Europa Giugno Versione Italiana

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AL DI LÀ DELLA NAZIONE INTERVISTA CON ALFREDO JAAR Intervista p.14 democrazia eguaglianza cultura al di la’ della nazione giugno luglio 09 copia gratuita il mito di ETIENNE BALIBAR Per un’Europa Alter-Globalizzante NANCY FRASER Transnazionalismo e Femminismo PAUL GILROY L’Arte Sfida l’Indifferenza DANIELE ARCHIBUGI Esclusione e Politica Globale S embra esserci un paradosso fondamentale nella dialettica che circonda il fenomeno della globalizzazione. Ci ricordano ogni giorno dell’ineludibile interconnessione supranazionale della realtà economica contemporanea, della necessità di competizione ed efficienza in un mercato globale, dell’inevitabilità del sistema capitalsta in un mondo in cui tutti giocano la stessa partita. Tutte le parole chiave di questi tempi riportano a questa dimensione: delocalizzazioni, crisi globale, ascesa della Cina… E siamo noi stessi sempre più coscienti nella nostra quotidianeità della composizione cosmopolita delle città europee, che offrono una rappresentazione tangibile delle migrazioni globali del nuovo secolo e si trasformano in officine per la ricostruzione di comunità sganciate dal mero senso localistico di appartenenza. Ma in un’epoca che ammette senza esitazione lo status trans-nazionale dei più grandi problemi che siamo chiamati ad affrontare, è sorprendente che il monopolio di autorità politica dello stato-nazione rimanga così poco contestato. Uno sguardo al panorama politico sembra riportarci a un déjà vu di competizione fra stati, avventure imperialiste, e una concezione tribale dell’interesse nazionale. Se le istituzioni internazionali sembrano poco democratiche, se i cittadini sentono di non avere nessun controllo sopra il proprio destino, o nessuna scelta sul tipo di mondo in cui vogliono vivere, è da questo paradosso che dobbiamo cominciare. Bisogna creare una nuova concezione del politico che sappia porre l’interesse per l’umanità intera al proprio centro, e che al tempo stesso riesca a offire una declinazione comune delle istanze e degli interessi delle diverse comunità nazionali. E bisogna fare in modo che tale declinazione sia realizzabile. Oggi, l’unica entità politica esistente che di fatto pone in questione il sistema dello stato-nazione è l’Unione europea. E questo significa che l’Europa ha un enorme potenziale, ancora irrealizzato, di trasformare la logica della politica globale. È per esplorare questo potenziale che questa rivista, già pubblicata in inglese, appare ora in italiano. Nelle pagine di questo primo numero molti di questi temi sono approfonditi, e la notra convizione che le arti abbiano un ruolo fondamentale nell’estendere la sfera del possibile trova la sua definizione in una consistente sezione culturale. Speriamo di piacervi. Siamo un pò vanitosi. Le opere di Alfredo Jaar, artista di origine cilena di base a New York, si concentrano sulla relazione tra ‘primo’ e ‘terzo mondo’, esplorando le loro interdipendenze materiali e le dinamiche di potere in gioco, e interrogandosi su come il ‘primo mondo’ traduca queste problemat- iche nelle rappresentazioni visive del ‘terzo mondo’. Europa ha intervistato Jaar per cel- ebrare un artista che non smette di affascinare, proponendo nuovi modelli di intendere la relazione fra arte e politica. in questo numero Tim A Hetherington, Young rebel fighter from Liberian United for Reconciliation and Democracy (LURD) rebel group Liberia, may 2003

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Versione italiana della nostra rivista Europa / Italian version of our magazine Europa. Per informazione www.euroalter.com/italia

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AL DI LÀ DELLA NAZIONE

intervista con alfredo jaar

Intervista p.14

democrazia eguaglianza cultura al di la’ della nazionegiugno luglio 09copia gratuita

il m

ito

di

etienne BaliBar

Per un’europa alter-Globalizzante

nancy fraser

transnazionalismo e femminismo

PaUl Gilroy

l’arte sfida l’indifferenzadaniele archiBUGi

esclusione e Politica Globale

Sembra esserci un paradosso fondamentale

nella dialettica che circonda il fenomeno

della globalizzazione. Ci ricordano ogni

giorno dell’ineludibile interconnessione

supranazionale della realtà economica

contemporanea, della necessità di competizione ed

efficienza in un mercato globale, dell’inevitabilità del

sistema capitalsta in un mondo in cui tutti giocano la

stessa partita. Tutte le parole chiave di questi tempi

riportano a questa dimensione: delocalizzazioni,

crisi globale, ascesa della Cina… E siamo noi stessi

sempre più coscienti nella nostra quotidianeità della

composizione cosmopolita delle città europee, che

offrono una rappresentazione tangibile delle migrazioni

globali del nuovo secolo e si trasformano in officine per

la ricostruzione di comunità sganciate dal mero senso

localistico di appartenenza.

Ma in un’epoca che ammette senza esitazione lo

status trans-nazionale dei più grandi problemi che siamo

chiamati ad affrontare, è sorprendente che il monopolio

di autorità politica dello stato-nazione rimanga così

poco contestato. Uno sguardo al panorama politico

sembra riportarci a un déjà vu di competizione fra

stati, avventure imperialiste, e una concezione tribale

dell’interesse nazionale. Se le istituzioni internazionali

sembrano poco democratiche, se i cittadini sentono di

non avere nessun controllo sopra il proprio destino, o

nessuna scelta sul tipo di mondo in cui vogliono vivere,

è da questo paradosso che dobbiamo cominciare.

Bisogna creare una nuova concezione del politico

che sappia porre l’interesse per l’umanità intera al

proprio centro, e che al tempo stesso riesca a offire

una declinazione comune delle istanze e degli interessi

delle diverse comunità nazionali. E bisogna fare in

modo che tale declinazione sia realizzabile. Oggi,

l’unica entità politica esistente che di fatto pone in

questione il sistema dello stato-nazione è l’Unione

europea. E questo significa che l’Europa ha un enorme

potenziale, ancora irrealizzato, di trasformare la logica

della politica globale.

È per esplorare questo potenziale che questa

rivista, già pubblicata in inglese, appare ora in

italiano. Nelle pagine di questo primo numero

molti di questi temi sono approfonditi, e la notra

convizione che le arti abbiano un ruolo fondamentale

nell’estendere la sfera del possibile trova la sua

definizione in una consistente sezione culturale.

Speriamo di piacervi. Siamo un pò vanitosi.

Le opere di Alfredo Jaar, artista di origine cilena di base a New York, siconcentrano sulla relazione tra ‘primo’ e ‘terzo mondo’, esplorando le loro interdipendenze materiali e le dinamiche di potere in gioco, e interrogandosi su come il ‘primo mondo’ traduca queste problemat-iche nelle rappresentazioni visive del ‘terzo mondo’.Europa ha intervistato Jaar per cel-ebrare un artista che non smette di affascinare, proponendo nuovi modelli di intendere la relazione fra arte e politica.

in questo numero

Tim A Hetherington, Young rebel fighter from Liberian United for Reconciliation and

Democracy (LURD) rebel groupLiberia, may 2003

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giugno/luglio 09il mito di europa

CHI SIAMO: UN NUOVO PROGETTO TRANSNAZIONALEAlterità d’Europa è un’organizzazione

transnazionale fondata a Londra, con uffici in diverse città europee.

L’organizzazione è dedicata a esplorare il potenziale di una politica e cultura post- o transnazionale. Siamo convinti che in un mondo sempre più globale una politica progressista debba essere necessariamente articolata in termini transnazionali, al di là dei confini mentali e materiali dello stato-nazione. La costruzione europea ha in sé un grande potenziale di promuovere un avanzamento sociale e culturale sia all’interno che all’esterno dell’Unione europea, per quanto questo resti ancora per la maggior parte irrealizzato. Questo potenziale trascende i confini stessi dell’Europa, contribuendo a definire una politica che possa essere in grado di aver voce nell’era della globalizzazione e che risponda alle esigenze dell’umanità tutta. Alterità d’Europa concepisce come sua responsabilità l’articolazione e promozione di quel potenziale, analizzando aree specifiche di contestazione sociale ed esplorando le risposte offerte da un approccio transnazionale nei confronti di questioni chiave del nostro tempo.

Sono diversi i temi centrali di un progetto di questo tipo. Fra i nostri interessi principali, spicca senz’altro una preoccupazione per il significato che termini come eguaglianza e cittadinza possono assumere quando separate dalle logiche arruginite dei confini nazionali. Un progetto transnazionale deve essere risolutamente egalitario, progressista ed emancipatorio, e deve essere elaborato superando nuove e vecchie opposizioni sociali; opposizioni come quella tra emigrante e locale, militando contro ogni razzismo di nuovo o vecchio conio, contro ogni tentativo di subordinare il migrante nella gerarchia sociale o economica, o di deprezzare la sua dignità a mero corpo-lavoro; opposizioni come quella tra uomo e donna, combattendo il disprezzo verso la donna, tanto presente nella follia politica italiana di questi tempi, e domandando un mondo in cui non sia la sola visione andro- o maschio-centrica a governare lo spazio del pubblico e del politico; o opposizioni come quella tra centro e periferia, esibendo lo scandalo di un mondo flagellato da guerre, povertà, e carestie, un mondo dove i paesi piu ricchi perversamente difendono il

proprio privilegio attraverso la costruzione e il mantenimento di un sistema di sfruttamento globale. Su tutti questi punti, una vera politica transnazionale deve agire prendendo in considerazione i diritti dell’umanità nel suo complesso, piuttosto che gli interessi specifici e limitati di un gruppo, una classe, o una comunità privilegiata.Un secondo tema centrale e’ la forma che una vera democrazia transnazionale debba assumere. E infatti, piuttosto che arrendersi ad una concezione dell’Unione Europea come costruzione a-politica, regolatrice e normativa, pensiamo che bisogni battersi per una ri-politicizzazione del continente. Il ‘deficit democratico’ dell’Europa potrà essere colmato solo tramite un forte attivismo politico a livello transnazionale, formulando vere alternative europee allo status quo, già che ogni ricorso a prospettive nazionali conduce invariabilmente ad un trinceramento dietro interessi particolari e a un disimpegno nei confronti del resto del mondo. Ma una futura politica transnazionale non può essere culturalmente conservatrice. Per questo motivo, un altro tema per noi fondamentale è il

ruolo che possono giocare artisti, intellettuali, e scrittori nell’inventare nuovi modi di vivere e concepire il mondo, combattendo e smantellando la continua commercializzazione e banalizzazione di tutti gli aspetti della vita umana. Si parla qui di relazione tra attivismo politico e arte: cosa vuol dire arte impegnata al giorno d’oggi? E si parla di un’analisi delle conseguenze della globalizzazione su pratiche artistiche e letterarie, e della possibilità di un de-centramento del sistema dell’arte tramite l’emergere di centri creativi al di fuori dei confini dell’occidente, così come gli artisti di Cina, India, o Brasile ci stanno insegnando in questi anni.Il nostro progetto si sviluppa attraverso diversi impegni e in diversi paesi. Organizziamo una serie di incontri sulle tematiche sopra indicate in giro per l’Europa, in Cina, e in Arabia Saudita; ogni anno a Londra un Festival e un congresso transnazionale presentano e analizzano i risultati del nostro lavoro; e per finire, questa rivista, che vede ora la luce in italiano, è il nostro mezzo per comunicare, creare, e, ciò che più ci sta a cuore, estendere un invito, un invito a partecipare al progetto e a darci una mano.

Alterita’ D’europA

Marc Riboud,A bus stop near the Luxembourg Garden, Paris, 1984© Marc Riboud / Courtesy: www.hackelbury.co.ukwww.marcriboud.com

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il mito di europa

IL RUOLO DI UNA RIVISTA: IMPEGNOOggi una rivista può solo essere

internazionale nella sua composizione e cosmopolita nelle sue intenzioni.

Bisogna creare un viandante, un eterno vagabondo che corra il mondo inseguendo una tribù di menti sparse per i continenti. Ma già non è più tempo per una semplice presentazione dell’altro, una mera illustrazione delle vicissitudini politiche o culturali di paesi ‘esteri’. No, quello che si ricerca è un’alleanza, una collaborazione di intenti che valichi paesi e confini, un fare-assieme, un combattere comune. Ed è per questo motivo che il ruolo di questa rivista è inseparabile dal progetto che la anima e di cui fa parte. Non tanto come ‘portavoce’, come semplice organo di informazione, di propaganda. Ma come costituzione di uno spazio pubblico, uno spazio di discussione, di dibattito, e di impegno, che contribuisca alla creazione di una pratica veramente transnazionale. È questo uno dei motivi per la creazione di questa versione italiana del giornale, che accompagna, complementa, e arricchisce la versione inglese, e che sarà presto seguita da una versione francese.

Diciamo uno dei motivi perché un secondo, altrettanto importante, è senza dubbio una forte preoccupazione nei riguardi della deriva della politica e società italiana verso forme sempre piu marcate di xenofobia e populismo, una deriva che sta sempre piu sganciando l’Italia dal sistema europeo e da ogni forma di decenza democratica. E pensiamo che questa deriva possa essere combattuta con un salto di qualità, chiedendo non una semplice normalità, un centrismo pulito che svelto rimpiazza lo stesso concetto di sinistra, una ricerca del semplice status quo europeo che nelle condizioni tutte particolari dell’Italia di oggi assume un carattere quasi radicale, ma bensì raddoppiando la posta, facendo partire un discorso su cosa vorrebbe dire fare politica con l’Europa e il mondo intero nei propri occhi, proponendo soluzioni progressiste ed emancipatorie con l’ambizione di cambiare nient’altro se non le logiche della politica globale stessa. Ma questo è un lavoro che non può, non deve essere condotto da una comunità chiusa, definita geograficamente, appartenente alla stessa

nazione o alla stessa Unione. Ed è per questo motivo che è la composizione stessa della rivista a dover essere transnazionale, nei suoi contenuti, nei suoi collaboratori, nella sua diffusione. La rivista deve essere rappresentante del discorso che vuole diffondere, o piú importante ancora, è quello stesso discorso che può solo essere creato, definito, difeso, da nessuna prospettiva privilegiata, da nessun centro urbano, ma attraverso sempre variabili geografie del pensiero. Ma il ruolo di una rivista è anche di non essere solamente una rivista. È di farsi progetto, di avere un’anima, di assumere una posizione, di tenere alta la bandiera di un’alleanza di ideali, scommesse, e visioni, un’alleanza contradditoria e polifonica, ma un’alleanza che trova riscontro in e che si fa organizzatrice di azioni concrete e condivise, prese di posizioni comuni, comunicati diffusi in più paesi e a più voci, incontri, ricerca, produzione artistica, militanza. Una rivista attivista, ecco cosa bisogna crare. Ma, alla fine di tutto, le mani dei redattori sono sempre state sporche. E che siano sporche di impegno, prima ancora che d’inchiostro.

Europa e’ il giornale di alterita’ d’europa, organizzazione con base a Londra e uffici in diverse citta’ dedicata a promuovere una nuova politica e cultura transnazionale.

DirettoriLorenzo MarsiliNiccoló Milanese

Caporedattrice ItaliaSara Saleri

Associate EditorNadja Stamselberg

Project OfficerSégolène Pruvot

Comitato di RedazioneVéronique FoulonBelen GóngoraLuigi GalimbertiEva OddoPaola PasqualiAlberto Stella

Advisory BoardGilbert AchcarBoyan ManchevSandro MezzadraBaskar MukhopadhyayKalypso NicolaidisRichard Zenith

DesignRasha Kahil www.rashakahil.com

Registrazione N. 6101658

Ratcliffe on Soar 3from the series: “Light After Dark” © Toby Smith www.shootunit.com

Alterita’ D’europA

www.euroalter.com/italia

[email protected]

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giugno/luglio 09il mito di europa

L’EUROPA COME PROGETTO POLITICOil progetto europeo, nonostante l’apparenza, ha le potenzialità di introdurre un cambiamento di paradigma verso un’era transnazionale.Niccolò MilaNese

Stiamo cercando di ac-celerare con la marcia in folle. Negli ultimi 20 anni, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’aumento

esponenziale del numero di ONG della società civile, think tank, azioni umanitarie, media internazionali, “global” forum, proteste e incontri, ha raffinato le rivendicazioni e ha aumentato la consapevolezza delle nuove generazioni, ma non ha ancora prodotto un progetto politico che sia all’altezza delle loro ambizioni. Via via che aumentano i problemi che si rive-lano “globali” nella loro complessità e nelle loro implicazioni, e i loro effetti si fanno più drammatici, questa im-potenza sembra divenire sempre più frustrante, e il divario tra aspirazioni e possibile azione sempre maggiore.

Negli ultimi sei mesi abbiamo visto e sentito aprirsi una nuova

fase in questa dislocazione, con l’esplosione, insieme, di speranza e di rabbia a livello globale. Il G7 può anche essere diventato un G20, gli Stati Uniti d’America pos-sono aver eletto un presidente ac-colto con esaltazione – per lo meno nell’immediato – dalla maggior parte del mondo occidentale, ma persino noi cittadini abbastanza fortunati da vivere nelle parti del mondo più libere e potenti, quando proviamo a reagire a problemi politici globali che ci appassionano, ci troviamo sempre più nella posizione di umili supplici verso i nostri leader, che siano politici nazionali o burocrati non eletti in or-ganizzazioni internazionali. Abbiamo l’impressione di essere privati di autonomia, e che la democrazia ci sfugga, proprio nel momento in cui ci si aspetta che l’interconnessione della società globale sia ormai autoevidente.

In un mondo che si deve confron-tare con questioni globali, è codardo e sconsiderato non avere aspirazioni globali, e queste ambizioni costituis-cono i Iegami preziosi che uniscono l’umanità. Ma ciò che le controparti sociali possono ottenere indipenden-temente dai poteri politici è limitato, per lo meno nelle condizioni attuali, e quasi tutti questi poteri politici

rimangono risolutamente nazionali nella loro costituzione. Questo è pers-ino il caso – ed è scontato ripeterlo – della più “globale” delle istituzioni, le Nazioni Unite, in cui ogni stato ha un voto nell’Assemblea Generale e solo stati privilegiati o eletti hanno il voto nei suoi altri organi. Anche la strut-tura della Banca Mondiale e l’FMI prevede che i loro membri siano gli stati nazionali.

In un’epoca che ammette senza esitazione lo status trans-nazion-ale dei piu’ grandi problemi che siamo chiamati ad affrontare, e’ sor-prendente che il monopolio di au-torità politica dello stato-nazione rimanga così poco contestato. Se le istituzioni internazionali sembrano poco democratiche, se i cittadini sen-tono di non avere nessuno controllo sopra il proprio destino, o nessuna scelta sul tipo di mondo in cui vogli-ono vivere, è da questo paradosso che dobbiamo cominciare.

