Esteban n. 5

20
OTTO PERSONAGGI E LUOGHI IN CERCA DI UNA STORIA 4 x 4 in garage. Salotto e cucina in stile. Giovane coppia senza figli. Madre che pulisce la casa della figlia. Padre alla casotta. Nonna che da la mancia. Pub. Agenzia di viaggi organizzati. Cercasi storia. Io non ne ho trovata neanche una. Franco Ratti LA VOGLIA DI RACCONTARE E DI RACCONTARSI con Adriano Arlenghi Sara Capittini Anna Crotti Domenico Della Monica Armando Giacomone Danut Gradinaru Anna Livraga Loredana Longo Francesca Protti Franco Ratti Diego Vallati NUMERO 5 AUTUNNO 2009 questo numero di Esteban è dedicato a Ricardo Gonzalez Alfonso, poeta, giornalista e autore di racconti e agli altri scrittori ancora incarcerati a Cuba per reati di opinione

description

Rivista dell'Associazione "Il Villaggio di Esteban" - Mortara (Pavia)

Transcript of Esteban n. 5

Page 1: Esteban n. 5

OTTO PERSONAGGI E LUOGHIIN CERCA DI UNA STORIA

4 x 4 in garage.Salotto e cucina in stile.

Giovane coppia senza figli.Madre che pulisce la casa della figlia.

Padre alla casotta.Nonna che da la mancia.

Pub.Agenzia di viaggi organizzati.

Cercasi storia.Io non ne ho trovata neanche una.

Franco Ratti

LA VOGLIADI RACCONTARE

E DI RACCONTARSIcon Adriano Arlenghi

Sara CapittiniAnna Crotti

Domenico Della MonicaArmando Giacomone

Danut GradinaruAnna Livraga

Loredana LongoFrancesca Protti

Franco RattiDiego Vallati

NUMERO 5 AUTUNNO 2009

questo numero di Esteban è dedicato a Ricardo Gonzalez Alfonso, poeta, giornalista e autore di racconti e agli altri scrittori ancora incarcerati a Cuba per reati di opinione

Page 2: Esteban n. 5

Per comunicare con ESTEBAN scrivi a

[email protected] oppure invia un fax o un messaggio vocale al numero

1782785900o chiama il numero

3338351178.

“Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.”(J.D. Salinger, Il giovane Holden)

“...e la sorella più piccola disse: "Per Allah, sorella mia, raccontaci una storia che ci faccia passare lietamente la nottata! " E Shahrazàd rispose: " Lo farò ben volentieri se me lo concederà questo re cortese. " Quando il re sentì queste parole, non gli dispiacque di ascoltare il racconto di Shahrazàd, anche perché quella notte si sentiva agitato e non aveva voglia di dormire. E Shahrazàd cominciò a raccontare...” (da: Le mille e una notte)

“...guardandomi intorno oggi sai cosa mi colpisce? Che quarant'anni fa Milano era più cupa, più sporca. Ma ad avere paura era solo chi aveva il grano. Le porte delle case restavano aperte. Gli operai che tiravano la lima alla Marelli lasciavano i ragazzini alla vicina o in cortile. Oggi chi ha il grano paura non ne ha più. La paura è dei disgraziati. Paura di essere scippati, violentati, accoltellati. E sai cosa trovo ancora più incredibile? Che a dire “al lupo, al lupo” però sono rimasti sempre quelli che hanno il grano. Oggi uno che fa una rapina prende quindici anni. Chi manda sul lastrico qualche decina di migliaia di famiglie succhiando i loro risparmi, va bene se fa un mese ai domiciliari. Il senso della comunità è andato a farsi fottere. E se non c'è comunità, non c'è mito. Guardia o ladro che tu sia.”(da un intervista di Renato Vallanzasca)

Tranquilli, non è che Esteban consideri Renato Vallanzasca tra i suoi maestri; semplicemente, leggendo questa recente intervista sono saltate fuori alcune considerazioni interessanti e non estranee al contenuto di questo numero della rivista. Come dire che non occorre essere grandi studiosi o eminenti sociologi per intuire alcuni dei punti deboli della realtà che viviamo. Aspetti che spuntano qua e la anche in quello che verrà raccontato nelle pagine che seguono: il senso della comunità che scompare, così come le relazioni materiali su cui questa si basava, e scomparendo lascia il posto all'interesse immediato e anche alla chiusura verso ciò che è diverso, alla mancanza di curiosità e di desiderio di confrontarsi col mondo. A una cultura della solidarietà sostituisce una cultura della paura, che cerca di tranquillizzarsi costruendo sempre nuovi muri. Ma Esteban è ottimista, sa che questo è il mondo come vogliono farci credere che sia, ma la realtà è sempre molto più variegata, e se si costruiscono nuovi muri c'è sempre la possibilità di abbatterli come quello famoso buttato giù proprio vent'anni fa. Ad ogni modo neppure Esteban è uno studioso o un sociologo, per cui forse non sa capire bene tutti i meccanismi e spiegare cosa c'è proprio in fondo che non funzioni. È per questo che sulle pagine della sua rivista vuole incontrare sempre nuovi amici che abbiano voglia di raccontare di sé e del mondo che li circonda, per vedere se insieme tra tutti non si riesca a capirne di più. Così questo nuovo numero, come quello dell'inverno scorso, raccoglie i racconti che gli amici di Esteban gli hanno inviato. Del resto questa idea del raccontare è

proprio nello spirito di questa rivista, nei motivi che l'hanno fatta nascere. E questa è sempre stata l'idea di cultura di Esteban, che non parte da teorie da difendere o dimostrare, ma dal bisogno di incontrare persone che avessero voglia di parlarsi e di ascoltarsi, di vincere l'isolamento in cui spesso ci troviamo e di provare a costruire percorsi che diano un senso alla realtà che stiamo vivendo. Perchè raccontare, come ci insegna Shahrazàd, è un modo per salvarsi la vita. Ma soprattutto in questo numero Esteban è veramente felice di salutare tanti amici nuovi che lo hanno raggiunto su queste pagine: Sara Capittini, Armando Giacomone,

Loredana Longo, Francesca Protti, Diego Vallati. Poi due poeti mortaresi, Anna Crotti e Danut Gradinaru. Oltre ai loro scritti è dato ampio spazio alla rubrica “C'è vita nel Villaggio” per raccontare delle ultime iniziative dell'Associazione. E poi, tra le altre cose, troverete anche qualche

racconto “giallo”, tanto per ricordare che questa definizione tutta italiana della letteratura poliziesca quest'anno compie 80 anni, ma anche per un omaggio ad un genere letterario che ha dimostrato di non essere semplice evasione, ma che può rivelarci molto di noi stessi. Ed ora un annuncio importante: Esteban invita tutti a

partecipare alla sua nuova ed appassionante iniziativa:

MUSEIMUSEI DOMESTICIDOMESTICI

Esteban vi propone di illustrare i prossimi numeri della rivista con immagini delle vostre pinacoteche casalinghe; mandateci foto dei quadri, delle fotografie o dei poster, della vostra collezione di farfalle o di stampe cinesi, insomma quello che avete appeso ai vostri muri o posato sulle vostre mensole. Quello che guardate ogni volta che entrate in casa. Tutti nelle nostre case cerchiamo di mettere qualcosa di bello, ma bello non soltanto per motivi estetici, bello perchè a noi dice qualcosa, racconta, ha un significato. Ad Esteban non interessa che siano opere d'arte;

interessa soltanto che per voi significhino qualcosa, per cui oltre alla foto sarebbero gradite anche due righe, tanto per per renderci partecipi. Aspettiamo le vostre immagini ai soliti recapiti che vedete più sopra. Iniziamo con una scelta di opere appartenenti alla pinacoteca domestica del nostro Lino Maia. La sua collezione è dedicata principalmente a due filoni pittorici che egli considera immeritatamente sottovalutati : i quadri da pizzeria e i naifs di talento (definizioni sue). In queste opere c’è tanto lavoro e sovente una grande passione, dice Lino, e meritano almeno altrettanto rispetto. Nelle illustrazioni lavori di PariSun, L. Leone, Angelo Marangon, più numerosi anonimi (in buona parte cinesi) e diversi illeggibili. La nostra copertina riproduce invece un’opera di un artista mortarese tanto grande quanto modesto e schivo, Michele Protti, che ringraziamo di tutto cuore.

2

Page 3: Esteban n. 5

POSTA IN ARRIVO

di Domenico Della Monica

La signora Marenchi rimare perplessa. Non riceveva quasi mai posta: adesso c'era questo pacco, una vera e propria sorpresa. “Ci deve essere un errore” disse con una certa esitazione. “Nessun errore, signora”. E il postino se ne andò. Olga Marenchi esaminò il pacco: era avvolto in carta marrone e sigillato con nastro adesivo. Il suo nome e indirizzo spiccavano a chiare lettere in stampatello. I francobolli erano stati annullati con timbro postale locale. Posò il pacco sul tavolo da pranzo. Restò a guardarlo per un po': non aveva nessuna voglia ne' curiosità di aprirlo. provava una strana sensazione: quella di aver già vissuto in passato quella situazione.Non essere stupita, si disse severamente. Temeva che la vita solitaria condotta fin dalla morte di Ugo la stesse facendo diventare un po' “strana”.Certo non era il caso di lasciarsi sconvolgere da un pacco arrivato con la posta. Strappò il nastro adesivo. Nella carta era racchiusa una semplice scatola bianca senza nessun segno particolare. Quella assoluta anonimità aumento in un certo senso il suo disagio.La scatola era rivestita internamente di carta velina bianca. Al centro era posato un carillon sormontato da una delicata minuscola ballerina.La signora Marenchi rimase senza fiato. Sollevò la scatola e girò la chiavetta. La ballerina prese a girare lenta e dal carillon uscirono le note del “Bel Danubio blu”.Impossibile.Olga si lasciò cadere di colpo sulla sedia. Le sue mani diventarono all'improvviso fredde. I battiti del cuore correvano veloci. Era il primo regalo che Ugo le aveva spedito. Allora non erano ancora sposati, e lui le faceva la corte Allora come adesso, il piccolo carillon bavarese era arrivato per posta.Allora come adesso, era stato accuratamente avvolto e sigillato.Ugo faceva sempre le cose con cura. Guardò l'indirizzo sull'involucro. Non le diceva niente. Le parole a stampatello erano impersonali e non rivelavano nulla.Olga fu presa dal panico, come per un boato improvviso.

Sapeva perfettamente dove aveva visto l'ultima volta quel carillon: nel negozio di Stovini in Strada Nuova, dove l'aveva portato per metterlo in vendita.Si alzò lentamente in piede barcollando e si costrinse a muoversi.

“Signor Stovini, vorrei veder il carillon bavarese che le avevo portato per venderlo”. Aldo Stovini aveva temuto quella eventualità. Quanto parte di verità poteva dirle? La guardò con molta attenzione. No, decise, era troppo agitata: anche una rivelazione solo parziale le avrebbe provocato un emozione troppo violenta.“Quel carillon aveva una ballerina, vero?” disse. “Si, me lo ricordo. L'ho venduto tempo fa”.La signora Marenchi non sapeva se sentirsi sollevata o intimorita.“Si ricorda che l'ha comprato”.“Era un giovane mai visto prima- non ha fatto storie sul prezzo.”Olga si sentì presa dalle vertigini. Ugo si sarebbe comportato esattamente così.“Ha detto che si trattava di un giovane?”“Proprio così, sulla trentina, direi.”Quella notte la signora Olga ebbe un sonno agitato. Fece dei sogni angosciosi da cui si svegliò sudata, col cuore in gola e, vivo nella mente, il pensiero del marito morto.Ugo. Lui era sulla trentina quando si incontrarono la prima volta.Era già un avvocato di successo, bello e ambizioso. Era inevitabile che diventasse una figura di rilievo in città.Era un buon partito per qualsiasi donna. E come erano stati convincenti gli argomenti che aveva usato per corteggiarla: l'aveva colmata di attenzioni e di regali!Le aveva messo su casa e l'aveva arredata con gusto ed eleganza.Tutto questo le aveva fatto molto piacere. Da parte sua

non c'era passione, ma alla fine non riuscì ad opporgli resistenza.La sua era una antica famiglia, molto più illustre di quella di Ugo, ma la loro fortuna già da tempo si era volatilizzata. Non poteva permettersi di non sposarsi per interesse. Anche Ugo poteva quindi fare al caso. Se mai fu deluso, era troppo signore per lasciarlo trapelare.Nascose il carillon in un cassetto e cercò di dimenticarlo. Non era però così semplice. Chi aveva spedito il pacchetto, forse con lo scopo di influenzare le condizioni psichiche di Olga, era non solo molto abile, ma anche straordinariamente ben informato. 3

Page 4: Esteban n. 5

A distanza di appena una settimana dall'arrivo del carillon, fu consegnato un altro pacchetto. Anche questo era accuratamente confezionato e sigillato e la scatola era ancora di una inquietante anonimità.Lo aprì e sentì che le ginocchia le cedevano. Il cofanetto conteneva, avvolto nella carta velina, la splendida spilla di smeraldi che Ugo le aveva regalato il giorno del matrimonio. Era un oggetto di mirabile fattura. Il signor Stovini glielo aveva pagato bene. Ora l'aveva tra le mani, sfavillante come il giorno in cui Ugo l'aveva puntata con tanta tenerezza sul suo abito nuziale.La signora Marenchi cercò di far rallentare il battito del cuore.

