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1 Seduta della Camera dei Deputati del 30 maggio 1924. Per l’on. Giacomo Matteotti è l’ultima. Lo si vede ritratto vicino alla croce. IL 10 GIUGNO 1924 ERA RAPITO E TRUCIDATO DALLA POLIZIA POLITICA ITALIANA Giacomo Matteotti deputato socialista e massimo oppositore al Regime fascista EROE VENETO Giacomo Matteotti nacque a Fratta Polesine, in provin- cia di Rovigo, il 22 maggio 1885. La famiglia era origina- ria di Comasine, nella valle di Pejo, nel Trentino. Il nonno Matteo, di mestiere calderaio, commerciava di frequente in pianura e finì per stabilirvisi con la moglie Caterina. Nel 1839 nasceva Gerolamo, il padre di Giacomo. La madre, invece, si chiamava Elisabetta Garzolo (detta Isa- bella). La coppia aveva aperto nel Rodigino un piccolo emporio (di tessuti, attrezzi agricoli, ferramenta, articoli casalinghi), che grazie ad una gestione avveduta permette alla famiglia di investire in terreni e fabbricati.

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Seduta della Camera dei Deputati del 30 maggio 1924. Per l’on. Giacomo Matteotti è l’ultima. Lo si vede ritratto vicino alla croce.

IL 10 GIUGNO 1924 ERA RAPITO E TRUCIDATO DALLA POLIZIA POLITICA ITAL IANA

Giacomo Matteotti deputato socialista e

massimo oppositore al Regime fascista

EROE VENETO Giacomo Matteotti nacque a Fratta Polesine, in provin-

cia di Rovigo, il 22 maggio 1885. La famiglia era origina-ria di Comasine, nella valle di Pejo, nel Trentino. Il nonno Matteo, di mestiere calderaio, commerciava di frequente in pianura e finì per stabilirvisi con la moglie Caterina.

Nel 1839 nasceva Gerolamo, il padre di Giacomo. La madre, invece, si chiamava Elisabetta Garzolo (detta Isa-bella). La coppia aveva aperto nel Rodigino un piccolo emporio (di tessuti, attrezzi agricoli, ferramenta, articoli casalinghi), che grazie ad una gestione avveduta permette alla famiglia di investire in terreni e fabbricati.

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I fondi agricoli acquistati si rivelano redditizi, sicché la famiglia ha i mezzi per far studiare Giacomo e i suoi fratelli; nel 1907 si laurea in Giurisprudenza all’Università di Bologna con una tesi sulla recidiva nel diritto penale, che pubblica nel 1910.

UN UOMO CHE RACCHIUDEVA IN SÉ LE PIÙ ALTE VIRTÚ

DI SINISTRA, MA NON ANTICLERICALE . Giacomo ed il fratello Matteo, in tempi di forti tensioni

tra socialisti e cattolici, erano impegnati nel dialogo tra le forze popolari, nella convinzione che il riscatto delle classi lavoratrici dovesse avvenire nel rispetto dei riferimenti culturali della gente semplice.

DAVANTI AD UNO STATO MOSTRUOSO E AD UNA SOCIETÁ OPP RESSA. Nei primi del

Novecento la situazione delle comunità rurali è segnata da una miseria catastrofica. Il Regno d’Italia tassa in modo selvaggio i beni di prima necessità, mentre i socialisti si battono per l’abolizione della tassa sul grano e per l’introduzione di quella patrimoniale. Lo Stato dilapida il pubblico erario: del miliardo e 671 milioni di lire del bilancio annuale, un terzo se ne va in spese per armamenti e circa 700 milioni sono persi per pagare il debito pubblico; ai servizi per i cittadini sono riservati appena 400 milioni (circa il 20%). L’impegno politico di Gia-como inizia a sedici anni; nel 1904 è responsabile per il Comitato centrale del collegio di Lendinara, nel 1910 è e-letto a furor di popolo al Consiglio Provinciale di Rovigo.

