo caso è solo impoverita e, quindi, non si estingue.

Per tali ragioni, in caso di scissione totale, le posizioni soggettive che facevano capo alla società scissa passano tutte alla società beneficiaria, mentre, nel caso di scissione parziale, le posizione soggettive della società scissa si dividono e sono trasferite solo in parte.

Dal punto di vista fiscale, la disciplina della scissione presenta notevoli affinità, di problemi e di soluzioni, con la fusione. Secondo il disposto dell’art. 173, comma 1, del TUIR anche la scissione, come la fusione, non determina il realizzo o altro evento che attribuisca rilevanza fiscale alle plusvalenze e minusvalenze latenti nei beni della società scissa che sono trasferiti.

Per tale disposizioni valgono gran parte delle considerazioni svolte a proposito della fusione. Tra scissa e beneficiaria si riallaccia infatti un rapporto di continuità non dissimile a quello che intercorre tra incorporata ed incorporante, se non proprio sull’identità soggettiva, sul perpetuarsi nelle società derivanti dall’operazione degli elementi costitutivi (patrimonio e compagine sociale) delle società partecipanti.

In particolare, per quel che riguarda le plusvalenze, il trasferimento (totale o parziale) del patrimonio della società scissa alle società beneficiarie avviene senza corrispettivo; non vi sono, pertanto, i presupposti per la tassabilità, a carico della società scissa, delle plusvalenze latenti nei beni trasferiti. Né vi sono, per le stesse ragioni, i presupposti per considerare rilevanti le minusvalenze che emergono. Ciò trova espresso riconoscimento nell’art. 173, comma 2, ove si afferma l’irrilevanza fiscale dei maggiori valori iscritti nel bilancio delle società beneficiarie per effetto dell’imputazione del disavanzo, a condizione che i divergenti valori civilistici e fiscali siano annotanti in un “prospetto di riconciliazione” da allegare alla dichiarazione dei redditi.

Anche la scissione, come la fusione, è un’operazione fiscalmente neutra per i soci: la sostituzione delle partecipazioni sociali non costituisce né realizzo né distribuzione di plusvalenze o di minusvalenze o di ricavi, salva la tassabilità del conguaglio (per la parte fiscalmente rilevante ai sensi dell’art. 47, comma 7, del TUIR).

Va rilevato che, nella scissione, l’attribuzione ai soci della scissa delle

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partecipazioni nelle società beneficiarie non è inevitabilmente connessa – come nella fusione – all’annullamento (anche soltanto parziale) della partecipazione originaria. Nel caso di scissione parziale potrebbe infatti accadere che il capitale della scissa non venga toccato e che l’esubero delle attività rispetto alle passività attribuite alla beneficiaria venga integralmente imputato alle riserve.

Questa ipotesi deve essere assimilata ad un' operazione di passaggio di riserve a capitale attuata dalla scissa medesima, sicché l'irrilevanza ai fini impositivi della fattispecie dell' assegnazione di partecipazioni non sostitutive di quelle originarie - se non ricavabile direttamente dalla disposizione da ultimo citata - può essere sostenuta attraverso l'applicazione analogica dell' art. 47, comma 6, il quale esclude che (per i soci che le ricevono) costituiscano utili le azioni gratuite emesse in caso di aumento del capitale mediante imputazione di riserve ed altri fondi.

Anche la scissione, come la fusione, è un’operazione fiscalmente neutra per i soci: la sostituzione delle partecipazioni sociali non costituisce nè realizzo nè distribuzione di plusvalenze o di minusvalenze o di ricavi, salva la tassabilità del conguaglio (per la parte fiscalmente rilevante ai sensi dell’art. 47, comma 7).

Possono darsi, anche a seguito della scissione, avanzi e disavanzi; essi risultano dal confronto, presso le società beneficiarie, tra aumento di capitale disposto dalla società beneficiaria e valore netto contabile dei beni, provenienti dalla società scissa e pervenuti alla beneficiaria. Anche per le differenze di scissione il principio è quello della neutralità; avanzi e disavanzi riflettono, qui, fenomeni analoghi a quelli visti in materia di fusione con concambio.

Anche per scissione la Finanziaria 2008 ha previsto la possibilità di applicare l’imposta sostitutiva31 indicata nell’art. 176, comma 2-ter, del TUIR.

Per quanto riguarda la disciplina della perdite nell’ambito della scissione occorre sottolineare quanto segue. Se nella fusione il potere di utilizzare le perdite pregresse delle società partecipanti non può che essere “ereditato” dalla società incorporante o nuova, nella scissione la pluralità di società derivate solleva anzitutto il problema del suo frazionamento tra di esse. Trattandosi di “posizioni soggettive”, queste vanno suddivise tra le società derivate - ossia tra la scissa e la beneficiaria (o le beneficiarie) nella scissione parziale, tra le due o più beneficiarie nella scissione totale - in proporzione alla quota di patrimonio della scissa devoluta a ciascuna secondo il criterio indicato nel comma 4. Il godimento da parte della scissa della quota di perdite che le compete (considerata la quota di patrimonio conservata) non è sottoposto ad alcuna disciplina speciale, atteso che non ricorre nei suoi confronti il pericolo, insito nella fusione, che le perdite pregresse di un'organizzazione vengano sfruttate per

31 La cui disciplina è stata già esaminata nell’ambito della fusione sub. pari. 10.1.1.

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neutralizzare redditi prodotti da un patrimonio e da un' attività riconducibili ad una diversa organizzazione, e quindi non si riscontrano quelle peculiari esigenze che hanno spinto il legislatore ad introdurre la normativa di cui all’esaminato art. 172, comma 7.

Per converso, l'impiego da parte delle beneficiarie delle perdite ad esse transitate, come delle perdite proprie (ovviamente se si tratta di società preesistenti) viene assoggettato dal comma 10 dell' art. 173 alle medesime condizioni e ai medesimi limiti che incontra l'incorporante nello sfruttamento delle perdite pregresse delle società partecipanti alla fusione. Ed invero, quando la beneficiaria è una società preesistente, in ordine alle perdite provenienti dalla scissa si profila una situazione del tutto omogenea a quella che, nella fusione per incorporazione, si realizza con riferimento alle perdite dell'incorporata. Si delinea cioè il pericolo che le perdite di un'organizzazione vengano destinate alla compensazione di redditi derivanti da un'organizzazione diversa. Appare perciò perfettamente ragionevole l'assimilazione della posizione della beneficiaria preesistente all'incorporante sia per quanto attiene al riporto delle perdite della scissa sia per quanto attiene al riporto delle proprie.

8.1.3 La trasformazione di società

La trasformazione è disciplina dall’art. 2498 e ss. c.c. e si ha quando una società muta la sua veste giuridica.

La trasformazione di una società in un altro dei tipi previsti dalla legge non si traduce nell’estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di un altro e diverso soggetto, ma configura, per converso, una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto che non dà luogo ad un nuovo centro di imputazione di rapporti giuridici, ma sopravvive alla vicenda modificativa senza soluzione di continuità e senza perdere la sua identità soggettiva. Ne consegue che tutto il patrimonio (mobile ed immobile) della società trasformata deve essere considerato, automaticamente e senza possibilità di eccezione alcuna, di proprietà della medesima società, pur nella nuova veste e denominazione.

Il codici civile disciplina due tipi di trasformazione: la trasformazione c.d. omogenea che si ricorre la società sia prima che dopo la trasformazione è un soggetto commerciale e la trasformazione c.d. eterogenea che segna invece il passaggio dalla sfera commerciale a quelle non commerciale e viceversa.

Soffermiamoci ora a parlare della trasformazione omogenea. Come abbiamo visto con la trasformazione, muta la forma sociale di una società, ma il soggetto rimane il medesimo. Ecco perché ai sensi dell’art. 170, comma 1, del TUIR la trasformazione “non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni

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comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”. In particolare, quando una società di persone si trasforma in un' altra società di

persone, oppure quando una società di capitali si trasforma in un' altra società di capitali, la trasformazione risulta del tutto priva di conseguenze sul piano tributario, atteso che lo “statuto fiscale” della società resta invariato. I problemi sorgono quando una società di persone si trasforma in una società di capitali (trasformazione progressiva), oppure quando una società di capitali si trasforma in una società di persone (trasformazione regressiva), atteso che, come abbiamo visto, la disciplina tributaria valevole per le società di persone è profondamente diversa da quella applicabile alle società di capitali. Nell'art. 170 TUIR il legislatore si occupa quindi - salvo che nel citato comma 1 - esclusivamente di queste ultime trasformazioni. In particolare nel comma 2 prevede che in caso di trasformazione di una società soggetta all'imposta sul reddito delle società in una società non soggetta a tale imposta, il reddito dell'intervallo di tempo compreso tra l'inizio del periodo d'imposta e la data in cui ha effetto la trasformazione è determinato secondo le disposizioni applicabili prima della trasformazione, in base ad un apposito conto dei profitti e delle perdite. L'esercizio durante il quale si verificano queste trasformazioni si spezza dunque in due autonomi periodi d'imposta, in relazione a ciascuno dei quali la società è tenuta a seguire, quanto al calcolo del reddito ed alle modalità di imposizione, la disciplina predisposta per il tipo di rispettiva appartenenza. La trasformazione esige perciò la redazione di due appositi conti economici, relativi ai due periodi d’imposta, e la presentazione di correlative dichiarazioni dei redditi, applicando come detto le norme proprie del tipo sociale.

In particolare bisogna quindi concludere che: a) se una società di persone si trasforma in società di capitali, i redditi del periodo

che precede la trasformazione sono tassati con le regole previste per le società di persone, imputando ai soci i redditi della società. Le riserve costituite prima della trasformazione con utili tassati in capo ai soci per imputazione conservano il loro originario status fiscale anche dopo la trasformazione; non dovranno perciò essere più tassate quando la società trasformata le distribuirà ai soci. E’ perciò necessario che siano iscritte in bilancio con l’indicazione della loro origine;

b) se una società di capitali, cui non si applica il regime di trasparenza, si trasforma in società di persone, e nel suo bilancio vi sono riserve costituite con utili, non si ha automatica imputazione ai soci di quegli utili, perché la trasformazione non determina l’immediata applicazione alle riserve delle norma in tema di redditi delle società di persone. Le riserve conservano infatti il loro status fiscale originario di utili tassabile come dividendi presso i soci solo a seguito di distribuzione (a condizione, però, che siano iscritte in bilancio con indicazione

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delle loro origine). Pertanto, solo quando sono distribuite ai soci o utilizzate per scopi diversi dalla copertura di perdite di esercizio, esse sono tassate presso i soci. In definitiva quindi, in caso di passaggio da società di capitali a società di persone,

alle riserve costituite prima della trasformazione continuano ad applicarsi le norme relative all’IRES e ai dividendi, anche se la società non è più soggetta a tale imposta.

Come abbiamo visto il codice civile disciplina accanto alla trasformazione omogenea anche la c.d. trasformazione eterogenea. In particolare, ai sensi dell’art. 2500-septies e 2500-octies c.c. tale tipo di trasformazione può avvenire nei seguenti casi: a) o come trasformazione di una società di capitali in consorzio, società consortile,

società cooperativa, comunione d’azienda, associazione non riconosciuta e fondazione (art. 2500-septies c.c.);

b) o come trasformazione di tali soggetti in società di capitali (art. 2500-octies c.c.). Si tratta, in tutti i casi, di trasformazione in senso proprio: muta la forma giuridica, non l’identità del soggetti, per cui si ha piena continuità di rapporti giuridici. Dal punto di vista fiscale nulla muta se vi è identità di regime fiscale tra situazione

anteriore e situazione posteriore alla trasformazione, se invece vi è un mutamento di disciplina scatta un regime fiscale particolare. Come nel caso della trasformazione da società di un tipo a società di altro tipo, regolata nell'art. 170, la normativa tributaria si accosta alla trasformazione eterogenea da un'angolazione particolare, disciplinando non tutte le trasformazioni eterogenee, ma solo quelle che implicano un mutamento nello “statuto fiscale” dell'ente, ravvisabile questa volta (anziché nel passaggio dalla sfera dei soggetti passivi dell‘IRES a quella dei soggetti tassati per trasparenza o viceversa) nel passaggio dalla sfera dei soggetti commerciali a quella dei soggetti non commerciali o viceversa. Insomma, vengono disciplinate quelle trasformazioni che, oltre ad essere civilisticamente eterogenee, lo sono pure fiscalmente, in quanto provocano la “decommercializzazione” dell'ente o la sua “commercializzazione”. In questa prospettiva il comma 1 dell'art. 171 si occupa della trasformazione di cui all'art. 2500-septies c.c. nella misura in cui l'ente non societario risultante dalla trasformazione sia qualificabile come non commerciale, stabilendo, per questa evenienza, che i beni della società trasformata si considerino realizzati in base al loro valore normale, salvo che non confluiscano nell'azienda o complesso aziendale dell'ente stesso (l'ente non commerciale potrebbe infatti esercitare un'attività d'impresa, sia pure, naturalmente, in via secondaria). Ne deriva che: a) se, e nella misura in cui, i beni della società trasformata confluiscono nella (eventuale) sfera aziendale del patrimonio dell'ente non commerciale, da determinasi in base al combinato disposto degli art. 144, comma 3°, e

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65, comma 1, (ossia con i criteri ordinariamente valevoli per l'identificazione dei beni relativi all'impresa presso gli enti non commerciali che esercitano attività commerciali), non interrompendosi il regime dei beni d'impresa, e non ricorrendo alcun evento traslativo, non si ha realizzo delle plusvalenze e minusvalenze latenti; b) se, e nella misura in cui, i beni della società non confluiscono nella (eventuale) sfera aziendale del patrimonio dell'ente non commerciale, interrompendosi il regime dei beni d'impresa, nonostante l'assenza di un evento traslativo, si ha realizzo delle plusvalenze e minusvalenze latenti in ragione del valore normale dei beni stessi. Analogamente, il comma 2° dell’art. 171 si occupa delle trasformazioni di cui all'art. 2500 octies c.c. nella misura in cui l'ente non societario che si trasforma in società di capitali sia qualificabile come non commerciale, stabilendo, per questa ipotesi, l'applicazione ai beni diversi da quelli già compresi nella (eventuale) azienda o complesso aziendale dell' ente della disciplina prevista per i conferimenti in società. Ne deriva che: a) se, e nella misura in cui, i beni dell'ente trasformato sono già soggetti al regime dei beni d'impresa, non interrompendosi detto regime, e non ricorrendo alcun evento traslativo, non si ha realizzo delle plusvalenze e delle minusvalenze latenti; b) se, e nella misura in cui, i beni dell'ente non sono già soggetti a detto regime, gli stessi si considerano conferiti nella società che risulta dalla trasformazione e poiché il conferimento è equiparato alla cessione onerosa (art. 9 TUIR), si ha realizzo delle plusvalenze e minusvalenze latenti in ragione del valore normale dei beni stessi (cfr. art. 9, comma 2°, per la determinazione del corrispettivo nei conferimenti in società non quotate). Il realizzo che interessa questo secondo gruppo di beni non implica tuttavia il concorso della generalità dei relativi plusvalori e minusvalori alla formazione del reddito complessivo dell' ente trasformato: l'art. 67, comma 1, lett. n), prevede infatti questi ultimi concorrano alla determinazione della predetta grandezza solo se classificabili tra i redditi diversi secondo le regole ordinarie. La soluzione accolta, imperniata sulla finzione del conferimento per i beni non soggetti al regime dei beni d'impresa anteriormente alla trasformazione, si propone di mediare tra le due esigenze che emergono nell'approccio a queste trasformazioni: a) quella di un aggiornamento dei valori fiscalmente riconosciuti dei beni aloro ingresso nel regime dei beni d'impresa, per non attrarre ad esso plusvalori e minusvalori maturati al suo esterno; e b) quella di conferire rilevanza ai plusvalori e ai minusvalori scaturenti da tale processo, se rilevanti laddove conseguiti fuori dal reddito d'impresa, per evitare una loro sterilizzazione per effetto del predetta rimodulazione dei valori dei beni dell'ente. Il comma 1 dell’art. 171 disciplina inoltre le riserve di utili costituite dalla società di capitali prima della trasformazione in ente non commerciale, estendendo alle stesse la disciplina prevista dall'art. 170, comma 4, per il caso della trasformazione di una società di capitali in una società di persone. Tuttavia, poiché gli enti non commerciali sono

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(almeno per il momento) soggetti passivi dell‘IRES, come le società di capitali, detta estensione non può essere giustificata sulla base dell'identità di ratio, ma probabilmente si raccorda a ragioni di cautela fiscale connesse al minore formalismo contabile che contrassegna il regime tributario degli enti non commerciali. Non sono regolati, invece, gli effetti delle trasformazioni eterogenee sui soci, ancorché alcune di esse abbiano delle ripercussioni sulla posizione di questi ultimi ignote alla trasformazione della società in altra società. Si pensi alla trasformazione di una società di capitali in fondazione, che determina l'annullamento della partecipazione, o alla trasformazione di una fondazione in società di capitali, che determina la creazione di una partecipazione. Nel primo caso si registra un decremento patrimoniale, consistente in una perdita della partecipazione da considerare rilevante, ai fini del calcolo del reddito del socio, nei limiti in cui un siffatto evento può considerarsi ordinariamente rilevante. Nel secondo si registra un incremento patrimoniale, traducibile in una sopravvenienza attiva da conteggiare, quando conseguita nell' esercizio d'impresa, nel reddito d'impresa del socio. 8.1.4 I conferimenti

I conferimenti, generalmente, hanno per oggetto denaro; possono però avere per oggetto anche altri beni (crediti, immobili, partecipazioni, aziende).

Fiscalmente i conferimenti sono equiparati alle cessioni a titolo oneroso: ciò significa che, di norma, le plusvalenze dei beni conferiti (diversi dal denaro) sono da considerare realizzate come se il bene fosse ceduto verso un corrispettivo in danaro (conferimenti c.d. realizzativi). Vedremo però che accanto al regime ordinario dei conferimenti realizzativi, che implicano la tassazione delle plusvalenze insite nei beni conferiti, vi sono anche conferimenti detti “non realizzativi” o “neutrali”, che non rendono tassabili le plusvalenze.

Nel regime di tassazione ordinaria, si pone il problema di quantificare la plusvalenza. Per effetto del conferimento, il conferente non riceve danaro ma un partecipazione (azioni o quote); la plusvalenza insita nel bene conferito non viene “monetizzata”, bensì viene “cambiata” con un altro bene (il titolo di partecipazione). Per calcolare la plusvalenza è dunque necessario dare un valore alle partecipazioni ricevute32. Sottraendo al valore delle partecipazioni ricevute il valore (fiscale) del bene conferito, si ottiene la misura della plusvalenza tassabile. Per determinare il valore delle partecipazioni ricevute, bisogna distinguere tra conferimenti in società quotate e conferimenti in società non quotate.

32 Tale valore non è per forza uguale alla quota di capitale sociale.

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Se la conferitaria è una società quotata in borsa (o in altri mercati regolamentati), è facile individuare il valore normale delle partecipazioni, basandosi sulle quotazioni della borsa (in specie, si tiene conto della media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese). Se la conferitaria non è quotata, si assume che il valore normale delle partecipazioni ricevute sia pari al valore normale dei beni conferiti (la plusvalenza è dunque pari alla differenza tra valore normale e valore fiscale dei beni conferiti).

I conferimenti hanno rilievo non solo per il conferente, ma anche per il conferitario, che deve dare un valore ai beni ricevuti. Non sempre il conferimento rende tassabili le plusvalenze dei beni conferiti; vi è infatti, un regime ordinario (che importa tassazione delle plusvalenze) ed un regime che prevede la neutralità. Va considerata, al riguardo, la differenza tra cessione e conferimenti: con la cessione viene meno ogni legame tra il cedente e il bene; la plusvalenza è normalmente monetizzata e, quindi, tassata. Con il conferimento, invece, la plusvalenza non è monetizzata, e permane un legame con il bene conferito, mediato dalla partecipazione ricevuta.

Ciò spiega perché, nonostante la equiparazione fiscale dei conferimenti alle cessioni, oltre al regime ordinario di tassazione delle plusvalenze, vi sono conferimenti per i quali è previsto un regime di neutralità fiscale. Prima delle modifiche apportate con la Finanziaria 2008 per i conferimenti di azienda vi erano due regimi di neutralità fiscale: a) regime di “continuità dei valori contabili”; b) regime di “continuità dei valori fiscali”.

Il regime di continuità dei valori contabili riguardava sia il conferimento di aziende, sia il conferimento di partecipazioni di controllo e di collegamento. Esso si realizzava se il conferente attribuiva ai titoli di partecipazione ricevuti lo stesso valore contabile dell’azienda conferita e se, a sua volta, il conferitario attribuiva ai beni dell’azienda ricevuta lo stesso valore contabile che avevano nella sfera giuridica del conferente (art. 175 TUIR). Si richiedeva, in sostanza, che restasse immutato il valore contabile dei beni conferiti presso il conferitario (ossia che vi fosse continuità di valori dei beni nelle scritture contabili di conferente e conferitario) e che il conferente attribuisse, alle partecipazioni ricevute, il valore contabile dei beni conferiti. La continuità dei valori impediva quindi la tassazione della plusvalenza, che restava latente. Vi era invece tassazione della plusvalenza se un differenziale positivo era rilevato da uno dei due soggetti dell’operazione. Ossia se, presso il conferitario, i beni conferiti ricevevano un valore contabile superiore a quello che avevano presso il conferente, o se il conferente attribuiva alla partecipazione un valore superiore a quello che avevano i beni conferiti. Questo regime è stato eliminato dalla Finanziaria 2008 per il conferimenti d’azienda e, pertanto, dal 1° gennaio 2008 tale regime potrà riguardare

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solo le partecipazioni di controllo e di collegamento. Il secondo regime di neutralità (che la Finanziaria 2008 ha reso regime naturale per i conferimenti di azienda) è fondato sulla “continuità dei valori fiscali” dei beni, astraendo dai valori contabili (art. 176 TUIR). Ciò vuol dire, in altre parole, che può esservi divergenza tra valori contabili e valori fiscali. La plusvalenza è messa in evidenza in contabilità, perché il conferente attribuisce alla partecipazione ricevuta un valore superiore al valore fiscale della azienda conferita; ed il conferitario iscrive l’azienda ad un valore superiore al suddetto valore fiscale. In questo caso, dunque si prevede che vi sia differenza fra i nuovi valori contabili di iscrizione della partecipazione e dell’azienda ed il precedente “valore fiscalmente riconosciuto” dell’azienda (presso il conferente). La plusvalenza messa così in evidenza non è tassata, ma i divergenti valori contabili e fiscali dei beni devono essere indicati in un “prospetto di riconciliazione”, da presentare con la dichiarazione dei redditi. Tale prospetto ha la funzione di “memorizzare” la differenza tra valori civilistici e fiscali. Si avrà tassazione quando il conferente cederà la partecipazione o il conferitario cederà l’azienda. Il valore di partenza, ai fini del calcolo della plusvalenza, non sarà il valore contabile di iscrizione, ma il valore fiscale che è stato indicato nel “prospetto di riconciliazione”. In tal modo, sarà tassata anche la parte di plusvalenza (latente) che non era stata tassata per effetto del conferimento dell’azienda. Prima della Finanziaria 2008 il conferimento d’azienda in regime di neutralità poteva essere applicato solo nell’ipotesi in cui la società conferitaria apparteneva alla tipologia dei soggetti IRES. La Finanziaria 2008, modificando l’art. 176 TUIR, ha invece disposto che dal 2008 sarà possibile eseguire conferimenti d’azienda neutrali anche qualora la conferitaria è una società di persone. Inoltre per effetto della Finanziaria il regime di neutralità sarà applicabile anche quando le parti del negozio giuridico sono soggetti non residenti, ma l’azienda conferita è allocata in Italia. Infine anche per le operazioni di conferimento in esame è possibile applicare l’imposta sostitutiva di cui all’art. 176, comma 2-ter, del TUIR33.

33 La disciplina dell’imposta sostitutiva è stata già esaminata nell’ambito della fusione sub. par. 10.1.1.

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CAPITOLO IX

9.1 LE OPERAZIONI STRAORDINARIE TRANSFRONTALIERE CON SPECIFICO RIFERIMENTO ALLE DIRETTIVE EU

9.1.1 Cenni introduttivi Il TUIR disciplina alcune operazioni straordinarie internazionali e precisamente

quelle in precedenza regolate dal D.Lgs. 544/1992, adottato in attuazione della Direttiva CE 90/434 recentemente modificata dalla Direttiva 2005/19. Tale Direttiva ha avuto lo scopo di favorire la circolazione delle imprese all’interno della Comunità europea, rimuovendo l’ostacolo che la variabile fiscale appone a tale libertà ed ha inquadrato le operazioni in esame non tra gli atti di realizzo bensì tra quelli di mera organizzazione strutturale, considerando le operazioni stesse fiscalmente neutre e cioè inidonee a creare alcun presupposto impositivo. Ai sensi dell’art. 178 TUIR le operazioni considerate sono: a) le fusioni tra società di capitali residenti in Italia e società analoghe residenti in

altri Stati membri dell'Unione europea; b) le scissioni proporzionali totali di una delle società appena menzionate con

attribuzione del patrimonio a due o più altre società medesime, preesistenti o di nuova costituzione, alcuna delle quali residente in uno Stato membro diverso da quello della prima, e limitatamente alla corrispondente parte dell'operazione;

b-bis)le scissioni parziali medianti le quali uno dei soggetti indicati nella lett. a) trasferisce, senza essere sciolto, mantenendo almeno un’azienda o un complesso aziendale, uno o più aziende o complessi aziendali a uno o più soggetti indicati nella stessa lett. a), alcuno dei quali sia residente in uno Stato UE, con assegnazione ai propri partecipanti, secondo un criterio proporzionale, delle azioni o quote del soggetto o dei soggetti beneficiari, sempre che il soggetto scisso sia residente nel territorio dello Stato e che l’eventuale conguaglio in denaro ai partecipanti del soggetto scisso non superi il 10% del valore nominale della partecipazione ricevuta in cambio;

c) i conferimenti di aziende da una ad un'altra delle società sopra indicate, residenti in Stati diversi dell'Unione, sempre che una sia residente in Italia;

d) le operazioni menzionate in precedenza tra società indicate sopra non residenti in

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Italia, con riguardo alle stabili organizzazioni in Italia; e) gli scambi di partecipazioni mediante i quali una delle società indicate sopra

acquista o integra una partecipazione di controllo in un'altra società sopra indicata, residente in un altro Stato dell'Unione. Restano non regolate espressamente le operazioni straordinarie internazionali che

coinvolgono società di capitali residenti in Stati non appartenenti all'Unione, nonché la generalità di quelle che interessano le società di persone. A queste operazioni, tuttavia, possono peraltro senza dubbio applicarsi molti dei principi desumibili dalla normativa sulle operazioni elencate nell' art. 178. 9.1.2 Le ffuussiioonnii ee sscciissssiioonnii ttrraannssnnaazziioonnaallii

Ai sensi dell’art. 179, comma 1, TUIR alle operazioni indicate nelle lettera a), b) e b-bis) dell’art. 178 (ossia fusioni e scissioni) si applicano le disposizioni di cui agli artt. 172 e 173. In particolare, nella fusione di una società residente in una società non residente, nella scissione di una società residente con attribuzione del patrimonio a società non residenti, si produce un effetto simile a quello considerato a proposito della trasformazione eterogenea di una società di capitali in un ente non commerciale: la “decommercializzazione” del soggetto, e con essa la perdita di quel carattere su cui si fonda l'attrazione al regime dei beni d'impresa dell'intero patrimonio del soggetto medesimo. La destinazione a finalità estranee all'esercizio d'impresa, e con essa il realizzo a valore normale, è configurabile, in queste ipotesi, per tutti i beni che, non confluendo nell' eventuale stabile organizzazione della società non residente (emergente dall'operazione), sfuggono al regime dei beni d'impresa predisposto dall' ordinamento tributario italiano. L’applicazione del generale principio di neutralità fiscale alle fusioni e scissioni transnazionali si sostanzia infine nella previsione contenuta nel comma 4 in base alla quale viene previsto che: a) le operazioni di fusione e scissione non comportano il realizzo di plusvalenze o

minusvalenze; b) (a tale fine) il valore fiscale delle azioni o quote date in cambio deve essere

assunto anche dalle azioni o quote ricevute, ripartendosi tra tutte in proporzione dei valori alle stesse attribuiti ai fini della determinazione del rapporto di cambio;

c) (viceversa) eventuali conguagli concorrono a formare il reddito in capo ai soggetti percettori (fatta salva, ove vengono soddisfatti i relativi presupposti l’applicazione dell’art. 47, comma 7, 58 e 87).

Nel caso in cui la società scissa o la società fusa siano residenti in Italia la

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neutralità fiscale dell’operazione è subordinata al fatto che gli elementi patrimoniali della società italiana confluiscano in una stabile organizzazione italiana dell’incorporante o beneficiaria non residente. In particolare, i beni confluiti nella stabile organizzazione dovranno essere valutati in base all’ultimo valore fiscalmente riconosciuto in capo alla società italiana che si estingue. I beni non confluiti nella stabile organizzazione italiana si considerano realizzati al valore normale. Tale disposizione si applica anche se successivamente alla fusione (o scissione) i componenti conferiti nella stabile organizzazione ne vengano distolti. 9.1.3 I conferimenti transnazionali

L'art. 179, comma 2, TUIR estende ai conferimenti di azienda infracomunitari (trattasi dei conferimenti aventi ad oggetto complessi aziendali che intercorrono tra un soggetto residente in Italia e uno residente in altro Stato membro dell’UE) il regime di neutralità previsto dall'art. 176.

Pertanto tali conferimenti non costituiscono realizzo di plusvalenze o di minusvalenze, ma l’ultimo costo dell’azienda o del ramo aziendale costituisce il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione ricevuta.

Tale disciplina si applica anche se successivamente al conferimento i componenti confluiti nella stabile organizzazione italiana ne vengano distolti.

L’art. 179, al comma 5, TUIR detta anche una disciplina speciale per i conferimenti di una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro.

In particolare per tale operazione il TUIR dispone che: a) le relative plusvalenze sono imponibili nei confronti del conferente residente a

titolo di realizzo al valore normale (con deduzione della relativa imposta, fino al suo totale assorbimento, dell’ammontare dell’imposta che lo Stato, dove è situata la stabile organizzazione, avrebbe prelevato in assenza delle norme della Direttiva n. 90/434/CEE);

b) la partecipazione ricevuta in cambio deve essere valutata in base all’ultimo valore fiscalmente riconosciuto degli elementi patrimoniali conferiti, aumentato di un importo pari all’imponibile corrispondente all’imposta dovuta a saldo. Ai sensi dell’art. 179, comma 5, TUIR i conferimenti e gli scambi di

partecipazione che rispettano i requisiti previsti dall’art. 178, comma 1, lett e) non comportano il realizzo di plusvalenze o minusvalenze sulle azioni o quote scambiate.

In particolare, la plusvalenza latente sulla partecipazione apportata dal socio conferente non concorrerà alla formazione del reddito imponibile di tale soggetto, ma sarà tassata solo se e quando il suddetto socio alienerà una parte o la totalità delle azioni

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(o quote) della società conferitaria che ha ricevuto in cambio. In sostanza, a seguito dell’operazione di scambio di azioni, la partecipazione al

capitale della conferitaria ricevuta dal socio conferente eredita, il valore della partecipazione scambiata o conferita, con conseguente ed automatico trasferimento della plusvalenza latente in capo alla nuova partecipazione.

Qualora il conferente, in aggiunta alla partecipazione nella conferitaria, riceva anche un eventuale conguaglio in denaro (che non deve comunque eccedere il 10% del valore nominale delle azioni) quest’ultmo concorrerà a formare il suo reddito imponibile secondo le regole ordinarie previste dal TUIR (art. 87, 58 e 68, comma 3).

La società conferitaria può iscrivere in bilancio le partecipazioni ricevute ad un valore pari a quello risultante dalle scritture contabili della società conferente, ad un valore pari a quello di mercato oppure ad un valore intermedio rispetto ai due precedenti.

Tale interpretazione è stata confermata dall’Amministrazione finanziaria. Infatti con Ris. 106/E del 2000 il Ministero delle Finanze si è pronunciato in merito ad una operazione di conferimento di partecipazioni da parte di una società italiana a favore di una società olandese, nella quale: a) la società italiana manteneva l’iscrizione delle partecipazioni ricevute ai valori di

libro di quelle conferite e la società olandese conferitaria iscriveva le quote apportate al valore corrente;

b) la società conferitaria procedeva poi a cedere le partecipazioni conferite, realizzando esigue plusvalenze contabili e quindi utili civilistici da distribuire;

c) la conferitaria si impegnava a restituire il capitale, in esito all’operazione di cessione delle partecipazioni, con conseguente annullamento della partecipazione in capo alla conferente. Ebbene l’Amministrazione finanziaria ha negato l’esistenza di vantaggi fiscali

nell’operazione portata alla sua attenzione atteso che “il capitale restituito verrebbe assoggettato a tassazione in Italia per la parte eccedente il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione”: dunque la “scarsa incidenza dei vantaggi fiscali è ricondotta all”impegno della società a far concorrere al reddito in Italia – sotto forma di restituzione del capitale – i valori latenti già maturati al momento del conferimento, nell’ipotesi in cui la società olandese dovesse procedere ad atti di realizzo”.

In relazione alla società conferente l’Agenzia delle Entrate, modificando l’orientamento espresso in una precedente risoluzione in considerazione dei rilievi mossi dalla Commissione europea, ha chiarito che “la continuità contabile, per quanto possa rendere più agevoli eventuali controlli, non è condizione indispensabile per conservare la possibilità di assoggettare a tassazione le plusvalenze al momento dell’effettivo realizzo” (Ris. 159/E del 2003).

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Pertanto il regime di neutralità fiscale opera automaticamente essendo irrilevante che il soggetto italiano conferente riscriva nella propria contabilità le partecipazioni ricevute a fronte del conferimento ad un valore superiore rispetto a quello di iscrizione delle partecipazioni scambiate.

9.2 LA LIQUIDAZIONE

All'ingresso dell'impresa, individuale o collettiva, nella fase della liquidazione

(ossia in quella fase in cui, cessata l'attività produttiva, si provvede alla conversione in denaro dei suoi beni, all'estinzione dei debiti, ed in generale alla definizione dei rapporti pendenti, con la devoluzione del residuo alla sfera personale dell'imprenditore o, nel caso di società, ai soci) l'art. 182 TUIR ricollega un importante mutamento nella disciplina relativa al calcolo del reddito, ispirato (come quello previsto per il fallimento) all'idea della unitarietà di tale fase e quindi all'esigenza di determinare unitariamente il suo risultato.

Questo mutamento rende innanzi tutto necessario separare il reddito imputabile alla fase della liquidazione da quello che invece è attribuibile alla fase della gestione ordinaria dell'impresa e, pertanto, rende necessario procedere all'autonoma misurazione, secondo le regole ordinariamente applicabili all'impresa di cui trattasi, del reddito conseguito nell'intervallo di tempo trascorso tra l'inizio dell'esercizio e l'inizio della liquidazione. L'art. 182, comma 1, all'uopo dispone che il reddito in questione deve essere determinato sulla base di un apposito conto economico (o secondo le regole fissate per le imprese minori, ove ne ricorrano le condizioni di applicabilità), il quale - per le società - deve essere redatto “in conformità alle risultanze del conto della gestione” che gli amministratori devono presentare ai liquidatori ai sensi dell’art. 2277 c.c., in relazione al periodo compreso tra la data di riferimento dell'ultimo bilancio d'esercizio e quella in cui i liquidatori entrano in funzione. Peraltro, l'art. 182, nel mentre per il caso di imprese individuali identifica esplicitamente la data di inizio della liquidazione in quella in cui ne viene data comunicazione all'Ufficio delle imposte mediante raccomandata con avviso di ricevimento (e più specificamente in quella in cui la raccomandata è consegnata all'ufficio postale), trascura di delucidare quale momento segni per le imprese collettive l'apertura della liquidazione. Sulla base di quanto prescritto dall’art. 5, comma 1, del DPR 322/1998, ai sensi del quale la dichiarazione relativa al “periodo compreso tra l'inizio del periodo d'imposta e la data in cui ha effetto la deliberazione di messa in liquidazione” deve essere presentata entro l'ultimo giorno del settimo mese successivo a tale data, si è portati ad affermare che la suddetta data collima con quella in cui la società viene posta in liquidazione, per delibera

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assembleare o per provvedimento giudiziale. D'altra parte, la considerazione del legame che viene instaurato dall'art. 182 tra il conto economico rilevante per il computo del reddito in questione e il ricordato conto della gestione di cui all' art. 2277 c.c., potrebbe indurre a ritenere legittimo uno spostamento in avanti di tale data a quella in cui gli amministratori vengono sostituiti dai liquidatori.