Non le faceva bene essere così sconvolta.Se quella misteriosa procedura fosse continuata, avrebbe ricevuto numerosi pacchetti, Ugo era stato molto generoso nei regali.... la sua attività professionale si era rivelata ben presto redditizia.A chi osservava dall'esterno, La signora Marenchi poteva sembrare una donna davvero fortunata. Ugo era sempre pronto a soddisfare ogni suo desiderio. Eppure, con l'andar del tempo, si era sentita sempre più prigioniera, quasi come una schiava. Avrebbe desiderato avere una piccola somma a sua disposizione. Non tanto. Giusto l'occorrente l'occorrente per poter essere libera di comprarsi qualcosa. Lui però non le aveva mai lasciato tenere un conto personale e le passava solo il minimo per le spese correnti. “Preferisco prendermi io cura di te, cara”, diceva.A Ugo non sfuggiva nulla. Aveva un conto aperto col droghiere, col lattaio, con la tintoria, col parrucchiere. Era lui che le comprava tutti i vestiti.Per tutto il periodo del loro matrimonio lei non poté mai disporre di più di una banconota da mille lire al giorno. Naturalmente Ugo saldava personalmente tutti i conti...I pacchetti continuavano ad arrivare. La signora Olga viveva in uno stato di costante agitazione. I pacchetti non arrivavano in modo regolare, e non poteva mai sapere quando ne sarebbe stato consegnato un altro.C'era però una cosa che conosceva con esattezza in anticipo: il contenuto di ciascuno. I regali infatti le tornavano nello stesso preciso ordine in cui glieli aveva fatti Ugo. Il regalo di compleanno, il braccialetto di diamanti, fu seguito dalla parure di

orecchini che Ugo le aveva regalato per Natale.

All'inizio, nei primi anni di matrimonio, era rimasta affascinata dalla generosità di Ugo. Non aveva mai posseduto cose così preziose, e quella pioggia di costosi regali era come un sogno fattosi realtà.Solo col passar del tempo il desiderio di quella illusoria indipendenza finanziaria venne a posarsi nella sua

mente come una cappa di piombo, e col tempo il desiderio si tramutò in ossessione. Ugo si rifiutò persino di prendere in considerazione l'eventualità di un lavoro da parte di Olga. “Siamo ricchi, cara – diceva – sarebbe ridicolo che ti mettessi a lavorare. Sai benissimo che posso soddisfare qualsiasi tuo desiderio”.Col passar del tempo i regali non le procuravano più gioia. Agli occhi di Olga apparivano soltanto come i simboli della sua schiavitù. Le era diventato difficile perfino fingere di gradirli.Ora, rivedendoli, provavo orrore e ripugnanza.Appena arrivava un pacchetto lo nascondeva immediatamente. I cucchiai dì argento, regalo per l'anniversario, precedettero di poco il vaso di Murano che Ugo le aveva portato da Venezia.La signora Olga cominciava a sentirsi preda del panico.Rimaneva un ultimo regalo. Sapeva che cosa avrebbe significato se anche questo fosse tornato indietro. E sapeva anche con terribile certezza che, pur essendo stato l'ultimo dono fattole da Ugo quando era in vita, ora non sarebbe stato più l'ultimo. Sapeva che il dono finale le sarebbe arrivato dalla tomba.

Col passare dei giorni le condizioni psico-fisiche di Olga peggioravano.Non dormiva quasi mai e quando, infine, precipitava nel sonno, faceva sogni terrificanti da cui speso si svegliava urlando. Mangiava poco: era dimagrita a tal punto che i vestiti le stavano appesi addosso come sacchi.

Stentava a riconoscersi allo specchio, gli occhi la fissavano dal profondo delle orbite come vitrei globi in un teschio.Il pacco arrivò. L'ultimo regalo di Ugo. Conosceva benissimo il contenuto prima ancora di aprirlo. Quel regalo gliel'aveva fatto in un occasione particolare ... era stato un capriccio del momento. L'aveva visto in una vetrina di corso Cavour e senza pensarci su era entrato e gliel'aveva portato.

4

Page 5: Esteban n. 5

5

Adesso le sue mani tremanti riuscivano a fatica a strappare la carta. All'interno della scatoletta bianca era posato il dono, un bellissimo porta piccole color smeraldo, opera di un famoso artigiano. un vero capolavoro. Olga lo fece sparire in fretta. Cercò di trovare la calma per affrontare ciò che l'aspettava. Ma cosa? Come poteva proteggersi?Quella sera andò a letto presto. Gli occhi spalancati fissavano il soffitto senza vederlo. Bussarono alla porta. Scivolò nelle pantofole e si infilò la vestaglia. Scese in silenzio i gradini, lentamente: non chiese chi fosse dietro la porta, “sapeva”. Si avvicinò alla porta come spinta da un impulso che non riusciva a frenare. Bussarono ancora. Olga andò alla porta, rimase là, ferma, completamente disorientata. La mano era sulla maniglia. D'un tratto si sentì venir meno, oppressa dal terrore e dalla stanchezza. Adesso il suo corpo era percorso da un fremito incontrollabile: Avvertì un nodo alla gola, poi un rantolo. Si lasciò cadere sul pavimento, col viso che premeva contro il legno della porta.I colpi risuonarono ancora. Ebbe l'impressione che l'ingresso inclinasse prima da una parte e poi dall'altra.“Ugo – sussurrò – come hai fatto a scoprirlo?”dall'altra parte della porta “c'era” Ugo, ne era sicura. E in qualche modo aveva appreso la verità.Aveva preso il veleno dal piccolo porta pillole e l'aveva lasciato cadere nella sua tazzina. Era sicura che non l'avesse vista. Era rimasta seduta tranquilla a guardarlo bere il caffè e morire tra atroci spasimi. Adesso finalmente avrebbe potuto disporre del denaro. Avrebbe dovuto saperlo, pensò confusamente. Avrebbe dovuto saperlo che non poteva continuare a trattarla così. Adesso giaceva sul pavimento, come un mucchietto di stracci. Emise un rantolo, un lungo sospiro,e poi rimase con gli occhi sbarrati, senza vita.Ancora pochi colpi alla porta, poi si udì un rumore di passi.

Il signor Stovini ridiscese le scale deluso. Aveva aspettato di rimandarle tutti quegli oggetti nello stesso ordine in cui glieli aveva venduti per dirle che l'amava. Pazienza. Sarebbe ritornato l'indomani.

Sono appena rientrata dal giardino, ho controllato se Anna sta bene. Si, sta benone, ha mangiato anche i pezzettini di anguria. I vermi invece li ha spazzolati subito stamattina, sei grosse succulente camole, per la precisione. Se fosse una persona la invidierei… Le direi: ma come fai a restare in forma, con quel che mangi !

ANNA E FILIPPOdi Sara Capittini

Anna è un pulcino di gallinella d’acqua; l’ho trovata domenica, che per l’appunto era il 26 luglio, Santi Gioacchino e Anna… di chiamarla Gioacchina neanche a parlarne, per cui ho optato per Anna. A dire il vero sarebbe più corretto dire che lei ha trovato noi, Fausto, Monica e me, di ritorno da un week end in Val Curone ad osservare le stelle; correva all’impazzata sulla via, spaventata a morte dalle auto. Lì vicino scorre un fossetto piccolo e poco pulito, forse veniva da quelle parti. Abbiamo prontamente fermato il traffico (gli altri automobilisti non ci avranno molto amato) e ci siamo dati all’inseguimento; c’è voluta molta maestria per riuscire a prenderla, perché la piccola corre veloce sulle lunghe zampette che la fanno assomigliare ad un incrocio tra Calimero e una specie lillipuziana di gru. Di altre gallinelle nel fossetto neanche l’ombra; niente genitori o fratellini, o almeno parenti di secondo grado… vista la sua tendenza a gettarsi sotto le auto, ho pensato bene di portarmela a casa, almeno per un paio di settimane se ne starà nel recinto che le ho preparato nell’ex orto, ben soleggiato al mattino ma in ombra nelle ore più calde, erba sia alta che bassa, piscinetta, cibo in abbondanza, insomma tutti i comforts. Sono qui nel mio ufficio al piano terra di casa, ma mentre lavoro mi capita di interrompermi, esco e vado a controllare se sta bene, ma di soppiatto, senza farmi vedere; quando mi avvicino scappa a nascondersi tra le foglie, il che è un bene, significa che non si è abituata alla presenza dell’uomo. Tra qualche giorno la porterò in un luogo più tranquillo e la lascerò libera… il Bosco del Vignolo a Garlasco magari, oppure l’Agogna Morta tra Borgo Lavezzaro e Nicorvo, una zona umida bellissima in cui troverà certamente un gran numero di suoi simili con cui iniziare la sua nuova vita.

La piccola Anna mi riporta inevitabilmente alla memoria il suo “fratello maggiore” Filippo. Me lo portò il 3 maggio di qualche anno fa l’impresario edile signor Casabona (“Luigi, mi chiamo Luigi” mi diceva, è un tipo pratico e quel “signor Casabona” gli andava stretto). In quel periodo Luigi stava ristrutturando una vecchia cascina. Esce dall’edificio e trova Filippo sul parabrezza del suo camion. Era caduto dal secondo piano, quando gli operai avevano demolito il tetto e, probabilmente indeciso tra lo shock e il terrore, si era addormentato. Luigi mi dice: “Architetto, so che lei è di Legambiente, ho trovato quest’uccello, può portarlo a qualcuno che sa cosa fare?”

Page 6: Esteban n. 5

E io: “Si si, certo! Lo porto senz’altro alla LIPU” … poi apro la scatola, lo guardo e scatta la scintilla dell’amore. Un minuscolo piumino con grandi occhi neri, zampette artigliate, un piccolo becco adunco; un pulcino di gufo. Un gufo, piovuto letteralmente dal cielo, un animale che adoro, affascinante, misterioso, inafferrabile… e io ora ne ho qui uno… ma siamo sicuri che lo voglio portare alla LIPU? Nooo…. Non ne sono poi tanto sicura, anzi… per niente… Mi rimorde la coscienza, ma dove sono finiti i miei principi? Beh guardalo lì, che meraviglia… potrei crescerlo io, finchè non ha le penne adatte a volare… Ma senza tentare di farne un animale domestico, non sono mica una criminale, no! Lo crescerò per essere libero! Ma intanto ci penso io a lui, tesoro, me lo tengo per un po’ … Un gufo, santo cielo, ma quando mi ricapita? “Eh no, quale gufo!” fa Fausto (si, lo stesso che mi ha aiutato a inseguire la gallinella Anna) “questo è un piccolo di allocco!” con questo dimostrando la mia ignoranza nel campo delle specie animali. Eh si, un allocco, come li chiamiamo noi perché, da bravi rapaci notturni, dormono tutto il giorno e non hanno certo un’aria intellettualmente brillante mentre se ne stanno appollaiati a ronfare… come se qualcuno osservasse noi, di notte, stesi nei nostri letti, con l’espressione ebete persa nei sogni, e dicesse: beh questo qui non mi pare troppo intelligente. Contrariamente ai gufi e alle civette, amano fare il nido negli edifici abbandonati o poco frequentati (ecco cosa ci faceva nella vecchia cascina in ristrutturazione). Mia madre e mia sorella diedero in escandescenze non appena varcai la porta di casa con quello che definirono “l’uccello del malaugurio”. Vista l’accoglienza ostile, decisi per un’altra sistemazione e lo portai al Casello delle Acque, una bellissima costruzione in mattoni rossi a cavallo tra due canali, vicino alla chiesa di Sant’Anna a Cilavegna; quella era allora la sede del mio circolo Legambiente. Nel giardino sul retro della costruzione c’è un vecchio rustico, dotato di posatoio per galline: l’ideale. Vi depositai il piccolo Filippo e me ne andai. Avevo molto da fare: dovevo documentarmi a fondo sulla vita, le abitudini e l’alimentazione degli allocchi. Il piccolo rapace si rivelò un animale robusto, di carattere gagliardo e facilissimo da allevare. Ogni sera andavo a Cilavegna per nutrirlo e controllare che tutto andasse bene. Su internet avevo trovato una quantità di informazioni sulle abitudini di comportamento e di alimentazione della sua specie. Filippo, nei suoi rapporti con me, era molto ostile e sapeva per istinto di essere un dominatore. Ogni volta che mi avvicinavo per nutrirlo, spalancava le ali, gonfiava le piumette per mostrarsi più grosso e schioccava il becco… voleva che fosse chiaro da subito che, tra noi due, il predatore era lui! Poco importa se mi stava in una mano. Le commesse del supermercato mi conoscevano ormai come “la mamma del gufo”; il reparto carne e pesce fresco erano le mie mete preferite. Per lui solo carne sceltissima, pollo e anche un po’ di pesce azzurro (gli allocchi normalmente non mangiano pesce, ma a quanto pare solo perché non sanno pescarlo, perché quando se lo ritrovano servito in tavola lo gradiscono eccome). Mescolavo la carne trita con le piume tolte dal mio cuscino, lasciavo le ossicine al pollo e le lische e al pesce, triturandole con il pestacarne perché non si soffocasse. Infatti la mamma di