CONTRO L'IMPERIALISMO FORSENNATO . “Né un uomo né un soldo per l’Africa”, così egli con-

duce l’opposizione alla guerra di Libia (1911-12), appoggiando anche l’espulsione dei “socialpatriotti”, gli inter-ventisti interni al partito socialista. Instancabile è la sua presenza nei comizi e sulle pagine dei giornali per contra-stare la retorica di Stato e denunciare la realtà della guerra coloniale. All’alba della guerra mondiale 1915-18, Mat-teotti presagisce la scarsa volontà di mantenere una politica neutrale da parte del Regno d’Italia, lottando con tutte le forze per far schierare il partito socialista contro il futuro inutile massacro (costerà al Paese 600.000 morti, oltre a un milione tra mutilati ed impazziti). La gran parte delle vittime saranno di ceto contadino e artigiano, persone del tutto estranee alle motivazioni del conflitto. Per impedire la guerra i socialisti non avevano scartato neppure l'ipote-si dell’insurrezione generale. Nel maggio 1915 Matteotti scrisse: «L'Italia ha voluto la guerra, si è poi detto; e o-gnuno ha visto l'Italia nelle dimostrazioni di studenti che non si arruolano, di impiegati che si sono assicurati l'eso-nero dal servizio militare e la paga intera per tutto il tempo di guerra. Ognuno di noi ha visto l'Italia in quella ma-snada di gente che dopo aver per anni piegata la schiena a Giolitti, attendendone favori, ieri è uscita per comando sulle porte dei Ministeri e ha ottenuto mezza giornata di vacanza perché andasse a dimostrare. Ognuno di noi ha visto il degno poeta d'Italia in quel piccolo mantenuto di donne, fuggito in Francia per debiti e restituitoci per porto affrancato dalla massoneria repubblicana [sta parlando di D'Annunzio]...».

LUNGIMIRANTE E FEDERALISTA . Bisogna sapere che larga parte della sinistra, prima dell’ultima

guerra, aveva idee diverse e assai più critiche sull’Italia unita. Così, anche Matteotti considerava più avanzate quel-le soluzioni (già allora applicate in varie parti d’Europa) che garantissero autonomia e libertà vera ai diversi popoli presenti in uno Stato, a prescindere dalle questioni sui confini (in analogia con le odierne tesi federaliste, ma in contrasto con il dogma dell’"indivisibilità" dello Stato, postulato nell’odierna carta costituzionale). Potenziare gli enti locali è un tratto peculiare del suo pensiero.

POLITICO RIGOROSO ED INCORRUTTIBILE . Eletto in Consiglio Provinciale di Rovigo, Matteotti

esprimeva sempre la sua posizione con chiarezza e competenza, preciso fino alla pedanteria, anche a costo di di-spiacere ai suoi compagni di militanza. In quella sede si opponeva spesso al ricorso sistematico alle deliberazioni d'urgenza. Costante attenzione dedicò ai contratti che l'amministrazione stipulava con le imprese private appaltatri-ci di grandi opere (p.e. le concessioni accordate alla Società Vicentina per la rete tranviaria). Le sue denuncie pro-vocheranno le dimissioni di Casalicchio, presidente del Consorzio granario. Organizzatore di leghe e di cooperati-ve, consulente di amministrazioni comunali e amministratore egli stesso, revisore severo di bilanci, fu definito "propagandista di piccole cose, mediante le quali tocca la sfera dei principî con schematica sobrietà". Si occupa di patti agrari, di scuole, di strade, di telefoni: organizza e guida visite ai musei. Fu artefice e protagonista di un vitale riformismo che fece divenire patrimonio comune al mondo contadino della Val Padana, promuovendo nuove forme di vita associata, sentimenti di solidarietà e di riscatto dall’avvilente sfruttamento portato dallo stato unitario italia-no. Nella sua operosità quotidiana godeva di enorme popolarità, per converso facendo apparire la sua figura defilata all’interno del partito, che spesso rimaneva avviluppato nelle controversie ideologiche e nelle lotte tra correnti.