Nel caso di imprese individuali il reddito relativo alla frazione di esercizio di cui trattasi, pur dovendo essere oggetto di un'apposita dichiarazione da parte del liquidatore (o in mancanza dall'imprenditore medesimo), confluisce ad ogni effetto nel reddito complessivo relativo al periodo d'imposta nel corso del quale ha avuto inizio la liquidazione. La predetta frazione di esercizio fornisce dunque in questa ipotesi la base temporale per il calcolo di uno degli importi che partecipano alla formazione del reddito del periodo d'imposta nel quale essa risulta compresa, e non acquisisce il rilievo di un autonomo periodo d'imposta. Analogamente, nel caso di società di persone, il reddito dichiarato dalla società per la frazione di esercizio in discorso deve ai fini dell'imposta personale essere imputato pro-quota ai soci, confluendo nel reddito complessivo di questi ultimi relativo al periodo d'imposta nel corso del quale si è aperta la procedura liquidativa. Nel caso di società di capitali il lasso di tempo considerato rappresenta invece un autonomo periodo d'imposta.

Passando alla fase della liquidazione, è possibile individuare tre fattispecie, fermo restando l'obbligo per il liquidatore di presentare in relazione ad essa, ed entro quattro mesi dalla sua conclusione, un' apposita dichiarazione finale.

La prima si realizza quando la liquidazione si chiude nel corso dello stesso periodo in cui si è aperta. In questa ipotesi il reddito imputabile a tale fase si determina, con i criteri consueti, sulla base del bilancio finale di liquidazione. Non si registra pertanto alcun mutamento nella disciplina dell'attività di misurazione del reddito in questione, se si eccettua la sostituzione del bilancio finale di liquidazione all' ordinario bilancio d'esercizio. Ma va segnalato che ai sensi dell'art. 17 del TUIR, se l'impresa individuale è stata esercitata da più di cinque anni, i redditi in questione possono essere assoggettati a tassazione separata, anziché confluire nel reddito complessivo. Un'analoga possibilità è offerta dallo stesso articolo, a condizione che il periodo intercorso tra la costituzione della società e l'inizio della liquidazione sia superiore a cinque anni, ai soci delle società di persone per i redditi imputati loro in dipendenza della liquidazione, e ai soci delle società di capitali per i redditi compresi nelle somme loro attribuite o nel valore normale dei beni loro assegnati a seguito della liquidazione.

La seconda si realizza quando la liquidazione si protrae oltre il predetto termine, e per un numero di esercizi, compreso quello iniziale, non superiore a tre, nel caso di imprese individuali o di società di persone, o a cinque, nel caso di società di capitali. In questa ipotesi il reddito della residua frazione dell'esercizio iniziale, e quello di ciascun

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esercizio intermedio, è determinato in via provvisoria in base al rispettivo bilancio, salvo conguaglio in base al bilancio finale. Il reddito della residua frazione dell' esercizio iniziale, e quello degli esercizi intermedi, viene dunque calcolato con la metodologia ordinaria, e in maniera autonoma, partendo dal bilancio che l'art. 2490 c.c. impone ai liquidatori di redigere e fare approvare annualmente. Tuttavia, questa determinazione ha carattere meramente provvisorio, in quanto sulla scorta del bilancio finale si deve provvede a consolidare i risultati di tali esercizi, stabilendo il risultato globale della procedura. Ora, quando il reddito d'impresa collima con il reddito complessivo, come nel caso delle società di capitali, l'operazione descritta dalla disposizione in commento si presenta agevole. Il risultato in questione costituisce infatti la grandezza su cui procedere alla liquidazione dell'imposta, dalla quale deve essere scomputato l'ammontare delle imposte eventualmente già versate con riferimento agli esercizi ricompresi nel consolidamento. Quando la predetta coincidenza non sussiste, come nel caso dell'imprenditore individuale, o dei soci delle società di persone, l'operazione di cui trattasi si manifesta più complessa, specie se non si è optato (nelle dichiarazioni relative al periodo iniziale e a quelli intermedi), per la tassazione separata.

In questa evenienza infatti, da una parte, se non si opta nella dichiarazione relativa al periodo finale per la tassazione separata, il predetto risultato globale partecipa (eventualmente pro-quota, se si tratta di redditi di società di persone imputati ai soci ai sensi dell'art. 5) alla formazione del reddito complessivo dall'altra per stabilire l'ammontare delle imposte versate nel corso della procedura (da compensare con l'imposta dovuta con riferimento al periodo finale), si rende necessario identificare per ciascun esercizio compreso nella liquidazione la quota di imposta imputabile ai redditi derivanti dalla liquidazione medesima. Naturalmente la liquidazione si può chiudere così con un risultato positivo come con un risultato negativo. Nel caso di imprese individuali o di società di persone la perdita scaturita dalla liquidazione è espressamente ricondotta dall'art. 182, comma 2°, alla sfera applicativa della disciplina ordinaria di cui all'art. 8. Nel caso di società di capitali tale perdita si manifesta invece priva di valore, e non è neppure considerata dal legislatore, atteso che la chiusura della liquidazione conduce allo scioglimento della società, e rende difficile ipotizzare (salva l'eventualità di sopravvenienze attive) il conseguimento di redditi da cui scomputarla.

Con riferimento a quest'ultima categoria di società è previsto che le perdite degli esercizi anteriori all'inizio della liquidazione, se non compensate nel corso di questa ai sensi dell'art. 84 (dai redditi della residua frazione dell'esercizio iniziale e da quelli degli esercizi intermedi), sono ammesse in diminuzione in sede di conguaglio, possono cioè essere contrapposte direttamente al risultato finale della liquidazione. Questa disposizione rispecchia l'idea dell'unitarietà del reddito conseguito durante (e mediante) la liquidazione, ed induce a ritenere che, ai fini dell'applicazione del suddetto art. 84 (ed

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in particolare del calcolo del quinquennio), il lasso di tempo impegnato dalla procedura liquidativa rappresenti un unico periodo d'imposta. Un'analoga norma non è riscontrabile in rapporto agli imprenditori individuali e ai soci delle società di persone.

Questa assenza si poteva comprendere sino a quando le perdite subite da questi soggetti potevano essere dedotte dal loro reddito complessivo, ma riesce difficilmente giustificabile ora che la loro deduzione è limitata ai redditi della medesima tipologia. È discusso se le perdite della residua frazione di esercizio iniziale, e degli esercizi intermedi, abbiano rilievo autonomo, possano cioè essere sfruttate ai sensi dell'art. 8 e dell'art. 84. Contro tale possibilità si è schierata la relazione ministeriale alla disposizione in commento, sostenendo che la regola della rilevanza dei risultati degli esercizi in questione scaturirebbe unicamente da esigenze di cautela fiscale, e varrebbe perciò solo laddove detta esigenza sussiste, e cioè solo ove si abbia un reddito e non una perdita. In realtà il testo dell'art. 182 non sembra autorizzare una simile soluzione restrittiva, non escludendo la possibilità di cui trattasi, né espressamente, né implicitamente con la formula “il reddito ... è determinato in via provvisoria in base al rispettivo bilancio”, la quale pare indirizzata a definire le modalità di calcolo e la rilevanza sul piano impositivo del risultato economico degli esercizi di cui trattasi più che a rendere inefficaci le eventuali perdite. L'unico spunto contrario lo offre, nell'ultimo periodo, laddove prevede che, se la liquidazione si chiude in perdita, si applica l'art. 8. Se qualche dubbio può perciò nutrirsi per imprenditori individuali e società di persone, per le società di capitali non sembra si possa negare l'utilizzo delle predette perdite anche in corso di liquidazione.

Può accadere, specie se si aderisce alla tesi della «sterilizzazione» delle perdite sofferte durante la liquidazione, che l'ammontare delle imposte versate in relazione ai redditi prodotti durante la liquidazione sia maggiore di quello dell'imposta (eventualmente) dovuta per il periodo conclusivo. In questa ipotesi sorge un credito verso l'Erario, che può essere chiesto a rimborso oppure - ma, per le ragioni indicate sopra a proposito del riporto delle perdite, non nel caso di società di capitali - riportato in avanti.

La terza, ed ultima, fattispecie ricorre quando la durata della liquidazione varca il suddetto limite dei tre o dei cinque esercizi. In questa ipotesi i redditi (o le perdite, e questa è una buona ragione per non considerare dette perdite irrilevanti ai fini impositivi) esposti nelle dichiarazioni relative alla residua frazione dell' esercizio iniziale e agli esercizi intermedi perdono quella peculiare attitudine a dare vita ad un risultato valorizzabile unitariamente in sede di chiusura della liquidazione, e quindi ritornano sotto l'egida della disciplina ordinaria. Questo ritorno non coinvolge soltanto i meccanismi di calcolo dei redditi emersi nel corso della liquidazione, ma altresì le modalità della loro acquisizione a tassazione. Per effetto del superamento dei limiti

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temporali suindicati viene infatti meno - e retroattivamente - il potere dell'imprenditore o dei soci di avvalersi della tassazione separata di cui al citato art. 17. E questo implica la necessità - quando i predetti soggetti si sono avvalsi del potere in questione - di procedere alla rideterminazione dell'imposta dovuta per ciascuno degli esercizi chiusi prima dello sconfinamento, facendo concorrere i redditi conseguiti in dipendenza della liquidazione, originariamente tassati separatamente, alla formazione del reddito complessivo, ricalcolando l'imposta, e versando la differenza.

Effetti analoghi - di consolidamento delle dichiarazioni relative agli esercizi chiusi durante lo svolgimento della procedura - si deve ritenere produca la revoca dello stato di liquidazione, ancorché intervenuta prima della scadenza dei termini menzionati: non compiendosi la liquidazione dell'impresa appare, infatti, irragionevole applicare la normativa che la presuppone. Quanto al periodo interessato dalla revoca, l'ininfluenza della ripresa dell' attività sulla disciplina relativa alla determinazione del reddito esclude la sua attitudine ad interrompere il periodo stesso, al quale è quindi da riconoscere una durata ordinaria.

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CAPITOLO X

10.1 LA STABILE ORGANIZZAZIONE IN ITALIA E ALL’ESTERO 10.1.1 La stabile organizzazione italiana

Società ed enti commerciali non residenti, producono un reddito d’impresa imponibile in Italia solo se, nel territorio dello Stato, operano per mezzo di una “stabile organizzazione”. Ciò esclude da tassazione in Italia i proventi realizzati mediante cessioni di beni o prestazioni di servizi a clienti italiani, che non rendano necessaria una siffatta organizzazione in Italia dell’impresa straniera.

Sotto il profilo terminologico è usuale riferirsi alla stabile organizzazione come branch. Tale concetto ha un contenuto esclusivamente fiscale, alla cui definizione non è d’aiuto né la legge civilistica italiana, né la nostra giurisprudenza. La funzione della stabile organizzazione è, in sostanza, quella di costituire il presupposto per l’imposizione di un’attività economica d’impresa svolta, in un dato paese, da un soggetto non residente in quel paese.

Il concetto di stabile organizzazione (o permanent establishment) occupa un posto di primaria importanza tanto in ambito interno, quanto in ambito internazionale: a) nella sfera dell'ordinamento interno, in quanto criterio per la localizzazione dei

redditi prodotti dalle imprese (e, dunque, per l'attribuzione della soggettività tributaria passiva), nonché per l'individuazione delle correlate norme di determinazione del quantum imponibile;

b) nella sfera del diritto internazionale convenzionale, in quanto criterio di attribuzione della potestà impositiva ai fini dell'eliminazione della doppia imposizione. Il D.Lgs. 344/2003, recante riforma del sistema fiscale statale, ha introdotto nel

nostro ordinamento, all’art. 162 del TUIR, una definizione generale di stabile organizzazione, che colma la precedente lacuna del diritto interno e risulta sostanzialmente conforme alla nozione di stabile organizzazione recata dall’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE di cui parleremo successivamente.

L’art. 162 del TUIR, così come l’art. 5 del Modello OCSE, è formato di due parti recanti i criteri che identificano la cd. “stabile organizzazione materiale” e la cd. “stabile organizzazione personale”.

La stabile organizzazione materiale è definita dal citato art. 162 TUIR come ”sede fissa di affari mediante la quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la

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sua attività sul territorio dello Stato”. In sintesi, perché si configuri in Italia una stabile organizzazione materiale della società estera devono verificarsi 3 condizioni: a) requisito oggettivo (place of business test): esistenza in Italia di una base fissa

d’affari, individuabile in un luogo circoscritto, in cui viene svolta l’attività della società estera;

b) requisito soggettivo (right of use test): disponibilità della base fissa da parte della società estera;

c) requisito funzionale (business connection test): relazione funzionale tra l’attività svolta dalla società estera e la base fissa situata in Italia. Ai sensi dell’art. 162, comma 2, l’espressione “stabile organizzazione” comprende

in particolare: a) una sede di direzione, inteso come luogo dove vengono definiti gli indirizzi

dell’impresa limitatamente ad un’area geografica; b) una succursale, intesa come sede operativa che pur essendo fisicamente separata

dalla casa madre è da questa in ogni caso dipendente; c) un ufficio, inteso come unità organizzativa preposta alla gestione dell’attività sotto

il profilo amministrativo; d) un’officina o un laboratorio, intesi come luoghi nei quali si svolgono i processi

produttivi; e) una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di

estrazione di risorse naturali. Al comma 3 l’art. 162 prevede inoltre che un cantiere può essere considerato

“stabile organizzazione” solo qualora abbia una durata superiore ai 3 mesi. Secondo l’orientamento interpretativo prevalente, tuttavia, tale lista è solamente

esemplificativa, e deve essere letta alla luce della nozione base di stabile organizzazione. Pertanto, un ufficio situato in Italia, a disposizione di un’impresa non residente, non costituisce stabile organizzazione di quest’ultima se il suo utilizzo è soltanto sporadico, o comunque finalizzato ad un’attività diversa da quella svolta in via principale da detta impresa.

Il comma 4 contiene una lista di “ipotesi negative” e prevede che una sede fissa d’affari non costituisce stabile organizzazione se e quando: a) viene utilizzata un’installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di

consegna di beni o merci appartenenti all'impresa; b) i beni o le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinati ai soli fini di

deposito, di esposizione o di consegna; c) i beni o le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinati ai soli fini della

trasformazione da parte di un’altra impresa; d) una sede fissa di affari è utilizzata ai soli fini di acquistare beni o merci o di

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raccogliere informazioni per l’impresa; e) viene utilizzata ai soli fini di svolgere, per l’impresa, qualsiasi altra attività che

abbia carattere preparatorio o ausiliario; f) viene utilizzata ai soli fini dell’esercizio combinato delle attività menzionate nelle

lettere da a) ad e), purché l’attività della sede fissa nel suo insieme, quale risulta da tale combinazione, abbia carattere preparatorio o ausiliario.

La stabile organizzazione personale è disciplinata dai commi 6 e 7 dell’art. 162 del

TUIR, ed è fondata sul presupposto che la casa madre estera possa svolgere la propria attività nel territorio dello Stato italiano anche indirettamente, cioè avvalendosi in loco di un soggetto terzo, che è quindi, a determinate condizioni, qualificato come stabile organizzazione della società estera ancorché non costituisca una sede fissa di cui essa direttamente disponga.

Ai sensi dell’art. 162, comma 6 del TUIR costituisce una stabile organizzazione personale il soggetto, residente o non residente, che nel territorio dello Stato abitualmente conclude in nome dell’impresa stessa contratti diversi da quelli di acquisto di beni. Il comma 7 pone la deroga alla regola generale sancita dal comma 6, prevedendo che non costituisce stabile organizzazione dell’impresa non residente il solo fatto che essa eserciti nel territorio dello Stato la propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario generale, o di ogni altro intermediario che goda di uno status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell’ambito della loro ordinaria attività.

In sostanza la clausola in materia di stabile organizzazione personale è disposta al fine di evitare che un soggetto estero indebitamente si ponga al di fuori delle clausole in materia di stabile organizzazione materiale, pur disponendo operativamente di un’installazione fissa qualificabile come stabile organizzazione per il fatto di avvalersi di strutture e personale messe a disposizione da parte di soggetti terzi.

Si badi che le situazioni giuridiche che derivano dalla presenza in Italia di una stabile organizzazione fanno capo al soggetto non residente, cui appartiene la stabile organizzazione. La stabile organizzazione non è un soggetto giuridico autonomo, bensì una fattispecie con effetti costitutivi di situazioni giuridiche che fanno capo al non residente. Non essendoci alcun dualismo tra impresa non residente e stabile organizzazione in Italia, quest’ultima deve determinare separatamente il proprio reddito, redigendo un autonomo bilancio.

Per i soggetti non residenti che hanno una stabile organizzazione in Italia, il reddito complessivo è determinato secondo le disposizioni del reddito d’impresa. Si ha quindi “attrazione” alla stabile organizzazione e classificazione come reddito d’impresa, di ogni altro tipo di reddito prodotto in Italia dalla Società non residente, purchè

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riferibile all’attività svolta in Italia. Per la determinazione di tale reddito, è fatto obbligo all’ente o società non

residente di redigere un apposito conto economico, relativo alla gestione della stabile organizzazione e alle altre attività produttive di redditi imponibili in Italia. In altri termini, la tassazione avviene come se la stabile organizzazione fosse un’entità autonoma, distinta dalla più vasta organizzazione di cui è parte34. 10.1.2 La stabile organizzazione all’estero

I principi esaminati con riguardo alla stabile organizzazione italiana valgono anche nell’ipotesi in cui sia la società italiana ad avere una stabile organizzazione all’estero. Infatti, nel caso in cui una società italiana ha una stabile organizzazione in un altro paese, quest’ultima verrà assoggetta a tassazione in detto paese.

Per verificare se un’entità estera riconducibile ad una società italiana possa essere qualificata come “stabile organizzazione” occorrerà fare riferimento prima di tutto alla definizione di “stabile organizzazione” contenuta nella Convenzione contro le doppie imposizioni. In particolare, bisogna accertare se, alla stregua della definizione di stabile organizzazione contenuta nella Convenzione, la branch possa effettivamente considerarsi agli effetti fiscali come tale.

A tale proposito si ricorda che ai sensi dell’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE i principali parametri per individuare una stabile organizzazione sono: disponibilità di una sede di affari permanente; esercizio di una fase completa dell’attività svolta dalla casa madre; presenza di casi tipici quali sede di direzione, ufficio, officina, laboratorio, ecc; presenza di agenti dipendenti dalla casa madre.

Nel nuovo Commentario OCSE del 2005 si è inoltre evidenziato che la verifica dell’esistenza di una stabile organizzazione deve essere condotta per ogni singola società, indipendentemente dal Gruppo di appartenenza e dall’esistenza nello stesso paese di stabili organizzazioni di altre società del medesimo Gruppo (stabile organizzazione multipla). L’OCSE, inoltre, ha precisato anche che se una consociata si limita a eseguire prestazioni di servizi (per esempio, managment services) a favore delle società estere del Gruppo nell’ambito della propria attività, in locali propri e utilizzando proprio personale, non si ha una stabile organizzazione. Solo nell’ipotesi in cui tra l’Italia e lo Stato estero non sia stata posta in essere una convenzione si farà riferimento alle normative nazionali. In questo caso, tuttavia, è

34 Formalmente, tuttavia, la stabile organizzazione non è una soggetto giuridico autonomo (sotto il profilo civilistico) rispetto alla casa madre (alias società vera e propria).

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possibile che la stabile possa essere assoggettata a tassazione due volte (una volta dall’Italia nella considerazione che in base all’art. 162 del TUIR tale entità non costituisce una stabile organizzazione ed una seconda volta dal paese di residenza della succursale che invece ritiene sussistenti, in base alla propria normativa, i presupposti richiesta per la sussistenza di una branch). 10.1.3 Branch e subsidiary – implicazioni nella scelta

Un impresa per espandere la propria attività può decidere di creare in un paese straniero (i) una stabile organizzazione ovvero (ii) una nuova società da essa controllata (subsidiary).

Vediamo, per una società italiana, quali sono gli aspetti da considerare nella decisione se investire tramite una stabile organizzazione rispetto alla decisione di investire tramite una società controllata.

Questi sono i principali aspetti positivi della stabile organizzazione: a) non è necessario avere un consiglio di amministrazione. Si tratta di

un’esemplificazione importante dal punto di vista della corporate governance per evitare di creare un CdA senza effettivi poteri;

b) il trasferimento dei beni e servizi tra la sede centrale e la stabile organizzazione non comporta (nella maggior parte dei casi) tassazione indiretta (IVA);

c) le perdite della stabile organizzazione sono immediatamente deducibili dal reddito complessivo perché dal punto di vista dell’Italia la stabile organizzazione è totalmente trasparente. Questa possibilità è particolarmente indicata per le imprese in fase di start-up al fine di dedurre le perdite iniziali. La stabile organizzazione può essere trasformata in subsidiary al manifestarsi dei primi utili;

d) gli utili della stabile organizzazione sono tassati all’estero in base al locale tax-rate effettivo. Il tax-rate italiano (IRES), su quel reddito, viene quindi ridotto in misura pari al tax-rate effettivo pagato all’estero (metodo del credito d’imposta). Questa combinazione permette di evitare tassazioni congiunte a condizione che il tax-rate effettivo estero sia inferiore all’aliquota IRES;

e) una quota della base imponibile IRAP, per le imprese industriali proporzionale alle retribuzioni, può essere allocata alla stabile organizzazione e conseguentemente vi è una riduzione dell’imposta in Italia.

Gli aspetti negativi della Branch sono i seguenti: a) le autorità fiscali locali, incaricate di condurre un audit sulla stabile

organizzazione, possono richiedere complesse e riservate informazioni alla sede centrale italiana;

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b) operando tramite le controllate estere, nei paesi con tassazione più basse rispetto a quella italiana, è possibile differire la tassazione al momento del rimpatrio dei dividendi e generalmente su una base imponibile ridotta al 5%. Il tax rate per il 2008 è quindi pari all’1,375% (27,5%*5%). Operando tramite la stabile organizzazione non c’è possibilità di posticipare e ridurre la tassazione;

c) le autorità fiscali possono facilmente contestare il metodo di attribuzione degli utili alla stabile organizzazione;

d) in caso di default i creditori possono aggredire i beni di tutta la società; e) è spesso necessario nominare un rappresentate locale, tenere una contabilità

separata, predisporre un bilancio e una dichiarazione fiscale con le regole locali, tradurre e depositare il bilancio della società italiana da cui promana la stabile organizzazione. Non ci sono in definitiva riduzioni di costi di compliance;

f) l’eventuale cessione dell’azienda estera è tassata localmente e le riorganizzazione societarie sono in genere più costose.

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CAPITOLO XI

11.1 LA PIANIFICAZIONE FISCALE INTERNAZIONALE

Nella pianificazione fiscale assume un ruolo determinante anche la normativa in materia di fiscalità internazionale. Quest’ultima, invero, costituisce un tassello fondamentale del tax planning non solo (come è ovvio) per i grandi gruppi internazionali che operano in diversi mercati del mondo, ma anche per le società italiane, spesso decise a spostare tutta o parte della propria attività in paesi caratterizzati da un’inferiore incidenza fiscale.

La localizzazione di attività all’estero avviene generalmente per ragioni tradizionalmente classificate come:

a) business driven, cioè dettate principalmente da esigenze di business; b) tax driven, legate esclusivamente da esigenze di tax planning.

In linea generale le variabili che entrano in gioco nella valutazione sono molteplici sia nella dimensione economica sia in quella organizzativa: vantaggi fiscali, rischi e costi non fiscali, stabilità politica e del quadro normativo generale, organizzazione.

In particolare, per quando riguarda la localizzazione di attività all’estero per ragioni di tax driven analizziamo alcuni aspetti specifici che un‘impresa deve tenere in considerazione prima di localizzare parte della sua attività in un paese estero.

Nel dettaglio, prima di localizzare un’attività in un paese è fondamentale verificare il trattamento fiscale (inteso come applicazione di aliquota, determinazione della base imponibile e agevolazioni/restrizioni) che detto paese riserva agli investimenti stranieri. In tale ottica assumono notevole importanza le seguenti informazioni: a) capital duty: verificare se vi sono le imposte sui conferimenti. I conferimenti,

infatti, sono uno strumento molto sfruttato nelle ristrutturazioni societarie e nell’organizzazione delle attività d’impresa;

b) imposte locali: le imposte locali comportano spesso aggravi di costi rispetto alle imposte statali il cui peso varia in relazione all’area geografica dell’investimento. In Italia, ad esempio, l’IRAP è un’imposta locale a base molto ampia e bassa aliquota. Oltretutto tale imposta ha un’incidenza diversa da regione a regione. Sbaglierebbe clamorosamente un investitore che trascurasse il peso e l’incidenza geografica di tale imposta;

c) imposta sul capitale: verificare se è prevista una tassazione sul capitale (imposta patrimoniale). Le imposte sul capitale stanno a mano a mano scomparendo

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nell’Unione europea, ma sono ancora presenti in alcuni stati dove vengono applicate anche in funzione della diversa natura giuridica della società;

d) agevolazioni fiscali per aree svantaggiate: verificare se vi sono agevolazioni fiscali per investimenti in aree svantaggiate;

e) specificità per le società finanziarie: come abbiamo detto le attività più frequentemente delocalizzate per motivi fiscali sono indubbiamente quelle finanziarie. Pertanto per tali attività è importante verificare il trattamento fiscale degli interessi, dividendi, royalty e capital gain ma anche se ci sono regimi specifici per le holding:

f) disponibilità della locale Amministrazione finanziaria nei confronti del contribuente: in particolare occorre verificare l’esistenza di tax ruling. I tax ruling sono accordi amministrativi tra un contribuente e l’autorità fiscale di un paese volti a predeterminare la tassazione di elementi di reddito35;

g) convenzioni contro le doppie imposizioni: che, come vedremo nel paragrafo successivo, costituiscono la fonte primaria del diritto internazionale in materia fiscale e sono volti a dirimere possibili ipotesi di doppia imposizione (ossia di tassazione del medesimo presupposto impositivo in due o più stati).

11.2 LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI CONTRO LA DOPPIA IMPOSIZIONE

Le convenzioni tra Stati in materia fiscale rappresentano le fonti primarie del diritto internazionale tributario. Quest’ultimo deve essere distinto dal diritto tributario internazionale che, invece, è costituito dalle norme interne che disciplinano fattispecie contenenti elementi extranazionali (ad esempio, reddito dei non residenti o reddito dei residenti prodotti all’estero).

La finalità primaria delle convenzioni contro la doppia imposizione risiede nell’esigenza di dirimere, appunto, i casi di doppia imposizione internazionale. In particolare, si ha doppia imposizione internazionale quando un medesimo reddito o fatto a rilevanza impositiva viene tassato due volte perché soggetto ad imposizione in

35 Si tratta di accordi poco utilizzati nel nostro Ordinamento. Solo di recente è stato conferito anche agli uffici periferici della nostra Amministrazione finanziaria il potere/dovere generalizzato di emettere dei pareri vincolanti sulle questioni interpretative (art. 11 L. 212/2000). E’ invece infondata la prassi di basarsi sulle risposte verbali (o anche scritte ma prive della procedura ufficiale) dei funzionari del Fisco. Ben diversi sono i comportamenti delle autorità fiscali di alcuni Stati che ascoltano e discutono con i contribuenti e possono accordare particolari trattamenti interpretando con flessibilità le norme.

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due paesi diversi. La doppia imposizione internazionale è innanzitutto da distinguere da quella

interna: quest’ultima ricorre quando un medesimo ente impositore (Stato, regione, provincia o comuni) sottopone due volte ad imposta il medesimo presupposto.

La doppia imposizione internazionale, invece, si ha quando le due imposizioni provengono da due Stati diversi, riguardano tributi identici o simili e colpiscono per il medesimo presupposto, lo stesso soggetto. La nozione ora indicata di doppia imposizione è quella presa in considerazione dalle norme convenzionali contro la doppia imposizione e concerne l’ipotesi in cui le due imposizioni colpiscano un unico soggetto; perciò è detta «doppia imposizione internazionale in senso giuridico». Invece, quando le due imposizioni colpiscono, per un medesimo fatto economico, soggetti diversi, la doppia imposizione è detta «doppia imposizione in senso economico».

La doppia imposizione internazionale, in genere, scaturisce dalla sovrapposizione di due principi: il “principio del reddito mondiale” (che conduce alla tassazione di tutti i redditi prodotti da un soggetto nel paese di residenza) ed il “principio della territorialità” (che porta all’imposizione nello stato di produzione del reddito).

Tuttavia si può avere una doppia imposizione anche in presenza di un concorso di imposte personali. Ciò accade quando un soggetto risulti residente in più stati (ad esempio, se una persona ha in uno stato il centro dei suoi affari economici ed in un altro la dimora stabile).

Infine, può esservi concorso di imposte reali; a ciò può condurre la diversità dei criteri di localizzazione dei redditi adottati dagli stati.

Con le Convenzioni gli Stati si accordano per individuare un criterio (criterio della residenza o della fonte) per la riferibilità territoriale del reddito, in deroga rispetto ad ogni altra regola di diritto interno.

Le convenzioni internazionali in materia fiscale vengono predisposte sulla base di modelli elaborati da alcuni organismi internazionali. I paesi aderenti all’OCSE, tra cui l’Italia, utilizzano il modello predisposto da tale organizzazione.

Altri modelli sono: il Modello ONU, che è utilizzato nella elaborazione di convenzioni tra paesi industrializzati e paesi in vai di sviluppo; il Modello Andino, adottato dagli stati sudamericani ed il Modello Usa. 11.2.1 Rapporti tra norme convenzionali e norme interne

Le convenzioni internazionali, per effetto delle leggi che ne autorizzano la ratifica e ne ordinano l’esecuzione, acquistano valore di legge nel diritto italiano. Le norme convenzionali, dopo la ratifica, diventano norme interne di carattere speciale: prevalgono, perciò, sulle norme ordinarie. Ciò è confermato dall’art. 75 del DPR

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600/1973 secondo cui “nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”.

Le norme convenzionali non prevalgono sulle norme interne più favorevoli al contribuente ai sensi dell’art. 169 del TUIR; infatti, le norme interne si applicano “se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione”. Tale previsione è espressione del principio secondo cui la disciplina convenzionale ha carattere speciale rispetto a quella dell’ordinamento interno ed ha finalità “intrinsecamente agevolativa”, sicché non può risolversi in un trattamento meno favorevole per il contribuente di quello che è previsto dalla disciplina interna.

11.2.2 Il Modello OCSE Il Modello OCSE è adottato dall’Italia e dagli altri paesi che aderiscono a tale organizzazione, anche nelle convenzioni con i paesi terzi. Il primo Modello risale al 1961; a seguito di una revisione dell’intero testo, un secondo modello fu pubblicato nel 1977. Si decise poi di procedere, anziché a revisioni globali, a modifiche e aggiornamenti di singole disposizioni. Dal 1992, perciò, il Modello viene aggiornato ed emendato di continuo. Il Modello è diviso in sette capitoli: il primo delimita il campo di applicazione della convenzione, indicando i soggetti e le imposte cui si applica; il secondo fornisce una serie di definizioni e le regole interpretative delle convenzioni; il terzo contiene le “norme di distribuzione” in materia di imposte reddituali; il quarto disciplina le imposte sul patrimonio; il quinto contiene le regole per eliminare la doppia imposizione; il sesto disciplina il principio di non discriminazione, le procedure amichevoli e lo scambio di informazioni; il settimo contiene le disposizioni finali. Il Modello OCSE è corredato da un Commentario, redatto dagli esperti del Comitato Affari Fiscali, che rappresentano i governi degli Stati membri. Al Commentario viene riconosciuto grande rilievo nella interpretazione delle norme del Modello (e, quindi, delle norme delle singole convenzioni).

Le convenzioni internazionali stipulate sulla base del Modello OCSE si applicano, generalmente, come prevede l’art. 1 dello stesso Modello, alle “persone che sono residenti di uno o entrambi” gli Stati contraenti. La definizione di “soggetto residente” viene desunta dalla normativa interna dei paesi contraenti e, solo in caso di conflitti (doppia residenza, con conseguenti problemi di doppia imposizione), è individuata secondo i criteri previsti dal Modello di Convenzione (ossia il criterio dell’abitazione permanente, seguito dal centro degli interessi fiscali e della dimora abituale).

Il contenuto caratteristico delle convenzioni internazionali è dato dalle citate

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“norme di distribuzione”, cioè dalle norme che ripartiscono il potere impositivo tra gli Stati contraenti.

Le norme di distribuzione riconoscono la potestà d’imposizione in via principale allo Stato della residenza. Tale attribuzione può essere: - esclusiva (la tassazione è riservata allo Atato della residenza ed è esclusa la

tassazione nello Stato della fonte); - concorrente (oltre che nello Stato della residenza, può esservi tassazione anche

nello Stato della fonte, con o senza limiti). Raramente si prevede la tassazione esclusiva nello Stato della fonte. In relazione a tali criteri è possibile distinguere i redditi tassabili in tre categorie:

a) la prima è costituita dai redditi tassabili esclusivamente nello stato di residenza e non tassabili nello stato alla fonte (ES. canoni art. 12, gli utili derivanti dall’alienazione di azioni e titoli art. 13, le pensioni private (art. 18);

b) la secondo categoria è costituita dai redditi che possono essere tassati da entrambi gli stati contraenti, con o senza limiti,e con o senza la previsione di rimedi alla doppia imposizione. In tale categoria rientrano i dividendi e gli interessi e, secondo molte convenzioni stipulate dell’Italia, ma non secondo il modello di convenzione, anche i canoni. Dividendi ed interessi sono dunque tassabili da parte di entrambi gli stati contraenti, ma il potere impositivo dello stato alla fonte è limitato. La tassazione dei dividendi da parte dello stato alla fonte non deve superare il 5% se l’effettivo beneficiario è una società che detiene almeno il 25% del capitale della società che distribuisce i dividendi; negli altri casi, non deve essere superato il 15%. La ritenuta sugli interessi non deve essere superiore, nello stato alla fonte, al 10%; lo stato di residenza deve concedere un credito per la ritenuta operata alla fonte;

c) la terza categoria è costituita dai redditi che possono essere tassati, oltre che nello stato di residenza, anche nello stato della fonte, senza limiti. In questa categoria rientrano i redditi degli immobili (art. 6), i redditi d’impresa attribuibili alla stabile organizzazione (art. 7); i capital gains (art. 13); i redditi di artisti e sportivi (art. 17). Per dirimere i casi di doppia imposizione il modello OCSE prevede una

compartecipazione sia dello Stato della residenza che dello Stato della fonte. In particolare, viene sancito che lo Stato della residenza debba farsi carico di eliminare la doppia imposizione con il metodo della esenzione o del credito d’imposta, e per converso, lo Stato della fonte del reddito debba ridurre l’imposizione (sui redditi prodotti nel suo territorio).

L’art. 23 del Modello disciplina, nella Sez. A il metodo dell’esenzione e, nella Sez. B, il metodo del credito d’imposta.

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Il metodo dell’esenzione è un riflesso delle norme che attribuiscono la legittimazione ad imporre ad uno stato soltanto; da ciò deriva che l’altro stato è tenuto ad esentare il reddito.