solito li nutre con brandelli di piccoli animali, inclusi pelle, peli e ossa, e poi i piccoli rigurgitano tutti gli “scarti” poco nutrienti. Anche Filippo aveva imparato a fare il suo bel rigurgitino; ogni sera, quando andavo a nutrirlo, controllavo se per terra c’era una palletta compatta, lo scarto del pasto del giorno precedente. Per nutrirlo indossavo guanti di pelle e occhiali protettivi, perché anche se piccolo aveva pur sempre dei begli artigli, e lo imboccavo con una comune e banalissima forchetta. Lui se ne stava posato sul trespolo per galline, a un paio di metri da terra, mangiava ma mi osservava circospetto, con l’aria enigmatica di chi non sa se considerarti un amico, una seccatura o una preda troppo cresciuta. Andavo a trovarlo solo una volta al giorno, il tempo strettamente necessario a dargli la pappa, venti minuti, mezz’ora al massimo, poi molto a malincuore mi costringevo ad andarmene. Avrei trascorso con lui ore e ore, ma si sarebbe abituato a me, e con me alla presenza dell’uomo in genere. Ben presto si sarebbe verificato quel fenomeno del comportamento animale noto come “imprinting”, che ogni cucciolo ha nei confronti di chi lo accudisce. Quasi sempre le figure di riferimento sono i genitori, ma in questo caso Filippo avrebbe identificato me come un suo simile, smarrito la propria identità credendosi un essere umano, e non avrebbe mai più potuto essere liberato in natura. Certo, desideravo essere io a crescerlo, non volevo rinunciare all’emozione di quel breve contatto quotidiano con una creatura così speciale. Ma non avevo certo l'intenzione di trasformarlo in un patetico surrogato di animale domestico. Lui mi permetteva di vivere un’esperienza meravigliosa finchè rimaneva se stesso, un animale selvatico destinato alla libertà. Mi ritrovai ad avere le lacrime agli occhi mentre lo imboccavo, a raccontargli favole di luoghi che neanch’io avevo mai visto, di cose che non avrei mai potuto fare. Gli raccontai di com’è bello trovare un buco accogliente nel tronco di un albero, in un bosco antico e frondoso, sonnecchiare tutto il giorno per poi uscire silenzioso in una notte stellata, cercare la preda, e planare infine micidiale su un succulento topo di campagna. Gli raccontai persino di com’è bello volare. Non ci volle molto perché la dieta iperproteica cui l’avevo sottoposto desse i suoi frutti. Dopo quasi due mesi, il pulcino aveva più che triplicato le proprie dimensioni e molte, belle e lunghe penne spuntavano dalle ali e dalla coda. Era sempre più nervoso, svolazzava da un capo all’altro del capanno… Non era certo un adulto, ma era diventato un adolescente, e si sa, gli adolescenti vogliono i loro spazi. Una sera di giugno gli diedi la pappa, e mi azzardai ad accarezzargli le penne (qualche schiocco del becco mi ricordò che non dovevo prendermi troppe confidenze). Feci finta di niente, non mi piacciono gli addii, e poi perché doveva essere un addio? Ci saremmo certo rivisti. Lasciai la porta del capanno aperta, e gli raccomandai di volare bene e non finire dritto nel canale. Il giorno dopo non c’era più. Ciao Filippo!

6

Page 7: Esteban n. 5

La polvere del tempo le aggrediva le mani, sentiva la pelle seccarsi. Non se ne curò e continuò a svuotare quella vetusta scatola di latta, le notizie che rivelava avevano un effetto magnetico.Si guardò i polpastrelli neri, poi se stessa allo specchio, trovandosi vecchia e stanca.C’era una sola cosa da fare.Sua madre dormiva. Si sedette ai suoi piedi, un cuscino di piume tra le braccia.La decisione era presa.Si alzò e lasciò cadere il guanciale, premendolo un poco perché non si muovesse.

L’ALTRAdi Francesca Protti

Un caso come tanti. Una persona anziana, una badante straniera, un compatriota poco raccomandabile disposto a tutto pur di racimolare qualche euro. Una delle numerose storie che riempivano le pagine di cronaca e appesantivano il lavoro delle forze dell’ordine. Eppure il trasporto di quella giovane slava gli era sembrato genuino, il pianto sincero. Più del solito, almeno.Non c’erano segni di scasso. L’assassino, quindi era stato fatto entrare. O aveva le chiavi, che la badante poteva aver sottratto alla padrona.La ragazza, però, giurava che le cose non erano andate così. Gli aveva persino mostrato dove signora teneva i soldi della pensione appena ritirata. Il giorno in cui signora era morta, figlia di signora le aveva tenuto compagnia per qualche ora.L’ispettore aveva fatto cercare l’erede, anche solo per darle la notizia, scoprendo che era in vacanza e che avrebbe ripreso il lavoro di lì a due giorni. Se era via, non poteva aver fatto visita alla madre.Tutto era contro la badante.Se anche la pensione risultava intatta, potevano aver rubato altro. Il luogo del delitto gli ricordava la casa di una sua prozia, piena di cianfrusaglie buone solo a far polvere e disordine. In quel marasma chissà cosa poteva mancare, forse in casa c’erano altri soldi di cui nessuno sapeva. Ricordava, su di un tavolinetto, una scatola di latta arrugginita, il cui contenuto era sparpagliato tutto intorno.La ragazza, rassettando casa, poteva aver scoperto un piccolo tesoro e ne aveva parlato a qualche amica incontrata nelle ore di libertà. La voce poteva essersi sparsa e qualche mascalzone, molto probabilmente, aveva convinto la ragazza a lasciarlo entrare in casa per prendere un po’ di quel denaro. Signora di sicuro non si sarebbe accorta di nulla.

Il caso si presentava già risolto. Qualcosa nell’animo dell’ispettore, però, non era soddisfatto di quella risposta. Decise quindi di concedersi quarantott’ore ore di navigazione a vista; se non fosse approdato a nulla, avrebbe archiviato il caso, consegnando alla giustizia la colpevole al momento più probabile.Scelse di tornare nell’appartamento e considerare meglio quella scatola di latta. Perché lasciarla lì, se si era sottratto il suo contenuto più prezioso? Perché non rimettere tutto a posto evitando di destare sospetti?L’odore di vecchio e di canfora si mischiava a quello dei preparati chimici dei tecnici della scientifica, urtando il suo olfatto molto sensibile. Aprì le finestre e si mise al tavolino su cui ancora c’era la scatola. Un ricciolo rosso tiziano, vecchie lettere, qualche foto, un certificato di nascita e altre carte ricoprivano il piano del tavolo, mentre dentro la scatola rimanevano vecchie bolle dell’affitto, un ventaglio e un paio di occhiali da uomo. Nulla gli assicurava che quella latta avesse custodito qualcosa di maggior valore. Era molto più probabile, invece, che l’anziana donnina avesse trascorso qualche ora in balia dei ricordi, dimenticandosi, poi, di riporre di nuovo tutto nella scatola.

Un tramestio, dei passi nella stanza potevano averla svegliata e l’intruso aveva messo troppo impegno nel soffocarne le grida.Il ragionamento filava, ma l’ostinazione con cui la badante aveva parlato della visita di figlia di signora non lo lasciava tranquillo. Qualcosa sfuggiva al quadro generale. Tutto era troppo semplice, dov’era la fregatura? Il suo cercapersone vibrò, era il commissariato. La figlia della defunta era stata rintracciata e stava arrivando. Era meglio se tornava in ufficio.La donna non doveva essere tanto più giovane di lui, eppure gli ricordava sua

madre. Quel tailleur a longuette dal taglio fuori moda, il cappellino con la veletta strappata, le scarpe con il tacco a rocchetto.“Che rapporti c’erano tra sua madre e la badante?”“Semplicemente mia madre non voleva più star sola e io non potevo tornare a vivere con lei. Katia è stata la soluzione migliore, si occupava della casa e della spesa, vegliava sua mia madre.”“Capisco. Ciò che vorrei sapere, però, è se sua madre si fidava della ragazza o se, invece, la temeva. Le aveva fatto qualche confidenza in merito?”“Mia madre ed io non ci siamo mai scambiate segreti.”“Quando ha visto per l’ultima volta sua madre?”“Domenica, dopo la messa. Ero passata a sincerarmi che Katia, quel giorno in libera uscita, avesse lasciato tutto in ordine, che mia madre non necessitasse di nulla.”

7

Page 8: Esteban n. 5

Strano, non pronunciava mai la parola mamma.“La ragazza, però, sostiene che lei è stata a casa di sua madre il giorno che …” preferì non finire la frase.“Si sbaglia.”L’ispettore non se ne stupì. La soluzione era lì davanti a lui, per quanto scontata fosse. Fu solo per curiosità che interrogò ancora la donna.“Sa dirmi chi è Anita?” Il certificato di nascita ritrovato nella latta riportava quel nome e una data del 1973.“Mia sorella, credo.”L’ispettore non riuscì a trattenere la sorpresa.“Non sono certa che fosse anche figlia di mio padre.”Tra i documenti ingialliti c’erano anche gli atti relativi a un’adozione, decisioni di famiglia che esulavano dal caso.“Non ho avuto scelta, capisce?” La donna parlava con lo sguardo rivolto al vuoto. “Perché ha dovuto darla via? Perché mi ha privato di tale fortuna? Quando ho trovato la scatola, l’altro giorno, il suo contenuto mi ha aperto gli occhi. E ho ricordato. Gli estranei che vennero in casa a prenderla, a liberarla da quella prigionia prim’ancora che l’aggredisse. Una ricca signora voleva tanto una bambina e accettò subito di adottarla. Ricordo che abitavano davanti a noi, dall’altra parte della strada, la vedevo giocare con i suoi fratelli e crescere nell’agio e nell’amore. All’epoca non sapevo chi fosse, ho compreso in pieno solo adesso. Perché io non avevo avuto altrettanta fortuna? Perché non aveva dato anche me in adozione. Non mi voleva, non mi ha mai voluta, ma mi ha tenuto e condannato a una vita di stenti e rinunce. Appena tutto ciò si è fatto chiaro nella mia mentre, ho dovuto punirla per quello che mi aveva fatto. Il cuscino era lì, ai suoi piedi. È stato facile.”Tacque. Gli occhi sempre fissi su volti che solo lei vedeva.L’ispettore si protese lentamente verso di lei.“Come ha detto?”“Io non ho parlato.” Ribatté la donna guardandolo dritto in faccia. Ma non era la stessa persona. In quel corpo c’erano due anime che lo shock della presa di coscienza aveva irrimediabilmente separato. I ricordi, nella loro crudele chiarezza, avevano scatenato la reazione più estrema. La badante aveva ragione, la figlia giocava un ruolo centrale, era lei l’assassina. Lui, però, aveva le mani legate, non c’era alcuna prova a sostegno di quella tesi. La donna non avrebbe mai ripetuto tutto quanto in presenza di testimoni, una parte di lei nemmeno sapeva ciò che l’altra aveva fatto.Non aveva dubbi che la verità fosse quella. Il suo animo si era rasserenato, come quando tutti i pezzi del puzzle si trovano al loro posto. La frustrazione per l’impossibilità di assicurare alla giustizia la vera colpevole, gli seccò la gola.

TRE POESIE DI ANNA CROTTI

Sì, forse si puòForsePersinoalle nostre madrisi puòperdonareinfinee da lìsolo da lìincominciarefinalmentea vivereliberinella musicainfinitadei ritorni.

Di mattino lo scampanio antico che sovrasta i tetti cotti accucciati del borgo non lontano dal ronziocupo distratto della strada delle vacanzeci famendicanti di nostalgiastranieri ovunquedi luci e di ritipoverisapori svanititatuaggi indelebilidi carne e di sanguesull’anima.

Varcata la sogliaesci libera

finalmentenel sole

a coglierei tuoi sogni

ad unoad uno

nei prati,profumati

di nostalgia,dell’eterno

-che ne restisempre

qualcunoda scoprire

nell’aria dolceleggera!-

e di notte,questa notte,le tue piccole

felici manibianchediriganoi fuochi

della festadi saluto

-bambina nuova- pronta

a strillaregioiosa

la tua paurafra le braccia

sicuredella mamma

di ogni madre.

8

Page 9: Esteban n. 5

C’E’ VITA NEL VILLAGGIO !