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MUSSOLINI LO ODIAVA . Il 24 ottobre 1914 Matteotti sul quotidiano La Lotta plaude alla rimozione di Benito Mussolini (prima rivoluzionario radicale e agitatore della povera gente, in seguito divenuto di colpo nazio-nal-interventista) dalla direzione del quotidiano L’Avanti. Il futuro Duce - ai tempi della militanza socialista - pre-dicava l'uso della forza come metodo costante di lotta (il 27 settembre 1911 Benito fu arrestato a Forlì per aver ca-peggiato scontri violenti contro la guerra in Libia), salvo presentarsi dieci anni dopo come l'unico garante della pa-ce sociale, contro le lotte operaie in Italia, mentre vent’anni dopo scatenerà un turbine di orrori sanguinari con le guerre coloniali in Libia e nel Corno d’Africa.

A FIANCO DEI BRACCIANTI CONTRO IL TERRORE FASCISTA. L’impegno contro la guerra

di stato costò a Matteotti l'odio dei possidenti agrari, legati alla massoneria. Con singolare senso profetico, gli dedi-carono durante la Grande Guerra uno strano titolo sul loro giornale, Il Corriere del Polesine: "Il Dottor Matteotti deve scomparire".

Il 5 giugno 1916 un suo intervento in Consiglio Provinciale provoca una gazzarra dichiarando a gran voce: «Ab-basso la guerra, questa è una guerra nefasta da noi socialisti ufficiali non voluta, siete degli assassini, a noi non importa che il nemico sia alle porte, siete dei barbari in confronto degli Austriaci. Le manifestazioni patriottiche sono delle provocazioni ai sentimenti!». Il Prefetto lo denuncia e il tribunale lo condanna a trenta giorni d'arresto per "espressioni sediziose e disfattismo". Dopo un lungo processo, la Cassazione lo proscioglie.

Ma è con la fine della Grande Guerra che esplode una lotta di classe quale il Veneto, ed in particolare il Polesi-ne, mai avevano conosciuto. A partire dal 1921 la casta dei possidenti agrari reagisce contro le conquiste dei pove-ri braccianti: le leghe popolari erano riuscite a controllare gli uffici di collocamento (ben 450), avendo diritto d'in-tervento nella gestione e distribuzione del lavoro. Inoltre, la sinistra sostenitrice dei contadini ora può contare su 72 sezioni socialiste, 70 cooperative, amministrazioni a guida socialista, ecc. I latifondisti fanno un blocco unico con lo Stato italiano, pilotano il Prefetto, controllano esercito, polizia e magistratura. In tal modo sono in grado di dare copertura ad un'inedita campagna di aggressioni e violenze tramite squadre di picchiatori, da essi stessi costituite. Specie durante la notte, amministratori pubblici (p.e. il Presidente della deputazione provinciale di Rovigo) subi-scono assalti nelle proprie dimore, si incendiano casolari, i lavoratori e i loro rappresentanti sono vittime d’imboscate, cadono feriti o uccisi. Le case del popolo sono date alle fiamme. La reazione dei contadini è di sgo-mento, c'è chi intende reagire all'aggressione, ma i dirigenti politici riescono a placcarli con raccomandazioni e consigli. A Roma il 3 agosto 1921 viene siglato il c.d. "patto di pacificazione" che limita le attività politiche in cambio della cessazione delle violenze: i socialisti decidono di accettare loro malgrado, ma i padroni subito scon-fessano l'accordo perché il loro potere si regge sul terrore. Gli squadristi sono infatti l'unico mezzo per neutralizza-re le organizzazioni dei lavoratori.

Sul Corriere del Polesine la voce padronale scrive il 9 agosto 1921: «Oggi non invitiamo ma ordiniamo ai fasci-sti di tenere pronte le armi perché non vogliamo in nessun modo e per nessun motivo sottoscrivere il trattato della nostra morte». Nel giro di pochi mesi si susseguono 20 omicidi. Viene smantellata tutta l'organizzazione politico-sindacale contadina. La notte del 12 marzo 1921 Matteotti è sequestrato a Castelguglielmo e insultato per ore, ab-bandonato in aperta campagna, dopo aver ricevuto sputi e colpi di pistola intimidatori. A Padova, dove si è rifugia-to, il 16 agosto 1921 è inseguito da tre fascisti in moto che lo aspettano fuori dalla Camera del Lavoro. Poco dopo, Matteotti a Varazze è ancora minacciato ed insultato per strada. Ovunque è in pericolo: a Cefalù in Sicilia è aggre-dito e a Siena è malmenato. Le camice nere coprono d'insulti anche la madre di Giacomo, che va a trovarlo a Le-gnago (VR), dove è esiliato.

