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Metalogicon (2000) XIII, 2 169 Espressività, Saggezza divina e Mondi possibili in Leibniz Parte Seconda Giuseppe Giannetto 4. Visione statica e visione dinamica dei mondi possibili La concezione del mondo inteso come un organismo, in cui vale un nesso parte - tutto, tuttavia, non si accorda completamente con la teoria leibniziana di un Dio che combina i possibili e sceglie il migliore dei mondi rappresentati dal suo intelletto: la struttura organica dei mondi possibili, che abbiamo individuata come immanente a ogni insieme, è ideata e poi attuata sia come possibile, sia, una volta scelta la più perfetta, come esistente. Ciò significa che l’immanenza di una determinata struttura organica, che non consente di mutare alcuna parte di un mondo, non è la nota più essenziale di ogni mondo perché Dio poteva scegliere un'altra struttura egualmente possibile. Da ciò deriva che i mondi possibili stanno fra le strutture organiche, immanenti alle parti componenti, e i modelli, non presenti nella natura e ideati da un soggetto, che possono essere sempre modificati dal loro inventore che va oltre ogni singolo modello ideato. La struttura composita dei mondi possibili rende intelligibile tanto il ruolo attribuito alle diverse parti componenti, che risultano tutte egualmente significative, ne1l’ambito di un determinato mondo, quanto la possibilità di un cambiamento di una parte di un mondo rispetto alle altre che, facendo solo valere una visione di tipo organico, in grado di legare fra loro una serie di cose, era, invece, da escludere. 1 1 Sulla complessità del concetto di mondo in Leibniz si veda la Teodicea, dove il filosofo accentua i concetti di serie e di collezione: “Chiamo mondo tutta la

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Espressività, Saggezza divina e Mondi possibili in Leibniz

Parte Seconda

Giuseppe Giannetto

4. Visione statica e visione dinamica dei mondi possibili

La concezione del mondo inteso come un organismo, in cui vale un nesso parte - tutto, tuttavia, non si accorda completamente con la teoria leibniziana di un Dio che combina i possibili e sceglie il migliore dei mondi rappresentati dal suo intelletto: la struttura organica dei mondi possibili, che abbiamo individuata come immanente a ogni insieme, è ideata e poi attuata sia come possibile, sia, una volta scelta la più perfetta, come esistente. Ciò significa che l’immanenza di una determinata struttura organica, che non consente di mutare alcuna parte di un mondo, non è la nota più essenziale di ogni mondo perché Dio poteva scegliere un'altra struttura egualmente possibile. Da ciò deriva che i mondi possibili stanno fra le strutture organiche, immanenti alle parti componenti, e i modelli, non presenti nella natura e ideati da un soggetto, che possono essere sempre modificati dal loro inventore che va oltre ogni singolo modello ideato. La struttura composita dei mondi possibili rende intelligibile tanto il ruolo attribuito alle diverse parti componenti, che risultano tutte egualmente significative, ne1l’ambito di un determinato mondo, quanto la possibilità di un cambiamento di una parte di un mondo rispetto alle altre che, facendo solo valere una visione di tipo organico, in grado di legare fra loro una serie di cose, era, invece, da escludere.1

1 Sulla complessità del concetto di mondo in Leibniz si veda la Teodicea, dove il filosofo accentua i concetti di serie e di collezione: “Chiamo mondo tutta la

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Il mutamento di una parte di un mondo fa leva su un Essere supremo che rappresenta e combina i possibili che, dopo, almeno dalla prospettiva di un essere finito che cerca di capire, seppure in modo limitato, l'agire di un Essere assoluto, esistono nel suo intelletto come determinati mondi, gli uni diversi dagli altri, anche se tutti ideati. L’immagine di un inventore che progetta una macchina, mediante un disegno ordinato, spiega la possibilità di mutare un elemento della macchina rispetto agli altri, quando questo disegno è ritenuto più valido per ottenere la massima perfezione della macchina. La visione, al contrario, del mondo, interpretato come una struttura organica, non rende comprensibile alcun mutamento che viene proprio escluso dalla presenza di un piano, immanente all’organismo, e non posto fuori – come avviene con l’immagine dell'inventore – nella mente dell’ideatore e poi eseguito.

In base alle considerazioni fatte, la sostituzione di un elemento di un mondo rispetto agli altri che rimangono immutati è contraddittoria in una concezione organica del mondo, mentre è intelligibile in una teoria che pone in luce l'ulteriorità dell'ideatore sulle sue stesse ideazioni: la modificazione di un elemento serie e tutta la collezione di tutte le cose esistenti: affinché non si dica che più mondi possono esistere in diversi tempi e in diversi luoghi. Questi infatti, bisognerebbe contarli tutti insieme per un mondo, o, se preferite, per un universo. E quando riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi, rimane sempre vero che li si sarebbe potuti riempire in un'infinità di modi, che vi è un’infinità di mondi possibili, tra cui occorre che Dio abbia scelto il migliore, dal momento che non fa nulla senza agire secondo la suprema ragione”. G.W.LEIBNIZ, Teodicea, a.c. V. Mathieu, Bologna, 1973, p.160 (GERHARDT, Phil. Schr.,VI, lO7). Oltre a quest'opera, cf. anche la Causa Dei e Sull’origine radicale delle cose. Nella prima, Leibniz intende il mondo esistente come insieme delle cose attuate: "Non serve a nulla allora tentare di immaginarsi l’esistenza di più mondi: per noi ce n'è uno solo che abbraccia la totalità delle cose create in ogni luogo e in ogni tempo, e in ogni modo; questo è il senso che si dà al termine mondo. “G.W.LEIBNIZ, Monadologia Causa Dei, a.c. G. Tognon, Bari, 199l, S.15, p.131 (GERHARDT Phil.Schr.VI,44O). Nella seconda, appare il concetto di aggregato: “Oltre al mondo, o aggregato delle cose finite, vi è un Uno nuovo dominante, non solo come in me l'anima, ma piuttosto come, nel mio corpo, lo stesso io: per quanto dotato di una ragione molto superiore”. G.W.LEIBNIZ, Saggi, filosofici e lettere cit.,p.77 (GERHARDT, Phil Schr. VII,303).

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dell'insieme manifesta la ricerca di un insieme migliore rispetto ai tanti insiemi possibili pensabili, senza che ciò porti a una contraddizione, come nel caso del mondo inteso in senso organico. L’opposizione tra le due concezioni del mondo, a sua volta, è spiegabile se non si confonde un insieme dato con un insieme posto, cioè se si distingue il fare dal solo vedere, l'ideato dall'ideare che supera l'ideato. La variazione, nel caso del mondo concepito come un insieme fatto, di un elemento non porta ad alcuna contraddizione propria, al contrario, de1la posizione che ritiene ogni mondo già dato e presente nella mente divina, da cui Dio stesso sceglie il più perfetto per farlo passare all'esistenza. La contraddizione è attribuibile ai mondi già dati che, nel caso di un cambiamento di un singolo elemento, mutano nei loro complesso e non ai mondi intuiti, come risultati mutabili di un fare originario, proprio di Dio.

