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ESSERE E BENESSERE. LA VIA MEDITERRANEA M. Niola, “Essere e benessere. La via mediterranea” in Libro bianco della Dieta Mediterranea, Maggio 2016, pp. 15 31. Marino Niola è Professore Straordinario di Antropologia dei simboli, Antropologia delle arti e della performance, Antropologia culturale e Miti e riti della gastronomia contemporanea all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. All’Università di Trieste, nel 1999, è stato tra i fondatori del primo Corso di Laurea italiano in Scienze e Tecniche dell'Interculturalità. Presso l’Università Federico II di Napoli insegna Storia della gastronomia dei Paesi del Mediterraneo. È Co-Direttore del MedEatResearch (Centro di Ricerche Sociali sulla Dieta Mediterranea) istituito presso il suo Ateneo, Ambasciatore della Dieta Mediterranea nel mondo su indicazione della comunità emblematica Unesco di Pollica/Cilento e membro del Comitato Scientifico Fondazione FICO-Bologna. Editorialista de La Repubblica. Sul Venerdì di Repubblica cura la rubrica Miti d’oggi. Collabora con i principali canali televisivi e radiofonici italiani. Tra i suoi ultimi libri si ricordano: Si fa presto a dire cotto. Un antropologo in cucina (Il Mulino, 2009), Homo Dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari (Il Mulino, 2015), Andare per i luoghi della dieta mediterranea (co-autore Elisabetta Moro, Il Mulino, 2017), Miti d’oggi (Bompiani, 2012), Hashtag. Cronache da un paese connesso (Bompiani, 2014), Il presente in poche parole (Bompiani, 2016). E-mail [email protected] Tel. +39 081 2522372 www.marinoniola.it facebook.com/marinoniola

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ESSERE E BENESSERE. LA VIA

MEDITERRANEA

M. Niola, “Essere e benessere. La via mediterranea” in Libro bianco della Dieta Mediterranea,

Maggio 2016, pp. 15 – 31.

Marino Niola è Professore Straordinario di Antropologia

dei simboli, Antropologia delle arti e della performance,

Antropologia culturale e Miti e riti della gastronomia

contemporanea all’Università degli Studi Suor Orsola

Benincasa di Napoli. All’Università di Trieste, nel 1999,

è stato tra i fondatori del primo Corso di Laurea italiano

in Scienze e Tecniche dell'Interculturalità.

Presso l’Università Federico II di Napoli insegna Storia della gastronomia dei Paesi

del Mediterraneo.

È Co-Direttore del MedEatResearch (Centro di Ricerche Sociali sulla Dieta

Mediterranea) istituito presso il suo Ateneo, Ambasciatore della Dieta Mediterranea

nel mondo su indicazione della comunità emblematica Unesco di Pollica/Cilento e

membro del Comitato Scientifico Fondazione FICO-Bologna.

Editorialista de La Repubblica. Sul Venerdì di Repubblica cura la rubrica Miti d’oggi.

Collabora con i principali canali televisivi e radiofonici italiani.

Tra i suoi ultimi libri si ricordano: Si fa presto a dire cotto. Un antropologo in cucina

(Il Mulino, 2009), Homo Dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari (Il Mulino, 2015),

Andare per i luoghi della dieta mediterranea (co-autore Elisabetta Moro, Il Mulino,

2017), Miti d’oggi (Bompiani, 2012), Hashtag. Cronache da un paese connesso

(Bompiani, 2014), Il presente in poche parole (Bompiani, 2016).

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Tel. +39 081 2522372

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1. PremessaLa dieta mediterranea allunga la vita. Regala benessere e aumenta il tasso di felicità. Per-ché non è solo un modello alimentare fatto di stagionalità, tipicità e biodiversità. Che già sarebbe molto. Ma è un modo di vivere bello e buono, che rimette in equilibrio l’ambiente e lo sviluppo. Si spiega anche così la nuova fortuna delle cucine del Sud europeo. Snob-bate nei decenni scorsi perché retaggio di povertà, calorica ed economica. Riva-lutate oggi perché simbolo alimentare di una nuova idea di sviluppo sostenibile che affonda le sue radici nel passato delle comu-nità che si affacciano sulle sponde del Medi-terraneo. Una sorta di abbondanza frugale che, secondo studiosi come Serge Latou-che, Alain Caillé, Andrea Segrè e pensatori come Carlo Petrini è la sola ricetta in grado di riparare i danni prodotti dalla bulimia consumistica. Da quell’opulenza spalmata come burro sulla vita del cittadino globale e che ha finito per ostruire le coronarie del primo mondo. Appesantito dall’accumulo delle scorie del benessere, da un eccesso di residui non più metabolizzabili. Proprio

come le montagne di rifiuti che assediano le nostre città.È come se oggi la salute del nostro corpo fosse diventata la cartina di tornasole della salute del pianeta. E viceversa. Ecco perché abolire “il troppo e il vano” dai nostri piatti ritornando, per quanto è possibile, alle sane abitudini di un tempo, riflette un rapporto rinnovato con i nostri bisogni e desideri. Ma anche una nuova responsabilità verso gli altri, verso la natura e verso le specie viventi. Così la dieta torna ad assumere il significato che aveva nel mondo classico. Per i Greci Diaíta significava, infatti, regola di vita. L’an-tica sobrietà della triade alimentare compo-sta da olio, pane e vino, elementi sacri alle divinità del Mediterraneo antico e in seguito fatta propria dal cristianesimo, diventa il sim-bolo di una moderna assunzione di respon-sabilità da parte del cittadino globale. E quel che sembra un ritorno al passato si fa annun-cio di futuro.Oltretutto la dieta mediterranea allunga la vita. E, soprattutto, consente di dare alla longevità una accezione non solo quanti-tativa. È quanto emerge da uno studio del

CAPITOLO I

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di Marino Niola Noi non ci invitiamo l’un l’altro semplicemente per mangiare e bere, ma per mangiare e bere insieme

Plutarco, Dispute conviviali, II, 10

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PARTE I / CAPITOLO I

MedEatResearch, il Centro di Ricerca Sociale sulla Dieta Mediterranea dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Che nell’autunno del 2012 ha svolto un’indagine in collabora-zione con alcuni comuni del Parco Nazio-nale del Cilento e Pollica, che l’UNESCO ha riconosciuto quale comunità emblematica della dieta mediterranea, dichiarata Patri-monio culturale intangibile dell’umanità il 16 novembre del 2010. Assieme ad altri tre luo-ghi elettivi del mangiare meridiano, Koroni in Grecia, Soria in Spagna e Chefchaouen in Marocco. Ai quali si sono aggiunti, nel 2013, il villaggio di Agros a Cipro, la municipalità di Tavira in Portogallo, le isole di Brac e Hvar in Croazia (Petrillo, 2012).Verdura, olio extravergine d’oliva, frutta, legumi, pasta, cous cous e pane. Assieme a molto movimento e aria pulita. Ecco la formula eco-alimentare che ha trasfor-mato alcuni paesi costieri della provincia di Salerno in un case study internazionale. Acciaroli, Pollica, Pioppi, San Mauro, Castel-labate, Agnone, Velia, un fazzoletto di terra ormai noto come il “triangolo della lunga vita”. Una definizione coniata da Ancel Keys, il più grande esperto di nutrizione umana del Novecento. Professore all’Università del Minnesota e inventore della razione kappa, il kit di sopravvivenza giornaliera dell’esercito americano. A lui si deve tra l’altro la scoperta dei danni prodotti dal colesterolo sul sistema cardiocircolatorio.Lo scienziato arrivò a Napoli nell’immediato dopoguerra e fu subito colpito dai tassi di