L’unica entità politica esistente che di fatto pone in questione il sis-tema dello stato-nazione è l’Unione europea. E questo significa che l’Unione europea ha un enorme potenziale, ancora irrealizzato, di trasformare la logica della politica globale. In quanto maggiore blocco commerciale del mondo, l’Europa

potrebbe essere una forza positiva per istaurare una vera agenda di gius-tizia sociale all’interno dell’economia mondiale. Se imponesse il rispetto di standard di lavoro decenti, proi-bendo la vendita di beni prodotti in condizioni di sfruttamento, sia se prodotti all’interno che all’esterno dell’Unione, giocherebbe un im-menso ruolo per il miglioramento della qualità del lavoro in tutto il mondo. Nello stesso modo, l’Unione europea potrebbe imporre parametri ambientali stringenti, così da ren-dere impossibile o molto più costoso comprare beni prodotti in maniera ecologicamente insostenibile. Al mo-mento un cittadino europeo deve pagare di più se sceglie di comprare un bene non prodotto sotto con-dizioni di sfruttamento (commercio equo), e deve pagare di più se sceg-lie un prodotto che non reca danno all’ambiente – il che rende molto chiaro quale sia la scala di valori at-tuale nel libero mercato europeo. Se l’Unione europea introducesse una tassa tipo Tobin Tax sulle transazi-oni finanziarie e monetarie, se in-troducesse limiti ai salari dei super-manager, se prendesse un forte im-pegno contro i paradisi fiscali, tutto questo sarebbe una vera forza di cambiamento nell’economia globale perché gli altri paesi non avrebbero altra scelta che reagire e adeguarsi.

Tutti questi argomenti sul per-ché l’Europa dovrebbe importare a tutti quanti abbiano a cuore le sorti della politica globale possono essere moltiplicati, includendo questioni di diritti umani, eguaglianza di genere, pace, migrazione, e molte altre. Ed è in questo senso che non sarebbe una semplice esagerazione dire che per un cittadino in Europa che oggi voglia militare per un diverso sviluppo dei nostri paesi e del nostro mondo, l’Europa è l’ultima utopia rimasta.

Al giorno d’oggi, con la fiducia verso le istituzione dell’Unione euro-pea ai minimi, porre una così grande enfasi sul potenziale dell’Europa di divenire l’attore principale di un cam-biamento epocale sembra essere una semplice illusione. Non solo l’Unione sembra assolutamente impotente nel prendere posizione nella politica globale, ma le rare volte che lo fa le sue azioni sembrano principalmente atte a mantere lo status quo, o addir-

itture a promuovere una politica che molti chiamerebbero ‘neoliberale’. Nel contesto della crisi finanziaria, ad esempio, l’Europa è stata inca-pace di concordare un vero aiuto per i suoi membri più deboli, che sono stati in buona parte lasciati al Fondo Monetario Internazionale. Diversi giudizi della Corte Europea negli ul-timi anni sembrano aver favorito le multinazionali invece che i lavoratori. Dinnanzi a una sempre più flagrante discriminazione verso i migranti in paesi come l’Italia, l’Unione europea è stata recalcitrante nel fare valere il principio di diritti umani che pro-fessa di rispettare. È stata impotente nel prendere una posizione sulla re-cente crisi di Gaza, così come altre crisi militari quali quella del Congo. E la lista potrebbe essere estesa.

Ciò che è importante ca-pire in questa situazione è come un’istituzione così potente, almeno sulla carta, e con un tale potenziale di inizare una vera trasformazione della politica globale, sembri essere invece incapace di qualsiasi azione e sembri provocare solo indifferenza o antago-nismo in così tante persone. Negli ul-timi anni si è sviluppata una piccola industria di ricerca per affrontare queste questioni, in università, think tanks, organizzazioni della società civile, ecc., in buona parte finanziata dalle istituzione europee stesse. Ma a noi la risposta sembra semplice: non esiste nessun partito politico o or-ganizzazione indipendente di grande portata che promuova un politica europea alternativa e progressista a livello transnazionale.

Le energie politiche scatenatesi negli ultimi mesi hanno dimonstrato la natura anacronistica della logica globale del potere politico, ma anche l’insufficienza degli appelli ad una famigerata ‘societa’ civile globale’, a cui manca un vero progetto di grande respiro per trasformare lo status quo e che rimane in grande parte basata su problemi specifici e ben circonscritti. L’Europa conta, dunque, perché è a quel livello che qualunque progetto politico e culturale veramente inno-vativo, che cerchi di cambiare le re-gole globali del mondo contempora-neo, può essere lanciato, per lo meno per quanti di noi vivono in questa parte del mondo. L’Europa conta perché è l’unico motore politico es-istente che possa guidare questo pro-getto al di là delle logiche discrimi-natorie e d’esclusione del sistema dello stato-nazione. E l’Europa conta perché se rimane ignorata da quanti veramente hanno a cuore il futuro del mondo, continuerà ad esistere nel suo assurdo grigiore e rimarrà un peso morto sui nostri sogni. Niccolo Milanese è codirettore di Alterità

d’Europa

G. Roland BiermannAPPARITIOn 21© G. Roland Biermann / Courtesy: www.myriamblundell.com www.grolandbiermann.com

“NoN esiste NessuN partito

politico o orgaNizzazioNe

iNdipeNdeNte di graNde

portata che promuova

uN politica europea

alterNativa e progressista

a livello traNsNazioNale.”

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TESI PER UN’EUROPA ALTER-GLOBALIZZANTEnel contesto di un’evidente riconfigurazione delle relazioni di potere globali, e con le elezioni europee alle porte, è imperativo discutere le potenzialità e gli obiettivi di una reale pratica politica transnazionale.

1 Oggi più che mai, la politica, come sosteneva Max Weber, non può che essere “glo-bale”. Questo non significa che esista una sola politica

globale possibile: al contrario, c’è necessariamente una scelta tra di-verse politiche, definite dai loro obi-ettivi, mezzi, condizioni, ostacoli, “soggetti” o “volontà”, e i rischi che comportano. Il campo della politica è quello dell’alternativa. Se partiamo dall’assunto che oggi tutte le pos-sibilità vengono incluse in una ten-denza verso la “globalizzazione”, la domanda diventa: quali sono le al-ternative a queste forme dominanti? L’Europa può essere una forza “alter-globalizzante”? E come?

2. Affermare che la politica non può che essere globale non equivale a dire che la politica non si deve preoc-cupare della condizione e dei prob-lemi delle “persone” nel luogo in cui vivono, dove la loro storia di vita li ha situati: al contrario, equivale ad affermare che la cittadinanza locale ha come propria condizione una cit-tadinanza globale attiva. Ogni scelta politica locale di orientamento eco-nomico, sociale, culturale, istituzi-onale implica una scelta “cosmopo-litica”, e viceversa.

3. Oggi la posizione dell’Europa nel mondo – nonostante qualche vel-leità diplomatica – è quella di un cane morto che segue la corrente dell’acqua, privo di ogni iniziativa propria. Oppure – dato il suo peso economico e culturale – quello di un elefante morto che va con la cor-rente. Gli esempi abbondano: dalla riforma delle Nazioni Unite al raf-forzamento del protocollo di Kyoto, dalla regolazione delle migrazioni internazionali alla risoluzione delle crisi in Medio Oriente o al dispi-egamento di truppe a sostegno delle guerre iniziate dagli Stati Uniti. Di conseguenza, l’Europa è priva dei mezzi per risolvere i suoi problemi “interni”, inclusi quelli istituzionali.

4. Il fatto che l’Europa non abbia una

etieNNe BaliBar

politica globale implica che non vi siano, se non raramente, politiche globali originate dalle nazioni europ-ee. Le nazioni europee dunque non hanno, se non raramente, politiche interne che presentino alternative reali. In questo senso, le elezioni na-zionali funzionano un po’ come un trompe-l’oeil, che però non riesce a ingannare tutti: da questo nasce una progressiva depoliticizzazione. Le questioni globali riemergono dunque in una forma puramente ideologica: “lo scontro di civiltà” e affini.

5. Le cause di questa situazione van-no rintracciate nell’evoluzione delle relazioni di potere storicamente ereditate, rinforzate dallo stato di cose presente. Ma questa evoluzi-one – che conferisce alla “costruzi-one europea” una funzione di pura reazione o di puro adattamento – non può spiegare tutto. Dobbiamo completare questa constatazione con un’altra: nella maggioranza della popolazione europea vi è una disast-rosa incapacità collettiva ad immag-inare politiche alternative, e questo è fortemente legato all’incertezza che incombe sull’identità politica dell’Europa.

6. L’identità europea, dal punto di vista dell’eredità iscritta nelle istituz-ioni, la geografia, la cultura che deve mantenere, si trova a fronteggiare due problemi, la cui soluzione sarà raggiunta solo a costo di conflitti ed errori. Da un lato deve superare la divisione Est-Ovest, che cambia po-sizione in diversi momenti nel tem-po, che viene associata agli antago-nismi tra “regimi” e “sistemi” (non senza i suoi paradossi, per esempio quando l’“occidentalismo” si è diffu-so all’Est in seguito alle “rivoluzioni” o “contro-rivoluzioni”), ma non è mai scomparsa. Dall’altro lato, deve trovare un equilibrio tra un’Europa “chiusa” (dunque ristretta, ma den-tro quali confini?), che qualcuno potrebbe voler omogeneizzare, e un’Europa “aperta” (non tanto una Grande Europa, piuttosto, un’Europa delle frontiere, consapevole della sua costitutiva compenetrazione con i vasti spazi euro-atlantico, euro-asia-tico, euro-mediterraneo, euro-africa-no). Per andare avanti, l’Europa deve inventare una geometria variabile, una forma di stato e amministrazi-one senza precedenti nella storia.

7. Di fronte al pur relativo declino dell’egemonia statunitense nel mon-do, l’Europa deve scegliere tra due strategie, che gradualmente avranno conseguenze in ogni area della vita politica e sociale: o cercare di for-mare uno dei “blocchi di potere” (Grossraum) che entreranno in com-

petizione per la supremazia mondiale, o formare una delle “mediazioni” che tenteranno di dare vita ad un ordine economico e politico nuovo, più equo e più decentralizzato, più verosimil-mente capace di limitare i conflitti, di istituire meccanismi di redistribuzi-one, di mantenere sotto controllo le rivendicazioni egemoniche. La prima via è destinata a fallire. La seconda è improbabile senza una considerevole coscienza collettiva e volontà politica, che raccolga l’opinione pubblica del continente. Quel che è certo è che i termini dell’alternativa non possono essere concentrati in una retorica di compromesso tra burocrazie nazi-onali e comunitarie.

8. Tra il “Nord”, al quale la maggior parte dell’Europa appartiene, e il “Sud” (la cui geografia, economia e grado di integrazione statale sono sempre più variabili), non c’è solo un’interdipendenza ma una gen-uina, reciproca possibilità di svilup-po (o “co-sviluppo”). È importante riconoscere questa possibilità, e trasformarla in un progetto politico. L’Europa è stata il punto di partenza per l’“occidentalizzazione del mon-do”, seguendo modalità segnate dalla dominazione, seppure in gradi diver-si. Il fatto che queste modalità siano ora universalmente messe in discus-sione rappresenta sia un ostacolo che un’opportunità da cogliere: sono le due facce del “post-coloniale”. Solo

un progetto come questo potrebbe permettere di trovare un equilibrio tra un’Europa incentrata su legge e ordine, che reprime violentemente le migrazioni che essa stessa pro-voca, e un’Europa senza confini, ap-erta a migrazioni “selvagge” (ovvero, migrazioni interamente guidate dal mercato degli strumenti umani). Solo questo potrebbe permettere di indirizzare conflitti di interessi e conflitti culturali tra europei “vec-chi” e “nuovi”, “legali” e “illegali”, “comunitari” e “extracomunitari”. Non è una priorità amministrativa, è una priorità esistenziale.

9. Sullo sfondo dell’ininterrotta crisi mediorientale, è necessario creare uno spazio politico che inglobi tutti i paesi intorno al Mediterraneo: solo uno spazio di questo tipo può offrire un’alternativa allo “scontro di civiltà” in quest’area sensibile e cruciale. Per quanto riguarda la questione israelo-palestinese, che ne è l’epicentro, va rigettato il discorso estremista anti-sionista; piuttosto, è necessario, al più presto e in modo concertato, fermare l’espansione israeliana e riconoscere i diritti dei palestinesi – diritti che, tra l’altro, sono ufficialmente sostenuti dalle nazioni europee. Più in gen-erale, questo focolaio di guerre e odi etnico-religiosi dovrebbe essere tras-formato in un sito di cooperazione e negoziazione istituzionalizzata, con ripercussioni in tutto il globo. Per ov-vie ragioni, dovrebbe essere l’Europa a prendere l’iniziativa.

10. Cruciale per l’alter-globalizzazi-one sono i seguenti “cantieri” giu-ridici e politici:- La regolazione democratica dei flussi migratori, dunque la riforma

del diritto di mobilità e di residenza, ancora fortemente connotato dagli interessi nazionali, a spese della reci-procità;- La “sicurezza collettiva” e, rispettiva-mente, la responsabilità penale degli stati e degli individui davanti alle is-tituzioni sovranazionali, dunque la riforma dell’ONU, ancora bloccata dalla difesa di posizioni ereditate dalla seconda guerra mondiale e dalla logica di potere;- Il rafforzamento delle garanzie di libertà individuale, diritti delle mi-noranze e diritti umani, dunque le condizioni pratiche e legali dell’ingerenza umanitaria.- L’emergere di istanze di negoziazi-one e regolazione economica, di con-trollo dell’evasione fiscale e di garan-zia diritti sociali, così da proiettare su scala globale il modello keynesiano ora smantellato a livello nazionale;- Infine, rendere prioritari i rischi ecologici rispetto ad altri fattori di insicurezza.La lista non è chiusa, ma dimostra quanto sono diversi e interconnessi gli elementi che ora formano, su una scala globale, la sostanza della po-litica reale.

11. Le tesi elencate sono solo pro-poste per orientare e aprire un di-battito. Piuttosto che presentare soluzioni, sono tentativi di spiegare contraddizioni che non possono es-sere ignorate. Ora si tratta di stabilire pietre di paragone su cui misurare rigore e integrità per un dibattito po-litico in Europa oggi. E questo dibat-tito, speriamo, ci renderà capaci di integrarle, chiarirle, modificarle. Etienne Balibar insegna filosofia e teoria

politica a Paris X Nanterre e University of

California, Irvine.

“ogNi scelta politica locale

iN campo ecoNomico, sociale,

culturale, di orieNtameNto

istituzioNale implica uNa

scelta cosmopolitica”.

Marc Riboud,Bal celebrating the Independance of nigeria, Nigeria, 1960© Marc Riboud / Courtesy www.hackelbury.co.ukwww.marcriboud.com

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giugno/luglio 09il mito di europa

PENSIERI PER UNA SINISTRA EUROPEAUna sinistra europea coerente deve sorpassare tre dilemmi e proporre un’alternativa politica positiva.

La Sinistra europea si trova in uno stato di crisi da al-meno tre decenni. La causa e’ da ricercare in molteplici fattori, economici e socio-

culturali: il post-fordismo e la tran-sizione ad una fase “fluida” di capi-talismo; la trasformazione degli ideali emancipatori della rivoluzione del ’68 in un sistema basato sull’edonismo e sul consumo individuale; l’ideologia postmoderna; la decostruzione del welfare state; e, infine, il collasso del socialismo reale nel blocco orientale. A nostro avviso, almeno tre fonda-mentali dilemmi – opposizioni fon-damentali che determinano la strut-tura del pensiero di sinistra all’inizio del XXI secolo – vengono affrontati erroneamente e costituiscono la fonte principale del problema.

Il primo dilemma riguarda la scala dell’azione: il dilemma tra cosmo-politismo e nazionalismo. Gli oppos-itor del corrente modello di globaliz-zazione si suddividono in due gruppi.

Michal sutowki (di krytyka PolityczNa)

Da un lato, ci sono quelli che difen-dono lo stato sovrano, i cosiddetti “anti-globalist”, la cui strategia è ba-sata sulla difesa di società, economie e comunità dall’influenza distruttiva del flusso di capitale, attraverso il raf-forzamento dello stato nazione e del protezionismo. Per quanto riguarda l’Europa, essi sono spesso contro lo sviluppo dell’integrazione europea. Dall’altro lato, abbiamo coloro che appoggiano l’idea di un governo cos-mopolita globale che coordinerebbe livelli successivi di governo e regoler-ebbe il flusso economico, per mezzo della costituzione di quella grande comunità che è il Genere Umano. Entrambe le soluzioni sono però vi-coli ciechi. La prima non riconosce l’asimmetria di forze tra grandi im-prese e governi nazionali. Inoltre, non riconosce il fenomeno della competizione tra diverse località (Standortkonkurrenz), che tende a far defluire capitale verso paesi i cui governi concedono alle imprese tasse e standard di protezione sociali infe-riori. La seconda soluzione richieder-ebbe strutture e istituzioni di dimen-sioni inimmaginabili (quanti mem-bri dovrebbe avere un parlamento mondiale genuinamente democra-tico?); ma soprattutto sarebbe basata su assunti universalisti e altamente eurocentrici. In particolare, questo varrebbe per quei principi filosofici di legge che dovrebbero valere in una presunta “repubblica globale”.

Il secondo dilemma che si ri-trova comunemente riguarda l’atteggiamento verso ciò che viene più ampiamente riconosciuto come “sistema”: ovvero, tra coloro che ap-poggiano il cambiamento da una posizione moderata di centro (ad es-empio la Terza Via dei vari Giddens, Blair, Schröder) e coloro che invece sono per una resistenza radicale e uno smantellamento del sistema “dall’esterno”. La prima posizione in questo conflitto trova la sua gius-tificazione nella “presa di coscienza della necessità storica”, per dirla con Fukuyama, del neo-liberalismo e della sua inevitabilità. Allo stesso tempo, essa appoggia l’idea, tipicamente di destra, di trasferire il conflitto po-litico originario dall’economia alla cultura. La Sinistra può permettersi di lottare contro la Destra per i dir-itti dei gay, delle donne, dei bambini, dei migranti e così via, ma il capi-tale, liberato, canta vittoria indistur-bato sullo sfondo. Così la lotta per il riconoscimento rimpiazza (invece di completare) la lotta per la redis-tribuzione, mentre la mancanza di un’alternativa di sinistra spinge gli esclusi sociali nelle braccia dei popu-listi (Haider, Le Pen). Dall’altra parte, il radicalismo anti-sistema permette ai suoi partecipanti di mantenere il loro valore ideologico incorrotto dal contatto con il centro maggiori-tario dei media, della politica di at-tualità e le sue istituzioni politiche. Tuttavia, come giustamente fa notare Slavoj Žižek, il sistema capitalistico è capace di costituire il suo proprio “Fuori”, in cui i suoi critici vengono prontamente inclusi. I sostenitori della rottura radicale, promuovendo un giudizio presunto “dall’esterno”, sostengono e legittimano perfet-tamente lo status quo. In vari modi: costruendo un’altra nicchia eco-nomica (chiamata “rivolta radicale”); riconoscendo il pluralismo (“Ehi, guardate quanto promuoviamo la libertà di parola, persino gente strana come quella può esprimersi!”); o, nel caso estremo, costruendo un nemico-Altro esiliato dalla struttura sociale e simbolica della comunità liberale (il “combattente nemico” a Guantanamo).

