ETICA PUBBLICA E RIFORMA DELLA PUBBLICA …...Rapporto annuale 2011, Istituto di Studi Politici...

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1 ETICA PUBBLICA E RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN ITALIA di Franceschetti Laura (2012) in De Nardis P., a cura di, L'etica pubblica oggi in Italia: prospettive analitiche a confronto. Rapporto annuale 2011, Istituto di Studi Politici ‘S. Pio V’ Editrice Aspes, Roma, pp.63 - 118 Indice Premessa – 1. Etica pubblica e burocrazia, evoluzione del concetto in chiave culturale, manageriale e di normazione statale – 2. La declinazione del concetto di etica pubblica nella riforma Brunetta: i principi sottesi alle misure adottate – 3. La tematizzazione della riforma sulla stampa nazionale - Conclusioni Premessa Obiettivo di questa riflessione è indagare il tema dell’etica pubblica in riferimento ad uno specifico contesto, quello amministrativo italiano, negli ultimi tre decenni oggetto da un lato di critiche e denunce per quei fenomeni di cattiva amministrazione ascritti, dall’opinione pubblica 1 , ad una non corretta interpretazione del ruolo dei titolari di compiti pubblici rispetto sia al sistema organizzativo nel quale operano, sia al pubblico di riferimento e dall’altro di interventi normativi di un certo rilievo anche durante la legislatura tuttora in corso. È nell’interfaccia con le istituzioni, infatti, che si dipana quotidianamente il rapporto tra individuo e società, tra interessi privati e obiettivi generali, tra sfera individuale e sfera collettiva. Dopo una ricognizione degli approcci teorici che si sono interessati al tema dell’etica pubblica, finalizzata a individuare le categorie più utili per interpretare le recenti riforme, questo lavoro si concentrerà sul dibattito pubblico sorto intorno alle misure introdotte dal decreto legislativo n. 150 del 2009 (cosiddetta ‘riforma Brunetta’), cercando di comparare gli obiettivi della riforma tracciati nei documenti legislativi e quelli descritti, amplificati e discussi nelle pagine degli organi di stampa nazionali. L’evoluzione della sfera pubblica habermasiana (Habermas, 1988), infatti, ha portato progressivamente alla configurazione di uno spazio pubblico nel quale le dinamiche relazionali tra amministrazione e cittadini (anche se considerati oramai non solo utenti ma anche co-amministratori, v. Arena 2001) sono sempre più mediate dalla presenza dei mezzi di comunicazione di massa (Mazzoleni, 2004). Pertanto, progetti di riforma così densi di implicazioni per la definizione e il trattamento dei problemi pubblici come quello oggetto di questa analisi, possono essere compresi nei loro esiti se si prova a leggerli guardando non solo agli atti normativi, come espressione del discorso politico sulla riforma, ma anche agli articoli dei principali quotidiani nazionali. Questi, infatti, possono costituire la cartina di tornasole della tematizzazione della riforma al di fuori delle stanze più prettamente politiche, ossia proprio in quell’arena pubblica allargata ai media all’interno della quale i principali destinatari della riforma (dipendenti pubblici e cittadini) formano la propria percezione della portata innovativa della specifica iniziativa. 1 In questa trattazione assumiamo la definizione struttural-funzionalista di ‘opinione pubblica’ fornita da N. Luhmann (1990, p. 101), secondo il quale “l’opinione pubblica non può più essere considerata semplicemente come un fenomeno politicamente rilevante, ma deve essere concepita come una struttura tematica della comunicazione pubblica”. In altre parole, essa diventa la struttura tematica delle decisioni normative e politiche, come strumento per la riduzione della complessità.

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    ETICA PUBBLICA E RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN ITALIA di Franceschetti Laura (2012) in De Nardis P., a cura di, L'etica pubblica oggi in Italia: prospettive analitiche a confronto. Rapporto annuale 2011, Istituto di Studi Politici ‘S. Pio V’ Editrice Aspes, Roma, pp.63 - 118 Indice Premessa – 1. Etica pubblica e burocrazia, evoluzione del concetto in chiave culturale, manageriale e di normazione statale – 2. La declinazione del concetto di etica pubblica nella riforma Brunetta: i principi sottesi alle misure adottate – 3. La tematizzazione della riforma sulla stampa nazionale - Conclusioni Premessa

    Obiettivo di questa riflessione è indagare il tema dell’etica pubblica in riferimento ad

    uno specifico contesto, quello amministrativo italiano, negli ultimi tre decenni oggetto da un lato di critiche e denunce per quei fenomeni di cattiva amministrazione ascritti, dall’opinione pubblica1, ad una non corretta interpretazione del ruolo dei titolari di compiti pubblici rispetto sia al sistema organizzativo nel quale operano, sia al pubblico di riferimento e dall’altro di interventi normativi di un certo rilievo anche durante la legislatura tuttora in corso. È nell’interfaccia con le istituzioni, infatti, che si dipana quotidianamente il rapporto tra individuo e società, tra interessi privati e obiettivi generali, tra sfera individuale e sfera collettiva.

    Dopo una ricognizione degli approcci teorici che si sono interessati al tema dell’etica pubblica, finalizzata a individuare le categorie più utili per interpretare le recenti riforme, questo lavoro si concentrerà sul dibattito pubblico sorto intorno alle misure introdotte dal decreto legislativo n. 150 del 2009 (cosiddetta ‘riforma Brunetta’), cercando di comparare gli obiettivi della riforma tracciati nei documenti legislativi e quelli descritti, amplificati e discussi nelle pagine degli organi di stampa nazionali. L’evoluzione della sfera pubblica habermasiana (Habermas, 1988), infatti, ha portato progressivamente alla configurazione di uno spazio pubblico nel quale le dinamiche relazionali tra amministrazione e cittadini (anche se considerati oramai non solo utenti ma anche co-amministratori, v. Arena 2001) sono sempre più mediate dalla presenza dei mezzi di comunicazione di massa (Mazzoleni, 2004). Pertanto, progetti di riforma così densi di implicazioni per la definizione e il trattamento dei problemi pubblici come quello oggetto di questa analisi, possono essere compresi nei loro esiti se si prova a leggerli guardando non solo agli atti normativi, come espressione del discorso politico sulla riforma, ma anche agli articoli dei principali quotidiani nazionali. Questi, infatti, possono costituire la cartina di tornasole della tematizzazione della riforma al di fuori delle stanze più prettamente politiche, ossia proprio in quell’arena pubblica allargata ai media all’interno della quale i principali destinatari della riforma (dipendenti pubblici e cittadini) formano la propria percezione della portata innovativa della specifica iniziativa.

    1 In questa trattazione assumiamo la definizione struttural-funzionalista di ‘opinione pubblica’ fornita

    da N. Luhmann (1990, p. 101), secondo il quale “l’opinione pubblica non può più essere considerata semplicemente come un fenomeno politicamente rilevante, ma deve essere concepita come una struttura tematica della comunicazione pubblica”. In altre parole, essa diventa la struttura tematica delle decisioni normative e politiche, come strumento per la riduzione della complessità.

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    1. Etica pubblica e burocrazia, evoluzione del concetto in chiave culturale, manageriale e di normazione statale Fra i contributi che hanno animato il dibatto scientifico intorno al tema dell’etica

    pubblica molti hanno una chiara matrice filosofica e tendono a fornire eterogenee definizioni di questo concetto. Esse ruotano intorno ai principi di natura morale che guidano il rapporto tra l’interesse privato del singolo individuo e l’interesse generale della comunità politica di riferimento (Viano, 2002; Maffettone, 2001). Gli sviluppi di questa che può essere considerata una vera e propria disciplina si sono articolati in due filoni principali: un primo concepisce l’etica come una scienza del fine che ispira la condotta degli individui e dei relativi mezzi per raggiungerlo; un secondo definisce invece l’etica come la scienza del movente della condotta degli individui. Questo secondo approccio appare più funzionale ai fini del presente lavoro, perché maggiormente orientato al riconoscimento e alla lettura dei fatti, ad un’analisi contestuale delle scelte e dei comportamenti dei singoli, mentre l’approccio dell’etica come fine sposta l’attenzione ad una prospettiva temporale più centrata sul futuro.

    La dimensione pubblica dei comportamenti dell’individuo, e quindi la natura della relazione tra sfera individuale e sfera collettiva è stata oggetto della riflessione filosofica fin dai tempi della polis greca. Tuttavia, già nel XVIII secolo, la tensione ad interpretare la dimensione sociale della natura umana in contesti pratici e attuativi ha portato l’etica pubblica a distinguersi dalla dimensione ideale e astratta della morale (etica come fine), riconducendo ad un mero interesse privato la propensione alla socialità dell’individuo. Secondo D. Hume (in An Enquiry Concerning the Principles of Morals, ed. or. 1751) ad esempio, lo sforzo profuso dall’individuo per affermare la priorità della giustizia nello spazio pubblico è motivato proprio dall’obiettivo personale di preservare, attraverso una convenzione pubblica tra uomini, quella tutela della proprietà personale che non risulta sufficientemente garantita dalla moralità del singolo individuo.

    Questa idea, già intuita da Hume, che il fondamento della morale sia l’utilità ossia il perseguimento di comportamenti e decisioni che determinano la felicità e soddisfazione per la collettività, è successivamente sviluppata dalla corrente filosofica dell’utilitarismo, che si propone di dare una soluzione alle crescenti sperequazioni economiche e sociali derivanti dal coevo sviluppo industriale. In questo filone di pensiero, però, si distinguono due posizioni in relazione alla capacità dell’individuo di compiere autonomamente scelte in grado non solo di rispondere alla propria utilità personale, ma anche di assicurare la massima felicità del maggior numero possibile di individui. Pur partendo dalla medesima convinzione che a guidare la scelta dell’atto del singolo non è un corpus astratto di principi assoluti, ma la valutazione individuale dei diversi atti in funzione della possibilità che questi determinino piacere oppure dolore, J. Bentham (in An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, ed.or. 1789) predilige una valutazione quantitativa dei piaceri che non richiede l’intervento di principi superiori (pubblici, statali) per la formulazione della decisione personale, mentre J. S. Mill (in Principles of Political Economy, ed. or.1848) propende per una determinazione qualitativa dei piaceri e apre così alla possibilità di un intervento della sfera pubblica nella sfera privata perché questa dimensione qualitativa, in quanto soggettiva, presuppone la necessità di coltivare un senso comune e condiviso della giustizia. Entrambi, ad ogni modo, prendono le distanze da una possibile morale assoluta preferendo, invece, un’impostazione etica che parta

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    dall’osservazione dei fatti empirici, basata quindi su una visione concreta delle dinamiche in atto nella sfera pubblica. Sostenitore di una morale privata è anche A. Smith (in The Theory of Moral Sentiments, ed. or. 1759), che crede nella possibilità di assicurare il bene pubblico perseguendo virtù private, quali il risparmio e la laboriosità.