In Leibniz, tuttavia, spesso si scambia il fare con il dato e si intendono in modo statico i mondi possibili che, pur presenti nella mente divina, diventano immodificabili se non si vuol cadere in contraddizione. Se si pone in rilievo un punto di vista dinamico, non solo la contraddizione notata, consistente nella pretesa di sostituire un elemento di un mondo, senza mutarlo complessivamente in tutti i suoi aspetti, non trova fondamento, ma anche non è del tutto fondata una spiegazione che accentua l’immutabilità dei mondi possibili che rinviano a un processo combinatorio, sempre ulteriormente trasformabile, nei limiti, seguendo Leibniz, di un'attività che opera in modo razionale e che non pone in risalto la sola onnipotenza di Dio che va al di là di ogni comprensibile spiegazione.

All’emergere di una visione dinamica dei mondi possibili, fa ostacolo la teoria leibniziana della sostanza individuale a cui ineriscono tutti i predicati, presenti, passati e futuri; qualora, infatti, una determinata sostanza individuale venisse sostituita con un’altra sostanza individuale, apparentemente la stessa, ma a cui fosse attribuito un diverso predicato, ritenuto accidentale, Cesare, ad esempio, che non passa il Rubicone, si avrebbe un altro mondo possibile che sarebbe, nonostante le illusorie somiglianze, interamente diverso da quello in cui Cesare, seguendo l'esempio

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leibniziano, passa il Rubicone e conquista il potere a Roma. A un Cesare che non passa il Rubicone, tuttavia, non si oppone nei mondi possibili un Cesare che passa il Rubicone perché, come visto, questi sono autosufficienti e indipendenti gli uni dagli altri, anche se non sono indipendenti da Dio che è in grado di intuirli immediatamente, al di là di ogni possibile contraddizione: la contraddizione nasce dalla coesistenza nello stesso soggetto di predicati opposti, nello stesso momento — Cesare passa e non passa il Rubicone —, dove è da rilevare che il soggetto, in questo caso, non è rappresentato da Dio, ma dal mondo che, essendo chiuso in se stesso e nell’insieme dei suoi complessi rimandi, non contrasta con gli altri mondi, apparentemente similari.

Tale considerazione, se rende palese come in Dio non ci sia contraddizione, e, parimenti, nei mondi chiusi in se stessi, non chiarisce in modo sufficiente per quale motivo l'Essere supremo è esente da qualsiasi opposizione logica, sebbene in Lui coesistano tutti i mondi possibili e cioè in Lui vi sia una condizione, come notato, della contraddizione: la stessa problematica presenza di una sostanza che fa e non fa, seppure in mondi diversi, una determinata azione.

Abbiamo affermato che, oltre alla coesistenza di predicati opposti, è opportuno rilevare, al sorgere della contraddizione, che questi predicati riguardano uno stesso soggetto che, per Leibniz, non è individuato dalla sostanza individuale, ma dal mondo in cui la sostanza individuale considerata rientra; sennonché, se è vero che quando il soggetto è il mondo, un Cesare che passa il Rubicone non entra in contraddizione con un Cesare che, in un altro mondo, non passa il Rubicone, visto che i due Cesari non agiscono nello stesso mondo, è anche vero che, riferendoci all’intelletto divino che rappresenta tutti i mondi possibili, il soggetto non è più un mondo, ma tutti i mondi, intuiti immediatamente dall’intelletto divino, che, sorprendentemente, non cade in contraddizione allorché penetra, con pari profondità, nella complessità dei mondi possibili.

Si potrebbe, per superare la difficoltà rilevata, sostenere che Dio non è limitato dal principio di non contraddizione che vale per un essere finito, qual è l’uomo, e non per un essere assoluto qual è

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Dio; ciò nonostante, seguendo questa considerazione, si avrebbe il Dio concepito da Cartesio come onnipotente, che non è condizionato dalla logica umana, e non il Dio di Leibniz, come appare chiaramente in una lettera di Cartesio del 29 luglio,1648 ad Arnauld “Mi sembra, poi, che non vi sia cosa che debba dirsi impossibile per Dio; infatti tutto quel che è vero e buono dipendendo dalla sua onnipotenza, non oso neppur dire che Dio non possa far sì che una montagna sia senza valle o che uno e due non facciano tre; dico soltanto che mi ha dato una mente tale che non mi consente di concepire un monte senza valle o che l'unione di uno e due non facciano tre ecc., e che tali cose nel mio pensiero sono contraddittorie, come lo sono pure le affermazioni, secondo cui vi sarebbe spazio assolutamente vuoto, o il nulla esteso, o l'universo limitato, chè non saprei immaginare limite al mondo al di là del quale non concepisca estensione, né posso concepire una botte tanto vuota che al suo interno non comporti estensione in cui, per conseguenza, non vi sia corpo: infatti dove c’è estensione, necessariamente si dà pure corpo".2 Leibniz, invece, pone in luce

2 R. DESCARTES ,Opere filosofiche, cit., II, p. 709 (A.T., V, 219). Sul rapporto, in Cartesio, fra possibilità, impossibilità, verità eterne e onnipotenza di Dio cf.: E. BOUTROUX, De veritatatibus aeternis apud Cartesium, Paris, 1874; E. GILSON, La liberté chez Descartes et la théologie, Paris, 1913; E. BRÉHIER, La création des vérités éternelles dans le système de Descartes, in “Revue philosophique”, 1, l937; R. AMERIO, Arbitrarismo divino, libertà umana e implicanze teologiche nella dottrina di Cartesio, in AA. VV., Cartesio nel terzo centenario del Discorso sul Metodo, Vita e pensiero, Milano, 1937, pp. 17-39: M. GUEROULT, Descartes selon l’ordre des raisons, 2 voll., Paris, 1968, II, pp.24-29; H. GOUHIEUR, La pensée métaphysique de Descartes, Paris, 1962, pp.285-91; H. G.. FRANKFURT, Descartes on the creation of the Eternal Truths, in “Philosopical Review”, 86,1977, pp.36-57; G. Rodis-Lewis, Quelques complements sur la creation des verités eternelles, in M. Couratier (éd.), Etienne Gilson et nous: la Philosophie et son histoire, Paris, l980, pp.73-777; ID. Création des vérités éternelles, doute supreme et limites de l'impossible chez Descartes, in F. L. LAWRENCE (ed.), Actes de New Orleans, Suppl. 5,1982, pp.277-318; J. L. MARION, Sur la théologie blanche de Descartes. Analogie, creation des vérités éternelles et fondement, Paris, 1981; E. M. CURLEY, Descartes on the création of the eternal Truths, “Philosopical Review”, 93, 1984, pp. 569-597; J. BOUVERESSE, La théorie du possible chez Descartes. in “Revue internationale de philosophie”, 37, 1983, pp. 293-310; N.

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non solo la volontà assoluta dell’Essere, ma anche la volontà guidata dall’intelletto, senza poi dimenticare che il Dio concepito da Leibniz, diversamente da quello di Cartesio, non crea le verità eterne che fanno parte dell'intelletto divino, caratterizzato, in senso oggettivo, come regione dei possibili.