Il terzo dilemma riguarda il sog-getto del cambiamento: chi sono i “Dannati della Terra”? In questo caso, c’è chi sostiene che ci sia un “inter-esse collettivo oggettivo” di una certa classe, sottoclasse o proletariato, che sia conscia o meno, e chi sostiene che esistano solo gruppi di interesse sep-arati – gli handicappati, per esempio, o i soggetti a discriminazione. Questi ultimi sostengono che si posssno portare avanti lotte a ciascun micro-livello – gay, femministe, lavoratori sottopagati – separatamente, senza

che sia mai possibile costituire un movimento politico. Al lato opposto c’è chi invece crede possibile che le moltitudini create dal capitalismo fluido e azionate da una qualche “mano invisibile” possano rovesciare il sistema armoniosamente e senza bisogno di alcun coordinamento in-tenzionale. Ma entrambe le soluzioni ci porterebbero fuori strada. I sistemi di gerarchia, sfruttamento, domina-zione e discriminazione sono molto più complessi di una divisione di classe. Gli interessi individuali e col-lettivi non sono “oggettivamente” concorrenti, mentre le loro fonti di oppressione non sono necessaria-mente le stesse. “Micro-fughe” sepa-rate tra loro perciò si riveleranno inef-ficaci, poiché tattiche specifiche pos-sono rivelarsi spesso contraddittorie tra loro. Molti ricchi gay polacchi, per esempio, hanno votato per il partito liberal-conservatore, perché le tasse più basse avrebbero permesso loro di trasferirsi in quartieri più sicuri.

La capacità critica è sempre stata un punto di forza per la Sinistra, ma raramente ha preso una direzione positiva. Non ci si dovrebbe chiedere che cosa è sbagliato, ma, come diceva Tchernischevsky (ispirando Lenin): “Che fare?”. Tornando a guardare ai dilemmi appena descritti, forse l’unica soluzione attendibile rimane la costruzione di un blocco demo-cratico regionale. Certo, con ciò non ci vogliamo riferire a esempi come

il NAFTA, ma piuttosto a qualcosa come il MERCUSUR sudamericano o l’Unione europea. Ovviamente, i loro attuali svantaggi e mancanze sono evidenti (mancanza di coerenza po-litica, tasse e politiche sociali decise a livello statale, e soprattutto l’enorme deficit democratico). Ciò nonostante, si tratta di forti strutture regionali che rappresentano una grande opportu-nità di organizzare il mondo su larga scala: la posizione di territori perif-erici sarebbe rafforzata, ma la mod-ernizzazione non verrebbe a signifi-care occidentalizzazione, e le diverse regioni svilupperebbero in modi di-versi il controllo dei mercati e la redis-tribuzione. Anche rispetto al tema dei diritti umani, il modello dei blocchi regionali risulterebbe più consono al pluralismo e alla contestualizzazi-one locale, rispetto all’universalismo contemporaneo e al suo imperativo di uniformità al modello occidentale. Infine, il fatto che esistano piu’ pos-

sibilità favorisce uno sviluppo più democratico delle norme globali, rispetto a ciò che accadrebbe in un mondo unilaterale. L’idea europea di soft power (il nostro contributo più prezioso all’ordine globale, oserei dire) si radicherebbe più facilmente in una Poliarchia globale.

Superando un’altra falsa oppo-sizione – coinvolgimento o rigetto della corrente principale – comin-ciamo così a “spostare la corrente principale”. Pur rimanendo in una struttura di democrazia liberale, dovremmo ripristinare il concetto di politica come sfera dell’agon, e non del consenso. In secondo luogo (e questo sarebbe un genuino passag-gio a sinistra), dovremmo cercare di ampliare la portata di ciò che può essere detto legalmente nella sfera pubblica. C’è bisogno di presenza nei mass-media, di costruire un net-work di associazioni, del simbolismo credibile di un progetto politico. La Sinistra deve apparire nei media – non come provocatore, ma come rappresentante di una visione polit-ica coerente, sostenuta da un back-ground accademico, culturale, pop-culturale. Come sosteneva Gramsci, la sfera politica si conquista dopo aver conquistato quella culturale.

Per rispondere alla terza ques-tione, quella riguardo al soggetto del cambiamento, si potrebbe affermare che il ruolo della politica è di deter-minare correttamente chi siano i “Dannati della Terra”. Interessi diversi non sono oggettivamente conver-genti, e solo un’appropriata contes-tualizzazione e definizione può aiu-tare a trovare i legami mancanti, una “logica dell’equivalenza”, nelle parole di Chantal Mouffe. La sofferenza, l’indebolimento e la bassa autostima di individui e gruppi non può essere ridotta ad un conflitto. Il compito pratico e intellettuale della Sinistra dovrebbe essere di offrire loro una di-mensione politica comune.

Le crisi sono sempre state una minaccia, ma anche una possibilità per la Sinistra. Il 1929 diede vita allo stato sociale negli USA. Lo stesso ri-sultato in Europa fu imposto dai carri armati di Stalin sull’Elbe. Forse il pre-sente collasso dei mercati finanziari aiuterà a finirla con l’idea della “fine della storia”, che offre come uniche opzioni di scelta il capitalismo edon-istico americano o il capitalismo servile cinese. Cosa abbiamo in compenso? Per parodiare una frase, probabilmente mai pronunciata da Marx (nonostante ciò che sperava Sorel): a questo riguardo, persino il pensiero più semplice è reazionario. Si vedrà. Michal Sutowki e’ redattore di Krytyka

Polityczna, una rivista e piattaforma politica

polacca

“la siNistra deve apparire

Nei media – NoN come

provocatore, ma come

rappreseNtaNte di uNa

visioNe politica coereNte.”

Angèle Etoundi Essamba Rupture 2, 1993,

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il mito di europa

CONTRO L’ESCLUSIONE NELLA POLITICA GLOBALEla politica globale è un club d’elite a cui i cittadini non sono invitati. Bisogna battersi per la democratizzazione delle istituzioni internazionali.

Ogni anno a settem-bre si riunisce a New York l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. E’

una tribuna importante in cui i capi di governo di 192 stati espongono le loro visioni sulla politica mondiale. Ma non necessariamente i cittadini si sentono rappresentati dalla po-sizione del proprio governo. Alcuni cittadini votano per il governo in carica, altri per l’opposizione. In alcuni paesi, ci sono minoranze etniche che sono sempre escluse dalla compagine governativa. In altri paesi ancora, non si vota af-fatto. E soprattutto, non è detto che la popolazione abbia le stesse in-tenzioni dei loro governi sui grandi problemi dell’umanità, quali la questione ambientale, le emer-genze umanitarie o l’aiuto allo sviluppo.

L’Assemblea Generale non è l’unico organo dell’ONU; ogni settimana si riunisce anche il Consiglio di Sicurezza, chiamato a prendere decisioni urgenti in ma-teria di guerra e pace. I membri del Consiglio di Sicurezza sono tutta-via soltanto quindici. Tolti i cinque membri permanenti, gli altri dieci seggi sono contesi tra ben 187 paesi. 73 stati non sono mai stati eletti nel Consiglio. In una parola, il Consiglio prende decisioni per tutti, ma a decidere sono i soliti noti.

L’ONU dispone di molti altri organismi e agenzie special-izzate: tramite di esse svolge una opera spesso lodevole a fa-vore dell’infanzia, della salute, dell’alimentazione, dei rifugiati e dello sviluppo. Eppure, il meccan-ismo di comando è sempre affidato esclusivamente ai governi, i quali di comune accordo nominano i vertici e stabiliscono le priorità. E spesso queste priorità non sono quelle per-cepite dagli individui che, in linea di principio, dovrebbero benefici-arne. Grandi progetti della Banca Mondiale si sono risolti nella cos-truzione di mega dighe che hanno devastato l’ambiente, i programmi di ristrutturazione del Fondo mon-etario hanno spesso portato paesi in via di sviluppo nella depressione

daNiele archiBugi

economica, e così via.Le decisioni più importanti

sulle questioni finanziarie mondiali sono prese nei vertici del G7 o del G8. 184 o 185 paesi ne sono esclusi e, con loro, più di cinque miliardi di abitanti della terra. In questi vertici si esibiscono i muscoli economici: il G8, ad esempio, accentra il 65 per cento del Prodotto interno lordo mondiale, ma solamente il 14 per cento della popolazione. Le cose vanno un po’ meglio quando si riu-nisce il G20, che accentra due terzi della popolazione della terra. Ma non si sente certamente soddisfatto quel restante terzo di popolazione del mondo, i cui governi rimangono fuori dalla porta. Inoltre, i vari G7, G8, G20, G-extra-large o G-extra-small non hanno uno statuto né sono tenuti a rispettare la pubblic-ità degli atti e molte delle decisioni prese sono imperscrutabili per i comuni mortali.

Le organizzazioni inter-gov-ernative non sono l’unica forma di rappresentanza nella sfera globale. Ogni gennaio si riunisce a Davos l’esclusivo World Economic Forum. E’ un club dove i rappresentanti delle grandi imprese, alcuni mem-bri dei governi e varie altre celebrità dibattono dei problemi del pianeta. Ma le celebrità sono poche, gli abit-anti del pianeta sono molti. E se non sei una celebrità, Davos ti ignora.

Non occorre essere una star per partecipare al World Social Forum sorto a Porto Alegre. Il World Social Forum mira ad essere uno “spazio aperto, plurale, diverso, non governativo e non partigiano”. Sarà forse per questo che spesso riesce ad essere più sensibile ai problemi dei poveri di quanto ri-esca ad altre istituzioni più vicine all’establishment. Ma la legittimità del World Social Forum è limitata, e non si è mai certi chi rappresentino le decine di migliaia di partecipanti che animano le loro discussioni. E le proposte lì discusse, anche quando dovrebbero essere condivise da tutte le persone di buon senso, re-stano lettera morta, perché chi de-tiene il potere le ignora.

Se si è un semplice cittadino, insomma, non si ha alcuna possi-bilità di esprimere le proprie opin-ioni sulla politica mondiale, e ancor meno di potersi affidare ad un or-ganismo che risponda alle istanze dei cittadini. Ci si può sempre affi-dare alla buona volontà dei governi nazionali, sperando che essi siano capaci di rappresentare le esigenze del proprio paese nella sfera inter-nazionale. Ma in questi consessi, ciascun governo ha il mandato di rappresentare il proprio paese e di difendere gli interessi nazionali. Piuttosto che perseguire l’interesse generale, nei casi migliori i gov-

erni si limitano a strappare qualche vantaggio contingente. La consegu-enza è che i beni pubblici globali quali la qualità dell’ambiente, la sicurezza, i bisogni essenziali, re-stano inascoltati.

L’esclusione dalle scelte glo-bali genera risentimento e rabbia. I gruppi marginalizzati possono pensare di far sentire la propria voce ricorrendo alla violenza o ad azioni spettacolari che, per quanto del tutto incapaci di risolvere i loro problemi specifici, servono almeno a segnalare il fatto che la Terra os-pita anche loro. Chi non trova un canale aperto e trasparente per dire ciò che pensa e quello di cui ha bi-sogno diventa un soggetto incon-trollato: può diventare un pirata, un predone un terrorista. E’ quindi nell’interesse di tutti adoperarsi af-finché nessuno si senta escluso.

E’ possibile far sì che tutti gli abitanti del pianeta, indipenden-temente dal loro stato, religione e opinioni, si sentano effettiva-mente rappresentati? Alcuni vi-sionari hanno suggerito di for-mare una Assemblea Parlamentare Mondiale, una istituzione comple-mentare all’Assemblea degli stati dell’ONU che possa consentire a tutti di esprimersi tramite i propri rappresentanti. Non c’è da attend-ersi che tale Assemblea possa avere a sua disposizione molti poteri.

Dovrebbe avere una funzione con-sultiva, concentrandosi sui prob-lemi comuni dell’umanità, indicare le priorità e tentare di fornire delle risposte nelle aree più critiche.

In una epoca in cui la democ-razia è universalmente lodata come unico metodo legittimo di governo, sembra strano che non ci sia ancora stata la volontà di realiz-zarla anche al livello che riguarda tutti, quello del pianeta. Ma dare ai cittadini del mondo uno stru-mento, anche se puramente sim-bolico, potrebbe avere effetti im-prevedibili. Potrebbe far vedere che quanto scritto nell’Agenda dei vertici che si svolgono a New York, Washington o Davos sono assai diversi di quelli percepiti. Potrebbero addirittura far vedere come sottraendo ben poche risorse a coloro che ne hanno troppe si potrebbero risolvere i problemi di milioni e milioni di persone che hanno troppo poco. Deve essere proprio per questo che le èlites al potere bollano l’idea stessa come chimera. Sanno bene che il prop-rio dominio nella politica estera è quello che garantisce anche quello nella politica interna. Daniele Archibugi ha pubblicato Cittadini

del mondo. Verso una democrazia cos-

mopolitica, Il Saggiatore, Milano, 2009.

L’edizione inglese è stata pubblicata dalla

Princeton University Press.

Angele Etoundi Essamba Symbole 3, 1999,

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giugno/luglio 09il mito di europapa

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INTERVISTA CON NANCY FRASERnancy fraser è una delle più importanti teoriche femministe contemporanee. con il Mito di europa ha parlato di transnazionalizzazione della sfera pubblica, giustizia radicale, crisi economica e di come separare femminismo e neoliberalismo.

EA: Hai lavorato molto sulla nozione di sfera pubblica. In quali modi la globalizzazione ha mutato la sfera pubblica? Anche la sfera pubblica è diventata transnazionale?NF: Oggigiorno il flusso del discorso politico pubblico non rispetta i con-fini, ed è spesso transnazionale. Di conseguenza la teoria della sfera pubblica, come sviluppata origi-nariamente da Jurgen Habermas, è messa profondamente in discus-sione. Ciò che ha reso l’idea di sfera pubblica di Habermas un concetto problematico è la tacita assunzione che l’arena in cui l’opinione pubblica circola e in cui può riunire forza po-litica sia uno stato territorialmente definito – una comunità nazionale chiusa. Grazie a tale assunto “west-faliano”, la sfera pubblica funzionava come la controparte della società civ-ile del moderno stato-nazione. Così, ciascuna delle due indispensabili “strade” della politica (la strada in-formale della società civile e la strada formale delle istituzioni) erano al loro posto e ben accoppiate, iso-morfe l’una all’altra. A partire da tali presupposti, questa teoria poteva of-frire una critica relativamente chiara degli stati democratici esistenti, che risultavano “difettosi” perché le loro sfere pubbliche mancavano di legit-timazione ed efficacia. In altre pa-role, perché i processi comunicativi attraverso cui si formava l’opinione pubblica erano ristretti e non ac-cessibili a tutti allo stesso modo; e/o perché l’opinione pubblica mancava della forza politica per influenzare gli attori statali e caricarli di responsabil-ità. In questo modo, la teoria forniva un punto di riferimento chiaro per valutare la realtà sociale. Ma la chia-rezza svanisce quando consideriamo i complessi circuiti transnazionali in cui l’opinione pubblica circola oggi. Dove sono i poteri pubblici istituzi-onalizzati che l’opinione transnazi-onale dovrebbe ritenere responsa-bili e verso cui dovrebbe rivolgersi? Dove sono le autorità pubbliche

che abbiano la capacità di risolvere problemi che attraversano i confini, come il riscaldamento globale o la crisi finanziaria, nell’interesse gen-erale delle popolazioni, a prescind-ere dalla loro appartenenza nazion-ale? Dove si trova uno status politico condiviso – una sorta di cittadinanza condivisa – che posizioni i membri della società civile (publics) transna-zionale in termini di parità reciproca, di eguali diritti di partecipazione e di espressione? Oggi tutto questo non esiste, e la combinazione tra cit-tadini (publics) e stati presupposta dalla teoria della sfera pubblica non si trova da nessuna parte. Senza una combinazione tra l’opinione pub-blica da una parte, e i poteri pubblici dall’altra, oggi gli ideali critici della sfera pubblica rischiano di perdere significato.

EA: Potresti fornire alcuni esempi che spieghino questa perdita di complementarità tra opinione pub-blica e le istituzioni statali?NF: Ci sono due problemi opposti ed uguali. In un caso ci sono poteri amministrativi che operano su scala transnazionale, ma non ci sono sfere pubbliche transnazionali così vaste, dove gli attori della società civile pos-sano formare e mobilitare l’opinione pubblica. Questo è ciò che accade oggi nell’Unione europea, che può contare su un apparato amministra-tivo relativamente forte a Bruxelles, ma non su di una sfera pubblica di estensione propriamente europea: il dibattito è ancora nazionale. Lo si è visto nel “no” francese alla costituzi-one europea, dettato in gran parte da considerazioni di politica interna. In questo caso la scala del potere istituz-ionale supera quella dell’opinione

pubblica. L’opinione pubblica euro-pea non è sufficientemente transna-zionale perché i poteri amministra-tivi europei si sentano responsabili. Ma a volte si verifica il problema opposto, ad esempio nelle dimos-trazioni del 15 Febbraio 2003 contro l’imminente invasione statunitense dell’Iraq. Si trattò di un evidente sfogo globale di sentimento pub-blico, che rappresentava il culmine di eccezionali flussi di comunicazione e contestazione nei mesi precedenti. In quell’occasione si era sviluppato qualcosa che si avvicinava ad una sfera pubblica genuinamente tran-snazionale – addirittura globale –,

ma che effetti ha avuto? Dopo poche settimane Bush ha mandato truppe e carri armati in Iraq. Non esisteva un’autorità pubblica transnazionale che potesse dare una forma istituzi-onalizzata al sentimento contro la guerra e rendere efficace l’opinione pubblica. In questo caso, dunque, la scala transnazionale dell’opinione pubblica superò la governance glo-bale. Fino a che non affrontiamo tali discrepanze di scala, di entrambi i tipi, finché non troviamo un modo per superarle, la teoria della sfera pubblica resterà priva di quella forza critica che aveva prima, quando pre-supponeva il livello nazionale.