longevità della popolazione locale. Nella Campania di quegli anni infatti, la durata media della vita superava del quindici per cento quella statunitense e per di più le morti per infarto erano rarissime. Ma la sorpresa di Keys aumentò a dismisura quando decise di non fermarsi a Eboli1. E si spinse verso quei paesini della costa cilentana dove il tempo sembrava essersi fermato. Qui decise di fer-marsi anche lui. Convinto che nel modo di vivere e di mangiare di quel popolo di conta-dini e pescatori ci fosse qualcosa di speciale, una sorta di messaggio utile al futuro del pia-neta. Lo scienziato diceva sempre di essersi stabilito a Pioppi per allungare la sua vita di vent’anni. E c’è riuscito. Visto che quando è morto, nel 2004, aveva quasi centouno anni. E la moglie Margaret Haney, sua compagna di vita e di lavoro, ha raggiunto il traguardo dei novantasette, ben vissuti.Ma la longevità in questo lembo di terra cilentana non è solo cosa da privilegiati. È un bene comune. Addirittura già negli anni Ses-santa tra San Mauro e Pollica l’aspettativa di vita media aveva raggiunto quegli standard che il resto dell’Italia dovrebbe raggiungere nel 2025. È quel che emerge incrociando i dati Istat con quelli forniti dall’anagrafe dei comuni della zona. Che registrano sfilze di novantenni e numerosi centenari. Secondo le stime ufficiali, le italiane che nascono oggi vivranno in media fino a ottan-taquattro anni e mezzo, i maschi fino a set-tantanove. Ma per i cilentani queste non sono solo proiezioni ipotetiche, sono già vita

1. Il riferimento è al celebre libro di Carlo Levi, Cristo di è fermato a Eboli, dove questa cittadina della provincia di Salerno diventa metafora di un Mezzogiorno non inteso in un’accezione meramente geografica. Il Sud di Carlo Levi è, infatti, simbolo di una faglia storica e sociale tra l’Italia dello sviluppo e quella del sottosviluppo. È l’altra Europa che i gesuiti già nel Seicento ribattezzano “Indias de por acá”, ovvero le “Indie di casa nostra”.

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vissuta. Insomma lì si vive dagli otto ai dieci anni in più che nel resto d’Italia. E le previ-sioni per il futuro danno cifre da fantascienza, percentuali giapponesi. Perché i cilentani nati nel 2011 hanno davanti a sé autostrade di tempo. Si calcola che gli uomini arrive-ranno tranquillamente a ottantacinque anni. Mentre le donne supereranno i novantadue. Aveva proprio ragione Ancel Keys che per definire il paradigma alimentare ideale, il modello da esportare in tutto il mondo, inventò l’espressione “dieta mediterranea”. Un’etichetta nuova dal sapore antico. Un negoziato tra la storia locale e la convenzione rappresentativa di una meridionalità conce-pita altrove. Ma che ha finito per influenzare a sua volta le rappresentazioni locali dell’i-dentità alimentare e dell’identità tout court. In fondo l’idea attuale di Mediterraneo è un’invenzione della cultura dell’Europa del Nord, lo sfondo antico su cui, da Goethe e da Hölderlin in poi, è stata disegnata l’im-magine della modernità e della sua idea di sviluppo. Da queste parti però la dieta mediterranea non è solo spaghetti al pomodoro e basilico, come crede il senso comune globale. Quello è semplicemente il piatto più conosciuto e amato del mondo. Come rivela un’inda-gine della britannica Oxfam, che ha testato i gusti di diciassettemila persone in sedici paesi. Forse perché come dice il grande chef Alfonso Iaccarino, uno degli “stellati” più celebri del pianeta, i maccheroni rendono meno aggressivi e danno una felicità a rila-scio lento. In realtà nel triangolo della lunga vita, man-giare mediterraneo significa soprattutto verdure chilometro zero, preparate in mille modi diversi. Nonché i legumi. E, con mode-

razione, pesce, carne, soprattutto bianca e latticini. Meglio ancora il formaggio di capra. E la frutta secca. Delia Morinelli, l’an-ziana governante di Ancel Keys ha confidato all’antropologa Elisabetta Moro – autrice di un fondamentale studio sulla scoperta della dieta mediterranea (Moro, 2014) – che il grande scienziato mangiava ogni sera due fichi secchi prima di addormentarsi. Eviden-temente aveva già capito che si trattava di un super food. Quantità moderata, qualità alta, stagiona-lità e convivialità. Ecco il segreto della dieta mediterranea. Che non è solo un modo di mangiare. E men che meno una cura dima-grante. È soprattutto una filosofia della vita, una pratica sociale e un’idea del rapporto tra uomo e ambiente (Petrillo, 2012; Moro, 2014; Niola, 2015; Dixon 2015). Poco stress, equilibrio ambientale, cibo sano, variato e senza eccessi. Decisamente i Cilentani e gli abitanti delle altre comunità emblematiche hanno fatto tesoro dell’antico insegnamento di Ippocrate, padre dell’arte medica occi-dentale, che diceva “fai che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo”. Insomma i lontani discendenti di Parmenide, il filosofo, medico e guaritore nato proprio a Velia, l’antica Elea, hanno inventato l’ab-bondanza frugale con qualche millennio di anticipo sull’ambientalismo contemporaneo. Ecco perché da queste parti l’alternativa tra essere o benessere non è un problema. Alla conoscenza di questo fondamentale capitolo di storia della nutrizione contem-poranea mancava finora un’indagine che ne ricostruisse la genealogia e gli sviluppi attuali e le prospettive sociali e ambientali di breve e di lunga durata. L’unica ricostruzione sto-rico-antropologica della vicenda dei coniugi

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Keys al riconoscimento UNESCO si trova nel lavoro, sopra citato, dell’antropologa italiana Elisabetta Moro che racconta questo deci-sivo segmento di storia sociale. Questo Libro Bianco, provvidenzialmente promosso dal MIPAAF a coronamento di una lunga azione di tutela e di valorizzazione della dieta medi-terranea, viene dunque a colmare una lacuna, responsabile di gran parte degli abusi, non-ché delle pseudo-verità alimentari, predicate dai tanti guru della nutrizione che affollano il nostro orizzonte mediatico. Il presente volume del MIPAAF ricostruisce la genesi della nozione di mediterranean way collocan-dola sullo sfondo scientifico più adatto a rive-lare il significato sociale, culturale e politico assunto dalla dieta mediterranea negli ultimi, decisivi, cinquant’anni. Quelli che vanno dall’arrivo di Ancel Keys a Pollica fino alla patrimonializzazione UNESCO, che ha proiet-tato la dieta mediterranea nel mainstream ali-mentare del nostro tempo. Producendo una serie di ricadute positive sulle politiche locali, sulle poetiche identitarie e sulle strategie di promozione del territorio dei paesi cui appar-tengono le diverse Comunità Emblematiche. Il Libro Bianco si offre dunque come uno stru-mento di conoscenza utile per la compren-sione di come una piccola vicenda, in origine di interesse esclusivamente locale, possa diventare un autentico paradigma della glo-calizzazione contemporanea.