Venerdì 9 ottobre alle ore 21, a Palazzo Cambieri in Mortara, una serata dedicata alle problematiche connesse all’immigrazione. All’incontro hanno partecipato Franco Vanzati dell’Ufficio Migranti della CGIL di Pavia e Pinuccia Sabatino della nostra associazione che hanno approfondito le diverse tematiche rapportandosi con la realtà locale e dando spazio agli interventi delle associazioni che lavorano sul territorio su questo tema e a numerosi testimonianze di immigrati che hanno rappresentato la loro realtà personale. Per noi è stato un momento molto importante perchè ha rappresentato l'esito ma anche l'inizio di un lavoro, ed è stato un momento in cui realtà differenti hanno potuto confrontarsi. Per noi, inoltre, ed è la cosa a cui teniamo di più, è stata l'occasione per nuovi incontri con persone ed esperienze diverse Proponiamo ai lettori l’intervento introduttivo di Adriano Arlenghi e un contributo di Franco Vanzati.

Un villaggio dove nessuno è straniero, cosi ci è piaciuto chiamare questo nostro incontro di stasera, che abbiamo pensato come un viaggio nel mondo dei migranti, nelle loro storie personali e collettive. Un incontro per chi è colpevole di -lo mettiamo tra virgolette- clandestinità, per chi cerca un futuro migliore nella nostra ricca Europa, magari lontano dalle guerre, dalle carestie, dalla fame. Ieri ho incontato un’infermiera, Claudia Mossi, che fa parte dell'AINS, una associazione che Esteban conosce molto bene e con cui in passato ha organizzato incontri e collaborazioni. Ains è una associazione di medici e infermieri volontari pavesi. Claudia Mossi proprio questa mattina è ritornata in Uganda, e mi diceva che là è' un inferno dove la gente muore come le mosche, là i millenium goals non si sa nemmeno che cosa sono, mancano anche i più elementari presidi sanitari che lei ha cercato con scarso successo di avere dalle nostre asl e dai nostri medici, che qui sono normalità e che là invece salvano vite. Del resto la Banca Mondiale ci ha da poco avvertito (Repubblica dell'altro ieri) che a causa della crisi i nuovi poveri sono diventati 90 milioni in più, in totale fa un miliardo e cento milioni, e dunque una fetta non marginale dell’umanità. E allora, come dice Claudia Mossi, che altro dovrebbero fare se non scappare dall’inferno? Se ci riescono, se ci arrivano, se non affondano. Colpa loro? Può darsi, diciamo noi che abbiamo le nostre sante buone ragioni però io credo che prima dovremmo andare a leggere le politiche del fondo monetario, le false promesse dei G8, i prezzi imposti dalle multinazionali anche di casa nostra, l’impossibilità di raggiungere la sovranità alimentare, lo sfruttamento delle risorse da parte di un nord del mondo che si crede il gotha della democrazia e della tecnologia e dunque della verità. E allora è anche per dire questo che abbiamo voluto

fortemente l’incontro di stasera, un incontro di parte, se volete, ma vivaddio magari servisse a riequilibrare un po' tutte le mezze verità che la politica racconta di questi tempi. Lo abbiamo voluto fortemente per dire che crediamo che tutti gli abitanti del mondo abbiano lo stesso diritto a vivere, a essere liberi e a cercare la propria strada verso la felicità. E anche per buttare sul tavolo una voce contraria al realismo

imperante in questa città. Certo, lo sappiamo che da sempre la gente ha avuto paura del disordine, di tutto ciò che era diverso da sè, e sappiamo anche che è soprattutto nei momenti di crisi che questo si verifica come se l'unica cosa che si pensa possa servire per calmare quest'angoscia esistenziale sia nell'identificazione di capri espiatori da sacrificare. Nell'illusione che una volta che la pratica stranieri sia chiusa, allora e solo allora non ci sarà proprio più ragione di avere paura. Che stranezza, diciamo noi di Esteban, che in questi mesi abbiamo a lungo parlato di questi temi : proprio oggi che siamo interconnessi con il mondo, e nel momento in cui il libero mercato è diventato globale, nascono incredibilmente nuovi muri. A chi ci abita, soprattutto dopo la grande kermesse della sagra paesana,

Mortara può apparire una città bella da vivere, una città ricca di legami affettivi, culturali, sociali. Ma è anche una città, come tante di questi tempi, che ripropone di continuo la cultura della competizione, dell'insicurezza, della solitudine, della povertà economica e sociale, assediata da sette ipermercati che le fanno da corona e il cui richiamo è sempre e solo un perenne invito al consumo. Ci siamo chiesti cosa fare per realizzare una dimensione di città più sociale, più solidale, come fare per aprire un canale di dialogo tra narrazioni differenti del mondo. Saremo in grado noi piccola associazione culturale di pochi gatti a proporre l'idea della necessità di un cambiamento di rotta, a favorire nel nostro piccolo un nuovo modello di convivenza civile che non ha bisogno di spie, di ronde, di telecamere e di preconcetti? Ci proviamo. Siamo convinti che oggi anche a Mortara stia nascendo una nuova sensibilità civile. Per questo riteniamo sia giunto il momento di proporre un nuovo tempo, il tempo del villaggio planetario di cui parla un nostro caro amico, Ernesto Balducci. 9

Page 10: Esteban n. 5

C’E’ VITA NEL VILLAGGIO !

Stasera vogliamo entrare dentro al problema, credeteci non è facile, e se proprio ce lo vogliamo dire, scusate la nostra immodestia, è anche coraggioso questo nostro andare controcorrente in un territorio dove la cultura della sicurezza è diventata pane quotidiano, manifesto ideologico e rullo compressore di ogni voce diversa da un uso politico strumentale. Intendiamoci, noi non diciamo che va bene tutto, è chiaro: chi è delinquente va in galera, rosso o verde o bianco che sia, ma da qui a negare il bisogno di una politica di integrazione, di confronto, di discesa dentro alle storie e alle situazioni, ce ne corre. Alcuni di noi avevano già provato mesi fa a sollevare il velo all’interno di un progetto di Agenda 21 locale. Senza successo. In quella sede avevamo ipotizzato la nascita di uno Sportello Stranieri, sportello forte dotato di mezzi e di sensibilità, gestito dal Comune e punto di riferimento per i cittadini stranieri, con funzione di informazione, consulenza e orientamento all'utilizzo dei servizi, ed in grado nello stesso tempo di sostenere e accompagnare la persona immigrata in un percorso di inserimento e dunque di sostegno sui fronti caldi del lavoro, della casa. della scuola. Un progetto che doveva partire dall’esperienza già acquisita sul territorio, che poteva mettere insieme i saperi acquisiti, far circolare le buone prassi, integrarsi con le associazioni di volontariato o religiose presenti, un progetto rivolto a quei 1300 stranieri (dati 2007) provenienti da 55 Paesi diversi e nei quali le comunità più consistenti sono rappresentate dal Marocco con 243 residenti, dalla Romania con 188, dall’Albania con 169, dalla Tunisia con 102 residenti. Questo nostro lavoro all’interno di Agenda 21 e i tanti incontri che abbiamo avuto con persone di ogni paese ci hanno convinto che i migranti che ora risiedono a Mortara sono la somma di innumerevoli storie individuali, di progetti anche parzialmente consapevoli, di persone che spinte da motivazioni diverse -ricerca di un lavoro, fame, persecuzioni, voglia di una vita migliore- decidono di attraversare i confini del loro Paese. Abbiamo anche capito, in questo nostro chiedere in giro un po’ a tutti, che attraversare un confine fisico produce anche un shock culturale. Ciò significa che spesso si entra in una identità umana e culturale a metà tra quella di origine e quella nuova, con il bisogno di trovare soluzioni tra mondi e simboli anche radicalmente diversi. E lo diciamo anche come risposta a quello che raccontano ogni settimana i politici locali, e lo addebitano come fosse la massima colpa quando sbrigativamente dicono : non si vogliono integrare, sono colpevoli di mancata integrazione sociale. Abbiamo anche capito in questo nostro lavoro che le migrazioni di oggi sono causate dalla dimensione mondiale della nostra società. Se in passato soltanto le religioni potevano pretendere di essere universali, oggi, lo sappiamo, non c’è aspetto della vita collettiva che non vada oltre i confini della società locale. Il mondo intero è ormai il raggio d’azione delle comunicazioni di massa, è il campo d’azione delle imprese e l’orizzonte naturale dei movimenti finanziari, ce ne siamo accorti di recente con quella mazzata che sono stati i bond e i mutui spazzatura. La crisi di un’economia locale

diventa istantaneamente un problema per tutto il mondo. Una guerra civile in un paese lontano produce effetti in

ogni parte del globo. Lo stesso avviene guardando le ripercussioni mondiali dei cambiamenti climatici. Abbiamo anche compreso come un mondo globalizzato conosca come legge suprema il movimento. Movimento spaziale, in quanto l’eliminazione dei confini economici e della comunicazione consente una circolazione sempre più ampia e rapida di beni, di simboli e di idee. Ci e’ anche sembrato di intuire come l’attuale stato di globalizzazione significhi una omogeneizzazione dei consumi, laddove un numero sempre maggiore di beni materiali e immateriali definisce lo stile di vita uniforme di una quota crescente della popolazione mondiale. Sappiamo tuttavia che questo orizzonte è incerto e precario. Ce lo spiega bene Zigmunt Bauman con la sua Società Liquida, ma ce ne accorgiamo benissimo anche noi ogni giorno, come ci accorgiamo che non esiste una risposta globale alla gestione delle crisi economiche, alle emergenze ambientali, ai diritti delle persone. In campo economico infine abbiamo notato come la delocalizzazione delle imprese dai paesi ricchi a quelli con minori diritti e minori costi di mano d’opera non genera ricchezza e benessere in nessuno di questi paesi, e che le ricette di politica economica e sociale dei grossi organismi mondiali, FMI e BM, WTO e Unione Europea creano dipendenza e debiti che spesso condizionano in modo catastrofico la vita, la salute e l’educazione degli abitanti dei paesi del sud del mondo. Tant'è, e sembra paradossale, che molti intellettuali africani ci dicono: smettetela di aiutarci. Queste le condizioni da cui nasce la disponibilità ad emigrare, a diventare stranieri nel mondo ricco. Eravamo arrivati alla conclusione, infine, che la condizione di migrante oscilla in realtà tra necessità e libertà, tra il bisogno e il progetto, tra le sicurezze precarie e l’insicurezza a cui e’ consegnata la tentazione di una ricerca di narrazioni diverse della propria vita. Dalla nostra parte di frontiera abbiamo visto invece come per contenere questo fenomeno si stiano erigendo sempre più barriere di cristallo e come le legislazioni europee in materia di immigrazione e di diritti dei migranti abbiano subito un irrigidimento progressivo. Irrigidimento a cui non sono estranee le macchine della paura create dai mass media e dalla diffusa percezione di una emergenza sul tema della sicurezza nazionale. Gli incontri che abbiamo realizzato in Lomellina, così concludevamo allora la nostra relazione, ci hanno convinto della necessità non più rinviabile di una nuova strategia sociale tesa ad accompagnare i migranti residenti in città alla pienezza del godimento dei diritti previsti dalla nostra Costituzione. E dunque diritto al lavoro, alla casa, alla cultura, alla salute, al credito, alla professione religiosa, alla rappresentanza politica. L’insofferenza, la contrapposizione, e persino la paura che abbiamo rilevato in un parte dell’opinione pubblica verso gli stranieri non giustifica il rinvio di un intervento forte capace di costruire un percorso di piena cittadinanza e di fruttuoso interscambio tra mortaresi e stranieri.

10

Page 11: Esteban n. 5

Un processo del resto inevitabile, che e’ meglio perseguire al più presto per evitare fratture future più complesse e profonde. Rivolgiamo, dicevamo allora ma lo diciamo ancora stasera, un forte invito ai settori più sensibili della città, al mondo religioso, dell’associazionismo e del volontariato, al mondo politico che non gioca con le speranze e i sogni di altri esseri umani, perchè su tutto questo si apra un ampio dibattito cittadino di cui noi di Esteban sentiamo oggi una forte necessità.