Il metodo del credito d’imposta implica che lo stato della residenza attribuisca, al contribuente residente, un credito d’imposta per i redditi prodotti (e tassati) all’estero. Il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estro può essere illimitato (o pieno) o limitato (o ordinario). Nel primo caso, la Stato della residenza concede al contribuente un credito pari alle imposte versate nello Stato della fonte, senza alcuna limitazione. Nel secondo caso, la detrazione è concessa in misura pari alla quota di imposta dovuta, nello Stato di residenza, sul reddito prodotto all’estero. I due tipi di credito d’imposta producono lo stesso risultato solamente nel caso in cui le aliquote, previste nei due Stati, sono le medesime. Al contrario, se l’ordinamento dello Stato alla fonte prevede aliquote maggiori di quelle applicate nello stato di residenza, la doppia imposizione è eliminata solo parzialmente. 11.3 CENNI ALLA FISCALITA’ COMUNITARIA L’art. 2 della versione consolidata del Trattato sull’Unione europea (o Trattato di Maastricht), entrato in vigore l’1.11.1993, enuncia i fini che l’Unione si prefigge: «promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli», da raggiungere attraverso l’istituzione di «un'unione economica e monetaria la cui moneta è l'euro» e promuovendo «la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri». Per il raggiungimento di tale ultimo fine, il Trattato attribuisce espressamente all’Unione il potere di «armonizzare» le imposte indirette; come vedremo, l’intervento in materia di imposte dirette, invece, può avvenire all’interno della generale potestà di ravvicinamento delle legislazioni, in funzione del mercato comune. L’Unione europea non ha un proprio sistema di imposte e non ha competenza generale in materia tributaria. L’Unione, tuttavia, si occupa di garantire la coesione (rectius “armonizzazione”) degli ordinamenti fiscali dei paesi membri. La fiscalità degli Stati deve, in generale, essere conforme alla norme del Trattato; in particolare, le norme fiscali non devono essere contrarie e non devono ostacolare le libertà fondamentali quali: - il principio di non discriminazione sancito dall’art. 12 del Trattato a noma del

quale è vietato la previsione di trattamenti fiscali deteriori in base alla nazionalità. In altri termini è vietata qualsiasi discriminazione fiscale tra residenti e non residenti;

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- la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali: la libera circolazione delle persone riguarda, da un lato, i lavoratori dipendenti e, dall’altro, le imprese ed i lavoratori autonomi (cd. libertà di stabilimento). La liberta di stabilimento comporta da un lato il diritto di ogni imprenditore di trasferirsi da uno Stato membro all’altro, per esercitare un’attività economica in uno stato membro diverso da quello di origine (libertà di stabilimento primaria) e, dall’altro, il diritto di aprire filiali, agenzie e succursali (libertà di stabilimento secondaria);

- il divieto di aiuti di stato: il divieto riguarda qualsiasi intervento che allievi gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa, anche se non si tratta di sovvenzioni: la norma, quindi, riguarda anche le misure fiscali di favore. In materia di esenzioni e agevolazioni fiscali alle imprese, quindi, il legislatore nazionale deve osservare l’art. 87 del Trattato, a norma del quale sono incompatibili con il mercato comune gli aiuti di Stato che incidono sugli scambi tra gli Stati membri e quelli che, “favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. Lo stesso art. 87 prevede delle deroghe: nel secondo comma, dichiara compatibili de iure con il mercato comune alcuni tipi di aiuti (tra cui quelli concessi in occasione di calamità naturali o altri eventi eccezionali); nel terzo comma, elenca degli aiuti che “possono considerasi compatibili con il mercato comune”: a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore

di vita sia anormalmente basso oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione;

b) gli aiuti diretti a promuovere la realizzazione di importanti progetti d comune interesse europeo oppure a porre rimedio a gravi perturbamenti dell’economia di uno Stato membro;

c) gli aiuti rivolti ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni , purché non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria all’interesse comune;

d) gli aiuti indirizzati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio; e infine

e) le altre categorie di aiuti che siano determinate con decisioni del Consiglio. 11.3.1 Armonizzazione delle imposte indirette

Come anticipato l’Unione europea non dispone di un proprio sistema di imposte,

ma dispone di poteri per l’armonizzazione delle imposte indirette.

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L’art. 93 del Trattato attribuisce, infatti, al Consiglio il potere di armonizzare le legislazioni degli Stati membri in materia di imposte indirette, con deliberazioni che devono essere adottate all’unanimità, su proposta della Commissione e dopo aver sentito il Parlamento europeo ed il Comitato economico e sociale.

Tale disposizione ha lo scopo di eliminare la disparità dei regimi fiscali nazionali, ma solo nella misura in cui ciò è necessario per assicurare un regime di libera concorrenza, non alterato da distorsioni fiscali.

La competenza in materia fiscale dell’Unione è dunque, come già notato, di portata limitata. L’Unione non dispone né del potere di creare un proprio sistema di imposte, né del potere di influire in modo illimitato sui sistemi fiscali nazionali: essa può soltanto armonizzare alcuni settori impositivi (le imposte sulla cifra d’affari, le imposte sui consumi e le altre imposte indirette) “nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno”.

I settori in cui sono state emanate direttive per l’armonizzazione delle imposte indirette sono tre: imposta sul valore aggiunto, accise e raccolta di capitali. 11.3.2 Armonizzazione delle imposte dirette

A differenza di quanto accade per le imposte indirette, nel Trattato non è

espressamente prevista l’armonizzazione delle legislazioni nazionali per le imposte dirette. Tuttavia, anche in questo ambito, l’Unione dispone di margini di intervento e ciò in base: - al principio generale contenuto nell’art. 3, lett. h) del Trattato che prevede il

“riavvicinamento delle legislazioni nazionali nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune” ed in base

- agli artt. 94 e 95 del Trattato che attribuiscono al Consiglio il potere di emanare direttive volte al riavvicinamento delle legislazioni nazionali aventi un’incidenza diretta sul mercato comune.

Per l’armonizzazione delle legislazioni dei paesi membri l’Unione è solita pertanto utilizzare lo strumento della Direttiva, che poi deve essere approvata e rese esecutiva dai singoli paesi.

Tra le Direttive più importanti, nel 1990 viene approvata la Direttiva sulle fusioni e sulle altre operazioni straordinaria transfrontaliere (Direttiva 23.7.1990 n. 90/434). Tale Direttiva viene emanata allo scopo di eliminare le disparità di trattamento fiscale tra Stato e Stato, dando vita ad un regime fiscale comune, in modo tale che le operazioni di riorganizzazione societaria dei gruppi multinazionali possono avvenire in ambito comunitario come in un mercato interno. In linea generale tale Direttiva prevede

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che le operazioni straordinarie transfrontaliere non costituiscano presupposto impositivo delle plusvalenze; la relativa tassazione è differita alla data di effettiva realizzazione. Per fusioni, scissioni e scambi di azioni la Direttiva pone dunque il principio di neutralità fiscale, in base al quale, come vedremo nel capito X., non sono tassate le plusvalenze risultanti dalla differenza tra valori reali e valori fiscali dei beni coinvolti nelle operazioni (art. 4).

Altra importante Direttiva è la c.d Direttiva <<madre-figlia>> (Direttiva 23.7.1980, n. 90/435) che, come abbiamo già visto36, impedisce la tassazione dei dividendi distribuiti da società madri a società figlie all’interno della Comunità europea, vietando l’applicazione di ritenute, sia da parte dello Stato della figlia sia da parte dello Stato della madre.

La Direttiva madre-figlia è stata recepita in Italia con l’art. 27-bis DPR 600/1973 secondo cui, ricorrendo le condizioni che permettono l’applicazione di questo regime, la società madre non residente può chiedere la non applicazione della ritenuta del 27% o chiederne il rimborso.

Nel 2003 viene emanata un’altra importante Direttiva: la Direttiva sulla tassazione di interessi e royalties infragruppo (Direttiva 3.06.2003 n. 2003/49/CE). Tale Direttiva disciplina il regime fiscale di interessi e canoni (royalties) corrisposti da una società ad altre società o stabili organizzazioni di un medesimo gruppo, con sede in Stati membri dell’Unione europea.

Tale Direttiva sopprime l’imposizione alla fonte di interessi e canoni, eliminando, così, ogni rischio di doppia imposizione. Per effetto della Direttiva, interessi e canoni sono tassati una sola volta nello stato di residenza del percettore. La motivazione della Direttiva è che in un mercato unico, avente le caratteristiche di un mercato interno, le operazioni tra società di stati membri diversi non devono essere assoggettate ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello applicabile tra società dello stesso stato membro.

La Direttiva si applica solo tra società residenti nell’Unione: occorre cioè che siano residenti in stati membri sia il soggetto che paga interessi o royalties, sia il soggetto che riceve il pagamento. La Direttiva, infine, si applica solo se il soggetto che riceve interessi o royalties è il “beneficiario effettivo” (e non l’agente, il delegato o fiduciario di un’altra persona).

36 Cfr. capitolo IV.

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11.4 I RIMEDI NORMATIVI CONTRO L’ABUSO DELLA PIANIFICAZIONE FISCALE INTERNAZIONALE In un’ottica antielusiva la normativa interna dei paesi cerca di volta in volta di adottare alcuni rimedi contro l’abuso del diritto internazionale in sede di pianificazione fiscale. Nell’ordinamento italiano tra questi rimedi possono essere annoverati: - la disciplina delle controlled foreing companies; - l’esterovestizione delle attività di impresa; - il regime del transfer pricing nei rapporti internazionali; - l’indeducibilità dei corrispettivi pagati a imprese localizzate in paradisi fiscali. 11.4.1 La disciplina delle controlled foreing companies e delle imprese estere collegate L’inserimento dell’Italia, come della maggior parte dei paesi sviluppati, in organismi internazionali ed in mercati che non conoscono frontiere, condiziona per molti aspetti le scelte del legislatore tributario. In particolare i “condizionamenti internazionali” sono, per ragioni facilmente intuibili, relativamente deboli sulle attività maggiormente radicate sul territorio statale (si pensi al settore immobiliare, al commercio al dettaglio, all’artigianato), la cui clientela spesso non supera le dimensioni cittadine o regionali. Non solo è difficile che questa attività si collochino all’estero, ma è anche complesso attribuire loro elementi di costo, a fronte di ricavi assoggettati a tassazione in paesi con fiscalità più vantaggiosa. La tassazione dei redditi finanziari di impresa è invece facilmente trasferibile, sia per impiegarla in investimenti borsistici, sia per utilizzarla in finanziamenti a società operative dei gruppi multinazionali, collocate nei più vari paesi del mondo. In questo quadro si colloca la tendenza dei diversi stati ad attirare con regimi tributari di favore investimenti finanziari o produttivi esteri; ciò anche destreggiandosi tra le raccomandazioni dell’Unione europea e degli organismi internazionali, che cercano di limitare le distorsioni provocate dalla diversità di regimi fiscali sulla collocazione degli investimenti e delle imprese. Il caso limite di questa tendenza è rappresentato dai c.d. “paradisi fiscali” (ossia in Stati o territori diversi da

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quelli indicati nel Decreto, ancora da emanare, del Ministro dell’Economia di cui all’art. 168-bis TUIR) (ad esempio Bahamas, Montecarlo, Liechtenstein, ecc.) che consentono la costituzione di società esenti da imposte, le quali successivamente effettuano, anche grazie alle moderne tecnologie, investimenti finanziari sulle piazze più diverse, oppure percepiscono compensi per l’uso di brevetti, marchi o diritti di licenza. Ma anche paesi di maggiori dimensioni, come Svizzera, Olanda, Lussemburgo possono offrire agli stranieri trattamenti fiscali privilegiati che hanno poco da invidiare a quelli presenti nella lista dei paradisi fiscali. Nella competizione fiscale internazionale esistono però anche manovre difensive, con cui gli Stati cercano di attrarre comunque a tassazione i redditi che propri residenti conseguono tramite società controllate, ubicate in paradisi fiscali. Tali manovre difensive infrangono lo schermo societario, che finora consentiva di eludere il principio della tassazione, per i residenti, del reddito mondiale. Senza questi interventi legislativi sarebbe infatti ad esempio lecito conferire i capitali da investire a una società estera ubicata in uno stato a bassa fiscalità, e da quella base effettuare gli stessi investimenti finanziari ottenendo un risparmio d’imposta, almeno fino al momento della percezione dei relativi redditi a titolo di dividendo. Naturalmente queste contromisure presuppongono che il soggetto controllante non ricorra a prestanomi esteri per mascherare la titolarità della sua partecipazione, ma queste vere e proprie frodi sono in teoria da escludere quando la società estera controllata appartiene a grandi gruppi industriali. In Italia questo tipo di normativa è stata introdotta nel 2000 e si trova oggi negli artt. 167 TUIR (Controlled Foreign Companies, di seguito anche “CFC”) e 168 TUIR (imprese estere collegate). Queste disposizioni attraggono a tassazione in capo ai soggetti italiani che hanno partecipazione di controllo o di collegamento i redditi di società estere ubicate in paesi con regimi fiscali privilegiati. Tali disposizioni, come vedremo, sono state recentemente integrate e modificate dall’art.13 del D.L. 1 luglio 2009 n. 78. 11.4.1.1Controlled Foreign Companies Ai sensi dell’art. 167 TUIR se un soggetto residente in Italia detiene (direttamente o indirettamente e anche tramite società fiduciarie o attraverso un soggetto interposto) il controllo di un’impresa, di una società o di altro ente residente o localizzato in Stati o 118 territori diversi da quelli indicati nel Decreto del Ministro dell’Economia ex art. 168-bis, i redditi conseguiti dal soggetto estero partecipato sono imputati al controllante

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residente in proporzione alle partecipazioni detenute. Tale disposizione si applica anche per le partecipazioni in soggetti non residenti relativamente ai redditi derivanti da loro stabili organizzazioni situati in Stati o territori diversi da quelli di cui al citato decreto. La normativa in esame mira ad una sostanziale equiparazione della società estera partecipata ad una stabile organizzazione o ad una società di persone trasparente. Per quanto riguarda l’ambito soggettivo di applicazione della normativa in esame occorre precisare quanto segue. Per i soggetti residenti la normativa in esame si applica a tutti i soggetti residenti, anche non esercenti attività d’impresa, quindi persone fisiche, società di persone e assimilate, società di capitali ed enti pubblici e privati, commerciali e non commerciali. Tale disciplina non si applica se la società residente dimostra alternativamente che: a) la società o altro ente non residente svolga un'effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nello Stato o nel territorio nel quale ha sede; b) dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 168-bis. Per i soggetti non residenti la normativa è applicabile solo alle imprese, società e ad ogni altro ente residente in stati o territori a regime fiscale privilegiati e ai soggetti non residenti in stati o territori a regime fiscale privilegiato, per i soli redditi che a tali soggetti derivano da stabili organizzazioni che fruiscono dei predetti regimi privilegiati. Ai fini della determinazione del requisito del controllo si applica l’art. 2359 c.c. in materia di società controllate e collegate (anche se il soggetto controllato non è una società commerciale), considerando la situazione alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione della controllata estera. Qualora non sia possibile evincere la data di chiusura dell’esercizio della controllata, si deve far riferimento alla data di chiusura dell’esercizio della controllante. L’ art. 2359 c.c. prevede tre tipi di controllo: a) controllo di diritto: se un soggetto dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; b) controllo di fatto: se un soggetto dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria; c) controllo c.d. esterno o su base contrattuale: se un soggetto esercita un’influenza dominante su una società in virtù di particolari vincoli contrattuali. Nel caso di persone fisiche, si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari (coniuge, parenti entro il 3° e affini entro il 2°).Ai fini del controllo è comunque necessaria una 119 partecipazione

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all’utile dell’impresa estera da parte del soggetto italiano (art. 4, comma 3, DM 429/2001). Con le modifiche introdotte dal D.L. 78/2009, l’applicabilità della disciplina viene estesa ai soggetti controllati non residenti in stati o territori a regime fiscale privilegiato, non solo per i redditi che a tali soggetti derivano da stabili organizzazioni, a patto che vengano rispettate alcune condizioni di seguito meglio specificate. La disciplina sulle CFC è stata da ultimo commentata ed esplicata dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 51/E del 6 ottobre 2010. Per quanto concerne le modifiche alla disciplina, il comma 5 dell’art. 167 TUIR, relativo alla c.d. “prima esimente” o “business test”, così come modificato dall’art. 13 del D.L. n. 78/2009, prevede la disapplicazione della normativa nel caso in cui la controllata sia effettivamente radicata nel territorio di insediamento. Secondo tale disposizione, è necessario ai fini della disapplicazione della normativa CFC non solo l’esercizio di un’attività industriale o commerciale nello Stato estero, ma anche l’esercizio delle suddette attività nel mercato estero. Quest’ultimo in base alla Circolare 51/E è da intendersi come collegamento al mercato di sbocco o al mercato di approvvigionamento. Peraltro, il concetto di mercato non coincide con i confini geografici del Paese in cui la CFC ha sede, ma deve intendersi esteso all’aera geografica circostante legata al Paese di insediamento della CFC da particolari nessi economici, geografici o strategici (c.d. area di influenza della CFC). La citata previsione richiede quindi il requisito del radicamento dell’impresa nella struttura economica dello Stato in cui la CFC è localizzata. Più precisamente, la Circolare 51/E chiarisce che per la dimostrazione della prima esimente si deve provare il radicamento oltre alla disponibilità in loco di una struttura organizzativa idonea dotata di autonomia gestionale che quindi è un requisito necessario ma non più sufficiente. Quanto al radicamento, l’Agenzia delle Entrate chiarisce che lo stesso deve intendersi come legame economico e sociale della CFC con il Paese estero e quindi l’intenzione di partecipare, in maniera stabile e continuativa alla vita economica di uno Stato diverso dal proprio e di trarne vantaggio. Per le attività bancarie, finanziarie e assicurative, l’esimente si ritiene soddisfatta “quando la maggior parte delle fonti, degli impieghi o dei ricavi originano nello Stato o territorio di insediamento”. La Circolare 51/E chiarisce che per quanto riguarda le assicurazioni la verifica del requisito del radicamento vada fatta avuto riguardo alla residenza degli assicurati ed al luogo di ubicazione dei rischi nel presupposto che il

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territorio in cui sono ubicati i rischi assicurati comporta necessariamente lo svolgimento in loco di alcune fasi preminenti dell’attività assicurativa. In ogni caso il collegamento con il mercato di sbocco o di approvvigionamento ai fini di assumere una rilevanza per la norma in esame va considerato come una significativa percentuale di acquisti o di vendite sul mercato locale superiore al 50 per cento. Per effetto dell’introduzione del comma 5 – bis all’art. 167 TUIR, viene, inoltre, previsto che la suddetta esimente non trova applicazione qualora i proventi della partecipata estera derivino per più del 50% dai c.d. passive income, vale a dire : (i) gestione, detenzione o investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie; (ii) cessione o concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica; (iii) prestazione di servizi, ivi compresi i servizi finanziari, nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società non residente, sono da questi controllati ovvero sono controllati dalla società che controlla la società non residente. Si tratta di una presunzione relativa di non esercizio di un’attività economica effettiva. Si tratta di una presunzione relativa di non esercizio di un’attività economica effettiva. La Circolare 51/E chiarisce che lo scopo della norma è quello di contrastare le c.d. “società senza impresa”. La prova contraria ai fini della disapplicazione della presunzione va data in sede i interpello sostenendo la mancanza di intenti o effetti elusivi finalizzati alla distrazione di utili dell’Italia verso Paesi o territori a fiscalità privilegiata (cfr. C.M. 51/E). La Circolare 51/E chiarisce che la verifica del superamento della soglia del 50% rappresentata dai “passive income” va effettuata di anno in anno a prescindere dal fatto che il contribuente abbia già ottenuto parere favorevole alla disapplicazione della CFC ex art. 167, comma 5, lett. c TUIR. L’art. 13, comma 1, lettera c), del D.L. n. 78/2009 aggiunge il comma 8 – bis all’art.167 TUIR; con questa modifica la disciplina CFC viene estesa anche alle imprese estere che risiedono in stati diversi da quelli a fiscalità privilegiata, qualora ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) la tassazione effettiva nello Stato estero sia inferiore a più della metà di quella a cui sarebbero stati soggetti ove residenti in Italia; e b) i proventi conseguiti derivino per più del 50% dai c.d. “passive income”. Quanto alla prima condizione, si è osservato che le legislazioni europee che fanno

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riferimento all’imposizione effettiva non attribuiscono rilevanza all’aliquota nominale ma a quella effettiva, derivante dal rapporto tra l’ammontare delle imposte applicate al soggetto estero e il reddito prodotto dallo stesso, rideterminato secondo le regole dello Stato estero che applica la normativa CFC. La Circolare 51/E chiarisce che ai fini del raffronto tra la tassazione effettiva estera e quella virtuale interna si devono considerare esclusivamente le imposte sui redditi individuate facendo riferimento alla Convenzione contro le doppie imposizioni di volta in volta applicabile ed escludendo in ogni caso l’IRAP. Inoltre ai fini del carico effettivo di imposizione va considerato il c.d. “effective tax rate” individuato come il rapporto tra l’imposta corrispondente al reddito imponibile e l’utile ante imposte. La Circolare 51/E precisa che quanto alla determinazione del “tax rate estero” si deve partire facendo riferimento ai dati risultanti dal bilancio di esercizio della società estera redatto secondo le norme locali. Ai fini del calcolo, vanno computate (i) le imposte sul reddito effettivamente dovute nello Stato estero, senza considerare (ii) eventuali crediti di imposta per redditi prodotti all’estero riconosciuti dallo Stato di insediamento nonché (iii) effetti sul calcolo dell’imponibile e agevolazioni di carattere temporaneo riconosciuti alla generalità dei contribuenti; ed tenendo conto altresì (iv) di riduzioni di imposta derivante da ruling e (v) di agevolazioni riconosciute ai soci della CFC (es. accreditamento al socio di tutta o parte dell’imposta estera della CFC). Ai fini del calcolo dell’ “effective tax rate” estero rilevano le perdite maturate dalla CFC a decorrere dal periodo di imposta in cui il contribuente italiano acquista il controllo della medesima società. Per quanto concerne l’“effective tax rate” domestico, il calcolo va effettuato partendo dal bilancio di esercizio della CFC approvato con riferimento al periodo di gestione anteriore a quello cui si applica la normativa CFC. Si devono quindi apportare le variazioni in aumento ed in diminuzione previste dal TUIR, tenendo conto che gli ammortamenti e i fondi per rischi ed oneri si considerano dedotti . Come disposto dal nuovo comma 8 – ter, la presunzione non si applica qualora il contribuente presenti apposita istanza di interpello dalla quale risulti che l’insediamento all’estero “non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale”. A tale proposito, la Circolare 51/E ha chiarito che per escludere una “costruzione di

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puro artificio” si deve avere una società estera realmente impiantata nello Stato di stabilimento dove esercita attività economiche effettive. Vengo poi elencati puntuali indici dell’artificiosità. La presunzione del comma 8 – bis non opera nell’ambito del regime delle imprese estere collegate di cui all’art. 168 del TUIR. Ciò detto, per quanto riguarda l’operatività della disciplina questa comporta che i redditi delle controllate vengono rideterminati come sopra indicato. Tali redditi conseguiti dalla controllata estera, rideterminati come detto e convertiti secondo il cambio del giorno di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto non residente sono imputati per trasparenza e a prescindere dall’effettiva percezione, al soggetto residente, in proporzione alla sua quota di partecipazione agli utili, diretta o indiretta, nel periodo d’imposta in corso alla data di chiusura dell’esercizio della controllata non residente. In caso di partecipazione indiretta per il tramite di soggetti residenti o di stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti, i redditi sono ad essi imputati in proporzione alle rispettive quote di partecipazione. Quindi i redditi sono attribuiti al primo soggetto residente (ovvero ai primi soggetti residenti qualora siano più di uno) che si incontra(no) risalendo nella catena partecipativa in proporzione alla rispettiva quota di partecipazione. Ai fini dell’imputazione dei redditi, si prescinde dall’effettivo periodo di possesso della partecipazione; rileva infatti solo il possesso alla data di chiusura dell’esercizio del soggetto estero. I redditi sono assoggettati a tassazione separata da ciascun partecipante, nel periodo d’imposta in corso alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del 121 soggetto non residente, con aliquota media applicata sul reddito complessivo netto del soggetto residente e comunque non inferiore al 27%. Dall’imposta così determinata sono ammesse in detrazione le imposte pagate all’estero a titolo definitivo. Le imposte che rilevano a tal fine sono le imposte sui redditi della CFC e le imposte sui dividendi. Gli utili distribuiti, in qualsiasi forma, dai soggetti non residenti di cui al comma 1 non concorrono alla formazione del reddito dei soggetti residenti fino all’ammontare del reddito assoggettato a tassazione, ai sensi del medesimo comma 1, anche negli esercizi precedenti. Le imposte pagate all’estero, sugli utili che non concorrono alla formazione del reddito, sono ammesse in detrazione, ai sensi dell’art. 165, fino a concorrenza delle imposte applicate ai sensi del comma 6, diminuite degli importi ammessi in detrazione per effetto del terzo periodo del predetto comma.

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Nel caso in cui la CFC distribuisca utili in misura maggiore rispetto ai redditi tassati in capo alla partecipante, tali utili per la parte eccedente saranno integralmente tassati in capo alla partecipante. Il soggetto controllante è tenuto ad indicare i redditi relativi alle CFC controllate in apposito prospetto della dichiarazione dei redditi, ossia, un Quadro FC per ciascuna CFC controllata. Il bilancio o altro documento riepilogativo della contabilità d’esercizio redatti secondo le norme dello Stato o territorio in cui risiede o è localizzata la controllata estera, costituiscono parte integrante della dichiarazione. 11.4.1.2 Imprese estere collegate Le disposizioni previste per le CFC si applicano con alcune particolarità anche nel caso in cui il soggetto residente in Italia detenga, direttamente o indirettamente, anche tramite società fiduciaria o per interposta persona, una partecipazione non inferiore al 20% agli utili di un’impresa, di una società o di un altro ente, residente o localizzato in territori diversi da quelli indicati nel Decreto del Ministro dell’Economia di cui all’art. 168-bis; tale percentuale è ridotta al 10% se si tratta di società quotate in borsa (art. 168 del TUIR). Ai fini dell’applicabilità della disciplina in esame si tiene conto anche delle partecipazioni spettanti ai familiari. Inoltre per le partecipazioni indirette si tiene conto della demoltiplicazione prodotta dalla catena partecipativa. Si considerano residenti o localizzati in regimi fiscali privilegiati le imprese, le società ammesse comunque a fruire di tali regimi. Tuttavia tale normativa non si applica per le partecipazioni in soggetti non residenti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, che operano in tali stati per il tramite di stabili organizzazioni. La normativa in esame impone che il reddito della partecipata estera è imputato al 122 soggetto residente, anche non titolare di reddito d’impresa, in proporzione alla percentuale di partecipazione. Il reddito oggetto di imputazione è determinato per un importo pari al maggiore fra: a) l’utile prima delle imposte risultanti dal bilancio della partecipata (da redigere anche in assenza di un obbligo di legge); b) un reddito induttivamente determinato sommando i valori che si ottengono sulla base dei coefficienti di rendimento riferiti alle categorie di beni che compongono l’attivo patrimoniale dell’impresa estera quali alcuni titoli dell’attivo circolante o immobilizzati

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(ad esempio le azioni o quote di partecipazione anche non rappresentate da titoli al capitale di società ed enti soggetti all’IRES, strumenti finanziari similari alle azioni emesse da società di capitali) alcune immobilizzazioni anche se non possedute in locazione finanziaria (beni immobili, navi destinate all’esercizio di attività commerciali) altre immobilizzazioni finanziarie anche in locazione finanziaria. L’imputazione e la tassazione del reddito avvengono con le stesse modalità previste per le CFC. 11.4.1.3 Cenni alla disapplicazione delle clausole CFC a seguito di interpello Le disposizioni sulle CFC non si applicano se il soggetto residente presenta preventivamente un’istanza di interpello all’Agenzia dell’Entrate ai sensi dell’art. 11 L. 212/2000 e DM 209/2001 al fine di dimostrare la sussistenza di una delle seguenti condizioni: a) la società o altro ente non residente svolga un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nello Stato o nel territorio nel quale ha sede; b) dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori in cui sono sottoposti a regimi fiscali privilegiati. Ai sensi dell’art. 5, comma 3, del DM 429/2001, ai fini della risposta positiva rileva il fatto che: a) il soggetto estero svolga effettivamente un’attività commerciale ai sensi dell’art. 2195 del codice civile come sua principale attività nello Stato o territorio a fiscalità privilegiata con una struttura organizzativa idonea a tale attività; b) i redditi conseguiti dalla CFC sono prodotti in misura non inferiore al 75% in altri Stati non Black List ed ivi sottoposti a tassazione ordinaria; c) i redditi della SO del soggetto non residente situata in paesi Black List siano soggetti a tassazione ordinaria nello stato in cui il soggetto non residente risiede. La risposta viene resa entro 120 giorni. Opera il meccanismo del silenzio-assenso. La risposta positiva consente la disapplicazione della disciplina delle CFC anche 123 per i periodi di imposta successivi (salvo mutamenti significativi).

11.4.2 L’esterovestizione delle attività d’impresa

I possibili abusi derivanti dalla localizzazione estera di attività d’impresa (c.d. fenomeno dell’esterovestizione) sono contrastati da una norma specifica di recente introduzione (art. 73, comma 5-bis e ter, del TUIR) che - al ricorrere di determinate condizioni - prevede una presunzione relativa di localizzazione in Italia della residenza

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di società ed enti costituiti in altri Stati. In particolare, la norma fornisce un criterio di individuazione della residenza

delle società o degli enti localizzati all’estero, ponendo come regola il riconoscimento della residenza effettiva del soggetto da determinarsi anche in base alla sede dell’amministrazione (e cioè del luogo dal quale provengono gli impulsi volitivi inerenti la gestione della società).

Si presumono così residenti in Itala, salvo prova contraria, le società od enti che hanno sede legale o amministrativa all’estero e che detengono direttamente partecipazioni di controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c. in una società di capitali o ente commerciale residente in Italia, qualora, in alternativa: - siano assoggettati al controllo, anche indiretto, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, da

parte di soggetti residenti nel territorio dello Stato italiano; oppure - siano dotate di un organo di gestione composto prevalentemente da amministratori

residenti in Italia. Tali condizioni vanno verificate in base alla situazione esistente alla data di

chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero controllato. La norma prevede quindi l’inversione, a carico del contribuente, dell’onere della

prova in presenza anche si una sola delle suddette condizioni. In definitiva, la società estera si considera residente se è controllata, anche indirettamente, da soggetti residenti in Italia.

Pertanto, pure in presenza di soggetti intermedi collocati all’estero (sub-holding estere) trova applicazione la presunzione di residenza perché la sub-holding estera inserita tra la società residente e la società estera (oggetto della esterovestizione) concretizza una forma di controllo indiretto di quest’ultima da parte della società italiana.

Gli effetti della presunzione di residenza consistono principalmente nell’assoggettamento della società estera agli obblighi tributari previsti dalla normativa italiana.

Pertanto, sul piano sostanziale, al soggetto estero che diviene residente potrà applicarsi un regime fiscale diverso in Italia rispetto alla disciplina applicabile nel paese estero; così l’attribuzione automatica di residenza non solo impone al soggetto di uniformarsi alla normativa interna di termini di adempimenti, ma potrebbe comportare una modifica in ordine alla determinazione del reddito imponibile e dell’imposta effettivamente dovuta.

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11.4.3 Il regime del transfer pricing nei rapporti internazionali Le legislazioni fiscali degli Stati più evoluti pongono molta attenzione alla

determinazione dei valori da attribuire alle transazioni intercorrenti tra un’impresa di quello Stato ed un’altra impresa localizzata in un altro Stato, nel caso in cui queste imprese siano legate da rapporti di partecipazione o di altra natura, sia diretti che indiretti. È possibile, infatti, che vengano poste in essere politiche sui prezzi di trasferimento, tra imprese del medesimo gruppo dimodoché i corrispettivi e gli interessi (ossia i transfer prices) relativi a cessioni di beni, prestazioni di servizi od operazioni di finanziamento, tra imprese ubicate in Stati diversi, vengono a differire da quelli normalmente praticati sul mercato, al fine di trasferire materia imponibile in Stati a più bassa fiscalità.

Si ha pertanto “trasfer pricing” quando in una operazione transnazionale tra soggetti legati da una relazione di dipendenza giuridica od economica, il corrispettivo di un bene o un servizio è fissato ad un livello divergente da quello che si sarebbe formato in una transazione tra soggetti indipendenti, in condizioni di libera concorrenza.

Il legislatore fiscale, pertanto, si preoccupa di individuare i principi ai quali devono sottostare le operazioni infragruppo condotte da imprese operanti in Stati diversi affinché non sia possibile ridistribuire o minimizzare il carico fiscale complessivo.

Il trattamento fiscale dei redditi conseguiti dalle società multinazionali richiede l’individuazione di principi generali che permettano la corretta valutazione delle transazioni condotte tra imprese dello stesso gruppo anche nelle normativa interna.

La disciplina interna sui prezzi di trasferimento è contenuta nell’art. 110, comma 7, del TUIR che dispone che i componenti del reddito d’impresa derivanti da operazioni con soggetti non residenti che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla l’impresa sono valutate in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati, o dei beni e servizi ricevuti, se ne deriva un aumento o diminuzione dei redditi.

Una volta verificati i presupposti di applicabilità della normativa (rapporto di controllo diretto o indiretto del soggetto residente e del soggetto non residente o controllo di entrambi da parte di un terzo soggetto), se si realizza una differenza tra il corrispettivo pattuito dalle parti e il valore normale del bene ceduto si costruisce la fattispecie prevista dall’art. 110, c. 7, Tuir e si ottiene un incremento del reddito fiscalmente rilevante per effetto dell’aumento di ricavi imponibili ovvero per la riduzione di costi deducibili.

Il legislatore italiano, aderendo ad un indirizzo generale, ha adottato quello che viene definito il “principio del prezzo di mercato in libera concorrenza”, ossia il cd. “arm’s lenght principle”. In ossequio a tale disposizione il valore normale viene

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identificato con il prezzo che avrebbe potuto essere pattuito tra parti indipendenti nel libero mercato nel rispetto delle medesime condizioni contrattuali. Come parametro per la valutazione della congruità dei prezzi di trasferimento è stato quindi scelto il “prezzo di mercato in libera concorrenza”.

Pertanto in occasione di una cessione di beni o di una prestazione di servizi all’interno di un gruppo occorrerà considerare quale sarebbe il prezzo che sarebbe stato pattuito per transazioni similari da imprese indipendenti. Il “valore normale” andrà determinato valutando i seguenti parametri: a) la transazione deve avere ad oggetto beni della stessa specie o similari; b) in condizioni di libera concorrenza; c) al medesimo stadio di commercializzazione; d) nel tempo e nel luogo in cui i beni o i servizi sono stati acquistati o prestati. Recentemente la normativa sul transfer pricing è stata innovata dall’art. 26 del DL 78/2010 con cui il legislatore ha cercato di incrementare l’efficacia e l’efficienza dell’azione di controllo dell’AF sulle operazioni infragruppo. L’art. 26 citato prevede che, in caso di rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento, non si applica la sanzione prevista per la contestazione di dichiarazione infedele se il contribuente, nel corso di accessi, ispezioni o verifiche consegni all’Amministrazione finanziaria la documentazione indicata in apposito provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate (emanato il 29.09.2010) idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati. La predisposizione di tale documentazione ha una duplice utilità: a) da un lato, consente alle imprese multinazionali che l’hanno predisposta di fruire di un regime di esonero dalle sanzioni; b) dall’altro permette all’Amministrazione finanziaria di disporre, in sede di controllo, di un valido supporto documentale al fine di verificare la corrispondenza dei prezzi praticati nelle operazioni infragruppo dalle imprese associate con quelli adottati in regime di libera concorrenza. Senza entrare troppo nello specifico tale documentazione deve raccogliere tutte le informazioni utili sul gruppo (storia, evoluzione, settori di operatività, flussi delle operazioni, ecc.) e sui criteri adottati con riguardo alla politica di determinazione dei prezzi di trasferimento.