2. Genealogia della dieta mediterranea Come si è detto, la dieta mediterranea, pur essendo la sintesi millenaria dei regimi alimentari delle società affacciate su que-sto mare carico di storia, è stata scoperta da un americano. Il fisiologo Ancel Keys

(1904-2004), professore dell’Università del Minnesota, all’inizio degli anni Cinquanta ha individuato nel Meridione d’Italia i tratti caratterizzanti di questo particolare stile di vita, e vi ha riconosciuto non solo l’eredità dell’antica cultura alimentare dei popoli mediterranei, ma anche, e soprattutto, il segreto della longevità e della buona salute. Dunque una ricetta per il futuro. La dieta mediterranea è di fatto la versione aggiornata della cultura alimentare delle civiltà che da sempre abitano le coste del Mediterraneo. Si tratta di un sistema nutri-zionale che trae vantaggio da una ricchis-sima biodiversità e al tempo stesso ruota intorno a tre nutrienti principali: grano, olio e vino, la cosiddetta “triade mediterranea” che, secondo la mitologia dei popoli che si affacciavano sul “mare di mezzo”, è un dono degli dèi. I cereali sarebbero stati un dono di Demetra, signora delle messi, l’ulivo e l’u-livicoltura sarebbero stati offerti agli uomini da Atena, il nume tutelare della democrazia ateniese. E la vite di Dioniso, il dio del fer-mento vitale. Tre alimenti simbolo che rap-presentano il rapporto virtuoso tra uomini e natura. E che successivamente il Cristia-nesimo avrebbe tradotto senza soluzione di continuità nel suo sistema simbolico, ma con un decisivo mutamento di senso. Facendo del pane e del vino gli emblemi eucaristici del corpo e del sangue di Cristo. E dell’olio la materia sacra dei riti di passaggio cristiani, come la cresima, l’unzione, l’incoronazione regale. Del resto questa sacralizzazione era la prova dell’importanza vitale di que-sti alimenti per la salute dei singoli e delle comunità, degli uomini e dell’ambiente. La moderna scienza della nutrizione ha fatto tesoro del messaggio delle antiche religioni

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facendone una preziosa ricetta di benessere, ed elevandolo a modello nutrizionale di comprovata salubrità. Esemplificato dall’at-tuale piramide alimentare dell’O.M.S. (Orga-nizzazione Mondiale della Sanità) che indica le giuste proporzioni tra cereali, verdure, legumi, latticini, condimenti, bevande, carni, pesci e dolci. E che ora ha aggiunto alla sua base alcuni comportamenti virtuosi come il consumo di prodotti locali e di stagione, il movimento e la convivialità. Vale a dire quelle pratiche sociali che mettono al centro il rapporto che l’uomo ha con gli altri uomini e con la natura. La piramide della dieta mediterranea insomma incarna appieno un ideale olistico moderno ma dal cuore antico. Un modo di produrre cibo, di distribuirlo e di consumarlo dall’impatto ecologico e sociale positivo. Visto che mentre la produzione di carne rossa comporta un elevatissimo con-sumo di risorse ambientali, accade il contra-rio con la produzione di frutta e verdura. Lo diceva già duemilacinquecento anni orsono Platone nella Repubblica. Come dire che quel che fa bene all’uomo, fa bene anche all’ambiente. A dimostrazione del fatto che la dieta mediterranea, come sostiene ormai da tempo la F.A.O. (Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite), è uno dei modelli alimentari più ecocompatibili al mondo. Così questo antico stile di vita si sta progressivamente affermando quale alternativa socio-economica al consumismo industrial-individualista che caratterizza il nostro tempo. Ed è proprio questa forma di vita ecocompatibile, sana e alla portata di tutti, ispirata alle pratiche alimentari popo-lari e a un’idea forte di coesione sociale, che trova nella convivialità il luogo dove il legame comunitario si rafforza e le tradizioni

vengono trasmesse di generazione in gene-razione. Un riconoscimento internazionale prestigioso, conseguito grazie ad un intenso lavoro politico istituzionale del Ministero delle Politiche Agricole Italiano e della sua task force UNESCO, nonché dei Governi degli altri tre paesi coinvolti nella fase pre-liminare di candidatura. Vale a dire Grecia, Spagna e Marocco. Ai quali si sono uniti, a partire dal 2013, anche Portogallo, Cipro e Croazia. E senza dubbio altri se ne aggiunge-ranno nel tempo, perché se l’Italia è il luogo in cui la dieta mediterranea è stata scoperta o, meglio, riscoperta il Mediterraneo è l’ha-bitat culturale in cui è stata inventata.

3. Il ruolo di Ancel e Margaret KeysAll’indomani della seconda Guerra Mondiale la F.A.O. organizza il primo congresso sulla nutrizione umana a Roma e a presiedere la sessione inaugurale viene invitato Ancel Keys. Lo scienziato era già considerato uno dei massimi esperti in materia grazie alla notorietà che si era guadagnato durante il conflitto bellico per aver inventato la Razione K dell’esercito statunitense, un kit di soprav-vivenza alimentare pensato per essere con-tenuto nella tasca della divisa dei paraca-dutisti a stelle e strisce che sarebbero stati lanciati nei cieli d’Europa. La piccola scatola di latta, con il rifornimento alimentare per due giorni, aveva riscosso un tale successo che era stata adottata dall’intero esercito e ribattezzata dai generali Razione K, dall’ini-ziale del cognome del suo inventore. Ma la notorietà internazionale di questo scienziato geniale, che era stato allievo del Premio Nobel per la medicina August Krogh, deriva anche dalla pubblicazione di The Biology

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PARTE I / CAPITOLO I

of Human Starvation (1950), un imponente studio sugli effetti della fame sul funziona-mento del corpo umano, e che ancora oggi è considerato una pietra miliare della storia della medicina per la sua capacità di coniu-gare l’approccio empirico-sperimentale con quello storico-antropologico. Durante la sessione inaugurale del congresso romano tutte le relazioni vertono sulle pro-blematiche provocate dalla scarsità di cibo e dalla deficienza vitaminica, specialmente nell’Europa post bellica e nei paesi sotto-sviluppati. Sorprendendo i colleghi Ancel Keys accenna ad una nuova “epidemia” che sta colpendo gli USA, dove nonostante l’abbondanza di cibo, l’aspettativa di vita è molto bassa. Il 50% dei maschi tra i 39 e i 59 anni, infatti, muore di infarto. Le ragioni di questa malattia all’epoca non erano affatto chiare. Qualcuno la attribuiva allo stress, altri all’ereditarietà genetica, mentre il profes-sore di Minneapolis è dell’idea che la causa principale stia nell’alimentazione. Nessuno dei convegnisti mostra particolare interesse per i dati offerti alla discussione, provocando in lui una forte delusione che annota pun-tualmente nelle sue memorie. Un solo col-lega raccoglie la sfida scientifica, è il dottor Gino Bergami, direttore dell’Istituto di Medi-cina dell’Università di Napoli, che gli offre un dato su cui riflettere. Le malattie cardiache a Napoli sono rarissime. Nemmeno le ragioni di questo record positivo sono chiare, ma il dato è indiscutibile. Tornato a Oxford, dove stava trascorrendo un anno sabbatico, Keys ripensa al caso partenopeo e manifesta al collega italiano il suo desiderio di compiere un’indagine approfondita sulla scarsa inci-denza delle malattie del cuore a Napoli. Il professor Bergami invita Keys a Napoli per