EA: Credi che la crisi finanziaria chiami in causa nuove istituzioni transnazionali? NF: Sì: non ci sarà nessuna soluzi-one duratura e sicura finché non creeremo istituzioni transnazionali – in certi casi globali – democratica-mente responsabili, con la capacità di regolare mercati, banche, finanza. In quest’area, ci sono deficit ad en-trambe le estremità: l’opinione pub-blica non è adeguatamente bilan-ciata, ma non lo sono nemmeno le capacità regolative delle istituzioni. Per questo la situazione presente è così difficile. Normalmente il proc-esso di democratizzazione funziona quando le istituzioni esistono già, e ci sono movimenti sociali che le vogliono democratizzare. Prima ci sono le monarchie e poi le repubbli-che, giusto? Nella situazione in cui ci troviamo ora non esistono autorità pubbliche globali transnazionali – dobbiamo costruirle e democra-tizzarle allo stesso tempo. Esistono alcune istituzioni, come il FMI o l’OMC, che vanno certo democratiz-zate, ma altre autorità pubbliche che sarebbero necessarie non esistono proprio.

EA: Passiamo ora alle tue riflessioni sulla giustizia. Hai scritto molto riguardo al tema del “riconosci-mento” in teoria politica. Cosa in-tendi quando usi questa categoria?NF: La mia interpretazione va contro la versione canonica di riconoscimento come un prob-lema di identità. Diversamente da quell’interpretazione, io intendo il riconoscimento come un prob-lema di status. Per me la questione non è se gli altri affermano la mia esistenza personale o collettiva, ma piuttosto se le norme istituzional-izzate che regolano le nostre inter-azioni mi permettono di partecipare come eguale nella vita sociale. Nella mia visione, dunque, la politica del riconoscimento non deve mani-festarsi come politica identitaria.

Piuttosto, dovrebbe cercare di de-istituzionalizzare modelli gerarchici di valore culturale che impediscono a certe persone dal partecipare su un piano di parità con altri nelle in-terazioni sociali, e di rimpiazzarli con modelli di valore che rafforzino la parità. Dovrebbe aspirare, in altre parole, allo smantellamento delle diseguaglianze di status e a stabilire eguaglianze di status.

Perciò io distinguo tra la politica del riconoscimento dalla politica della redistribuzione. Dal mio punto di vista, quest’ultima è una risposta alla subordinazione e stratificazione in termini di classe. In questo caso ci si domanda se tutti hanno le risorse necessarie a partecipare pienamente, e in termini di parità, all’interazione

sociale. Ma c’è chi, pur avendo risorse sufficienti, non ha la possi-bilità di partecipare alla vita sociale in termini paritari, perché si trova in una posizione di ineguaglianza. In questo caso, l’ingiustizia non sta nella cattiva distribuzione ma nel cat-tivo riconoscimento –un’ingiustizia tanto seria e concreta quanto la precedente. Perciò, propongo che la politica del riconoscimento sia final-izzata a combattere lo status di ine-guaglianza e lo status di subordina-zione. Che si stia parlando di donne, immigrati oggetto di razzismo, mi-noranze etniche, minoranze religi-ose, le lotte contro le ingiustizie del riconoscimento sono importanti per la politica moderna tanto quanto le lotte contro le ingiustizie e la cattiva distribuzione delle risorse. Per me, in altre parole, classe e status sociale costituiscono due ordini di subordi-nazione, distinti analiticamente ma sovrapposti nelle società moderne.

EA: Quando parli di “ingiustizia di status”, qual è la nozione di ingius-tizia a cui ti riferisci?NF: La mia ambiziosa nozione di giustizia si riferisce alla parità di partecipazione. Non è sufficiente, a mio avviso, avere eguali diritti for-mali, o eguali opportunità formali. Non sarebbe nemmeno sufficiente avere la stessa quantità di risorse o di beni primari, anche se fosse pos-sibile. Sono necessari accordi sociali che non creino sistematici ostacoli istituzionali alla parità di parteci-pazione. Dunque per me la giustizia

consiste nello smantellare gli ostacoli alla parità, istituzionalizzati in con-venzioni sociali ingiuste. Se mi chiedi come giustifico un’interpretazione di giustizia democratica così ambiziosa e radicale, ti posso dare una spiegazi-one concettuale. Dirò che la visione di giustizia come parità di parteci-pazione è un’interpretazione radicale democratica precisamente di quella norma di eguale rispetto per e uguale autonomia di tutti gli esseri umani. Per come lo interpreto io, eguale rispetto significa semplicemente parità di partecipazione. Non sod-disfare questa condizione significa farsi beffe della nozione di eguale dignità di tutti gli esseri umani. Ti posso dare anche una spiegazione storica. Nel tempo, le nostre nozioni di eguaglianza sono diventate sem-pre più esigenti. Per un verso, queste nozioni sono diventate più profonde, nel senso che sono state applicate a sfere della vita sempre più numer-ose. Originariamente, la nozione di eguale rispetto aveva un significato molto ristretto, ovvero eguale ac-cesso alle corti e libertà di coscienza nella sfera religiosa. In seguito, si giunse a farlo valere anche nella vita politica – dunque si diffusero le riv-endicazioni per avere voce politica, per l’allargamento dei diritti di cit-tadinanza. Successivamente ancora, arrivò la nozione che l’eguale ris-petto valeva anche per il mercato, e implicava diritti economici e so-ciali. Poi, con il femminismo, arrivò l’idea che l’eguaglianza si doveva applicare anche all’interno della famiglia e della vita personale. Allo stesso tempo, l’idea di eguale ris-petto è diventata meno formale e più sostanziale. Dunque, riprendendo il famoso esempio di T. H. Marshall, non è sufficiente affermare che, in teoria, ognuno ha il diritto di citare in giudizio. Perché questo diritto sia reale, ognuno deve avere i mezzi per esercitarlo: se non ti puoi permettere un avvocato, te ne verrà fornito uno. Da questo esempio si può vedere che l’eguaglianza ha una dimensione materiale. Perciò, ad esempio, per-ché le professioni siano davvero ap-erte ai talenti, non solo si deve dare l’assenza di impedimenti esterni ma c’è anche bisogno anche mezzi posi-tivi, come una libera educazione pub-blica e un’equa divisione del lavoro domestico. Questi esempi mostrano come il significato di eguaglianza è diventato sempre più sostanziale ed esigente. Di fatto, è arrivato a signifi-care libertà di partecipazione.

EA: Ci piacerebbe discutere con te del termine “femminista”. Sei stata spesso descritta come una femmin-ista, e mi pare di capire che tu non

“dove soNo i poteri pubblici istituzioNalizzati che

l’opiNioNe traNsNazioNale dovrebbe riteNere

respoNsabili e verso cui dovrebbe rivolgersi?”

“il femmiNismo potrebbe riaffermare la sua critica

del maschilismo del capitalismo.”

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il mito di europa

abbia problemi con questo termine. Ma c’è chi vede questo termine come una barriera, anche tra chi faceva parte del movimento femminista negli anni ’70 c’è chi preferisce non essere definito in quel modo. Cosa ne pensi? Ti sembra che questo ter-mine sia problematico?NF: Sono più preoccupata del fenom-eno opposto. Oggi chiunque dichiara di essere femminista. Persone come me, che a lungo si sono identificate con il femminismo come movimento sociale e aspiravano a combattere le ingiustizie di genere, si trovano spos-sessate di questo termine. Altri lo rec-lamano, al servizio di altri progetti. Così, ad esempio, Sarah Palin dichi-ara di essere femminista, e lo stesso fanno elementi della destra cristiana americana: quelle stesse persone che non tanto tempo fa inveivano contro le “naziste femministe”. In generale, le idee femministe sono diventate così largamente diffuse che sono diventate parte del senso comune. Praticamente chiunque oggi dichi-ara di essere femminista, ma cosa significa? E cosa ha a che fare con il movimento sociale di cui io facevo parte?

Recentemente ho avanzato l’ipotesi che il femminismo fa parte del nuovo spirito del capitalismo, che è diventato un’ideologia che legit-tima il neoliberalismo. Sappiamo che il neoliberalismo implica l’ingresso massiccio delle donne nel lavoro sal-ariato in tutto il mondo. Cosa motiva queste donne? Cosa dà un signifi-cato etico alle loro lotte giornaliere? Mi pare che il femminismo serva come necessaria forza moralizzante, ai due capi dello spettro delle pos-sibilità: sia per la professionista che cerca di rompere la “barriera invisi-bile”, sia per le precarie, le lavoratrici part-time, le lavoratrici nei paesi in via di sviluppo, che scelgono il lavoro salariato non solo per guadagnarsi da vivere ma alla ricerca di dignità e liberazione dall’autorità tradizion-ale. Se ciò è vero, allora ci troviamo nella situazione, sviante, in cui un movimento che un tempo poneva una sfida radicale al maschilismo del capitalismo ora serve a legittimare, o persino a rendere affascinante, il lavoro salariato. Questo pone un enorme problema per le femmin-iste in senso stretto come me. Via via che le nostre idee sono diffuse e re-interpretate, ci troviamo di fronte al nostro doppio inquietante, che sia nei panni di Sarah Palin, o Hillary Clinton o Ségolène Royal. Se oggi chiunque è femminista, allora “fem-minista” è diventato un termine come “democrazia”, che può essere usato per qualunque scopo, inclusi gli scopi che vanno direttamente contro la giustizia di genere.

EA: Se la causa femminista è stata di-rottata dalla destra, come dovrebbe rispondere la femminista?NF: Prima di tutto, il dirottamento è un segno del successo del fem-minismo. Ma non è accaduto solo al

femminismo. Anche altri movimenti hanno trovato le loro idee dirottate per scopi opposti ai loro.

EA: Il movimento ambientalista, ad esempio?NF: Esatto. E questo ci riporta alla nostra discussione sulla sfera pub-blica. Ogni discorso che guadagna una certa dose di credito nella sfera pubblica diventa disponibile per l’articolazione di una varietà di pro-getti politici. Quando il discorso femminista è diventato centrale, è diventato una bandiera da sven-tolare nelle lotte contemporanee per l’egemonia. Allora, sorge la ques-tione: chi vincerà “l’anima” del fem-minismo? Sarà articolato a destra o a sinistra? E poi, esattamente come

il neoliberalismo può aver dirottato certi ideali femministi, così la sua crisi attuale presenta un’opportunità. Questo è un momento in cui le fem-ministe nel senso originale pos-sono provare a riattivare il poten-ziale di emancipazione radicale del movimento. È un momento in cui il “legame pericoloso” di femminismo e liberalismo potrebbe essere rotto. Il femminismo potrebbe riaffermare la sua critica del maschilismo del capi-talismo riaprendo, ad esempio, la questione del salario in una concezi-one umana di vita. Potremmo chied-erci: che ruolo dovrebbe giocare il lavoro salariato in una società mod-erna? Come si dovrebbe relazionare al lavoro della cura e ad altre forme di partecipazione sociale?

EA: Siamo in un tempo di crisi, come hai affermato. Sembra che gli intellettuali non propongano molte alternative, se si paragona questa fase con le crisi precedenti, del XX secolo per esempio. Qual è la tua analisi di questo stato di cose un po’ deprimente?NF: Siamo ancora all’inizio della crisi. Se pensi agli anni Trenta, ci volle un po’ di tempo prima che una sinistra reale emergesse, dive-nisse sicura di sé e sviluppasse una cultura e un discorso che potessero generare nuove idee. Oggi, invece, stiamo affrontando una situazione storica nuova, data l’apparente del-egittimazione del socialismo sulla scia del collasso del comunismo. Fino all’89, sembrava che ci fosse

ancora un’alternativa al capitalismo, ma ora, comprensibilmente, la cosa è considerata in modo molto più scettico. Non direi che sappiamo che non c’è più alternativa al capi-talismo, ma le rappresentazioni di possibili alternative che avevamo un tempo erano forse troppo sem-plici e probabilmente irrealizzabili. Da un lato c’è il grande punto in-terrogativo dell’economia politica – come dovrebbe essere l’economia politica di una società giusta? Dall’altro lato, sia il femminismo che l’ambientalismo sono potenti visioni del mondo, che ora sono disponibili, e mi sembra che siano anche buoni punti di partenza e… be’, dobbiamo tutti cominciare a pensare a queste cose – e in fretta!

© Adam Broomberg & Oliver Chanarin

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lo scandalo della povertà mondiale non richiede solo maggiori aiuti, ma un progetto transnazionale che riallacci gli interessi dei cittadini europei e del mondo.loreNzo Marsili

Sembra esserci un para-dosso fondamentale nella dialettica che cir-conda il fenomeno della globalizzazione. Ci ri-

cordano ogni giorno dell’ineludibile interconnessione supranazionale della realtà economica contempo-ranea, della necessità della com-petizione e dell’efficienza in un mercato del lavoro oramai globale, dell’inevitabilità del sistema capital-sta in un mondo in cui tutti giocano la stessa partita. E siamo noi stessi sempre più coscienti nella nostra quotidianeità della composizione

cosmopolita delle città europee, che offrono una rappresentazione tan-gibile delle migrazioni globali del nuovo secolo e si trasformano in of-ficine per la ricostruzione di comu-nità sganciate dal mero senso local-istico di appartenenza. Ma al tempo stesso, uno sguardo al panorama politico sembra riportarci a un déjà vu di competizione fra stati, avven-ture imperialiste, e una concezione tribale dell’interesse nazionale. Il paradigma Westfaliano di comunità inserragliate che competono per mietere il raccolto planetario sem-bra continuare incontestato.

All’interno di questa realtà, le poche richieste per un comporta-mento veramente ‘internazionalista’ da parte delle nazioni più sviluppate sono viste o in termini di semplice benevolenza, o come un’instrusione interessata e neocoloniale negli af-fari di nazioni terze (come tante esperienze del Fondo Monetario Internazionale hanno portato molti a concludere).

Ma questa dicotomia cancella una considerazione essenziale, e

precisamente la comprensione della responsabilità che portiamo sulle nostre spalle per le politiche inter-nazionali avanzate dai governi che ci rappresentano, politiche spesso atte a mantenere un sistema globale ingiusto e basato su chiare gerarchie di comando e sfruttamento. Questa è una differenza cruciale, ed è qui che si annida la falsa tesi secondo cui i problemi della povertà del mondo non riguardano noi, cittadini del primo mondo, al di fuori dell’aiuto caritatevole che potremmo offrire (con tanta generosità).

Il discorso attuale attorno ai fenomeni migratori è un eccellente esempio di questa rinuncia a una responsabilità che invece ci appar-tiene; l’Europa sembra agire come se i migranti fossero spinti sulle nostre coste da inafferrabili forze gravitazi-onali, o da misteriosi eventi geopolit-ici di cui poco si comprende se non un vago sentore di violenza, paura, e povertà. Lo stato è quindi incline a considerarsi un attore neutrale che non ha nulla a che vedere con i fenomeni migratori, fenomeni a cui

può rispondere o brutalmente, o con simpatia (con carità), attraverso pro-cedure più o meno severe di asilo, un discorso pubblico più o meno aperto alla figura dell’altro, concessione di assistenza sociale e parziale diritti di cittadinanza, ecc.

Ma questo nasconde le connes-sioni fra il fenomeno della migrazi-one e le azioni dei paesi ‘riceventi’

– paesi che spesso erano in passato potenze coloniali – o dei loro princi-pali attori economici. Gli scritti sul cosmopolitismo di Jacques Derrida, assieme a tutta una letteratura sul diritto di ospitalità che hanno stimo-lato, rischiano di far dimenticare la

natura non-straniera delle cause che trasformano uno straniero in un mi-grante, offrendo invece una generosa disposizione del giorno dopo.

Ci si dovrebbe allora forse do-mandare perché, nel ventunesimo secolo, siamo ancora confrontati con livelli talmente mostruosi e moral-mente scandalosi di diseguaglianza nel pianeta. E forse dovremmo vera-mente guardare ai termini degli ac-cordi commerciali, agli effetti della politica agricola europea, o alle im-plicazioni della corsa al ribasso nel mercato del lavoro delocalizzato e deregolamentato. E cominciare a proporre soluzioni alternative, diseg-nando i contorni di una politica che ponga l’essere umano, dovunque si trovi, al centro della propria pratica emancipatoria. Si potrebbe com-inciare con il parlare di un movi-mento verso una diversa concezi-one del ruolo del commercio estero, trasformato da semplice mezzo per l’arricchimento nazionale o europeo a strumento chiave per uno sviluppo globale e concertato, moralizzando i termini degli accordi e ponendo gli

PER UNA POLITICA TRANSNAZIONALE

“ci si dovrebbe forse domaNdare perché, Nel

veNtuNesimo secolo, siamo aNcora coNfroNtati

coN livelli talmeNte iNimmagiNabili, mostruosi,

e moralmeNte scaNdalosi di diseguagliaNza Nel piaNeta.”

Carlos Vergara, Rio BrancoCarnival series, 1972/76www.carlosvergara.art.br

Water is Life, 2007© Julius Mwelu www.mwelu.org

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interessi dei paesi del terzo mondo al centro dell’equazione. Che ogni pro-dotto venduto nel mercato europeo sia prodotto secondo gli standard minimi del commercio equo e soli-dale. O chiedere leggi che governino le delocalizzazioni delle industrie europee, che vadano nella direzione di un’imposizione di un più forte rispetto dei diritti del lavoro e dei lavoratori – in una parola, dei diritti umani, tema su cui l’Europa si vuole vedere esempio internazionale di buona condotta – anche quando la produzione avviene in paesi terzi. La lista può essere allungata a piacimento.

Ma è importante rimarcare che qui non parliamo solamente di rap-porti fra stati, e non solamente di rapporti ‘globali’, con paesi extra-europei. Se guardiamo all’interno dell’Unione europea troviamo un’assurda competizione fra istanze e protezionismi locali, una com-petizione che quasi sempre va a diretto svantaggio dei movimenti sociali e dei lavoratori europei, gi-ocando interamente nelle mani delle compagnie multi- o transna-zionali. Lo spettacolo recente del tentativo di acquisizione della Opel da parte della Fiat fornisce un eccel-lente esempio, con sindacati divisi su linee nazionali, stati che tentano di difendere la produzione sul pro-prio territorio, e nessuna voce uni-taria che rappresenti le istanzi dei lavoratori tutti, o per lo meno dei la-voratori europei, che siano polacchi o italiani, e che sia in grado di par-lare sullo stesso piano su cui opera la dirigenza, un piano dove i confini già non esistono più. Il lavoro po-litico richiesto è quello di tessere insieme queste diverse istanze e prerogative, di contrastare la deriva verso una guerra fra poveri, con i la-voratori europei posti in condizione sempre più servile tramite la minac-cia di impoverimento per la com-petizione di lavoratori a basso costo nei paesi dell’est o del terzo mondo.