11.4.4 L’indeducibilità dei corrispettivi pagati ad imprese localizzate in paradisi fiscali

Con una norma di portate generale è stata introdotta una clausola diretta a contenere la prassi simulatoria di compensi erogati a favore di soggetti situati in paradisi

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fiscali mediante la indeducibilità delle componenti negative dal reddito d’impresa imponibile in Italia.

Ai sensi dell’art. 110, comma 10, del TUIR è previsto che non sono ammessi in deduzione i costi e le altre componenti negative che derivano da operazioni effettuate con imprese residenti o domiciliate in paesi a fiscalità privilegiata.

L’operazione intercorsa con i paradisi fiscali viene pertanto considerata alla stregua di un’operazione inesistente, stante la presunzione della mancanza di un’effettiva sostanza economica in ragione della localizzazione territoriale.

Tale regola di indeducibilità, originariamente limitata alle sole transazioni intragruppo, è stata estesa a tutte le operazioni, anche se poste in essere con soggetti non appartenenti al medesimo gruppo. E’ quindi evidente la diversità di prospettiva rispetto alla disciplina del transfer pricing e delle CfC in quanto l’ambito applicativo della norma risulta più ampio rispetto al gruppo di imprese.

La presunzione di inesistenza di una effettiva sostanza economica può essere vinta solo qualora il contribuente fornisca la prova che la società estera svolge un’attività economica nel territorio ove ha posto la residenza o, comunque, che gli atti negoziali hanno una sostanza effettiva (e non meramente fiscale).

A tale riguardo è disposto che la regola della indeducibilità non trova applicazione quando le imprese residenti forniscano la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente una attività commerciale effettiva, ovvero, che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto una concreta esecuzione (art. 110, comma 11, TUIR).

E’ stata altresì regolata la fase del contraddittorio tra uffici tributari e contribuente: prima di procedere all’emissione dell’atto di accertamento, l’amministrazione finanziaria deve notificare all’interessato un avviso con cui si chiedono chiarimenti entro 90 giorni in ordine alla dimostrazione della prova contraria. Qualora le prove eventualmente fornite vengano giudicate inidonee, verrà emesso l’atto di accertamento (art. 110, comma 11, ultimo periodo:

Tale articolato meccanismo normativo è stato esteso anche alle prestazioni di servizi rese da professionisti ( e non dunque solo da imprese) che siano domiciliati o residenti in territori a fiscalità privilegiata non appartenenti all’Unione europea (art. 110, comma 12, TUIR).

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11.5 LO SCUDO FISCALE 11.5.1. Introduzione L’espressione “Scudo Fiscale” indica il contenuto di una serie di provvedimenti legislativi che consentono l’emersione di attività illecitamente detenute all’estero e la conseguente regolarizzazione della posizione fiscale dei contribuenti. Le precedenti edizioni dello scudo fiscale, nel 2001 e 2003, hanno favorito la regolarizzazione o il rientro in Italia di quasi 80 miliardi di euro. Finalità dello scudo è quella di recuperare la ricchezza, posseduta all’estero da soggetti residenti in Italia, da investire nel nostro paese. Il rientro agevolato dei capitali nascosti nei paradisi fiscali o in paesi che offrono una fiscalità privilegiata è, inoltre, un’iniziativa promossa (con modalità diverse) da numerosi governi tra le misure adottabili per immettere liquidità nei mercati, colpiti dalla crisi, e per permettere di irrobustire la patrimonializzazione delle imprese. Oltre a ciò, tra gli obbiettivi delle norme che agevolano il rientro dei capitali occultati all’estero si inserisce la lotta che i paesi del G-20 e dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) hanno dichiarato all’evasione fiscale, al riciclaggio di denaro criminale e alla corruzione: lo testimoniano i recenti accordi raggiunti tra diversi paesi della comunità internazionale, con un significativo ridimensionamento del segreto bancario e l’adozione di procedure per un effettivo scambio di informazioni.

Con riferimento all’attuale versione dello scudo fiscale, occorre precisare che l’art. 13-bis del D.L. 78/2009 consente di sanare (attraverso il rimpatrio o la regolarizzazione) – nell’arco temporale che va dal 15 settembre 2009 al 15 dicembre 2009 – la posizione fiscale di coloro che – possedendo capitali all’estero ad una data non successiva al 31.12.2008 – hanno violato gli obblighi in materia di monitoraggio fiscale previsti dal decreto legge 28 giugno 1990, n. 167, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 227/1990. La norma sopra citata è da un punto di vista redazionale piuttosto semplice anche perché essa dispone un rinvio alle disposizioni del D.L. 350 del 2001 che disciplinava le precedenti edizioni dello scudo fiscale che si intendono, pertanto, pienamente applicabili.

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11.5.2 Soggetti ammessi

I soggetti interessati alla disciplina sono: - le persone fisiche; - gli enti non commerciali, compresi i trust; - le società semplici; - le associazioni equiparate alle società semplici ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett.

c), del tuir; - le società controllate e collegate estere (quest’ultime sono state aggiunte per

effetto della previsione contenuta nuovo comma 7-bis dell’articolo 13-bis del D.L. n. 78/2009, introdotto dalla L. 3 ottobre 2009, di conversione del D.L. n. 103/2009).

Restano quindi escluse dall’ambito di applicazione delle disposizioni sullo scudo fiscale tutte le società di capitali (S.p.A, S.a.p.A., S.r.l.), le società di persone diverse dalle società semplici (S.n.c. e S.a.s.), nonché gli enti commerciali. Sono, altresì, esclusi enti pubblici e soggetti di cui all’art. 74 del tuir.

All’atto pratico, i soggetti che possono avvalersi della disciplina sullo scudo fiscale sono gli stessi a cui è fatto obbligo di compilare il modulo RW del modello di dichiarazione dei redditi. La coincidenza tra soggetti interessati allo scudo fiscale e soggetti tenuti alla compilazione del quadro RW è dovuta alla circostanza che uno dei presupposti di applicazione dell’istituto dello scudo fiscale è l’inosservanza delle disposizioni del D.L. 167/1990 in tema di monitoraggio fiscale.

L’obbligo di compilazione del quadro RW sussiste se il soggetto è fiscalmente residente nel territorio dello Stato. Per le persone fisiche, rileva, a tal fine, l’art. 2, comma 2, del Tuir in base al quale si considerano residenti in Italia le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile. Il requisito della residenza fiscale deve sussistere con riferimento al periodo d’imposta nel corso del quale si procede alla presentazione della dichiarazione riservata (2009) a nulla rilevando che il contribuente fosse fiscalmente residente all’estero nel corso degli anni precedenti. Di converso, sono esclusi dal provvedimento i soggetti che nel periodo d’imposta in cui si procede alla presentazione della suddetta dichiarazione non siano fiscalmente residenti in Italia, anche laddove abbiano avuto lo status di

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residente per tutti gli anni precedenti. In via ulteriore, possono usufruire della disciplina sullo scudo fiscale anche i

cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato che, in base al comma 2-bis dell’articolo 2 del Tuir, sono considerati ex lege fiscalmente residenti in Italia, salvo prova contraria fornita dagli stessi (cfr. circolare n. 43/e del 10.10.2009). Va, altresì, ricordato che l’Agenzia delle entrate ha precisato che, poiché, “ai sensi dell’art. 2 del tuir il requisito della residenza si acquisisce ex tunc nel corso del periodo di imposta nel quale si verifica il collegamento territoriale rilevante ai fini fiscali, si deve ritenere che possano essere inclusi nel novero dei soggetti interessati tutti coloro che, pur non risultando residenti nel territorio dello Stato alla data di presentazione della dichiarazione riservata, vengano ad acquisire successivamente a tale data detto requisito in quanto, per esempio, abbiano inteso stabilire nel territorio dello Stato, per la maggior parte del periodo di imposta, il proprio domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.”.

Lo scudo fiscale può essere utilizzato anche dagli eredi. In caso di decesso del possessore dei capitali all’estero avvenuto dopo il 31.12.2008, uno degli eredi presenterà dichiarazione riservata per conto del defunto. In tal caso, gli effetti della dichiarazione stessa si esplicano con riferimento agli accertamenti relativi al de cuius per i relativi obblighi che si trasferiscono a tutti gli eredi.

Per le società semplici e per le associazioni ad esse equiparate e per gli enti non commerciali la nozione di residenza è recata, rispettivamente, dalla lett. d) del comma 3 dell’articolo 5 del tuir e dall’art. 73, comma 3, del medesimo testo unico. Rilevano, quindi, anche le presunzioni relative recate da tali disposizioni; ad esempio, va tenuta presente la presunzione di cui all’art. 73, comma 3, del tuir, secondo cui si considera residente in Italia il trust costituito in Paesi diversi da quelli che concedono un effettivo scambio di informazioni e in cui almeno uno dei disponenti e uno dei beneficiari siano fiscalmente residenti in Italia. 11.5.3. Attività oggetto di emersione

L’emersione mediante lo scudo fiscale interessa le “attività finanziarie e patrimoniali detenute fuori del territorio dello Stato” e ivi produttive di reddito imponibile in Italia. Si tratta, quindi, di verificare la nozione di attività finanziarie e patrimoniali, di detenzione all’estero e di produzione di reddito estero imponibile in

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Italia.

Attività finanziarie e patrimoniali e detenzione all’estero

La nozione di attività estera di natura finanziaria è estremamente ampia, comprendendo, a titolo esemplificativo:

- i finanziamenti a non residenti; - le valute estere; - le azioni o quote di società non residenti, ancorché non rappresentate da titoli; - le quote di partecipazioni a organismi esteri d’investimento collettivo; - i contratti derivati; - le polizze vita stipulate con società non residenti; - i contratti di pronti contro termine, riporto e prestito titoli, con controparti non

residenti.

Rientrano tra le attività detenute all’estero anche: - i titoli e altre attività finanziarie emesse da soggetti residenti in Italia, purché

siano detenuti all’estero in violazione della normativa sul monitoraggio; - il denaro e i titoli detenuti presso le filiali estere di banche italiane; - le attività intestate a società fiduciarie non residenti37, a prescindere dal luogo in

cui si trovano depositate dalla fiduciaria; - le attività di natura finanziaria che siano intestate a società fiduciarie italiane ma

depositate all’estero.

Per quanto concerne i conti correnti esteri, l’emersione è consentita anche in caso di conti cointestati in quanto ciascuno degli intestatari detiene le attività depositate; ne discende, pertanto, che ognuno di essi ha piena facoltà di applicare lo scudo fiscale.

Tra le attività patrimoniali si comprendono, a titolo esemplificativo: - gli immobili; - le quote di diritti reali; - gli oggetti preziosi; - le opere d’arte;

37 O possedute dal contribuente per il tramite di interposta persona non residente.

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- le imbarcazioni.

Affinché tali beni realizzino un investimento estero si deve trattare di beni che si

trovano fuori del territorio dello Stato o intestati a società fiduciarie o posseduti dal

contribuente per il tramite di interposte persone non residenti.

Detenzione tramite interposta persona

L’emersione delle attività è ammessa, non soltanto nel caso di possesso diretto delle

attività da parte del contribuente, ma anche nel caso in cui le predette attività siano

possedute dal contribuente per il tramite di interposta persona. I casi più frequenti sono

quelli di immobili e partecipazioni non intestati direttamente alla persona fisica ma

posseduti tramite partecipazioni in società non residenti che, di fatto, non svolgono

alcuna attività commerciale o industriale.

11.5.4. Modalità attuative

L’art. 13-bis del D.L. 78/2009 consente di procedere alla emersione delle attività

detenute all’estero in violazione degli obblighi di monitoraggio attraverso due distinte modalità: “regolarizzazione” o “rimpatrio”.

La regolarizzazione permette di mantenere all’estero il denaro e le altre attività ed è ammessa solo per le attività detenute nei paesi UE ovvero aderenti al SEE (spazio economico Europeo) che garantiscano un adeguato scambio d’informazioni con l’Italia (di fatto: Norvegia e Islanda).

Il rimpatrio invece è possibile per le attività detenute in qualsiasi Paese estero e può avvenire nelle seguenti forme: - rimpatrio giuridico, mantenendo le attività nel Paese estero purché intestate ad un

intermediario italiano che le assume in custodia, deposito, amministrazione o gestione, attraverso “una mera annotazione scritturale del trasferimento presso l’intermediario residente” (circ. 9/E 2002);

- rimpatrio materiale, trasferendo fisicamente le attività in Italia o con un ordine

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all’intermediario estero di trasferire le attività all'intermediario italiano o effettuando il cosiddetto “trasporto al seguito” (attraverso la frontiera) delle attività stesse;

- trasporto al seguito, previa dichiarazione in dogana contenente una puntuale indicazione dei valori che si intende importare in Italia. Le precedenti edizioni dello scudo (2001 e 2003) consentivano di scegliere in ogni

caso tra rimpatrio e regolarizzazione. Lo scudo 2009, invece, non consente di regolarizzare le attività finanziarie e patrimoniali detenute in Paesi estranei alla UE e allo SEE (come detto, Norvegia e Islanda). Ne consegue che le attività detenute extra UE e SEE possono essere sanate solo col rimpatrio

Il regime della regolarizzazione, tuttavia, deve considerarsi estensibile (secondo l’Agenzia delle entrate, per ragioni Comunitarie) ad alcuni paesi extra UE e SEE. Precisamente a quelli che consentano un “adeguato scambio di informazioni”. Cioè: Australia, Canada, Corea del Sud, Giappone, Messico, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Turchia (cfr. Circolare n. 43/E del 10.10.2009). La circolare n. 43/E contiene in allegato un elenco puntuale dei Paesi dai quali è possibile effettuare le operazioni di regolarizzazione.

Va fatta una ulteriore precisazione: le attività finanziarie (denaro, titoli partecipativi, quote di fondi, ecc.) sono indubitabilmente sanabili sia attraverso la “regolarizzazione” che il “rimpatrio”. Le attività patrimoniali (immobili, oggetti preziosi, opere d’arte, yacht) sono sanabili, per l’Agenzia, solo attraverso la regolarizzazione e, quindi, non anche in ipotesi di rimpatrio. L’Agenzia afferma tuttavia che il rimpatrio è praticabile anche per quelle attività patrimoniali che, per loro natura, “sono idonee a formare oggetto di rapporto di custodia, deposito, amministrazione o gestione con gli intermediari abilitati” (cfr. Circolare 43/e del 10.10.2009). A tal fine, non sarebbe sufficiente un contratto di deposito o custodia di beni infungibili assimilabile giuridicamente alla custodia in cassette di sicurezza, mentre il contratto di amministrazione di beni per conto terzi (riconducibile allo schema del mandato fiduciario) stipulato con società fiduciarie residenti sembrerebbe idoneo – secondo l’Agenzia (Circolare n. 43/E) – a soddisfare i requisiti sopra richiamati.

11.5.5 Anonimato e riservatezza

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Al fine di garantire ai contribuenti la massima riservatezza nei confronti del Fisco, vi sono regole – diverse a seconda della particolare modalità di rientro utilizzata – a tutela dell’anonimato dei soggetti che effettuano le operazioni di emersione.

Il regime di anonimato, contenuto nell’art. 14, comma 4, d.l. n. 350/2001 è garantito principalmente dal divieto posto in capo agli intermediari di comunicare all’Amministrazione finanziaria dati e notizie concernenti la dichiarazione riservata.

Tale obbligo degli intermediari si atteggia in modo diverso in caso di emersione tramite rimpatrio, tramite regolarizzazione o tramite la forma peculiare di rimpatrio con trasporto “al seguito”. Nelle ultime due ipotesi, infatti, il contribuente non gode delle medesime garanzie di riservatezza concesse a chi rimpatria con le altre modalità previste le attività estere.

Il tema della riservatezza è strettamente connesso a quello della (in)utilizzabilità dei dati ed informazioni relative al rimpatrio ed alla regolarizzazione, oggetto di altra relazione.

A tale proposito va ricordato innanzitutto che ai sensi dell’art. 14 (comma 1, lett. a) d.l. n. 350/2001 relativo al rimpatrio, applicabile anche alla regolarizzazione per effetto del rinvio operato dall’art. 15, comma 1, d.l. cit., è precluso nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati ogni accertamento tributario e contributivo (per maggiori indicazioni sul punto si veda oltre).

Inoltre, a rafforzare questa tutela, nella attuale edizione dello “scudo fiscale” è presente una disposizione che non compariva nella precedente edizione recata dal d.l. n. 350/2001, e cioè l’art. 13 bis, comma 3, secondo cui il rimpatrio e la regolarizzazione “non possono in ogni caso costituire elemento utilizzabile a sfavore del contribuente, in ogni sede amministrativa o giudiziaria, in via autonoma o addizionale”.

Come si è accennato, l’anonimato è regolato in modo diverso a seconda delle modalità prescelte dal contribuente. Iniziamo dal rimpatrio nella forma tanto del rimpatrio giuridico quanto di quello materiale, escluso quello con trasporto al seguito. Per chiarezza, è anche opportuno distinguere tra la riservatezza che copre il contribuente in relazione alle notizie che l’intermediario dovrebbe ordinariamente fornire all’Amministrazione Finanziaria e quella che l’intermediario può opporre a richieste istruttorie dell’Amministrazione Finanziaria o di terzi.

Gli intermediari, una volta ricevuta la dichiarazione riservata, effettuano nei confronti dell’Amministrazione solo comunicazioni cumulative contenenti l’ammontare complessivo delle attività rimpatriate, senza indicare i nomi di coloro che hanno

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presentato la dichiarazione (art. 13, comma 3, d.l. 350/2001). La riservatezza dei contribuenti viene garantita attraverso la accensione di appositi conti destinati ad accogliere le somme e le attività oggetto di rimpatrio.

La notizia dell’accensione di conti destinati ad ospitare le attività rimpatriate non dovrà essere oggetto di comunicazione all’A.F. in virtù dell’esclusione degli obblighi di comunicazione di cui all’art. 1, comma 3, d.l. 167/1990.

Non devono essere comunicati al Fisco neppure i dati sui conti di sub-deposito costituiti qualora il contribuente si avvalga di intermediari che non possono gestire direttamente i conti degli interessati che per il loro tramite abbiano rimpatriato (circ. n. 99/E del 2001).

I redditi (per esempio, dividendi o plusvalenze da partecipazioni qualificate) non soggetti ad alcuna forma di imposizione da parte degli intermediari, a titolo d’acconto o d’imposta, devono essere dichiarati e non sono coperti da anonimato, anche se derivanti da attività rimpatriate e quindi coperte dallo scudo. Chi punta a mantenere il più a lungo possibile la segretazione dovrebbe scegliere i regimi del risparmio amministrato o gestito che consentono di delegare gli adempimenti fiscali agli intermediari.

Inoltre, in ogni caso il prelievo a titolo definitivo di denaro (non è tale p. es. il pronti c/termine: cfr. circ. n. 24/E del 2002) o altre attività dal conto segretato nel quale sono depositati i capitali emersi comporta una riduzione progressiva della soglia entro la quale opera il regime di riservatezza (circ. 24/2002). Ciò posto, va comunque osservato che, una volta rimpatriate, le attività possono essere destinate a qualunque finalità purché si rispettino le disposizioni relative al monitoraggio e tutte le altre norme che regolano le operazioni finanziarie.

Sotto il profilo soggettivo, va rilevato che nel caso in cui la dichiarazione riservata sia presentata da un contribuente che successivamente decede, gli eredi non godono della riservatezza che è una prerogativa strettamente soggettiva e come tale legata al contribuente che ha assolto l’imposta sostitutiva. Tuttavia, gli eredi godono della preclusione degli accertamenti relativi ai redditi del de cuius per cui sono solidalmente obbligati, essendo tale preclusione di carattere oggettivo. Naturalmente, riservatezza (e preclusione) operano pienamente qualora gli eredi abbiano provveduto dopo il decesso a presentare la dichiarazione riservata che comprende anche attività ereditate.

Il regime di riservatezza non dovrebbe estendersi a soggetti delegati dal contribuente alla movimentazione dei conti segretati; ne consegue che la riservatezza dovrà necessariamente cessare anche nei confronti del delegante in caso di richieste di

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informazioni relative al delegato (circ. n. 24/E del 2002).

11.5.6 Intermediari abilitati L’operazione di rimpatrio o di regolarizzazione delle attività detenute all’estero in violazione delle norme contenute nel decreto legge n. 167/1990 viene attuata attraverso gli intermediari finanziari che assumono un ruolo essenziale. Dunque, per l’effettuazione delle operazioni di emersione è necessario avvalersi dell’intervento degli intermediari specificamente individuati dall’articolo 11, comma 1, lettera b), del decreto legge n. 350 del 2001. Si tratta, in particolare, di: 1. banche italiane; 2. società di intermediazione mobiliare (SIM); 3. società di gestione del risparmio (SGR); 4. società fiduciarie di cui alla legge 23 novembre 1939, n. 1966; 5. agenti di cambio iscritti nel ruolo unico previsto dall’articolo 201 del TUF; 6. Poste Italiane S.p.A.; 7. stabili organizzazioni in Italia di banche e di imprese di investimento non residenti. Ai fini dell’applicazione della disciplina in esame gli intermediari abilitati provvedono a: a) raccogliere le dichiarazioni riservate presentate dalla clientela ed a controfirmare

le medesime, rilasciandone copia agli interessati. Al riguardo, gli intermediari non sono tenuti a verificare la congruità delle informazioni contenute nelle dichiarazioni riservate, relativamente agli importi delle attività oggetto di rimpatrio, né la sussistenza dei requisiti soggettivi richiesti dalla norma per accedere alle operazioni di emersione delle attività detenute all’estero (tra le quali, la residenza in Italia e la detenzione all’estero delle attività alle date prestabilite), né sono obbligati a verificare i criteri utilizzati dal soggetto interessato per valorizzare le medesime attività nella dichiarazione stessa. Tuttavia, nel caso della regolarizzazione, è necessario che l’intermediario presti attenzione alla documentazione allegata alla dichiarazione riservata e proveniente dagli

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intermediari esteri. In particolare, è necessario che sia verificato che le attività finanziarie certificate dall’intermediario non residente risultino dalla stessa documentazione riconducibili al soggetto che presenta la dichiarazione riservata ovvero al diverso soggetto per il tramite del quale il contribuente detiene le attività all’estero. La dichiarazione debitamente sottoscritta dall’intermediario costituisce prova dell’avvenuto pagamento dell’imposta a carico del contribuente e del conseguente obbligo dell’intermediario al versamento dell’imposta stessa. Il pagamento dell’imposta avviene trattenendone il relativo importo dal denaro rimpatriato anche effettuando i disinvestimenti necessari (in tal caso rileva la data dell’addebito) o attraverso la provvista fornita dallo stesso contribuente (in tal caso rileva la data del versamento);

b) assumere formalmente in custodia, deposito, amministrazione o gestione le attività rimpatriate e depositate dal contribuente ovvero esistenti all’estero. Ai fini dell’accoglimento delle attività finanziarie rimpatriate e dei relativi redditi possono essere utilizzati anche i conti di deposito già aperti in occasione delle precedenti edizioni dello scudo fiscale;

c) versare l’imposta straordinaria dovuta in relazione alle operazioni di rimpatrio e di regolarizzazione. In relazione agli adempimenti posti a loro carico, gli intermediari sono soggetti alle disposizioni previste in materia di imposte sui redditi con riferimento alla liquidazione, all’accertamento, alla riscossione, alle sanzioni, ai rimborsi ed al contenzioso. Pertanto, all’imposta straordinaria dovuta per effetto delle operazioni di emersione si rendono applicabili, ove compatibili, anche le disposizioni procedimentali relative alle ritenute e alle imposte sostitutive delle imposte sui redditi. E’ appena il caso di sottolineare che con riferimento al pagamento dell’imposta straordinaria sono altresì applicabili nei confronti dell’intermediario le disposizioni relative al cosiddetto “ravvedimento operoso” di cui all’articolo 13 del decreto legislativo18 dicembre 1997, n. 472, nonché le disposizioni contenute nell’articolo 34, comma 4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388. Non è ammessa invece la compensazione prevista dal D. Lge. 241/1997;

d) indicare nella dichiarazione annuale del sostituto d’imposta (modello 770) l’ammontare complessivo dei valori rimpatriati e regolarizzati e quello delle somme versate. Al fine di garantire la riservatezza sulle operazioni di emersione, i dati comunicati annualmente nel predetto modello sono dati aggregati, senza

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alcuna specificazione dei nominativi che hanno presentato la dichiarazione riservata.

e) effettuare le rilevazioni, ai fini della disciplina sul monitoraggio fiscale, degli importi rimpatriati e regolarizzati ai sensi dell’articolo 1, commi 1 e 2, del decreto legge n. 167 del 1990. Inoltre, limitatamente alle operazioni di regolarizzazione, gli intermediari devono comunicare i dati e le notizie relativi alle operazioni stesse ai sensi dell’articolo 1, comma 3, del predetto decreto legge. Quest’ultimo obbligo non vale per le operazioni di rimpatrio al fine di garantire il regime di riservatezza previsto dall’articolo 14 del decreto legge n. 350 del 2001;

f) rispettare gli obblighi di identificazione, registrazione e segnalazione previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 in materia di antiriciclaggio. In particolare, gli intermediari abilitati, nonché gli altri soggetti indicati nel citato decreto legislativo, sono tenuti all’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette nei casi in cui sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che le attività oggetto della procedura di emersione siano frutto di reati diversi (ad esempio rapina, estorsione, truffa, ecc…) da quelli per i quali si determina la causa di non punibilità di cui al comma 4 dell’articolo 13-bis del decreto (alcuni reati tributari e societari).

In sintesi, gli intermediari ricevono le dichiarazioni riservate nel periodo che va

dal 15 settembre al 15 dicembre 2009 (al riguardo i contribuenti devono compilare in quattro esemplari il modello approvato dall’Agenzia delle Entrate, riportando i propri dati anagrafici o quelli del defunto se la dichiarazione è presentata dall’erede, il dettaglio delle attività rimpatriate o regolarizzate). L’intermediario deve poi incassare la provvista corrispondente all’imposta dovuta e conseguentemente l’intermediario deve rilasciare all’interessato una copia conforme della dichiarazione sottoscritta, che il contribuente potrà utilizzare nelle eventuali successive controversie con il fisco. Con il rilascio della copia l’intermediario dà anche conferma della “bontà” degli strumenti rimpatriati che assume in deposito. L’intermediario versa poi le imposte connesse alla dichiarazione. L’operazione si considera perfezionata con la messa a disposizione da parte del contribuente dell’imposta a favore dell’intermediario a sua volta tenuto al versamento.

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11.5.7 I costi Ai fini del conseguimento degli effetti dell’emersione, è dovuta un’imposta straordinaria, che tiene conto anche degli interessi e delle sanzioni, pari al 50 per cento del rendimento presunto delle attività rimpatriate o regolarizzate. Il rendimento si presume maturato nella misura del 2 per cento annuo per i cinque anni precedenti l’operazione di emersione. In sostanza, quindi, l’imposta è pari al 5 per cento delle attività indicate nella dichiarazione riservata. Si tratta di una presunzione assoluta che non tiene conto del periodo di effettiva detenzione all’estero delle attività che si intende rimpatriare o regolarizzare né del reale rendimento conseguito. Tale presunzione esplica effetti esclusivamente ai fini della determinazione dell’imposta straordinaria e non incide sugli altri profili applicativi della normativa sullo scudo fiscale. Supponendo, ad esempio, che sia effettuato il rimpatrio di una somma pari a € 1.000.000 il cui rendimento lordo presunto è pari a € 20.000 per ciascun anno (per un totale di € 100.000 nei cinque anni precedenti), ne consegue che l’imposta straordinaria dovuta è pari a € 50.000. Non è consentito lo scomputo di eventuali perdite, né il riconoscimento di ritenute o crediti, anche per imposte eventualmente pagate all’estero sui medesimi redditi.Tale imposta, inoltre, non costituisce per il contribuente un importo deducibile né compensabile, ai fini di alcuna imposta, tassa o contributo. E’ appena il caso di precisare che l’imposta straordinaria va commisurata all’importo indicato nella dichiarazione riservata delle attività detenute in data non successiva al 31 dicembre 2008 e non va applicata ai rendimenti realizzati a decorrere dal 1° gennaio 2009 e fino alla data di presentazione della dichiarazione riservata, sui quali sono dovute le ordinarie imposte, anche attraverso l’intervento degli intermediari. 11.5.8 Effetti dello scudo fiscale

Lo scudo-ter ha previsto una tutela penale allargata, nel dettaglio sono elencati i reati non punibili per chi ricorre a tale disciplina: - dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per

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operazioni inesistenti; - dichiarazione fraudolenta mediante altri artifizi; - dichiarazione infedele; - omessa presentazione della dichiarazione; - occultamento o distruzione di documenti contabili; - falsità materiale commessa dal privato; - falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico; - falsità in registri e notificazioni; - falsità in scrittura privata; - uso di atto falso; - soppressione distruzione e occultamento di atti vari; - falsità di documenti informatici: - false comunicazioni in bilancio.

Perché i reati siano non punibili occorre però l’esistenza di un collegamento causale, come si desume dalla formulazione dell’articolo 8, comma 6, lettera c), della legge 289/2002, che precisa che l’esclusione della punibilità scatta «quando tali reati siano stati commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari, ovvero per conseguire il profitto e siano riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria».

Per quanto riguarda, in particolare, il falso in bilancio, il richiesto collegamento con lo scudo fiscale fa sì che l’estinzione riguardi soltanto quelle falsità che si risolvono in un’evasione d’imposta penalmente rilevante e non riguardi, invece quelle che da esso sono svincolate (come ad esempio l’ipervalutazione di poste del bilancio per non perdere affidamenti bancari). Inoltre, non essendo previsto per le società, lo scudo deve essere effettuato personalmente: per esempio dall’amministratore della società per estinguere i suoi illeciti arricchimenti, rilevanti a titolo di reato tributario a lui riferibile.

Dato che la figura in esame ha la natura di causa estintiva del reato, si devono applicare le regole generali fissate dal codice penale per questa categoria di fenomeni. Si pone, quindi, il problema dell’estensione ai concorrenti della causa estintiva (per esempio, al socio che ha concorso alla realizzazione dell’illecito o al consulente tecnico del contribuente). Infatti, l’articolo 182 del codice penale dispone che «salvo che la legge disponga altrimenti, l’estinzione del reato o della pena ha effetto soltanto per coloro ai quali la causa di estinzione si riferisce». In linea di principio, dunque, dovrebbe fruire della causa estintiva solo l’esecutore diretto del reato (non è prevista

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un’eccezione, ma poiché questi ha pagato, non sarebbe logico che lo Stato pretendesse un secondo pagamento da parte del concorrente: per l’erario si tratterebbe di un illecito arricchimento). Con riferimento al vecchio scudo la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 19 del 1995) aveva ammesso l’estensione al concorrente nel caso di scudo effettuato dalla società.

Per i procedimenti penali in corso non opera l’estinzione del reato a favore del contribuente, dunque la copertura offerta dallo scudo opera per quei soggetti contro i quali non si sia ancora proceduto. Va precisato che per operare la preclusione non è sufficiente che siano state avviate le indagini preliminari, ma si richiede che sia stato formalmente informato della pendenza il contribuente.

Per quanto concerne le tutele fiscali, le garanzie assicurate a chi si avvale dello scudo riprendono quelle previste nella precedente versione dell’istituto

Innanzitutto sono inibiti gli accertamenti tributari e contributivi sugli imponibili oggetto di rimpatrio o di regolarizzazione indicati nella dichiarazione di emersione. La preclusione riguarda sia le attività esportate dall’Italia, sia le attività costituite al di fuori del territorio dello Stato. Gli accertamenti sono preclusi anche con riferimento a tributi diversi dalle imposte sui redditi, come l’Iva o l’imposta sulle successioni e donazioni, sempre che si tratti di accertamenti relativi a “imponibili” riferibili alle attività oggetto di emersione.

La preclusione opera automaticamente, senza necessità di prova specifica da parte del contribuente, in tutti i casi in cui sia possibile, anche astrattamente, ricondurre gli imponibili accertati alle somme o alle attività costituite o detenute all’estero oggetto di rimpatrio o di regolarizzazione. Pertanto, l’effetto preclusivo dell’accertamento può essere opposto, per esempio, in presenza di contestazioni basate su ricavi e compensi occultati.

Al contrario, gli effetti della dichiarazione riservata non possono essere fatti valere a questi fini se l’accertamento ha per oggetto elementi che nulla hanno a che vedere con le attività per le quali si è usufruito del regime di emersione, come nel caso di rilievi sulla competenza di oneri e in altre ipotesi in cui non si possa configurare in astratto una connessione tra i maggiori imponibili accertati e le attività emerse. In caso di accertamento, il contribuente può opporre gli effetti preclusivi ed estintivi delle operazioni di rientro o di regolarizzazione, chiedendo, se del caso, la verifica della congruità della somma corrisposta in relazione all’ammontare delle attività indicate

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nella dichiarazione riservata. A questo proposito la Circolare n. 43 del 2009 dell’Agenzia delle Entrate precisa che: «il contribuente che intende opporre agli organi competenti gli effetti preclusivi ed estintivi delle operazioni di emersione deve farlo in sede di inizio di accessi, ispezioni e verifiche ovvero entro i trenta giorni successivi a quello in cui l’interessato ha formale conoscenza di un avviso di accertamento o di rettifica o di un atto di contestazione di violazioni tributarie». Gli organi di accertamento determinano l’eventuale maggiore imposta dovuta su un ammontare pari alla differenza tra l’importo che sarebbe stato imponibile in assenza delle operazioni in questione e quello del denaro e delle altre attività dichiarate.

I benefici delle operazioni di emersione non producono, invece, gli effetti previsti se la violazione è stata già constatata o se sono iniziati accessi, ispezioni e verifiche o altre attività di accertamento tributario e contributivo di cui il contribuente già ha avuto formale conoscenza, comprese le richieste, gli inviti e i questionari. In tal caso le operazioni di rimpatrio e di regolarizzazione non producono effetti con riferimento all’anno o agli anni per i quali sono stati notificati avvisi di accertamento o di rettifica ovvero sia iniziata un’attività di accertamento, compreso l’accertamento parziale.

Infine, oltre a quanto già si è descritto in tema di sanzioni e tutele, è importante evidenziare che all’art. 13-bis è espressamente previsto, a differenza delle precedenti versioni dello scudo, che il rimpatrio o la regolarizzazione non possono in ogni caso costituire elemento utilizzabile a sfavore del contribuente, in ogni sede amministrativa o giudiziaria, in via autonoma o addizionale, anche se fanno comunque eccezione i procedimenti in corso.

11.5.9 Conseguenze per i redditi prodotti negli anni successivi al 2008

Per quanto concerne i redditi prodotti, dalle attività oggetto di sanatoria, tra il 1° gennaio 2009 e la data di emersione sono previste due strade per poter assolvere all’obbligo impositivo.

Se il contribuente si avvale della regolarizzazione di attività mantenute all’estero, dovrà dichiarare i redditi dell’intero 2009 nel modello Unico 2010, secondo le modalità ordinarie. Per esempio, chi possiede un immobile locato in Francia, che viene regolarizzato con lo scudo, dovrà esporre nel quadro RL della dichiarazione, il canone netto tassato all’estero per il 2009, o il canone ridotto del 15% se non risulta

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un’imposizione oltrefrontiera. Dal 2010 le attività regolarizzate (da indicare nel modello Unico 2011) andranno inoltre riportate nel quadro RW. In presenza di rimpatrio, invece, il contribuente potrà, per i redditi percepiti fino alla data di effettiva emersione, optare per la tassazione sostitutiva da parte dell’intermediario (mantenendo così l’anonimato), in alternativa all’autotassazione in Unico. L’opzione si esercita barrando la casella presente nella dichiarazione riservata.