Con ciò non si vuol negare che le verità eterne rinviino anche a Dio stesso e al suo intelletto che le pensa, secondo la concezione di Leibniz che “né dette essenze [i possibili che tendono all'esistenza], né quelle che si chiamano le loro verità eterne, sono fittizie: esse esistono in una certa, per così dire, regione delle idee, e cioè in Dio stesso, fonte di ogni altra essenza o esistenza. […]. Non trovandosi infatti in essa, come sopra abbiamo mostrato la sua ragione che va cercata nelle necessità metafisiche o verità eterne, e non potendo gli esistenti venire se non da altri esistenti, come abbiamo più su avvertito, occorre che le verità eterne abbiano un'esistenza in qualche soggetto necessario assolutamente o metafisicamente, cioè in Dio, per cui quelle verità, che altrimenti sarebbero immaginarie, siano (per usare una locuzione barbara, ma espressiva) realizzate”.3 Le verità eterne esistono in Dio e in modo particolare nel suo intelletto, cioè le verità eterne non sono come enti fittizi inventati ad arbitrio da parte del soggetto finito, dove però è da tener presente che il filosofo, seguendo il contesto del suo discorso che riguarda la matematica divina o il meccanismo metafisico, si riferisce soprattutto ai possibili che tendono all'esistenza e al criterio che

J. WELLS, Descartes’ uncreated eternal Truths, in “The New Scholasticism”, 56, 1982, pp. 185-199; H. ISHIGURO, The status of necessity and impossible in Descartes, in A. OKSENBERG RORTY, (ed.), Essays on Descartes’ Meditations, University of California Press, Berkeley, 1986, pp. 459-471; R. R. LA CROIX, Descartes on God’s ability to do the logically impossible, in “Canadian Journal of Philosophy”, September,1984,pp..455-475; LANDUCCI, La teodicea nell’età cartesiana, Napoli, l986, pp. l27-193; J. M. BEYSSADE, La Philosophie première de Descartes, Paris, 1979, pp.113-121; G. MISSAGLIA, Il possibile e l’impossibile in Descartes, in “Rivista di Filosofia”, 47,1992, pp. 527-553. 3 G.W.LEIBNIZ, Sull’origine radicale delle cose, in Saggi filosofici e lettere, cit ., pp. 80-81 (GERHARDT, Phil. Schr. VII,305).

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fonda questo mondo esistente rispetto ai tanti possibili e non ai possibili concepiti in senso logico, come assenza di contraddizione, e in senso ontologico, come strutture esistenti, anche se concepite in modo non empirico.

Le verità eterne, del resto, sono diverse dai possibili che tendono all'esistenza, in virtù del criterio della massima compatibilità possibile, perché sono al di là dell'esistenza che, pur determinandole in qualche modo, — visto che questo triangolo disegnato, ad esempio, fa parte di un insieme di rimandi che lo caratterizzano — non le muta nella loro essenza e nelle proprietà legate all'essenza: il mondo come serie di cose, aggiunge alcune note inessenziali alla definizione delle verità eterne, secondo l'esempio da noi fatto, e essenziali solo nell'ambito di un determinato mondo e non di un altro, non spiegabile, in base a quanto già notato, mediante il rapporto principale - secondario, sostanza - accidente, essenziale - inessenziale. Sennonché le verità eterne, pur presenti, non spiegano la complessità dei mondi possibili che, oltre alle verità eterne in essi immutabili, presentano altri aspetti e relazioni costanti che fanno pensare, secondo l’interpretazione già da noi data, a strutture organiche in cui vale il nesso parte - tutto, dove la parte non è riducibile a un elemento inessenziale e sostituibile con altri elementi apparentemente simili: ogni sostituzione, in realtà, manifesta un mondo diverso in cui valgono altre regole, ferme restando le verità eterne che valgono in tutti i mondi e che non possono essere modificate nella loro struttura. Ad un Cesare che passa il Rubicone, ad esempio, non si può sostituire un Cesare che non passa il Rubicone, ritenendo erroneamente di riferirsi a uno stesso mondo: lo stesso soggetto che compie azioni diverse fa parte di due mondi diversi che non diventano, essendo indipendenti l'uno dall'altro, contraddittori. Quello che sembra lo stesso soggetto è concepito — secondo la risposta di Leibniz ad Arnauld — sub ratione generalitatis, come se fosse possibile pensare a un'essenza Cesare che varia, a secondo di quanto gli viene attribuito in modo accidentale nei diversi mondi ideati.

Questa concezione, che comporta la teoria dell'inerenza dei predicati al soggetto, rende impossibile la sostituzione di un

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predicato, apparentemente accidentale, con un altro predicato, non immediatamente rientrante nell'essenza necessaria e immutabile di una sostanza individuale: l'inerenza non riguarda solo i predicati ritenuti necessari e immutabili, ma anche quelli generalmente considerati come accidentali. La risposta di Leibniz ad Arnauld su Adamo considerato sub ratione generalitatis, pone in rilievo la funzione della nozione completa: “tutto questo non determina a sufficienza, sicché vi sarebbero così più Adami disgiuntivamente possibili, o più individui a cui tutto questo converrebbe. Questo vale per qualunque numero finito di predicati, incapaci di determinare tutto il resto: ma ciò che determina un certo Adamo deve racchiudere assolutamente tutti i suoi predicati, e proprio questa nozione completa determina rationem generalitatis ad individuum. Del resto sono così distante dall'ammettere la pluralità di uno stesso individuo, che, anzi, son convinto di quanto aveva già insegnato San Tommaso riguardo alle intelligenze e che io ritengo valere in generale: non essere possibile che vi siano due individui interamente simili e differenti solo numero”.4

La nozione completa è propria di un determinato mondo e comprende tutti i predicati essenziali e non essenziali, anzi, a rigore, non ci sono predicati inessenziali mutabili come erroneamente si pensa, ragionando in modo astratto, separando l'essenziale dall'inessenziale. La risposta di Leibniz, da questo aspetto, non è intelligibile se non si mette in rapporto, seguendo l'esempio del filosofo, Adamo concepito sub ratione generalitatis con la nozione completa di Adamo che appartiene a un determinato mondo e non agli altri: la nozione completa di Adamo che, oltre a contenere tutti i predicati, è legata a un insieme di elementi, presenti, passati e futuri di un mondo, esclude la possibilità di un Adamo concepito in modo generale e non ancora individualizzato. Fra i due concetti — Adamo considerato in senso generale e Adamo individuato come nozione completa — è opportuno far emergere una concezione diversa che impedisce l'opposizione di un concetto all'altro e che dà rilievo a un’attività 4 G.W.LEIBNIZ, Corrispondenza con Arnauld, in Saggi filosofici e lettere, cit., p.16O (GERHARDT, Phil. Schr. II,54).