verificare personalmente le informazioni e indagarne le ragioni. Keys parte per l’Italia con la moglie Margaret Haney, biologa della Mayo Foundation e sua inseparabile compa-gna di lavoro, fin dai tempi della razione K. I due scienziati portano con sé un laboratorio da campo per le analisi del sangue effettuate dalla dottoressa Haney. A Napoli cominciano a ispezionare le corsie del Policlinico della Facoltà di Medicina dell’Università Federico II. Effettuano visite ai pazienti e verificano le cartelle cliniche prontamente tradotte in inglese da un giovane medico, Mario Man-cini, diventato poi collaboratore di Keys e, in seguito, a coronamento di una prestigiosa carriera scientifica, professore emerito di Medicina Interna presso il Dipartimento di Medicina dell’Università di Napoli. L’assenza di malattie cardiovascolari viene pienamente confermata. A quel punto i Keys ritengono di dover passare ad uno step successivo e chie-dono di avere dei volontari da sottoporre a uno screening ematico. Nell’arco di qualche giorno cominciano ad arrivare schiere di vigili annonari e operai dell’acciaieria Italsider, tutti di età compresa tra i 39 e i 59 anni. I loro campioni di sangue vengono comparati con quelli americani e salta subito all’occhio che il tasso di colesterolo è il dato più discre-pante. Bassissimo tra gli operai partenopei, elevatissimo tra i manager americani. Ed è allora che Keys comincia a intuire l’esistenza di un nesso significativo tra malattie cardio-vascolari e grassi alimentari. Nonostante nes-suno ancora sappia quale sia la funzione del colesterolo, questo grasso subdolo è ormai diventato il primo indiziato. Convinti che l’a-limentazione possa giocare un ruolo impor-tante, i due scienziati conducono una serie di interviste a tappeto tra gli operai che, tra le

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altre risposte, forniscono informazioni detta-gliate circa il loro menù settimanale. Dai rac-conti degli intervistati emerge un consumo almeno trisettimanale di legumi, la presenza giornaliera nella dieta di frutta e verdura in razioni abbondanti. Inoltre i lavoratori napo-letani mangiano con grande frequenza la pasta, e ogni giorno consumano un chilo di pane e quattro bicchieri di vino. La carne compare a tavola solo una volta alla setti-mana, la domenica sera, in quanto costituisce l’avanzo del ragù che rappresenta il piatto forte del pranzo festivo. Nei giorni di lavoro, invece, il menu è costituito da mezzo filone di pane, detto palatone, ripieno di broccoli o scarola bolliti. Un altro dato che colpisce i Keys è l’uso quasi esclusivo dell’olio come grasso da condimento. Il burro è pressoché sconosciuto e il latte lo consumano solo i bambini. Questa temperanza alimentare, effetto combinato dell’indigenza e di una antica frugalità, impressiona vivamente i Keys che vi intravedono la quadratura del cerchio. Fatta di stagionalità, frugalità, artigianalità e convivialità. Era solo il 1952 e questa felice intuizione cambia la storia della ricerca sul rapporto tra stili di vita e salute. E cambia anche il nome dello scienziato americano di Minneapolis che da allora viene ribattezzato dalla stampa Mr. Cholesterol. Ben presto i Keys, con il sostegno del cele-bre cardiologo Paul D. White, medico per-sonale del Presidente americano Dwight Eisenhower e di un’équipe internazionale che progressivamente cresce intorno a loro, compiono nuove indagini. In Spagna, in Sud Africa, in Sardegna e soprattutto a Nico-tera in Calabria, dove effettuano uno studio pilota per mettere a punto un nuovo modello di ricerca. L’obiettivo è dimostrare in modo

inequivocabile che il mangiare mediterraneo previene le degenerazioni cardiovascolari. Così nel 1957 ha inizio il “Seven Countries Study”, il più straordinario studio di epide-miologia mai condotto nella storia della scienza della nutrizione, che ha coinvolto 12 mila persone di 7 nazioni (U.S.A., Finlandia, Ex Jugoslavia, Giappone, Olanda, Grecia e Italia), monitorate per trentacinque anni consecutivi. Si tratta di una ricerca compa-rativa sugli effetti dei diversi stili di vita, vis-suti nella realtà quotidiana e non riprodotti in laboratorio, e delle loro ricadute sulla salute. I risultati confermano pienamente l’ipotesi di partenza. I popoli mediterranei, in partico-lare la classe operaia napoletana, mangiano in maniera più sana degli Americani ricchi. Un paradosso che pochi sono disposti ad accettare in un contesto che si è da poco lasciato alle spalle le privazioni del periodo bellico e che si avvia a grandi passi verso la transizione alimentare indotta dalla società dei consumi. È questo dunque il momento fondativo della scoperta del modello alimen-tare mediterraneo e insieme di una grande avventura scientifica e antropologica, che lo storico Arthur S. Truswell ha definito “uno dei capitoli più avvincenti della storia della nutrizione” (Truswell 2010: 183).

4. Uno stile di vita alla portata di tutti. Negli anni lo stile di vita mediterraneo da semplice oggetto di studio, diventa per Ancel e Margaret Keys pratica di vita e cono-scenza da diffondere nel mondo anglosas-sone. Con tre libri divulgativi che riscuotono subito un grande successo di pubblico. Eat well and stay well, pubblicato nel 1959. The benevolent bean nel 1967. E nel 1975 un

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PARTE I / CAPITOLO I

terzo libro che è la vera svolta scientifica nel cammino che porta alla teorizzazione della dieta mediterranea, perché nasce dall’incon-tro con la comunità di un paese nel Parco Nazionale del Cilento in provincia di Salerno di nome Pioppi, una frazione del comune di Pollica, dove i coniugi Keys vivono per 35 anni. Il titolo di questo libro è How to eat well and stay well. The Mediterranean Way. E per la prima volta compare il termine “dieta mediterranea”, coniato dai Keys per mettere sotto una stessa etichetta quanto avevano imparato sul cibo e la convivialità dai popoli del Mediterraneo, antichi e contemporanei. Il testo, infatti, si pone come programma di una nuova mentalità alimentare che si fonda su pratiche tradizionali e consolidate, sobrie e genuine. Nonché su un modello di convi-vialità inclusivo, basato su un vero e proprio culto dell’ospitalità. Nelle avvincenti pagine di questo libro manifesto i Keys cercano di dimostrare quanto la cultura e la conoscenza in fatto di benessere siano più decisive della genetica e dell’ereditarietà. La posta cultu-rale, etica e scientifica che gli autori mettono in campo insomma è altissima. Ed è proprio questa idea di dieta mediterranea, quale pratica sociale e poetica comunitaria che l’UNESCO ha patrimonializzato (Moro 2014: 77-110).