Adriano Arlenghi per Il Villaggio di Esteban

L’immigrazione è e sarà ancora per molto tempo il dato più saliente di questo millennio. Fin dai tempi antichi, l’uomo ha cercato di migrare alla ricerca di nuove terre, nuove opportunità, per avventura; ci sono interi passi della Bibbia che parlano di migrazioni, del valore e del significato della accoglienza. Nella nostra società, nei luoghi di larga frequentazione, nelle scuole e nei luoghi di lavoro, negli ospedali, nelle università, sui campi da gioco la presenza degli immigrati è una costante. Molti svolgono le mansioni più dequalificate e rischiose, altri altamente specializzate, come il personale paramedico e medico, il docente universitario, il giocatore di calcio, di pallacanestro, ecc. A molte di queste persone facciamo gestire gli ultimi anni di vita dei nostri genitori e la cura delle nostre case. Nascondere che siamo una società multiculturale e multietnica è fare come lo struzzo che nasconde la testa. Lo siamo, e una decente politica per l’immigrazione avrebbe già da tempo creato le basi per politiche di integrazione e di dialogo. Invece, dal 2002 con la Bossi/Fini abbiamo una legge che restringe la possibilità di entrare in Italia per ricerca lavoro, ampliando così il lavoro nero e dal 2009 una legge che istituisce il “reato di clandestinità”, le ronde private e una serie di provvedimenti tendenti al peggioramento delle condizioni di vita degli immigrati. Sotto i nostri occhi sta avvenendo una mutazione genetica del nostro Ordinamento Giuridico e più in generale delle basi fondanti della nostra Costituzione. Dal maggio 2008, con la dichiarazione dello stato di emergenza in Campania, Lazio e Lombardia per la presenza di insediamenti nomadi, il governo ha lanciato una campagna contro l’immigrazione con altri sette provvedimenti e decisioni, compreso il respingimento verso la Libia dei profughi nel maggio 2009. Questi provvedimenti hanno fomentato un rigurgito razzista in vaste aree della pubblica opinione, rigurgito, è bene ricordarlo, mai sopito nonostante il movimento dei passati anni. C’è una evidente regressione nella cultura solidale, che

si manifesta anche nel disinteresse di parte della opinione pubblica, nelle aggressioni contro i gay, contro i senza fissa dimora, contro gli immigrati. La legge sulla sicurezza ha “galvanizzato” il sentire popolare creando la figura dello straniero pericoloso, non se delinque, ma anche solo se esiste senza avere il permesso di soggiorno. Però sottacendo che la legge Bossi/Fini impedisce di ottenere il permesso di soggiorno se non pretendendo un incontro a distanza tra offerta e domanda di lavoro. Nessun datore di lavoro (a ragione) sarà mai disponibile ad assumere un dipendente prima di averlo conosciuto e valutato. Infatti attraverso questo obbrobrio si alimenta il lavoro nero. Stiamo diventando un Paese da incubo, forse per questo dobbiamo partire dal basso per ritessere i rapporti solidali e amicali con gli altri popoli, con gli immigrati che sono da noi, per spiegare e rispiegare il significato della convivenza.

Franco Vanzati Ufficio Politiche Sociali e

Immigrazione Cgil Pavia

Sarà in larga misura dedicata all’incontro tra popoli e culture anche l’edizione 2009 de L’EVENTO NELL’AVVENTO che si terrà domenica 13 dicembre presso il Salone Immacolata Regina Pacis di Mortara in via SS Trinità 16. Organizzata da Esteban, Suore Pianzoline, Centro EDA, il Caleidoscopio e la Casa dell’ Arcobaleno, la manifestazione

sarà preceduta alle ore 19 da una cena multietnica. Dalle 21 le testimonianze di persone provenienti da tutti i continenti si alterneranno alle esibizioni dell’attore Corrado Bega, dell’attrice e regista Marisa Palombella e del duo musicale di Pierantonio Gallesi e Cinzia Bauci col loro repertorio tratto dalla tradizione ebraica. Il ricavato della serata sarà utilizzato per l’acquisto di libri per il corso di lingua italiana tenuto presso la Casa Madre delle Suore Pianzoline.

ESTEBAN NUMERO CINQUE AUTUNNO 2009

il giornale dell’Associazione CulturaleIL VILLAGGIO DI ESTEBAN.

Stampato con la collaborazione di CSV PAVIA E PROVINCIAvia Taramelli 7 Pavia via Da Vinci 15 Vigevano.

Hanno collaborato a questo numero : Arlenghi, Boiler Due, Brasca, Capittini, Crotti, Della Monica, A. Giacomone, G.

Giacomone, Gradinaru, Livraga, Longo, Maia, Oisin, F. Protti , M. Protti, Ratti, Vallati, Vanzati.

Devolvi il cinque per mille a favore de IL VILLAGGIO DI ESTEBAN : codice 92008840180

11

Page 12: Esteban n. 5

Il 26 Settembre scorso i Lunatici hanno festeggiato il loro primo anno di attività regalandosi una nottata piena di suggestioni e magia. Inserita nel programma della Festa dell’Oca, la camminata ha richiamato un nutrito gruppo di partecipanti che non si sono lasciati intimidire dall’insolita lunghezza del percorso; giunti al Canale, che in precedenza aveva sempre

segnato il limite estremo degli itinerari, questa volta si è tirato dritto seguendo la Strada delle Cento Pertiche, ammantata di una fitta vegetazione che la rendeva particolarmente oscura e affascinante. Proprio dove la boscaglia iniziava a diradarsi per lasciare il posto al bel viale di querce che conduce al Mulino di Faenza, è apparsa sul bordo della strada una lunga ed incantevole fila di luci che indicava il cammino verso la meta della passeggiata, l’antica casa dove vive e lavora Manuel Ferraris, affermato pittore e scultore ma soprattutto uomo libero e gran signore. Manuel e la sua famiglia hanno accolto in maniera davvero principesca i viandanti notturni, li hanno rifocillati con ogni ben di dio e li hanno intrattenuti amabilmente mostrando loro le tante meraviglie e sorprese che sono racchiuse nella casa dell’artista. Dopo questa lunga sosta in una dimensione di fiaba si è ripresa la strada per Mortara raggiungendo la città – stanchissimi ma entusiasti – a notte fonda, quando la mezzanotte era già un vago ricordo e la Luna se ne era andata a dormire da un pezzo. A detta di molti, è stata la più riuscita tra le ormai numerose camminate notturne organizzate dai Lunatici, ma ognuna di esse ha lasciato in chi vi ha partecipato una quantità di ricordi ed emozioni singolari, ed ogni volta differenti: mi torna alla mente la stanca Mezza Luna rossastra che agli inizi di agosto incombeva sui boschi della Medaglia sprofondandoli in un’oscurità sinistra, oppure – alla fine di quello stesso mese – la Mezza Luna sfolgorante che inondava la campagna lungo il Canale degli incredibili colori della notte (e chi non li ha mai veduti non sa cosa si è perso) mentre dalle risaie salivano folate di calore che si abbattevano come ondate sulle gambe dei camminatori (e al contempo le loro spalle erano accarezzate da una brezza freddina che già sapeva di autunno). Lasciatemi ricordare anche la passeggiata di inizio luglio, coi lunatici sparpagliati lungo i sentieri per cercare la cagnolina Tania che si era persa nella campagna del Diavulin, sotto una superba Luna quasi Piena che navigava nel bel mezzo di un cielo procelloso, mentre furiosi temporali si scatenavano agli estremi opposti dell’orizzonte… Ogni passeggiata riserva ai viandanti nuove sorprese e spettacoli incantevoli ed inattesi, e chi ha partecipato una volta, quando può ritorna volentieri. Aspettiamo anche voi.

Lino Maia

L'uomo e il cane di Danut Gradinaru

C'era una volta un uomo tutto solo, senza parenti e amici, che aveva soltanto un cane. Era un pastore tedesco e l'aveva preso quando era piccolo, un bel cucciolo che si sentiva amato. Il cane era cresciuto in fretta, diventando molto fedele al suo padrone. Gli portava il giornale alla mattina e faceva anche piccole spese tipo il latte, le brioches, e portava anche la posta. Tutti lo conoscevano e lo amavano senza nessun dubbio. Era un cane orgoglioso e girava con il suo padrone, fiero di sè. Non aveva mai creato problemi a nessuno. Un giorno chiese al padrone come mai fosse tutto solo e perchè non aveva amici, ma non ci fu nessuna risposta, e si sentì dire solamente : Un giorno capirai perchè.

Non passò molto tempo che dei cani randagi devastarono il paese seminando paura nella gente. Visto il pericolo si creò un consiglio che decretava lo stato di emergenza; nuove leggi e nuovi progetti. Quando l'uomo lesse il giornale provò una forte commozione ma non disse niente al cane e andò a comprare guinzaglio e museruola. Il giorno successivo il cane doveva uscire, ma il padrone lo fermò dicendogli che stavolta sarebbe andato lui e se lo voleva accompagnare si doveva mettere guinzaglio e museruola. Quando il cane chiese come mai, il padrone disse: - Purtroppo per quello che fanno gli altri devono pagare tutti. E' così. - Adesso capisco quello che mi avevi detto, replicò il cane e da quel giorno diventò come il suo padrone, amando solo lui.

12

NUOVE GEOGRAFIE FRAMMENTI DEL MURO DI BERLINO

VENT’ANNI DOPO LA CADUTA

Page 13: Esteban n. 5

Viaggiatore

Che mondo meravigliosoche natura incantevoledove gli alberi cresconoe maturanofacendo nascere nuovi albericon le loro radiciche estendono profondamentenella crosta della terra; con le loro foglie sottili sottilima così piene di vitadondolate dal ventoscosse dalla tempestae avvizzite con tempodai rami intricati. I fiori, tanti fioridiversi, coloratiche fioriscono di giornoe profumano di nottecolchicum, bucanevegigli, tulipani, margheritee bellisime roseche vibrano d'amorein petali coloratie molti, tanti altri.Non ci sono parole per descrivere tuttoun grande movimentoche gira intornoininterrotto.

Guardate questi uccelliselvatici migratoriche volano in altosi avvicinano al soleche lasciano indietroil loro passatocon nidi vuotie piccoli natia cura dei loro parenti di tempo invecchiatiche piangono sempree pregano tanto.

Che volo faticosoper trovare la pace, la felicità assoluta; un grande sognodell'intero paradisoancora sconosciutoche brucia intensamenteil desiderio taciturno.

Che coraggio

per superarel’immenso oceanola forza del maresenza cibo senza acquasenza ripososolo una lunghissima stradache sembra che non finisca maie porta chi sa dovese forse ci fosse un'altra vitaper rinascere insieme.

Ma tanti di loro arrivano primacon ali d'angeloche li crescono in frettaportandoli nel vero paradisoda cui nessuno è mai tornato.

Trovata la pace riposo...eternosenza confini.

Nella vita

Nel labirinto esterno che mi circonda lascio ogni traccia invisibile per ritrovare la strada del ritorno.

Storie Il mare è molto blupiù intenso del solito.

Le sue ondeleggono la poesia,

abbracciando il solecon braccia aperte.

Sulla spiaggia si perdetutta la sua libertà,

nei racconti dei piratie altre favole con sirene.

Ogni s. o. s. galleggianteha la sua storia da raccontare

e non finisce qui, va avanti nel deserto

che non muore.

TRE POESIE DI DANUT GRADINARU IMMAGINI DI OISIN E BOILER DUE

13

Page 14: Esteban n. 5

Era il tempo in cui tutte le città erano costruite in discesa e le strade finivano tutte davanti a grandi parcheggi, oltre i quali sorgevano galattici ipermercati. Dentro, una volta entrato trovavi tutto ciò che aveva senso per l’esistenza degli uomini, chiese in vetrocemento e motel, montagne innevate artificialmente dove praticare lo sci di fondo, piscine con acqua di mare e onde per il surf di un azzurro intenso, piazze virtuali e reali e poi ancora fontane e siepi di alloro e di rosmarino e panchine, migliaia di panchine verdi dove gli uomini e le donne amavano incontrarsi verso sera per guardarsi negli occhi e spettegolare. Su quelle panche davanti a semafori che regolavano il traffico di carrelli nelle ore di punta nascevano ogni giorno nuovi amori e le ragazze del comparto dei surgelati incontravano furtivamente i giovani dei parcheggi, ronde di consumatori garantivano sicurezza e benessere e le edicole omaggiavano i clienti con giornali in tempo reale. Poteva accadere ad esempio che il gelato in offerta subisse improvvise impennate di prezzo per motivi sconosciuti o ancora che il prezzo dei sogni, delle imprese impossibili, del fare collettivo, della riflessione fossero offerti in formula 3 per 2 in quei momenti soprattutto pomeridiani in cui i consumatori di sogni, di imprese impossibili e di altre frivolezze del genere non ne sentivano il bisogno e lasciavano la merce invenduta sugli scaffali, privilegiando alle cose antiche la solidità eterea e numinosa di un nuovo sugo con il sapore della postmodernità. Fuori il cielo era di plastica, grigio di smog e di pensieri mediocri, i quartieri contenevano solo case tutte uguali, palazzi squadrati, fabbriche specializzate nello studio di nuove tecniche di marketing e nuovi sistemi di ingegneria finanziaria. In quel tempo la gente viveva cosi, senza infamia e senza lode, c’era in giro tutto e il contrario di tutto. Mancava soltanto una cosa, una merce che proprio non esisteva più nè sugli scaffali, nè nei magazzini, nè nella testa dei consumatori. In realtà era cominciata a sparire nel momento esatto in cui, un secolo prima, gli economisti avevano pensato di sostituire il Pil con un altro indicatore non economico. E avevano scoperto che la gente del Bhutan, un piccolo stato montuoso dell’Asia con poco più di 650.000 abitanti, incastonato nella catena dell’Himalaya e chiamato dai suoi abitanti Druk Yul - la Terra del Drago - aveva un governo imperiale che si preoccupava della felicità dei propri sudditi. Al punto da istituire un apposito ministero che aveva, tra gli altri, il compito di calcolare un indice chiamato “Felicità Interna Lorda”, misurante il grado di benessere della popolazione con ben 72 parametri valutativi.