Alla fine della seconda guerra mondiale, Lucien Febvre si chiedeva: “Si puo’ concepire che la creazione di un’Europa promossa al rango di istituzione, di organismo, di super-stato… metta fine veramente alle di-visioni, alle guerre, alle miserie di ogni genere che gravano sull’umanita?”. La nostra risposta è che si, è concepi-bile, ma è il concetto stesso di ‘stato’ o ‘super-stato’ che in questo processo

va modificato. Lasciandosi alle spalle una definizione meramente tribale di chi è ‘dei nostri’ e chi ‘straniero’, ciò che va costruito è una vera politica transnazionale capace di promuo-vere un nuovo sviluppo globale che affronti le divisioni, le guerre, e le miserie dove queste si manifestino, e che faccia di un tale orientamento il cardine per una ridefinizione del concetto di emancipazione politica e solidarietà sociale.

Sotto molti punti di vista un lavoro di questo tipo è stato già portato avanti negli ultimi anni nell’esperianza – senz’altro incom-

pleta, confusa, e poco incisiva – del Foro Sociale Mondiale. Contro quanti proclamavano la fine della storia, e la fine della politica, con l’emergere di un mondo unipolare negli anni no-vanta, il 2001, data del primo Foro a Puerto Alegre, verrà ricordato come un momento dove ‘Utopia’ è tornata a farsi sentire, con centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo riunite a dichiarare che si, un altro mondo è nei fatti possibile. Ma quello che più è importante è che alla base del foro sociale mondiale giace un tentativo di costruire un ‘coscienza globale’ che appunto unisca le rivendicazioni

degli intoccabili indiani, i senza terra brasiliani, e i lavoratori europei in un progetto comune.

Ma se il progetto del foro mondi-ale è un’eccellente officina dove la-vorare e sperimentare queste nuove alleanze, è rivolgendo lo sguardo nuovamente all’Europa che pos-siamo trovare un barlume di pos-sibilità di militare per la realizzazi-one politica di questo progetto. Non esistono singoli stati, per lo meno in Europa, che al giorno d’oggi pos-sano abbracciare l’intero orizzonte globale nei loro intenti. E se questa è una situazione che molti espo-nenti degli studi postcoloniali cel-ebrano non senza ragione, è altret-tanto vero che la mera impotenza politica delle nazioni europee non si traduce in maggiore libertà, mag-giore spontaneità, maggiore gius-tizia per le nazioni del resto del mondo. Quello che succede è piut-tosto il contrario, con l’emergere di un meccanismo transnazionale perfettamente oliato dal punto di vista economico, ma nel quale i cit-tadini non hanno modo di esprim-ersi, nel quale politiche veramente alternative non hanno modo di fil-

trare verso l’alto ed essere realiz-zate. È qui che l’Europa, con il suo gigantismo economico e la contrad-dizione della sua piccolezza politica, può venirci in aiuto. Ma certo, non l’Europa così com’ è, non l’Europa della burocrazia e della semplice regolamentazione economica. Ma un’Europa riappropriata, un’Europa ripoliticizzata, un’Europa che divi-ene il terreno dell’emergere di una nuova e potente spinta verso un fu-turo differente. È certo, c’ è molto da fare, e un radicale riorientamento dell’Europa al giorno d’oggi pare chimerico. Ma non è forse questa sempre la situazione affrontata da nuove rivendicazioni politiche? O siamo stati intorpiditi fino ad aspet-tarci che il cambiamento ci venga servito su un piatto d’argento?

Le elezioni europee di giugno si sono distinte per la totale assenza, salvo alcune lodabili ma inascol-tate eccezioni, di una vera spinta propositiva verso la formulazione di reali alternative politiche. Ma la possibilità esiste, e sta solo a noi coglierla. Lorenzo Marsili è codirettore di Alterità

d’Europa

ALTERITÀ D’EUROPA IN ITALIACon questo numero lanciamo l’edizione italiana della nostra rivista, pubblicata ogni due mesi a Londra in inglese. La versione italiana accompagna un sempre più profondo lavoro in diverse città italiane, che si estende a incontri, presentazioni, e un numero maggiore di contributi dall’Italia alla versione internazionale della rivista.

ROMA / InCOnTRO IL 3 GIUGnOAlle porte delle elezioni europee, un dibattito sul potenziale di una vera politica europea e transnazionale. L’incontro verte su tre importanti tematiche del mondo attuale: la crisi globale e l‘Europa sociale; il fenomeno delle migrazioni; i diritti delle donne. Fondazione Basso, via Dogana Vecchia 5,

16.00 – 20.00

BOLOGnA / InCOnTRO IL 23 GIUGnOUna discussione sul ruolo delle riviste nel contesto della globalizzazione e sull’idea di una sfera pubblica transnazionale. Con Sandro Mezzadra, Bianca Bruno (Lettera Internazionale), e Massimo Rebotti (Diario)

Feltrinelli, piazza Ravegnana. Per dettagli orario

www.euroalter.com/bologna

Fondazione Basso, via Dogana Vecchia 5,

16.00 – 20.00

UnITEVI AL PROGETTOCi piace definire Alterità d’Europa una comunità di attivisti. Stiamo cercando persone interessate a collaborare in Italia con l’organizzazione e la rivista, sia per quanto riguarda il processo editoriale che l’organizzazione di incontri locali. Chi fosse interessato a darci una mano può contattare Sare Saleri ([email protected]) per maggiori informazioni.

www.euroalter.com

Liberia, Photo by Tim A Hoetherington, 2003

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giugno/luglio 09il mito di europa

Che cos’è un confine? Come si riconoscono i confini che definis-cono gli spazi di una città?

Quando si cerca di cogliere la geografia di un luogo specifico, uno sguardo dall’alto sembra poter risolvere il nostro problema. Una panoramica aerea, che spazia sulla superficie urbana, ci per-mette di creare una mappa, in cui la città acquista una fisionomia ap-parentemente chiara e coerente. Osservando il mosaico composto da edifici, piazze, strade, comin-ciamo a classificare, a discrimin-are: centro storico e periferia, zone culturali e zone commerciali, spazi pubblici e spazi privati. I confini sembrano emergere in modo natu-rale e – forse – rassicurante.

Ma tutto cambia quando ci caliamo nella realtà della città: pro-viamo a ricondurre ciò che ci sta at-torno alla mappa che avevamo ap-pena tracciato, magari affidandoci, speranzosi, ai nomi delle strade e alla loro capacità di orientare i nos-tri passi, ma quella conformazione così nitida sembra disfarsi davanti ai nostri occhi. La realtà acquista un carattere indefinito, in cui i confini si fanno sfumati e ciò che da lontano sembrava così chiaro si fa confuso e indecifrabile, pro-prio mentre il nostro sguardo si avvicina.

Proviamo, ad esempio, ad ad-dentrarci nei vicoli di quello che, dall’alto, avevamo immediatamente riconosciuto come il centro storico di una città italiana: un’apparente uniformità architettonica, la parti-colare conformazione delle strade, forse addirittura la concretezza di mura antiche, ci avevano permesso di individuare quel confine.

Ma, camminando nelle strade, ci troviamo subito di fronte a una molteplicità che rimaneva nascosta

la diversità del mondo contemporaneo si riflette nello spazio della città, mettendo in discussione categorie date per scontate – prima fra tutte quella di confine. sara saleri

alla visione topografica e oggetti-vante della mappa. La stessa ma-terialità degli edifici rivela strati-ficazioni storiche ed architetton-iche: pensiamo ad alcuni palazzi del centro di Bologna, la cui solo apparente uniformità medievale è arricchita da dettagli architetto-nici di diverse epoche. Gli usi degli spazi, poi, presentano un’altissima variabilità e vi riconosciamo con-tinue trasgressioni di confini: pe-doni che “invadono” strade, ne-gozi che “sconfinano” sui marcia-piedi, cortili e portici dalla natura indecidibile, tra pubblico e pri-vato, o ancora, luoghi che cambi-ano aspetto e funzione a seconda dell’avvicendarsi di ritmi diurni e notturni. Ma, soprattutto, cam-minare nella città significa essere coinvolti nelle interazioni dei sog-getti che la abitano e, attraverso i loro movimenti, la scrivono e riscrivono, come un testo in con-tinua trasformazione. Per questo il semiologo russo Juri Lotman at-tribuiva alla città le caratteristiche di un “polilogo”: uno spazio in cui si stabiliscono movimenti, dialoghi e conflitti, che nel loro intrecciarsi e sovrapporsi sfuggono ad una log-ica univoca – o persino biunivoca – e di cui è necessario cogliere la complessità.

La metafora del polilogo è par-ticolarmente calzante ed evocativa se la trasliamo su alcuni luoghi specifici della città: i luoghi dove la presenza immigrata è più evi-dente, dove la diversità e l’altrove irrompono nel territorio europeo; luoghi che mettono in crisi catego-rie e classificazioni che ci eravamo illusi di poter applicare al tes-suto urbano, convinti, come i cat-tivi progettisti criticati da Stefano Boeri, che “per ‘leggere’ la storia e la geografia dei luoghi sia suffi-ciente decifrare – e magari prolun-gare con la matita – i segni grafici delle carte storiche e topografiche”

Di fronte a questo quadro, cosa ne è dei confini che pensavamo di aver individuato? Sono forse an-nullati dallo scorrere quotidiano della vita cittadina? Al contrario, di fronte alla complessità della città, siamo obbligati a constatare che i confini non fanno che moltiplic-arsi. A volte, però, non si tratta dei confini netti, fisici e geografici, che ci immaginavamo all’inizio: spesso dobbiamo riconoscere l’esistenza

di confini discorsivi, simbolici ed emotivi – ma non per questo meno reali. Sono confini di natura varia e mutevole, possono durare lo spazio di una discussione, o essere er-etti stabilmente entro il sistema spaziale o normativo di un luogo.

Ma quale è, nei fatti, la con-cretezza di questi confini? Continuiamo ad addentrarci nella materia viva della città, e vediamo come operano, come funzionano, quali sono le strategie che li re-golano, i meccanismi che li ten-gono in vita.

La prima tappa della nostra esplorazione è Brescia, cittadina dell’Italia del nord, che racchiude, nel suo centro storico, un quar-tiere atipico e molto suggestivo: il Carmine, un intrico di strade e vi-coli medievali, a partire dagli anni novanta è divenuto meta di immi-grazione extra-europea, fino a div-entare la zona della città con la più alta percentuale di popolazione straniera. Fin dall’ottocento è pre-sente nelle cronache cittadine come una zona marginale e malfamata, luogo di prostituzione e di pratiche illecite. Negli ultimi anni, dopo un imponente piano di riqualificazione urbana voluto dall’amministrazione comunale, il quartiere appare molto più lindo e curato, ma la percezi-one di marginalità permane in molti discorsi, che stavolta la legano all’evidente presenza immigrata. Ecco frantumarsi un primo confine, tra quelli che avevamo tracciato istintivamente: centro e periferia si confondono, in uno spazio margin-ale del centro, abitato da individui che provengono dalla periferia del mondo.

Ma andiamo oltre queste prime considerazioni e osserviamo il Carmine in un momento specifico, durante una campagna elettorale, quando i manifesti dei partiti, le foto dei candidati, gli slogan elet-torali, dialogano tra di loro e con lo spazio circostante. Durante la campagna per le elezioni dell’aprile 2008, il quartiere venne letteral-mente riscritto dai manifesti elet-torali di Alleanza Nazionale, che, in modo esteso ed invasivo, promet-tevano: “Più sicuri, c’è Alleanza”.

Questo slogan, evidentemente, richiama e rinforza la percezione di insicurezza legata al quartiere (e alla presenza straniera), ma allo stesso tempo mette in atto una

strategia discorsiva più sottile, che contribuisce alla costruzione di un confine. Una strategia che trae la sua forza dalla parola “alleanza”, la cui polisemia è interamente sfrut-tata: “alleanza” infatti, oltre ad es-sere uno dei due elementi che for-mano il nome del partito, definisce un gruppo ristretto di persone che decide di unirsi per sconfiggere un nemico comune. In questo caso, lo slogan si riferisce esplicitamente al suo nemico (l’insicurezza); ma, come in ogni battaglia che si ris-petti, i nemici sono anche gli altri, quelli che si contrappongono per il semplice fatto di non far parte di

questo gruppo ristretto di alleati. E non dimentichiamo la seconda parte del nome del partito: questa è un’alleanza “nazionale”, perciò ad esserne esclusi sono gli stranieri – gli altri, i nemici. Vediamo prendere forma, sul piano discorsivo, uno spazio da proteggere (il quartiere e i suoi abitanti “originari”) e, di con-seguenza, un contro-spazio in cui l’insicurezza possa essere confinata ed esclusa.

Un’ulteriore conferma della natura simbolica di questo slogan è il fatto che, dopo le elezioni (in cui la vittoria nazionale del centro-destra si riflesse anche sui risultati per il rinnovo del sindaco e del con-siglio comunale di Brescia), il man-ifesto principale della campagna, apposto sulla facciata della sede del comitato elettorale, non venne rimosso, come gli altri. Per qual-che mese ha continuato a campeg-giare, come un baluardo, nella via principale del Carmine, celebrando il trionfo elettorale ma anche sot-tolineando visivamente che un confine era stato tracciato e che un’azione di separazione ed esclu-sione stava operando attivamente sul territorio.

Un altro campo in cui, in tempi recenti, si stanno giocando acer-rime battaglie per la costruzione e

decostruzione di confini, è quello rappresentato dagli spazi pub-blici, protagonisti di slittamenti di significato e fenomeni traduttivi a volte paradossali.

Un buon esempio è il parco, spazio aperto, pubblico e collettivo per eccellenza, che porta inscritte una serie di “istruzioni per l’uso” e di possibili sceneggiature, tra cui “incontrarsi”, “giocare”, “praticare sport”, ecc. Se osserviamo però gli usi degli spazi pubblici nelle soci-età occidentali negli ultimi anni, constatiamo che molti di questi usi si sono per così dire “narcotizzati”: sono sempre possibili, inerenti all’essenza del parco in quanto tale, ma non vengono più messi in atto. Ad esempio, l’uso degli spazi pub-blici per la socializzazione è andato diminuendo, a favore degli spazi privati, chiusi e protetti delle abit-azioni. E quando gli usi più propri-amente “pubblici” vengono riattu-alizzati da gruppi sociali altri, ecco che sono percepiti in senso disfor-ico, come devianti rispetto a una norma. E una serie di barriere ven-gono improvvisamente innalzate.

Un buon esempio è rappre-sentato dal Parco della Resistenza a Roma, da qualche anno eletto a luogo di incontro domenicale da immigrati ucraini, per la maggior parte donne impiegate come ba-danti dalle famiglie romane, che avvertono la necessità di trovare spazi di aggregazione fuori dalle case dove vivono, inevitabilmente estranee. Questo processo di ap-propriazione dello spazio ha provo-cato immediate reazioni da parte di alcuni residenti romani, che hanno denunciato le attività degli im-migrati: attività informali come lo scambio di prodotti tipici e il picnic sono state percepite e sanzionate come “illegali”.

Anche forme d’uso più regolar-izzate e organizzate danno luogo a simili reazioni. Sempre a Roma, sulle pendici del Colle Oppio (un’area compresa tra il Colosseo e la Domus Aurea), da qualche anno ogni domenica si svolge un torneo di calcio a cui prendono parte circa trecento giocatori, seguiti da un nu-mero cospicuo di spettatori. Tutti di origine ecuadoriana, peruviana e colombiana. Si tratta di un cam-pionato in piena regola, con tanto di magliette “ufficiali” con numeri, nome del paese di origine di ogni pa

gina

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“dobbiamo ricoNoscere che il coNfiNe è, allo stesso tempo, uNa barriera e uNo spazio, deNso di possibilità

e promesse, ma aNche di poteNziali coNflitti. ”

ESPLORAZIONI METROPOLITANE, INDUGIANDO SUL CONFINE

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il mito di europa

squadra, a volte addirittura di uno sponsor. Nonostante il carattere pacifico del torneo, la “colonizzazi-one” di un luogo da parte di una comunità percepita come diversa non ha mancato di suscitare attriti con i residenti, che hanno più volte richiesto l’intervento delle forze

dell’ordine per sgomberare l’area.Un altro sport, la stessa

sceneggiatura che si ripete: gruppi di pakistani regalano vita al tras-curatissimo Parco Gallo di Brescia con le loro partite di cricket. Le prime scritte razziste (“Abbasso i pakistani, abbasso il cricket”) non

tardano a comparire, mentre uno dei primi atti pubblici messi in atto dalla nuova giunta di centro-destra, nell’estate 2008, è un “decreto anti-bivacco”.

Sono casi diversi tra loro, che mettono però in luce lo stesso mec-canismo sottilmente paradossale:

spazi apparentemente dimenticati, diventano improvvisamente sim-boli di appartenenza, in quanto “minacciati” da un’alterità. E la ris-posta a questa minaccia è spesso la costruzione o il rafforzamento delle barriere tra noi e loro: discorsi che cercano di definire identità, possi-

bilità di inclusione o di esclusione; decreti che, proponendo una vi-sione normativa dello spazio, defi-niscono rigidamente spazi di pos-sibilità e legittimità, ma sembrano dimenticarsi delle persone che ab-itano quegli spazi e li possono ani-mare solo attraverso un’attiva ne-goziazione dei confini e dei limiti.

Tutti questi esempi mettono in crisi quell’idea di confine a cui ab-biamo fatto riferimento all’inizio: la città non è “semplicemente” costi-tuita da spazi separati nettamente l’uno dall’altro, scatole non comu-nicanti e irriducibili tra loro.

Con questo non voglio certo negare l’esistenza di muri e di con-fini molto “materiali”, che separano luoghi, persone e isolano intere comunità. In alcune città si stanno letteralmente alzando muri, scav-ando fossati e costruendo ponti le-vatoi. Esempio estremo, ma certo non trascurabile, dell’esclusione ed emarginazione della diversità è il “muro di Padova”, una recinzi-one lunga circa 80 metri, innalzata nel 2006 per separare dalle aree circostanti la zona periferica di via Anelli, abitata prevalentemente da immigrati. Di opposto valore, ma con lo stesso effetto di creare enclave nella città, è il fenomeno crescente delle gated communities, quartieri protetti da muri e sistemi di sorveglianza, accessibili ai soli residenti. Ma non sempre la realtà dell’esclusione e della separazione ci si presenta con tale chiarezza, non sempre i confini sono così “fa-cili” da individuare; spesso sono più sottili – ma non per questo più fragili – e dobbiamo andare a cer-carli nelle pieghe della realtà.

Di fronte a queste complesse stratificazioni, non ci resta che ac-cettare il carattere paradossale del confine che, come ricorda Juri Lotman, allo stesso tempo separa e unisce. Dobbiamo riconoscere che il confine è, allo stesso tempo, una barriera e uno spazio, denso di possibilità e promesse, ma anche di potenziali conflitti, di interpretazi-oni diverse e apparentemente inc-onciliabili tra loro.