Nell’ottobre del 1921, al congresso socialista di Roma, la spaccatura fra riformisti e massimalisti diventa insa-nabile. Nell’anno successivo Matteotti si schiera con i riformisti di Turati ed esce dal partito dando vita ad una nuova formazione politica: il partito socialista unitario. Non è mai stato l’uomo dei compromessi e non è simile a Turati, tuttavia la decisione della questa svolta deriva dal rifiuto verso il modello sovietico, verso cui tendono tante correnti del partito socialista, desiderose di ricongiungersi ai comunisti.

ELETTO IN PARLAMENTO: LA STRETTA FINALE . Matteotti fu eletto in Parlamento per la prima

volta nel 1919, in rappresentanza della circoscrizione Ferrara - Rovigo. Fu rieletto nel 1921 e nel 1924. L'intransi-genza di Matteotti verso il fascismo continua sino alla sua soppressione fisica. Anche all'interno del suo partito, egli esprime un contrasto frontale gli ammiccamenti di certi sindacalisti verso Mussolini. Nell'ottobre del 1923 co-mincia a mettere assieme la documentazione che darà vita alla sua cospicua opera Un anno di dominazione fasci-sta. Alla propaganda del regime contrappone numeri, dati, fatti, scritti; dopo la sua morte ne vengono vendute in un mese più di 20.000 copie, con edizioni in francese, inglese e tedesco.

Questo trattato dimostra che Mussolini è stato mandato al potere proprio quando le tensioni sociali si erano stemperate e che il fascismo non ha pacificato alcunché. Nella prima parte, Matteotti analizza la grave crisi finan-ziaria seguita alla guerra, che pure era stata riassorbita dai governi precedenti: i miglioramenti si devono solo alla conseguente ripresa economica, già impostata in precedenza. In realtà, con il primo governo fascista del 1923, la

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bilancia commerciale è peggiorata, è aumentato il costo della vita, il salari sono diminuiti, la disoccupazione è au-mentata. Nella seconda parte fa una rassegna dei principali atti del nuovo governo, rivolti con forza a favorire la grande impresa e soprattutto le banche, a dispetto delle dichiarazioni ideologiche della destra. Nella terza il deputa-to sviluppa un'aspra critica contro un autoritarismo all'insegna dello spregio per la legalità. I discorsi degli espo-nenti fascisti sono un continuo incitamento alla violenza: bandi, minacce, intimidazioni, arresti, processi arbitrari, olio di ricino, esecuzioni sommarie, smantellamento di circoli operai, di sedi di partito, di abitazioni private, assalti alle aule di tribunale, violazioni della libertà di stampa, divieti di riunione sindacale. Grande attenzione egli rivolge in positivo alle generali condizioni di vita e ai mali del mondo dell'istruzione.

IL DELITTO Il 6 aprile 1924 si tennero le elezioni politiche, con una nuova legge elettorale che prevedeva un largo premio

per il partito o la coalizione di maggioranza relativa. Le operazioni di voto erano state ovunque turbate da violenze ed intimidazioni, tali da garantire la vittoria del governo. Il 24 maggio i fascisti fecero riunire la Camera con l'in-tento di rivendicare la "vittoria bellica", ricorrendo quel giorno il 9° anniversario della dichiarazione di guerra. Vit-torio Emanuele III dichiarò nel discorso inaugurale che: «oggi la stessa generazione della vittoria regge il governo e costituisce la grande maggioranza dell'Assemblea elettiva», riconoscendosi così nel fascismo e legittimando il suo strapotere.