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singolare, compiuta dall’Essere supremo, che passa dalla rappresentazione di una sostanza — ad esempio Adamo — intesa in senso generale, a una sostanza individuale caratterizzata come insieme totale dei rimandi, propri di un mondo, che, per questa via, segue un nesso parte – tutto, dove ogni parte è egualmente essenziale ai fini della stessa stabilità del tutto. 5. Intelletto volontà e mondi possibili

Il passaggio da una sostanza, concepita in senso generale, alle diverse sostanze che, sebbene abbiano una serie di predicati essenziali comuni, presentano altri predicati, richiede la teoria della pluralità dei mondi che spiega la possibilità di differenti nozioni complete che fanno parte dei diversi mondi ideati; i mondi possibili, nondimeno, che, per un verso, sembrano giustificare i diversi Adami possibili, per un altro, non si accordano con la concezione leibniziana dell'inerenza, dal momento che non danno rilievo alla distinzione tra predicati essenziali e predicati inessenziali, propri di una sostanza individuale: se cambia un predicato, ritenuto inessenziale, a una sostanza, questa appartiene ad un altro mondo che, a sua volta, elimina la differenza tra note essenziali e note accidentali. Pensare ad una sostanza individuale, ad esempio Cesare, che non passa il Rubicone in un determinato periodo storico, significa attribuire Cesare, come già notato, ad un altro mondo possibile che, in questo senso, è immodificabile, tranne a riferire entrambe le sostanze a un altro mondo che diventa una struttura comune a tutti i mondi, al di là dell’identità delle verità eterne che, da sole, non rendono intelligibile le serie infinite delle cose. Le nozioni complete, per i motivi indicati, rendono problematica la teoria leibniziana di un Dio che, a partire da elementi strutturali essenziali, comuni a più sostanze individuali, pone in essere sostanze diverse che agiscono, ognuna per conto proprio, in mondi differenti.

La difficoltà di comprendere questo aspetto della visione leibniziana della sostanza individuale è anche legata al fatto che in Leibniz abbiamo due concezioni diverse, in base alle quali le sostanze individuali, da un lato, sono scelte da Dio, dall’altro,

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sono fatte con un processo, seguendo la risposta data da Leibniz ad Arnauld, di determinazione differente dalla sostanza, indicata in senso generale come dotata di alcuni attributi essenziali, alle diverse sostanze individuali, a partire da un’essenza considerata come comune. Da questo aspetto, mentre Leibniz, nella risposta ad Arnauld, si riferisce a un Adamo in genere, su cui Dio agisce aggiungendo altri predicati, e non a un Adamo determinato che non potrebbe far parte dei molteplici mondi possibili, nella Teodicea, il filosofo sostiene che Dio sceglie e non fa le diverse -sostanze individuali: “Tu vedi che mio padre non ha punto fatto Sesto cattivo: egli era tale da tutta l’eternità, e lo è sempre stato liberamente. Giove non ha fatto altro che concedergli l’esistenza, che la sua saggezza non poteva rifiutare al mondo in cui Sesto è compreso. E l’ha fatto passare dalla regione dei possibili a quella degli esseri attuali. La colpa di Sesto serve a grandi cose: rende Roma libera; e ne nascerà un grande impero che darà grandi esempi. Ma questo non è nulla, in paragone alla totalità di questo mondo di cui tu ammirerai la bellezza, quando, dopo un felice passaggio da questo stato mortale a un altro migliore, gli dei ci avranno reso capace di conoscerla.”5 Per cercare di spiegare le due diverse concezioni di Leibniz, che fanno leva o su un Dio che vede nel suo intelletto i possibili o su un Dio che agisce sui possibili, combinandoli in modi diversi e dando esistenza, seppure ideale, alle differenti serie dl cose, è opportuno fare alcune considerazioni che riguardano il tema del rapporto e della prevalenza di una facoltà rispetto alle altre, senza dimenticare che, anche per Leibniz, il principio di non contraddizione è valido per l’uomo e non per Dio. Quanto alla prima considerazione, come abbiamo già avuto occasione di ricordare, Leibniz non vuol cadere in posizioni cartesiane che accentuano l’onnipotenza divina sullo stesso intelletto divino: un Dio che non solo sceglie, ma anche fa le serie delle cose, combinando in diversi modi i possibili, rischia di porre in rilievo la volontà sull'intelletto, non seguendo il criterio del meglio che è sempre un limite all'assoluta onnipotenza.

5 G.W.LEIBNIZ, Teodicea, cit., p, 439 (GERHARDT, Phil. Schr. VI,363).

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La molteplicità delle serie, ad ogni modo, può anche essere il segno — accentuando l'idea di un Dio che sceglie — della capacità rappresentativa dell’intelletto divino che vede, con pari intensità, tutti i mondi, dal più perfetto al meno perfetto, senza cadere in contraddizione, diversamente da un essere finito. Si potrebbe a ciò aggiungere che, seguendo il pensiero di Leibniz, le diverse serie sono sempre ordinate, anche se non egualmente perfette, e seguono sempre l'intelletto — in cui fra l’altro, si trovano — che pone limiti all'agire della vo1ontà che, da questo aspetto, è conforme e non trascendente rispetto all'intelletto.

Tale concezione, nondimeno, sebbene impedisca la subordinazione dell’intelletto alla volontà, che starebbe fuori dei limiti dell’intelletto, e la possibilità che vengano rappresentate serie prive di comprensibilità, è in rapporto all’idea di un Essere supremo che sceglie, fra le tante serie, la più perfetta che passa così all'esistenza: Dio penetra nei mondi possibili che hanno diversi gradi di elevazione e attua il più perfetto. La soluzione di un Dio che vede i mondi possibili, rappresentati nel suo intelletto, ha certamente il vantaggio di spiegare sia il passaggio all’esistenza del mondo più perfetto, sia la coesistenza, nell'intelletto divino, di infiniti mondi ideali che, pur diversamente dotati di perfezione, non pongono problemi sul significato della loro presenza, come serie di cose fra loro autosufficienti che hanno gradi diversi di elevazione. La scelta divina rinvia all’esistenza ideale di una infinità di mondi che, essendo visti, ma non fatti da Dio, non pongono l’inquietante problema riguardante la possibilità che Dio faccia il meno perfetto, pur essendo in sé perfetto. L'abissale domanda perché Dio pone il meno perfetto, anche se poi sceglie il più perfetto, è eliminata dalla posizione di un Essere che vede e sceglie il mondo più perfetto fra quelli infiniti rappresentati: Dio vede ciò che esiste nel suo intelletto, non ciò che ha posto nel suo intelletto in modo non intelligibile per un essere finito che è condizionato dall'idea di un Essere che, essendo perfetto, dà vita a ciò che è perfetto e non a ciò che è meno perfetto.

Leibniz, rendendo statico l'intelletto che ha in sé un'infinità di mondi possibili, può spiegare l'agire della volontà che attua, tenendo presente il contenuto immutabile dell'intelletto, il più

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perfetto: la staticità dell’intelletto rinvia alla dinamicità della volontà che sceglie un mondo, alla luce del criterio del meglio. Leibniz, in tal modo, supera due difficoltà: la non intelligibilità della volontà che non segue necessariamente il criterio del meglio, una volta che fa i mondi possibili, tutti fra loro diversi per gradi di perfezione, e la concezione di un Dio perfetto che non produce, pur potendolo, ciò che è più perfetto. I limiti che il filosofo finisce col porre, per il superamento delle difficoltà indicate, consistono, in primo luogo, nel rendere statica una facoltà – l’intelletto - per rendere dinamica l’altra - la volontà - in secondo luogo, nel porre in risalto la teoria di un Dio che vede i possibili fra i quali poi sceglie, per mezzo della sua volontà.