    La dialettica tra pensatori assertori della centralità dell’etica dell’individuo da un lato, e fautori dell’etica della società dall’altro si incarna poi nella cruciale contrapposizione tra la filosofia morale di I. Kant e quella di G. W. F. Hegel. Mentre il primo, in accordo con l’etica dei moralisti inglesi, sosteneva il primato della coscienza individuale (in Critica della ragion pratica, ed. or. 1788) (anche se ha trasferito dal ‘sentimento’ alla ‘ragione’ il movente della condotta), Hegel (in Filosofia del Diritto, ed. or. 1820) invece affermava che l’unico riferimento etico plausibile era quello delle comunità storicamente esistenti.

    L’impostazione hegeliana ha segnato gli sviluppi delle riflessioni sull’etica pubblica fino agli anni Sessanta del secolo scorso, quando la cosiddetta fine delle grandi ideologie ha evidenziato la scarsa capacità di assicurare “scelte collettive sicuramente corrette” (Viano 2002, p. XVIII) da parte di approcci e discipline basate sulla teoria dell’utilitarismo e sull’economia del benessere. Un significativo contributo al dibattito sulla razionalità del comportamento individuale e sul rapporto tra interessi del singolo e valori della società è fornito dalle opere di J. Rawls che esprimono una posizione nettamente contraria alla superiorità del benessere della società ai danni degli interessi dei singoli, affermata dall’approccio utilitarista classico. L’idea di società giusta di Rawls (in A Theory of Justice, ed. or. 1971), ossia di società nella quale la giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, non si basa sulla possibilità di preferire il sacrificio e la rinuncia di pochi come condizione per i benefici di molti. L’autore infatti afferma che in un contesto sociale ideale i principi di giustizia che regolano la convivenza sociale non possono essere stabiliti da un potere sovraordinato agli interessi dei singoli, ma al contrario questi principi devono essere selezionati dagli individui stessi, perché a questi si riconosce la capacità di scegliere autonomamente e con criteri di razionalità non viziati da motivi egoistici e contingenti. In questo modo Rawls pur ispirandosi al contrattualismo kantiano (che prima ancora era stato di Hobbes, Locke e Rousseau) che interpreta questi principi di giustizia come categorici, rifiuta l’idea che possano servire a giustificare razionalmente il potere dello Stato perché non li interpreta come emanazione di una morale eteronoma dai singoli individui.

    I lavori di Rawls sono particolarmente degni di nota all’interno di questa preliminare rassegna di approcci sull’etica pubblica perché individuano un nuovo campo di indagine, nel quale è possibile coniugare la riflessione morale con la pratica politica: l’etica applicata. In particolare, secondo Palumbo (2003, p. 9) “l’etica applicata si prefigge l’obiettivo di una principled governance; sarebbe a dire, la regolamentazione delle interazioni sociali in determinati contesti che hanno rilevanza pubblica sulla base di principi di giustizia accettati o accettabili universalmente” che non coinvolgono unicamente le istituzioni dello Stato, ma anche quelle della società civile. L’insieme di queste regole (o contratti sociali) definisce il gruppo dei principi di giustizia ai quali far riferimento nel momento in cui tra gli individui insorgano conflitti o contrasti circa il corso di azioni da intraprendere. Una specifica etica applicata è quella relativa alla pubblica amministrazione che, contrariamente a quanto affermato dall’approccio utilitarista, non si basa sull’assunzione che l’amministrazione sia un organismo con compiti di natura tecnica e neutrale rispetto alle indicazioni della politica (tanto da rendere superflua la distinzione tra politica e amministrazione), ma parte dal presupposto invece che la burocrazia sia un soggetto in grado di svolgere anche funzioni di coordinazione e mediazione tra le diverse istanze provenienti dal sistema politico e dal sistema sociale. In questa prospettiva

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    l’amministrazione pubblica non è un attore subordinato alla politica, ma può trovarsi ad esercitare un potere discrezionale di scelta tra alternative rilevanti grazie alla statuizione di principi costituzionali, esogeni all’esercizio del potere politico, che ne garantiscono modalità d’azione improntate all’imparzialità e alla impersonalità dei criteri che orientano le specifiche scelte.

    La centralità delle norme come strumento valido per la regolazione dell’azione dell’amministrazione, in alternativa al mero riferimento ad astratti principi morali, era già stata sottolineata dagli studi sociologici che hanno analizzato la burocrazia e il suo funzionamento nella prima metà del secolo scorso.

    Gli scritti di M. Weber, ad esempio, sono fondamentali in questo contesto non solo in riferimento al dibattito relativo all’influenza della dimensione religiosa sulla determinazione del sistema dei valori della comunità civile, ma anche in relazione alla caratterizzazione degli assetti amministrativi da esso teorizzata e alla conseguente relazione tra esiti dell’azione burocratica e principi di riferimento. Weber infatti nel saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (ed. or. 1904) sostiene che, nelle società capitalistiche, alla base del comportamento etico c’è il senso del dovere tipico delle diverse figure professionali nei confronti del proprio lavoro, poiché il successo economico viene interpretato – soprattutto nell’etica protestante – come il segno della benevolenza divina nei confronti del singolo. Questo senso del dovere nei confronti del proprio lavoro trova una rappresentazione idealtipica nel modello di burocrazia proposta dallo stesso autore in un’opera successiva – Economia e società (ed. or. 1922) – nella quale viene sottolineato che una peculiarità della burocrazia è costituita proprio dall’essere emanazione del potere razionale-legale, ossia di un potere basato sia sul riconoscimento d’autorità delle fonti normative in quanto fondamento degli ordinamenti statuiti, sia sulla centralità della competenza tecnica di coloro (i funzionari) che sono chiamati ad esercitare tale potere. Questo principio della razionalità, secondo Weber, si affianca a quello dell’imparzialità e dell’impersonalità nel definire le modalità d’azione del funzionario. L’imparzialità (o anche ‘neutralità’) dei comportamenti è coerente con il principio di legalità dello Stato di diritto, ossia nella necessità che i funzionari svolgano la propria attività – applicare le norme – senza cedere ad alcuna forma di favoritismo per specifiche categorie o gruppi di cittadini. L’impersonalità, invece, implica la necessità che il funzionario si spogli della sua specifica soggettività, rinunciando a perseguire i propri interessi personali e preferendo, invece, quelli della collettività, come obiettivo ultimo della propria attività in seno all’amministrazione.

    Gli sviluppi successivi degli studi sociologici hanno contribuito ad articolare in due dimensioni la natura di questi strumenti normativi: una dimensione esterna, in cui l’insieme delle norme di riferimento è prodotto da attori esterni alla struttura amministrativa, come nel caso dei principi costituzionali fissati dagli attori del sistema politico; e una dimensione interna, in cui i principi e i valori di riferimento sono elaborati, con metodo cooperativo, dagli stessi funzionari pubblici e prendono la forma dei codici di autoregolazione etica e delle carte dei valori (Palumbo 2003), che saranno approfonditi successivamente.

    Decisamente inferiore invece è la fiducia, espressa dall’approccio economico allo studio

    dei sistemi burocratici, relativamente alla capacità delle leggi di rappresentare un efficace strumento di regolazione dell’operato dell’amministrazione. Se questa viene interpretata come un organismo (agenzia) produttore di beni e servizi pubblici che non possono essere prodotti dal mercato ecco che, in base a questo approccio, l’unico corpus di regole in grado

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    di disciplinare il buon funzionamento della burocrazia sono quelle del mercato e della libera concorrenza (Palumbo 86). Secondo Downs e Niskanen (in Ostrom, 1996; Niskanen, 1973), infatti, i funzionari pubblici non si limitano a rispettare i criteri di funzionamento dell’amministrazione fissati negli atti normativi ma, mossi da un interesse egoistico, cercano di massimizzare la propria utilità perseguendo il proprio benessere individuale, anche se questo comporta nello specifico la massimizzazione dei budget di spesa accordati dai politici (sponsor) agli specifici uffici, e una conseguente ‘inefficienza allocativa’ delle risorse. La riduzione del settore pubblico e il ritorno ai principi del mercato secondo questo approccio costituiscono una valida soluzione alla scarsa capacità di controllo dimostrata dallo Stato, e dagli attori politici in particolare, sulle scelte d’azione dei burocrati (Fedele 1998), e al tempo stesso mostrano la “superfluità dell’etica della pubblica amministrazione” (Palumbo 2003, p. 84) intesa come ‘etica applicata’.

    Il New Public Management (Hood, 1991; Osboerne e Gaebler, 1995), come sviluppo successivo di questo approccio economico all’analisi della pubblica amministrazione, rafforzerà l’idea che le tecniche di gestione manageriale tipiche del settore privato sono in grado di garantire il superamento dei problemi di inefficienza produttiva e crisi di legittimità degli apparati pubblici degli anni Ottanta2, nonché di assicurare una gestione più efficace dei dipendenti pubblici. Ispirato ai principi di responsabilità di budget, di controllo di gestione, di separazione tra politica e amministrazione, di valutazione del personale (OECD, 1995; Pollit e Bouckaert, 2000), il NPM segna una profonda frattura, rispetto al modello weberiano, nella definizione dei principi di azione che guidano l’azione delle amministrazioni. Le burocrazie tradizionali, infatti, operavano con un forte senso di subordinazione rispetto alle indicazioni di derivazione politica, con una decisa specializzazione dei compiti e gerarchia degli uffici, nonché con l’obiettivo principale di applicare norme impersonali seguendo processi standardizzati. Il modello amministrativo proposto dal NPM, invece, si fonda sulla rivalutazione della discrezionalità decisionale del singolo dipendente pubblico (in grado di lavorare per obiettivi) e su un diffuso senso di responsabilità che coinvolge tutti i livelli amministrativi rispetto al risultato da ottenere.