Era il tempo del Bhutan(mentre l’Italia si poneva dietro a stati come il

Mali, il Burkina Faso e la Tanzania...)

Però, poi, un giorno anche la felicità fu ritrovata, riprodotta e distribuita. Fu una grande scoperta, Ci avevano lavorato a lungo tecnici e medici. Erano state fatte scatole con diverse

dimensioni di felicità per accontentare un po tutti: pastiglie e supposte ammiccavano ora sorridenti dentro ai contenitori incellofanate in carta d’argento. Sorridevano e promettevano miracoli. La dose ottimale era di una al giorno, non avevano effetti collaterali e i costi non erano proibitivi. In quel tempo, in cui tutte le città avevano strade costruite in discesa, la gente era tornata ad essere di nuovo felice. Qualcuno voleva a quel punto ancora di più, altre merci come l’ozio, la lentezza, la nostalgia. Si sa che i desideri degli uomini sono infiniti, ma le rotative delle grandi fabbriche hanno bisogno di parecchio tempo e di intelligenze per produrre e poi trasportare e infine impilare in modo razionale le nuovi merci in tutti gli scaffali dei vecchi e dei nuovi ipermercati .

Adriano Arlenghi

Oramai è quasi giorno, tra poco il gallo canterà ed allora tutti si sveglieranno. Anche se la luce è ancora fioca, una donna spalanca le persiane che cigolano e con viso assonnato comincia i suoi lavori domestici. Tutt’intorno le risaie allagate riflettono i raggi solari. Il sole si sta alzando, ma già così presto l’aria è tiepida e si annuncia un’afosa giornata. Gli uomini escono di casa con i loro attrezzi e le provviste per il pranzo e si recano al lavoro nella campagna e anche le mondine, seppur con qualche sbadiglio, s’incamminano con loro. Intanto in un’enorme stanza con un grande camino si riscalda sul fuoco un pentolone pieno d’acqua per lavare i bambini. Appena svegli, infatti, li aspetta una grande tinozza tiepida posizionata nella stalla dove anche d’inverno si potranno lavare riscaldati dal respiro degli animali. Ecco, si incominciano a sentire le voci, sono le donne che si recano a lavare in quell’acqua gelida che fa arrossare le mani oramai ruvide e le riempie di piaghette fastidiose, ma che è così limpida e fresca che ti fa venire voglia di berla.

14

Page 15: Esteban n. 5

Il rumore dell’acqua che si infrange contro le grandi pietre è coperto dai tonfi delle lenzuola sbattute più volte e con gran forza nel canale e poi sulle pietre. Intanto i bambini si sono lavati e con ai piedi i loro rumorosi zoccoletti vanno a liberare il pollame e a dare una mano nella stalla. Le bimbe invece, rimaste nel pollaio, raccolgono le uova e le piume sparse sul terreno; quest’ultime verranno vendute al pellicciaio che confezionerà calde coperte invernali. Ormai il sole è già alto, la nonna sta seduta sull’uscio con altre vecchiette a filare la lana spettegolando e raccontando aneddoti ai bambini per farli quietare. Intanto le nuore cucinano: per tutta la cascina si diffonde il profumo del pane appena sfornato subito appeso a mezza parete dentro una cesta di vimini dove le piccole pesti non possono arrivare. Si è fatto pomeriggio, un uomo urlando sta entrando nella cascina con un carrettino pieno d’attrezzi. I bambini chiamano nonne e mamme “Venite, è arrivato l’arrotino!”; le donne per non perdere il posto escono in tutta fretta armate di coltelli e forbici da affilare. Arriva la sera, tutti tornano a casa stanchi e sudati e con la pelle arrossata dal sole, ritirano gli attrezzi che portano sulle spalle e rinchiudono gli animali, con qualche risentimento di mamma anatra che vorrebbe continuare a sguazzare tranquillamente con i suoi tredici anatroccoli nella vasca dei pesci. Terminati i lavori, dopo essersi lavati e aver consumato la cena a base di polenta, l’aia si popola di mondine e di ragazzi venuti dal paese per incontrarle. Chi sa suonare strimpella come può cantando e ballando, lasciandosi alle spalle la faticosa giornata lavorativa. Divertendosi il tempo vola ed ormai è giunta l’ora di riposare: le persiane si richiudono.

È nuovamente mattina, la roggia è incanalata e quella poca acqua che resta è stagnante ed ha un odore pessimo. Le persiane rotte rimangono miracolosamente appese al muro scrostato. Il soffitto è crollato, le travi consumate dalle termiti ostruiscono l’entrata. Erba macerie, immondizia occupano case e cortile; la stalla è deserta e inaccessibile perché le piogge hanno fatto crollare il tetto. Il pollaio è vuoto, la vasca dei pesci secca ed intorno c’è solo silenzio e desolazione.

SALVIAMO LE CASCINE ! di Loredana Longo

A CRAZY ITALIANOdi Diego Vallati

La seconda volta a Capo Nord, in bicicletta, in solitario. “Perché fare questi viaggi?” E’ la domanda che mi sono sentito fare molte volte, “Perché fare questo viaggio?” E’ la domanda (divertita) che mi sono fatto la mattina del 26 maggio alla partenza per Capo Nord, per la seconda volta. In effetti sia io che Oly (la bicicletta) non eravamo in perfette condizioni : gli anni passano per entrambi. A causa di questo mi ero anche allenato poco, così in un primo momento avevo deciso che le tappe sarebbero state brevi, per rodare. Invece, per non correre il rischio di piangersi troppo addosso e prenderla fiaccamente sono partito subito con un buon ritmo e dopo quattro giorni avevo percorso 460 chilometri (Brennero compreso), poco meno di quanto preventivato, molto più di quanto temuto. Alla partenza un gruppo di amici di “Pagaia Rossa” era venuto a salutarmi. Franco e Silvio mi hanno accompagnato per un tratto, Silvio fino a Lodi. Il ricordo e il paragone con il viaggio precedente sono sempre stati presenti, anche se apparentemente in comune avevano solo la meta. Nel 2006 avevo tirato diritto lungo la direttrice Germania-Svezia. Stavolta l’ho presa larga attraverso i paesi dell’Est. In sequenza : Austria, Germania, ancora Austria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia, Norvegia per un totale di 5.025 chilometri. Detto e fatto. Il senso di precarietà provato alla partenza ha fatto sì che stessi bene attento a tutti i segnali provenienti da me e dalla bici. La determinazione, però, sempre la stessa. La grossa novità è che per la prima volta in tutti i miei viaggi ho fatto una sosta, seppur forzata. Proprio come regola mi sono sempre imposto di non fermarmi mai, in qualsiasi condizione. In questa occasione sono stato il tramite per uno scambio di doni fra le città gemellate di Milano e Cracovia. Mancando il funzionario incaricato, mi sono dovuto fermare per quattro piacevoli giorni nella bella e vivace città polacca, in pratica una vacanza nella vacanza, un sogno dentro il sogno. Ho dormito (si fa per dire) nella piazza principale dell’ex ghetto ebraico dove ogni notte fino al mattino si svolge la movida di questa coinvolgente città. In poche parole questi giorni sono stati “Gli ozi di Cracovia”. Questo modo di viaggiare un po’ randagio ti offre la possibilità di incontrare molte persone, a volte molto interessanti. Nello stesso tempo però si tratta di incontri effimeri. Non come importanza, s’intende; ma solo per la breve durata. E’ un peccato, a volte varrebbe la pena poter approfondire. Invece l’ultimo incontro interessante è già sovrastato e allontanato nel ricordo da altri che stanno incalzando. Non dimenticato, questo no. Solo temporaneamente accantonato, quasi messo in un archivio dal quale verranno tutti ripresi a fine viaggio per non essere più cancellati.

15

Page 16: Esteban n. 5

Per quanto possibile ho sempre cercato di evitare le strade sterrate, né io né Oly le amiamo molto. Qualche volta però è stato inevitabile e in due situazioni più che di sterrato si è trattato di vero fuori strada. Entrambe le volte (in Polonia e Lettonia) stavo percorrendo stradine secondarie che terminavano praticamente nelle campagne, per cui ho anche dovuto spingere la bici per lunghi tratti. Riguardo al tempo, nell’arco di un viaggio durato cinquanta giorni non si può dire se si è stati accompagnati o meno dalla fortuna. In un periodo così lungo i giorni di bel tempo si alternano inevitabilmente a giorni con pioggia, vento e freddo. Quindi il paragone con l’altro viaggio o con altri precedenti non è tanto nella quantità di giornate di bello o di brutto tempo ma nella loro distribuzione. Sintetizzando: oltre a temporali isolati (come dicono i metereologi) lungo tutto il percorso, in Austria ho trovato diversi giorni di vento; poi ancora vento forte, sovente accompagnato da pioggia, nella Polonia orientale e nei tre piccoli paesi baltici. Il tempo peggiore però mi ha atteso in Finlandia in prossimità del confine svedese, zona Oulu per intenderci. Per cinque o sei giorni al forte vento e alla pioggia si è unito il freddo. Aggiungendo alcuni inconvenienti capitati a me e alla bici, qualche dubbio sul risultato finale mi è venuto. Per fortuna il tempo è poi migliorato e sono riuscito a porre rimedio agli inconvenienti. Ancora un colpo di coda del cattivo tempo nel ritorno da Capo Nord ad Honningsvag, il capoluogo. Pioggia fortissima e freddo (ma devo confessare che non mi ero coperto adeguatamente), per cui sono arrivato all’ostello fradicio e congelato. Ma oramai era fatta! Stando al calcolo delle probabilità almeno una volta su quattro il vento dovrebbe essere a favore. Questo sarà forse vero su grandi (molto grandi) numeri, ma secondo la mia esperienza il vento ignora le statistiche. Spero che qualcun altro, in qualche altra parte del mondo, abbia beneficiato della quota di vento a favore da me persa. Nel mio viaggio nel 2006 avevo incrociato in Lapponia un ciclista finlandese, Jarmo Ryyti, col quale sono rimasto in contatto tramite e-mail e che ho potuto incontrare di nuovo in questa occasione. Su sua segnalazione sono capitato in un luogo particolare, nel quale, fra le altre curiosità, ho dormito in un ex granaio, in un loculo… (pardon!) una cabina molto piccola, dove tempo fa, durante l’inverno quando il terreno era troppo duro per poter essere scavato, in attesa della primavera venivano “ospitati” i cadaveri. Ho fatto subito un rapido controllo per accertarmi che non ne avessero dimenticati. … Quando a questo amico finlandese ho dato la notizia di essere arrivato alla meta, mi ha scritto: Congratulations Diego, everybody has visited one time with bicycle Capo Nord but who has been two times with the bicycle in Capo Nord! Besides "a crazy" Italiano! Cioè : tutti (…! ) hanno visitato una volta in bicicletta Capo Nord, ma chi è stato due volte in bicicletta a Capo Nord ? Solo “a crazy” italiano! Sì, solo “un pazzo” italiano, e in effetti con questo secondo viaggio può darsi che abbia stabilito un piccolo record. Almeno, a me piace pensarlo.

UNA BENOTTO CON IL CAMBIO REGINA A BACCHETTA

di Armando Giacomone

Un giorno mio padre mi fece un grande regalo : la bicicletta da corsa che era esposta nella vetrina di un negozio nel centro di Moncalvo. Era una Benotto con il cambio Regina a bacchetta, posto in basso e munito di tre moltipliche per salita, pianura e discesa. Il giorno successivo, tornato a casa dal lavoro nei campi, decisi di fare un giro e raggiungere Casale

passando per Ozzano per poi fare ritorno passando dalla Roncaglia. Calcolai di percorrere il tragitto - più o meno una quarantina di chilometri - in poco più di un’ora, in tempo prima che diventasse notte; con una bici da corsa si poteva fare. Con quel cambio che ti aiutava ad aumentare la velocità anche in discesa, e con quella pedalata che con un giro solo facevi moltissima strada, avevo l’impressione che i chilometri fossero più brevi che mille metri. Purtroppo, ad una quindicina di chilometri da casa si ruppe la catena, era impossibile rimediare al guasto ed incominciava ad arrivare il buio; non c’era altro da fare che trasformarmi in maratoneta, eccetto in discesa, dove saltavo in sella e riuscivo a recuperare qualche minuto. Arrivai a casa che era buio pesto, qui erano tutti in apprensione, meno mio padre che invece era furibondo e già pentito del regalo che mi aveva fatto. Con la bicicletta avevo avuto in dotazione una maglia color amaranto con le strisce verdi, un berrettino bianco, due scarpe adatte per pedalare, il corredo necessario ad un ciclista. Con tutte queste cose a mia disposizione trovai il coraggio di estendere il mio girovagare in bicicletta per provare qual’era la mia resistenza. Nel frattempo avevo notato i difetti della mia bicicletta : il cambio che sovente mi faceva saltare la catena obbligandomi a scendere per rimetterla in sesto, la sella fatta di cuoio duro che mi rovinava il sedere, i tubolari che troppo sovente si bucavano. Il Fiorino - questo era il nome del proprietario del negozio che mi aveva venduto la bicicletta - mi insegnò a riparare i tubolari, ma riguardo al cambio e alla sella dovevo abituarmi, oppure fare la spesa necessaria per sostituire il cambio con un “Simplex”, il migliore per una bici da corsa, e per un sellino più morbido.