Il 30 venne proposta dalla giunta delle elezioni la convalida di quasi tutti gli eletti. Giacomo Matteotti prese la parola. Nel suo memorabile discorso denunciò fuori dai denti fatti e circostanze, i soprusi subiti dai candidati delle opposizioni, a cui era stato persino impedito di circolare nelle circoscrizioni, costretti persino a cambiare residenza, venendo alcuni assassinati. Indicò una serie di illegalità compiute: formalità notarili impedite, incetta di certificati, divieto di assistere al voto, fascisti introdotti nelle cabine. Concluse chiedendo che la consultazione fosse annulla-ta. Si immagini l’atmosfera in cui il deputato rodigino si accingeva a parlare: l'intervento che poteva durare una ventina di minuti per essere pronunciato, si protrasse per oltre un'ora per la gazzarra, le urla e le interruzioni conti-nue della destra. Scrisse a caldo Filippo Turati: «Fui entusiasta di Matteotti. Era il mio gran patema che la discus-sione sulle elezioni ci trovasse impreparati, cogliendoci all'improvviso. Così fu infatti, ma Matteotti seppe improv-visare e tener duro con tutta la vigoria della sua volontà e della sua invidiabile giovinezza. E le cose essenziali riu-scì a dirle malgrado un baccano infernale».

Ai compagni che si congratulavano con lui, il deputato veneto rispose con un sorriso amaro: «Ed ora potete anche prepararmi l'orazione funebre».

In effetti, Mussolini scrisse esasperato sul Popolo d'Italia del 1° giugno che la maggioranza era stata sin troppo paziente e che la provocazione meritava ben altro che una risposta verbale. Da tempo il Duce aveva fatto costituire una polizia segreta agli ordi-ni del Partito Nazionale Fascista, denominandola con macabra i-ronia Ceka, seguendo il modello sovietico. Ai suoi membri aveva assicurato l'impunità per i reati da compiere consapevole che (pa-role sue): «con il possesso degli organi ufficiali dello Stato ab-biamo modo di mettere lo spolverino su tutte le violenze illegali». La banda aveva compiuto numerosi delitti in Italia e all'estero; a finanziarla in gran segreto era l'ufficio stampa della Presidenza del Consiglio.

La sera dell'11 giugno 1924, il deputato unitario Modigliani, allarmato dalla famiglia che non lo vedeva tornare a casa, andava alla Questura a denunciare la sparizione dell'amico Giacomo Matteotti. Non si sapeva ancora che la Ceka lo aveva prelevato il giorno prima alle 16,30 sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, mentre usciva di casa. Era-no in 5 gli energumeni agli ordini di Amerigo Dumini che lo trascinarono a forza in un'auto: con lui erano Augusto Malacria, Albino Volpi, Ettore Viola, Amleto Poveromo (Otto Thierschald basista). La vittima cercò di resistere ed invocare aiuto, ma venne percosso e pugnalato. Mussolini era stato informato dal segretario del partito Marinelli, che gli aveva consegnato la tessera da deputato ed il passaporto. La mattina del 12, infatti, Dumini era andato dal segretario particolare del Duce, Arturo Benedetto Fasciolo a render conto del "buon esito della missione". Il 13 giugno alla Camera, fingendo di ignorarne la sorte, Benito promise alla Camera che avrebbe fatto arrestare i colpe-voli. Dichiarò che la coscienza del governo era tranquilla e che nessuno doveva strumentalizzare i fatti. Nello stes-so giorno, il 13, tutte le opposizioni presero quindi la decisione di disertare i lavori parlamentari, finché non si fosse fatta chiarezza nella vicenda: era la secessione dell'Aventino. I non fascisti prendevano così atto dell'impossibilità di giocare un ruolo nella vita pubblica, mentre per Mussolini si apriva una nuova fase, la dittatura totale. Il Duce

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ordinò, quindi, di dimettersi al capo della polizia De Bono, al sottosegretario agli Interni Finzi e a Cesare Rossi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e lasciò che Rossi, Marinelli, Dumini e altri fossero arrestati. Nominò ministro dell'Interno il monarchico Federzoni, così guadagnò tempo e tranquillizzò i Savoia.