    Se nel primo caso, come abbiamo visto, i principi cardine dell’etica pubblica sono l’imparzialità e l’impersonalità nell’applicazione della norma, nel secondo modello organizzativo invece le parole-chiave degli apparati pubblici diventano efficacia, efficienza ed economicità da conseguirsi attraverso i metodi della pianificazione, della programmazione e del controllo. In entrambi i casi, condizione fondamentale per una buona amministrazione è l’introduzione di un sistema di controlli sull’operato dei funzionari pubblici che può andare dal controllo preventivo atto per atto, formale e finalizzato a verificare la legittimità dell’azione rispetto alle indicazioni normative (tipico delle amministrazioni burocratiche che si richiamano alla tradizione amministrativa francese), al controllo sull’azione amministrativa, volto invece a verificare lo svolgersi

    2 Negli anni Ottanta del secolo scorso gli apparati burocratici dei principali Paesi Occidentali erano

    caratterizzati da una crisi di rendimento funzionale, da scarsa efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa nell’incontrare i bisogni della collettività e da una diffusa perdita di fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini amministrati (Mény e Wright, 1994). A questi fattori endogeni al sistema, si sono sommate spinte esterne, quali i processi di europerizzazione delle politiche e di globalizzazione dei processi economici (Campbell, 2004; Knill, 2001; Sassen, 2008), che hanno portato, nei successivi anni Novanta, ad un inevitabile processo di cambiamento amministrativo ispirato ai principi della superiorità dei sistemi di gestione manageriali tipici del settore privato.

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    dell’azione e l’esito raggiunto (particolarmente diffusi nei contesti amministrativi anglosassoni), fino ai cosiddetti controlli sostitutivi3 (Vandelli, 2009).

    È proprio sulle modalità di applicazione di tale controlli che si concentrano gli studi che hanno analizzato l’etica pubblica delle amministrazioni partendo da un approccio giuridico-politologico, piuttosto che filosofico. Questa prospettiva di analisi pone al centro dell’attenzione il rispetto delle regole come condizione fondamentale a garanzia di un’amministrazione pubblica che operi non solo secondo il principio dell’imparzialità, ma anche in base al principio del buon andamento e dell’economicità (Merloni, 2009). Consente così di spostare il focus della riflessione dal fondamento delle regole (astratte piuttosto che concrete; individuali piuttosto che collettive) alla loro implementazione, dai principi all’azione, assumendo una prospettiva di analisi più funzionale agli obiettivi del presente lavoro.

    In Italia i principi che regolano il funzionamento degli apparati pubblici e il comportamento dei funzionari che in essi operano sono contenuti nella Costituzione, che al comma 2 dell’art. 54 stabilisce che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche” hanno il dovere di esercitarle “con disciplina e onore”, che devono contribuire al buon andamento e all’imparzialità dell’amministrazione (art. 97) ed, infine, all’art. 98 ne decreta l’esclusività del rapporto di lavoro: “sono al servizio esclusivo della Nazione” (sancendo così un principio fondamentale per la separazione tra politica e amministrazione). L’insieme di tutte le regole che disciplinano il comportamento corretto dei dipendenti pubblici si definisce ‘etica pubblica’ (Cerulli Irelli, 2009), e misura tale correttezza sia in funzione della specifica struttura amministrativa presso la quale si presta servizio, sia nei confronti di tutta la collettività di riferimento. Secondo le teorie del New Public Management, infatti, l’operato del funzionario pubblico può essere valutato non solo in funzione della corrispondenza tra i risultati conseguiti e gli obiettivi fissati dagli attori politici del sistema, ma anche in relazione alla capacità di fornire una risposta adeguata ai bisogni dei cittadini, proprio attraverso un adeguato compimento della specifica funzione amministrativa della quale si è titolari.

    Il riferimento all’esistenza di una pluralità di soggetti nei confronti dei quali può esercitarsi l’accountability dell’amministrazione e dei suoi funzionari è presente anche nella teoria degli stakeholders (D’Orazio, 2009) secondo la quale l’impresa – e quindi anche la Pa – non ha ragione d’esistere senza i suoi diversi pubblici di riferimento, sia interni (gli azionisti/politici e i dipendenti) sia esterni (i consumatori/utenti, i fornitori e la collettività). In quanto portatori di specifici interessi, questi soggetti spingono l’amministrazione ad operare secondo una logica di responsabilità sociale che tenga conto non solo degli interessi degli attori politici, ma anche delle aspettative e dei bisogni della collettività. Riuscire a conciliare il concetto di ‘bene’ di queste diverse categorie di attori, tuttavia, non è semplice: come agisce la discrezionalità decisionale del burocrate nel processo di scelta delle soluzioni più funzionali all’interesse della collettività in società fortemente pluraliste? E soprattutto cosa accade quando l’attore amministrativo si trova a dover affrontare un dilemma ancora più forte, che contrappone i valori condivisi dalla collettività a quelli propri dell’etica professionale dei dipendenti pubblici?

    La risposta a questi interrogativi apre al dibattito tra quello che A. Marra (2009) definisce l’ethos burocratico, improntato ai criteri formali di efficienza, efficacia, competenza, lealtà, accountability, e l’ethos democratico, che invece si richiama a principi

    3 I controlli sostitutivi si attivano in caso di inadempienza nell’esercizio delle specifiche funzioni

    amministrative o di servizio, in particolare in caso di ritardi oppure mancata esecuzione di procedure previste per legge.

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    costituzionalmente definiti quali la libertà, l’eguaglianza, la cittadinanza, l’equità sociale e l’interesse pubblico. Il binomio di principi che offre una via d’uscita a questo empasse è, secondo l’autrice, ‘imparzialità-trasparenza’, ossia una strategia di azione che pur basandosi su standard di condotta specifici dell’organizzazione pubblica, non li applica secondo modalità autoreferenziali ma li rende pubblici e trasparenti per aumentare le forme di cittadinanza democratica a disposizione della collettività.

    Tale strategia prende forma nei Codici etici di autoregolazione della pubblica amministrazione, adottati a partire dalla metà degli anni Novanta, che integrano le regole di diritto civile, penale e amministrativo tradizionalmente deputate a disciplinare il funzionamento degli apparati pubblici e trovano applicazione nelle situazioni dai confini incerti, nelle quali il limite tra comportamenti ammissibili e comportamenti non ammissibili non è univocamente definito (Merloni, 2009). Spesso queste regole etiche esprimono la loro utilità quando si tratta di ricondurre ad unità gli interessi del singolo e quelli dell’organizzazione presso la quale esso presta servizio, e quindi il conflitto tra etica personale del funzionario ed etica dell’amministrazione perché, a differenza delle regole giuridiche, consentono una maggiore discrezionalità e flessibilità nell’interpretazione dei casi nuovi, pur mantenendo un costante riferimento a principi d’azione condivisi (Bocchi, 2009).

    Allargando la prospettiva alla performance delle strutture amministrative, poi, è possibile rivalutare la funzione di queste regole etiche anche in relazione al problema delle inefficienze produttive denunciata dall’approccio dell’analisi economica alle pubbliche amministrazioni: la presunta “superfluità” (Palumbo 2003) di questi codici argomentata da Niskanen, infatti, viene meno sia se assumiamo il punto di vista della stakeholder analysis, sia che partiamo dalla teoria politica delle organizzazioni. Nel primo caso, infatti, la sottoscrizione di codici di comportamento può ridurre le forme di opportunismo derivanti da un uso strategico dell’asimmetria informativa che caratterizza il rapporto politica-amministrazione, a vantaggio di quest’ultima, perché la natura pubblica dell’obbligo assunto non solo permette ai Comitati etici di attribuire premi e sanzioni con modalità trasparenti, ma consente anche al cittadino di esercitare una funzione di voice nei confronti dell’ente pubblico. Nel secondo caso invece, si ritiene che l’efficacia motivazionale dei codici etici non sia funzione, ad esempio, degli incentivi monetari proposti dalla teoria economica, ma direttamente connessa alla capacità del codice di assumere il punto di vista morale del cittadino stesso, non solo perché il cittadino è la fonte ultima del potere (sia rispetto agli attori amministrativi sia a quelli politici elettivi), ma soprattutto perché non va dimenticato che i funzionari pubblici sono essi stessi, in prima istanza, cittadini della collettività che si trovano ad amministrare.

    Prima di passare all’analisi della riforma Brunetta allo scopo di verificare quali strumenti normativi ha scelto il legislatore per rendere operativi alcuni fra i principi di etica pubblica fin qui delineati, è necessario rispondere a una domanda: come si è intrecciato lo sviluppo di queste due tipologie di regole – giuridiche ed etiche – nel contesto amministrativo italiano? Che ruolo ha giocato il sistema dei controlli nell’assicurare l’efficacia di queste regole? In altre parole, come si è articolata la politica dell’etica pubblica in Italia nell’ultimo ventennio?

    Innanzitutto occorre sottolineare che in Italia la regolazione dell’azione pubblica ha sempre privilegiato il ricorso a strumenti normativi per garantire al cittadino il corretto funzionamento degli apparati amministrativi, e solo a partire dagli anni Novanta sono stati introdotti strumenti di autoregolazione etica volti a migliorare i risultati poco soddisfacenti di un siffatto modello organizzativo, più orientato all’adempimento normativo che non ai

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    criteri di efficienza ed efficacia. Il primo codice di condotta dei funzionari pubblici è stato adottato nel 1994, successivamente ad un lavoro di istruttoria curato dalla Commissione Cassese, ed è stato poi revisionato, più negli aspetti stilistici che contenutistici, nel 2000 su indicazione dell’allora Ministro per la Funzione Pubblica Frattini (Cassese, 2009). Si presenta, tuttavia, più come un codice disciplinare che come un codice etico sostanziale (Palumbo, 2003) poiché, pur enunciando i principi che dovrebbero guidare l’azione pubblica, li richiama in una prospettiva puramente formale e non prevede l’istituzione di organi specifici dedicati alla verifica dell’implementazione del codice stesso. Questo codice, inoltre, così come gli altri adottati nello stesso periodo in altri paesi europei4 sotto la spinta della riforma dell’amministrazione in senso manageriale, presenta diversi di un elemento di criticità: da un lato sono stati elaborati senza un effettivo coinvolgimento degli stakeholders dell’amministrazione, nonostante avessero dovuto costituire proprio uno strumento di garanzia nei confronti di questi soggetti portatori di interesse; da un altro lato non prevedono per questi soggetti reali meccanismi di reclamo in caso di mancato rispetto dei principi d’azione stabiliti.

    Per le regole etiche così come per le regole giuridiche, pertanto, la questione cruciale risulta essere non tanto la definizione dei principi fondamentali ai quali conformare l’azione della Pa, quanto piuttosto l’esistenza (e l’efficacia) dei sistemi di controllo in grado di garantire l’adozione di comportamenti etici da parte dei funzionari pubblici.