16

Page 17: Esteban n. 5

Sentendo quanti chilometri percorrevo nel tempo libero dal lavoro, mi disse che era curioso di vedere come pedalavo e mi indusse a confrontarmi con un altro giovane ciclista della zona. Lui ci seguiva con la macchina. Dalla piazza del mercato di Moncalvo percorremmo la discesa che porta alla stazione ferroviaria, quindi raggiungemmo il bivio di Valle San Giovanni e ritornammo al punto di partenza percorrendo la salita dalla parte opposta, un percorso breve ma abbastanza impegnativo. All’arrivo il giudizio espresso dal Fiorino fu che il mio avversario aveva più dimestichezza con la bicicletta, infatti nella discesa andava come un matto, mentre io ero titubante, un po’ pauroso. Però come iniziammo la salita la situazione si capovolse, passai in testa dall’inizio e ci rimasi fino al termine. Visto la mia volontà di pedalare, il Fiorino mi consigliò di allenarmi su tragitti più lunghi e più faticosi di quelli che percorrevo attualmente; in tal modo avrei potuto trovarmi in forma e partecipare alle gare ciclistiche che si stavano organizzando nella nostra regione. Era la primavera del 1946. io avevo diciannove anni. Incominciai due o tre volte alla settimana con l’alzarmi al mattino verso le cinque e percorrere il triangolo Grazzano – Alessandria – Asti - Grazzano, in tutto sui novanta chilometri, oppure Grazzano - Cocconato (e qui c’è una bella salita) - Asti – Grazzano. Arrivavo a casa verso le otto, cambiavo gli abiti del ciclista con quelli dell’agricoltore; mio padre già aveva terminato il lavoro della stalla. In sua compagnia, sul carrettino trainato dal Bibi, il nostro cavallino sardo, raggiungevamo la vigna per svolgere il solito lavoro quotidiano. Alla domenica, dopo aver sbrigato la pulizia a maiali, mucca, cavallo e capra, ero libero per tutto il giorno ed allora i chilometri erano 170, cioè andata e ritorno Grazzano – Torino; all’andata passavo per Moncalieri per affrontare la salita di Pino dalla parte più erta. Un giorno il Fiorino mi avvisò che il prossimo lunedì si svolgeva alla Madonnina di Serralunga di Crea una gara ciclistica. Era giunta l’ora di provare le mie forze. Mi trovai sul luogo dove era stata fissata la partenza verso le due del pomeriggio, un’ora prima del via, cercando di capire com’era il percorso. Si trattava di un circuito tutto in pianura, lungo nove chilometri, da percorrere dieci volte; feci un giro di ricognizione e notai dove bisognava avere prudenza : l’attraversamento di due passaggi a livello, due curve ad angolo retto e diversi tratti di strada con buche e pietre. Eravamo una ventina di partecipanti. Un signore con la bandiera diede il via, si partì a gran velocità e compresi subito che bisognava tenere la testa della corsa perché a quella velocità se mi staccavano non li riprendevo più. Infatti a metà gara eravamo rimasti in pochi a tirare a tutta; io stavo soffrendo per la sete, non mi ero procurato

una borraccia e stavo pagando la mia inesperienza. Inaspettatamente due giovani su una moto mi si accostarono porgendomi una bottiglia d’acqua, erano il Bruno e l’Ermenegildo, miei compaesani. Non pensavo d’avere tra la gente assiepata lungo il percorso dei tifosi che mi sostenevano, mi ripresi immediatamente e mi feci ancora più coraggio quando sentii delle voci che gridavano per incitarmi “Forza Armando!!” C’era un gruppo di giovani di Grazzano e tra questi mia sorella Nella ed il suo moroso Camillo. Al penultimo giro eravamo riusciti in due a distaccare gli altri di qualche decina di metri e stavamo disputando la volata. La strada non era bella, bisognava zigzagare per cercare il tracciato più adatto, ad un certo punto ci trovammo fianco a fianco. Non so se per caso oppure volontariamente, il mio antagonista mi diede un colpo nel braccio e io persi l’equilibrio ruzzolando a terra e

terminando in tal modo la mia prima corsa. Però nemmeno il mio avversario riuscì a tagliare il traguardo; nel giro successivo, cioè l’ultimo, e proprio nell’ultima curva, obbligato a ridurre la velocità perché la curva era molto stretta, egli ricevette da uno spettatore un ceffone che lo mandò a gambe all’aria. Nella e Camillo erano molto dispiaciuti per come era finita la mia corsa ed anche gli amici dicevano che potevo arrivare primo; a casa si parlava ancora di quel che era stato e di quel che poteva essere. Nel frattempo si era fatta notte e mio padre non era ancora rincasato, era partito col calessino nel primo

pomeriggio senza dire a nessuno dove andava. Finalmente arrivò e tutti rimanemmo stupiti da quel che ci raccontò. All’insaputa di tutti aveva raggiunto il luogo dove si svolgeva la gara ciclistica, distante dal nostro paese una dozzina di chilometri, aveva parcheggiato il Bibi col calessino in un prato all’ombra di un albero e si era appostato vicino al traguardo, era entusiasta per come mi comportavo e quando vide che il mio avversario mi aveva dato quella spallata facendomi cadere, non potè trattenere la collera che gli aveva provocato quell’atto chiaramente volontario. Conoscendo il percorso si portò velocemente all’ultima curva e successe quello che successe, poi ritornò vicino al Bibi e aspettò che la gente sfollasse e che diventasse un po’ buio, aveva paura che i carabinieri lo cercassero e ritornò a casa percorrendo una strada differente dalla solita. Un paio di giorni dopo si presentò alla porta di casa nostra un giovane vestito da ciclista e con qualche cerotto sulle gambe, il quale pretendeva da mio padre che gli pagasse i danni subiti. Noi eravamo seduti a tavola e stavamo pranzando; visto il modo in cui mio padre si alzò dalla sedia, quell’altro salì sulla bici con un balzo e di lui non sapemmo più nulla.

17

Page 18: Esteban n. 5

IL MONDO ALLA ROVESCIA ?Un pomeriggio al Carnevale Bianco di Cegni

di Oisin

Il carnevale è il mondo alla rovescia. Ovvero, in un certo senso, il mondo come dovrebbe essere. Cegni è un paesino nell'Appennino pavese, nel comune di Santa Margherita Staffora. Posto mitico per gli appassionati di musica e tradizioni popolari, patria di grandi suonatori di piffero, dove ad agosto si celebra il Carnevale Bianco, incentrato sulla rappresentazione del rito arcaico della Povera Donna: una danza rituale che raffigura una specie di matrimonio tra un uomo e una donna (in realtà un uomo travestito) al suono di piffero e fisarmonica. Un rito con i suoi connotati ancestrali di morte e resurrezione, o almeno quello che ne resta, e di cui discutono demologi e studiosi delle culture popolari, ma di cui non si discute certo il giorno della festa. In quel giorno semplicemente si vive. Per cui arrivi a Cegni il 16 agosto, giorno del Carnevale Bianco e normalmente entri nelle case e ti siedi ad ascoltare le squadre di trallallero che cantano in salotto. Dopo la rappresentazione della Povera Donna segui i suonatori e i ballerini che fanno il giro del paese, di piazza in piazza, i pifferi che si rispondono da un balcone all'altro, e c'è vino e biscotti per tutti. Insomma ti senti accolto, non sei un’ estraneo che guarda un corteo passare, sei anche tu la festa. Gli studiosi giustamente ci spiegano i vari significati della festa: momento catartico, momento di ricostruzione delle identità collettive, di distruzione e nuova creazione dell'ordine cosmico... ma alla fine la gente lo fa per essere felice, perchè quel giorno deve ricordarci che è possibile essere felici, e deve ricordarlo per tutti gli altri giorni in cui c'è troppo da fare per pensarci. Ed evidentemente inclusa nell'idea di felicità c'è anche l'idea che questa sia per tutti, anche per gli ospiti sconosciuti che arrivano. Anzi, proprio per questo si lavora di più, si preparano le schite (cioè le frittate di farina), si aprono le case. Probabilmente ognuno sente che quello che sarebbe bello e giusto è che arrivando in posto ti offrano vino e biscotti, e non che ti caccino a pedate. Certo questo è il mondo come dovrebbe essere, e quello che abbiamo non è proprio così. E la musica è lì a ricordarcelo, col suo fondo di tristezza. Perchè, come dice Stefano Valla, suonatore di piffero, “molte danze hanno un fondo di malinconia:” ed è questo contrasto tra la gioia e la malinconia che commuove alle feste. Quando si parla di un buon musicista, si dice 'che fa piangere' e questa è la felicità”. Tristezza e malinconia non sono comunque disperazione. Viene in mente quanto diceva il maestro Nick Cave (che in quanto a disperazione se ne intendeva)

a proposito delle sue canzoni: “Sono le compagne dell'anima che la conducono in esilio, che saziano l'irresistibile desiderio di ciò che non è di questo mondo.” Ma qui si dovrebbe aprire una digressione troppo ampia sulla malinconia nella musica, o il duende come direbbe Nick Cave, riprendendo Garcia Lorca Del resto lo stesso Nick Cave ci metteva in guardia contro le canzonette da hit radiofonica, con la loro finta allegria, finta perchè deve per forza dimenticare una parte della vita che non si può eludere, non può reggere il confronto con la fatica e il dolore. Comunque questo solo per dire che forse questo connubio tra felicità e malinconia è qualcosa di intrinseco alla vera festa. È vero che la vita normale è un altra cosa, che è tutto più complicato che non in un bel pomeriggio di festa in cui non hai gli obblighi della vita quotidiana, non ti scontri con le difficoltà, le cattiverie, il male che comunque esistono, che sarebbe bello fosse sempre così, ma purtroppo la realtà è un altra, ecc... Ma se una festa non serve a ricordare quello che dà significato alla vita, che anche per un giorno solo ci fa vedere come deve essere il mondo, a che serve? Sarebbe solo una scusa per dimenticare la realtà, un’evasione necessaria, perchè si suppone che la realtà sia comunque così negativa che per sopravvivergli occorra almeno ogni tanto escluderla dai pensieri. Però c'è una cosa da dire: una festa nasce solo dove c'è una comunità, se no quelle che si fanno non sono feste. Uno Stato non riesce a creare una festa, al massimo crea commemorazioni che alla fine si risolvono in retorica. E neanche i mercanti riescono a fare una festa, se mai fanno, appunto, un bel mercato. Questi forse per spiegarsi la differenza con alcune feste che si fanno qui da noi. E poi un'ultima considerazione. Oggi, di fronte ad una realtà che presenta una molteplicità di culture presenti sul territorio, sembra ritornare in auge il tema della riscoperta di identità e culture tradizionali. Ma spesso questo nuovo interesse per il mondo popolare risponde solo al fine di marcare un distacco, una divisione dalle altre culture, come un segno di identità che esclude l'altro. Ma, semplicemente da quello che vediamo, vivendo un evento popolare, solo standoci dentro, si percepisce che la cultura popolare non è mai escludente, non c'è qualcuno che deve star fuori, non è a priori contrapposta ad altri. Perchè comunque alla fine parte da esigenze e bisogni che sono universali, anche se trovano modi diversi per esprimersi. Fare della cultura popolare uno strumento di divisione tra gli uomini è infine frutto di paura e significa non credere nella propria cultura, considerarla già come una cosa morta che non può reggere il confronto con gli altri.