Per questo non dobbiamo smet-tere di aggirarci per la città con uno sguardo attento, che sappia individ-uare la costruzione di confini: per denunciarne l’esistenza, certo, ma soprattutto per indagarli a fondo, conoscerli, decifrarne le strategie di esistenza, scoprirne i punti deboli. Non possiamo semplicemente ab-bandonare il confine, o illuderci di abbatterlo definitivamente: la forza del confine sta nella sua capacità di riprodursi in continuazione, ma anche nella sua possibile apertura, nella sua capacità di trasformarsi in soglia. Per questo il confine ci at-trae e ci richiede di continuare ad indugiarvi. Sara Saleri e’ redattrice della versione ital-

iana di Europa, e dottoranda in semiotica

all’Universita’ di BolognaPhoto by Brigita Ercegovic

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INTERVISTA CON ALFREDO jAARalfredo jaar e` sempreattento alle dinamichesociali e politiche delmondo contemporaneo. in questa intervistal’artista discute il suolavoro e riflette sul ruolo dell’arte nella società.

Le opere di Alfredo Jaar, artista di origine cilena con base a New York, si concentrano sulla relazi-one tra “primo” e “terzo

mondo”, esplorando le loro inter-dipendenze materiali e le dinam-iche di potere in gioco, e interro-gandosi su come il “primo mondo” traduca queste problematiche nelle rappresentazioni visive del “terzo mondo”.

Il Mito di Europa ha intervistato Jaar in seguito alla retrospettiva a lui dedicata presentata recente-mente all’Hangar Bicocca di Milano (It is Difficult, 3 ottobre 2008 – 11 gennaio 2009), e per celebrare un artista che non smette di affascin-are il suo pubblico, proponendo nuovi modelli di realtà possibili.

Eva Oddo: Cosa ne pensi dell’Unione europea e come vedi il suo futuro?Alfredo Jaar: Ho sempre consid-erato l’Unione europea come un modello potenziale che non si è mai pienamente realizzato. È un’utopia che è diventata una quasi-realtà. Ho sempre pensato che avesse enormi potenzialità, come mod-ello di comunità. Di fatto, l’Unione europea è il maggiore donatore mondiale di assistenza umanitaria. Ci sono stati progressi significativi in alcune aree: ad esempio la mon-eta comune, l’euro, alla fine fa da contrappeso al dollaro statunitense e alla sua egemonia. Ma quando ci si rende conto che l’Unione eu-ropea genera più del 30% del pro-dotto interno lordo mondiale, al-lora ci si chiede: come mai ha un’influenza così limitata negli af-fari mondiali? È davvero frustrante constatare l’incapacità dell’Unione europea di articolare e promuo-vere una comune politica estera, di far sentire la sua voce negli af-fari mondiali di un certo peso. È un ambito completamente dominato dagli americani, e finora nessuno è stato capace di sfidarli. Il mondo sarebbe diverso se l’Unione euro-pea avesse una voce. È innegabile che ci sia libertà di movimento di persone, beni, servizi e capitale,

ma, allo stesso tempo, quante porte sono state chiuse? Basta vedere come è trattata l’immigrazione in Italia, o parlare con un imprendi-tore africano che tenta di pene-trare il mercato europeo, per trov-arsi di fronte un intero catalogo di frustrazioni.

EO: Passiamo all’aspetto artis-tico: pensi che l’artista abbia delle responsabilità?AJ: Assolutamente. Gli artisti sono esseri umani, ed ogni essere umano ha delle responsabilità. Gli artisti sono parte integrante della società, in cui hanno un ruolo privilegiato, perché hanno tempo e risorse per pensare, ragionare e sognare mondi diversi, mondi migliori. Insieme a questo privilegio, abbiamo la re-sponsabilità di reagire a ciò che ci circonda e suggerire modelli per pensare alla società e al mondo; la buona arte riesce a farlo. Le migl-iori opere artistiche portano in luoghi dove non si è mai stati – mi riferisco a luoghi mentali –, luoghi in cui creiamo nuovi modelli di pensiero, e nuovi modi di vedere il mondo. E questa è una responsabil-ità enorme.

EO: La tua arte è stata descritta come arte politica o arte morale, arte con un impegno moraleAJ: No, non accetto nessuna di queste etichette. Tutta l’arte è polit-ica. È impossibile fare qualcosa che non abbia un’interpretazione polit-ica. È impossibile fare un gesto che non abbia allo stesso tempo una componente estetica e una compo-nente etica. Quando devo rispon-dere a questo tipo di domande, mi piace citare Jean-Luc Godard, un regista che stimo, che diceva che “può essere vero che si deve sceg-liere tra etica ed estetica, ma non è meno vero che, qualsiasi delle due

si scelga, comunque l’altra ci verrà incontro alla fine della strada”. Come artisti e come produttori cul-turali dobbiamo affrontare simul-taneamente le questioni dell’etica e dell’estetica, integrarle non solo nel modo in cui costruiamo le nostre opere, ma anche nell’espressione finale delle nostre idee. Quando l’arte non fa questo passo, è solo decorazione, fa parte di un altro mondo, quello della decorazione e del design, che ha altri, diversi, obi-

ettivi. L’arte per me ha sempre avuto a che fare con il pensiero critico. Ma questo non significa lasciar fuori la poesia: la poesia è un elemento essenziale dell’arte. Potremmo arrivare a dire che non esiste arte senza poesia, e non esiste arte senza politica.

EO: Pensi che l’arte abbia cambi-ato il mondo? Se sì, come? E pensi che nel futuro l’arte possa cambi-are il mondo? Come?AJ: Be’, ti puoi immaginare un mondo privo di arte? Per rispondere a questa domanda bisogna rispon-dere a quest’altra domanda: cosa sarebbe il mondo senza arte, senza cultura? Come diceva Nietzsche, “la vita senza musica sarebbe un er-rore”. Lo potremmo parafrasare e dire: la vita senza l’arte sarebbe un errore. Guardati attorno, guarda le città, il mondo – come sarebbe se non ci fossero arte e cultura attorno a noi? Arte e cultura sono elementi essenziali della vita contempora-nea, della vita. La vita è impensa-bile senza arte. Certo, l’arte ha cam-biato moltissimo il mondo, e come artista ho sempre affermato, pur con il rischio di sembrare naïf, che io voglio cambiare il mondo. Sono diventato artista perché sono in-soddisfatto dello stato del mondo, e voglio cambiarlo. Ora, io lo cam-bio a partire da una persona alla volta – è un processo molto lento, è un cambiamento molto modesto, ma possiamo toccare le persone, le possiamo informare, e le possiamo spingere all’azione. In questo senso, sono gramsciano. Gramsci fu uno straordinario intellettuale del XX secolo, un’ispirazione per me. Credeva realmente nella capacità della cultura di influenzare il cam-biamento. È difficile, a volte sem-bra futile, ma sono convinto che la cultura e l’arte abbiano cambiato il mondo e, più il mondo si fa comp-lesso e difficile, più le potenzialità dell’arte e della cultura potranno realizzarsi.

EO: Come valuti lo stato del mondo artistico contemporaneo?AJ: Il mondo dell’arte contempora-nea ha un problema di immagine. È ironico che un’industria dedi-cata ai sistemi di rappresentazione non sia capace di rappresentare se stessa nel panorama mediatico. I media presentano l’arte con pro-fonda volgarità, facendo emergere l’immagine di uno spettacolo, di un circo, popolato dalle cosiddette star dell’arte e pieno di soldi.

Onestamente, questo non ha nulla a che vedere con il mondo dell’arte contemporanea, non ne

rappresenta che una minima parte. Il mondo dell’arte contemporanea non è monolitico; è una rete di sis-temi, diversi tra loro. Alcuni sistemi si contraddicono, altri si ignorano o interagiscono tra loro, ma ciascuno vive di vita propria. Ogni sistema è un mondo in se stesso: in uno di questi sistemi ci saranno migliaia di artisti alla ricerca del senso della

vita, che lavorano con le comunità, cercando di espandere i loro oriz-zonti creativi. In un altro sistema, troverai pensatori, intellettuali e sognatori che discutono temi di grande importanza per la società e per il mondo, che producono arti-coli, documenti, pubblicazioni, che partecipano a conferenze e dibattiti, che creano nuovi modelli di pensi-ero. L’arte contemporanea è com-posta da cinema, teatro, musica, poesia, danza, arti visive, che fanno pensare, piangere, provare senti-menti, e spingono ad agire nella so-cietà. Dove si trova quest’immagine dell’arte contemporanea nei media? Semplicemente non esiste. I media ne fanno uno spettacolo, ed è piut-tosto triste.

EO: Pensi che l’intervento pub-blico debba far parte del ruolo dell’artista? Pensi che gli artisti visivi debbano varcare dai confini dello spazio espositivo ed uscire in strada?AJ: Il ruolo dell’artista, per come lo vedo io, è di creare nuovi mod-elli di pensiero e nuovi modelli di rappresentazione del mondo e... ci sono molti modi per farlo, e molti luoghi in cui farlo. Alcuni artisti si sentono a proprio agio all’interno degli spazi della cultura – in ciò che chiamiamo il “cubo bianco”, il mondo dell’arte. Altri, come me, hanno sentito il bisogno di uscire da questo spazio. È per questo che ho diviso il mio lavoro in tre aree principali e solo un terzo del mio tempo è occupato lavorando nel cosiddetto mondo dell’arte, in musei, gallerie e fondazioni. Visto che questo mondo è così isolato, ho cercato di raggiungere un pubblico

più vasto ed ho creato più di 50 in-terventi pubblici nel mondo, fuori dai confini del mondo artistico. In questi progetti lavoro con diverse comunità, lontane dal mondo dell’arte, e mi confronto con prob-lemi di vita reali, di persone reali, e questi confronti, questi esercizi di realtà, mi mantengono con i piedi per terra, e guidano la mia pratica di artista all’interno del mondo dell’arte. La terza componente del mio lavoro è l’insegnamento. Dirigo seminari e laboratori in tutto il mondo, dove ho la possibilità di scambiare idee con le generazioni più giovani, di condividere le mie esperienze ed imparare dalle loro esperienze e dai loro sogni. Direi che l’insegnamento è probabil-mente la componente più politica del mio lavoro. Ma sono tutte e tre molto importanti e, insieme, mi formano come professionista e come essere umano, mi rendono completo. Perciò, per rispondere alla tua domanda, ogni artista trova un modo per essere responsabile, e questo è il modo che ho trovato io, per quanto mi riguarda.

EO: Che cosa ti aspetti dal tuo pub-blico, se ti aspetti qualcosa?AJ: L’arte è comunicazione, la comunicazione richiede un lin-guaggio, e un linguaggio richiede un vocabolario. Il vocabolario dell’arte è diventato incredibilmente comp-lesso e ha creato un enorme divario tra gli artisti e il pubblico, ma questo divario può essere colmato in modi diversi. Con i miei studenti insisto sempre sul fatto che, nella defin-izione di comunicazione, tecnica-mente ci debba essere una risposta, se non c’è risposta non c’è comuni-cazione. Comunicare non significa semplicemente lanciare un mes-saggio nel mondo. Come artisti pro-duciamo eventi, installazioni, film, oggetti, opere bidimensionali... costruzioni molto complesse che a volte hanno un linguaggio piut-tosto difficile per la maggior parte delle persone. Perciò, nel mio caso, provo sempre a creare diversi livelli di comprensione dell’opera: li chi-amo “punti d’entrata”, attraverso cui chiunque può entrare nell’opera. Naturalmente alcuni vi entreranno a un certo livello da cui possono avere una comprensione completa dell’opera, che raggiungerà così il suo effetto più pieno. Altri avranno accesso a un’entrata più limitata, ma saranno comunque in grado di entrare nell’opera. Io mi aspetto che il mio lavoro crei e provochi sentimenti ed emozioni, che in-formi con i fatti e commuova con la poesia. L’effetto massimo che voglio

“il moNdo sarebbe diverso

se l’uNioNe europea

avesse uNavoce.”

“è difficile, a volte sembra

futile, ma soNo coNviNto

che la cultura e l’arte

abbiaNo cambiato il

moNdo e, più il moNdo si fa

complesso e difficile, più

le poteNzialità dell’arte

e della cultura potraNNo

realizzarsi.”

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raggiungere con il mio lavoro è far pensare le persone, perché, come dicevo prima, cerco di creare nuovi modelli di pensiero. Perciò, l’effetto massimo sarà di immergere il mio pubblico in uno stato perfetto di pensiero e poesia.

EO: Hai visto la recente mostra di Cildo Meireles alla Tate Modern di Londra (14 ottobre 2008 – 11 gen-naio 2009)? Ho letto una sua dichi-

arazione, in cui diceva: “In un certo senso, si diventa politici quando non si ha la possibilità di essere poetici. Penso che gli esseri umani preferirebbero di gran lunga es-sere poetici”. Cosa ne pensi? AJ: Ho visto la mostra, che trovo straordinaria. Cildo è uno dei miei migliori amici, un artista che am-miro profondamente. Cildo riesce ad avere una prospettiva poetica sul mondo, e a riempire di poesia

le composizioni, gli ambienti, le installazioni e gli oggetti che crea. Tutti hanno un contenuto politico – è inevitabile – ma la poesia delle sue costruzioni è travolgente e gio-iosa. Al contrario, sento che i miei lavori oscillano di più verso la po-litica. Certo, hanno sempre un el-emento poetico, ma in questo dif-ficile equilibrio tra politico e po-etico, credo che i miei lavori siano più politici. Temo che sia stato più

difficile per me contenere la mia rabbia, perciò il politico travolge il poetico. In altri casi, ad esempio in un film sull’Angola che ho appena terminato, mi pare che forse il po-etico abbia travolto il politico. Mi sforzo, ma a volte la realtà delle sit-uazioni su cui mi concentro mi ha spinto verso il politico. Cildo è stato capace di contenersi, o forse ha af-frontato situazioni meno urgenti, ed è stato capace di creare esplo-

sioni di poesia. Un’eccellente mos-tra di un eccellente artista.

EO: Cosa pensi della direzione presa dalla politica contemporanea?AJ: Sono sempre stupito dalla presenza simultanea di correnti contraddittorie nel mondo. Da un lato, negli Stati Uniti c’è stata l’elezione di Barack Obama, con tutto il suo straordinario potenziale in direzione progressista, e dall’altro c’è il fenomeno di Berlusconi, in un paese come l’Italia, dove si possono individuare tendenze fasciste dap-pertutto. E allora ci si chiede come sia possibile. Come, perché le soci-età si muovono a sinistra o a destra, nello stesso momento? Cosa c’è nella natura umana che ci fa com-portare in maniera così contraddit-toria? Se si guarda l’Europa poi, si vedono sulla mappa delle macchie fasciste e delle macchie progres-siste, che lottano tra di loro. E noi, come cittadini, ci dobbiamo con-frontare con queste realtà, e dob-biamo decidere il percorso da pren-dere, basandoci sull’educazione che abbiamo ricevuto, sull’influenza dei nostri genitori e dell’ambiente in cui viviamo, e sulle nostre con-vinzioni personali. Ma sono sempre colpito da questi possibili percorsi, dalle contraddizioni che affron-tiamo nella nostra vita quotidiana, ed è per questo che cito sempre Emile Cioran, un poeta e scrit-tore rumeno che stimo profonda-mente, e che parlò di questo stato della mente, descrivendolo come “simultaneamente felice e infelice,

esaltato e depresso, sopraffatto dal piacere e dalla disperazione, in ar-monie contraddittorie”. È così che mi sento oggi, quando guardo al mondo, quando leggo i giornali, sempre con la speranza che un giorno l’equilibrio si sposti verso la giustizia sociale.

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LA SFIDA COSMOPOLITA DI ALFREDO jAAR ALL’INDIFFEREZZA ISTITUZIONALIZZATAil nord e il sud, i mondi eccessivamente sviluppati, in via di sviluppo e a sviluppo inibito, devono essere resi parte dello stesso presente.

La modernità dell’Europa è stata creata e mantenuta dalla violenza. La sua en-ergia iniziale è stata tratta dalla conquista di popoli

proclamati alieni ed inferiori. Il suo dinamismo è stato sostenuto dal consolidarsi di colonie e imperi. Gradualmente, quell’organizzazione precaria e frammentata venne disci-plinata dal Capitale entro un sistema di stati nazione e mercati transnazi-onali. Oggi non è educato, né tanto meno di moda, puntualizzare che l’idea di razza fu un fattore essen-ziale nel far apparire quelle divisioni arbitrarie come naturali e storiche, scientifiche e inevitabili.

I circuiti di potere si stanno al-lontanando dall’Atlantico. Ognuno di noi ha di fronte catastrofi ambi-entali e politiche che non ricono-scono frontiere nazionali. Questi cambiamenti ci obbligano ad as-sumere nuovi impegni. Dobbiamo trovare nuove strade per compren-dere la nostra situazione in un con-testo planetario. Dobbiamo rad-unare gli strumenti etici e sociali di cui avremo bisogno per vivere pacificamente gli uni con gli altri, at-traverso un modello sostenibile che riconosca l’interdipendenza globale e che lasci posto alla forza delle nos-tre comuni rivendicazioni sulla terra, la cui stessa esistenza è messa a re-pentaglio. È la nostra umanità a es-sere in gioco.

Le sofferenze nate da questo sis-tema distruttivo, inerentemente con-cepito per sfruttare, hanno trovato una voce ed un viso non nel governo, ma nella creatività culturale. Un ur-gente dibattito riguardo al futuro del nostro pianeta è portato avanti dagli artisti, anziché da politici, giornalisti e accademici. Ogni giorno gli spazi culturali – non solo musei e gallerie – sono i luoghi dove nuove pratiche immaginative vengono acquisite, af-fermate e ridefinite. Nella preziosa e accogliente aura dell’arte si possono ritrovare i piaceri dell’esposizione alla differenza. Questo contatto con l’alterità non significa neces-

Paul gilroy

sariamente privazione e pericolo, anche in circostanze in cui si pensa che la sicurezza derivi dall’assoluta uguaglianza. Solo quando ci saremo liberati dall’atteggiamento che con-sidera esotica la differenza etnica e razzializzata, potremo accettare l’ordinarietà della pluralità. Questo contatto emancipatorio aiuterà, fi-duciosamente, a coltivare virtù cos-mopolite come l’attenzione verso l’altro, la profondità di visione e l’equità.