All'accentuazione dell'intelletto divino che rappresenta i possibili e all'idea di Dio che vede, ma non pone i mondi possibili, fa contrasto l'altra concezione, presente nello stesso filosofo, che Dio fa i mondi possibili, combinando fra loro i possibili: dai mondi compiuti e autosufficienti, presenti nell'intelletto divino, Leibniz passa ai mondi prodotti, mutando, per questa via, una concezione statica in una visione dinamica, che pone in luce una teoria genetica dei mondi possibili, la quale incontra quelle difficoltà che l'idea di un Dio, che vede quanto presente nel suo intelletto, riusciva ad evitare. Alla staticità dell’intelletto e alla dinamicità della volontà si oppone, in questa concezione, la dinamicità dell’intelletto che, rappresentando in modo attivo i possibili, non attribuisce l’azione alla sola volontà che porrebbe in essere il mondo più perfetto, già presente nella rappresentazione dell'intelletto divino.

La dinamicità dell'intelletto, insieme con quella della volontà, se ha il merito di far superare la rappresentazione statica di un Essere supremo, che si limita a vedere, per poi far passare all’esistenza il mondo più perfetto, pone, però, dei problemi che la visione di un Essere, in qualche modo contemplativo del contenuto del proprio intelletto, non poneva.6 All'affermazione,

6 Sulla visione statica e dinamica dei mondi possibili cf., ad esempio, la Monadologia: “Ora, poiché vi è un’infinità di universi possibili nelle idee di Dio, e non può esisterne che uno solo, è necessario che vi sia una ragion

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seguendo questa idea di Leibniz, che Dio va oltre la contemplazione dei mondi possibili inclusi nel suo intelletto, si aggiunge la considerazione che cerca di spiegare per quale motivo Dio fa infiniti mondi possibili, rappresentati dal suo intelletto, per sceglierne uno, il più perfetto, da far passare all’esistenza o, con termini diversi, per quale motivo Dio non attua immediatamente il mondo più perfetto e pare aver bisogno di rappresentare, cioè di porre mondi, dotati di diversi livelli di perfezione, per scegliere il mondo di livello più elevato.

L’interpretazione genetica dei mondi possibili, inoltre, rinvia a un problema, legato a quelli già apparsi, consistente nel rilevare che un Dio perfetto sembra agire come un uomo che, dopo aver rappresentato nel suo intelletto varie possibilità, sceglie quella che ritiene la più valida per raggiungere un determinato fine, in questo caso il mondo più perfetto. La considerazione non statica dei mondi possibili finisce, in questo ambito, con l'essere strettamente connessa con una visione antropomorfa che vede Dio a somiglianza dell'uomo che opera in modo razionale, come se, prima, pensasse e, poi, agisse in modo illuminato, secondo quanto prospettato dall'intelletto. Il Dio di Leibniz sembra, da questo aspetto, come se fosse l'autore di un romanzo che si prospetta più soluzioni a una determinata storia, prima di scegliere quella che ritiene più opportuna al prosieguo della vicenda ideata.

Per evitare queste difficoltà, Leibniz sposta la sua indagine dalla possibilità all'esistenza e ritiene che a un mondo esistente si contrappongono infiniti mondi possibili che non passano all’esistenza perché non sono egualmente perfetti: i mondi

sufficiente della scelta di Dio, la quale lo determini a scegliere l’uno piuttosto che l’altro”. G.W.LEIBNIZ, Saggi filosofici e lettere, cit., S 53, p. 377 (GERHARDT, Phil. Schr. VI, 615-616). Nella Teodicea Leibniz afferma: "L'infinità dei possibili, per quanto grande essa sia, non è maggiore della saggezza di Dio, che conosce tutti i possibili. Si può anzi dire che tale saggezza, se non supera i possibili in estensione, perché gli oggetti dell’intelletto non possono andare al di là del possibile che, in un certo senso, è il solo intelligibile, li supera intensivamente, a causa delle combinazioni infinitamente infinite che essa ne fa, e di altrettanta riflessione che sviluppa in proposito". G.W.LEIBNIZ, Teodicea, cit., p.3l9 (GERHARDT, Phil. Schr. VI,252).

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possibili rivelano una dimensione verticale, dove in alto sta il più perfetto, e non solo orizzontale, come poteva pur pensarsi, tenendo presente che Dio si rappresenta tutti gli infiniti mondi possibili immediatamente, al di fuori di ogni concezione temporale che fa seguire il dopo al prima. La coesistenza, del resto, dei mondi possibili nell’intelletto divino fa anche valere una visione gerarchica, con la distinzione di più alto e meno alto, di più perfetto e meno perfetto.

In base a tale interpretazione, visto che i mondi possibili sono presenti nell'intelletto divino immediatamente, anche se manifestano diversi livelli — tanto che la coesistenza delle diverse serie richiede una conoscenza esaustiva orizzontale e verticale, — è coerente con l'idea di un Dio perfetto la capacità di attuare nel reale la serie più perfetta, sebbene siano possibili serie meno perfette, ideate nel suo intelletto, che non vengono attualizzate.

Supporre, come fa Leibniz, nella Conversazione con il Vescovo Stenone sulla libertà, la possibilità di una serie non perfetta che non diventa esistente perché comporterebbe un Dio che non agisce in modo perfetto, è coerente con una interpretazione statica dei mondi possibili che li ritiene da sempre presenti nell'intelletto divino: “se tutte le serie possibili fossero altrettanto perfette, ne seguirebbe che lo sarebbe anche quella in cui si salvano e si dannano tutti i pii. Affermo che ciò è impossibile, ne chiedo il perché. Dici che è contro la giustizia. Ottimamente, ciò significa che è contro la perfezione e dunque le serie non sono altrettanto perfette tra loro. La serie resta in se possibile, ma l'esecuzione di essa diviene impossibile perché contrasta con la perfezione di Dio, e ciò è quanto volevo: di qui è evidente che tutto riporta infine alle mie posizioni e poiché costoro ritengono di dire qualcosa di diverso, si nascondono dietro qualche particolare senza avvertire che arrivano alle stesse conclusioni”.7 Un Dio perfetto che sceglie di attuare il mondo più

7 G.W.LEIBNIZ, Conversazione con il vescovo Stenone sulla libertà (24 novembre, 1677), in Confessio Philosophi e altri scritti, cit., p. 79 (Vorausedition, hrsg. Leibniz-Forschungstelle der Universität Münster, Münster-Tübingen, 1982, 9 voll., II, 298).

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perfetto è comprensibile, anche se in qualche modo rende immutabilmente compiuti i mondi ideati nel suo intelletto, ognuno in se stesso indipendente e autosufficiente rispetto agli altri; un Dio, invece, che, non solo sceglie, ma produce i mondi possibili, pur se dà un carattere dinamico a quanto è rappresentato nell'intelletto divino, che non è così limitato nell'ambito di una mera visione, quand’anche profonda e completa, delle serie delle cose ideate , è più difficile da comprendere rispetto all’idea di un Essere supremo, staticamente perfetto, che sceglie il meglio rispetto all'ampia sfera del possibile che va ben oltre quanto esiste.