    Il primo riconoscimento della necessità di introdurre meccanismi di controllo sull’azione amministrativa è rintracciabile in Italia in un Regio Decreto del 1923, che attribuisce al Ministero del Tesoro non solo la prerogativa del controllo di legittimità degli atti e di correttezza contabile delle procedure di spesa, ma individua anche un controllo di ‘proficuità’ (o di merito finanziario) che può essere interpretato come l’antesignano di quei controlli interni di efficacia, efficienza ed economicità poi sviluppati dalle riforme degli anni Novanta (Hinna, 2002). La cultura dell’adempimento burocratico e la concezione di un’amministrazione sovraordinata nei confronti dei cittadini determinerà, per circa un secolo, la predominanza di sistemi di controllo esterni volti a “verificare l’efficienza e il contenimento dei costi della pubblica amministrazione” (Vandelli 2009, p. 15) ed esercitati principalmente dalla Corte dei Conti. Conseguentemente all’innesto dei principi della cultura economico-aziendale operato dal nuovo paradigma di amministrazione imprenditoriale (d’Albergo e Vaselli, 1997) si registra, anche in Italia, l’approvazione di una serie di interventi normativi orientati a riformare il sistema dei controlli. La legge n. 241/1990 introduce il principio della trasparenza amministrativa, la legge n. 142/1990 stabilisce il principio della separazione fra compiti di indirizzo politico e funzioni amministrative e il decreto legislativo n. 29/1993 (riforma Cassese) sancisce l’obbligo di

    4 L’Ethics in Government Act approvato nel 1978 negli Stati Uniti rappresenta uno dei contributi più

    importanti al movimento etico in questo Paese, rafforzato poi dagli interventi neoliberali della presidenza Reagan alla fine degli anni Ottanta (v. l’Ethics Reform Act nel 1989 e gli Executive Orders nel 1992). Nel Regno Unito, invece, l’affermarsi del movimento etico è fortemente condizionato dalla compagine politica al governo. Tuttavia, a metà degli anni Novanta, in risposta alle iniziative riformatrici inspirate ai principi del New Public Management (che sollevavano interrogativi circa la possibilità di conciliare le logiche di mercato con gli standard etici dell’azione pubblica) anche in Gran Bretagna vengono individuati i Seven Principles of Public Life (1994).

    Alla fine degli anni Ottanta infatti il governo della Thatcher ha avviato una serie di iniziative volte ad annullare i margini di autogoverno della PA. La riforma improntata ai principi del New Public Management aveva sollevato tuttavia degli interrogativi circa la possibilità di conciliare le logiche di mercato con gli standard etici dell’azione pubblica

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    costituire gli uffici di controllo interno5 dando così (finalmente) attuazione al principio già fissato all’inizio del secolo. La successiva legge n. 20/1994 darà un ulteriore contributo alla disciplina dei controlli sull’attività della pubblica amministrazione: con l’obiettivo finale di riformare i compiti e le funzioni della Corte dei Conti, infatti, questa legge rafforzerà le funzioni di controllo sia interno sia esterno della macchina burocratica, indicando specifici parametri di valutazione quali la congruenza dell’azione amministrativa rispetto alle indicazioni degli attori politici, il costo e l’efficacia dei servizi erogati, il livello di soddisfazione dei cittadini-utenti.

    Questo ciclo di riforma del sistema dei controlli si chiude con il decreto legislativo n. 286/1999 (riforma Bassanini) che, rispetto al decreto 29/1993, specifica con maggiore dettaglio quali tipologie di controllo sono possibili, nonché le modalità da mettere in atto e i soggetti coinvolti. Il decreto 29/1993 senza dubbio aveva rappresentato un elemento di novità nella storia amministrativa del nostro Paese: scegliendo, infatti, come parametri del controllo i criteri di efficacia, efficienza, economicità, ai quali si aggiunge anche il rispetto delle norme, esso era volto a misurare la funzionalità organizzativa della PA, la razionalità delle procedure e l’adeguato impiego delle risorse. Introduceva, inoltre, una nuova disciplina relativa alla responsabilità dei dirigenti pubblici sui risultati raggiunti conseguentemente alle scelte e alle azioni intraprese dai singoli. Nonostante queste rilevanti indicazioni di principio, il decreto non ha conosciuto un significativo livello di implementazione e ciò in parte è dovuto alla complessità strutturale del sistema dei controlli in Italia, in parte alle incertezze concettuali e alle ridondanze lessicali che ne caratterizzavano il testo legislativo. Se a questi elementi si aggiungono una naturale resistenza della componente dirigenziale a sostituire la cultura dell’adempimento con quella del risultato (Battistelli, 2002; d’Albergo e Vaselli, 1997), e la scarsa disponibilità di risorse organizzative per l’implementazione dei dettami normativi, ben si comprende la necessità di un nuovo intervento normativo in grado di semplificare e disciplinare con maggiore precisione il sistema dei controlli (Hinna, 2002; Natalini, 2009).

    Una risposta a questa esigenza è stata infatti fornita dal decreto legislativo 286/1999, che all’articolo 1 distingue tra quattro tipi di controllo: - il controllo di regolarità amministrativo-contabile (che ripropone il tradizionale

    controllo di legittimità); - il controllo di gestione (orientato a criteri di efficacia, efficienza ed economicità); - la valutazione dei dirigenti (basata sul riconoscimento di un principio di responsabilità

    di questi funzionari apicali), - ed, infine, la valutazione e il controllo strategico (come strumento di misurazione della

    congruenza tra decisione politica e pratica implementativa degli apparati burocratici). Quest’ultima disciplina rappresenta il vero elemento innovativo rispetto al decreto

    29/1993, perché interpreta il tema del controllo come una leva dirigenziale in grado di guidare una riflessione sull’andamento delle attività amministrative sia in relazione all’obiettivo individuato, sia rispetto alle scelte strumentali messe in atto.

    Misure normative successive volte a specificare ulteriormente gli obiettivi ambiziosi di questo disegno di riforma della gestione della macchina amministrativa sono le direttive della Presidenza del Consiglio dei Ministri elaborate annualmente dal Comitato Tecnico Scientifico per la Valutazione e il Controllo Strategico nelle Amministrazioni dello Stato

    5 Vengono istituiti, all’interno dei gabinetti ministeriali oppure degli uffici di diretta collaborazione

    del Ministro, i Servizi di Controlli Interno (Secin) con compiti in tema di valutazione dei dirigenti.

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    (CTS)6. Nonostante l’impegno profuso dai diversi governi (prima Amato, poi Berlusconi ed infine Prodi) nel declinare i principi della valutazione e del controllo strategico, con l’indicazione di specifici strumenti per rendere operativi i sistemi di controllo7, i risultati del quadro di attuazione8 non sono soddisfacenti: nel 2006 solo in tre ministeri il sistema di controllo di gestione risulta in fase di funzionamento, in 4 è sperimentazione, mentre negli altri casi è ancora allo studio o in fase progettazione. Si è determinato quello che Natalini (2009, p. 2) definisce “un adempimento senza sostanza e senza qualità” Le ragioni di questo deficit implementativo sono analoghe a quelle che, in una prospettiva più ampia, giustificano l’ancora limitata diffusione delle logiche manageriali nel sistema amministrativo italiano: la mancanza di risorse adeguate, lo scarso radicamento della funzione di programmazione e controllo nella cultura organizzativa della Pa ed, infine, l’ambiguità delle funzioni assegnate agli organi centrali di coordinamento e di valutazione (rispettivamente il CTS e i Secin) (Dente e Piraino, 2008).

    Il sostanziale fallimento di questa specifica politica di etica pubblica fondata sulla centralità del sistema dei controlli a garanzia tanto dell’imparzialità quanto del buon andamento degli apparati amministrativi è ascrivibile non solo alla resistenza culturale della dirigenza ad essere oggetto di valutazione, ma anche al fatto che, come sottolinea Natalini (2009, p. 1), “la politica ha rinunciato a definire strategie, a governare per politiche”. Assumendo infatti come definizione di ‘politica dell’etica pubblica’ “l’insieme delle misure e degli interventi (di carattere legislativo, ma anche consistenti di operazioni organizzative interne alle singole amministrazioni, nonché operazioni di carattere formativo e culturale rispetto alle diverse categorie di pubblici agenti) tesi ad ottenere da parte dei pubblici agenti modalità di azione e comportamenti conformi ai principi dell’etica pubblica” (Cerulli Irelli 2009, p. 30), possiamo affermare che gli sviluppi della riforma perseguiti sotto il successivo governo Prodi hanno segnato il punto finale della ‘parabola dei controlli’ iniziata nel 1993 (Dente e Piraino, 2008). La Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 12 marzo 20079, del resto, declina il sistema dei controlli semplicemente come un meccanismo per assicurare la razionalizzazione della spesa, anziché come strumento per un più ampio processo di modernizzazione della pubblica amministrazione. I principi di responsabilità dei funzionari pubblici e di discrezionalità della dirigenza nelle attività di gestione vengono nuovamente subordinati “al bisogno di un controllo imparziale, indipendente ed oggettivo, capace di costituire un vincolo esterno (e uno spauracchio) all’attività dei responsabili” (Dente e Piraino 2008, p. 23) e sono pertanto

    6 Istituito dall'art. 7 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, concernente il “Riordino e

    potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell'attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell'articolo 11, lettera c) della legge 15 marzo 1997, n. 59”, il Comitato Tecnico Scientifico è collocato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed ha il compito di coordinare le attività di competenza delle amministrazioni dello Stato in materia di valutazione e controllo strategico di cui all’art. 6 del d.lgs 286/99, valutando le esperienze avviate dalle singole amministrazioni ed individuando le best practises da trasferire in altri contesti amministrativi.

    7 La prima Direttiva (Amato/Bassanini) viene emanata dal Presidente del Consiglio dei Ministri nel dicembre del 2000. A questa segue, nel dicembre 2001, la Direttiva Berluscono/Frattini e nel 2002 la Direttiva berlusconi/Frattini 2. Successivamente, nel 2004, viene emanata la direttiva Berlusconi/Scajola (allora Ministro per l’attuazione del programma di governo) ed infine nel 2006, con il Governo di centro-sinistra, viene elaborata la direttiva Prodi/Santagata (Dente e Piraino 2008)

    8 Rilevabili nei rapporti di attività del Comitato stesso (v. http://www.governo.it/Presidenza/controllo_strategico/pubblicazioni.html)

    9 Il riferimento è alla cosiddetta Direttiva Prodi/Santagata che propone un nuovo sistema di governance delle amministrazioni centrali basato su una più profonda connessione tra pianificazione strategica e pianificazione finanziaria (Onesti e Angiola, 2009).

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    espressione di una scelta di policy che richiede un minor investimento in termini di misure coordinate che investano anche le politiche di gestione del personale, la formazione, l’impiego delle nuove tecnologie, ecc.