Il cadavere decomposto fu scoperto solo in agosto, sepolto in una buca nel bosco della Quartarella, alla periferia di Roma. Il ritrovamento fu pilotato dal Regime, che inscenò un rinvenimento casuale ad opera del cane di un guardacaccia. "Il Gazzettino" del 17 agosto titolava "Il cadavere di Matteotti scoperto in una boscaglia. Ha il petto squarciato da una lima". Era l'ennesima infame montatura: l'autopsia diagnosticherà ferite da pugnale (familiare a-gli arditi di cui era composta la Ceka), ma per far passare l'omicidio come preterintenzionale la salma fu inumata con una lima conficcata nel petto, come se per il delitto fosse stata usata un'arma casuale ed impropria.

Tanti storici - Renzo De Felice in prima fila - hanno sempre insistito sul ruolo defilato del Duce nell'organizza-zione dell’assassinio. I provvedimenti giudiziari che la magistratura riuscì ad assumere, pur in mezzo a mille in-tralci, cagionarono il malumore e la sollevazione delle camice nere contro il loro capo supremo e carismatico, che cercava di simulare la sua estraneità ai fatti. Ad un certo punto, il 3 gennaio 1925, Benito si decise a pronunciare un famoso discorso in Parlamento per garantire la necessaria copertura politica ai suoi scagnozzi. Ebbro di un'ar-roganza megalomane, si dichiarò colpevole del misfatto nell'Aula pubblica (si processò da solo e trasformò la colpa in onore al merito) in questi termini: «L'art. 47 dello Statuto dice: 'La Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i ministri del Re e di tradurli innanzi l'Alta Corte di Giustizia'.- Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera c'è qualcuno che si voglia valere dell'art. 47. Il mio discorso sarà quindi chiarissimo. Sono io, o Signori, che levo in quest'Aula l'accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una 'Ceka': dove, quando, in quale modo? Nessuno potrebbe dirlo. Si dice: - 'Il Fascismo è un'orda di barbari accampati nella nazione, è un movimento di banditi e di predoni'. S'inscena la questione morale... e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia. Ma poi, o Signori! Quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di quest'Assemblea, e di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi, più o meno storpiate, bastano per impiccare un uomo, fuori il palo, fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa. Se il Fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! ».

Per chi volesse rivivere il clima di quegli anni, ne propone una fedele ricostruzio-ne il film "Il delitto Matteotti" (1973) del regista Florestano Vancini. Memorabili le interpretazioni di Mario Adorf (Benito Mussolini), Franco Nero (G.M.), Vittorio De Sica (giud. istr. Mauro Del Giudice), Gastone Moschin (Filippo Turati). La pellicola risente delle atmosfere plumbee del cinema impegnato anni '70 e sembra ammonirci sulla natura malefica di un sistema di potere ancora vivo ai giorni nostri.

I scellerati assassini (difesi dall'avvocato Farinacci, uno dei massimi gerarchi e capo delle camice nere) subiranno un compiacente processo nel 1926, che sarà porta-to a Chieti, “la città più fascista d'Italia”; condannati a sei anni circa, vengono rimes-si in libertà dopo appena due mesi di detenzione. Riaperto dopo la cosiddetta “libe-razione”, il processo-farsa nel 1947 si ripete: sarà riconfermata la sostanziale impu-nità agli autori di uno dei crimini più aberranti dell’Italia unita (pronunciate le con-danne all'ergastolo, ma poco dopo quasi tutti fuori: la detenzione massima la subisce Dubini, che però è scarcerato solo dopo 9 anni ed impiega il resto della sua vita in li-ti giudiziarie per riavere le ricchezze che il regime gli ha elargito come prezzo dei suoi servigi).