5. La comunità emblematica del Cilento Nel Parco Nazionale del Cilento, ricono-sciuto dall’UNESCO come l’unica comunità emblematica italiana dove la dieta mediter-ranea è una pratica quotidiana, i Keys stabi-

liscono negli anni Sessanta il loro buen retiro a Pioppi, una frazione costiera del comune di Pollica, in provincia di Salerno tra i templi dorici di Paestum e gli scavi della gloriosa Elea, la celebre colonia greca che i Romani ribattezzarono Velia e che attualmente cor-risponde al comune di Casalvelino. Acqui-stano una collina di carrubi a picco sul mare e vi costruiscono la loro casa italiana, che diventerà ben presto il centro di una colonia scientifica internazionale. Villa Keys diventa un cenacolo intellettuale e umano, che attrae scienziati da tutto il mondo, tra i quali il medico finlandese Mar-tii Karvonen (1918-2009), il professore di Scienze dalla nutrizione dell’Università di Perugia Flaminio Fidanza (1919-2012) e la nutrizionista Adalberta Alberti-Fidanza. Non-ché il cardiologo Jeremiah Stamler (1919), professore della North Western University di Chicago che ha raccolto il testimone della dieta mediterranea dai Keys, proponen-done di recente una nuova versione, quella che lo stesso Stamler ha ribattezzato “Dieta mediterranea del XXI secolo”2. Basata, come sempre, sul consumo abbondante di frutta, verdura di stagione, cereali e legumi, sull’uso prevalente di olio extravergine d’o-liva rispetto agli altri grassi, su un moderato consumo di alcolici, pesce, uova e latticini, pochissima carne, preferibilmente bianca. Ma questa volta la ricetta della buona salute è stata adattata alla vita sedentaria di oggi e alle nuove evidenze scientifiche, perciò pre-vede un consumo di cereali integrali e frutta secca, ancora maggiore che in passato, non-ché una forte riduzione del sale e dell’olio. Il

2. Cfr. J. Stamler, 2013. Cfr. anche Elisabetta Moro e Marino Niola, 2014.

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fattore decisivo è che ai piaceri e ai benefici della tavola vanno poi aggiunti una buona dose di vita all’aria aperta e una leggera atti-vità fisica. Senza mai perdere il piacere del cibo e la convivialità, ovvero i fattori sociali e antropologici che distinguono la nutrizione umana e la trasformano in cultura. Si tratta insomma di una dieta nel senso originario della parola greca diaíta, che significava forma di vita. Perché per i popoli mediterra-nei la dieta non è semplicemente un modo di mangiare ma, piuttosto, un’arte di vivere. O, come diremmo oggi, uno stile di vita. Lo dice l’etimologia stessa del temine diaíta – da cui il nostro «dieta» – che deriva, secondo molti glottologi, da una radice *djao, che ha a che fare con il vivere. E secondo altri dal radicale *dha, che ha il senso di «porre» o quello di «fare». E in ogni caso designa, in generale, una regola di condotta che non ha necessa-riamente per oggetto il cibo, ma serve a dare misura a molte forme di comportamento. Ed è particolarmente utile riflettere sui sinonimi di diaíta, che ha tra i suoi significati quello di «tenore di vita», inteso come l’oscillazione tra la sobrietà e l’opulenza. Tanto che un poeta come Pindaro usa un’espressione come diaítan tes zoes metaballein intendendo let-teralmente «cambiare genere di vita». Dalla letteratura antica traspare inoltre, in filigrana, un’idea della dieta come spazio, come luogo metaforicamente inteso. Dimensione dove si svolgono le pratiche abituali dell’uomo. In questo senso appare illuminante l’uso che Aristofane e Plutarco fanno del ter-mine, usandolo come sinonimo di «dimora», «alloggio», «residenza». Anteo addirittura si spinge fino a definirla una stanza semovente come la cabina di una nave. E anche per Plinio il Giovane e Svetonio la parola latina

diaeta significa appartamento, stanza, padi-glione. Un’accezione del termine che lo avvi-cina di fatto a quell’accostamento concet-tuale, esplorato dal grande filosofo tedesco Martin Heidegger, fra l’abitare, le abitudini e l’habitat. Come dire una sintesi dell’avere e dell’essere. Non a caso la parola abitare, nelle lingue neolatine, si costituisce come frequentativo dell’ausiliare avere. Mentre in quelle germaniche le antiche parole bauen e buan, rispettivamente costruire e abitare, sono calchi di bin, prima persona del verbo essere. E in fondo la dieta, in quanto forma di vita, è proprio un equilibrio collettivo e stratificato nel tempo tra modi dell’avere e dell’essere. Cioè un modo particolare di abitare la terra. E un uso ulteriore del verbo greco diaítao, nel senso di prescrivere una dieta, allarga il campo dei significati della nozione fino a quello di governare, giudi-care, esaminare, discutere. E contempora-neamente proietta il termine diaíta verso il significato di disamina critica. Fino a quello, più ampio e poliedrico, di ricerca. Ed è qui la differenza con l’idea di dieta che si è diffusa nel mondo contemporaneo, che per lo più si risolve in un controllo meramente quanti-tativo delle calorie, del peso e delle misure. In una sorta di medicalizzazione di un feno-meno ricco e complesso come l’alimenta-zione umana.

6. La piramide alimentareLa piramide è un simbolo grafico elaborato per promuovere pratiche alimentari corrette ricorrendo ad una forma di facile e imme-diata comprensione. Alla base della piramide vengono collocati gli alimenti da consumare con più frequenza e in maggior quantità. Al

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vertice quelli da mangiare con moderazione e in occasioni limitate. La prima piramide è stata elaborata nel 1992 dal Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti che l’ha conce-pita e presentata come Dietary Guidelines for the Americans (Guida dietetica per gli Statunitensi). Nel gennaio 1993 un pool internazionale di esperti e studiosi del rapporto tra regimi alimentari, nutrizione e salute si è riunito per la prima volta per procedere a una revi-sione dei risultati delle ricerche condotte nell’ultimo secolo sulla dieta mediterranea e sui suoi effetti in termini di salute. Questa conferenza internazionale – organizzata da Old Ways Preservation & Exchange Trust, dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), dalla FAO e dal Centro di Epidemio-logia della Nutrizione della Harvard School of Public Heatlth – è stata la prima di una serie intitolata Public Health Implications of Traditional Diet. Uno degli scopi della con-ferenza era quello di elaborare diverse pira-midi alimentari, che rappresentassero sin-teticamente quelle tradizioni alimentari che offrono ricadute positive sulla salute degli individui e delle collettività. Da quella medi-terranea a quella sudamericana, fino a quelle dell’Estremo Oriente.Nel 1995 esce sull’American Journal of Clini-cal Nutrition uno studio che presenta la prima piramide mediterranea. Per la precisione, come affermano gli autori della ricerca, si tratta di un modello ispirato alle tradizioni alimentari delle comunità mediterranee storicamente caratterizzate da standard di salute positivi. Gli estensori dicono di aver modellato la piramide sui pattern alimentari diffusi fino agli anni Sessanta a Creta, nella maggior parte della Grecia e nel Meridione

d’Italia. Territori dove l’aspettativa di vita degli adulti era la più alta del mondo men-tre i tassi di malattie cardiovascolari, alcune tipologie tumorali e altre patologie croniche legate all’alimentazione erano i più bassi del mondo. Nei paesi oggetto dell’indagine, peraltro, l’alimentazione si accompagnava a tipologie lavorative che prevedevano un’at-tività fisica quotidiana. E il quadro comples-sivo era completato dalla presenza di uno scarsissimo coefficiente di obesità. Lo studio passa in rassegna gli alimenti che fanno da denominatore comune al Mediterranean way: frutta fresca e secca, verdure, pane e altri tipi di cereali, patate, legumi, noci, semi e frutta secca, olio di oliva come unico grasso e formaggi freschi, yogurt e pesce in quantità moderata, non più di quattro uova settimanali, carne rossa e vino in modica quantità. Alla stesura della ricerca, che con-ferma in pieno le intuizioni di Ancel Keys e dei suoi collaboratori, partecipa fra gli altri la scienziata italiana Anna Ferro-Luzzi. Molti paesi hanno rielaborato l’idea della piramide per adattarla alle loro culture alimentari, come nel caso della Guía de la alimentación saludable proposta nel 2004 dalla Sociedad Española de Nutrición Comunitaria. Non sono mancati i tentativi di far emergere la complessità multicausale delle relazioni tra cibo, salute, sostenibilità e giustizia sociale. Fra questi, il modello della doppia piramide alimentare e ambientale elaborato da Fon-dazione Barilla Center for Food and Nutri-tion, che dimostra l’esistenza di una stret-tissima relazione tra gli aspetti nutrizionali degli alimenti e gli impatti ambientali da essi generati nelle fasi di produzione e consumo. Ciò significa che le nostre scelte quotidiane in materia di cibo non impattano soltanto