    2. La declinazione del concetto di etica pubblica nella riforma Brunetta: i principi sottesi alle misure adottate

    Per quanto gli interventi normativi che hanno caratterizzato la prima e la seconda

    riforma del pubblico impiego considerate nel paragrafo 1 non abbiano registrato risultati soddisfacenti, tuttavia non si può negare che abbiano comunque lasciato tracce significative tanto nelle modalità di gestione degli apparati amministrativi, quanto nel sistema di relazioni tra le istituzioni e i cittadini. Non solo all’interno delle amministrazioni si sono diffusi la terminologia e i concetti tipici della logica del controllo e della valutazione, ma anche l’opinione pubblica è sempre più consapevole del proprio diritto a prestazioni efficaci e ad amministrazioni efficienti, grazie anche all’azione informativa svolta in proposito dai media (Natalini, 2009). Pertanto, come afferma R. Ruffini (2009, p. 14) “anche se alcuni elementi delle riforme sembrano fallire o essere rigettati essi restano utili per lo sviluppo delle riforme future”, o perché sono principi fondamentali che occorre recuperare soprattutto alla luce di recenti fenomeni (quali la diffusa deresponsabilizzazione della dirigenza, l’abbassamento qualitativo dei servizi, la scarsa attenzione alla cultura della programmazione e di verifica dei risultati di gestione, l’assenza di meccanismi di tutela per gli utenti dei servizi pubblici, ecc.) oppure perché si tratta di pratiche d’azione non più promosse dalla retorica ufficiale ma comunque attive in porzioni significative dell’apparato pubblico, o ancora per quello che Ruffini (ibidem) definisce ‘Hawthorne Effect’10, ossia l’aumentata produttività determinata dalle iniziative di riforma gestionale nel gruppo di lavoratori oggetto dell’innovazione.

    Se a queste considerazioni di scenario si aggiungono da un lato la stretta finanziaria decisa dal neoinsediato Ministro dell’economia allo scopo di ridurre il deficit pubblico ed indurre le amministrazioni ad operare secondo più decisi criteri di efficienza ed economicità, e dall’altro le decisioni della Corte Costituzionale che hanno spinto per un cambiamento della disciplina dei dirigenti pubblici all’insegna di una maggiore responsabilità, si comprende facilmente come la terza riforma del pubblico impiego, cosiddetta ‘riforma Brunetta’, si collochi in perfetta continuità con i principi-cardine del processo di cambiamento amministrativo in atto nell’ultimo ventennio (Rebora, 2009; Roma, 2009). All’interno degli atti normativi che costituiscono il corpus della recente riforma del pubblico impiego, infatti, è possibile rintracciare non solo principi già introdotti dall’iniziativa Amato-Cassese all’inizio degli anni Novanta, quali la direzione per obiettivi come strumento per coordinare gli indirizzi dell’organo politico con le scelte di gestione degli apparati amministrativi, e il sistema di incentivazione orientato all’aumento della produttività e della qualità delle prestazioni, ma anche misure e indicazioni variamente presenti nella disciplina contrattuale del pubblico impiego che, in ogni comparto, fin dal 1998, ha contemplato sistemi di valutazione del personale basati su meccanismi premianti e con differenziazioni retributive.

    10 Prende il nome dagli esperimenti sociali effettuati, negli anni Venti, da E. Mayo presso gli

    stabilimenti della Western Electric a Hawthorne, vicino Chicago.

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    I principi innovativi della cosiddetta riforma Brunetta particolarmente significativi in relazione al tema dell’etica pubblica, e quindi della regolazione del comportamento dei pubblici dipendenti nello svolgimento della propria attività, sono contenuti in tre interventi normativi in particolare: il Piano industriale della pubblica amministrazione, la legge n. 15/2009 e il decreto legislativo n. 150/2009 per l’ottimizzazione della produttività del pubblico impiego, nonché il decreto legislativo n. 198/2009 sull’azione collettiva11.

    Il Piano industriale della pubblica amministrazione (maggio 2008) contiene già nel titolo l’indicazione dei principi ai quali si ispira e degli obiettivi che intende raggiungere. Partendo dalla considerazione che la produttività media dei dipendenti pubblici e l’efficienza media delle strutture amministrative italiane sono assai basse non solo rispetto ai sistemi amministrativi degli altri maggiori Paesi europei, ma soprattutto in relazione agli indici di funzionamento del settore privato, il Ministero si pone l’obiettivo di avviare un processo di modernizzazione della pubblica amministrazione le cui linee-guida spingono per una maggiore diffusione della cultura del risultato, del processo e della responsabilità. La forte influenza della retorica ispirata dal settore privato è rilevabile anche nell’intento dichiarato di introdurre all’interno del sistema pubblico la figura del datore di lavoro politico-amministrativo (“che in base alla legge impartisce le direttive ai dirigenti pubblici”), stabilendo così una piena analogia con l’impresa privata. La descrizione delle direttrici da sviluppare in un successivo intervento legislativo finalizzato ad ottimizzare la produttività del lavoro contengono già in nuce quei principi di meritocrazia e premialità, di valutazione e trasparenza, di responsabilità ed efficienza che saranno poi meglio esplicitati nelle norme che seguiranno: “introdurre nell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, sistemi di selezione, valutazione e gestione improntati al merito e alla trasparenza anziché all’anzianità e alle pressioni di forze politiche e sindacali. Riconoscere e premiare chi vale e si dà da fare e sanzionare chi non fa il proprio dovere favorirà l’innalzamento della produttività di tutto il settore pubblico, affinché i cittadini ricevano servizi migliori e in tempi più rapidi”.

    Questa impostazione orientata ai criteri organizzativi del settore privato, basata sulla convinzione che “il privato è il riferimento buono”, verrà fin da subito criticata dalle maggiori rappresentanze sindacali dei lavoratori pubblici12 in virtù della necessità di operare un distinguo tra la declinazione del criterio dell’efficienza in una struttura pubblica e il significato assunto dallo stesso concetto in un’azienda privata. In particolar modo le sigle sindacali dei lavoratori del comparto sanitario e dell’istruzione sottolineano che il criterio dell’efficienza economica non può essere disgiunto dal principio dell’imparzialità dell’azione amministrativa e dal diritto all’uguaglianza nella fruizione delle prestazioni da parte dei cittadini. Affermando che “la sanità pubblica non può scegliersi i pazienti […] Lo stesso vale per la scuola pubblica che si fa quotidianamente carico della educazione di tutti, dell’integrazione e del disagio sociale, senza possibilità di scelta cosa che invece al privato è consentita” i sindacati, inconsapevolmente, pongono sul tavolo del confronto la questione della contrapposizione tra ethos burocratico ed ethos democratico (Marra, 2009)

    11 Altri interventi legislativi che collegati agli obiettivi del Piano industriale sono la legge n. 133/2008

    (legge di conversione del decreto-legge 112/2008) e la legge n. 69/2009, che introducono importanti misure orientate all’efficienza e al risparmio nelle amministrazioni pubbliche, nonché misure di riorganizzazione di enti importanti per la PA quali il Formez, la Scuola Superiore per la Pubblica Amministrazione (SSPA) e il Centro Nazionale per l'Informatica nella Pubblica Amministrazione (CNIPA). La legge 69/2009, nello specifico, delega il Governo ad attuare una riforma del Codice dell’amministrazione digitale (CAD).

    12 Si vedano i testi dei vari contributi e osservazioni delle parti sociali e delle associazioni dei consumatori al Piano Industriale inviate al Ministro, disponibili sul sito http://www.riformabrunetta.it/documentazione/piano-industriale.

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    richiamata nel paragrafo precedente. Un altro aspetto contestato dalle rappresentanze sindacali è l’equivoca definizione della

    figura del datore di lavoro politico-amministrativo che, esemplificato nel testo con riferimento alle cariche elettive del Ministro, Governatore o Sindaco, finisce per mettere in discussione non solo il principio di separazione tra politica e amministrazione (collegato al tema della responsabilità delle cariche dirigenziali), ma soprattutto ingenera perplessità circa la possibilità di individuare in maniera oggettiva i criteri di valutazione dei risultati e di valorizzazione meritocratica.

    Un’ulteriore considerazione critica da parte dei sindacati viene rivolta all’impianto complessivo della riforma. Come rilevato anche da importanti studiosi del sistema amministrativo (Gragnoli, 2009), la riforma proposta dal Ministro Brunetta parte dall’assunto che la trasformazione della pubblica amministrazione possa risolversi esclusivamente (o comunque principalmente) nell’introduzione di nuove regole per la gestione del pubblico impiego. In realtà, sarebbe più efficace una riflessione allargata oltre i confini del diritto del lavoro e che approfondisse la dimensione organizzativa della Pa per indagare l’attuale grado di coerenza, ad esempio, “fra l’azione delle amministrazioni, quanto esse possono offrire, le loro risorse e le attese della società contemporanea” (ibidem, p. 133).

    I principi della riforma elencati nel Piano industriale trovano un rapido riconoscimento formale nella legge n. 15/2009 (“Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti”) e nel collegato decreto legislativo n. 150/2009 (“Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”). Come nel caso del Piano industriale, anche relativamente a queste due norme è possibile dedurre i principi-guida della riforma già dal solo titolo, tuttavia un’ulteriore conferma possiamo trovarla nei rispettivi documenti di presentazione che illustrano in maniera più estesa le misure previste per dare corso alle indicazioni di principio della legge13.

    Gli obiettivi principali della legge n. 15/2009, e del relativo decreto attuativo, possono essere riassunti nella progressiva convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con quelli del lavoro privato; il miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza delle procedure della contrattazione collettiva; l’introduzione di sistemi interni ed esterni di valutazione del personale e delle strutture amministrative, finalizzati ad assicurare l’offerta di servizi conformi agli standard internazionali di qualità; la valorizzazione del merito e il conseguente riconoscimento di meccanismi premiali; la definizione di un sistema più rigoroso di autonomia e responsabilità dei dipendenti pubblici. A questi obiettivi se ne aggiungono altri, apparentemente meno connessi al tema della produttività ma comunque rilevanti in una logica di riorganizzazione del sistema di gestione del pubblico impiego: l’introduzione di strumenti che assicurino una più efficace organizzazione delle procedure concorsuali su base territoriale e la valorizzazione del requisito della residenza dei partecipanti ai concorsi pubblici, qualora ciò sia strumentale al migliore svolgimento del servizio.