In seguito al riconoscimento dello genocidio nazista come evento epocale, gli artisti iniziarono a do-mandarsi quali varianti di pratica creativa potessero costituire una risposta appropriata al carattere e all’entità di questi orrori. Essi lotta-rono per rispondere alle domande etiche che erano imposte dal dovere di impedire il ritorno dell’omicidio di massa e dei crimini contro l’umanità ad esso legati. Questi problemi, e le varie risposte che furono offerte a metà Novecento, ridefinirono i con-fini di una cultura europea che aveva bisogno di riparazione. I dilemmi etici ed estetici coinvolti generarono uno scontro tra idee che fu pronta-mente identificato come parte di un più ampio problema morale, filos-ofico e politico. Essi erano collegati a dibattiti relativi alla teodicea, alla complicità della civilizzazione euro-pea con razzismo e fascismo, al ruolo della tecnologia e della svilita ragione strumentale, all’opportunità della poesia lirica – tutti dibattiti riguard-anti la legittimità e l’instabilità della cultura occidentale. All’ombra del trauma e della catastrofe, della testi-monianza dei superstiti e della me-moria contestata, l’arte dovette es-sere recuperata e creata di nuovo. Nel

romanzo, in forme forse redentive, avrebbe contribuito ad una riveduta definizione di ciò che l’Europa rapp-resentava, e di cosa sarebbe divenuta in futuro. Solo l’arte poteva restituire all’Europa l’umanità dalla quale era stata alienata.

La reazione al fascismo negli anni successivi al 1945 incoraggiò l’emergere di un nuovo linguaggio morale fondato sull’idea dei diritti universali dell’uomo. Queste inno-

vazioni furono combinate per assi-curare che l’eredità dell’umanesimo e la categoria di ciò che è umano rimanessero aperte alle riflessioni in Europa. Ciò nonostante, la san-guinosa storia del dominio coloniale e delle amare guerre di decolonizzazi-one che ne seguirono non furono mai interiorizzate con la stessa profon-dità. Gli esercizi riflessivi dell’Europa negli anni ’50 erano certamente animati da buoni intenti, ma si in-cepparono ancor prima di scorgere l’orizzonte di un concreto impegno cosmopolita finalizzato a compren-dere la storia del periodo nazista nel contesto dei precedenti incontri con le popolazioni che l’Europa ha con-quistato, venduto, sfruttato e, qual-che volta, cercato di estirpare.

La continuità storica tra i racco-nti di sofferenza fu ignorata e allon-tanata. Il palese significato umano di quei terribili eventi fu ugualmente difficile da afferrare. Ma l’affinità tra le due estese fasi di terrore, una nella temperata Europa, l’altra nelle torride colonie, ha acquisito un’importanza fondamentale nel nostro periodo postcoloniale. Forse l’Europa non può ricordare la sua storia coloniale e imperiale senza essere sopraffatta dagli aspetti eccessivamente do-lorosi e imbarazzanti riguardo a se stessa e all’ineguale sviluppo della sua civilizzazione. Le guerre coloni-ali non facevano alcuna distinzione tra civili e soldati. Le convezioni di Ginevra non furono applicate, e armi di distruzione di massa potevano es-sere utilizzate contro popolazioni primitive senza molte obiezioni.

La cultura occidentale rimane disorientata dalle fastidiose notizie che raccontano come le sue aspirazi-oni civilizzatrici furono compro-messe su vasta scala. A peggiorare il tutto, i popoli postcoloniali in-iziarono ad apparire entro le fortifi-cazioni dell’Europa. La loro presenza rivelò l’incapacità dell’Europa, prop-rio come profetizzato molto tempo fa da Aimé Césaire, di risolvere le due grandi difficoltà connesse tra loro che traggono origine dalla sua storia moderna: il problema coloniale e il problema della gerarchia di classe. Chi era venuto dalle colonie a ripu-lire e a rinvigorire l’Europa successi-vamente alla guerra anti-nazista, si è trovato gradualmente limitato e pri-vato dei propri diritti di cittadinanza. Rifugiati, richiedenti asilo, indesider-ati residenti permanenti senza docu-menti, compongono oggi una nuova casta di esseri tra gli umani che dif-ficilmente hanno accesso a quei benefici dei diritti umani proclamati a gran voce. Il varco verso il ricono-scimento e l’appartenenza viene bloccato con fermezza, nonostante quelle popolazioni si trovino effet-tivamente qui. Non solo sperimen-tano razzismo e xenofobia, ma una logica di simultanea esclusione ed inclusione che li confina ad una vita al crepuscolo dell’assenza di diritti.

L’arte contemporanea cosmo-polita come quella di Jaar ha offerto una risposta terapeutica di cui c’era bisogno. Per prima cosa, quest’arte di opposizioni afferma che non è più possibile difendere l’idea che attribuisce allo sviluppo europeo

un’aura di unicità e preziosità. In secondo luogo, suggerisce che la vecchia visione nella quale l’Africa era esiliata dalla storia e priva di storicità si è sciupata ancor prima delle sfide postcoloniali che puntano l’attenzione su simultaneità e re-sponsabilità. Infine, dichiara che gli abitanti delle tristi cittadelle dello sviluppo eccessivo devono ricono-scere che il loro destini sono con-nessi alle vite delle popolazioni del Sud globale, la cui miseria e man-canza di sicurezza condizionano l’abbondanza e la tranquillità che seguono alla scarsità. Questa focal-izzazione sull’interconnessione non dà origine ad un’altra sceneggiatura manichea. Segmenti di quel Sud dis-perato si trovano ora all’interno del Nord e viceversa. Il mondo in cui ci troviamo non è più in bianco e nero.

In qualche modo, il Nord e il Sud, i mondi eccessivamente svilup-pati, in via di sviluppo e a sviluppo inibito, devono essere resi parte dello stesso presente. Vivere in modo sostenibile e ridurre al minimo i con-flitti significa essere pronti ad essere responsabili gli uni verso gli altri. Jaar è all’altezza di questa sfida e le sue opere sono un esempio di ciò che si potrebbe definire un modo di stare al mondo responsabile. Il suo lavoro si fonda su una critica dell’indifferenza nei confronti della sofferenza altrui, che si trova istituzi-onalizzata nei paesi eccessivamente sviluppati. Non affronta la sofferenza come se fosse esclusiva proprietà – culturale o esperienziale – delle sue vittime. Coraggiosamente, si assume

“uN urgeNte dibattito

riguardo al futuro del Nostro

piaNeta è portato avaNti dagli

artisti, aNziché da politici,

giorNalisti e accademici.”

Joan M. Kelly, Throw the Lilly Under the Couch, 175 x 114 cm, Oil on canvas, 2008

Carlos Vergara, Rio BrancoCarnival series, 1972/76www.carlosvergara.art.br

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la responsabilità di caricare il peso di queste ingiustizie sulle sue spalle e ci invita a fare altrettanto. La sua ostilità verso l’indifferenza istituzionalizzata è abbastanza profonda da invitare ad un audace ritorno alla scomoda questione della comune umanità. Non si tratta di una replica del vec-chio cosmopolitismo basato su un’ospitalità allargata. Gli stati nazi-onali sono in piena emorragia. Fanno colare, l’uno nell’altro, persone, idee, tecnologie e risorse. Impegnarsi in una sana ridiscussione della nozione di comune umanità potrebbe aiutare a stabilizzare questa situazione. Ma può avere successo solo se condotta in esplicita opposizione alle gerar-chie razziali, allo stesso concetto di “civilizzazione” e allo sfruttamento neo-imperiale.

Da qualche tempo, i progetti di Jaar su tre continenti si sforzano per-ché l’Asia, l’Africa e la prima colonia europea, l’America Latina, entrino nell’immagine ufficiale del mondo. Non solo ha messo sotto accusa la subdola ineguaglianza della coper-tura mediatica ufficiale e ha sfidato la sua geografia implicita. È andato oltre le questioni dell’omissione e dell’inclusione riparatrice, verso un tipo di ricerca completamente di-versa. Questo aspetto del suo lavoro fa riferimento ai rapporti di potere che derivano dal controllo delle im-

magini e dalla loro tumultuosa e contestata ricezione da parte di spet-tatori ansiosi, che vogliono sapere come reagire alle cose terribili che vedono, ma non sanno cosa fare. Nella loro ricerca di integrità etica, non sono aiutati da una cultura mediatica e un atteggiamento con-sumista che promuovono la collu-sione e danno dignità a una cultura dell’indifferenza, fatale sia per i suoi soggetti degradati, sia per i suoi des-tinatari disorientati.

Le opere di Jaar tornano a questi temi fondamentali, al controllo delle immagini e a come rispondere ones-tamente a richieste di informazioni disturbanti ed impegnative, in situ-azioni impossibili. Ha sviluppato un commento obliquo ed amaro su questi aspetti del potere post- e neo-coloniale, interrogandosi ap-ertamente su quale sia la respon-sabilità degli artisti e indagando la difficile condizione di chi, in modo intenzionalmente innocente, rac-coglie e trasmette informazione. Un fotografo affronta e cattura ciò che, all’inizio, sembra non essere altro che un altro orrore sublime che sfida tutte le tecniche di rappresentazione. Un momento congelato digitalmente entra nel mercato delle immagini con un nuovo valore, nelle econ-omie politiche e morali dei nostri tempi. Inaspettatamente, acquisisce

una posizione nel mondo quotidi-ano dell’informazione-spettacolo. Ma Jaar mostra quanto fosse fuorvi-ante il giudizio iniziale, che consid-erava ineffabili quegli orrori. Esorta a riesaminare le regole e i codici che governano il riconoscimento e la rappresentazione degli Altri, la cui presenza rafforza i confini che ci circondano. La loro apparizione nei nostri panorami mediatici e sui nos-tri schermi non si dovrebbe ridurre a un’alternativa tra banalizzazione e tradimento. Jaar suggerisce che l’artista si potrebbe sforzare di assim-ilare e umanizzare questi volti senza voce, in modo sia onesto che auten-tico. Per raggiungere questo difficile equilibrio è necessario spezzare la contrapposizione vittima / colpevole ed aggiungere a questi ruoli limitati un più ampio spettro di possibilità: il rinnegatore, il terzo leso, il testimone e forse, in certe circostanze, persino il salvatore. Quest’espansione inven-tiva richiede uno sforzo etico e non rimane a lungo responsabilità unica dell’artista. Nelle mani di Jaar, si apre lentamente a domandarsi, in modo necessariamente doloroso, dove si collochino testimoni e spettatori in relazione agli eventi traumatici e deprimenti che compongono l’agenda mediatica globale che reg-istra gli sconvolgimenti commerciali e politici del nostro pianeta. La tra-

gedia del Rwanda, di cui Jaar si è oc-cupato a fondo, rimase fuori da quel programma equivoco, per molte delle ragioni descritte in precedenza. Le nuvole di passaggio su un luogo di memoria divennero un segno passeggero non solo di uno spazio di morte ma dell’enigma ambivalente dell’onesto shock e della vergogna umana.

La crescente diseguaglianza tra il mondo eccessivamente svilup-pato e il resto del mondo minaccia di compromettere quel terreno su cui si dovrebbe costruire una rinnovata comprensione della comune uman-ità. Altre espressioni profondamente scomode, come “responsabilità” e “rendere conto”, aiutano a chiarire come Jaar si impegni umilmente a rendere l’umanità degli Altri, di quelle persone che sono rimaste esc-luse dalle promesse e dalle patologie dello sviluppo eccessivo. Egli pro-pone gli strumenti di media alter-nativi che potrebbero connettere la loro vita quotidiana alla nostra.

Pseudo-notizie filtrate ci arriv-ano in continuazione dai fronti di guerra. I media sono saturati dai pro-dotti strategici di un fiorente sistema di pubbliche relazioni. In questo processo, la politica e la cultura popolare hanno acquisito un ritmo inesorabile, che non porta ad affron-tare apertamente la sofferenza, vic-

ina o remota che sia. Jaar applica le stesse tattiche umanizzanti ovunque si trovi. Come punto di partenza, c’è sempre il rifiuto di farsi complice dei modelli di visibilità esistenti. Non ti mostrerà né il senzatetto di Montreal, né gli ossari del Rwanda. Ma la presenza di entrambi è pubblica-mente segnalata, annunciata in altri modi più impegnativi, rompendo la polarità tra chi decide di comunicare l’orrore e la sofferenza in modi che non saranno mai sufficienti, e chi rifiuta questo compito, scegliendo invece di scioccare. Questo dilemma modernista è rimesso in scena ripe-tutamente, ma ora è accompagnato da un caratteristico impegno a lavo-rare attraverso i vincoli del passato coloniale. È questa risoluzione che permette di rompere l’incantesimo malinconico che spinge l’Europa a desiderare un ritorno a quella gran-dezza svanita con la fine del prestigio coloniale. Ed è così che Jaar estende le famosa esortazione di Fanon a chi fu talvolta beneficiario della domi-nazione coloniale: “svegliati, indossa il cappello del pensiero e smetti di giocare il gioco irresponsabile della bella addormentata”. Ma in questo caso non ci sono baci. Saranno bagl-iori di luce e fuoco a indurre quel ris-veglio tardivo. Paul Gilroy insegna alla London School of

Economics

Carlos Vergara, Cacique de RamosCarnival series, 1972/76www.carlosvergara.art.br

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La “Guerra al Terrore”, che dura ormai da anni, ha messo in luce il ruolo dei media in periodo di guer-ra, i limiti di una critica

accettabile e pubblicabile, e il suc-cesso conseguito dalle macchine di propaganda statali e militari nel produrre un’immagine pulita ed eroica dei conflitti. Le immagini fotografiche delle guerre in Iraq e Afghanistan pubblicate dai giornali hanno spesso contribuito a raffor-zare questa rappresentazione, mos-trando spettacolari dispiegamenti

di forza m i l i t a r e , stoici volti di guerrieri pieni di es-perienza, e i m m a g i n i poetiche di soldati in quadretti pit-toreschi, ad esempio ripresi sullo sfondo di un tramonto. Ad un certo punto è diventato chiaro che la fun-zione critica della stampa e il suo essenziale servizio alla democrazia sono minati alla base. La profonda sfida alla visione istituzionale della guerra attuata dai media durante la Guerra del Vietnam, attraverso la produzione di un immaginario critico coerente, è qualcosa che oggi sembra impossibile; in molti ora si chiedono se il fotogiornalismo non sia divenuto istituzionalmente com-plice della guerra. Forse le immagini scattate dai fotogiornalisti al seguito delle truppe, confinati nelle unità militari a cui sono assegnati, non sono così diverse dalla propaganda realizzata dai fotografi militari; forse persino il lavoro dei fotogiornalisti indipendenti, mostrando il tremen-

do potere distruttivo dell’esercito statunitense, finisce per fare il gioco della propaganda, delle cosiddette “unità per le operazioni psicolog-iche”, nel presentare con tanta chia-rezza quale sia il destino che attende coloro che osano resistere.

Nella conversazione che segue ho discusso di questi argomenti con gli artisti Adam Broomberg e Oliver Chanarin, in occasione della loro mostra The Day Nobody Died alla Paradise Row Gallery di Londra. I lavori esposti, realizzati durante

una missione al seguito delle forze inglesi in Afghanistan, sono stati realizzati portando lunghi pezzi di carta fotografica nella zona di guer-ra ed esponendoli alla luce, senza usare una macchina fotografica. Ne risultavano delle strisce colorate, le tracce della luce di un luogo spe-cifico, accompagnate da didascalie che riportavano uno degli eventi di cronaca del giorno in cui erano state esposte. A fare da accompa-gnamento alle opere, Broomberg e Chanarin avevano realizzato un video che mostrava il tragitto della loro scatola di carta fotografica da Londra all’area del conflitto af-ghano, trasportata dagli artisti e dai soldati.

JS: Ci potete dire come siete arrivati a realizzare le straordinarie opere pre-sentate in questa mostra?

OC: Tutto è cominciato molto prima di andare in Afghanistan. Adam ed io eravamo stati invitati a visitare il cen-tro di riabilitazione militare di Head-ley Court, in Inghilterra, per fotogra-fare e intervistare i soldati che erano rimasti amputati in Afghanistan o in Iraq. Lì scoprimmo che ora i muti-lati di guerra in Gran Bretagna sono molto più numerosi persino rispetto alla Prima Guerra Mondiale, a causa dell’avanzamento della medicina militare, che ha aumentato le possi-bilità di sopravvivenza. Incontrammo molti soldati, alcuni di soli 19 anni,

rientrati dall’Afghanistan da una o due settimane: alcuni avevano perso un braccio, altri entrambe le gambe.

AB: Ad interessarci non era solo la fer-ita fisica, ma anche quella psicologi-ca; questo tipo di conflitto è simile a quello della Prima Guerra Mondiale anche per la natura particolarmente passiva della ferita o della morte subita dai soldati. Durante la Prima Guerra Mondiale ci fu uno studio che confrontava lo stato psicologico dei piloti di guerra con quello dei soldati bloccati in trincea. I piloti, pur cor-rendo un rischio di morte molto più alto, rimanevano emotivamente più intatti, perché, durante il conflitto, avevano la sensazione di potere con-trollare meglio la situazione. Al con-trario, i soldati bloccati nelle trincee sperimentavano un’attesa passiva che portava a un tipo particolare di

trauma. È proprio il tipo di shock che ci siamo trovati di fronte a Headley Court. Come sai, abbiamo passato gli ultimi anni viaggiando in diverse zone di conflitto, guidati dalla cos-tante preoccupazione di come rapp-resentare il trauma e di come la rapp-resentazione possa divenire complice della guerra.

JS: Pensate di usare quelle immagini degli amputati?

OC: Abbiamo capito immediatamente che quelle immagini non riuscivano e mai sarebbero riuscite a rappresen-tare il trauma. Erano impossibilitate a rappresentare quell’esperienza.

JS: La vostra risposta, qualche anno fa, sarebbe stata di intervistarli, e di accompagnare le fotografie con degli estratti dalle interviste, come ave-vate fatto ad esempio in Mr. Mkhize’s Portrait. Anche in quel libro c’erano persone che avevo subito trattamenti disumani. Ora avete l’impressione che quella risposta fosse inadeguata?

OC: È interessante paragonare Mr. Mkhize con questo lavoro più re-cente. Ci sono alcune preoccupazioni simili, come il ruolo della fotografia come prova, le relazioni di potere che si instaurano tra noi e i nostri sog-getti, la rappresentazione del trauma e soprattutto la gestione dell’autorità. Il lavoro di Mr. Mkhize’s Portrait era stato commissionato dalla Corte Costituzionale del Sudafrica; una relazione che si rivelò estremamente problematica. La nostra strategia di

allora, la presentazione di ritratti ed interviste, ora ci sembra naïf. Non-ostante tutto, poi, in quell’occasione eravamo abbastanza liberi, rispetto all’Afghanistan. Come giornalisti al seguito delle truppe dovevamo sot-tostare a centinaia di restrizioni. Ci proibivano di fotografare soldati feriti, o persino i risultati del fuoco nemico. Non potevamo nemmeno scattare fo-tografie all’interno dell’obitorio, negli ospedali, o nelle tende degli ufficiali. Di fatto non avevamo il permesso di fotografare nulla che potesse sem-brare un segno di guerra.