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sulla nostra salute, ma anche su quella del nostro pianeta.Dall’indagine è emerso chiaramente, infatti, che gli alimenti a minore impatto ambientale sono gli stessi per i quali i nutrizionisti consi-gliano un consumo maggiore, mentre quelli con un’impronta ambientale più marcata sul pianeta vanno consumati con moderazione. Sulla base di questa importante scoperta, la Fondazione Barilla si è posta l’obiettivo di illustrare a istituzioni e consumatori che un corretto stile alimentare ha effetti positivi sia sulla salute sia sull’ambiente.Particolare rilievo per l’analisi degli effetti della dieta mediterranea sulla salute ha l’u-tilizzo di metodi di diet-scoring, come la “Scala Dieta Mediterranea”, elaborata da Antonia Trichopoulou e dai suoi collaboratori (Trichopoulou 2003). Si tratta di un indice di “adeguatezza mediterranea” che stabilisce i criteri di approssimazione al tradizionale modello alimentare mediterraneo. La ver-sione più recente comprende nove alimenti – verdure, frutta, legumi, cereali, rapporto tra grassi monoinsaturi e saturi, alcol, pesce, carne e latticini – assegnando un punteggio in base al grado di aderenza al paradigma mediterraneo classico. Il punteggio totale, dunque, varia da zero a nove, ovvero da un minimo a un massimo di compatibilità medi-terranea.Non sono mancate nemmeno le proposte di riformulazione del simbolo stesso dell’ali-mentazione mediterranea. Flaminio Fidanza, dal 1965 Professore di Nutrizione Umana all’Università di Perugia, esperto di aspetti dietetici-nutrizionali e fondatore insieme al professor De Lorenzo dell’Istituto Nazionale per la Dieta Mediterranea e Nutrigenomica, ha contrapposto al simbolo della piramide, il

Tempio della Dieta Mediterranea. Un tenta-tivo analogo è stato portato avanti dagli stu-diosi della comunità emblematica UNESCO di Soria in Spagna, che con il dottor Juan Manuel Ruiz Liso, nel 2014 ha formulato la suggestiva ipotesi grafica e concettuale del “Temple of Health. Based on the Mediter-ranean Diet”. Una guida con un decalogo di buone pratiche, quali solidarietà, ottimi-smo, comunicazione. Comincia, dunque, a farsi strada l’idea che la dieta mediterranea non sia una mera tabella nutrizionale, ma un insieme di comportamenti virtuosi. Insomma la piramide della dieta mediterranea diventa sempre più social. E si propone come stile di vita del futuro. In grado di assicurarci benessere, longevità e sostenibilità. A con-dizione di non scambiarla per un semplice elenco di totem e tabù alimentari. È quanto emerge anche da uno studio del MedEa-tResearch dell’Università Suor Orsola Benin-casa di Napoli. Che il 14 settembre 2015 ha inaugurato all’Expo di Milano la Settimana UNESCO della dieta mediterranea, voluta dal MIPAAF, con una manifestazione scien-tifica intitolata “La ricetta della longevità”, nel corso della quale è stata presentata la nuova Piramide Universale della Dieta Medi-terranea elaborata dagli esperti del Centro di ricerca napoletano. Antropologi, pedago-gisti, sociologi, col sostegno di personaggi impegnati da anni sul fronte di una cultura del real food, di un mangiare sano, giusto e pulito come Carlo Petrini, presidente di Slow Food International, nonché di medici di fama internazionale come il diabetologo Gabriele Riccardi, il nutrizionista Franco Contaldo e il clinico Mario Mancini, tra i primi collaboratori di Ancel Keys. Con il concorso di chef stellati come Alfonso Iaccarino particolarmente sen-

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sibile ai valori di salubrità, di sostenibilità e di convivialità contenuti nella dieta mediter-ranea. Il pool interdisciplinare è giunto alla con-clusione che la classica piramide della dieta mediterranea, quella elaborata negli anni Novanta dal Dipartimento dell’Agricol-tura degli Stati Uniti, è ormai insufficiente. Perché è un decalogo secco, che riduce la complessità dello stile di vita mediterraneo a un elenco di ingredienti. Dimenticando la cultura che c’è dietro. E soprattutto che, per vivere una vita buona, sana, lunga e possibilmente felice, i comportamenti e gli atteggiamenti sociali sono fondamentali quanto gli alimenti. Non a caso l’UNESCO nel 2010 non ha patrimonializzato il format nutrizionale della dieta mediterranea, ma la grande storia di sostenibilità e di comu-nità che c’è dietro. Per mettere la salute nel piatto, insomma, non è sufficiente calibrare proteine, carboidrati e vitamine. Altrimenti andremmo a pranzo direttamente in farma-cia. E allora qual è la ricetta? Ambiente sano, ritmi umani. E tanta, tantissima condivisione. Le ricerche più recenti dicono, infatti, che la solitudine fa più danno dell’obesità. Per-ché è una disfunzione del corpo sociale. E dunque mangiare un pomodoro in piedi davanti al frigorifero non significa seguire la dieta mediterranea. E men che meno farsi del bene. Perché la salubrità di un cibo non è un fatto esclusivamente biochimico. Non riguarda solo il nostro tessuto connettivo, ma anche quello collettivo. Per questo, alla base della nuova piramide, gli esperti hanno inserito sette parole chiave. Sette virtù da coltivare il più possibile. Prima fra tutte la Convivialità, che da sempre è una ricetta infallibile per creare legame tra le per-

sone. Perché, come diceva Plutarco duemila anni fa, “non ci sediamo a tavola per man-giare, ma per mangiare insieme”. Segue la Tradizione, che è il patrimonio collettivo che si è stratificato nei secoli dando vita a quella cattedrale del gusto e del vivere insieme che è l’Italian Food. Altrettanto importante è la Stagionalità, che è un principio etico, politico e gastronomico, perché consumare i prodotti di stagione significa mangiare ali-menti più saporiti, meno trattati e ridurre l’inquinamento ambientale. Ovviamente è fondamentale anche l’Attività fisica, ma senza trasformare il movimento in un adde-stramento da marines. In più, alla base della piramide entrano parole del tutto nuove. È il caso di Insieme, un invito alla collabora-zione in cucina, senza distinzioni di genere e di generazione. Solo ridisegnando ruoli e compiti domestici sarà possibile continuare a nutrirsi di real food, il cibo vero, quello fatto in casa e trasmettere alle nuove generazioni i capolavori della nostra cucina. Si tratta di una responsabilità che va condivisa fra i generi, in nome delle pari opportunità. Ma anche per non privare i nostri figli di quel patrimonio di intelligenza e di conoscenza che abbiamo ricevuto in dono dai nostri genitori e antenati. Una mission educativa, insomma, che le fami-glie devono condividere con la Scuola, altro mattone di base della piramide. Perché solo una sana e consapevole abitudine alla cultura del cibo può favorire comportamenti virtuosi e insieme gioiosi. Una vera pedagogia della dieta mediterranea, infatti, non può limitarsi a sfornare decaloghi di norme restrittive, ma deve insegnare il valore e i significati che l’alimentazione ha avuto e avrà nella storia dell’umanità. Anche per questo la parola con-clusiva è Zero Sprechi, perché in un mondo