    L’impianto complessivo della norma ruota intorno a tre parole-chiave fondamentali: valutazione delle performance, merito e premialità, trasparenza ed integrità, con

    13 Si veda la documentazione istituzionale disponibile sul sito

    http://www.riformabrunetta.it/documentazione

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    riferimento tanto alla dimensione individuale del funzionario burocratico quanto alla dimensione sistemica della Pa nel suo complesso.

    L’aspetto più enfatizzato della nuova disciplina del lavoro pubblico è il tema del controllo e della valutazione, applicato tanto ai singoli (siano essi dirigenti che dipendenti) quanto alle organizzazioni. Il tema della valutazione si lega a quello della performance e presuppone, l’obbligo per le Pa di indicare in via preventiva gli obiettivi da raggiungere e in via consuntiva i risultati effettivamente conseguiti, segnando il passaggio dalla cultura di mezzi (input) a quella di risultati (output ed outcome) già auspicato dalle riforme precedenti. La norma propone un’articolazione in fasi del ciclo della performance che, pur essendo omogenea a livello nazionale, lascia spazio comunque a margini di flessibilità che rispettino la differenziazione territoriale e funzionali delle amministrazioni pubbliche. Le prime fasi del ciclo della performance, volte a definire ed assegnare gli obiettivi e ad individuare le risorse ad essi collegati, costituiscono un primo banco di prova per il criterio di autonomia e responsabilità dei dirigenti. Questi infatti, in quanto responsabili delle unità organizzative, sono chiamati a supportare gli organi di indirizzo politico-amministrativo nella stesura del Piano della performance14, facendosi carico direttamente di una parte del processo di analisi dei contesti organizzativi finalizzato all’individuazione dei parametri più funzionali ad un’efficace rilevazione delle performance. Nelle fasi successive, poi, quelle centrate sulle attività di misurazione e valutazione, il principio della responsabilità dei dirigenti viene ulteriormente enfatizzato con l’individuazione di indicatori di valutazione in grado di collegare i risultati raggiunti dall’unità organizzativa di propria responsabilità con gli specifici obiettivi individuali conseguiti, ai quali dovrebbe aggiungersi poi la dimostrazione di saper valutare i propri collaboratori con una significativa differenziazione dei giudizi.

    Questa prerogativa riconosciuta ai dirigenti nei confronti del personale ad essi assegnato costituisce un punto di rottura rispetto all’impianto precedente in tema di valutazione. Questo infatti, sia per gli sviluppi di carriera sia per i sistemi premiali collettivi, faceva riferimento ai parametri fissati dalla contrattazione collettiva, che erano però sostanzialmente sganciati da parametri obiettivi e non efficacemente correlati alla produttività. Il sistema proposto dalla riforma Brunetta invece prevede, per quanto riguarda la valutazione sul personale dipendente non dirigenziale, una sommatoria di fattori analoga a quella illustrata per i dirigenti: oltre agli obiettivi individuali conseguiti, viene misurato il contributo di ciascuno assicurato alla performance dell’unità organizzativa di appartenenza, nonché le competenze e i comportamenti professionali e organizzativi. La scelta di connettere in modo così evidente la performance individuale con quella organizzativa e di articolare in modo così particolareggiato la tipologia di indicatori utili per la valutazione è conseguenza della volontà del legislatore di non tornare a replicare meccanismi, assai diffusi in passato, che neutralizzavano i gia introdotti sistemi di valutazione attraverso l’individuazione di parametri poco discriminanti e che favorivano la distribuzione ‘a pioggia’ dei meccanismi incentivanti.

    Altri principi legati al tema della valutazione, e diretta conseguenza

    dell’implementazione di un ciclo della performance così strutturato15 sono quelli della

    14 Il Piano della performance è adottato annualmente ma con proiezione triennale, entro il 31 gennaio

    di ogni anno, e l’anno successivo ha come corrispettivo la Relazione sulla performance, da adottare entro il 30 giugno, che rendiconta invece i risultati organizzativi ed individuali raggiunti rispetto ai singoli obiettivi programmati e alle risorse allocate

    15 I soggetti coinvolti direttamente nel ciclo di gestione sono: l’organo di indirizzo politico-

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    meritocrazia e della premialità. Il testo normativo che li disciplina in modo più esaustivo è il decreto di attuazione n. 150/2009, nella cui Relazione illustrativa si legge che “l’asse della riforma è la forte accentuazione della selettività nell’attribuzione degli incentivi economici e di carriera, in modo da premiare i capaci e i meritevoli, incoraggiare l’impegno sul lavoro e scoraggiare comportamenti di segno opposto”. A tal fine, non solo il giudizio positivo conseguito dal dipendente deve essere preso in considerazione in sede di valutazione dell’esperienza professionale ai fini della progressione di carriera o dei concorsi riservati al personale interno, ma esso addirittura costituisce ‘titolo rilevante’. In questo modo la norma prende le distanze dalla prassi consolidata, derivata dalle regole della contrattazione collettiva, di procedere agli avanzamenti di carriera in funzione del tempo di servizio dedicato dal singolo all’amministrazione. E finisce per dare forma all’affermazione del Ministro, pronunciata in occasione della presentazione del Piano Industriale, secondo la quale il processo di riforma avviato risponde all’esigenza di “introdurre, nell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, sistemi di selezione, valutazione e gestione improntati al merito e alla trasparenza anziché all’anzianità e alle pressioni di forze politiche e sindacali”. Riportando poi la riflessione agli assunti teorici dell’etica applicata, discussi nel paragrafo 1, possiamo dire che questa misura rappresenta una modalità per coniugare l’interesse individuale e l’interesse collettivo nella pratica d’azione del dipendente pubblico: l’incentivo a contribuire al buon andamento dell’amministrazione presso la quale si lavora viene identificato nella possibilità di ottenere un riconoscimento diretto – anche economico – della correttezza etica del comportamento assunto.

    Anche in questo caso, come in relazione agli altri principi della riforma Brunetta già descritti, non si può parlare di una vera innovazione culturale perché il merito è continuamente citato tra i criteri discriminanti per l’attribuzione di premi e incentivi nelle norme della contrattazione collettiva e integrativa dai primi anni Novanta in poi (Roma, 2009). L’apporto innovativo che vuole fornire l’attuale riforma del pubblico impiego, invece, riguarda gli strumenti per misurare e valorizzare tale merito16. Anche se il testo della legge attribuisce letteralmente la definizione di questi strumenti alla contrattazione, e quindi sembra propendere per l’individuazione di criteri oggettivi proprio perché negoziati tra le parti, tuttavia alcune ‘sapienti’ (a detta dei sindacati) sostituzioni di termini tra il testo del disegno di legge e quello poi licenziato dal Parlamento17 lasciano aperta la possibilità di utilizzare criteri valutazione soggettivi più vicini alle logiche del settore privato.

    La perplessità maggiore evidenziata in relazione all’impianto del sistema di valutazione e premialità fin qui descritto attiene alla scarsa chiarezza con la quale la norma definisce e tutela il ruolo che deve svolgere il dirigente in merito alla misurazione della performance

    amministrativo, che fissa preventivamente gli obiettivi generali e al quale perviene poi la relazione finale di performance; la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle pubbliche amministrazioni (CiVIT) che, operando in posizione di indipendenza e autonomia, svolge un ruolo di guida e supporto per il funzionamento del sistema di valutazione in tutte le sue articolazioni, garantendo la trasparenza delle procedure e degli indicatori; gli organismi indipendenti di valutazione (OIV) interni alle singole amministrazioni (che sostituiscono i Servizi di controllo interno introdotti dal decreto legislativo n. 286/1999); i singoli dirigenti, in relazione alle ispettive unità organizzative di responsabilità (Deodato e Frettoni, 2009).

    16 Il decreto attuativo individua i seguenti strumenti premiali per valorizzare il merito: il trattamento economico accessorio collegato performance individuale e organizzativa, il bonus annuale delle eccellenze, il premio annuale per l’innovazione, le progressioni economiche e di carriera, l’attribuzione di incarichi di responsabilità, l’accesso a percorsi di alta formazione e crescita professionale.

    17 Si veda, a tal proposito, l’argomentazione sviluppata da G. Roma (2009) a pagina 39 e seguenti.

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    dei dipendenti della propria struttura. Da un lato, infatti, l’art. 5 della legge n. 15/2009 richiama più volte la necessità di individuare “dall’alto” criteri ed indicatori per la valutazione, manifestando un approccio giudicato da alcuni troppo intrusivo, che non rispetta le peculiarità delle singole realtà amministrative e che coltiva la debole illusione di poter costruire un sistema di valutazione omogeneo a livello nazionale (Bordogna, 2008). Dall’altro, invece, risulta ambiguo l’art. 14 del decreto legislativo n. 150/2009 che, disciplinando l’Organismo Indipendente per la Valutazione, sembra essere in contraddizione con il principio di “piena autonomia e responsabilità del dirigente, in qualità di soggetto che esercita i poteri di datore di lavoro pubblico, nella gestione delle risorse umane” (art. 6, comma 2) (D’Alessio, 2009; Roma, 2009). Se si considera che sia la legge n. 15/009 sia il suo decreto delegato sottopongono a valutazione, e a relativa sanzione, anche i comportamenti omissivi rilevati a carico dei dirigenti in relazione alla vigilanza sulla effettiva produttività delle risorse umane assegnate e sull’efficienza della struttura, è chiaro che questo margine di ambiguità non è affatto privo di rilevanza: potrebbe infatti generare situazioni di ‘giustificata’ mancanza di responsabilità diretta dei dirigenti riconducibile proprio ad una attribuzione delle competenze non mutamente esclusiva.

    Un’ulteriore criticità relativa alla disciplina della valutazione del merito e della premialità è stata evidenziata dalle rappresentanze sindacali (Gentile, 2009) che, partendo da un forte dissenso manifestato nei confronti delle misure della riforma che affrontano specificamente la disciplina della contrattazione collettiva, integrativa e decentrata nel settore pubblico, sottolineano come l’indebolimento di questi istituti operato dalla riforma Brunetta determini anche un sostanziale svuotamento dei meccanismi premiali. Questi18 infatti dovrebbero derivare, alle amministrazioni dei diversi comparti, dai risparmi sulle risorse complessive assegnate per la contrattazione collettiva integrativa. In realtà, secondo i sindacati, dopo il decreto legge n. 112/200819 questa possibilità è assai scarsa e limitata a causa dei vincoli posti annualmente dalla legge finanziaria.