18

Page 19: Esteban n. 5

ELOGIO DEL DEPLIANT(con l’accento sulla a, s’il vous plait)

Sebbene il suo funerale sia stato annunciato mille volte come imminente, il Signor Gutemberg è vispo e arzillo come non mai, e gli sviluppi dell’elettronica gli han fatto solo che bene, come dimostra la marea di cartaccia stampata che invade le cassette delle lettere, i parabrezza delle macchine, i tavolini dei bar e gli espositori disseminati ormai in ogni dove, dagli ingressi dei supermercati a quelli delle chiese. Il livello di questa produzione editoriale è generalmente basso quando non infimo, ma c’è un settore – la promozione turistica – che continua a sfornare pubblicazioni di eccellente qualità che meriterebbero molto di più di quell’esistenza effimera a cui li destina la loro natura di veicoli di propaganda. Sono prodotti condannati a non superare la data fatidica dell’esaurimento scorte, e per quel che ne so non esiste un’istituzione che si preoccupi di raccoglierne e conservarne degnamente una campionatura. Eppure il valore divulgativo di questi lavori è incalcolabile : soprattutto quando trattano di piccoli centri e di località poco note essi hanno il merito di mettere alla portata di tutti un patrimonio di nozioni e di immagini che diversamente potrebbe essere fruito solo attraverso la consultazione di opere specialistiche sovente molto costose e difficilmente reperibili; in moltissimi casi, poi, tocca proprio agli opuscoli e ai depliants delle pro loco e delle associazioni paesane il compito di riempire certi drammatici vuoti di conoscenza provocati dall’incapacità della cultura accademica a valutare adeguatamente le realtà periferiche e marginali. Permettetemi quindi di rendere omaggio alle tante persone dotate di buon gusto, solida cultura ed eccellente mestiere che si danno da fare per realizzare queste belle pubblicazioni che poi vengono letteralmente regalate agli angoli delle strade e troppo spesso svaniscono nei cassonetti della carta senza lasciare un ricordo di sé. Un discorso diametralmente opposto va fatto invece per le guide che si vendono nei negozi di souvenirs delle località turistiche e che tendono a mantenere inalterato nei decenni il loro contenuto anche se la confezione si rinnova ad ogni riedizione. Uno tra i più duraturi long sellers che io conosca è ad esempio la STORIA DEL SANTUARIO DI OROPA di cui posseggo una copia della terza edizione risalente al 1967 (Arti Grafiche Ricordi, Milano) e che ho visto di recente ancora in vetrina con una copertina tanto lucida da far male agli occhi. La guida fu scritta dal Canonico Mario Trompetto che era Rettore del santuario, e vorrei cogliere l’occasione per tessere le lodi degli storici ecclesiastici della vecchia scuola, serissimi studiosi dotati di una correttezza filologica adamantina, che però erano costretti ad un bizzarro sdoppiamento di personalità allorché si arenavano sui bassi fondali dell’agiografia, cioè quell’insieme di storie e storielle sovente poco verosimili di cui sono farcite le vite dei santi. Così, se da un lato per dovere di tonaca il Canonico Trompetto propone per buona la leggenda che vorrebbe la statua della Madonna portata ad Oropa nel IV secolo da Sant’Eusebio primo Vescovo di Vercelli, dall’altro il Trompetto studioso di storia fornisce al lettore tutti ma proprio tutti gli elementi utili a capire come siano andate veramente le cose, e vi assicuro che si tratta di una storia romanzesca, che si snoda attraverso diversi secoli e ruota attorno alla volontà dei Vescovi di Vercelli di ridimensionare l’autorità della Chiesa di Santo Stefano di Biella, matrice di tutte le chiese del Biellese, tra cui, ovviamente, anche quella della Madonna di Oropa. In altre parole, è una specie di giallo in cui tocca al lettore improvvisarsi detective e scrivere l’ultima pagina, ed è per questo motivo che raccomando vivamente la lettura di quest’opera ma non me la sento di raccomandarla a tutti.

Lino Maia

Se attraversando la pianura vi capita di vedere un pioppeto decimato dall’uragano, e le piante rovesciate, con la chioma per terra e le radici a mezz’aria che si tirano dietro un pezzetto di campo, allora potete star certi che lì sotto, a portata di badile, c’è l’acqua. Quando incontra l’acqua, la radice del pioppo cessa di trivellare il suolo e si accontenta di estendersi in larghezza, il che va benissimo per nutrirsi, ma non basta a garantire alla pianta la necessaria stabilità.

TERRITORIO SOTTO LA PIANURA

di Guido Giacomone

Dove vivo io il pioppo coltivato viene chiamato Canadese, e per per parlare di un pioppeto si dice i Canadesi, al plurale; sono quanti anni che abito qua e non ho mai sentito un agricoltore usare la parola pioppeto. Se avete messo piede qualche volta in un pioppeto probabilmente sarete stati colpiti dalla sua somiglianza con un enorme capannone industriale, e in effetti si tratta di un ambiente esageratamente artificiale, grandioso ma vuoto; ci sono questi altissimi pilastri – vivi – e nient’altro, neppure l’erba per terra. Salvo trovarci, inaspettatamente, qualcuna di quelle anticaglie – un manufatto irriguo in disuso, un filare di salici – che è facile incontrare sparse per la campagna ma che qui dentro (perchè l’impressione è proprio quella di trovarsi al chiuso) assumono l’aspetto un po’ sconcertante delle installazioni museali. Mi è capitato per esempio di dover visitare una testa di fontanile situata proprio all’interno di un grande pioppeto; le teste dei fontanili possono essere di vario tipo e questa apparteneva al più comune, un cospicuo scavo profondo un due metri e mezzo e largo quattro o cinque, dal quale aveva inizio una lunga canalizzazione rettilinea della stessa profondità e larghezza. Di fontanili ne avevo già passati in rassegna parecchi; quanto ai pioppeti, visto uno visti tutti, insomma non ero per nulla preparato alle singolari impressioni che mi attendevano questa volta. Nella leggera penombra di quell’ambiente tanto vasto quanto neutro l’ampio scavo scuro spezzava la continuità del suolo grigiastro e uniformemente dissestato dalle ripetute discature. Era un accesso della metropolitana, pari pari, però con le spallette coperte di rovi, e da esso sgomitavano per uscire certe vigorose figure nere e scarmigliate che viste più da vicino si rivelarono essere sei o sette giovani ontani che effettivamente facevano a spallate per alzare la testa quanto più possibile al di sopra del suolo, intendo dire il mio suolo, perchè il loro stava due o tre metri più giù, sul fondo dello scavo. Era davvero l’accesso ad un livello infero, al quale dovetti scendere per rilevare temperatura e acidità dell’acqua che sgorgava copiosa e scorreva spigliata, limpida e nera come il fondo melmoso sottostante, sul quale però non mi capitò quasi mai di poggiare il piede giacchè l’invaso era ingombro delle carcasse dei vecchi ontani caduti. L’aggettivo ingombro rende bene l’idea : tanto era vuoto il livello soprastante, tanto era affollato quello di sotto, e affollato esclusivamente di forme di vita vegetale. Alle erbacce solitarie e ai radi rovi che mestamente strisciavano sul suolo del pioppeto faceva riscontro al livello più basso un ricco assortimento di muffe, di funghi del legno, di piante acquatiche fluttuanti o galleggianti, di piante erbacee - dalle minuscole alle più allampanate; più, inevitabili, i rovi e le robinie, più – ovviamente - loro, i signori del luogo, gli ontani. Credo sia il caso di spiegare cosa significasse tutto quel rottame di ontani caduti. Gli ontani hanno questa abitudine, che quando arrivano ad una certa età si lasciano crollare tutti insieme e fanno spazio ad una nuova generazione. Gli ontani abbandonano i loro semi all’acqua, e questi germogliano solo se si arenano su di un suolo che sia esattamente di loro gradimento.

19

Page 20: Esteban n. 5

20

Se a questo si aggiunge che gli agricoltori non li amano, è facile capire perchè gli ontani si vadano facendo rari, tanto che li si incontra ormai quasi esclusivamente negli angoli più fuori mano, come quella testa di fontana nascosta nel pioppeto. Stando sul fondo della quale, intrappolato in un groviglio di piante vive e legna morta, mi veniva quasi da credere che la sdegnosa stirpe degli ontani avesse scelto di rifugiarsi in una dimensione diversa dalla nostra, situata qualche metro più in basso. Una fantasia che conteneva una mezza verità e una bugia tutta intera. E’ vero infatti che la rete di teste e canalizzazioni sviluppatasi nei secoli scorsi per recuperare acqua dal suolo è qualcosa di molto simile a quel fantomatico piano di sotto della pianura di cui abbiamo favoleggiato fino ad ora : grandiosa per estensione e molto ramificata, essa ha un proprio microclima e caratteri biologici notevolmente diversi da quelli di superficie. E’ falso, invece, che questa realtà parallela sia al riparo dalle devastazioni che la specie umana sa provocare : se gli ontani della testa erano scampati sino ad allora, con tutto il loro corteggio di vegetali sudditi, non era perchè si trovassero in un’altra dimensione ma soltanto perchè il pioppeto e il fontanile erano di proprietari diversi, e siccome di questi tempi i cavi fontanili sono apprezzati più come collettori di acque di varia provenienza da rimettere in circolo che non come produttori in proprio di acqua, erano ormai vari anni che nessuno più si prendeva la briga di dare una pulita alla testa, il punto di scaturigine primario.

l’angolo di Anna Mara

L’orroredi Anna Livraga

È una serata calda e molto afosa, come possono esserlo solamente le sere d’estate nella pianura. Il caldo, che è

stato soffocante per tutto la giornata, si accentua ulteriormente nelle ore notturne. Se stai in casa ti sembra che l’umidità e il sudore stiano in agguato sulla soglia ad attendere che tu esca, e se cerchi di evitarli ti vengono a cercare dentro le stanze. Dopo qualche ora di penitenza AnnaMara decide che è tardi e che bisogna per forza dormire. Ma senza il condizionatore che si fa? Bè affronterò sto caldo tenendo le finestre aperte. Però abito al piano terreno, non posso lasciare tutto spalancato, mi accontenterò di tener aperti solo i vetri e le persiane chiuse (non è mica paura, però un minimo di sicurezza non guasta). Ok, “nnnotte! Il sonno arriva veloce (penso di sì dato che non ricordo niente). Saranno passate ore? Chi lo sa! Oh, ma che brutto sogno! Pensa, ho sentito dei rumori stranissimi: un cigolio, una specie di strusciare, dei gemiti molto ma molto attutiti, poi all’improvviso un botto. Sembrava che qualcosa si fosse spezzato di schianto oppure fosse caduto dall’alto! Poi più niente. Era un sogno solo sonoro, non ho visto nessuno, era tutto buio, quasi quasi mi sa che non ho sognato! Strana impressione, mi sembra che ad intervalli il sogno si sia ripetuto più volte per tutta la notte. Boh!? Bè adesso è suonata la sveglia, è già tutto chiaro, ci si alza e via …. Lavoro ecc. ecc. Prima però apriamo tutto, così vedo un po’ di luce e si cambia aria. Oh caspita! Nel cortile c’è qualcosa che non va! Un paio di vasi adagiati di lato, una busta di plastica trasportata chissà da dove e poi, incredibile, l’innaffiatoio rovesciato e spostato in fondo al marciapiede! Ma porcaccia malora,

guarda te che casino e adesso che sono anche in ritardo che faccio? Ok lascio tutto lì e stasera ci pensiamo.Ma durante il giorno si fa strada un pensiero che a mò di tarlo mi rende un po’ nervosa. Non è che i rumori del mio sogno fossero realtà e che in cortile durante la notte ci fosse qualche presenza aliena o per lo meno poco raccomandabile? Santo cielo! Ma è possibile rovinarsi la giornata con queste storie? Si direbbe di no, ma il pensiero gira gira, va sempre lì e la cosa si fa pesantuccia. Ritorno in serata, prima di tutto si riordina il casino della mattina; non è che lo faccio con troppo piacere, anzi, sotto sotto sono decisamente inquieta (Paura? No!!! Non ammettiamo ste cose! Diciamo un lieve disagio, con qualche aumento repentino di adrenalina). Ok, ho finalmente deciso razionalmente! È stata tutta una coincidenza, non devo fare congetture, né farmi condizionare da idee non concrete. Si va a dormire con questa certezza e tanta tranquillità. Però il sogno si ripete; stavolta mi sveglio (vagamente sudata direi ...) no, non è possibile, sento ancora tutti questi rumori! Ma allora c’è qualcosa o qualcuno là fuori che si diverte a spaventarmi! E cosa faccio adesso?Primo impulso: esco e accendo la luce all’improvviso, così si spaventa e scappa! E così gli restituisco anche lo sciopone che mi ha procurato!! Però AM2 (il mio alter ego onnipresente e saggio) controbatte: eh, già la fai facile te! E se l’alieno non se la batte? Cosa fai, lo saluti? Gli dici di entrare? Lo inviti per un caffè? Meglio che lasci perdere intanto che sei al sicuro fra le tue quattro mura! Mi sa che c’ha ragione, meglio evitare incontri che potrebbero essere spiacevoli. Rimango a letto, ma non riesco più a dormire; ora ogni cosa è uno sbuffo, un fischio, uno struscio, la mente vaga e immagina presenze sconosciute. Non c’è verso, cara AM2, non ce la faccio ad essere ragionevole, però cercherò di essere accorta, non mi metterò in situazioni pericolose! Guarda cosa faccio: apro solo un po’ la persiana, poi accendo la luce che sta sopra il portoncino e dallo spiraglio vedrò comunque tutto e l’alieno non potrà beccarmi! Detto fatto: apertura persiana , pronti con la luce… VIA!!!!! Gesù! Non so se ridere, piangere o darmi della cretina (e meno male che AM2 la sento solo io, anzi sarà meglio metterla proprio a tacere...) E sai chi era l’alieno? Bè, non era un alieno, ma due, due ratti belli grossi, che dopo avere banchettato nei cassonetti avevano deciso che il mio cortile era un ottimo posto per farsi le coccole, con quella grazia e quella delicatezza di cui solo le pantegane in amore sono capaci... L’orrore, l’orrore, l’orrore...