Mauro del Giudice, l’integerrimo magistrato che aveva condotto le indagini e istruito il processo, aveva assunto la carica Presidente di Sezione della Corte d'Appello di Roma il 9 aprile 1922, cioè prima della marcia su Roma. Il ministro fascista di Grazia e Giustizia Oviglio lo promuoverà a Procuratore Generale di Cassazione per estrometter-lo dal processo. Nel 1954 (3 anni dopo la sua morte) fu pubblicata la sua opera Cronistoria del processo Matteotti; nell'ultimo capitolo leggiamo: «A Chieti la giustizia venne oscenamente stuprata, poiché colà non si fece la causa per giudicare e punire i delinquenti e complici ma, invece, cosa che supera i limiti della credibilità, si fece la causa contro l'assassinato. Infatti furono esaminati testimoni falsi [tra cui Kurt Suckert, il tanto blasonato scrittore filofa-scista Curzio Malaparte n.d.a.] che, con menzognere deposizioni, tentarono oscurare la chiara fama della vittima infelice, e tutte le arringhe pronunziate nel corso del dibattimento non furono, in sostanza, che tante requisitorie, specie quella del Farinacci, difensore del capobanda dei sicari, contro il glorioso ed eroico Martire della Libertà e delle giuste rivendicazioni dei diritti del proletariato italiano. Quel pseudo giudizio pose in chiara luce di fronte al mondo civile inorridito non solo la corruzione di magistrati ed uomini politici, ma altresì la corruzione di un intero popolo, che in parte plaudì e in parte assistette impassibile, senza emettere un solo grido di protesta, allo spettacolo di tanta infamia, di tanta iniquità. Sono giunto alla fine della mia ingrata fatica, uscendo dal lurido pantano di pu-tridume che ho descritto e narrato con la maggiore obiettività possibile».

La locandina del film

"Il delitto Matteotti", 1973

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Due recenti pubblicazioni, La banda del Viminale di Giuliano Capecelatro e Franco Zaina, e Il delitto Matteotti: affarismo e politica alle origini del fascismo di Mauro Canali sfatano la leggenda dell'estraneità del capo del fasci-smo alla pianificazione del misfatto: risulta invece che lo seguì passo passo. È emerso che Marinelli e De Bono a-vevano fatto uscire di galera Otto Thierschald per metterlo alle calcagna di Matteotti. Lo avrebbe dovuto eliminare nel corso di un viaggio in Austria, facendo apparire il delitto come una faida tra socialisti. Per indurlo a quel viag-gio, infatti, De Bono (Capo della polizia) fece restituire il passaporto a Matteotti, che provvidenzialmente vi rinun-ciò. Il discorso che costò la vita al nostro deputato forse non fu quello del 30 maggio, ma quello che aveva prepara-to per l'11 giugno e che non fece mai. In quell'occasione avrebbe potuto divulgare un dossier sui loschi traffici che facevano capo ad Arnaldo Mussolini e al re d'Italia, Vittorio Emanuele III. Si tratta di una storia complicata che aveva al centro una concessione per estrazioni petrolifere cui mirava il colosso americano Standard Oil (multina-zionale dei Rockefeller). Dietro c'era il versamento di tangenti per finanziare il P.N.F. e i giornali fiancheggiatori del Regime. Matteotti era stato clandestinamente in Inghilterra dove era stato rifornito di documenti (tramite la loggia massonica The unicorn and the Lion) dal governo di Londra, interessato a difendere la Anglo Persian contro l'americana Standard Oil: in questo quadro s’inseriva la Sinclair Oil Company, i cui maneggi avevano coinvolto le massime sfere del potere dell’epoca.

Il danno d'immagine che il regime avrebbe ricevuto dallo scandalo sarebbe stato assai più grave degli abusi e delle violenze in campagna elettorale denunciati nella famosa seduta del 30 maggio; inoltre, tale denuncia pubblica avrebbe scompaginato i piani di finanziamento illegale. Questo filone d’indagine per la ricostruzione della vicenda è stato percorso da Franco Scalzo nel suo Matteotti, l’altra verità. L’elemento fondamentale che fa propendere per il movente affaristico in questo delitto fu la sua esecuzione precipitosa e male organizzata; si ritiene che fosse già stato ordito un piano di soppressione del pericoloso oppositore, ma che in quel preciso momento gli eventi precipi-tassero e bisognasse impedirgli di denunciare all’opinione pubblica fatti compromettenti, che avrebbero squarciato il velo su impensabili intrecci a livello internazionale.