    L’ultima delle tre parole-chiave della riforma, precedentemente menzionate e oggetto di

    approfondimento in questa riflessione, è la trasparenza. Questa diventa il principio fondante del nuovo sistema di regole di gestione del sistema amministrativo non solo perché la legge sancisce l’obbligo di pubblicare sul sito Internet di ciascuna Pa tutte le informazioni concernenti l’organizzazione, gli indicatori degli andamenti gestionali e dell’impiego delle risorse, gli esiti delle procedure di valutazione al fine di favorire forme di controllo diffuse del rispetto di principi di imparzialità e buon andamento, ma anche perché, nella stessa norma, la trasparenza viene riconosciuta come uno dei livelli essenziali delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche. In realtà, come sottolinea G. Roma (2009), con questa affermazione il legislatore mostra di aver confuso il mezzo con il fine, perché non sempre l’accesso totale alle informazioni è condizione sufficiente a garantire la qualità dell’azione pubblica. Al contrario, la trasparenza dell’amministrazione va intesa come un tassello, che insieme all’articolato sistema di controlli interni ed esterni del personale e delle strutture, contribuisce ad assicurare l’erogazione di servizi conformi

    18 Ci si riferisce a tutti gli strumenti premiali elencati nella nota 16 .e disciplinati in sede di

    contrattazione decentrata, ad eccezione del trattamento economico accessorio che ricade invece nella contrattazione integrativa.

    19 Decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria”, convertito in legge con la legge 6 agosto 2008, n. 133.

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    agli standard internazionali di qualità (art. 2, comma 1). La legge n. 15/2009 propone un’accezione diversa della trasparenza dell’attività

    amministrativa rispetto a quella oramai consolidata della legge n. 241/1990 (che la interpretava come diritto di accesso ai documenti amministrativi), perché la definisce come “accessibilità totale delle informazioni concernenti le attività di gestione dell’organizzazione pubblica”, che si estende anche ai dati individuali dei dipendenti pubblici. Tale lettura ha introdotto elementi scardinanti nella tradizionale logica di servizio dei funzionari, da sempre abituati ad identificarsi con la natura impersonale delle strutture amministrative e a non doversi porre il problema di un’accountability diretta nei confronti dei cittadini-utenti. Ciò ha portato le diverse categorie professionali dei dipendenti pubblici a manifestare atteggiamenti di resistenza all’implementazione delle misure proposte, già in fase di discussione del disegno di legge, e ad esprimere contrarietà all’idea di vedere pubblicate sulla Rete informazioni riguardanti la condizione lavorativa dei singoli. Non potendo avvalersi della prevalenza del diritto di accesso sul diritto alla riservatezza20, il legislatore ha cercato di dirimere la controversia nata intorno alla possibilità di svolgere le nuove funzioni pubbliche previste dalla riforma21 senza entrare in contrasto con il codice per il trattamento dei dati personali ed ha optato per l’introduzione di una modifica, al testo stesso del codice, che prevede che “le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto ad una funzione pubblica e la relativa valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza personale” (art. 4, comma 9).

    Direttamente connessi al tema della trasparenza sono altri due principi promossi dalla riforma Brunetta: quello dell’integrità e quello dell’incremento dell’efficienza. Mentre il primo prende forma nelle misure volte a garantire la legalità delle modalità di svolgimento dell’azione pubblica, e quindi in ultima analisi nelle iniziative per la lotta alla corruzione, il secondo ha trovato invece uno specifico campo di applicazione nel contrasto alla scarsa produttività e all’assenteismo. In entrambi i casi, la legge individua nelle nuove tecnologie lo strumento per garantire il rispetto di questi principi di azione che dovrebbero promuovere la diffusione di comportamenti etici corretti all’interno del personale della PA22. La pubblicazione online di dati relativi agli incarichi e alle retribuzioni dei dirigenti e funzionari, oppure delle informazioni relative a sovvenzioni e benefici di natura economica elargiti da soggetti pubblici o, ancora, dei dati relativi all’acquisto di beni e servizi, dovrebbe infatti consentire di prevenire, od eventualmente portare alla luce, forme di illecito o di conflitto di interessi con risultati più incisivi del passato. Allo stesso modo, rendere disponibili sui siti delle diverse amministrazioni i tassi di assenteismo dei singoli dipendenti, insieme all’obbligo dell’invio telematico della certificazione dal medico all’INPS e dall’INPS all’amministrazione interessata, dovrebbe innescare, nell’intento del legislatore, un meccanismo di evidenziazione più immediata delle situazioni di abuso.

    La pubblicità della trasparenza, inoltre, permette di garantire un ulteriore principio di 20 Per una disamina approfondita di questo conflitto giurisprudenziale si veda il contributo di M.

    Danza (2009). 21 In sintesi, tutte le attività finalizzate a creare, sul sito delle singole amministrazioni, una sezione (‘di

    facile accesso e consultazione’) denominata ‘Trasparenza, valutazione e merito’, da alimentare con le informazioni esplicitate nell’art. 11, comma 8 del decreto legislativo n. 150/2009.

    22 Per una più dettagliata descrizione dell’istituto della trasparenza si può far riferimento alla delibera n. 105/2010 della CiVIT, la Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e l'Integrità delle pubbliche amministrazioni, che esplicita le linee-guida per la predisposizione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, così come disposto dall’articolo 13, comma 6, lettera e, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150) (http://www.civit.it/).

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    innovazione amministrativa, fin qui non ancora trattato esplicitamente, ma costantemente in filigrana in tutta la riflessione sulla dimensione etica delle nuove regole per la gestione del pubblico impiego: quello dell’accountability. Se, in accordo con il Piano Industriale, il fine ultimo della riforma Brunetta è quello di migliorare gli standard di qualità dei prodotti e dei servizi resi dalle amministrazioni pubbliche, ecco che diventa imprescindibile il riferimento al punto di vista degli stakeholders della Pa, in quanto portatori di specifici interessi. In particolar modo viene riconosciuto un ruolo attivo e propositivo ai cittadini-utenti nel processo di miglioramento degli standard di efficienza degli apparati pubblici (comma 2 dell’art. 4 della legge n. 15/2009) e con l’emanazione del decreto attuativo n. 198/2009 viene introdotto nell’ordinamento il nuovo istituto dell’azione collettiva che, come forma ulteriore di controllo esterno, dovrebbe assicurare la costante responsabilizzazione degli operatori pubblici: “persegue l’obiettivo di indurre il soggetto erogatore dell’utilità a comportamenti virtuosi nel suo ciclo di produzione, [e lo fa] in modo diretto, perché tutela la strumentalità dell’organizzazione amministrativa alla realizzazione del bene pubblico.”

    Il breve lasso di tempo fin qui intercorso dall’emanazione di tutto il combinato

    normativo che dà corpo alla riforma Brunetta, non consente ancora una valutazione attendibile dei risultati dell’implementazione degli strumenti e degli istituti in essa disciplinati. Tanto più che gli interventi legislativi di natura finanziaria degli ultimi due anni hanno trasformato una riforma che voleva essere ‘a costo zero’ in una riforma che ha subìto significativi tagli delle risorse, con una conseguente frenata sia sull’attuazione dei sistemi premianti, sia sulle progressioni di carriera a fini economici. Dal momento che sono ancora pochi i contesti amministrativi che hanno recepito, anche solo in parte, gli obiettivi della legge n. 15/2009, allo stato attuale diventa difficile anche rilevare il livello di penetrazione nella cultura amministrativa italiana dei principi fin descritti, che secondo la riforma dovrebbero regolare il comportamento dei dipendenti pubblici nelle proprie funzioni di lavoro.

    È vero che in parte questa analisi dovrebbe essere agevolata dalla constatazione, già evidenziata all’inizio di questo paragrafo, che l’iniziativa del Ministro Brunetta si colloca nella scia delle riforme del pubblico impiego degli anni Novanta. Basandosi infatti sul meccanismo ‘pianificazione degli obiettivi-valutazione dello scostamento’ continua ad ispirarsi anch’essa ai principi del New Public Management che avevano già guidato i ministri Cassese e Bassanini negli interventi di riforma precedenti, nella convinzione che l’adozione di un modello organizzativo orientato al management by objectives and results fosse maggiormente funzionale, tra le altre cose, a scardinare fenomeni di cattiva amministrazione e di comportamenti poco etici (Christensen, Lægreid e Stigen, 2007). E ciò permetterebbe di considerare, per la valutazione dell’efficacia di queste riforme, un arco temporale più ampio di quello attualmente reso disponibile dalla recente entrata in vigore del decreto n. 150/2009 che rende operativa la riforma Brunetta. Tuttavia, è già stato rilevato (Turri, 2010) che i fattori ostativi che avevano limitato l’implementazione dei precedenti programmi di innovazione amministrativa a matrice imprenditoriale hanno continuato ad agire anche nei confronti del recente impianto riformatore.

    Non va dimenticato però che l’iniziativa del Ministro Brunetta, nonostante queste radici comuni, presenta anche specifici elementi di discontinuità rispetto al passato che riguardano, ad esempio, la proiezione temporale degli obiettivi di performance indicati (che passa ad essere triennale anziché annuale); l’ambito di applicazione degli standard di valutazione (che vengono misurati non solo sulla struttura ma anche sul singolo individuo);

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    la scelta di legare i parametri per la misurazione della performance ad obiettivi di più ampio respiro (quali la soddisfazione degli utenti, la modernizzazione dell’amministrazione e la qualità dei servizi erogati); ed infine il riferimento ad una diversa accezione del concetto di trasparenza, che determina un più ampio coinvolgimento dei cittadini nei processi produttivi della Pa (ibidem). Proprio quest’ultimo elemento merita a nostro avviso una particolare attenzione, poiché non è possibile ottenere una maggiore partecipazione dei cittadini ai processi di controllo e valutazione dell’operato delle amministrazioni, e dei funzionari che in esse agiscono, senza un’adeguata ‘trasparenza della trasparenza’.

    Poiché la costruzione della percezione sociale del nuovo ruolo al quale sono i chiamati i cittadini in questo processo di ammodernamento dell’amministrazione non passa solo attraverso forme di comunicazione diretta tra amministrazione e cittadino (che può utilizzare anche canali innovativi quali il web), ma anche attraverso funzioni informative indirette quali quelle svolte dalle agenzie di informazione come i media, può essere utile indagare la tematizzazione della riforma Brunetta proposta dalle principali testate giornalistiche nazionali, con particolare riferimento alla ricorrenza di specifiche parole-chiave che descrivono il cambiamento culturale auspicato nella relazione dipendente pubblico-amministrazione-cittadino.

    Il prossimo paragrafo cercherà di dare conto proprio di ciò.