Per i redditi incassati successivamente, il problema non si pone in quanto le attività sono “italianizzate” e il prelievo avviene a cura della banca depositaria. Né dovrà essere compilato il quadro RW anche per gli anni futuri. Al riguardo l’opzione per la tassazione da parte della banca può essere effettuata solo per redditi soggetti a ritenuta secca o d’acconto o a imposta sostitutiva. Ne sono esclusi dunque i dividendi e i capital gain su partecipazioni qualificate che andranno dichiarati in Unico, come gli analoghi redditi su azioni italiane.

In alternativa al metodo precedente (c.d. metodo analitico), che richiede di comunicare gli importi effettivamente incassati all’estero (ognuno dei quali tassato con l’aliquota prevista in Italia), gli interessati possono adottare (anche solo per alcuni redditi) un metodo forfettario basato su una quantificazione presuntiva dei proventi in base al tasso Bce medio del periodo, con un prelievo sostitutivo pari al 27 per cento. Questo sistema è consentito anche per quei redditi che ordinariamente sconterebbero le ritenute d’acconto e che andrebbero dunque dichiarati nel modello Unico, nonostante l’intervento della banca. Di tal maniera al contribuente è garantito un totale anonimato.

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CAPITOLO XII

12.1 L’ELUSIONE TRIBUTARIA

12.1.1 Il concetto di elusione tributaria

Un tema che normalmente viene ad essere trattato nell’ambito delle problematiche relative alla pianificazione fiscale d’impresa è quello relativo all’elusione tributaria. Con tale definizione ci si riferisce al comportamento del contribuente diretto ad ottenere una riduzione del debito d’imposta o comunque un vantaggio fiscale, ricorrendo ad una regolamentazione civilistica della fattispecie diversa da quella normale e non giustificata se non dall’interesse ad un trattamento fiscale privilegiato, altrimenti non spettante.

L’elusione è una forma di “risparmio” che è conforme alla lettera, ma non alla ratio delle norme tributarie: il contribuente che elude segue un percorso che gli permette di evitare la tassazione più onerosa e di beneficiare di quella meno onerosa. Vi è dunque una norma impositiva evitata, ed una norma (favorevole) abusivamente applicata. Elusione ed abuso sono dunque nozioni simmetriche. Il contribuente non applica il trattamento fiscale “appropriato” per quel comportamento, e, al tempo stesso, applica (indebitamente) una normativa più favorevole.

Secondo la communis opinio, l’elusione fiscale deve essere distinta sia dal “risparmio lecito d’imposta” e sia dall’“evasione”. Per evasione, infatti, si intende il comportamento diretto a nascondere o, comunque, a non far emergere un presupposto di imposta che si è già verificato (si pensi all’ipotesi di omessa dichiarazione di un reddito ai fini IRPEF o alla dichiarazione di un reddito in misura inferiore a quella effettivamente conseguito) oppure di una qualificazione giuridica non corretta del fatto pur fedelmente rappresentato all’Amministrazione finanziaria (si pensi alla deduzione nella determinazione del reddito d’impresa di un costo effettivamente sostenuto, ma privo del requisito di inerenza, in quanto riferibile alla sfera personale dell’imprenditore e non all’attività dell’impresa). Ora sia nell’evasione che nell’elusione l’operatore mira a non pagare le imposte (o a pagarle in misura ridotta): ma mentre nell’elusione l’operazione è posta in essere con strumenti leciti e non occulti anche se è sorretta da una causa illecita, l’evasione invece postula una riduzione diretta dell’onere fiscale, in quanto il contribuente non cerca di

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intervenire sul fatto imponibile, che già esiste nella sua integrità, alterandone la configurazione, bensì tenta di sottrarsi illegalmente all’adempimento degli obblighi formali e sostanziali che la legge riconnette alla realizzazione di una determinata fattispecie.

L’elusione fiscale si differenzia anche dal legittimo risparmio d’imposta giacché quest’ultimo, come abbiamo visto all’inizio del corso, non contempla alcun aggiramento di norme fiscali.

Si profila quindi una distinzione tra un risparmio d’imposta “patologico” e un risparmio “fisiologico”, il quale può essere effettuato liberamente, senza doversi giustificare con vere o presunte “valide ragioni economiche”.

Nel risparmio d’imposta fisiologico il contribuente si limita ad “usare” la legislazione vigente, mentre in quello patologico il contribuente ne abusa, ritorcendone a proprio favore incompletezze o difetti in modo da ottenere risultati che, pur formalmente legittimi, ripugnano il sistema nel suo complesso.

Un tentativo di fornire un criterio tendenziale circa la differenza tra elusione e mero risparmio d’imposta può essere rinvenuta nella Relazione governativa al D.Lgs. 358/1997 che ha introdotto nel nostro ordinamento l’art. 37-bis recante l’attuale normativa antielusiva.

Nella citata Relazione viene rilevato che il mero risparmio d’imposta “si verifica quando, tra vari comportamenti posti dal sistema fiscale su un piano di pari dignità, il contribuente adotta quello fiscalmente meno oneroso. Non c’è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a scegliere tra le due alternative che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione”.

Nel definire il comportamento elusivo viene inoltre precisato che caratteristica tipica dell’elusione è che la stessa “in genere non si esaurisce in una operazione, ma si basa su una pluralità di atti tra loro coordinati” e che il controllo sull’elusività del comportamento consiste “in un confronto oggettivo tra regimi fiscali, e non certo nella necessità di sindacare i comportamenti soggettivi <<dell’imprenditore medio>> o <<dell’uomo d’affari medio>>”.

Quindi per distinguere tra legittimo risparmio d’imposta ed elusione occorre innanzitutto chiedersi se la normativa applicata dal contribuente si colloca, nel sistema, su un piano di pari dignità rispetto alle altre normative che conducono a risultati equivalenti.

In secondo luogo occorre chiedersi se i vantaggi fiscali raggiunti, benché formalmente legittimi, siano disapprovati dal sistema fiscale, cioè valutati negativamente, alla luce di norme dettate per fattispecie contigue.

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Il problema del contrasto dell’elusione tributaria ha da tempo rappresentato

oggetto di tentativi dottrinali e giurisprudenziali di soluzione, in quanto il ricorso a manovre elusive finiva per minare dalle fondamenta la serietà del sistema impositivo, costituendo, al tempo stesso, una violazione del dovere costituzionale di concorso alle pubbliche spese che in tal modo poteva aggirarsi optando per una regolamentazione civilistica dei soli interessi fiscali e del principio della capacità contributiva. D’altronde, ad una affermazione di carattere generale dell’illiceità dell’elusione tributaria si opponeva la struttura giuridica su cui si fonda il sistema impositivo italiano, che vede nella descrizione legale dell’area della rilevanza tributaria la delimitazione stessa dell’intervento amministrativo. Per tale motivo, ad una crescente attenzione per il fenomeno dell’elusione tributaria, conseguente ad un progressivo aumento della pressione fiscale, hanno fatto seguito una serie di interventi legislativi diretti ad individuare fattispecie tipiche di elusione tributaria da ritenersi sindacabili in sede amministrativa.

Per molti decenni l’elusione d’imposta è stata contrastata nel nostro Paese con misure soltanto specifiche, inserite nei settori che di volta in volta apparivano più vulnerabili. All’inizio il fenomeno dell’elusione fu ostacolato con il ricorso al sistema delle “presunzioni legali”. Si trattava di strumentazioni che paralizzavano il comportamento elusivo al quale erano opposte, impedendogli di cogliere i risparmi d’imposta voluti. In tal senso particolarmente emblematica era la presunzione contenuta nell’art. 10 del D.Lgs. 346/1990 che considerava compresi nell’attivo ereditario i beni e i diritti soggetti ad imposta alienati a titolo oneroso dal defunto negli ultimi sei mesi di vita. Ove si consideri che il prelievo successorio colpiva il trasferimento all’erede del patrimonio del de cuius applicandosi l’imposta all’incremento netto di patrimonio del primo, conseguente alla morte del secondo, si capisce agevolmente come la ratio della presunzione fosse quella di paralizzare ogni artificioso svuotamento del proprio patrimonio compiuto dal de cuius in previsione della morte.

Nel corso degli anni ’80 cominciarono a manifestarsi in Italia fenomeno elusivi di singolare gravità, costituiti soprattutto da fusioni di comodo, contro i quali i rimedi allora codificati e rappresentati prevalentemente da presunzioni legali, risultarono del tutto inadeguati. Nel 1990 fu introdotta quindi nell’ordinamento italiano un prima norma antielusiva generale. Si trattava dell’art. 10 della L. 408/1990 che consentiva all'Amministrazione finanziaria di disconoscere i vantaggi fiscali derivanti da una tassativa serie di operazioni poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d'imposta. Affinché un’operazione fosse tacciata di elusività occorreva che quest’ultima:

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a) fosse stata posta in essere senza valide ragioni economiche; b) allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale; c) tale scopo doveva essere elusivo; d) nonché perseguito fraudolentemente.

L’ambito applicativo di questa disposizione, tuttavia, era per forza di cose molto stringente, infatti veniva richiesto come presupposto la “fraudolenza” nel comportamento del contribuente. Su tale aspetto la disputa dottrinale e giurisprudenziale è stata quanto mai accesa: a) il Se.C.I.T. aveva escluso che l'avverbio "fraudolentemente" esprimesse qualcosa

di più della connotazione complessiva dell'operazione come abuso dello strumento negoziale, rifiutando, quindi, di attribuirvi un significato penalistico;

b) parte della dottrina aveva invece sposato la connotazione penalistica del termine, attribuendogli il riferimento all'assunzione di condotte che, per l'ingegnosità degli espedienti utilizzati, si rivelano oggettivamente artificiose;

c) la giurisprudenza, pur nella varietà delle interpretazioni, si era spesso allineata sulla prima tesi. Pertanto, a seconda del significato - ristretto ovvero allargato - che si attribuiva al

termine in questione, la disciplina antielusiva finiva per divenire, alternativamente, difficilmente applicabile (con ampi varchi al sistema destinati ai "soliti furbi") ovvero eccessivamente "totalizzante", tale cioè da risultare operante anche nei confronti di risparmi d'imposta del tutto legittimi.

12.1.2 La disciplina dell’art. 37-bis del DPR 600/1973 Oggi la norma antielusiva generale di riferimento dell’ordinamento tributario è contenuta nell’art. 37-bis del DPR 600/1973, introdotto con l’art. 7 del D.Lgs. 358/1997 L’art. 37-bis, al comma 1, stabilisce che “sono inopponibili all'Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario, e ad ottenere riduzioni d'imposta o rimborsi, altrimenti indebiti”. Al comma 2 viene previsto che l'Amministrazione finanziaria possa disconoscere i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi indicati, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'Amministrazione; infine, al comma 3, si conclude che le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano a condizione che, nell'ambito del comportamento elusivo, siano utilizzate una o più delle operazioni elencate.

La prima riflessione da fare è che l'ordinamento italiano, per la tradizione che lo connota e avuto riguardo alla situazione concreta in cui versa l'Amministrazione

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finanziaria, non è ancora maturo per l'introduzione di una general-klause antielusiva del tipo di quella vigente in altri Paesi (Germania, Austria, Argentina), ossia operante a trecentosessanta gradi, quali che siano le operazioni poste in essere ed i profili impositivi in considerazione, sicché è stata mantenuta ferma la scelta, già compiuta in passato con il sopra menzionato art. 10, di combattere l'elusione mediante una norma che, seppure di vasta latitudine, resta pur sempre delimitata entro precise coordinate di riferimento: ciò, più precisamente, sia sotto il profilo del settore impositivo, come letteralmente denuncia l'inserimento della disposizione in esame nell'ambito del D.P.R. n. 600/1973 concernente le imposte sui redditi, sia sotto il profilo della "preselezione normativa" delle operazioni in odore di possibile utilizzo strumentale al fine di conseguire vantaggi fiscali.

Per quanto riguarda l’ambito di applicazione dell’art. 37-bis, la sua collocazione nell’ambito del DPR 600/1973 che, come noto, disciplina l’attività di accertamento nell’ambito delle imposte sui redditi, porta a propendere che la norma dispieghi efficacia solo nel comporto delle imposte dirette. Tuttavia l’Amministrazione finanziaria sul punto ha espresso il convincimento che la disciplina antielusiva in esame trovi applicazione anche con riguardo all’IVA38.

Ai sensi della norma in commento un’operazione deve essere considerata elusiva in presenza di: a) comportamenti39 privi di valide ragioni economiche; b) comportamenti diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento

tributario; c) comportamenti diretti ad ottenere riduzioni di imposta o rimborsi altrimenti

indebiti (“vantaggi tributari”); d) comportamenti che si realizzano previo l’utilizzo di una o più delle operazioni

indicate al comma 3 dell’art. 37-bis. Affinché si possa parlare di elusione occorre che i summenzionati presupposti (assenza di valide ragioni economiche, aggiramento di obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario, il perseguimento di un indebito vantaggio tributario e la realizzazione di una delle operazione indicate nell’art. 37-bis, comma 3) sussistano contemporaneamente.

Relativamente al requisito dell’“assenza delle valide ragioni economiche”, esso non si riferisce alla “validità giuridica” dei negozi posti in essere, ma alla loro

38 Cfr. Circolare n. 67/E del 2007. 39 Sebbene le norme del primo e del secondo comma identifichino i “comportamenti” con gli “atti, i fatti, e i negozi”, è evidente che soltanto i comportamenti negoziali potranno qualificarsi elusivi, perché soltanto essi potranno essere diretti ad aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni.

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apprezzabilità economico-gestionale, che si manifesta quando l’operazione è motivata da concrete esigenze aziendali di natura produttiva ed operativa, è diretta al miglioramento della gestione dei costi aziendali, ed ha la finalità di razionalizzazione e ristrutturazione dell’impresa. In particolare, la validità delle ragioni economiche sottostanti ad una determinata operazione deve essere valutata principalmente con riferimento ai soggetti che la pongono in essere, senza avere riguardo ai benefici economici che soggetti diversi, tra i quali i soci potrebbero trarre dall’operazione medesima, rilevando al riguardo la continuità dell’attività d’impresa.

La ragionevolezza economica della condotta rinvia a qualsiasi giustificazione che faccia leva sul razionale impiego delle risorse disponibili. In altre parole conta l’attitudine della scelta medesima a generare un ritorno superiore, in termini di maggiori entrate o di minori costi, alle risorse consumate, sterilizzando l’impatto sul predetto ritorno del fattore fiscale.

L’adeguatezza dello strumento giuridico adottato deve essere valutata tenendo conto di tutti gli interessi in gioco. E così, nel caso delle operazioni straordinarie deve abbracciare tanto la sfera degli interessi delle società coinvolte, quanto quella degli interessi dei loro soci, di coloro che tramite esse agiscono, e quindi anche del gruppo o dei gruppi societari di cui le società in questione dovessero eventualmente fare parte. Si pensi ad una scissione totale non proporzionale realizzata al fine di separare la compagine sociale, e consentire ai singoli soci (o gruppi di soci) non più interessati alla prosecuzione del sodalizio di gestire in modo autonomo la quota di patrimonio sociale attribuita a ciascuna beneficiaria (indipendentemente dall’attività che in concreto queste esercitano).

In merito al secondo requisito “aggiro di obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario” occorre precisare che l’elusione consiste nell’utilizzo di un meccanismo in sé lecito ma sostanzialmente disapprovato dall’ordinamento tributario, concretizzandosi nell’uso di espedienti che finiscono per stravolgere i principi del sistema. Tale profilo è ciò che distingue l’elusione dal lecito risparmio d’imposta, intendendosi per quest’ultimo l’utilizzo della procedura fiscalmente più conveniente tra quelle che il sistema mette consapevolmente a disposizione su un piano di pari dignità.

Non vi è aggiramento fintanto che il contribuente si limiti a scegliere tra le due alternative che l’ordinamento gli mette fisiologicamente a disposizione (per esempio sotto il vigente D.Lgs n. 358/1997 era legittimo scegliere di tassare la plusvalenza da cessione di azienda in modo ordinario in presenza di perdite pregresse). Scendendo all'analisi della disposizione in esame, tuttavia, non pochi dubbi insorgono quando si consideri l'espressione "aggirare obblighi o divieti"; e le perplessità scaturiscono dalla considerazione che le norme sostanziali impositive non sono configurate in termini di obblighi e divieti. Questa affermazione può essere chiarita richiamando quanto è stato

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detto in dottrina rispetto all'applicabilità all'elusione tributaria dell'art. 1344 del codice civile (in tema di negozi in frode alla legge). La dottrina tributaria ha da tempo posto in evidenza come l'elusione non possa essere combattuta mutuando nell'ordinamento tributario lo strumento civilistico di cui all'art. 1344 del codice civile in quanto tale norma opera solo rispetto alle norme imperative. E, si è detto, il rifiuto (ormai pacificamente condiviso) di una concezione imperativistica del diritto impone di considerare imperative, ai sensi dell'art. 1344 del codice civile, solo le norme precettive o proibitive. Al contrario, si è ancora detto, le norme impositive non rientrano né nella prima né nella seconda categoria perché, pur essendo inderogabili, si limitano ad assumere determinati fatti ad indice di capacità contributiva, come tali idonei a determinare la nascita del rapporto obbligatorio d'imposta. Questa critica può essere tranquillamente rivolta anche alla norma in esame. Le norme che pongono divieti ed obblighi di cui parla l'art. 37-bis sono, appunto, le norme proibitive o precettive la cui configurabilità era stata esclusa da chi aveva considerato il problema dell'elusione nella prospettiva dell'art. 1344 del codice civile. Sul piano pratico, l’accertamento di un risparmio d’imposta, ottenuto mediante l’aggiramento del presupposto di determinati obblighi o divieti stabiliti dall’ordinamento tributario, implica, inevitabilmente, una comparazione tra l’onere tributario collegato alle posizioni sorte in ragione della condotta eseguita e quello ricollegato alle posizioni che sarebbero scaturite dall’adozione di un comportamento diverso, assunto a modello.

Nell’esperimento di tale verifica conviene distinguere tra schemi circolari e schemi lineari. Sono circolari quegli schemi che non producono, né hanno la funzione di produrre, modificazioni significative nella sfera economico-giuridica del soggetto coinvolto, sicché i diversi atti che li compongono sono disposti in guisa da elidersi vicendevolmente, riportando il soggetto all’assetto economico-giuridico originario. Sono lineari quegli schemi che, all’opposto, producono, e sono destinati a produrre, modificazioni significative nella sfera economico-giuridica del soggetto coinvolto, pur se per il tramite di sequenze di atti inadeguate rispetto alle modificazioni prodotte. Per i primi il confronto si configura più agevole instaurandosi tra le posizioni tributarie correlate al comportamento e quelle che si sarebbero manifestate se detto comportamento non ci fosse stato. Per i secondi invece la modifica dell’assetto di interessi prodotta dall’operazione impone di tracciare un itinerario negoziale alternativo alla medesima meta, i cui effetti tributari si possono comparare con quelli generati dal procedimento seguito. Quando l’operazione osservata produce modificazioni significative nella sfera economico-giuridica dei predetti soggetti, nell’identificazione del modello occorre considerare l’assetto economico-giuridico prodotto dalla condotta adottata. Per stabilire se c’è aggiramento di norma conta, infatti, il raffronto tra due

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itinerari conducenti alla medesima meta, quello in concreto seguito e quello (maggiormente oneroso, sotto il profilo tributario) assunto a modello. Se la meta è diversa il difetto di equivalenza preclude di configurare un aggiramento, per mezzo del primo itinerario, dell’obbligo o del divieto nascente dal secondo.

Il concetto di aggiramento postula l’utilizzo di un modulo giuridico caratterizzato dalla presenza di uno o più passaggi incongrui rispetto al risultato medesimo perché articolato al fine di evitare il ricorso allo strumento più immediato e diretto disponibile a tal fine, ruotando intorno alla situazione assunta dalla legge tributaria a presupposto di un certo obbligo o divieto. Non sussiste perciò aggiramento se il percorso seguito non è sovradimensionato in quanto permette di raggiungere l’assetto voluto in via immediata e diretta per quando il medesimo assetto sia ottenibile in via altrettanto immediata e diretta, avvalendosi di altri mezzi. Con riferimento al requisito del “vantaggio fiscale” l’avverarsi di un disegno elusivo deve essere dedotto sia in base a una valutazione ex ante – e dunque privilegiando il fine degli atti e negozi diretti a ottenere riduzioni di imposte – sia verificando che siano stati effettivamente conseguiti reali vantaggi tributari. L’espressa previsione normativa richiede, infatti, che si raffrontino le imposte dovute dal soggetto che ha posto in essere il comportamento potenzialmente elusivo con quelle che sarebbero accertabili, in capo a quel medesimo soggetto, a seguito della ricostruzione della fattispecie che non si è realizzata. Il vantaggio fiscale può consistere non solo in un minor carico d’imposta (sotto forma di minor debito o rimborso) ma anche in un rinvio dell’imposizione, nell’acquisizione di maggior valori fiscalmente riconosciuti e in ogni altra apprezzabile posizione fiscalmente più favorevole. L’Amministrazione finanziaria ha precisato che l’elusione si realizza solitamente non mediante un’unica operazione, bensì tramite una serie di atti tra loro coordinati. Con tale precisazione, si è inteso porre l’accento sul c.d. “disegno elusivo” architettato dal contribuente, intendendo evidenziare con ciò il fatto che di regola il fenomeno elusivo è caratterizzato dal compimento di più atti coordinati tra loro, precedenti e successivi rispetto ad un’operazione individuata. Come anticipato la disciplina prevista dall’art. 37-bis si applica soltanto a determinati atti in essa contemplati. Si tratta in particolare di: a) trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di

somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili; b) conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il

godimento di aziende; c) cessioni di crediti; d) cessioni di eccedenze d'imposta; e) operazioni di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 544, recante

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disposizioni per l'adeguamento alle direttive comunitarie relative al regime fiscale di fusioni, scissioni, conferimenti d'attivo e scambi di azioni, nonché il trasferimento della residenza fiscale all'estero da parte di una società;

f) operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni e le classificazioni di bilancio, aventi ad oggetto i beni ed i rapporti di cui all'articolo 67, comma 1, lettere da c) a c-quinquies), DPR 917/1986;

g) cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate tra i soggetti ammessi al regime della tassazione di gruppo di cui all'articolo 117 del testo unico delle imposte sui redditi;

h) pagamenti di interessi e canoni di cui all'art. 26-quater, qualora detti pagamenti siano effettuati a soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in uno Stato dell'Unione europea;

i) pattuizioni intercorse tra società controllate e collegate ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile, una delle quali avente sede legale in uno Stato o territorio diverso da quelli di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’articolo 168-bis del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al DPR 917/1986, aventi ad oggetto il pagamento di somme a titolo di clausola penale, multa, caparra confirmatoria o penitenziale.

Conviene a questo punto individuare lo strumento giuridico per il cui tramite opera la norma in esame. Come abbiamo visto tanto il primo quanto il secondo comma dell'art. 37-bis parlano di “inopponibilità” all'Amministrazione finanziaria degli atti, fatti e negozi elusivi. Senonché, se si ha presente che di inopponibilità si parla per denotare la nullità relativa o l'inefficacia di uno specifico atto nei confronti di un determinato soggetto, è lecito dubitare che nella specie ricorra siffatto istituto. Ciò è senz'altro vero nei casi in cui la sanzione del comportamento elusivo, è l'applicazione del regime impositivo recato dalla norma elusa in luogo di quello dettato dalla norma più favorevole al contribuente alla quale quel comportamento è stato viceversa ricondotto; ed infatti è di tutta evidenza che in tanto l'Amministrazione finanziaria può applicare la norma elusa in quanto l'atto, il fatto o il negozio elusivo continua a produrre i propri effetti nei suoi confronti. Ma alla stessa conclusione è dato pervenire anche quando si è in presenza di atti, fatti o negozi che non sarebbero stati posti in essere in mancanza dello scopo elusivo (si pensi alla fusione effettuata allo scopo di dedurre le perdite dell'incorporata o di avvalersi di un disavanzo da annullamento); nel qual caso l'antidoto in chiave antielusiva è quello di considerare l'operazione tamquam non esset, secondo il modulo proprio dell'inopponibilità. Invero, anche in queste ipotesi non è dato parlare in senso proprio di inefficacia, posto che questa non può non avere portata generale con riguardo al soggetto nei cui

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confronti si manifesta e dunque opera; mentre nella specie detta inefficacia è soltanto relativa, giacché l'atto, il fatto o il negozio conserva piena rilevanza effettuale sotto tutti gli altri profili tributari diversi da quelli che attengono al fenomeno elusivo (sempre con riferimento all'esempio fatto della fusione, restano fermi gli obblighi di dichiarazione e quant'altro si accompagna, dal punto di vista fiscale, al compimento di tale operazione). Secondo la dottrina più qualificata la vicenda non interessa il piano degli effetti degli atti e comportamenti posti in essere dal contribuente, bensì quello della normativa applicabile: nel senso che, verificandosi la fattispecie delineata dalla norma in esame, l'Amministrazione finanziaria prima ed il giudice tributario dopo in caso di controversia sono legittimati a disapplicare la disciplina che è propria della fattispecie medesima e ad applicare viceversa a quest'ultima quella dettata dalla disposizione elusa o scaturente dai principi e quindi dal sistema oggetto dell'elusione. Da un punto di vista procedurale il disconoscimento dei vantaggi fiscali è subordinato all’attuazione di una particolare procedura, caratterizzata da un contraddittorio preliminare con il contribuente e da disposizioni speciali sull’iscrizione a ruolo. In particolare le fasi più importanti di tale procedura sono le seguenti: a) il contraddittorio preliminare: prima della notificazione dell’avviso di

accertamento che disconosce i vantaggi fiscali dell’operazione, l’Amministrazione è infatti obbligata a inviare al contribuente una richiesta di chiarimenti. Entro 60 giorni il contribuente ha la possibilità di fornire la propria giustificazione per iscritto;

b) l’accertamento: se l’Amministrazione finanziaria non ritiene che i chiarimenti forniti dimostrino la legittimità dell’operazione, procede all’accertamento. Nell’atto di accertamento l’Amministrazione è tenuta ad indicare, a pena di nullità, la ragioni per cui ha disatteso i chiarimenti forniti dal contribuente circa la non elusività dell’operazione. L’operazione ritenuta elusiva viene in tal modo qualificata ai fini fiscali, viene applicata la norma che il contribuente intendeva eludere e recuperata la maggiore imposta derivante dalla norma elusa rispetto a quella derivante dalla diversa norma applicata dal contribuente;

c) iscrizione a ruolo: la maggiore imposta accertata ed i relativi interessi sono iscritti a ruolo dopo la pronuncia della commissione tributaria provinciale;

d) rimborso di imposta a soggetti terzi: i soggetti che, partecipando all’operazione elusiva, hanno pagato imposte, che a seguito della riqualificazione risultano non dovute, possono proporre istanza di rimborso all’Amministrazione entro un anno dalla data in cui l’accertamento è divenuto definitivo è stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale.

Particolarmente discusso è il tema relativo all’applicabilità o meno delle sanzioni in caso di contestazione di un comportamento elusivo.

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A tale proposito è utile considerare che l’art. 37-bis del DPR 600/1973 prevede che l’Amministrazione debba applicare “le imposte determinate in base alle disposizioni eluse”, senza specificare se debba procedere altresì alla irrogazione delle sanzioni amministrative connesse all’illecito di infedele dichiarazione. Secondo un determinato indirizzo giurisprudenziale40, le sanzioni tributarie non si applicano in caso di contestazioni da elusione fiscale, in quanto: a) non si può chiedere al contribuente di operare nella propria dichiarazione dei

redditi l’autodisconoscimento di operazioni lecitamente effettuate; b) nella normativa non è comminata alcuna sanzione; c) la sanzione non è coerente con il concetto di elusione.

Parte della dottrina sostiene che l’interpretazione sistematica e logica della norma dovrebbe indurre a ritenere ragionevole un rinvio alla regolamentazione di carattere generale, tanto in materia di accertamento e di riscossione, quanto in materia di sanzioni. Più in particolare si ritiene che la situazione che si crea per effetto del disconoscimento dei vantaggi tributari di cui al comma 2 dell’art. 37 bis si manifesta sotto il profilo oggettivo agevolmente riconducibile alla ipotesi prevista e punita dall’art. 1 del D.Lgs. 471/1997 ed almeno normalmente quando la dichiarazione non è stata omessa, a quella, indicata al suo comma 2, di divergenza tra imposta accertata ed imposta dichiarata. Il disconoscimento dei vantaggi tributari di cui al comma 2 dell’art. 37-bis sfocia infatti, come confermano i commi 4 e 5, nella immissione di un avviso di accertamento racchiudente la determinazione autoritativa della imposta o della maggiore imposta che si assume dovuta a motivo del disconoscimento medesimo. In concreto come violazione ciò che viene punito è la presentazione di una dichiarazione esponente un’imposta inferiore, non a quella che avrebbe dovuto essere esposta, ma a quella accertata dall’Ufficio. Il contribuente può essere ritenuto non punibile per effetto dell’art. 6 comma 2 del D.Lgs. 472/1997, il quale stabilisce la non punibilità dell’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono. A tal proposito, è utile evidenziare come la definizione del comportamento elusivo sia contrassegnata da una notevole vaghezza, e ciò si traduce in una situazione di obiettiva incertezza intorno ai margini della sfera formata dall’insieme dei comportamenti ai quali vanno riallacciate le conseguenze giuridiche indicate dalla disposizione in commento.

40 Cfr. CTP di Milano, sentenza 13/12/2006 n. 278.

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Occorre pertanto ricordare come questa situazione non rilevi in sé, ma in quanto determini la violazione contestata. L’art. 6 comma 2 del D.Lgs. 472/1997 non comporta la non punibilità del contribuente in ogni ipotesi di applicazione dell’art. 37 – bis, limitandosi ad esplicare effetti in quelle che ragionevolmente possono essere ascritte alla schiera dei predetti casi di limite. In queste situazioni assume rilevanza il diritto di interpello previsto e regolato dall’art. 21 della L. 413/1991, la cui funzione è proprio quella di ridurre l’area di incertezza che circonda l’ambito applicativo della disposizione in esame. Nel dettaglio si può osservare che tanto più il comportamento considerato appare collocabile nell’ambito delle predette situazioni, tanto più l’omesso esercizio del diritto di interpello potrebbe essere giudicato quale indice di un comportamento negligente.

Infine, come vedremo meglio nel Capitolo XIII dedicata al tema delle istanze di interpello, occorre accennare che in relazione alla normativa antielusiva è possibile presentare due diverse istanze di interpello. Infatti, il contribuente che volesse porre un’operazione che costituisce oggetto di una norma antielusiva può presentare istanza di interpello preventivo volto cioè a conoscere preventivamente il parere dell’Amministrazione finanziaria circa l’eventuale elusività di determinate operazioni economiche e/o finanziarie. Inoltre, ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, è possibile presentare un’istanza di interpello disapplicativo per richiedere la disapplicazione di norme che “allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive ammesse dall’ordinamento tributario”.