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dove 800 milioni di persone soffrono la fame è un dovere morale, oltre che una pri-orità politica, evitare di buttare nella pattu-miera quel surplus alimentare che è l’effetto perverso della nostra bulimia consumistica (Segrè, 2013 e 3014). E impegnarsi perché il cibo arrivi anche a chi non ne ha. Insomma il Mediterraneo ci ha tramandato un modo solidale, sostenibile, sano, democratico di nutrire il pianeta. Il simbolo della nuova pira-mide che lo studio dell’Università Suor Orsola Benincasa ha consegnato all’Esposizione Universale di Milano – e che adesso mette a disposizione delle Comunità Emblematiche UNESCO e del popolo del Web – declina al futuro questa preziosa eredità.

7. Il triangolo della lunga vita“Ho deciso di venire a vivere in Cilento per allungare la mia vita di vent’anni” è la frase che gli abitanti di Pollica attribuiscono con-cordemente ad Ancel Keys. Che insieme alla moglie Margaret ha trascorso a Pollica qua-rant’anni della sua vita, facendo del paesino cilentano un dipartimento di studi alimentari affacciato sul mare. La loro casa, circondata da ulivi e alberi da frutto, dotata di due orti e una serra, era a tutti gli effetti una piccola azienda produttiva, dove il kilometro zero, l’agricoltura biologica, la stagionalità e il localismo alimentare erano filosofia e pratica quotidiana con cinquant’anni di anticipo su movimenti come quello di Slow Food e sulle sensibilità contemporanee, oggi sempre più attente alla salute, alla sicurezza alimentare, alle filiere corte, alle economie di piccola scala. Durante i lunghi pomeriggi di lavoro della coppia, il canto ininterrotto delle cicale aveva

un controcanto tecnologico nel ticchettio delle telescriventi che ricevevano in tempo reale i risultati delle varie sedi del Seven Countries Study. Una bolla di modernità sospesa in un territorio incontaminato che conserva qualcosa del Mediterraneo antico. Non a caso il luogo viene ribattezzato da Keys e dai suoi amici Minnelea, una crasi tra Minneapolis, la città di provenienza dei due scienziati americani ed Elea, l’attuale Velia che si intravede all’orizzonte. Il luogo dove nel V sec. a.C. Parmenide e Zenone hanno fondato la scuola filosofica eleatica. Un’as-sociazione sotto il segno dell’acqua visto che il nome Elea deriva da Hyle, che signi-fica fiume e Minneapolis, discende da Minni, che nella lingua degli Indiani Sioux Lakota significa acqua. È interessante notare che proprio negli anni Sessanta dagli scavi arche-ologici stava affiorando una nuova verità su Parmenide. L’autore del poema Sulla Natura non era soltanto un filosofo teoretico, uno dei padri del pensiero occidentale, passato alla storia per la celebre affermazione: “L’es-sere è, il non-essere non è”, ma era anche un medico guaritore. Tant’è vero che nelle iscrizioni trovate a Elea negli anni Sessanta egli viene definito Ouliades Physicos, cioè medico. Ma anche qualcosa in più, in quanto i due termini rinviano a un doppio ordine di significato. Uno più strettamente clinico, ed è lo stesso per cui Ippocrate si definisce un fisico pratico. L’altro, più esoterico, che potrebbe essere tradotto come guaritore naturale, se non addirittura sciamano (Gel-dard 2007, p. 19). Insomma il cannocchiale intellettuale di Ancel Keys era puntato sull’eredità materiale e immateriale lasciata dalla scuola eleatica. Tanto che quando nel 1983 scrive l’articolo

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From Naples to Seven Countries. A sen-timental Journey per la rivista “Progress in Biochemical Pharmachology”, dopo aver riepilogato le sue ricerche pionieristiche sul colesterolo e la nutrizione come dispositivo per prevenire le malattie cardio-cerebrova-scolari, conclude il suo articolo togliendosi il camice bianco del ricercatore per vestire i panni dell’umanista e raccontare che cosa un tempo era stata Elea, e spiegare la sua cen-tralità nella storia primigenia della medicina. Arrivando a sostenere che la scuola medica presocratica è all’origine della stessa Scuola Medica Salernitana, ovvero la prima univer-sità di medicina dell’Occidente. Dove non a caso si insegnava l’importanza della preven-zione che, come recita il Regimen Sanitatis Salernitanum è opera di tre grandi medici: la dottoressa Quiete, la dottoressa Felicità e la dottoressa Dieta. L’UNESCO ha scelto Pollica quale comu-nità emblematica italiana proprio grazie alla traccia lasciata dalla presenza sul territorio di Ancel Keys, di Margaret Haney, dai loro amici e colleghi. Che hanno adesso in Jere-miah Stamler il loro grande continuatore. Il celebre cardiologo americano ha avuto un ruolo decisivo nella scelta del Cilento in quanto ha certificato, dall’alto della sua autorevolezza scientifica, il peso dei fattori storici, culturali, ambientali e sociali che fanno di Pollica e della regione circostante un caso “emblematico” del tradizionale stile di vita mediterraneo. Dove le buone prati-che alimentari hanno continuato ad essere seguite fino ai nostri giorni proprio perché poggiano su un sedimento storico diffuso,

non riservato a pochi eletti, a una élite di privilegiati dalla nascita, dal censo o dalla cultura. L’eredità vivente del Mediterranean way, vive nei comportamenti quotidiani di donne e uomini depositari di una cultura della terra e di un saper fare secolari. È il caso di Delia Morinelli, una contadina di Pol-lica che è stata per trentacinque anni cuoca e maestra di Ancel e Margaret Keys nel campo dei saperi orticoli e alimentari. “La mattina quando arrivavo a casa”, ha dichia-rato di recente Delia, “la signora Margarèt e il professore mi chiedevano sempre: ‘Delia che menù hai preparato oggi a tuo marito Giannino?’ e io glielo dicevo. Raccontavo le ricette, volevano sapere tutto. Passato un anno, una mattina la signora mi chiamò e mi disse: ‘Delia finalmente abbiamo finito il lavoro’. ‘E quale lavoro importante avete fatto questa volta?’ – perché ogni tanto dice-vano che andavano in Francia, Portogallo, Cina… venivano pure i colleghi qua a Pioppi, proprio per l’alimentazione, perché c’era questa obesità tremenda. E mi dicevano per esempio: ‘Delia finalmente in Spagna siamo riusciti a fare un controllo che ha ridotto di un tot il colesterolo...’. Insomma la signora mi dice ‘È un libro sull’alimentazione sana. Ci sono anche le tue ricette’”3. E infatti il “Coni-glio alla Delia”, la sua parmigiana di melan-zane e la sua pasta e fagioli, campeggiano sulle pagine di How to et well and stay well. The Mediterranean Way, Un libro che Delia non aveva mai visto prima, né tantomeno letto, visto che non è mai stato tradotto in italiano. Adesso questa donna intelligente e sensibile ricorda con nostalgia di quel sodali-

3. Cfr. E. Moro 2014

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zio con i Keys che le ha cambiato la vita. Uno scambio intenso di umanità. Durante il quale i due scienziati apprendevano saperi popo-lari, trucchi culinari, estetiche locali, tecniche orticole, tradizioni e superstizioni. Mentre lei, con in tasca solo la pagella della prima ele-mentare, lezione dopo lezione, raggiungeva una formazione in scienze della nutrizione da Ph.D. E adesso, grazie a tale incontro stra-ordinario, tutti e tre sono diventati cuore e memoria di questo patrimonio dell’umanità.