In questo ambito, il discorso da noi precedentemente fatto sulla rappresentazione immediata dell’intelletto divino di tutti i mondi possibili, che è, ad un tempo, una conoscenza verticale delle serie delle cose, assume un significato diverso, quando le serie delle cose rivelano una dimensione di meno alto e più alto che, però, non è solo vista, ma anche posta da un Essere supremo; questo, infatti facendo valere il criterio della perfezione, non dovrebbe produrre mondi di diverso livello che, essendo più o meno perfetti, rendono aporetica l'idea di un soggetto assoluto che attua in modo indubitabile ciò che è più perfetto. Eppure questa concezione più complessa è sullo sfondo della risposta data da Leibniz ad Arnauld quando, distinguendo una nozione incompleta di Adamo da una nozione completa, fa capire che fra l'una l'altra c'è un passaggio, compiuto da Dio, che, combinando diversi predicati, apparentemente non essenziali, sceglie un Adamo determinato, nella molteplicità dei suoi attributi, e non un Adamo astratto e come tale incompleto, come se fosse un ente matematico, quale la sfera, definita solo da alcune proprietà essenziali come, ad esempio, dall'equidistanza di tutti i suoi punti dal centro e non da altre proprietà accidentali, come una determinata lunghezza del diametro che può sempre variare. La differenza tra nozione astratta e nozione completa mette sullo sfondo che sono possibili infinite nozioni di Adamo che, pur non passando all’esistenza, fanno parte, ognuna per conto proprio, di infiniti mondi possibili colti dall'intelletto divino.

In ciascuno dei mondi possibili, del resto, la nozione di Adamo è determinata da un insieme di predicati che la

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caratterizzano, anche se fra questi predicati ce ne sono di costanti, come l'essere il primo uomo posto in un giardino paradisiaco e l'ottenere, per opera di Dio, un altro essere dalla sua costola. Ciò significa che, fra la nozione incompleta e la nozione completa di Adamo, ci sono infiniti Adami determinati, seppure idealmente, a seconda del mondo cui fanno parte, giacché ogni mondo riguarda un insieme di nozioni complete rispetto al mondo cui esse si riferiscono: il mutamento, come si vede, dell’essenza all'esistenza manifesta un elemento intermedio costituito dagli infiniti Adami degli infiniti mondi possibili.

La concezione di Leibniz, come appare, si amplia dal momento che non è più ristretta nell'ambito dell’essenza scelta che diventa esistenza, visto che ci sono molteplici essenze che hanno, pur nelle loro diversità, note comuni — Adamo inteso sub ratione generalitatis — che, secondo la risposta di Leibniz ad Arnauld, non esistono, da sempre, nell'intelletto divino in modo statico, essendo poste dallo stesso essere supremo che, in tal modo, agisce, con l'intelletto, entro il suo stesso intelletto: alla visività dell’intelletto e alla dinamicità della volontà si contrappone la dinamicità dello stesso intelletto, che non è solo rappresentativo di quanto dato in modo immutabile, per la scelta della volontà divina che attua i possibili più perfetti. D’altra parte, che l'intelletto non sia solo rappresentativo dei possibili appare, nella Teodicea, dove Leibniz, pur rilevando l’azione della saggezza divina nel combinare i possibili, alla fine del brano sotto citato, si riferisce alle operazioni dell'intelletto che, ad inizio dello stesso brano, sembravano attribuite alla saggezza divina: “il risultato di tutte queste comparazioni e riflessioni fatte dalla saggezza divina è la scelta del migliore tra tutti quei sistemi possibili: scelta che la saggezza fa per soddisfare pienamente alla bontà; e questo appunto è il piano dell'universo attuale. Tutte queste operazioni dell'intelletto divino, pur avendo tra loro un ordine e una priorità di natura, avvengono sempre insieme, senza che intercorra tra esse alcuna priorità di tempo".8 Con termini diversi, ai possibili, dati in modo immutabile nell’intelletto divino, fanno contrasto i possibili, 8 G.W.LEIBNIZ, Teodicea, cit., p. 319 (GERHARDT, Phil. Schr. VI,252).

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posti in relazione dall'intelletto divino, che opera entro il campo dei possibili, anche se solo una serie di questi, fatti e ad un tempo rappresentati, passa all’esistenza, in virtù della maggiore perfezione rispetto alle altre serie ideate. Il fare divino, in questo caso, non è un agire che diventa attuale, ma è un agire che rimane nel campo dei possibili; solo che ai possibili, eternamente presenti nell'intelletto divino e come tali immodificabili, si aggiungono i possibili ideati dallo stesso intelletto che non va più inteso in senso oggettivo, come mera regione eterna delle essenze e delle verità eterne, ma in senso dinamico, come rappresentazione e combinazione delle diverse serie di cose. 6.Possibili essenze e verità eterne.

Questo procedere dell'intelletto, poi, non è spiegabile con un soggetto assoluto che sceglie il meglio, perché il criterio del meglio vale a fondare l’esistenza di un determinato mondo possibile rispetto agli altri e non l’estensione e la combinazione dei possibili che rinviano a un altro principio esplicativo per diventare intelligibili, nell'ambito di una teoria dinamica e non statica dei possibili. La complessità della struttura dei possibili appare, ad esempio, anche nello scritto sulla Causa Dei, dove Leibniz sostiene, riferendosi al problema del male: “si deve affermare che nelle creature e nelle loro azioni buone o malvagie non c'è alcuna perfezione, né alcuna realtà puramente positiva che non sia attribuibile a Dio, ma si deve anche dire che l'imperfezione dell'atto consiste in una privazione e nasce dalla limitazione originale delle creature, già inerente alla loro essenza fin dal momento in cui erano pure possibilità (cioè quando erano nella sfera delle verità eterne o delle idee nell'intelletto divino). In realtà, qualche cosa di esente dai limiti non sarebbe una creatura, ma un Dio, mentre la creatura è detta limitata perché ha un termine nella sua grandezza, potenza, scienza e qualsiasi altra sua perfezione”.9 Le essenze delle creature sono nell’intelletto divino 9 G.W.LEIBNIZ, Causa Dei, cit., S. 69, p. l47 (GERHARDT, Phil. Schr. VI, 449).

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alla stessa stregua delle verità eterne, cioè le essenze sono immutabili e rappresentate dall'intelletto divino che non le pone in essere, diversamente dal Dio concepito da Cartesio come onnipotente e privo di qualsiasi tipo di condizionamento.

Per accentuare l'immutabilità delle essenze, Leibniz, nel brano citato, le pone sullo stesso piano delle verità eterne che sono valide, al di là del fatto che siano pensate o non pensate da un ente finito, sebbene siano pensate da Dio mediante il suo intelletto, inteso in senso soggettivo; questo, nondimeno, pone in luce una dimensione visiva e non operativa volta a cogliere immediatamente quanto è dato entro la sua natura, concepita come ambito dei possibili. La distinzione e ad un tempo l’identità fra intelletto, inteso in senso soggettivo, e intelletto, inteso in senso oggettivo, evita a Leibniz la difficoltà di affrontare il problema del diverso entro Dio - le verità eterne - con cui l’Essere supremo dovrebbe entrare in un rapporto conflittuale, con il rischio di perdere la perfezione e l'assolutezza di un Essere che è ragione di sé e non rinvia ad altro, fuori della sua natura, come avviene per tutti gli enti finiti. Nel brano citato, inoltre, Leibniz distingue le creature come possibilità dalla loro essenza, dove possibilità, non essendo del tutto equivalente ad essenza, fa pensare a due aspetti dello stesso concetto di creatura: le creature possibili sono i diversi esseri finiti — Cesare e Pompeo —, ad esempio, laddove l'essenza delle creature può, a nostro avviso essere interpretata o come riferentesi alle diverse essenze — ma in questo modo, non si capirebbe la ragione di distinguere le creature possibili dalla loro essenza — o come, ci sembra più sostenibile, l'essenza universale uomo, nel caso degli uomini, comune a tutte le possibili creature che hanno, come altra nota costitutiva, di essere limitate - male metafisico - e non assolute.