I presupposti e le regole procedurali connessi ai due tipi di interpello verranno trattati nel Capitolo XIII. 12.1.3 L’interposizione fittizia Accanto alla norma generale antielusiva contenuta nell’art. 37-bis vi è un’altra disposizione avente comunque una finalità antielusiva generale. Si tratta dell’art. 37, comma 3, del DPR 600/1973 che colpisce i fenomeni di interposizione fittizia. Tale disposizione prevede che “in sede di rettifica e di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”. Tale disposizione sembra rivolta ad attribuire all’Amministrazione finanziaria il potere di evidenziare, anche in via presuntiva, l’esistenza di una simulazione soggettiva e, di conseguenza, la possibilità di ricondurre a tassazione il reddito simulatamente

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trasferito in capo all’interponente fittizio. Nel senso descritto la norma risulta orientata al perseguimento di condotte evasive (occultamento del presupposto d’imposta). Si deve optare per la non rilevanza sostanziale dell’art. 37, comma 3 sotto il profilo antielusivo, in quanto esso, lungi dall’introdurre un nuovo e generale principio di imputazione del reddito al soggetto che effettivamente lo possiede, si limita a ribadire quel principio di effettività che è connaturato al rapporto possesso-reddito del presupposto d’imposta. Sul piano civilistico l’interposizione fittizia deve essere distinta da quella reale in cui l’intervento dell’interposto è vero ed effettivo ed il negozio non dissimula nessun accordo sottostante, affiancandosi eventualmente ad esso. C’è dunque l’interposizione reale quando il soggetto interposto contrae in proprio e si impegna a traslare gli effetti del negozio sull’interponente in base ad una accordo che non necessariamente deve essere noto al terzo. Le persone interposte che dimostrino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati ad altro contribuente possono presentare istanza di rimborso. Il rimborso è possibile solo dopo che l’accertamento nei confronti dell’effettivo possessore dei redditi è divenuto definitivo e, comunque, in misura non superiore all’imposta effettivamente riscossa sulla base del predetto accertamento. 12.1.4 Norme antielusive speciali La lotta all’elusione d’imposta è condotta nel nostro ordinamento con strumentazione che potrebbe definirsi oscillante tra “particolarismo e generalità”, costituita da un principio generale antielusione applicabile a specifiche operazioni e da una pluralità di altre norme, opposte a singoli comportamenti ed allocate nei settori del prelievo apparsi di volta in volta più vulnerabili. L’identità di queste norme è proteiforme ed incerta, di esse manca qualsiasi elenco ed il riconoscimento non è mai esplicito; ma la loro esistenza è indubbia anche perché è prevista la possibilità di disapplicarle. D’altronde è stato lo stesso legislatore delegante, proprio con la legge che ha portato alle norme dell’art. 37-bis ad aver stabilito altri principi e criteri direttivi, che ha qualificato antielusivi e che ha destinato a guidare l’emanazione di norme delegate ulteriori, relative ad imposte anche diverse da quelle sull’imposizione dei redditi. Esistono dunque nel sistema altre norme antielusive, diverse da quelle dell’art. 37-bis, l’identificabilità delle quali, peraltro non agevole, è rimessa soprattutto alla sensibilità dell’interprete, soffrendo le incertezze di una materia, come l’elusione d’imposta, di recente elaborazione e popolato da più ombre che da luci. Gli esempi che affronteremo sono stati selezionati in funzione della peculiarità del rimedio previsto;

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ma risulterà evidente dall’esposizione che il comune denominatore di essi consiste nel rendere innocuo il comportamento che si assume elusivo. Una prima disposizione considerata “norma antielusiva speciale” è l’art. 2, comma 2-bis, del TUIR. Come in precedenza accennato, per il nostro sistema d’imposizione sul reddito, fondato sulla worldwide income taxation, la soggezione della persona fisica alla potestà tributaria presuppone un collegamento con il territorio che è stato identificato con la residenza. In particolare l’art. 2 TUIR stabilisce che la persona fisica acquisti la residenza iscrivendosi all’anagrafe, oppure stabilendo nel territorio la dimora abituale od il domicilio. E’ assai frequente dunque che, nel tentativo di sottrarsi al prelievo nazionale, non di rado particolarmente oneroso, il cittadino trasferisca la propria residenza anagrafica all’estero, in un c.d. paradiso fiscale, cancellandosi dall’anagrafe della popolazione residente ed iscrivendosi in quella della popolazione residente all’estero (AIRE). Proprio in previsione di codesti comportamenti “elusivi”, le norme dell’art. 2, comma 2-bis, TUIR considerano “residenti salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalla anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori” diversi da quelli individuati con decreto del Ministero dell’Economia e della Finanze ancora da pubblicare in Gazzetta Ufficiale. La prova contraria imposta al soggetto, che voglia sottrarsi alla potestà tributaria italiana, consiste nel dimostrare di avere nel paese straniero, ove ha dichiarato di avere fissata la propria residenza anagrafica, non soltanto la propria dimora abituale, ma anche il proprio domicilio. Questa disposizione, evidentemente, ha chiara finalità antielusiva perché è tesa a rendere priva di efficacia il cambio di residenza apparente del contribuente effettuato allo scopo di conseguire un vantaggio fiscale. Un’altra norma con portata chiaramente antielusiva è l’art. 110, comma 10, del TUIR che colpisce la deducibilità di costi sostenuti nei rapporti con soggetti residenti in paesi a regime fiscale privilegiato. Come abbiamo visto, infatti, i paradisi fiscali rilevano soprattutto dalla prospettiva della delocalizzazione del reddito d’impresa, proprio a ragione del prelievo sui redditi assai modesto, che in tali paesi viene applicato. E’ assai frequente dunque che imprenditori nazionali vi costituiscano società, per il tramite delle quali far transitare il proprio import export o dalle quali ricevere addebiti per intermediazioni in operazioni analoghe, oppure per altri servizi. E’questo un modo per aumentare i costi dell’attività esercitata nel territorio dello Stato, localizzando materia imponibile là dove il prelievo fiscale è più favorevole. Le norme dell’art. 110, comma 10, del TUIR prevengono questo tipo di comportamento, imponendo all’imprenditore italiano, che abbia rapporti con imprese domiciliate in paradisi fiscali e voglia dedursi dal reddito imponibile i costi relativi, l’onere di provare “che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività

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commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione”. Una funzione antielusiva viene esercitata anche dalle disposizioni dell’art. 167, del TUIR, le quali – come abbiamo visto in precedenza41 - imputano al soggetto, che controlli un’impresa con sede in Paesi con regimi fiscali privilegiati, il reddito dell’impresa controllata, salvo dimostri che essa eserciti un’effettiva attività industriale o commerciale e non sia strumentale a localizzare redditi in territori a bassa fiscalità. Anche in questo caso è previsto l’interpello presuntivo, da esperirsi però secondo le norme contenute nello statuto del contribuente. Un’altra norma a carattere antielusivo è l’art. 172 che tende a colpire operazioni di fusione e per rinvii normativi anche di trasformazioni fatte al solo fine di compensare le perdite in scadenza. In sostanza tale fattispecie si ha quando una società con risultati positivi utilizza le perdite pregresse di una società in perdita incorporandola. Tale operazione è tuttavia consentita dal legislatore solo se si riesce a superare il complesso percorso ad ostacoli costruito al fine di evitare la commercializzazioni di bare fiscali, cioè società inattive acquistate allo scopo di procedere all’incorporazione. In particolare l’art. 7 prevede che “le perdite delle società che partecipano alla fusione compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede l'ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall'ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all' articolo 2501-quater del codice civile, senza tener conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa, e sempre che dal conto economico della società le cui perdite sono riportabili, relativo all'esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, risulti un ammontare di ricavi e proventi dell'attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui all' articolo 2425 del codice civile, superiore al 40 per cento di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori” Infine un’altra norma a carattere chiaramente antielusivo è contenuta nell’art. 30 della L. 724/1994 che, come abbiamo già visto, disciplina le società di comodo, ossia le società che conseguono e dichiarano ricavi inferiori ad un determinato importo e per le quali il legislatore fiscale prevede la soggezione ad imposta sulla base di un imponibile minimo presunto. La ratio che soggiace all’introduzione di una simile disciplina è sicuramente antielusiva ed è ravvisabile nell’intento di arginare la nascita di società ed enti aventi finalità di mera intestazione di patrimoni allo scopo di creare uno schermo

41 Cfr., in particolare, Capitolo XI.

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tra beni e reali proprietari, nonché, se del caso, fruire di vantaggi tributari non spettanti alle persone fisiche. Come abbiamo già visto, infatti, per le società che presentano i parametri soggettivi ed oggettivi indicati nella sopracitata disposizione viene presunto un reddito minimo prodotto che viene regolarmente assoggettato a tassazione. 12.2 IL DIVIETO DI ABUSO DEL DIRITTO 12.2.1 Definizione di “abuso del diritto” Fortemente collegato al tema dell’elusione è il concetto (del tutto nuovo) di “divieto di abuso del diritto”, concetto compiutamente enunciato in ambito comunitario dalla sentenza della Corte di Giustizia del 21 febbraio 2006, causa C-255/02 (meglio conosciuta come sentenza “Halifax”) e recepito recentemente nell’ordinamento italiano attraverso la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ne ha ulteriormente definito i contorni. L’abuso del diritto è espressione della c.d. “pravalence of substance over form”, in uso nei Paesi anglosassoni in tema di interpretazione elusiva e prevede che le autorità fiscali possano disconoscere la forma legale di un particolare operazione, focalizzando l’attenzione sull’effettiva sostanza della stessa, la quale viene ritenuta valida solo se ispirata e supportata da reali esigenze di carattere economico. In quest’ottica si usa parlare di “divieto di abuso del diritto” proprio perché si vuole affermare, nell’ottica di contrastare pratiche elusive, il divieto di comportamenti tesi ad “abusare” di una norma, ossia di comportamenti formalmente conformi alla lettera della norma ma sostanzialmente elusivi. L’“abuso” consiste dunque in un utilizzo distorto di uno strumento, tale per cui esso finisce per divenire il veicolo mediante il quale pervenire a risultati diversi, se non addirittura antitetici, rispetto a quelli per il cui il raggiungimento lo strumento stesso è stato concepito e realizzato. L’abuso del diritto nell’ordinamento tributario è quindi un utilizzo, anche combinato, delle norme di diritto positivo che disciplinano il sistema tributario, al fine di ottenere risparmi d’imposta che siano contrari alle logiche ed alle finalità del sistema stesso. Come anticipato, la teoria che fa leva sul divieto di abuso del diritto trova la sua origine in alcune decisioni della Corte di Giustizia europea e principalmente nella citata sentenza Halifax, in cui i giudici della Corte europea, pur riconoscendo la legittimità dei contribuenti di perseguire il risparmio fiscale (nella sentenza infatti viene ribadito che “a un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni la VI Direttiva non impone di scegliere quella che implica un maggior pagamento dell’Iva”), per la prima

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volta hanno sancito il principio per cui i contribuenti “non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente del diritto comunitario” e che “l’applicazione della normativa comunitaria non può, infatti, estendersi fino a farvi rientrare i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario”. Si sottolinea, al riguardo, l’uso non casuale dei termini “fraudolentemente” e “abusivamente” che, al contrario, in alcune delle sentenze della Corte di Cassazione italiana in materia di elusione vengono spesso trascurati. In particolare, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, affinché possa configurarsi un comportamento abusivo è necessario che: a) le operazioni, nonostante l’applicazione formale delle condizioni prevista dalla VI

Direttiva e dalla legislazione nazionale, portino ad un vantaggio fiscale la cui concessione è contraria all’obiettivo perseguito dalle stesse disposizioni;

b) risulti, da un insieme di elementi oggettivi, che le operazioni poste in essere dal contribuente hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Quanto al primo requisito, questo impone che il comportamento posto in essere

dal contribuente permetta di raggiungere un risparmio fiscale contrario agli obiettivi e alle finalità delle disposizioni della VI Direttiva e delle norme nazionali; non è infatti ammesso che il contribuente si avvalga fraudolentemente e abusivamente delle norme ponendo dei comportamenti contrari alle finalità delle stesse. Occorre pertanto verificare che la normativa venga applicata non solo in conformità alla lettera ma anche in conformità alla ratio della stessa.

Per quanto riguarda il secondo requisito, occorre rilevare che la sentenza Halifax ha sicuramente una portata innovativa, giacché nella predetta sentenza viene chiarito che lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale non deve essere necessariamente l’unico scopo che anima il comportamento del contribuente, ma lo scopo essenziale. Ciò permette che l’operazione possa essere sorretta da altre finalità, le quali però ricoprono un ruolo del tutto marginale e irrilevante rispetto all’obiettivo di perseguire un vantaggio fiscale non ammesso dall’ordinamento giuridico.

Dal punto di vista procedurale, la sentenza Halifax rimanda al giudice nazionale il compito di verificare in concreto “la sussistenza degli elementi costitutivi del comportamento abusivo”.Tale principio è stato anche confermato nella sentenza del 21 febbraio 2008, causa C-425/06. 12.2.2 Il divieto di abuso del diritto nell’esperienza italiana L’esperienza giurisprudenziale formatasi in ambito comunitario non ha mancato

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di riverberare i propri effetti anche nell’ordinamento italiano, attraverso le numerose sentenze emesse sul tema dalla Suprema Corte di Cassazione. Nella giurisprudenza italiana il principio del divieto di abuso del diritto è stato affermato per la prima volta in alcune sentenze del 2005 in materia di dividend washing e dividend stripping (o usufrutto azionario). In tali pronunce, la Corte di Cassazione si è posta per la prima volta il problema della natura elusiva delle operazioni in esame e dei possibili strumenti giuridici messi a disposizione dal nostro ordinamento per combatterle. Le soluzioni cui perviene la Corte in queste pronunce devono ritenersi “rivoluzionarie” perché ribaltano completamente l’orientamento fino ad allora seguito dalla stessa Corte sull’argomento. In precedenza, infatti, i giudici di legittimità avevano sempre ritenuto legittime le operazioni di dividend washing e di dividend stripping perché queste, nonostante il loro riconosciuto carattere elusivo, erano formalmente incensurabili prima del 1992 e ciò a causa di una lacuna normativa che caratterizzava all’epoca l’ordinamento italiano. Infatti, le operazioni di dividend washing e di dividend stripping non rientravano nel tassativo elenco previsto dalla normativa antielusiva allora vigente, ossia dall’art. 10 della L. 408/1990, e pertanto non potevano essere tacciate di elusività e disconosciute dall’Amministrazione Finanziaria. In virtù di questa preclusione normativa anche la giurisprudenza di legittimità si era sempre trovata costretta ad escludere la natura elusiva delle operazioni in esame e a considerare le stesse come semplici manifestazioni di un legittimo risparmio di imposta. Con le sentenze in esame, invece, la Suprema Corte – agganciandosi ai principi della giurisprudenza comunitaria – arriva ad affermare per la prima volta l’illiceità di tali operazioni sancendo la regola di ordine generale secondo cui, anche in assenza di strumenti anti – abuso, il giudice deve in ogni caso ritenere nulle le operazioni effettuate al solo scopo di ottenere un risparmio di imposta. Con riferimento specifico alle operazioni di dividend washing, è possibile affermare che queste operazioni consistono in un acquisto di partecipazioni con cedola e rivendita delle stesse al medesimo cedente dopo la distribuzione dei dividendi. Il possibile riflesso elusivo dell’operazione viene per la prima volta messo in risalto dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 20398 dell’ottobre 2005. Brevemente, la controversia cui si riferisce la sentenza in esame riguardava una minusvalenza su compravendita di azioni di Fondi comuni di investimento, minusvalenza che era stata dedotta dalla società acquirente e che – contrariamente ai principi generali in materia di tassazione del reddito di impresa – l’Amministrazione finanziaria aveva invece ritenuto indeducibile e ciò in considerazione della natura elusiva dell’operazione nel suo complesso. Secondo L’Ufficio infatti “la finalità

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dell’intera operazione era quella di realizzare un vantaggio fiscale mediante imputazione: a) al fondo comune di investimento di una plusvalenza di negoziazione di titoli fiscalmente irrilevante, invece di un dividendo soggetto a ritenuta a titolo di imposta; b) alla società di capitali, di una minusvalenza fiscalmente deducibile e di un dividendo, con relativo credito di imposta e ritenuta di acconto scomputabili dall’imposta stessa dovuta.” Per cui l’operazione determinava dei vantaggi fiscali notevoli per entrambe le parti: il Fondo comune di investimento attraverso la cessione delle azioni invece di percepire un dividendo (altrimenti soggetto a ritenuta a titolo di imposta) poteva conseguire una plusvalenza non imponibile; e la società cessionaria poteva incassare il dividendo con il credito di imposta e, vedendo successivamente le azioni, realizzare una minusvalenza fiscalmente deducibile. A parere dell’Amministrazione finanziaria vi erano una serie di elementi che deponevano a favore della natura elusiva dell’operazione in esame quali, ad esempio, l’eccessiva contiguità temporale tra l’acquisto e la successiva rivendita delle azioni, la mancanza di apprezzabili ragioni non fiscali della transazione, oppure la contestualità dell’incarico ad un intermediario per la vendita ed il successivo riacquisto, la quasi esatta coincidenza tra l’importo del dividendo e la differenza tra il prezzo di cessione e di riacquisto del titolo da parte del Fondo. Quando secondo il Fisco l’operazione risultava finalizzata unicamente a conseguire un vantaggio economico definibile come “scambio di reddito a scopo di guadagno fiscale”. In questo modo si era traslato una parte di reddito (dividendi) dal suo titolare (Fondo) ad un terzo (società di capitali) per conseguire un vantaggio fiscale consistente nella più favorevole tassazione riservata agli enti diversi dai Fondi comuni di Investimento. Il corretto regime tributario dell’operazione doveva essere individuato nell’applicazione dell’art. 6, comma 2, del TUIR e dell’art. 37, comma 3 del DPR 600 del 1973. Quindi il dividendo doveva essere considerato utile da partecipazione in capo al Fondo comune di investimento e non plusvalenza da negoziazione in capo alla società di capitali. Nella sentenza in commento la Corte “a sorpresa” accetta la tesi dell’Ufficio sancendo l’inopponibilità al Fisco degli effetti giuridico formali della operazione in discorso. In particolare, la Corte arriva a sancire la nullità della fattispecie in esame per l’assenza di causa e ciò perché l’intera operazione era stata posta in essere solo per ottenere un indebito vantaggio fiscale e quindi in assenza di valide ragioni economiche. In particolare con riferimento ai motivi della decisione , la Corte afferma che la ragione per cui i contratti di acquisto e di rivendita di azioni non possono svolgere effetti nei confronti del Fisco, rendendo quindi applicabile il regime fiscale dei dividendi percepiti

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dai fondi comuni di investimento, deve essere ravvisata in una specie di invalidità più radicale e che rende superflua qualsiasi indagine su ipotesi di simulazione oggettiva ovvero di interposizione fittizia o reale. Né possono prospettarsi ipotesi di frode alla legge, né di non meritevolezza del contratto ex art. 1322 c.c. trattandosi di contratti tipici. Non può neppure parlare di motivo illecito invalidante, ricorrendo tale ipotesi solo quando i motivi integrino il perseguimento di finalità contrarie all’ordine pubblico o al buon costume o di altri scopi espressamente proibiti dalla legge. L’invalidità discenderebbe dal fatto che nell’operazione nessuna delle parti conseguiva un vantaggio economico e tale mancanza di ragione costituirebbe un difetto di causa il quale da luogo ai sensi degli articoli 1418, comma 2 e 1325 n.2 c.c., a nullità dei contratti collegati (tipici) di acquisto e di rivendita di azioni, in quanto dagli stessi non consegue per le parti alcun vantaggio economico, all’infuori del risparmio fiscale. Concludendo la disamina di tale fattispecie, è possibile affermare come questo sia il primo caso in cui viene di fatto affermato l’esistenza di un principio “anti – abuso” immanente nel nostro ordinamento. La natura elusiva del dividend stripping viene invece affermata per la prima volta dalla Corte di Cassazione nelle sentenze n. 20816 e 22932 rispettivamente dell’ottobre e del novembre del 2005. Nella prima delle due pronunce citate, la fattispecie esaminata concerne un’operazione di cessione, a favore di soggetto residente, del diritto di usufrutto relativamente alle azioni di una società residente, posseduta da una società non residente, di diritto lussemburghese. L’operazione di dividend stripping consentiva alla società non residente di non subire alcuna ritenuta sui dividendi e all’usufruttuario residente di beneficiare del credito di imposta su dividendi percepiti e di dedursi il costo dell’usufrutto. Secondo l’Amministrazione finanziaria il contratto di usufrutto era stato posto in essere al solo fine di consentire alla società residente di usufruire del credito di imposta sui dividendi distribuiti dalla società di assicurazioni delle cui azioni trattasi, credito di la società lussemburghese, in quanto estera, non avrebbe potuto usufruire. Per questo l’Ufficio disconosceva il credito di imposta sostenendo che si trattava di un contratto simulato. In sede di giudizio di legittimità il Supremo Collegio, accogliendo il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria, rileva la natura elusiva dell’operazione in esame e sancisce il principio per cui l’Amministrazione Finanziaria, quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, è legittimata a dedurre la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per frode alla legge (art. 1344 c.c.), la relativa prova può essere fornita con qualsiasi mezzo anche attraverso presunzioni.

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Alla medesima conclusione la Corte giunge anche nella successiva sentenza n. 22932 relativa sempre ad una tipica operazione di dividend stripping. La controversia in questo caso, riguardava il disconoscimento da parte dell’ufficio degli effetti fiscali dei contratti di costituzione (o cessione) del diritto di usufrutto su azioni stipulati da una società residente con società non residenti e prive di stabile organizzazione in Italia. Anche con riferimento a tali fattispecie i giudici di legittimità, utilizzando la stessa argomentazione della sentenza precedente, giungono ad affermare l’esistenza, nel sistema tributario italiano, di un principio del divieto di abuso del diritto e sanciscono la nullità dei negozi per difetto di causa. La Cassazione in particolare ha statuito che “col negozio posto in essere dalla società non conseguiva alcun vantaggio economico pari, se non inferiore, a quello che avrebbe conseguito e tale mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali, costituisce, prima ancora che indizio di simulazione oggettiva o di interposizione fittizia, un difetto di causa, il quale da luogo a nullità del contratto tipico di costruzione o traslazione dell’usufrutto perché dallo stesso non consegue alcun vantaggio di carattere economico”. Nel 2006 la Corte di Cassazione ha iniziato ad affermare – facendo riferimento ai principi stabiliti dalla giurisprudenza comunitaria - l’esistenza anche in Italia di un principio generale di divieto dell’abuso del diritto. Con la sentenza n. 10353 del 2006 la Suprema Corte ha affermato la piena operatività del principio comunitario dell’abuso del diritto in materia di IVA, in quanto “imposta armonizzata” soggetta alla disciplina quadro recata dalla normativa comunitaria. La decisione in esame è stata pronunciata lo stesso giorno, 21 febbraio 2006, della sentenza Halifax (causa C-255/02). I giudici della Corte di Cassazione, recependo e superando quanto dai colleghi comunitari affermato, si sono pronunciati su una fattispecie in tema di IVA, ritenuta (dai giudici stessi) elusiva. La fattispecie riguardava una società che aveva acquistato, ristrutturato e poi rivenduto un’immobile a uno dei soci, in quanto intenzionata solamente a portare in detrazione l’IVA assolta sulla ristrutturazione dello stesso, per esser poi posta in liquidazione. L’Ufficio aveva ritenuto l’operazione elusiva in quanto compiuta al solo fine di poter detrarre l’IVA assolta per la ristrutturazione dell’immobile (infatti la società commerciale non aveva realizzato, secondo l’Ufficio, alcuno scopo sociale). Nella citata pronuncia la Corte ha affermato che <<pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola antielusiva generale, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di

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procurarsi un risparmio fiscale>>. Quindi, è necessario sottolineare che non esistendo per il comparto delle imposte armonizzate e in particolare per l’IVA, in Italia, una espressa statuizione che prevedesse una norma antielusiva di carattere “generale”, cioè applicabile a diverse fattispecie (come invece accade per le imposte dirette) la giurisprudenza nazionale ha iniziato a colmare tale carenza normativa ricorrendo al concetto di “abuso del diritto”, per rendere possibile una valutazione dell’elusività anche in questo ambito (quello delle imposte armonizzate) non disciplinato internamente. La diretta applicabilità del principio di divieto di abuso del diritto alle imposte armonizzate è stata successivamente ribadita dalla Corte di cassazione in altre pronunce. Nel 2007 anche l’Agenzia delle Entrate arriva a sposare l’interpretazione della Cassazione e a confermare la diretta operatività del principio comunitario ai fini IVA (Circolare 67/E del 2007). Se per la Cassazione è stato abbastanza agevole applicare il principio del divieto di abuso del diritto per le imposte armonizzate (ossia di derivazione comunitaria quale l’IVA) il percorso non è stato altrettanto agevole per quanto concerne le imposte dirette. Un primo tentativo volto ad affermare l’operatività di tale principio per le imposte dirette è stato fatto dalla Cassazione nella sentenza 21221/2006 che ha sancito l’ingresso del principio anti-abuso nel nostro ordinamento come canone interpretativo generale, come tale applicabile in tutti i settori dell’ordinamento tributario italiano e, quindi, anche dell’imposizione diretta. In particolare, nella citata sentenza i giudici arrivano ad affermare che “essendo aperto il dibattito sull’esistenza di meccanismi elusivi o/e fraudolenti circa il diritto alla deduzione, il principio dell’abuso del diritto quale canone interpretativo regolatore dell’ordinamento deve trovare piena applicazione”. Affermando che il principio dell’abuso del diritto è un canone interpretativo regolatore dell’ordinamento, i giudici hanno inteso introdurre un tipo di valutazione interpretativa che da un lato consentisse all’interprete di non fermarsi al dato formale, valutando invece il contenuto sostanziale dell’operazione, e dall’altro permettesse di prendere in considerazione la ratio e le finalità dell’operazione. L’interpretazione adottata dalla Corte di Cassazione nel 2006 fu duramente criticata dalla dottrina dell’epoca la quale non mancò di sottolineare come un principio di derivazione comunitaria non potesse trovare applicazione per le imposte dirette che hanno matrice esclusivamente interna. Per tale ragione la dottrina ha ritenuto l’abuso del diritto un principio che può vincolare i giudici nazionali solo per quanto concerne l’interpretazione ed applicazione delle

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norme in materia IVA, ma non quelle norme sulle imposte sui redditi. Nonostante le critiche mosse dalla dottrina la Cassazione anche nel 2008 è tornata a qualificare il divieto di abuso del diritto quale “clausola generale” del nostro Ordinamento come tale applicabile in tutti i settori impositivi (cfr. sentenza 25374/2008). Verso la fine del 2008 la Corte di Cassazione muta la propria giurisprudenza arrivando ad affermare che il divieto di abuso del diritto costituisce un principio applicabile nel nostro ordinamento non perché principio di derivazione comunitaria ma perché insito nei principi sanciti dalla Costituzione in materia tributaria. In particolare, con tre distinte sentenze (nn. 30055, 30056, 30057 del 2008) la Corte ha:

a) ritenuto che nell’ordinamento tributario nazionale sussista da sempre un principio antiabuso, confermando l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria dei vantaggi tributari illeciti conseguiti dal contribuente;

b) rilevato che la fonte del principio antiabuso per i tributi non armonizzati (le imposte dirette) va rinvenuta, non nella giurisprudenza comunitaria ma nei principi costituzionali (come vedremo a breve) ed, in particolare, in quelli di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (rispettivamente comma 1 e 2 dell’art. 53 della Costituzione). Principio, quello antiabuso, che non è contrastante con l’art. 23 della Costituzione, e con le successive norme antielusive sopravvenute che, in realtà, sempre secondo i giudici, appaiono mero sintomo dell’esistenza di una regola generale;

c) ribadito, sotto il profilo procedurale, che nessun dubbio può sussistere riguardo alla concreta rilevabilità d’ufficio delle eventuali cause di invalidità o di inopponibilità del contratto stesso;

d) definito l’“abuso del diritto” come <<utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale>>.

Con le citate sentenze la Corte arriva quindi ad individuare nei principi costituzionali interni il fondamento sui cui fondare l’operatività interna del principio dell’abuso del diritto.

In particolare i principi costituzionali richiamati dalla Corte sono quello di (i) capacità contributiva e (ii) quello della progressività dell’imposizione.

Ad avviso della Suprema Corte, in particolare, il principio di capacità contributiva tutelerebbe l’esigenza pubblica di evitare che il contribuente tragga vantaggi fiscali indebiti dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con nessuna disposizione di legge,

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di strumenti giuridici idonei ad ottenere un vantaggio fiscale, senza che tale scelta sia basata su “ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione”.

Secondo i giudici, legando l’imposizione fiscale alla capacità economica del contribuente, l’art. 53 della Costituzione non può che esprimere la volontà di colpire una effettiva e vera “forza economica” non potendo questa essere mascherata da schemi formali che nascondono tale realtà economica.

Individuando nell’art. 53 della Cost. il fondamento normativo del principio di divieto dell’abuso del diritto i giudici di fatto estendono l’ambito soggettivo di applicazione di tale principio, prima destinato ad operare soltanto nei confronti degli imprenditori e lavoratori autonomi ed ora destinato ad riguardare “tutti” (si ricorda infatti che ai sensi dell’art. 53 della Costituzione ”tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.

Le sentenze del 2008 danno una risposta anche ad ulteriori critiche che in passato erano state sollevate in dottrina con riferimento alla diretta applicabilità del principio di divieto di abuso del diritto alle imposte dirette. Secondo la dottrina, infatti, la diretta applicabilità di tale principio in assenza di una norma specifica di legge rischiava di porsi in contrasto con un altro principio costituzionalmente garantito, ossia con il principio della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione in base al quale “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.

A tale proposito nelle sentenze del 2008 la Corte risolve il problema della possibile violazione del principio di riserva di legge affermando che “il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nell’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali”.

In altri termini, sempre secondo i giudici, tale principio antiabuso non si pone in contrasto con l’art. 23 della Costituzione giacché non individua nuove fattispecie da tassare, ma vale come chiave interpretativa della norma impositiva e, pertanto, non ha bisogno necessariamente di uno specifico intervento normativo.

Il richiamo al principio di capacità contributiva quale fondamento del divieto dell’abuso del diritto è stata successivamente operato dalla Cassazione anche nella sentenza n. 8487 del 2009 in cui viene ribadito che: “ principio costituzionale della capacità contributiva (art. 53 della Costituzione), canone informatore dell’ordinamento tributario, costituisce causa ostativa al conseguimento di risparmi di imposta o vantaggi fiscali attraverso l’esercizio dell’autonomia privata laddove non siano riconoscibili obiettive ragioni economiche a giustificazione del ricorso agli strumenti negoziali utilizzati dal contribuente nell’ambito della libera iniziativa

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economica”.

Una volta ammessa la presenza nell’ordinamento di una clausola generale

antiabuso di matrice giurisprudenziale si è posto il problema di individuare la relazione che si doveva instaurare tra tale principio e le specifiche disposizioni antielusive predisposte negli anni dal legislatore per arginare il fenomeno dell’elusione.

A tale proposito, le Sezioni Unite hanno affermato che le disposizioni antielusive specifiche non sono che “sintomi” o indizi della presenza di tale principio, per cui quest’ultime sarebbero non “innovative”, ma “confermative” di un comportamento la cui “abusività” sarebbe già immanente nell’ordinamento.

Tali conclusioni, a ben vedere, non sono pienamente condivisibili sia perché in contrasto con la volontà del legislatore che nella maggior parte dei casi non è quella di interpretare norme preesistenti, ma quella di modificare le regole per il futuro, ma soprattutto perché in contrasto con molti dei principi ispiratori dello Statuto dei diritti del contribuente ai sensi del quale le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo (art. 3), sia che l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta solo in casi eccezionali (art. 1).

Tutte tali problematiche hanno spinto a promuovere una proposta di modifica normativa dell’art. 37-bis DPR 600/1973. Tale proposta si spiega con l’esigenza di dare certezza gli operatori economici ed alla stessa amministrazione finanziaria in relazione al citato orientamento della Cassazione per cui sarebbero inopponibili all’Erario tutte quelle operazioni che configurano fattispecie di abuso del diritto.

Tale intervento normativo si ripropone di: a) specificare l’ambito applicativo del principio anti-abuso; b) individuare le garanzie procedimentali da rispettare nel caso in cui venga emesso

un atto di accertamento che contesti una fattispecie di abuso del diritto. I principi della proposta di modifica dell’art. 37-bis del DPR 600/1973 sono così riassumibili:

a) codificazione del divieto di abuso del diritto e sostanziale equiparazione con l’elusione: le modifiche che si intendono apportare all’art. 37-bis comporteranno una sostanziale assimilabilità tra elusione ed abuso del diritto. I comportamenti elusivi/abusivi saranno censurabili indipendentemente dal comparto impositivo di riferimento (viene meno quindi il comma 3 che delimita il campo di applicazione dell’art 37-bis alle sole imposte dirette e con riferimento a talune operazioni indicate);

b) distinzione tra abuso del diritto e legittimo risparmio d’imposta: viene ribadita la necessità di distinguere tra abuso del diritto e legittimo risparmio d’imposta

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chiarendo che la finalità della norma è quella solo di colpire fattispecie negoziali artificiose. Ma è assai difficile verificare quando un risparmio d’imposta è lecito o meno. Si può sostenere che il risparmio va considerato lecito quando la normativa applicata dal contribuente si colloca, nel sistema, su un piano di pari dignità rispetto ad altre normative che conducono a risultati equivalenti;

c) non applicazione delle sanzioni: si è voluto chiarire che, nel caso in cui venga rilevato una fattispecie elusiva/abusiva, non sarà possibile applicare le sanzioni (amministrative e/o penali). Tale soluzione si uniforma al recente orientamento della Cassazione (cfr. Cass. 8487 dell’ 8.4.2009 e 12042 del 25.5.2009);

d) garanzie procedimentali del contribuente: l’introduzione di un principio non codificato quale il divieto di porre in essere fattispecie riconducibili al c.d. abuso del diritto ha fatto emergere la necessità di equiparare, almeno relativamente alle garanzie da fornire al contribuente, gli accertamenti emessi ex art. 37-bis e gli accertamenti che invece traggono origine dall’anzidetto divieto;

e) divieto di rilevare d’ufficio l’abuso del diritto – è stato escluso che il divieto di abuso del diritto possa essere rilevato dal giudice ex officio (cfr., sul punto, considerazioni fatte in precedenza).

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CAPITOLO XIII. 13.1 L’INTERPELLO ALLA AMMINISTRAZIONE FISCALE 13.1.1 Cenni ai criteri di interpretazione della norma tributaria Ai fini della pianificazione fiscale, oltre all’esame della normativa positiva e della sua applicazione alla realtà economica in cui opera l’impresa, occorre tenere conto dei rapporti e dell’azione di un terzo soggetto, che di per sé, non agisce quale attore della realtà economica del mercato di riferimento, non è né un cliente né un fornitore, nemmeno potenziale, ma ciononostante interviene ed in maniera anche invasiva e determinante nella situazione economica (attraverso le conseguenze della fiscalità) dell’impresa: l’Amministrazione finanziaria. D’ora in poi verranno quindi analizzati i rapporti, spesso e volentieri anche conflittuali e di contrapposizione, fra contribuente ed Amministrazione finanziaria, a partire dal “dialogo” sull’interpretazione della legge fiscale (che verrà esaminata nel presente capitolo), passando per la fase malaugurata ma inevitabile dei controlli e verifiche fiscali da parte degli organi appositamente preposti (cfr. capitolo successivo), per finire a quella “patologica” del contenzioso tributario in cui ovviamente la contrapposizione è più netta e spesso insanabile. Anche in tutti questi casi, dunque, persino per l’ultima fase, si può parlare di “pianificazione fiscale”, in quanto occorre operare delle scelte concrete in merito allo strumento da scegliere (es. interpello generale o disapplicativo o, semplicemente, interpello si o no) ed anche alla posizione in sede contenziosa (ricorso o no, adesione, richiesta delle spese, conciliazione giudiziale, ecc.). Fatta questa premessa, occorre ora affrontare il tema dell’interpretazione delle legge tributaria. In linea generale, interpretare una legge significa ricercarne e spiegarne il senso, la finalità e la portata. Per poter trovare applicazione al caso concreto la norma tributaria, al pari di qualsiasi altra norma giuridica, ha bisogno di essere interpretata così che il contribuente sia in grado di conoscere perfettamente l’ambito applicativo del precetto normativo. La norma tributaria, in quanto diretta anche alla definizione di fatti economici ai fini della realizzazione del prelievo tributario, ha sempre ricoperto una posizione del tutto particolare rispetto alle altre norme; ciò ha comportato che alcuni studiosi ritenessero di dover adottare specifiche regole di interpretazione, così da poter valorizzare l’aspetto puramente economico che si cela dietro la norma tributaria.

Negli anni sono state elaborate particolari teorie interpretative con riguardo alla

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materia tributaria. In primo luogo ci riferiamo alla tesi per cui, in caso di incertezza circa il significato della norma, questa avrebbe dovuto essere intesa privilegiando l’interpretazione più favorevole all’erario (“in dubio pro fisco”); in questo caso si tendeva a tutelare, facendolo così prevalere, l’interesse finanziario dell’ente pubblico impositore. All’opposto, troviamo, invece, la teoria per la quale, sempre in caso di incertezza sul significato della norma, questa va intesa privilegiando la posizione del contribuente (“in dubio contra fiscum”). Tale tesi muove da una sorta di implicita assimilazione delle norme tributarie a quelle penali, in quanto restrittive della sfera di libertà (seppur solo quella patrimoniale) del cittadino.

In realtà, tali profili sono stati eccessivamente sopravvalutati, dal momento che in ambito tributario, le norme dirette alla definizione di fatti economici costituiscono un’esigua minoranza, attenendo invece la normativa tributaria alla regolazione di fatti già giuridicamente qualificati in altri campi del diritto.

Ed invero, nessuno, ormai, dubita più che, in via di principio l’interpretazione delle norme tributarie debba soggiacere alle stesse regole e agli stessi principi operanti con riferimento a tutti gli altri settori dell’ordinamento ed, in particolare, in ossequio al principio generale contenuto nell’art. 12 delle cosiddette “Disposizioni Preliminari Al Codice Civile” , ai sensi del quale “nell’applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse ( c.d. criterio letterale) e dalla intenzione del legislatore” (c.d. criterio logico-funzionale).

In linea generale si suole tradizionalmente distinguere l’interpretazione in autentica, dottrinale e giurisprudenziale, secondo che essa sia opera della legge, degli studiosi o del legislatore. In particolare l’interpretazione è autentica quando proviene dallo stesso soggetto che ha formulato la norma, cioè dal Legislatore, che, con apposita norma, indica l’interpretazione da seguire in presenza di conflitti interpretativi attuali o potenziali; si tratta di un’interpretazione vincolante, perché ha la stessa efficacia della norma, che per di più opera retroattivamente. L’interpretazione giurisprudenziale viene invece resa attraverso le pronunce degli organi giurisdizionali. Tali interpretazioni non hanno mai valore vincolante, bensì unicamente un valore di “precedente”, crescente con il numero di sentenze che adottano una certa linea, e con l’autorevolezza dell’organo giudicante. L’interpretazione dottrinale, infine, attiene alle tesi più o meno sostenute dagli studiosi del diritto. Nel diritto tributario, accanto a questi tre tipi di interpretazione vi è anche l’interpretazione ministeriale che viene resa dall’Amministrazione finanziaria attraverso l’emanazione di note, circolari, risoluzioni. In linea generale tale interpretazione può ritenersi vincolante solo per i pubblici funzionari a cui viene specificamente rivolto

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l’atto, ma non per gli altri destinatari della norma giuridica in tal modo interpretata (contribuenti, organi giurisdizionali). 13.1.2 L'interpretazione amministrativa. La consulenza giuridica in generale

L'Amministrazione finanziaria ricopre un ruolo fondamentale nell'attività di interpretazione del diritto tributario; tale attività viene tradizionalmente esercitata mediante Note, Risoluzioni e Circolari.

Le Risoluzioni e le Note, costituendo risposte indirizzate ai singoli contribuenti su casi concreti, hanno un'efficacia limitata al singolo caso e rispetto al singolo contribuente ma possono comunque costituire un elemento di interpretazione perché rappresentano pur sempre un precedente; le Circolari sono, invece, indirizzate a tutti gli uffici dell'amministrazione, e, talvolta, anche a tutti i contribuenti, ed hanno quindi un'efficacia generalizzata, seppur con un ambito più o meno limitato a seconda che siano emanate da uffici centrali o periferici dell'Amministrazione finanziaria. In un diritto così incerto come quello tributario, la pubblicizzazione dell'interpretazione dell' Amministrazione finanziaria, da un lato, permette l'uniforme applicazione della legge e dei regolamenti, e dall'altro un migliore funzionamento del sistema tributario perché agevola la collaborazione dei contribuenti all'applicazione dei tributi.