8. Il messaggio della dieta mediterraneaSe è vero che la storia del mediterraneo è una storia di mescolanze, di prestiti e di incroci, la dieta mediterranea, al di là delle differenze fra nazioni e culture, riflette que-sta apertura all’altro. Del resto la cucina è aperta per definizione. Perché anche il piatto più tradizionale, la più identitaria delle tipi-cità, hanno dentro la traccia dell’altro. Sono il frutto di un matrimonio misto. Non è un caso che molti degli ingredienti base delle gastronomie mediterranee ven-gano da paesi lontani. Sono degli stranieri che ci mettiamo nel piatto. Guai se non ci fossero. La dieta mediterranea non sarebbe mai nata senza l’americanissimo tomate, che già tremila anni fa si vendeva in triplo concentrato nelle piazze di Tenochtitlan. Le meravigliose parmigiane italiane, la mous-saka greca, le berenjenas fritas spagnole, non esisterebbero se le melanzane non fos-sero arrivare dall’Oriente. Come le narany, in spagnolo naranjas, arance in italiano, ven-gono chiamate anche portogalli e in Gre-cia portokalos, perché furono i Portoghesi dalle loro colonie indiane a diffonderle in tutta Europa. Senza dire delle patate, dei

peperoni. E dell’azteco mais, senza il quale gli Europei non avrebbero mai mangiato la polenta gialla. A pensarci bene, la maggior parte delle cosiddette tipicità alimentari, quelle che fanno il vanto di un paese e tra-sformano la terra in terroir, vengono da fuori. Qualche volta come immigrati clandestini, guardati con diffidenza e tenuti ai margini della cucina prima di conquistare le glorie della tavola e di finire, come accade oggi, canonizzati da marchi come il DOP (Denomi-nazione di Origine Protetta).In realtà la storia, interrogata senza campa-nilismi e senza localismi, ci dice che l’autoc-tonia è un mito sia sul piano etnico, che su quello enogastronomico. E che la gastro-nomia, come la vita, è frutto di migrazioni, di mescolanze, di prestiti. Di seduzioni, di colonizzazioni, di contaminazioni. E quel che lega un cibo a una terra non è la nascita, ma l’adozione. E soprattutto la dedizione che gli abitanti di un paese hanno messo nel far propri un piatto, una pianta, una razza ani-male, nati altrove. Perché quando un popolo adotta un cibo, sparisce ogni differenza tra figli e figliastri. A tavola come altrove dunque, siamo tutti mescolati, almeno da qualche millennio. Lo dimostra la storia delle culture e delle colture mediterranee. Basti pensare alla migrazione e allo scambio di tecniche, di cultivar, di manufatti tra le diverse sponde di quello che i Romani ribattezzarono il Mare Nostrum. Dai vasi di Pantelleria e Samo, ai vini di Jerez o di Castilla y León. Fino alle noci di Sorrento, così conosciute nell’antichità che il soldato romano che fornisce l’unica testimonianza realistica delle fattezze fisiche di Cristo le usa come termine di paragone somatico: “i suoi capelli hanno il colore delle noci di Sorrento

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molto mature” (Moraldi, 1971, p. 1655). In questo senso ogni ricetta non è altro che una mescolanza di ingredienti diversi che diventano una sola cosa. Come la “mine-stra maritata” napoletana e l’olla podrida ispanica. O la moussaka greca che è il risul-tato di un amalgama storico con culture e cucine mediorientali e balcaniche, nonché parente stretta delle parmigiane del Meri-dione d’Italia. O ancora, come le verdure alla “scapece”, altro straordinario caso di inte-grazione culturale e alimentare. La parola scapece, discende infatti dallo spagnolo escabeche, che deriva a sua volta dall’arabo sikbâg, o anche iskebech, in catalano esca-betx. Ed è il perfezionamento ispanico di una tecnica di conservazione in aceto di pesci, carni e verdure di origine nordafricana, poi adottata nel Mezzogiorno italiano. La prima volta la parola escabeche compare in una edizione del 1525 del Libro de los Guisados di Ruperto de Nola, un cuoco probabilmente nativo di Nola in Campania, poi attivo in Spagna, dove fu ribattezzato Mestre Rupert, e in Italia, dove lavorò alla corte napoletana di Ferdinando I d’Aragona. Una vicenda che, già da sola, testimonia l’esistenza di un’an-tica e fitta rete di scambi, di una Mediterra-nean connection, che abbracciava la tavola e la politica, le identità e le sensibilità, le tradizioni e le vocazioni. Insomma le cucine, come le identità e gli stili di vita ad esse legati, si integrano. Proprio come si mesco-lano gli uomini e le comunità. I nomi stessi di molte celebri zuppe di pesce mediterranee hanno a che fare proprio con i benefici della contaminazione. Primo fra tutti il caciucco livornese che deriverebbe, secondo alcuni, dal turco kuçuc che significa piccolo. Secondo altri, invece, dallo spa-

gnolo cachuco, un succedaneo del dentice che viene usato per indicare il pesce in gene-rale. E secondo altri ancora, all’origine di tutto ci sarebbe l’arabo shakshukli, che vuol dire mescolanza. Un gran misto di mare dun-que, ad immagine e somiglianza di quel gran misto di terre che è il Mediterraneo, antico crogiolo di umanità, di culture e di gastrono-mie. Ancora una volta la cucina si conferma specchio fedele della società, lente d’ingran-dimento dei suoi caratteri profondi, quelli che non sempre sono scritti a chiare lettere nei libri di storia, ma che gli animi sensibili e gli uomini di buona volontà sanno leggere.I cibi mediterranei dunque si sono sposati fra loro molto prima degli uomini e qualche volta a loro insaputa. La differenza è che quelli che una volta erano processi di pre-stito, di diffusione, di integrazione, lunghi e secolari, adesso trovano nella globalizzazione un mixer che produce nuovi meticciati a velo-cità sempre maggiore. È interessante notare che la parola meticcio e tutte le sue varianti, derivano dal latino tardo mixticius – a sua volta derivato di mixtus, participio passato di miscere, mescolare. Come dire che la costru-zione delle identità e delle comunità a venire ha il suo paradigma proprio nella cucina.In questo scenario la dieta mediterranea rappresenta una ricetta per vivere insieme, fatta non solo di cibi, ma anche e soprattutto di valori etici e sociali, di modelli di convi-vialità, di educazione alla sostenibilità, di propensione allo scambio, di disponibilità all’integrazione. Insomma la prova generale dell’umanità di domani. Così lo stile di vita mediterraneo, proprio in quanto costituisce l’eredità culturale di un grande passato, può indicare al pianeta la “diritta via” del ritorno al futuro.

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Essere e benessere. La via mediterranea

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