La distinzione e l'unificazione in Leibniz di possibilità ed essenza — dove possibilità significa non assenza di contraddizione, come possibilità logica, ma possibilità ontologica che dà risalto, in questo caso, ai possibili, propri degli infiniti mondi, che sono intelligibili rispetto al possibile attuato e scelto da Dio con il mondo esistente — rivela, a nostro modo di vedere, la difficoltà, propria del filosofo tedesco, che, per un verso, è portato

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a identificare le possibilità ideate dall'intelletto divino con le verità eterne, per un altro, a differenziare queste ultime dalle possibilità, ponendo il problema del loro stato ontologico entro l'intelletto divino che o rappresenta l'immutabile o pone l'immutabile — i diversi possibili appartenenti agli infiniti mondi —. Se le possibilità, tenendo presente la frase citata, sono identiche alle verità eterne, sono eterne e non prodotte da Dio che le trova entro il proprio intelletto, se, invece, le possibilità non sono identiche alle verità eterne, sono immutabili in un modo diverso rispetto alle verità eterne e fanno pensare alla distinzione tra increato e immutabile, dove solo Dio e la sua natura — intelletto e volontà volendo interpretarlo in termini di facoltà — sono increati, mentre i prodotti della sua attività, pur potendo durare per sempre, non per questo sono increati. Le verità eterne e i possibili, concepiti in modo statico, sono increati, laddove i possibili, considerati in modo dinamico in rapporto alle verità eterne, sono immutabili a partire dall'agire dell'intelletto divino che appare tanto in un aspetto contemplativo, quanto in un aspetto non contemplativo, come attività svolta dall'intelletto entro la sua natura — l'intelletto che opera nello stesso intelletto e che pone in rapporto i possibili che non stanno già in serie infinite compiute —.

Con ciò non si vuole affermare che Dio crea le serie delle cose dal nulla, ma che combina i possibili increati e non fra loro in rapporto che stanno entro il suo intelletto. Il Dio concepito da Leibniz è un Essere supremo che appare nella veste di un grande combinatore e non un Essere che crea, tranne a pensare alla teoria — e non ci pare che il filosofo, in questo ambito, ne faccia riferimento — espressa, nella Monadologia, con le monadi che, come folgorazioni, rivelano la creazione continua di Dio.10 Leibniz, ad ogni modo, diversificando i possibili già dati e i possibili composti da Dio in serie fra loro differenti e non increate, 10 G.W.LEIBNIZ, Monadologia, cit., S 47, p.376 (GERHARDT, Phil. Schr. VI,614): "Cosicché Dio solo è l'unità primitiva o la sostanza semplice originaria, e tutte le monadi create o derivate ne sono i prodotti; esse nascono per così dire, da fulgorazioni continue della Divinità, di momento in momento, limitate a seconda della ricettività della creatura, a cui la limitazione è essenziale".

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si imbatte nel tema della eternità in Dio che finisce col porre in evidenza due aspetti diversi: o come negazione del tempo — i possibili e i mondi possibili che stanno nell'intelletto divino e sono increati — o come durata continua — i possibili che sono combinati da Dio fra loro e che danno vita a infiniti mondi possibili —. La complessità, legata all'ammettere una durata in Dio e un prima distinto da un poi, cioè prima i possibili increati e, poi, la loro combinazione, come se l’eternità, propria dell’Essere, dovesse fare i conti con il tempo, visto che la combinazione dei possibili è un'operazione diversa dalla loro rappresentazione, spiega, a nostro avviso, la non chiarezza di Leibniz sul significato dei mondi possibili che, in tal modo, sono dati e fatti, a seconda delle opere del filosofo tedesco.

Facendo valere questa interpretazione, non sorprende la concezione di Leibniz, nella Teodicea, che Dio non crea l'essenza uomo che fa parte delle verità eterne, ma pone, seguendo la stessa opera, più Sesti nei mondi possibili, scegliendo di attuare il Sesto più perfetto in rapporto a una serie dì cose che sono in grado di individuarlo rispetto agli altri Sesti, idealmente presenti nei mondi possibili e meno perfetti.11

Sennonché, per spiegare il passaggio al reale del Sesto esistente in relazione ai tanti Sesti possibili, Leibniz si trova di fronte a un problema: come da una nozione universale si può pervenire a una sostanza individuale che opera nel mondo esistente? Per risolvere questo problema, Leibniz, facendo ricorso alla teoria dell'inerenza dei predicati in un soggetto, intende l'individuazione come progressivo accrescimento di predicati, a partire da una nozione più generale che fa quasi da tramite fra l’universale — l'uomo come animale razionale — e il singolare — questo determinato uomo situato in questo determinato mondo esistente —: Adamo, concepito in senso generale, che è dotato di un maggior numero di predicati rispetto alla nozione più generale di uomo considerato come animale razionale. La nozione generale di Adamo, infatti, oltre alle note, proprie del concetto di uomo, include altre note — primo uomo, ad esempio, — che, 11 G.W.LEIBNIZ, Teodicea, cit., loc. cit., (GERHARDT, Phil. Schr. VI, 363).

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determinando l'estensione del concetto di uomo, consentono di mediare l'uomo in universale con questo determinato uomo.

La determinazione, come si vede, appare sotto la veste di una maggiore attribuzione di predicati in relazione a1la nozione universale di uomo che, naturalmente, appartiene alla stessa essenza di Adamo concepito in senso generale. Il passaggio da una nozione più estesa a una nozione meno estesa — Adamo — avviene per accrescimento e attribuzione di predicati a un soggetto che, per tale via, finisce col restare entro l'ambito dei predicati, non raggiungendo, in tal modo, lo scopo che pure Leibniz si era prefisso, cioè la spiegazione di questo determinato individuo vivente in un definito mondo esistente, in una fase della sua storia: l’esistenza di Adamo, viene, in tale prospettiva, ristretta a un insieme collegato e ordinato di predicati attribuiti a un soggetto, posto in una certa serie di cose, l'esistenza, cioè, viene interpretata come insieme di predicati, perdendo ciò che in più questa presenta rispetto al campo dei predicati che sono altri dall'esistenza. Il mondo esistente finisce con l'essere inteso come un mondo possibile che passa all'esistenza, perdendo la distinzione tra essenza ed esistenza, dove il criterio del meglio diventa la ragione di un determinato mondo reale rispetto ai tanti mondi possibili, ideati dall’Essere supremo nel suo intelletto.

Questa critica alla nozione incompleta che diventa, nei modi indicati, nozione completa esistente, rimane valida, se si pone in rilievo la distinzione tra essenza ed esistenza, assume, invece, un significato differente se, lungi dallo spiegarla in funzione del mondo reale, scelto da Dio e attuato dalla sua volontà, si pone in luce la presenza di infiniti mondi possibili ideati, anche se non attuati, dall'Essere supremo. I mondi possibili, del resto, esistono come possibili nell'intelletto divino e non diventano esistenti perché meno perfetti in confronto a quello esistente; ciò vuol dire che per questi mondi non si può fare la considerazione critica, in base alla quale Leibniz finisce col confondere il possibile con il reale, l’essenza con l'esistenza. La molteplicità dei mondi possibili, al contrario, o è intesa, come già visto, in modo statico, facendo valere la loro immutabile presenza nell'intelletto divino, che si limita a cogliere entro se stesso ciò che è sempre eterno, o

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viene interpretata in modo genetico, rendendo attivo l'intelletto che non solo vede e contempla ma anche opera e produce: i possibili non sono più comprensibili come le verità eterne, proprie dell'intelletto divino considerato in senso oggettivo, quale ambito dei possibili e delle idee, da sempre dato e increato.