Le circolari rappresentano lo strumento di maggiore utilizzo, da parte dell' Amministrazione finanziaria, nell' esercizio dell' attività interpretativa perché informali, di semplice emanazione ed estremamente duttili; esse costituiscono uno strumento di diffusione e di propagazione di disposizioni (ed interpretazioni):

a) provenienti da un organo della pubblica amministrazione ed indirizzate ad una serie di altri organi al primo sottoposti in virtù di un rapporto di gerarchia;

b) emesse da un'autorità titolare di un poter di controllo, di indirizzo, di direttiva o di coordinamento nei confronti degli enti o degli uffici sottoposti a tale potere;

c) poste in essere da un determinato organo in attuazione di un potere di autoregolamentazione a lui riconosciuto.

Al di fuori dell'ordinamento settoriale dell' Amministrazione finanziaria le circolari interpretative non hanno rilevanza cogente e come tali non hanno il potere di vincolare il giudice, né possono far sorgere diritti e obblighi in capo ai contribuenti (all'interpretazione ministeriale, anzi, ora, precipuamente delle Agenzie, devono attenersi gli uffici finanziari, sottoposti per subordinazione gerarchica all'interpretazione dei superiori); tuttavia, esse hanno grande valore come strumenti diretti alla ricerca e alla ricostruzione della mens legis, esattamente, ed ancor più, come accade per le opinioni dottrinali o per i precedenti giurisprudenziali.

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L'irrilevanza esterna delle circolari interpretative trova una contraddizione nell'efficacia esimente dell'affidamento nelle stesse che comporta addirittura la non applicazione delle sanzioni; infatti l'uniformarsi ad interpretazioni dell' Amministrazione finanziaria (fondate o meno che siano), esclude, comunque, l'applicazione di sanzioni amministrative e penali a carico del contribuente.

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una riorganizzazione dell’Amministrazione

finanziaria e, in tale contesto, ha assunto particolare importanza l'attività di supporto al contribuente nella corretta applicazione delle norme tributarie, attraverso idonei strumenti di informazione, assistenza e consulenza giuridica.

La Circolare del Ministero delle Finanze - Dip. Entr. - Dir. Centr, Affari giuridici e contenzioso tributario del 18/05/2000 n. 99 ha definito la "consulenza giuridica" come l'attività interpretativa finalizzata all' individuazione del corretto trattamento fiscale di una fattispecie: si sostanzia, dunque, nella formazione di un patrimonio interpretativo, piuttosto che nella divulgazione o applicazione dello stesso.

La consulenza giuridica si può distinguere in: a) attività interpretativa di carattere generale, che si estrinseca principalmente

attraverso circolari predisposte dalle strutture centrali del Dipartimento e rivolte alla generalità dei contribuenti, degli operatori e degli uffici;

b) pareri relativi a specifiche fattispecie applicative sollecitati da soggetti interessati a conoscere l'orientamento dell' amministrazione (interpello). La circolare sopra citata infatti riconosce (implicitamente ma in modo inequivocabile) il diritto del contribuente di rivolgersi all'Amministrazione finanziaria, per dirimere qualsiasi dubbio in merito all'applicazione di una norma tributaria (senza, dunque, alcun tipo di limitazione).

In questo caso si usa parlare di interpello informale proprio perché può essere presentato senza il rispetto di particolari forme, contrapponendosi, così, agli altri interpelli, che sono tutti rigorosamente vincolati all'osservanza di rigorose procedure. In tale ambito, tuttavia, l'Agenzia ha manifestato l'esigenza, che nella formulazione dei quesiti, i contribuenti espongano la questione in maniera succinta ma esauriente, e con specifico riferimento a fattispecie concrete e personali

Il servizio di consulenza "informale" offerto al contribuente, si articola su vari livelli: a) Uffici dell’Agenzia delle Entrate: i quale provvederanno al riscontro diretto solo

per i quesiti la cui soluzione si presenti agevole; b) Direzioni Regionali che devono rispondere ai quesiti:

- pervenuti indirettamente, per il tramite degli uffici delle Entrate, a seguito dell' esito infruttuoso della procedura precedentemente descritta;

- inoltrati direttamente dalle amministrazioni pubbliche e dagli enti pubblici o

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privati che esprimono interessi di rilevanza diffusa nell'ambito della regione di competenza;

- presentati direttamente dalle imprese di maggiori dimensioni (da individuarsi, attualmente, in quelle con ricavi superiori ad euro 25.823.780 annui (50 miliardi di lire);

c) Direzione Centrale Normativa e contenzioso: a livello centrale, la consulenza giuridica è fornita in relazione ai quesiti inoltrati dalle Direzioni Regionali pervenuti direttamente da: amministrazioni pubbliche centrali; associazioni sindacali e di categoria; ordini professionali o da enti pubblici o privati che esprimono interessi di rilevanza generale.

Riguardo i tempi di risposta, la circolare n. 99/2000, ritiene fondamentale che le strutture interpellate si impegnino a rispondere entro un termine normalmente non superiore a novanta giorni che cominciano a decorrere dalla data di ricezione della richiesta. 13.1.3 L'interpello ordinario

L'interpello ordinario è disciplinato dall'art. 11 della L. 212/2000 ("Statuto dei diritti del contribuente") ai sensi del quale "ciascun contribuente può inoltrare per iscritto all'amministrazione finanziaria, che risponde entro cento venti giorni, circostanziate e specifiche istanze di interpello concernenti l'applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse".

Da quanto sopra si evince che il diritto di interpellare l'Amministrazione finanziaria è riconosciuto a ciascun contribuente, attuale o potenziale. Sono legittimati a presentare istanza di interpello anche i non residenti e i privati non imprenditori che stiano intraprendendo un'azione dalla quale potrebbe sorgere un'obbligazione tributaria.

L'istanza può essere presentata, oltre che per le imposte del soggetto istante, anche quando egli è tenuto a porre in essere adempimenti tributari per conto del contribuente (sostituti d'imposta, responsabili d'imposta, successore negli adempimenti d'imposta).

L'istanza può essere presentata oltre che dal contribuente in proprio o per conto di terzi nei tre casi suindicati, anche da procuratori generali o speciali del contribuente.

L'istanza quindi può essere firmata e presentata dal professionista del contribuente, munito di procura speciale ai sensi dell'art. 63, DPR 600/73; pertanto, se il professionista è un avvocato, un dottore commercialista o un ragioniere o perito commerciale, la procura potrà essere conferita con semplice mandato scritto posto in calce all'istanza con autenticazione della firma del contribuente da parte dello stesso professionista.

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Sono invece esclusi dall'istituto in rassegna i soggetti portatori di interessi collettivi, quali le associazioni sindacali e di categoria e gli ordini professionali, fatta eccezione ovviamente per le istanze che affrontano questioni riferite alla loro posizione fiscale e non a quella degli associati, iscritti o rappresentati.

A seconda del quesito oggetto di interpello, l'istanza dovrà essere presentata: a) all’Agenzia delle Entrate: rientrano nella sua competenza le istanze concernenti

i tributi gestiti dalla medesima (le imposte sui redditi; IV A; l'imposta di registro; l'imposta sulle successioni e donazioni; l'imposta di bollo ecc);

b) all'Agenzia del Territorio: che, come ricordato nella Circolare 7/T del 2001, è competente per le istanze di interpello concernenti l'imposta ipotecaria, tasse ipotecarie e tributi speciali catastali.

Per quanto, poi, riguarda l'Agenzia delle Dogane, la Circolare 19 giugno 2001 n. 25/D ricorda che il codice doganale comunitario (Reg. CEE n. 2913/92) ed il relativo regolamento di attuazione (Reg. CEE n. 2454/93) già disciplinano, per quanto concerne le risorse proprie e tutti gli istituti previsti da tali fonti, la possibilità di richiedere all'autorità doganale decisioni, informazioni, informazioni tariffarie vincolanti e informazioni vincolanti in materia di origine. Le Regioni, invece, devono rispondere principalmente ai quesiti in materia di bollo auto, tributo speciale per il conferimento dei rifiuti nelle discariche. Ad oggi si ritiene che le questioni in materia di IRAP siano di competenza dell' Agenzia dell'Entrate.

I Comuni e le Province sono legittimate a rispondere su quesiti in materia di tributi locali (ICI, tributo provinciale per l'esercizio delle funzioni di tutela, protezione e igiene dell'ambiente, tassa per l'occupazione delle aree pubbliche delle province).

I presupposti dell' interpello sono individuati all'art. 1, commi 1 e 2, del Decreto

ministeri al e 26 aprile 2001 n. 209 da cui si desume quanto segue: a) attinenza al contribuente della prospettata problematica: circa tale aspetto, occorre sottolineare come l'istanza debba essere presentata dal contribuente, sostituto d'imposta o responsabile d'imposta direttamente e personalmente interessato a conoscere la regolamentazione fiscale di una particolare fattispecie concreta, e non da terzi. L'istanza deve, dunque, essere relativa a casi concreti e personali: la personalità richiede la presentazione dell' istanza direttamente a nome del contribuente e con sottoscrizione dell'interessato; la concretezza del quesito, invece, sottende la descrizione compiuta della questione, con allegazione della documentazione necessaria o utile alla migliore esposizione del problema. Tale condizione, come chiarito nella Circolare 31 maggio 200l n. 50/E, esige che l'interpello sia finalizzato a conoscere il trattamento tributario di determinati atti, operazioni o iniziative riconducibili direttamente alla sfera di interessi del soggetto istante. Perciò, eventuali esigenze,

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proprie, ad esempio, di associazioni di categoria o di enti rappresentativi di interessi diffusi che intendano conoscere l'interpretazione di norme applicabili da parte dei propri associati o rappresentati, potranno essere soddisfatte nell'ambito della più generale attività di consulenza giuridica generica; b) carattere preventivo dell'interpello: l'istanza deve essere presentata prima di porre in essere il comportamento giuridicamente rilevante o di dare attuazione alla norma oggetto di interpello. L'interpello, infatti, è stato fondamentalmente concepito in funzione dell' interesse dei contribuenti a conoscere l'indirizzo interpretativo dell' Amministrazione finanziaria, allo scopo evidente di porsi al riparo o, comunque, conoscere preventivamente gli esiti dell'attività di controllo; è per questo motivo, che il comma 2 dell'articolo l del Decreto ministeriale 26 aprile 2001 n. 209 richiede che l'istanza possa essere presentata soltanto prima di porre in essere il comportamento rilevante ai fini tributari. La non sussistenza del detto presupposto, invero, non preclude in via di principio la possibilità di acquisire comunque il parere dell' Agenzia, ma impedisce che la richiesta presentata possa essere trattata come "interpello del contribuente" sul piano degli effetti; cioè, come vedremo, la risposta fornita non "consacrerà" automaticamente la soluzione proposta dal contribuente, non si potrà formare il silenzio-assenso, ecc.. Il presupposto della "preventività", peraltro, va correttamente inteso, nel senso che essa deve essere riferita a comportamenti fiscali "primari". Al riguardo La prassi ministeriale ha (opportunamente) chiarito che la preventività dell'interpello va riferita non già al comportamento sostanziale o all'operazione contrattuale posta in essere dal contribuente, bensì all'adempimento tributario connesso al comportamento o all'operazione contrattuale medesima5. Ad esempio, come ricorda la Circolare 31 maggio 200 l n. 50/E, l'interpello può essere prodotto prima di presentare la dichiarazione dei redditi, prima di assolvere l'imposta di registro connessa con la registrazione dell'atto, prima di emettere la fattura IV A ecc ..

La "preventività", invece, non può essere riferita a comportamenti fiscali "secondari". Ad esempio, se il contribuente intende presentare un'istanza di rimborso (a seguito di autotassazione non dovuta, per imposta di registro indebitamente pagata ecc.), egli non può presentare interpello per conoscere in anticipo se la domanda di restituzione sia fondata o meno; ed infatti, il comportamento fiscale primario (versamento presunto indebito), è già avvenuto, e l'eventuale richiesta di restituzione è solo un atto ulteriore e successivo; c) incertezza interpretativa: l'interpello è ammissibile solo laddove sussistano obiettive condizioni di incertezza sulla interpretazione della norma indicata. Non sussistono le condizioni d'incertezza qualora sia stata fornita dall' Amministrazione finanziaria la soluzione interpretativa a casi analoghi a quello prospettato dal contribuente, mediante circolare, risoluzione, istruzione o nota, portata a conoscenza del contribuente

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attraverso la pubblicazione nella banca dati "Documentazione Tributaria" consultabile attraverso i siti internet dell'amministrazione finanziaria. Secondo l'orientamento dell'Agenzia le condizioni di obiettiva incertezza ricorrono, secondo l'Agenzia: "in presenza di previsioni normative equivoche, tali da ammettere interpretazioni diverse e da non consentire in un determinato momento, l'individuazione certa di un significato della norma". Si possono individuare, anche se non in maniera esaustiva, una pluralità di cause sintomatiche dell' obiettiva incertezza: oscurità, ambiguità, contraddittorietà, equivocità della norma; novità legislativa che determini nel periodo di prima applicazione, serie perplessità interpretative; incertezza sull' ambito temporale di applicazione della norma; mancanza di pronunce giurisprudenziali ovvero contrastanti orientamenti giurisprudenziali; interpretazioni contraddittorie dell' Amministrazione finanziaria, ecc ..

Dal punto di vista formale l'istanza deve contenere: a) l'indicazione dei dati dell'istante; b) l'eventuale indicazione del domicilio eletto dall' interessato o dell' eventuale

domiciliatario presso il quale devono essere effettuate le comunicazioni dell' Amministrazione finanziaria;

c) la problematica sottoposta all'Amministrazione finanziaria: consiste nella circostanziata e specifica descrizione del caso concreto e personale da trattare ai fini tributari sul quale sussistono concrete condizioni di incertezza;

d) la soluzione e l'eventuale comportamento proposto: l'istanza deve contenere infatti "l'esposizione, in modo chiaro ed univoco, del comportamento e della soluzione interpretativa sul piano giuridico che si intendono adottare"; tale elemento, pur non essendo prescritto a pena di inammissibilità dell'istanza, ne condiziona tuttavia gli effetti, in quanto l'indicazione puntuale della soluzione valida dal punto di vista del contribuente si pone come logica premessa alla conclusione tratta dal legislatore secondo cui, decorsi centoventi giorni dalla proposizione dell'istanza, "si intende che l'amministrazione concordi con l'interpretazione o il comportamento prospettato dal richiedente ";

e) la sottoscrizione del contribuente o del suo legale rappresentante. Dal punto di vista procedurale l'istanza è redatta in carta libera, senza alcun obbligo di pagamento dell'imposta di bollo, e deve essere presentata mediante: a) consegna manuale o b) spedizione a mezzo del servizio postale.

In via di principio, l'istanza va consegnata o spedita alla Direzione regionale dell'Agenzia delle entrate, competente in relazione al domicilio fiscale del contribuente (mai all'Ufficio); al riguardo si rammenti che, in seno ad ogni Direzione Regionale, gli uffici destinati a rispondere alle istanze di interpello sono due:

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a) fiscalità delle imprese e finanziaria, per le problematiche specificamente relative ai redditi di impresa commerciale;

b) fìscalità generale, per le problematiche relative a tutti gli altri aspetti tributari in ambito erariale (non locale). In casi particolari, l'istanza va presentata o spedita alla Direzione centrale

normativa e contenzioso dell' Agenzia delle entrate, e, cioè, quando l'istanza è presentata da: Amministrazioni centrali dello Stato, Enti pubblici a rilevanza nazionale, Contribuenti che hanno conseguito nel precedente periodo d'imposta ricavi per un ammontare superiore a 500 miliardi di lire. Comunque, la Direzione Regionale, può inoltrare l'istanza alla Direzione Centrale Normativa e Contenzioso, nei casi di maggiore complessità o incertezza della soluzione ovvero qualora l'interpello concerna norme di recente approvazione sulle quali la competente Direzione Centrale non si sia ancora pronunciata

Secondo quanto espressamente previsto dallo stesso art. 11 della L. 212/2000 l'Agenzia interpellata è tenuta a rispondere entro 120 giorni con un atto motivato. Il termine di 120 giorni inizia a decorrere: a) dal giorno di presentazione o spedizione dell'istanza; b) in caso di richiesta di ulteriore documenti, dal giorno in cui l'Ufficio riceve la

documentazione. La risposta deve pervenire all'istante vie posta o mediante mezzi informatici (in

genere via fax). Durante il periodo dei 120 giorni il contribuente deve compiere tutti gli

adempimenti in scadenza, ancorché sussista l'obiettiva condizione di incertezza, in quanto la presentazione dell'istanza di interpello non ha effetto sulle scadenze previste dalle norme tributarie, né sulla decorrenza dei termini di scadenza, e non comporta interruzione o sospensione dei termini di pagamento.

Nel caso in cui l'Amministrazione non risponda entro il termine dei 120 giorni, opera il meccanismo del silenzio-assenso e quindi si ritiene accolta la soluzione interpretativa proposta dal contribuente.

Riguardo la portata giuridica dalla risposta resa dall'Amministrazione finanziaria all'istanza di interpello, in via generale, è stato ribadito il principio dell'efficacia della pronuncia ministeriale esclusivamente nei confronti del contribuente istante, limitatamente al caso concreto e personale prospettato nella relativa istanza.

Qualora l'istanza di interpello venga formulata da un numero elevato di contribuenti e concerna la stessa questione o questioni analoghe tra loro, l'Amministrazione finanziaria può fornire risposta collettiva mediante circolare o risoluzione; in tal caso, ovviamente, la risposta ha valore per tutti. La risposta tempestivamente fornita dalla competente Direzione, peraltro, non impegna il

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contribuente, il quale è comunque libero di regolarsi come meglio crede, anche se in senso difforme; tuttavia è molto importante tenere ben presente che i soggetti che producono le istanze di interpello vengono, per così dire "monitorati", in quanto copia delle risposte (positive o negative che esse siano) viene inviata all'ufficio competente per l'eventuale accertamento. Per cui, chi intendesse discostarsi dal parere emesso dall'amministrazione, è libero di farlo; deve però assumersi il rischio di un eventuale avviso di rettifica, con conseguente contenzioso.

La risposta fornita dall' Amministrazione finanziaria, è per la stessa vincolante. Tale vincolatività, unitamente alla previsione contenuta nell'art. Il, comma 5, della citata legge n. 212/2000, per la quale l'Amministrazione finanziaria, una volta interpellata dal contribuente è obbligata a rispondere, sembrano configurare sul piano della ricostruzione dogmatica, l'attribuzione di una vera e propria potestà amministrativa in capo alla predetta amministrazione tanto che appare sminuente considerarla una mera attività di "consulenza" .

Occorre distinguere alcune ipotesi. a) effetti della risposta espressa nei termini: la risposta espressa, fornita dalla

Direzione Regionale o dalla Direzione Centrale Normativa e Contenzioso entro i centoventi giorni, vincola l'operato degli uffici; essi, cioè, non potranno contestare in sede di verifica o accertamento un comportamento che, nella risposta all'interpello, sia stato ritenuto corretto. In altre parole, essi non potranno emettere atti di accertamento a contenuto impositivo o sanzionatorio in contrasto con la soluzione interpretativa fornita;

b) effetti della risposta non espressa: nel caso in cui la risposta fornita dalla Direzione Regionale o dalla Direzione Centrale Normativa e Contenzioso, non sia notificata o comunicata al contribuente entro il previsto termine di centoventi giorni, si intende che l'Agenzia concordi con la soluzione prospettata dal contribuente; è questa l'ipotesi del cosiddetto "silenzio assenso . Qualora la risposta pervenga oltre il termine (centoventi giorni), ma prima che il contribuente abbia applicato una fattispecie oggetto di interpello, l'ufficio recupera le imposte eventualmente dovute ed i relativi interessi, senza la irrogazione di sanzioni;

c) effetti della risposta prodotta oltre i termini: nel caso in cui siano già trascorsi i centoventi giorni dalla proposizione dell'interpello, la Direzione Regionale o la Direzione Centrale Normativa e Contenzioso può egualmente comunicare al contribuente una nuova risposta, allo scopo di rettificare quella precedentemente resa in forma espressa o tacita. Ricorrendo tale fattispecie, è necessario distinguere a seconda che, alla data in cui la nuova risposta è comunicata, l'interpellante abbia o meno applicato la norma della cui interpretazione si tratta. Qualora il contribuente abbia già posto in essere il comportamento prospettato nell'istanza o intrapreso iniziative finalizzate in modo non equivoco all'attuazione

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dello stesso, uniformandosi alla soluzione interpretativa comunicata o implicitamente condivisa dall' Agenzia, nulla può più essergli contestato: pertanto, eventuali atti amministrativi, emanati in difformità della prima risposta ovvero della interpretazione sulla quale si è formato il silenzio-assenso, sono privi di effetto. In conseguenza dell'efficacia vincolante del primitivo parere l'Ufficio non può chiedere al contribuente, né imposte, né sanzioni. Qualora il contribuente non abbia ancora posto in essere il comportamento o intrapreso iniziative conformi alla soluzione interpretativa affermata con la prima risposta, la sopravvenuta conoscenza di una diversa interpretazione non è irrilevante nei rapporti con l'Amministrazione finanziaria, la quale è legittimata a recuperare, in applicazione del principio interpretativo affermato nella risposta rettificativa e disatteso dal contribuente, le imposte eventualmente dovute e i relativi interessi; questo, però, senza la irrogazione di sanzioni;

d) effetti della risposta rettificativa oltre i termini: l'articolo 5, comma 1 del Decreto ministeriale 26 aprile 2001 n. 209 consente all'Amministrazione finanziaria di rivedere le proprie posizioni e soluzioni, anche dopo il decorso dei centoventi giorni, comunicando all'interpellante una soluzione interpretativa diversa da quella in precedenza prospettata o accreditata per effetto del silenzio-assenso, i cui effetti però si riverberano esclusivamente sui comportamenti successivi e non anche su quello indicato nell' istanza di interpello a meno che non si tratti di un comportamento protratto nel tempo.

13.2 L’interpello antielusivo preventivo L’interpello antielusivo preventivo, è un interpello “formale” alla stregua dell’interpello previsto dall’art. 11 L. 212/2000 (poiché soggiace a determinate condizioni, e deve seguire certe procedure), ma se ne differenzia in quanto non è rivolto a conoscere l’opinione interpretativa dell’amministrazione su una norma di difficile comprensione, bensì, con riferimento ad una o più norme di comprensione abbastanza facile, è invece rivolto a conoscere il parere dell’amministrazione circa l’eventuale elusività di determinate operazioni economiche e/o finanziarie. Esso è disciplinato dall’art. 21 della L. 413/1991 che stabilisce quale oggetto di questo specifico interpello casi concreti rappresentati dal contribuente relativi all’applicazione delle disposizioni contenute42:

42 Prima dell’art. 21 L. 413/1991 non è che non fosse possibile porre quesiti sulla materia fiscale, ma questi, se formulati, venivano sottoposti all’esame degli Organi centrali del Ministero delle finanze e le rispettive risposte, quando ce ne erano, assumevano una portata limitata in quanto, oltre ad avere una

211

a) nell’articolo 37, terzo comma, DPR 600/1973, concernente l’ipotesi di interposizione fittizia di persone; tale disposizione prevede che, in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio, siano imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona;

b) nell’articolo 37-bis, DPR 600 del 1973, concernente il comportamento inopponibile all’amministrazione finanziaria riguardante atti, fatti e negozi elusivi, anche collegati tra loro, nell’ambito del quale siano utilizzate le operazioni ivi indicate;

c) nell’articolo 74, comma 2, del DPR 917/1986, riguardante la qualificazione di determinate spese, sostenute dal contribuente, tra cui quelle di pubblicità, propaganda ovvero quelle di rappresentanza . Dal punto di vista procedurale l’istanza, in carta semplice, deve contenere:

a) i dati identificativi del contribuente o del suo legale rappresentante e delle altre parti interessate, vale a dire: cognome, nome, luogo e data di nascita, residenza, domicilio fiscale (se diverso dalla residenza), codice fiscale e partita IVA (ove attribuita). Tali elementi sono richiesti a pena di inammissibilità dell’istanza;

b) l’indicazione dell’eventuale domiciliatario presso il quale devono essere effettuate le comunicazioni, ex art. 60 lett. d) del DPR 600/1973; tale disposto, si ricorda, precisa che è in facoltà del contribuente di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano (in tal caso l’elezione di domicilio deve risultare espressamente dalla dichiarazione annuale ovvero da altro atto comunicato successivamente al competente ufficio imposte a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento);

c) la sottoscrizione del contribuente o del suo legale rappresentante. Nella richiesta di parere va esposto dettagliatamente il caso concreto, nonché la soluzione interpretativa prospettata; ad essa va allegata copia della documentazione, con relativo elenco, rilevante ai fini della individuazione e della qualificazione della fattispecie prospettata. Prima delle modifiche normative attuate con il DL 223/2006, dal punto di vista procedurale l’istanza doveva essere presentata all’ufficio finanziario competente

valenza solo per il caso limitato, esplicavano efficacia puramente interna, essendo dirette a fornire indicazioni all’Ufficio finanziario periferico circa la definizione da darsi al caso così sottoposto all’attenzione del Ministero.43 Gli effetti del silenzio-assenso non sono esplicitati dal legislatore; tuttavia esso può essere considerato vincolante per l’ufficio delle entrate ai sensi dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, che tutela l’affidamento del contribuente.

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per l’accertamento che provvedeva, a sua volta, a trasmetterla, unitamente al suo parere, entro 30 giorni, al Direttore regionale delle entrate territorialmente competente.

La procedura di interpello, prima delle modifiche apportate con il DL 223/2006 era dunque così articolata: a) il contribuente richiedeva il preventivo parere alla competente azione generale del

Ministero delle Finanze fornendole tutti gli elementi conoscitivi utili ai fini della corretta qualificazione tributaria della fattispecie prospettata;

b) in caso di mancata risposta della Direzione generale, o di risposta alla quale il contribuente non intendeva uniformarsi, il contribuente poteva chiedere il parere del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive;

c) la mancata risposta da parte del Comitato consultivo entro 60 giorni dalla richiesta del contribuente, e dopo ulteriori 60 giorni da una formale diffida ad adempiere, equivaleva a silenzio-assenso43. Recentemente il DL 223/2006 ha soppresso il Comitato consultivo. Tuttavia,

come anche precisato nella Circolare 40/E del 2007 la soppressione del Comitato consultivo non ha fatto venire meno la possibilità per il contribuente di richiedere il parere dell’Amministrazione finanziaria in materia di elusione fiscale. Per effetto del citato intervento normativo, tuttavia, la procedura dell’interpello in esame si fermerà al parere dell’Agenzia dell’Entrate non essendo più possibile richiedere l’intervento del Comitato consultivo. 13.3 L’interpello antielusivo disapplicativo L’interpello antielusivo disapplicativo è disciplinato dall’art. 37-bis, comma 8, ai sensi del quale “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi”.

In questo caso il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione.

Dal punto di vista procedurale l’istanza, in carta semplice, deve contenere: a) i dati identificativi del contribuente o del suo legale rappresentante e delle altre

parti interessate, vale a dire: cognome, nome, luogo e data di nascita, residenza, domicilio fiscale (se diverso dalla residenza), codice fiscale e partita IVA (ove attribuita). Tali elementi sono richiesti a pena di inammissibilità dell’istanza;

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b) l’indicazione dell’eventuale domiciliatario presso il quale devono essere effettuate le comunicazioni, ex art. 60 lett. d) del DPR 600/1973;

c) la sottoscrizione del contribuente o del suo legale rappresentante. Entro 90 giorni dal ricevimento dell’istanza il direttore provvede a comunicare il

proprio parere al contribuente. Una questione particolarmente delicata che si pone con riguardo a questo tipo di

interpello attiene alla determinazione dei confini del campo di applicazione dell’istituto in esame. Passando ad esaminare il piano applicativo della norma, si può osservare che il punto problematico di maggiore rilevanza è dato dalla obbiettiva difficoltà di identificare tutte le norme di cui è possibile chiedere la disapplicazione. Infatti sono presenti nel sistema alcune norme impositive, definite antielusive proprio dal legislatore la cui natura però è propriamente antievasiva. Si pensi ad esempio all’art. 26 del DL 69/1989 che ha ridotto la deduzione delle spese di rappresentanza, qualificata dal legislatore come norma antielusiva quando è evidentemente una norma antievasiva, essendo finalizzata ad evitare ex ante la deduzioni di spese non inerenti camuffate da spese di rappresentanza. Da questa difficoltà possono derivare problemi pratici di rilievo, come nel caso in cui il contribuente presenti un’istanza di disapplicazione a proposito di una fattispecie regolata da una norma antievasiva e l’amministrazione risponda positivamente, autorizzando, in evidente carenza di potere, la disapplicazione della norma. Se da un lato si può affermare che in un caso del genere il contribuente non può essere sanzionato, vietandolo tra l’altro l’art. 10, comma 2, della L. 212/2000, dall’altro lato sembra però impregiudicata la possibilità per il Fisco di recuperare l’imposta, non risultando legittimo il provvedimento di autorizzazione. In ogni caso ad oggi l’interpello disapplicativo può essere proposto con riguardo a diverse disposizioni, tra cui: a) l’art. 110, comma 10, TUIR ai sensi del quale non sono ammesse in deduzione le

spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati. Ai sensi dell’art. 110, comma 11, tale normativa non si applica quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreto esecuzione;

b) l’art. 172, comma 7, TUIR ai sensi del quale le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione della società risultante dalla fusione per incorporazione per la parte del loro ammontare che non eccede l’ammontare del rispettivo patrimonio

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netto quale risulta dall’ultimo bilancio o se, inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all’art. 2501-quater c.c.;

c) l’art. 89 TUIR, comma 3 , che assoggetta a tassazione piena i dividendi percepiti da società a regime fiscale privilegiato (anziché applicare l’ordinario regime di tassazione che prevede l’esenzione al 95%). Circa gli effetti di questo tipo di interpello, brevemente occorre ricordare che se il

parere del direttore è nel senso favorevole al contribuente, questo può giovarsi delle deduzioni, delle detrazioni e dei crediti d’imposta, senza alcuna limitazione; nessuna norma, tuttavia, impedisce all’Amministrazione finanziaria di disconoscere successivamente il proprio parere attraverso l’emissione di avvisi di accertamento.

Se al contrario il parere è sfavorevole, è cioè nel senso di applicare le suddette limitazioni, il contribuente che non si è uniformato, potrà sempre impugnare dinanzi al giudice tributario l’avviso di accertamento emesso. 13.4 L’Interpello speciale per gli investitori non residenti L’interpello speciale per gli investitori non residenti è disciplinato dalla Circolare dell’Agenzia dell’Entrate n. 99/E del 2000. In particolare, il contribuente non residente che intenda operare degli investimenti in Italia, può rivolgere la propria istanza all’Amministrazione finanziaria in merito a chiarimenti riguardanti l’applicazione di una norma tributaria. Tale tipologia di interpello, la cui presentazione può essere effettuata anche tramite propri rappresentanti o incaricati, permette inoltre di ottenere dall’Agenzia dell’Entrate ogni forma di qualificata e tempestiva consulenza giuridica anche attraverso la prospettazione delle connesse agevolazioni fiscali previste dal nostro ordinamento. La legge non prescrive modalità precise per la presentazione dell’istanza, per cui si ritiene valgono le modalità dell’interpello ordinario. L’istanza va indirizzata direttamente alla Direzione centrale per gli Affari giuridici e per il contenzioso tributario, la quale provvede a fornire tempestivamente i chiarimenti richiesti. 13.5 LL’’iinntteerrppeelllloo ssuull ccoonnssoolliiddaattoo nnaazziioonnaallee ee mmoonnddiiaallee LL’’iinntteerrppeelllloo iinn mmaatteerriiaa ddii ccoonnssoolliiddaattoo nnaazziioonnaallee èè ddiisscciipplliinnaattoo ddaallll’’aarrtt.. 112244,, ccoommmmaa 55,, ddeell TTUUIIRR aa nnoorrmmaa ddeell qquuaallee iinn ccaassoo di fusione della società o ente controllante/consolidante con società o enti non appartenenti al consolidato, il

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consolidato può continuare a condizione che la consolidante interpelli sul punto l’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 11 della L. 212/2000. L’interpello in materia di consolidato mondiale è previsto dall’art. 132, comma 3, del TUIR il quale tra le condizioni per l’efficacia dell’opzione per il consolidato prevede quella per cui le società residenti in Italia che detengono il controllo di società non residenti che intendono esercitare l’opzione per il consolidato devono, entro il primo esercizio di consolidamento, interpellare l’Agenzia dell’Entrate, con le modalità previste dall’ art. 11 della L. 212/2000 al fine di verificare la sussistenza dei requisiti per il valido esercizio dell’opzione.

La risposta dall’Agenzia può essere subordinata alla circostanza che il soggetto controllante si impegni a svolgere una serie di ulteriori adempimenti finalizzati ad una maggiore tutela degli interessi erariali. L’istanza può essere utilizzata inoltre per richiedere ulteriori semplificazioni per la determinazione del reddito imponibile, fra le quali anche l’elusione delle società controllate di piccole dimensioni residenti in uno Stato o territorio diverso da quelli a regime fiscale privilegiato che siano sottoposte alla disciplina antielusiva sulle società controllate e collegate estere.

Le variazioni dei dati indicate nell’istanza devono essere comunicate all’Agenzia delle Entrate con le modalità previste per l’istanza originaria entro il mese successivo alla fine del periodo d’imposta durante il quale si sono verificate. 13.6 L’interpello sulle partecipazioni acquisite per il recupero dei crediti bancari Questo tipo di interpello è previsto dall’art. 113 del TUIR e consente agli istituti di credito di interpellare l’Amministrazione finanziaria, con le modalità previste dalla L. 212/2000, al fine di far sì che il regime dell’esenzione delle plusvalenze sulle partecipazioni non si applichi a quelle acquisite nell’ambito degli interventi volti al recupero crediti o derivanti dalla conversione in azioni di nuova emissione dei crediti verso le imprese in temporanea difficoltà finanziaria. L’accoglimento dell’istanza da parte dell’Agenzia delle Entrate consente, inoltre, al richiedente l’equiparazione delle partecipazioni acquisite e delle quote di partecipazioni successivamente sottoscritte, ai crediti estinti o convertiti, con applicazione degli artt. 101 (perdite) e 106 (svalutazione dei crediti e accantonamenti per rischi su crediti) a condizione che il valore dei crediti convertiti sia trasferito alle azioni ricevute.

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L’istanza deve contenere: a) tutti gli elementi che consentono all’Agenzia delle Entrate di verificare la

convenienza delle procedure poste in essere dagli enti creditizi rispetto ad altre forme alternative di recupero dei crediti;

b) le modalità e i tempi previsti per il recupero; c) gli elementi che inducono a ritenere temporanea la situazione di difficoltà

finanziaria del debitore; d) l’espressa rinuncia del richiedente, in caso di accoglimento dell’istanza, ad

avvalersi nei confronti della società di cui si sono acquisite le partecipazioni, dell’opzione per il consolidato nazionale o e per quello mondiale e dell’opzione per il regime della trasparenza, fino all’esercizio in cui sia maturato il possesso delle medesime partecipazioni.

13.7 L’interpello sulle CFC Nel Capitolo VIII abbiamo affrontato il tema delle disposizioni, in particolare l’art. 167 e 168 del TUIR, sulla c.d. CFC (Controlled Foreign Companies). Abbiamo visto che la finalità di queste disposizioni consiste nell’attrarre a tassazione in capo ai soggetti italiani che hanno partecipazione di controllo o di collegamento i redditi di società estere ubicate in paesi con regimi fiscali privilegiati. Tuttavia, come abbiamo già accennato nell’ambito dello stesso Capitolo XVIII, le disposizioni sulle CFC non si applicano se il soggetto residente presenta preventivamente un’istanza di interpello all’Agenzia dell’Entrate ai sensi dell’art. 11 L. 212/2000 e DM 209/2001 al fine di dimostrare la sussistenza di una delle seguenti condizioni: a) la società o altro ente non residente svolga un’effettiva attività industriale o

commerciale, come sua principale attività, nello Stato o nel territorio nel quale ha sede;

b) dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori in cui sono sottoposti a regimi fiscali privilegiati.