    3. La tematizzazione della riforma sulla stampa nazionale

    L’analisi dei media, e dei quotidiani in particolare, offre un’opportunità per approfondire la conoscenza del dibattito pubblico sulla riforma Brunetta, soprattutto con riferimento alle reazioni degli stakeholders e dei cittadini e alle criticità che sono state evidenziate . Non solo perché, ovviamente, la riforma nasce come una risposta di policy ad un problema più volte sollevato dall’opinione pubblica e dai media negli anni precedenti, ma soprattutto perché l’evoluzione contemporanea del concetto di sfera pubblica habermasiana (Habermas, 1988) è rappresentato da quello che G. Mazzoleni definisce lo spazio pubblico mediatizzato: «i media vengono ad occupare il ruolo di perno della comunicazione ascendente e discendente tra pubblico dei cittadini e sistema della politica» (2004, p. 23).

    In riferimento al primo aspetto è la teoria dell’agenda building, riferita a quel processo per cui «la società seleziona alcuni temi, cioè alcune questioni di interesse generale, e li consegna alle istituzioni» (Marini 2006, p. 83), che potrebbe aiutarci a spiegare le modalità attraverso le quali la questione dell’inefficienza della macchina amministrativa, con le sue connotazioni in termini di etica pubblica, è entrata nell’agenda degli attori di governo. Ma non è questo il focus del presente lavoro, per quanto una rudimentale ricerca per parole-chiave nelle titolazioni dei principali quotidiani nazionali ci restituisca, per il biennio precedente all’insediamento del Governo Berlusconi, più di un articolo che descrive i mali di una pubblica amministrazione che funziona poco e li tematizza in termini di corruzione, assenteismo, inefficienza (‘fannulloni’)23.

    23 “Agenzie fiscali contro i corrotti”, “Licenziabili i dipendenti corrotti” (Il Sole 24 Ore, 27/2/2008);

    “Epifani: il sindacato denunci i fannulloni” (il Corriere della Sera, 7/2/2008); “Gli statali assenteisti e l’inerzia dei dirigenti” (Il Sole 24 Ore, 8/12/2007); “Licenziare i fannulloni? No dobbiamo premiare la produttività” (Il Sole 24 Ore, 5/9/2007); “Statali, applicare la legge Bassanini sulla produttività” (Corriere

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    Più funzionale al nostro obiettivo di ricerca, invece, è l’approccio teorico dell’agenda setting (McCombs e Shaw, 1972; Marini, 2006), secondo il quale i media possono determinare l’agenda di ogni campagna elettorale, influenzando l’importanza attribuita dal pubblico ai vari temi politici. Il caso specifico che stiamo analizzando non si colloca in un contesto di campagna elettorale, tuttavia l’approccio dell’agenda setting interpreta questa possibilità di influenza dell’agenda dei media su quella dei cittadini anche in una prospettiva più ampia. Come afferma D. Shaw (in Wolf 1992, p. 143) infatti “in conseguenza dell’azione dei giornali, della televisione e degli altri mezzi di informazione, il pubblico è consapevole o ignora, dà attenzione oppure trascura, enfatizza o tralascia, elementi specifici degli scenari pubblici. La gente tende ad includere o escludere dalle proprie conoscenze ciò che i media includono o escludono dal proprio contenuto. Il pubblico inoltre tende ad assegnare, a ciò che esso include, un’importanza che riflette da vicino l’enfasi attribuita dai mass media agli eventi, ai problemi, alle persone”.

    La rilevanza dei mezzi di comunicazione di massa nei processi di conoscenza della realtà da parte degli individui era già stata sottolineata da W.Lippmann all’inizio del secolo scorso, come soluzione alla difficoltà del singolo di entrare in relazione con un “ambiente reale [che] è troppo complesso per consentire una conoscenza diretta. […] E pur dovendo operare in questo ambiente [l’individuo è] costrett[o] a costruirlo su un modello più semplice per poterne venire a capo” (Lippmann, 1995, p. 18). Nel caso della riforma Brunetta, l’utilità di questo approccio interpretativo può essere ricondotta ad una difficoltà di conoscenza della realtà da parte del cittadino che non risiede nella distanza geografica dell’evento (tipica invece dei casi di studio di Lippmann), ma nella scarsa accessibilità e comprensibilità delle fonti normative, soprattutto in relazione alla tecnicità del linguaggio nella quale sono redatte. I media, invece, vengono assunti come riferimento dai cittadini proprio in virtù della loro natura di fonti facilmente accessibili e fruibili per rielaborare significati complessi (Tipaldo, 2007).

    Obiettivo di questa analisi è ricostruire la tematizzazione24 della riforma Brunetta offerta dai maggiori quotidiani nazionali25 allo scopo di verificare quanto questa sia più o meno corrispondente all’insieme dei valori etici proposti dalla legge 15/2009 per il buon funzionamento delle strutture amministrative. In particolare, considerata l’ampiezza della portata riformatrice delle misure previste dal Ministro Brunetta, si è scelto di approfondire la presenza sui quotidiani di quella che lo stesso Piano Industriale definisce la categoria di intervento della ‘riforma della Pa e del pubblico impiego’26.

    della sera 11/7/2007); “Colpire i fannulloni potrà servire a recuperare efficienza” (Repubblica, 19/1/2007);“La pigrizia dello statale” (il Corriere della Sera, 3/9/2006).

    24 Per tematizzazione si intende “la trasformazione e la trattazione di un certo numero di eventi e fatti distinti, in un unico ambito di rilevanza, che viene appunto tematizzato […] tematizzare un problema significa infatti, metterlo all’ordine del giorno dell’attenzione del pubblico, darvi il rilievo adeguato, sottolinearne la centralità e la significatività rispetto al flusso normale dell’informazione non-tematizzata” (Wolf 1992, p. 162).

    25 La scelta di soffermarci sui quotidiani a stampa, tra i diversi mezzi di comunicazione di massa, è motivata dal fatto che questo tipo di mass media più degli altri si presta ad occasioni di approfondimento, non vincolate dalla dimensione spazio-temporale della sua fruizione25. In particolare, poi, si è deciso di dare rilevanza ai titoli dei giornali, piuttosto che agli interi articoli, nella convinzione che questa porzione di testo non solo rappresenti l’escamotage più immediato per attirare l’attenzione del lettore nel fluire delle pagine, ma costituisca lo strumento dal quale generalmente si acquisisce una prima e sommaria cognizione dei fatti (non si può trascurare infatti che l’esigenza di sintesi nella costruzione dei titoli spesso induce ad una decodifica non corretta del significato della notizia

    26 I 34 interventi previsti nel Piano Industriale sono stati articolati dal Governo in 3 categorie per facilitare l’attività di monitoraggio in itinere della loro implementazione (v. http://www.riformabrunetta.it/che-

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    Le considerazioni qui presentate derivano dall’analisi di 137 articoli estratti27 dalle quattro maggiori testate nazionali (il Corriere della Sera, il Giornale, il Sole24Ore, la Repubblica28) e interpretati secondo la metodologia dell’analisi del contenuto come inchiesta29.

    Una prima considerazione va fatta in relazione alla distribuzione degli articoli dedicati alla riforma Brunetta tra le testate giornalistiche considerate: 66 articoli sono stati pubblicati da il Sole 24 Ore, 33 da il Corriere della Sera e 19 compaiono infine sia su il Giornale sia su la Repubblica. Questo primo dato pone un problema di diffusione delle

    punto-siamo/stato-di-avanzamento/Report-da-piano-industriale-a-legge). La categoria ‘riforma della Pa e del pubblico impiego’ include le seguenti misure: riduzione delle assenze per malattia; stop alla pioggia di collaborazioni e consulenze; controlli severi su incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi; misurazione degli oneri amministrativi; “Operazione Trasparenza”; limitazione al lavoro flessibile; tempi nel procedimento: chi ritarda paga; maggiore controllo della spesa per la contrattazione integrativa; nuove tutele dell'utente dei servizi pubblici; azione diffusione online delle buone prassi, dei tempi medi di pagamento e della tracciabilità del procedimento; valutazione del personale; merito e premialità; riforma della dirigenza; sanzioni disciplinari e responsabilità; lotta ai fannulloni; medico mendace; chi rompe paga; riforma della contrattazione collettiva; concorsi sulla base del territorio; azione aumento della mobilità dei dipendenti pubblici; class action contro la p.a.; modifica del codice dell'amministrazione digitale; aspettativa per i dipendenti che diventano imprenditori; drastica semplificazione dei bilanci dei comuni con meno di 5.000 abitanti; aumenta la validità della carta d'identità e della carta d'identità elettronica. Nella categoria ‘misure di efficienza ed economia’ sono compresi i seguenti interventi: riallocazione di fondi a favore del wireless e creazione di imprese; soppressione o riordino di enti pubblici; creazione delle fondazioni universitarie; interventi per il risparmio energetico; lotta allo spreco di carta nella Pa; mobilità delle funzioni e uso ottimale degli edifici pubblici; la Pa contribuisce al piano casa. Tra le ‘misure di riorganizzazione’ abbiamo infine: riorganizzazione del Cnipa, del Formez e della SSSPA (3 provvedimenti separati); organismi di valutazione (organismi indipendenti e commissione per la valutazione e la trasparenza)

    27 Gli articoli sono stati estratti dalla banca dati della sezione ‘Rassegna Stampa’ del sito della Camera dei Deputati (disponibile all’indirizzo http://rassegna.camera.it/chiosco_new) effettuando un’interrogazione riferita alla parole-chiave ‘Brunetta’ (ricercata solo nel titolo) e ‘riforma Brunetta’ (sia nel titolo e nel testo dell’articolo), nell’arco di tempo compreso tra il 9 maggio 2008 (giorno dell’insediamento del Governo Berlusconi IV) e il 30 settembre 2011.

    28 Per evitare condizioni pregiudiziali sulla definizione dei temi già nella fase di individuazione delle testate, si è deciso di selezionare le quattro testate nazionali in modo tale da garantire la copertura totale dei possibili orientamenti politico-ideologici delle attuali forze parlamentari, e con in più l’inclusione di una testata (il Sole 24 Ore) maggiormente specializzata nel leggere i temi della riforma amministrativa e dell’azione di governo in termini economici e finanziaria.

    29 L’analisi del contenuto come inchiesta è una delle tecniche di rilevazione «orientate al controllo di determinate ipotesi su fatti di comunicazione (emittenti, messaggi, destinatari e loro relazioni) che a tale scopo utilizzano procedure di scomposizione analitica e di classificazione […] di testi e altri insiemi simbolici» (Rositi 1982, p. 66). A differenza della Content Analysis tradizionale, nell’analisi del contenuto come inchiesta l’unità di classificazione