In base a tale prospettiva, i possibili, essendo diversi dalle verità eterne, non sono conosciuti da Dio come sono da sempre nel suo intelletto, in quanto sono prodotti, alla luce della teoria dell'inerenza, tramite la combinazione di differenti predicati che ineriscono ai diversi soggetti che, per loro conto, sono strettamente inseriti nei mondi possibili. La combinazione dei differenti predicati dà vita ai diversi mondi che constano di nozioni complete fra loro compatibili e come tali immutabili, visto che il cambiamento di un predicato, ritenuto accidentale, facendo cambiare tutto il mondo, si riferisce a un altro mondo, sicché Leibniz pone in relazione il mutamento con l'immutabilità, il fare divino con la chiusura e autosufficienza di ogni mondo rispetto agli altri. Pensare, ad esempio, a Pompeo che vince a Farsalo significa pensare a Pompeo che appartiene ad un altro mondo e non a quello attuato in cui Pompeo perde a Farsalo; da tale aspetto, il mutamento di un predicato non essenziale, come la sconfitta a Farsalo, è illusorio perché ogni modificazione di predicati inessenziali appartiene ad altri mondi ideati che sono immutabili. Per superare il contrasto indicato tra mutamento e immutabilità, è opportuno far intervenire sia la distinzione tra considerazione di un ente finito e considerazione di un Essere assoluto, dove ciò che è illusorio per l'uno non è tale per l’altro che è in grado di fondare il mutamento con l'immutabilità, sia l’idea di un intelletto divino, non meramente contemplativo, che può, per la sua natura e attività, spiegare l’apparente opposizione indicata, alla luce di un rappresentare che è un agire e di un agire che è immediatamente un rappresentare, senza che fra il rappresentare e l’agire vi sia non solo la successione temporale, propria di un essere finito e non di un Essere supremo, ma anche una distinzione essenziale tra le due attività che operano insieme.

Per capire questa concezione di Leibniz, è opportuno anche riconsiderare la risposta di Leibniz ad Arnauld sugli Adami

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possibili che vengono spiegati a partire da una nozione indeterminata di Adamo, concepita sub ratione generalitatis: “Quanto al primo punto [la pluralità degli Adami] dite, con molta ragione, che si possono così poco concepire più Adami possibili, prendendo Adamo come una natura singola, come concepire più me. Son d'accordo ma parlando di più Adami non prendevo Adamo come individuo determinato, bensì come una qualche persona concepita sub ratione generalitatis, in circostanze che ci sembrano determinare Adamo all'individualità, ma che in verità non lo determinano abbastanza: come quando s'intende per Adamo il primo uomo posto da Dio in un giardino paradisiaco da cui è cacciato per il peccato e dalla cui costa Dio trae una donna”.12 Per determinare Adamo è necessario attribuire altri predicati che ineriscono alla sua nozione completa, solo che, in ogni mondo, ci sono nozioni complete fra loro compatibili, sicché dall’Adamo inteso mediante predicati generali che appartengono a tutti gli Adami possibili, si passa ai diversi Adami fra cui Dio sceglie di farne passare uno all’esistenza. Il discorso di Leibniz ha sullo sfondo il riferimento degli Adami possibili ai diversi mondi tanto che, come abbiamo già visto, il cambiamento di un predicato non essenziale riguardante Adamo richiede il riferimento a un determinato mondo e non agli altri che sono differentemente articolati: dall'Adamo concepito in modo generale, Leibniz sposta il discorso agli Adami che, ferme restando certe note essenziali, sono situati nella molteplicità dei mondi che sono, ognuno per conto proprio, immutabili.

I molteplici Adami, considerati come determinazioni diverse di una stessa essenza, si scontrano con l'autosufficienza dei mondi che non sono fra di loro in rapporto: ciò si spiega anche con la caratteristica già rivelata che ogni mondo presenta una struttura parte - tutto, dove il cambiamento o la sostituzione di una singola parte farebbe cambiare il tutto che, in tal modo, appare immutabile. L’aspetto che sorprende nelle affermazioni di Leibniz è legato al fatto che il filosofo segue, nelle risposte ad Arnauld 12 G.W.LEIBNIZ, Corrispondenza con Arnauld, in Saggi filosofici. e lettere, cit., p.160 (GERHARDT, Phil. Schr. II, 54).

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sugli Adami possibili, il punto di vista della parte e non quello del tutto, laddove sembrava che Leibniz, cercando di porsi dalla prospettiva divina, seguisse il punto di vista del tutto in cui la parte rientra: Adamo è come parte di un tutto — il mondo — in cui è situato. E’ comunque, da notare che il vero soggetto, che sta sullo sfondo delle risposte di Leibniz ad Arnauld, non è Adamo considerato sub ratione generalitatis o l'Adamo possibile o reale, ma il mondo in cui Adamo rientra con l'insieme di tutti i suoi predicati. Sembra, infatti, che Leibniz, rispondendo ad Arnauld, segua una prospettiva limitata, mettendo in secondo piano che il vero soggetto è il tutto che appare in rapporto ai diversi mondi immutabile: l'inerenza dei predicati alla nozione di Adamo rinvia a un'inerenza più estesa che ha come soggetto il mondo in cui Adamo, insieme con le altre nozioni, rientra.

Per interpretare il rilievo dato da Leibniz alla parte — Adamo — rispetto al tutto — mondo — è il caso, a nostro avviso di porsi una domanda che, tenendo conto che ogni Adamo possibile appartiene a un determinato mondo, in sé compiuto e immodificabile, miri a indagare se Adamo, concepito sub ratione generalitatis, sia in relazione al concetto di mondo. Volendo porre questa domanda, è il caso di rispondere che l’Adamo considerato in senso generale, proprio a causa della sua parziale determinazione, non sembra appartenere ad alcun mondo, mentre gli altri Adami possibili, in cui lo stesso Adamo reale rientra, si riferiscono a mondi diversi ideati dall'intelletto divino. Ciò significa che Leibniz non passa dai mondi possibili al mondo attuale, ma dalle nozioni non determinate, come quella di Adamo, ai mondi possibili e da questi al mondo reale, nel tentativo di fondare sia il mondo esistente, sia la molteplicità dei mondi possibili che, secondo questa prospettiva, non sono immutabilmente contenuti entro l'intelletto divino che si limiterebbe a rappresentarli, senza svolgere alcuna funzione dinamica. L’intelletto divino, ad ogni modo, non limitandosi a vedere in modo chiaro e distinto quanto poi la saggezza divina attuerà nel reale, finisce con lo svolgere un ruolo più complesso, ponendo in rilievo un vedere che non esclude un agire e, nello

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stesso tempo, un agire che lascia posto a un vedere, nella teoria leibniziana dei mondi possibili.