Ai sensi dell’art. 5, comma 3, del DM 429/2001, ai fini della risposta positiva rileva il fatto che: a) il soggetto estero svolga effettivamente un’attività commerciale ai sensi dell’art.

2195 del codice civile come sua principale attività nello Stato o territorio a fiscalità privilegiata con una struttura organizzativa idonea a tale attività;

217

b) i redditi conseguiti dalla CFC sono prodotti in misura non inferiore al 75% in altri Stati non Black List ed ivi sottoposti a tassazione ordinaria;

c) i redditi della stabile organizzazione del soggetto non residente situata in paesi Black List siano soggetti a tassazione ordinaria nello stato in cui il soggetto non residente risiede.

La risposta viene resa entro 120 giorni e opera il meccanismo del silenzio-assenso. La risposta positiva consente la disapplicazione della disciplina delle CFC anche per i periodi di imposta successivi (salvo mutamenti significativi). 13.8 Ruling internazionale

Ai sensi dell’art. 8 DL 269/2003 le imprese con attività internazionale hanno accesso a una procedura che consente loro di stipulare un accordo con l’Amministrazione finanziaria italiana avente ad oggetto il regime tributario applicabile a : a) prezzi di trasferimento; b) interessi; c) dividendi; d) royalties.

La procedura prevede che detto accordo sia vincolante per il periodo d’imposta in cui viene siglata l’intesa e per i due periodi d’imposta successivi.

Con riferimento ai soggetti legittimati a proporre l’istanza si considerano imprese con attività internazionale: a) le imprese residenti alle quali si applicano le disposizioni in materia di transfer

price; b) le imprese residenti, partecipate da o partecipanti in soggetti non residenti; c) le imprese residenti che abbiano corrisposto a, o percepito da, soggetti non

residenti, dividendi o royalties; d) le imprese non residenti aventi una stabile organizzazione in Italia e le imprese

residenti aventi una stabile organizzazione all’estero. L’oggetto del ruling riguarda:

a) la preventiva definizione in contraddittorio dei metodi di calcolo del valore normale ai fini della determinazione dei prezzi di trasferimento (art. 110, comma 7);

b) l’applicazione a una caso concreto di norme, anche di origine convenzionale, concernenti l’erogazione o la percentuale di dividendi, interessi, royalties a altri componenti reddituali a, o da, soggetti non residenti;

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c) l’applicazione a un caso concreto di norme, anche di origine convenzionale, concernenti l’attribuzione di utili o perdite alla stabile organizzazione all’estero di un’impresa residente o a una stabile organizzazione in Italia di un’impresa residente. Dal punto di vista formale l’istanza del ruling deve contenere:

a) i dati del contribuente; b) la documentazione atta a comprovare la qualifica di impresa con attività

internazionale del richiedente; c) l’indicazione chiara dell’oggetto del ruling; d) la sottoscrizione del legale rappresentante.

L’istanza deve essere presentata agli Uffici Ruling internazionali competenti per aree geografiche.

Entro 30 giorni dal ricevimento dell’istanza, salva l’ipotesi del suo rigetto per inammissibilità, il competente ufficio dell’Agenzia dell’Entrate invita l’impresa a comparire affinché sia instaurato il procedimento in contraddittorio, che deve concludersi entro 180 giorni dal ricevimento dell’istanza.

Durante tale fase è possibile l’acquisizione di ulteriore documentazione, anche mediante accessi di personale dell’Agenzia presso la sede dell’impresa o della stabile organizzazione nei tempi concordati con questa. Di ogni attività svolta in tale fase è redatto un processo verbale, copia del quale è rilasciato al soggetto istante.

Il procedimento si perfeziona con la sottoscrizione di un accordo nel quale vengono definiti i criteri o metodi di calcolo del valore normale delle operazioni soggette ai prezzi di trasferimento ovvero vengono definiti i criteri di applicazione della normativa di riferimento negli altri casi di ruling internazionale.

L’accordo vincola le parti per il periodo d’imposta in corso alla data della sua stipulazione e per i due successivi, salvo che intervengano mutamenti di fatto e di diritto rilevanti ai fini di quanto in esso concordato, nel qual caso può essere modificato.

L’accordo raggiunto, ove possa avere riflessi in altri paese dell’Unione europea, è trasmesso alle autorità fiscali degli stati interessati.

L’effetto specifico dell’accordo è che i poteri di verifica e accertamento in materia di imposte sul reddito possono essere esercitati dall’Amministrazione finanziaria in relazione a questioni diverse da quelle in oggetto.

L’eventuale mancato raggiungimento dell’accordo dopo la fase istruttoria è fatto constare mediante processo verbale.

In caso di violazione dell’accordo da parte dell’impresa, a seguito delle verifiche effettuate, l’ufficio competente dell’Agenzia dell’Entrate deve comunicarlo all’impresa

219

con atto motivato da notificare con raccomodata, invitandola a far pervenire entro 30 giorni dalla data di notifica, eventuali memorie a difesa del proprio operato.

Decorso il termine di 30 giorni assegnato per la consegna delle memorie, ovvero, qualora queste ultime siano da considerare inidonee a smentire la denunzia di violazione dell’accordo, questo è risolto a decorrere dalla data in cui risulta accertato il comportamento integrante violazione dell’accordo.

Nel caso in cui non sia possibile accertare tale ultima data, la risoluzione decorre dalla data di efficacia originaria dell’accordo stesso. Alla scadenza dell’accordo, questo può essere rinnovato su istanza dell’impresa interessata che deve pervenire all’Agenzia competente almeno 90 giorni prima della scadenza dell’accordo stesso.

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CAPITOLO XIV 14.1 LA GESTIONE DEGLI ACCERTAMENTI E DELLE VERIFICHE FISCALI 14.1.1 I poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria e della Guardia di finanza Nell’attività istruttoria si ricomprendono tutti quegli atti con i quali l’Amministrazione finanziaria procede all’individuazione ed acquisizione di dati e notizie rilevanti ai fini dell’acclaramento di eventuali violazioni della normativa tributaria.

L’emissione di un atto di imposizione o di irrogazione di sanzioni amministrative a carico di un determinato soggetto presuppone infatti che l’organo dotato della potestà impositiva o sanzionatoria reputi di avere conseguito la prova (diretta o anche solo indiziaria) della sussistenza di un inadempimento degli obblighi sostanziali e/o formali insorgenti dalla predetta normativa.

L’attività di accertamento è svolta dall’ufficio locale dell’Agenzia delle entrate nella cui circoscrizione si trova il domicilio fiscale del contribuente al momento in cui è stata – o avrebbe dovuto essere – presentata la dichiarazione. I comuni, anche attraverso società partecipate che esercitano attività di supporto ai controlli fiscali su tributi comunali, partecipano all’attività di accertamento, beneficiando del 30% dei maggiori tributi accertati (art. 1 DL 203/2005).

Gli uffici sono dotati di poteri istruttori per acquisire gli elementi necessari all’accertamento nei confronti dei contribuenti. In particolare gli uffici possono esercitare i seguenti poteri istruttori: a) richiesta di dati e notizie: gli uffici possono richiedere al contribuente dati e

notizie necessari ai fini dell’accertamento (art. 32 DPR 600/1973 e 51 DPR 633/1972). In particolare gli uffici possono (i) invitare i contribuenti a comparire di persona o a mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti, nonché a esibire e trasmettere atti e documenti; (ii) inviare ai contribuenti questionari relativi a dati e notizie di carattere specifico rilevanti ai fini dell’accertamento; (iii) richiedere agli organi e alle Amministrazioni dello Stato, agli enti pubblici non economici, alle società ed enti di assicurazione e alle società ed enti che effettuano istituzionalmente riscossioni e pagamenti per conto di terzi la comunicazione di dati e notizie relativi a soggetti indicati singolarmente o per categorie; (iv) provvedere allo

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scambio di informazioni e alla reciproca assistenza con le autorità competenti degli stati membri dell’Unione europea per assicurare il corretto accertamento delle imposte. Le notizie e i dati non comunicati e gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa;

b) accessi: attraverso l’accesso presso i locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali è possibile procedere all’ispezione di atti e documenti, alla verifica e alla ricerca di ogni elemento utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e della altre violazioni (art. 52 DPR 633/1972). I soggetti che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indichi lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono. Tuttavia, per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione è necessaria anche l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica. In ogni caso l’accesso in locali destinati all’esercizio di arti e professioni dovrà essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato. Di ogni accesso deve essere redatto processo verbale da cui devono risultare le ispezioni e le rilevazioni eseguite, le richieste fatte al contribuente o a chi lo rappresenta e le risposte ricevute. Il contribuente ha diritto a ricevere copia del verbale;

c) ispezioni: l’ispezione documentale si estende a tutti i libri, registri, documenti e scritture che si trovano nei locali ove viene compiuto l’accesso, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non è obbligatoria. I libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. I documenti e le scritture possono essere sequestrati soltanto se non è possibile riprodurne o farne constare il contenuto nel verbale, nonché in caso di mancata sottoscrizione o di contestazione del contenuto del verbale. I libri e i registri non possono essere sequestrati; gli organi procedenti possono solo eseguirne o farne eseguire copia o estratti;

d) verifiche: le verifiche possono essere eseguite nei confronti di qualunque persona fisica e giuridica, società o ente, che abbia posto in essere attività in relazioni alle quali le norme tributarie o finanziarie pongono obblighi o divieti la cui inosservanza è sanzionata in via amministrativa e/o penale e hanno come fine il riscontro della correttezza delle annotazioni contabili e degli altri elementi rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte, in base all’esame di documenti o di situazioni di fatto. (art. 33 DPR 600/1972 e art. 52 DPR 633/1972);

e) indagini bancarie: ai sensi della L. 413/1991 gli uffici delle imposte dirette e gli

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uffici IVA, previa autorizzazione della competente DRE, possono richiedere alle banche e all’Amministrazione postale per quanto riguarda i conti correnti postali, i libretti di deposito e i buoni postali fruttiferi, copia dei conti intrattenuti con il contribuente indagato, con la specificazione di tutti i rapporti inerenti o connessi a tali conti, comprese la garanzie prestate da terzi. In relazione ai medesimi conti gli uffici possono poi richiedere alle banche e all’Amministrazione postale ulteriori dati e notizie di carattere specifico tramite l’invio di appositi questionari. Qualora le banche o l’Amministrazione postale non trasmettano nei termini i dati richiesti, ovvero qualora abbiano fondato sospetto che i dati trasmessi siano inesatti o incompleti, gli uffici, previa autorizzazione della DRE, possono disporre l’accesso di propri funzionari presso le banche o l’Amministrazione postale al fine di rilevare direttamente i dati richiesti, o controllare la correttezza e completezza di quelli ricevuti. Quale organo di polizia tributaria la Guardia di finanza è organo sussidiario degli

uffici finanziari, assolvendo, di propria iniziativa o su richiesta degli Uffici medesimi, a quella funzione di controllo della conformità a legge dell’operato dei contribuenti che è strumentale all’esercizio da parte degli organi compenti, della potestà impositiva o sanzionatoria.

La Guardia di Finanza è di regola dotata dei medesimi poteri investigativi di cui dispongono i diversi Uffici finanziari. Il coordinamento dell’attività investigativa della Guardia di finanza con quella condotta dagli Uffici finanziari è assicurata attraverso degli accordi che intervengono periodicamente, o nel caso si debba procedere ad indagini sistematiche, fra gli organi centrali del Ministero delle finanze e il Comando Generale della Guardia di Finanza e, a livello periferico, fra le Direzioni generali e gli uffici e i comandi territoriali.

Oltre a servire quale organo di polizia tributaria la Guardia di Finanza è organo di polizia giudiziaria, operante, in tale ruolo, alle dipendenze e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria, nelle forme e con i poteri previsti nel codice di procedura penale.

Gli elementi probatori concernenti violazioni della normativa tributaria acquisiti dalla Guardia di Finanza in qualità di organo di polizia giudiziaria, diversamente da quelli reperiti nell’esplicazione di funzioni polizia tributaria, si trovano a sottostare alla disciplina del segreto investigativo e pertanto non possono essere comunicati agli Uffici finanziari a meno che soppesando le contrapposte esigenze del rispetto del segreto e dell’accertamento tributario l’Autorità giudiziaria non ne autorizzi la comunicazione.

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14.1.2 I diritti del contribuente soggetto ad accessi, ispezioni e verifiche Come abbiamo visto i funzionari dell’Amministrazione finanziaria e i militari della Guardia di Finanza possono acquisire elementi utili all’attività di accertamento anche direttamente presso il contribuente tramite accessi, ispezioni e verifiche. L’art. 12 della L. 212/2000 pone tuttavia alcune regole da seguire nell’esercizio di tali poteri a tutela del contribuente. In particolare è previsto che: a) gli accessi, le ispezioni e le verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di

attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati solo sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo. Essi si svolgono, salvo casi eccezionali e urgenti adeguatamente documentati, durante l’orario ordinario di esercizio delle attività e con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività stesse, nonché alle relazioni commerciali o professionali del contribuente;

b) quando viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che l’hanno giustificata e dell’oggetto, nonché di essere avvisato della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria e dei propri diritti ed obblighi in occasioni delle verifiche;

c) su richiesta del contribuente l’esame dei documenti amministrativi e contabili può essere effettuato nell’ufficio dei verificatori o presso il professionista che lo assiste o rappresenta;

d) delle osservazioni e dei rilievi del contribuente e del professionista che lo assiste deve darsi atto nel processo verbale della operazioni di verifica;

e) la permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente non può superare i 30 giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori 30 giorni nei casi di particolari complessità dell’indagine, individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio. Decorso tale periodo gli operatori possono ritornare nella sede del contribuente per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente presentate dal contribuente dopo la conclusione delle operazioni di verifica previo assenso motivato del dirigente dell’ufficio per specifiche ragioni

In ultimo si evidenzia che il contribuente, nel caso ritenga che i verificatori procedono con modalità non conformi alla legge, può rivolgesi anche al garante del contribuente (art. 13 L. 212/2000). Dopo il rilascio della copia del p.v.c. il contribuente può comunicare entro 60 giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositiori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo i casi di particolare e motivata urgenza.

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14.1.3 Il controllo liquidatorio

Nelle imposte di maggiore rilievo (le imposte sui redditi e l’IVA) l’elevatissimo numero dei contribuenti rende praticamente impossibile all’Amministrazione finanziaria l’effettuazione di controlli approfonditi sulla conformità a legge dell’operato di ciascun soggetto passivo d’imposta. Da qui la tendenza legislativa a sdoppiare la fase istruttoria, scindendo il controllo meramente documentale o formale delle dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti, da svolgersi con procedure automatizzate in maniera per quanto possibile spedita e generalizzata, dal controllo sostanziale il quale risulta invece esperibile nei confronti di una ridotta percentuale dell’intera platea dei contribuenti.

Il controllo liquidatorio si svolge, nelle imposte sui redditi, mediante la procedura prevista dall’art. 36-bis del DPR 600/1973. Sulla base di tale disposizione l’Amministrazione finanziaria, avvalendosi di procedure automatizzate, procede, entro l’inizio del periodo di presentazione delle dichiarazioni relative all’anno successivo, alla liquidazione delle imposte nonché dei rimborsi spettanti in base alla dichiarazioni presentate dei contribuenti. L’attività di liquidazione delle imposte consiste in un mero riscontro degli errori materiali e di calcolo immediatamente rilevabili nella dichiarazione e di quelli in possesso dell’Amministrazione finanziaria ed è caratterizzata dalla mancanza di ogni valutazione giuridica (se il recupero deriva da valutazioni giuridiche è necessario un atto di accertamento contenente esplicita motivazione).

Il riscontro è diretto a: a) correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dai contribuenti nella determinazione degli imponibili, delle imposte, dei contributi e dei premi; b) correggere gli errori materiali commessi dai contribuenti nel riporto delle eccedenze delle imposte, dei contributi e dei premi risultanti dalle precedenti dichiarazioni; c) ridurre le detrazioni d'imposta indicate in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalle dichiarazioni; d) ridurre le deduzioni dal reddito esposte in misura superiore a quella prevista dalla legge; e) ridurre i crediti d'imposta esposti in misura superiore a quella prevista dalla legge ovvero non spettanti sulla base dei dati risultanti dalla dichiarazione; f) controllare la rispondenza con la dichiarazione e la tempestività dei versamenti delle imposte, dei contributi e dei premi dovuti a titolo di acconto e di saldo e delle ritenute alla fonte operate in qualità di sostituto d'imposta. Nel caso di esito positivo del controllo la liquidazione amministrativa è comunicata al contribuente o al sostituto d’imposta per evitare la reiterazione degli errori e consentire la regolarizzazione degli aspetti formali, ma anche di dare gli opportuni chiarimenti. In

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mancanza di versamento o di chiarimenti nel termine di 30 giorni successivi al ricevimento della comunicazione, i maggiori importi sono iscritti a ruolo a titolo definitivo.

Accanto al controllo liquidatorio di cui all’art. 36-bis è previsto un altro tipo di controllo, anch’esso automatizzato, disciplinato dall’art. 36-ter del DPR 600/1973. Si tratta di un’ulteriore forma di controllo liquidatorio che si svolge secondo modalità differenti rispetto all’istituto precedentemente esaminato e si dirige ad un sindacato amministrativo della liquidazione dell’imposta mediante riscontro dei supporti probatori utilizzati dal contribuente.

Infatti l’Amministrazione finanziaria procede entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, sulla base di criteri selettivi fissati dal Ministro delle finanze, al controllo formale delle dichiarazioni.

Nell’ambito di tale controllo gli uffici possono: a) escludere in tutto o in parte lo scomputo delle ritenute d'acconto non risultanti dalle dichiarazioni dei sostituti d'imposta, dalle comunicazioni di cui all'art. 20, comma 3, DPR 605/1973 o dalle certificazioni richieste ai contribuenti ovvero delle ritenute risultanti in misura inferiore a quella indicata nelle dichiarazioni dei contribuenti stessi; b) escludere in tutto o in parte le detrazioni d'imposta non spettanti in base ai documenti richiesti ai contribuenti o agli elenchi di cui all'art. 78, comma 25, della L. 413/1991; c) escludere in tutto o in parte le deduzioni dal reddito non spettanti in base ai documenti richiesti ai contribuenti o agli elenchi menzionati nella lettera b); d) determinare i crediti d'imposta spettanti in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e ai documenti richiesti ai contribuenti; e) liquidare la maggiore imposta sul reddito delle persone fisiche e i maggiori contributi dovuti sull'ammontare complessivo dei redditi risultanti da più dichiarazioni o certificati di cui all'articolo 1, comma 4, lettera d), presentati per lo stesso anno dal medesimo contribuente; f) correggere gli errori materiali e di calcolo commessi nelle dichiarazioni dei sostituti d'imposta.

L’istituto si sostanzia in un controllo cartolare della dichiarazione, tuttavia, rispetto al controllo di cui all’ art. 36-bis presenta caratteristiche di maggiore incisività ed approfondimento che pur non scendendo ad un esame del merito della dichiarazione e quindi ad un sindacato sull’effettività di detrazione o deduzioni, consente una stabilizzazione dei dati della dichiarazione. 14.1.4 L’accertamento tributario L’esito positivo del controllo rappresenta la premessa logica dell’accertamento tributario in senso stretto, individuandosi con tale termine l’attività di affermazione

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amministrativa della pretesa tributaria conseguente alla rideterminazione dell’imposta o dell’imponibile in misura diversa da quella rappresentata dal contribuente oppure alla determinazione dell’imponibile e dell’imposta nell’ipotesi di omessa dichiarazione. L’attività di accertamento non è disciplinata in modo unitario ma è contenuta all’interno della disciplina delle singole imposte. In materia di imposte sui redditi, la normativa di riferimento è contenuta nel DPR 600/1973 mentre in materia di IVA è lo stesso DPR 633/1972 a regolare l’attività di accertamento, come pure in materia di imposta di registro (DPR 131/1986) e, di imposta sulle successioni e donazioni (DPR 131/1986) e negli altri tributi minori. Il sistema accertativo delle imposte sui redditi propone la fondamentale distinzione tra accertamento in rettifica e accertamento d’ufficio. La differenza dei due metodi di accertamento è ravvisabile nella valida presentazione di una dichiarazione dei redditi, in quanto l’accertamento in rettifica si dirige alla rettifica di tale dichiarazione, mentre l’accertamento d’ufficio prescinde dalla dichiarazione, in quanto omessa o non valida. In particolare, l’accertamento d’ufficio è disciplinato dall’art. 41 del DPR 600/1973 ai sensi del quale gli uffici impositori possono procedere a tale tipo di accertamento nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione delle dichiarazioni nulle. In tali ipotesi, dunque, gli uffici determinano il reddito complessivo del contribuente sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti, con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze della dichiarazione, se presentata, e dalle eventuali scritture contabili del contribuente ancorché regolarmente tenute. L’accertamento in rettifica si distingue nel sistema dell’IRPEF in accertamento sintetico ed analitico. La differenza dipende dal diverso angolo di osservazione della base imponibile del tributo che deve avvenire normalmente mediante analisi delle singole fonti reddituali secondo lo schema fornito dall’ art. 6 del TUIR, salvo prescindere, in presenza di particolari situazioni, da tale articolazione giuridica e giungere ad una ricostruzione della base imponibile IRPEF tale da rappresentare in modo più oggettivo la situazione fattuale su cui deve commisurarsi il tributo. Regole particolari sono invece previste per l’accertamento IRES, atteso il particolare meccanismo di determinazione dei rediti soggetti a tale tributo, che non prevede una rettifica sintetica del reddito. Per quanto riguarda l’accertamento analitico, l’art. 38 DPR 600/1973 propone un’ulteriore sottodistinzione, distinguendo l’accertamento dei redditi diversi da quelli derivanti dall’esercizio di attività commerciali o di lavoro autonomo dall’accertamento di quest’ultimi.

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Per l’accertamento dei redditi non determinati in base a scritture contabili l’art. 38, comma 3, del DPR 600/1973 stabilisce che l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione possono essere desunte dalla dichiarazione stessa, dal confronto con le dichiarazioni relative agli anni precedenti e dai dati e dalle notizie acquisite nell’esercizio di poteri istruttori amministrativi, valorizzando anche a tal fine presunzioni semplici, purché dotate dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.

La norma in definitiva dispone una graduazione della prova utilizzabile nella ricostruzione fattuale dei redditi fondiari, dei redditi di capitale, dei redditi di lavoro dipendente, dei redditi di lavoro autonomo non professionale e dei redditi diversi, che parte da una dimostrazione documentale per giungere ad una dimostrazione presuntiva imponendo, in tal caso, la sussistenza dei requisiti di affidabilità del ragionamento presuntivo che l’art. 2729 c.c. prevede.

Ben più articolata è la rassegna delle basi probatorie utilizzabili nell’accertamento dei redditi determinati in base alle scritture contabili, in connessione al delicato equilibrio che la legge pone tra adempimento degli obblighi formali e rispetto in sede di accertamento delle risultanze contabili anche a favore del contribuente.

In particolare il primo comma dell’art. 39 del DPR n. 600 del 1973 stabilisce che l’ufficio procede alla rettifica dei redditi d’impresa e di quelli derivanti dall’esercizio di arti e professioni se gli elementi indicati nella dichiarazione non corrispondono a quelli del bilancio, del conto dei profitti e delle perdite e dell'eventuale prospetto di cui al secondo comma dell'art. 3; se l'incompletezza, la falsità o l'inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta in modo certo e diretto dai verbali e dai questionari di cui ai nn. 2) e 4) dell'art. 32, dagli atti, documenti e registri esibiti o trasmessi ai sensi del n. 3) dello stesso articolo, dalle dichiarazioni di altri soggetti previste negli artt. 6 e 7, dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti o da altri atti e documenti in possesso dell'ufficio; se l'incompletezza, la falsità o l'inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall'ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all'art. 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi alla impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall'ufficio nei modi previsti dall'art. 32.

L'esistenza di attività non dichiarate o l'inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti. Per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili ovvero la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento sui medesimi beni, la prova di cui al precedente periodo s'intende integrata anche se l'infedeltà dei relativi ricavi viene

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desunta sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi dell'articolo 9, comma 3, TUIR.

In deroga alle disposizioni del comma precedente l'ufficio delle imposte determina il reddito d'impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza quando a) il reddito d'impresa non è stato indicato nella dichiarazione; b) dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell'art. 33 risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all'ispezione una o più delle scritture contabili prescritte dall'art. 14 ovvero quando le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore; c) quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica; d) quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell'articolo 32, primo comma, numeri 3) e 4), del presente decreto o dell'articolo 51, secondo comma, numeri 3) e 4),del DPR 633/1972.

Le disposizioni dei commi precedenti valgono, in quanto applicabili, anche per i redditi delle imprese minori e per quelli derivanti dall'esercizio di arti e professioni, con riferimento alle scritture contabili rispettivamente indicate negli artt. 18 e 19. Il reddito d'impresa dei soggetti indicati nel quarto comma dell'art. 18, che non hanno provveduto agli adempimenti contabili di cui ai precedenti comma dello stesso articolo, è determinato in ogni caso ai sensi del secondo comma del presente articolo.

La norma prevede dunque un duplice ordine di riscontri giustificanti la rettifica analitica dei redditi determinati in base a scritture contabili, un controllo di diritto, diretto a verificare la corretta applicazione delle norme del TUIR in materia di reddito d’impresa, ed un controllo fatto, avente ad oggetto la dimensione effettiva degli elementi sui quali si è fondata la dichiarazione.

Accanto all’accertamento contabile finora esaminato vi è l’accertamento extracontabile che ricorre quando il contribuente non ha fornito quelle indicazioni necessarie ad incanalare l’attività di controllo sul sindacato dei singoli fatti di gestione oppure quell’attività di collaborazione del contribuente all’attività istruttoria, da cui deriva la necessità di fondare la ricostruzione del reddito d’impresa su supporti probatori non necessariamente collegati alle risultanze contabili dell’impresa. In tale ottica, la norma prevede che l’ufficio possa determinare il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in

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quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

I presupposti dell’accertamento extracontabile si riassumono in comportamenti omissivi, quali la mancata indicazione del reddito d’impresa in dichiarazione, la mancata tenuta o la sottrazione all’ispezione delle scritture tale da condizionarne l’attendibilità per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica, la mancata ottemperanza ad inviti istruttori dell’ufficio, ma anche, come rilevato, la indisponibilità delle scritture contabili per causa di forza maggiore.

Il sistema dell’accertamento dei redditi determinati in base a scritture contabili per espressa previsione normativa trova applicazione anche nei confronti delle c.d. imprese minori, cioè dei soggetti per cui la legge, in considerazione delle dimensioni ridotte dell’attività prescrive obblighi contabili meno stringenti rispetto a quelli propri delle imprese di normali dimensioni.

Dopo diversi tentativi di intervento diretti essenzialmente ad introdurre metodologie accertative di massa o ad individuare argomentazioni indirette per la ricostruzione dei redditi in via generale ed astratta, con l’art. 62-bis del D.L. 331/1993, è stato introdotto il sistema dell’accertamento fondato sugli studi di settore. In particolare gli uffici amministrativi, con il concorso delle associazioni professionali e di categoria, elaborano, in relazione ai vari settori economici, appositi studi di settore desunti da campioni significativi di contribuenti, idonei ad individuare elementi caratterizzanti l’attività esercitata e rendere così più efficace l’azione accertativa nei confronti dei contribuenti appartenenti al medesimo settore economico.

Gli effetti degli studi di settore nell’accertamento tributario sono previsti dal terzo comma dell’art. 62 sexies del DL n. 331 del 1993, che, integrando il primo comma, lett. d) dell’art. 39 del DPR 600/1973, prevede la possibilità di una rettifica analitica fondata sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis.

In tal modo alle risultanze di tali studi viene attribuita una efficacia dimostrativa privilegiata, idonea di per sé a dimostrare una base attendibile della rettifica, salva la possibilità per il contribuente di dimostrare positivamente la differente composizione dei fattori economici nella specifica attività esercitata.

Tornando alla distinzione iniziale abbiamo visto che l’accertamento in rettifica si distingue in sintetico ed analitico. Fino ad esso abbiamo parlato dei vari tipi di accertamento riconducibili alla macro categoria dell’accertamento analitico. In generale, abbiamo visto che la ricostruzione analitica del reddito è finalizzata alla ricostruzione del risultato reddituale attribuibile alla singole fonte che, nel sistema

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dell’IRPEF, concorre alla formazione del reddito complessivo, che rappresenta, a sua volta, la base su cui si commisura il tributo personale.

Tuttavia, al fine di evitare la sottrazione al tributo di situazioni che non siano state adeguatamente valutate nell’ambito del controllo analitico e si risolvano in forme di cedimento del sistema, la legge prevede il ricorso all’accertamento sintetico, ad un accertamento, cioè, svincolato dall’analisi delle singole fonti reddituali e diretto a ricostruire il reddito complessivo IRPEF sulla base di una logica presuntiva differente rispetto a quella posta a base della ricostruzione analitica.

La base logica dell’accertamento sintetico è ravvisabile nel contenuto inferenziale derivante dal rapporto tra la spesa e il reddito, avendo quale parametro di riferimento il comportamento dell’uomo medio, che destina al consumo personale o familiare somme non superiori a quelle di cui dispone o a titolo reddituale o a titolo patrimoniale. Sulla base di tale assunto, l’art. 38, comma 4, DPR 600/1973 propone una forma di inversione dell’onere della prova in presenza di situazioni contrastanti con la regola normale. Nell’accertamento sintetico, dunque, si parte dalla spesa per ricostruire il reddito necessario a finanziarla.

La delicatezza di tale metodo di accertamento impone una serie di garanzie dirette anzitutto ad imporre una ponderazione quantitativa al ricorso a tale strumento accertativo, come pure ad evitare una indiscriminata differenziazione della valutazione del contenuto induttivo della spesa. Sotto il primo profilo l’art. 38, comma 4, prevede infatti una soglia minima di accesso alla rettifica sintetica, stabilendo che la differenza tra il reddito sinteticamente determinabile e quello dichiarato deve essere superiore ad un quarto. Tale discrepanza deve risultare per due o più periodi d’imposta.

Per quanto riguarda, invero, la selezione e la valutazione degli elementi indicativi di capacità contributiva, la seconda parte del quarto comma dell’art. 38 prevede una predeterminazione amministrativa di tali elementi e del relativo contenuto in termini induttivi. Nella prassi il decreto del Ministero delle finanze che individua e determina gli elementi utilizzabili ai fini dell’accertamento sintetico viene denominato “redditometro” in considerazione della sua natura generale ed astratta e della sua attitudine a determinare automaticamente il reddito connesso altri elementi fattuali. Infine vi è per il contribuente la garanzia del contraddittorio ed infatti l’art. 38, comma 6, attribuisce al contribuente la facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’ accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.

L’ultimo tipo di accertamento è l’accertamento c.d. parziale, previsto dall’art. 41-bis DPR 600/1973. In particolare, in deroga al c.d. principio di unicità dell’accertamento, l’accertamento parziale consente, qualora dagli accessi, ispezioni e

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verifiche nonché dalle segnalazioni effettuati oppure dai dati in possesso dell'anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire l'esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, o l'esistenza di deduzioni, esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti, nonché l'esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate, di accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibili, ovvero la maggiore imposta da versare. 14.1.5 Definizione ed impugnazione dell’avviso di accertamento Se l’azione di accertamento si conclude con l’emissione di un avviso di accertamento, il contribuente può decidere di intraprendere diverse strade. In particolare, può procedere alla definizione dell’atto impositivo ai sensi dell’art. 15 L. 218/1997. Infatti, nel caso in cui il contribuente non abbia sufficienti argomentazioni per dimostrare l’erroneità della pretesa impositiva contenuta nell’accertamento in sede contenziosa o come vedremo, in sede di accertamento con adesione conviene procedere alla definizione c.d. agevolata dell’atto accertativo. L’art. 15 della L. 218/1997 prevede infatti la riduzione delle sanzioni irrogate ad un quarto qualora il contribuente provveda al pagamento delle somme complessivamente dovute entro 60 giorni dalla notifica dell’atto rinunciando così a presentare ricorso in commissione tributaria provinciale o a presentare istanza di accertamento con adesione. La sanzione da pagare non può essere, in ogni caso, inferiore ad un quarto della somma dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo. Le somme dovute possono essere versate anche in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo o in un massimo di dodici se le somme dovute superano i 51.645,69 euro. In questo caso, tuttavia, il contribuente è tenuto a prestare idonea garanzia mediante polizza fideiussoria o fideiussione bancaria per il periodo di rateazione aumentato di un anno. Altra possibilità per il contribuente consiste nella definizione delle sole sanzioni irrogate con l’atto di accertamento, ai sensi dell’art. 17 L. 472/1997 entro il termine per la proposizione del ricorso è ammessa la definizione agevolata delle sole sanzioni con il pagamento di un importo pari ad un quarto delle sanzioni irrogate. Per quanto riguarda l’imposta il contribuente potrà decidere se presentare ricorso o istanza di accertamento con adesione. Una terza possibilità consiste nella possibilità di presentare ’istanza di accertamento con adesione ai sensi dell’art. 6, comma 2, D.Lgs. 218/1997 con tale

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l’istanza il contribuente chiede all’ufficio di definire consensualmente l’accertamento. In tal modo si forma un accertamento definitivo, vincolante anche per l’Amministrazione finanziaria, in quanto sono escluse anche non solo l’impugnazione successiva da parte del contribuente ma anche in linea di principio integrazioni o modificazioni da parte dell’ufficio. Questo meccanismo di imposizione consente in genere al contribuente di ottenere un risparmio d’imposta ed al Fisco di acquisire immediatamente le somme accertate senza quella conflittualità che ha sempre caratterizzato i rapporti tra Amministrazione finanziaria e contribuenti.

L’adesione viene incentivata mediante benefici sul piano sanzionatorio. Sul piano penale, l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede la diminuzione fino alla metà delle pene per i delitti in materia di imposte sui redditi e IVA se prima dell’apertura del dibattimento siano stati pagati i debiti tributari, anche se ridotti a seguito di concordato; le sanzioni amministrative sono ridotte ad un quarto del minimo per le violazioni concernenti i tributi oggetto dell’adesione, commesse nel periodo d’imposta o il contenuto della dichiarazione.

Per favorire il raggiungimento del concordato è previsto un contraddittorio tra ufficio tributario e contribuente in modo da consentire al primo di tener conto di tutti gli elementi che apporta il secondo. L’atto di accertamento con adesione è redatto per iscritto e sottoscritto dal contribuente e dal capo dell’ufficio, con l’indicazione degli elementi e dei motivi su cui si fonda. Tuttavia, affinché la definizione si perfezioni è necessario che entro 20 giorni il contribuente versi le somme dovute in conseguenza dell’adesione. In mancanza riprende il procedimento ordinario e non perde efficacia l’originario atto di imposizione. Anche se il procedimento non si conclude con un accordo, la semplice proposizione dell’istanza di accertamento con adesione interrompe per 90 giorni il termine per la proposizione dell’eventuale ricorso contro l’avviso di accertamento.

Infine, nel caso in cui il contribuente ritenga di avere valide ragioni di fatto e di diritto per provare l’infondatezza della pretesta impositiva avanzata con l’avviso di accertamento potrà impugnarlo presentando ricorso alla commissione tributaria provinciale competente entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso stesso ai sensi dell’art. 18 del D.Lgs. 546/1992. L’impugnazione dell’atto può fondarsi su motivi di natura formale (tardiva notifica dell’avviso di accertamento, violazione di norme contenute nella L. 212/2000, incompetenza dell’Ufficio, ecc.) o di merito.

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