Il dittatore fascista va visto come responsabile in generale dell’accaduto, ma potrebbe aver solo avvallato e co-perto un’operazione voluta da quella rete occulta di potere economico-finanziario, che ebbe un ruolo primario nell’ascesa del Regime. Non si dimentichi che, quando Mussolini si impadronì del potere nel 1922 con la Marcia su Roma, egli era circondato dai cosiddetti quadrumviri – Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi – tutti affiliati alla massoneria; Mussolini stesso in quel periodo fu fregiato della sciarpa di 33° grado da Raoul Palermi, Gran Maestro a Piazza del Gesù. Anche l’altra setta dominante in Italia, quella laicista e razionalista (progressista, insomma) di Palazzo Giustiniani (G.O.I., Grand’Oriente d’Italia) fu entusiasta della Marcia su Roma, tant’è vero che il Gran Maestro Domizio Torrigiani allora commentò: «Questa rivoluzione ha un’anima massonica!». Per comprendere davvero l’assetto di potere occulto a livello mondiale - di cui vari governi sono spesso l’espressione - va ricordato che l’Alta Finanza, dominata dalle banche ebraiche, sostenne l’ascesa sia del fascismo, sia del nazismo. In partico-lare, il banchiere Thomas William Lamont (1862-1947), principale associato della banca J.P. Morgan, appoggiò nel 1926 il fascismo elargendo un prestito di 100 milioni di dollari al governo italiano.

Il prestito servì a stabilizzare la lira e con essa il regime. Su esortazione della stessa J.P. Morgan & Co., nel 1926 al Ministro delle Finanze italiano (il frammassone Giuseppe Volpi di Misurata), era conferito il controllo del-la politica monetaria nazionale attraverso la Banca d’Italia. Il conte Volpi era l’anello di collegamento con l’Alta Finanza anglosassone essendo l’uomo di fiducia del banchiere ebreo Giuseppe Toepliz (1866-1938), insediatosi al-la guida della Banca Commerciale Italiana fin dall’inizio del ‘900.

Nel 1905 la ditta granaria mondiale Louis Dreyfus & Co. (massimo grossista di Odessa), aprì un conto corrente presso la Comit (Banca Commerciale Italiana), la cui filiale di Venezia era presieduta proprio da Giuseppe Toepliz, in quegli anni impegnato in strette relazioni con i fondatori delle Assicurazioni Generali, i Morpurgo; quando le leggi razziali italiane obbligarono la dirigenza ebraica a ritirarsi, i Morpurgo dovettero farsi da parte e il Conte Volpi, loro uomo di fiducia, occupò i vertici del colosso assicurativo, divenendone il Presidente nel 1938.

Secondo Franco Scalzo è in questa situazione che matura l’omicidio di Matteotti: «in questo spazio si è, appun-to, inserita la lunga sequenza di documenti che provano diverse cose: che Matteotti fu ucciso per impedire che fa-cesse rivelazioni. Rivelazioni sul coinvolgimento di alcuni ambienti (legati alla Banca Commerciale) in certi loschi affari riguardanti i petroli, il gioco d’azzardo ed il traffico d’armi; che gli ispiratori e gli esecutori del delitto era-no già da diverso tempo in rotta di collisione coi vertici del Pnf, sebbene si fossero infiltrati nell’entourage di Mus-solini». Per comprendere le tante zone oscure della vicenda forse bisognerebbe approfondire i rapporti tra Standard Oil, J.P. Morgan & Co. e Banca Commerciale Italiana.

EDOARDO RUBINI giugno 2007

bibliografia essenziale: AA.VV. , Giacomo Matteotti 1885-1924. Edito da “Archivio per la storia” , Verona, 1996.

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CAPECELATRO G. - ZAINA F., La banda del Viminale, Milano, 1996. CANALI M., Il delitto Matteotti: affarismo e politica alle origini del fascismo, Bologna, 2004. EPIPHANIUS , Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia, Roma, 2002. SCALZO F., Matteotti, l’altra verità, Milano-Roma, s.d. ZAGHI V., Giacomo Matteotti (Profili novecenteschi / 1), Verona, 2001.

Contadini veneti, dietro il cancello della stazione ferroviaria di Fratta Polesine, attendono con mazzi di fiori l’arrivo del treno con il feretro dell’on. Giacomo Matteotti il 21 agosto 1924.