JS: Potete parlarci di questa espe-rienza, come fotografi al seguito delle truppe? Quali erano le aspettative dell’esercito? Pensate di averle sod-disfatte?

AB: Negli ultimi anni Olly ed io abbia-mo dovuto mentire molto. Ad esem-pio, prima di riuscire a conquistare la

fiducia delle forze di difesa israeliane passarono 8 mesi, in cui telefonavo almeno una volta alla settimana, aiutandomi con il poco ebraico che conosco. Dopo 8 mesi di negoziazio-ni, ottenemmo di entrare per un’ora e mezza a Chicago, un finto villaggio arabo costruito nel mezzo del de-serto del Negev per l’addestramento militare. Dato che siamo ebrei, si as-pettavano che fossimo solidali nei loro confronti. Abbiamo affrontato il progetto in Afghanistan un po’ allo stesso modo: non siamo stati com-pletamente sinceri riguardo ai nostri reali scopi.

OC: È stato affascinante osservare da vicino come funziona il meccanismo dell’informazione di guerra. Nonos-tante ci trovassimo lì, sul campo, nel mezzo di una guerra, comunque gli eventi ci arrivavano come titoli di

Una conversazione sul ruolo del fotografo in situazioni di conflitto, tra l’impossibilità di rappresentare la guerra e il rischio di collusione.

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JuliaN stallaBrass

GUERRA, FOTOGIORNALISMO E FOTOGRAFIA ARTISTICA

jUlian stallaBrass, oliver chanarin e adaM BrooMBerG in conversazionelondra, Paradise Row gallery

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il mito di europa

giornali lontani, e questo iato era surreale. Ad esempio, la notizia del centesimo morto di guerra non ci arrivò attraverso l’esercito, ma da un giornalista del Sun, che lo aveva saputo dal suo editore di Londra. Da dove veniva quest’informazione? Fu sconvolgente scoprire che i gior-nali hanno la loro rete di spionag-gio nell’esercito, un network di spie sempre impegnato a raccogliere in-formazioni. Se pensiamo a una scala graduale di testimoni, con il soldato a un estremo e il giornalista all’altro, il fotografo da combattimento si colloca in un’ambigua zona inter-media. È una questione che solleva una serie di domande riguardo al ruolo del giornalista al seguito delle truppe. Per noi è diventato chiaro che essere un giornalista al seguito delle truppe, inevitabilmente, rich-iede più collusione che collaborazi-one. Lavori insieme all’esercito per creare immagini. La strategia che abbiamo adottato – non mostrare nulla – ci sembrava il modo più sovversivo di gestire la cosa.

JS: Una delle mostre della Biennale della fotografia di Brighton del 2008 esponeva molte fotografie di questo tipo, dell’esercito americano. Sono affascinanti perché molte di loro rivelano cose che non ti aspetteresti da parte dell’esercito. Ad esempio c’è un’immagine straordinaria che mos-tra delle truppe americane in una casa occupata, fotografate attraverso uno

specchio appannato. È un’immagine molto sinistra, e si può scaricare dal sito internet dell’esercito americano. Più tipicamente, queste fotografie sono come ci si aspetta, molto più generiche: molte immagini di soldati statunitensi con bambini iracheni, o mentre giocano a calcio. Comunque, non riesco a capire come siete passati dalle interviste ai mutilati, che si tro-vavano in uno stato profondamente traumatico e passivo, alla decisione di calarvi in una situazione simile.

AB: Ci siamo sempre aggirati ai bordi del conflitto. Andammo in Iraq du-rante la guerra, ma non al centro del combattimento, e lo stesso è avve-nuto con il Rwanda, o con il Darfur. Abbiamo sentito che era arrivato il momento di collocarci al centro e di esaminare il prodursi della rappre-sentazione in quello spazio.

OC: Quest’anno abbiamo fatto parte della giuria del World Press Photo Awards, che è soprattutto un premio per fotogiornalisti, che premia im-magini di cronaca. In quell’occasione abbiamo passato in rassegna migliaia di immagini di guerra. Ce n’era una particolarmente interessante, che ha vinto il primo premio nella cat-egoria “Spot News”, scattata durante l’assassinio di Benazir Bhutto da un giornalista che era vicinissimo alla scena dell’esplosione, a qualche met-ro dalla detonazione. Tutto avvenne a una tale velocità che non riuscì a mettere a fuoco, e la macchina era di traverso. Quella fotografia non è veramente una fotografia – è più che altro una macchia di colore e luce, non vi si può distinguere molto. Era interessante perché era soprattutto una prova del fatto che il testimone era stato lì. A quel punto abbiamo cominciato a interrogarci su che cosa costituisca una foto giornalistica. Il nostro progetto non intende opporsi al fotogiornalismo in quanto tale. Non stiamo cercando di minare alla base il lavoro dei fotogiornalisti che vanno in zone di guerra e che ris-chiano le loro vite cercando di otte-nere immagini di guerra. Stiamo solo chiedendo ai fotografi in quelle situ-azioni di riflettere un po’ sul tipo di immagini che stanno producendo e su quali regole estetiche stanno seg-uendo.

AB: Dobbiamo anche considerare

la relazione tra il fotografo, il photo-editor e il mercato. Forse qualche re-sponsabilità va attribuita al mercato. Il lavoro di Thomas Hirschhorn, un altro artista incluso nella Biennale di Brighton del 2008, è uno stris-cione lungo 5 metri, formato da un collage di immagini che mostrano gli effetti delle armi moderne sul corpo umano. La cosa più raccapr-icciante che si possa immaginare. Secondo me il modo migliore di fare un lavoro radicale oggi è un attacco in due direzioni. La prima è quella scelta da Hirschhorn: presentare immagini che i media non sono pre-parati a mostrare, mostrare la realtà della guerra e i suoi effetti fisici sul corpo. L’altra direzione è quella che abbiamo tentato di prendere noi: sottrarre immagini. Il che significa colludere, ma esporre quel processo di collusione.

JS: Un altro aspetto che va affron-tato è il ruolo dell’osservatore. L’immagine di Bhutto presenta uno spettacolo di luce e colore in cui ci si può proiettare grazie alla didascalia. Il vostro lavoro sembra simile, anche voi fornite una didascalia; ma come pensate che funzioni questa proiezi-one? È qualcosa che volete incorag-giare o frustrare? Cosa vi aspettate dalle persone che escono dalla vostra mostra? Visivamente, le vostre im-magini sono curiose, ricordano un po’ i quadri astratti di Morris Lewis. I colori suggeriscono impressioni di cielo, ma anche di sangue. Dove vo-lete collocare il vostro osservatore?

AB: Mia madre si è aggirata tra le nostre fotografie passando da: “Ooh, questo sembra così violento” a “ques-to è davvero raffinato”. Affrontiamo la realtà: queste immagini mostrano le tracce che la luce lascia sulla carta. Naturalmente giochiamo sul concetto pittorialista e sublime di bellezza, sul fatto che le nostre immagini possano essere percepite come meravigliose o violente perché il rosso denota il sangue e quindi violenza. Ma per noi

la cosa più importante del lavoro non è tanto ciò che l’osservatore vede nei rotoli di carta, ma piuttosto la sua reazione al film. Non credo che mos-treremmo mai uno di questi rotoli senza il film che descrive il processo di produzione: questa performance è la cosa fondamentale. Non mi inter-essa qual è l’aspetto della carta.

OC: Immagini di altre persone che soffrono hanno l’obiettivo di susci-tare un senso di vergogna. È proprio ciò che vogliamo mettere in discus-sione nel nostro progetto... Qual è l’effetto di quelle immagini, oltre ad una catarsi di qualche tipo? Guardare immagini di guerra ci permette di ag-girare ogni appello all’azione imme-diata. È ciò che accade ogni volta che sfogliamo un giornale. Uno degli obi-ettivi del nostro lavoro è di provare a caricare l’osservatore del fardello

dell’osservazione stessa. Di privare l’osservatore dell’effetto catartico che deriva dal guardare e subito ignorare immagini di trauma umano.

AB: Comunque le nostre immagini non sono completamente inutili. Non sono utili perché sono belle, o utili come tele nere in cui proiet-tare se stessi. Sono utili perché la sofferenza richiede un testimone. Portare con noi un pezzo di carta che è stato proprio lì; portare indietro un pezzo di carta, non una fotografia ma proprio quel pezzo di carta, ed ap-penderlo alla parete, è un po’ come portare indietro una forma visce-rale di prova, più ancora di quanto quell’immagine di Bhutto costituisca una prova.

JS: Forse potreste approfondire ques-to aspetto. La discussione con le per-sone all’apertura della vostra mostra è stata un’esperienza interessante, per-ché alcuni erano stati avvinti dalle im-magini e intrigati dalla combinazione di testo e immagine, mentre altri er-ano piuttosto arrabbiati. Una donna ha descritto il vostro lavoro come un “concettismo”, un’espressione inter-essante, mi pare, perché non implica necessariamente una condanna. Lo si può prendere, letteralmente, come un gioco di parole e immagini, forse un’allegoria. Le reazioni sono state molto diverse tra loro, perciò mi in-teresserebbe sapere perché pensate che il carattere di prova, o la presenza

della carta in quel determinato luogo sia necessaria o interessante. Avreste potuto esporre la carta qui a Hoxton e ne sapremmo quanto prima.

OC: Penso che sia utile tornare all’esperienza di essere lì e di portare in giro quella scatola con l’esercito inglese. Certo può venire in mente la parola “concettismo”. C’era una guerra, soldati che rischiavano la vita, e noi chiedevamo loro di portare da un posto all’altro questa pesante scatola di cartone, mentre noi li fil-mavamo. C’è qualcosa di sovversivo in tutto questo. C’è stato un articolo sul Times riguardo al nostro pro-getto. Quando la giornalista arrivò per l’intervista era molto arrabbiata con noi per avere coinvolto i soldati in questa assurda performance, per avere cooptato l’esercito. Ma il viag-gio della scatola mostra il meccan-

ismo, il funzionamento della guerra.

AB: Penso che la rabbia sia una risposta importante. Perché le im-magini sui giornali non fanno ar-rabbiare? Guardando un’immagine di guerra, il lettore può passare at-traverso diverse emozioni, fino alla totale repulsione. Ma la repulsione lo farebbe smettere di comprare quel giornale: perciò naturalmente i redattori non pubblicheranno mai immagini che mostrino i reali effetti della guerra sui civili. Tutto ciò che mostrano sono immagini inoffen-sive. C’è un accordo tra redattori e inserzionisti che permette solo certi tipi di immagini – quelle che non suscitano rabbia.

JS: L’elemento di performance pre-sente in tutto il vostro lavoro porta a riflettere non solo sulle immagini ma su quello che volevate fare attraverso le riprese video. Da un lato le im-magini della mostra possono essere viste proiettandovi uno spettacolo sublime di violenza e distruzione, o persino del raccapricciante proce-dere della guerra in Afghanistan e di quello che è accaduto negli ultimi anni, ma, d’altro lato, il video mette tutto in una luce diversa e vi presenta quasi come come dei burloni surre-alisti. Potreste parlare del contrasto tra questi due aspetti?

AB: Abbiamo lavorato su questo as-petto in termini Brechtiani, ispiran-

doci al modo in cui il suo teatro epico era basato su una serie di interruzioni. La performance era oscu-rata fino al punto da rendere evidente il meccanismo, il funzionamento che vi stava dietro. Un attore recita la sua

parte, ma allo stesso tempo esplicita molto chiaramente la sua natura di attore. Nel nostro caso, il fatto che la scatola della carta fotografica appaia in ogni scena mina lo spettacolo alla sua base. Lo svolgersi del conflitto è costantemente interrotto da questo testimone comico e muto che blocca letteralmente la vista durante tutto il viaggio.

OC: La scatola agisce per conto dello spettatore, lo porta in questo viaggio e gli mostra questa guerra che non vedrebbe mai in un contesto giornal-istico. Vedere il meccanismo significa vedere qualcosa di estremamente ba-nale, il modo in cui l’intera macchina è costruita per permettere alla guerra di funzionare. Julian Stallabrass, critico e curatore,

insegna al Courtauld Institute of Art

di Londra

“abbiamo capito

immediatameNte che quelle

immagiNi NoN riuscivaNo e

mai sarebbero riuscite a

rappreseNtare il trauma.”

Images from the film shot by Oliver Chanarin and Adam Broomberg to accompany and document their project.

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ECOESTETICA: ARTE OLTRE L’ARTEManifesto per il 21˚ secolo

L’arte oggi si trova intrap-polata nell’idea super-ficiale di “libertà indi-viduale di espressione”, che produce solamente

sensazionalismo e banali scandali mediatici, allargando ulteriormente la separazione tra arte e vita. L’arte oggi si mette in scena puramente come merce. L’enorme successo dell’artista al giorno d’oggi ha gon-fiato il suo ego narcisista, conver-tendolo, o convertendola, in celeb-rità capace di intrattenere il pub-blico, ma priva di qualsiasi potere trasformativo.

Tutto questo è dovuto al falli-mento delle avanguardie storiche: la capacità critica dell’avanguardia è stata espropriata da quelle stesse forze che essa voleva sfidare e cam-biare. Il potenziale di intervenire nella vita e trasformarla, proprio dell’avanguardia, è ancora pre-sente. Ma deve liberarsi sia dall’ego dell’artista, sia dall’istituzione ar-tistica borghese. L’arte deve andare oltre la creazione di oggetti iso-lati che vengono mostrati in musei e/o venduti come merce preziosa sul mercato. Solo allora potrà ac-cedere al mondo della vita di tutti i giorni e contribuire alla sua energia

rasheed araeeN

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giugno/luglio 09il mito di euroPa

collettiva.La lotta dell’avanguardia è stata

storicamente quella di integrare arte e vita, in modo da aprire per-corsi attraverso i quali i processi creativi individuali potessero inser-irsi nei processi dinamici della vita stessa. Ma fu solo con il movimento “Land art” dei tardi anni ‘60 e primi ‘70 che emerse, benché paradossal-mente, un metodo per abbandonare la produzione di oggetti in favore di un’arte di concetti.

La terra è sempre stata oggetto dello sguardo dell’artista, ma in questo caso lo sguardo nonpro-duceva dipinti paesaggistici. Al con-trario, fu la stessa concezione della terra come arte a diventare un’opera d’arte. Si interveniva sulla terra, tras-formandola, ma lasciando che con-tinuasse ad essere parte della terra, come un oggetto stabile o in con-tinua trasformazione. Ma, ancora, quello che sarebbe dovuto divenire parte del processo vivente finii in musei come opere d’arte fotografica, come un oggetto dello sguardo.

Dieci anni più tardi, Joseph Beuys provò a risolvere questo dif-ficile paradosso suggerendo che la sua opera di rimboschimento (Kassel, 1982) potesse divenire parte del lavoro quotidiano delle persone. Offriva un modello sociale per il po-tere trasformativo dell’arte, ma la sua proposta di piantare alberi non

riuscì ad andare oltre all’idea di arte legittimata e avvolta dall’istituzione artistica borghese.

Nonostante queste idee radi-cali dell’avanguardia siano fallite, le idee stesse sono ancora presenti, e possono essere sottratte ai loro dog-matismi istituzionali. Queste idee, certo, sono state confiscate e il loro autentico significato revocato; sono state manipolate fino a diventare og-getti istituzionalmente controllabili, cristallizzate nelle loro temporal-ità. Ma le idee, come la conoscenza, non potranno mai essere congelate, potranno sempre essere recuperate dalla storia e, a partire da un nuovo contesto, plasmate per avanzare, all’interno di nuove dinamiche tem-porali e spaziali.

Ma per conseguire questo ruolo l’arte deve andare oltre e integrarsi alla lotta collettiva della vita con-temporanea, riscoprendo la sua vera funzione sociale.

Un pezzo di terra può essere concepito come un processo di-namico continuo ed autonomo, car-atterizzato da un movimento gen-erato dall’interno, che legittima se stesso. Questa azione non è quella di un individuo, ma è l’opera collet-tiva di coloro che lavorano la terra. E’ questo lavoro collettivo delle masse – e non della natura come percepito dagli artisti americani Smithson and Morris – che trasforma continu-

amente la terra, materializzando un agente che non è solo creativo nella produzione ma che postula, filosofi-camente, un’ idea progressiva.

Il fenomeno del cambiamento climatico può essere studiato dagli scienziati nelle loro torri d’avorio, ma la realtà delle sue disturbanti conseguenze è affrontata da ogni forma di vita sulla terra. La soluzi-one a questo problema non si trova tanto nelle teorie degli accademici, ma nella creatività produttiva delle stesse persone, e si può intensifi-care attraverso l’immaginazione ar-tistica. Il mondo oggi ha bisogno di fiumi e laghi di acqua pulita, di fat-torie collettive e di alberi piantati in tutto il mondo – qualcosa che iniziò in Kenya qualche anno prima della proposta di Beuys, grazie a Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace nel 2004. L’obiettivo dell’Ecoestetica è quello di riconciliare entrambe le visioni, in una coralità che colmi la separazione tra arte e vita.

Sebbene sia estremamente importante proteggere le foreste tropicali esistenti, questo sforzo da solo non basta a ridurre l’effetto serra nell’atmosfera. È necessario piantare più alberi, che hanno bi-sogno di quantità enormi di acqua – un obiettivo che si può raggiungere concettualizzando il processo di de-salinizzazione dell’acqua di mare come una costante, eterna opera

d’arte, con le sue proprie dinam-iche e organizzazione. La creazione di impianti di desalinizzazione in tutto il mondo – che possono essere milioni – fornirebbe ingenti quan-tità di acqua. La desalinizzazione dell’acqua di mare concepita come arte è basata sul suo potenziale di alterare oggetti. Essa costituisce un complesso ciclo di continue trasfor-mazioni dell’energia solare: quando portata a contatto con l’acqua, div-enta vapore che mantiene funzion-ante l’impianto di desalinizzazione e produce acqua fresca, che a sua volta fertilizza la terra dando vita ad alberi e piante.

Questo fenomeno avviene già in natura. Ma quando è ripetuto at-traverso una combinazione tra arte, scienza e tecnologia, i suoi risultati rafforzano e ribadiscono l’autenticità del fenomeno naturale.

L’arte deve liberarsi dal roman-ticismo del confronto anarchico, dalla prigione della facile ironia (Baudrillard) e dai regimi di rappre-sentazione (Rancière, Deleuze), in modo da sprigionare un movimento eterno, entro il processo naturale della vita, divenendo finalmente e autenticamente egualitaria. Rasheed Araeen e’ un artista e il fondatore

di Third Text, storica rivista pioniera

nell’introdurre il pubblico alla produzione

artistica non occidentale

Ratcliffe on Soar 3from the series: “Light After Dark” © Toby Smith www.shootunit.com