Ero Gay-Libro Luca Di Tolve

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LUCA DI TOLVE ERO GAY A Medjugorje ho ritrovato me stesso

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LUCA DI TOLVE

ERO GAYA Medjugorje ho ritrovato me stesso

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I Edizione 2011

© 2011 - EDIZIONI PIEMME Spa20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

Anno 2011-2012-2013 - Edizione 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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Invito alla letturadi mons. Giovanni d’Ercole

Ho letto con grande attenzione e interesse questa testimo-nianza di Luca, che ho avuto modo di incontrare ormaipiù volte. Una testimonianza personale, toccante e permolti versi coraggiosa: va letta con lo spirito aperto e liberodi chi non nutre preconcetti, ma è consapevole che ilcuore di ogni essere umano è un mistero, mistero di amorenon sempre però decifrabile sino in fondo nella sua verità.

Luca racconta il suo percorso fatto di fughe e di buio,che, a un certo punto, scopre la bellezza della luce cherischiara dentro l’animo. E tutto riparte in modo nuovo

In un’epoca in cui il disprezzo per il «diverso» porta agesti di intolleranza assurda e non di rado omicida, que-sta è una storia che va guardata con attenzione, ponendosiin ascolto di un Dio che ci ama come siamo per rendercicome Lui ci vuole. Nella nostra epoca, dove spesso uncerto conformismo culturale porta a semplificare eccessi-vamente il tema dell’identità sessuale, accusando troppoalla leggera di omofobia chi, ispirandosi al Vangelo, pre-senta l’argomento della sessualità umana in maniera chepuò sembrare contro corrente, la testimonianza di Luca èun esempio da considerare senza volervi vedere un giudizionei confronti di chi fa altre scelte.

Ognuno in fondo è alla ricerca delle felicità e assetatodi amore. Luca ci racconta come ha incontrato la felicitàche coabita con la sofferenza e la fatica.

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A ben vedere, allora, il suo racconto può essere unincoraggiamento per chi è alla ricerca, e un sostegno perchi, dibattendosi nella fatica della propria vita, non sa achi rivolgersi. In questo libro può trovare una porta aper-ta e un sentiero già percorso da altri; per questo più faci-le da intraprendere.

Per chi è credente l’abbraccio di Maria, la Madre diDio, è da sempre il rifugio sicuro e la guida consolanteverso l’incontro con Gesù, l’unica vera riposta ai quesitiesistenziali che abitano il cuore dell’uomo.

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Per una premessa

DISINCANTO E RINASCITA

A un certo punto l’esistenza che conduci non ti soddisfa più.Hai provato tanto, ti chiedi se non hai provato tutto esenti che stai mettendo a repentaglio anche la salute. Ma,quel che è peggio, ti accorgi che non sei felice.

Hai spostato l’asticella più su, hai bevuto sempre di più,hai tirato di coca, hai fatto sesso con più partner contem-poraneamente e in trenta pose diverse…, ma la qualitàdella vita non è migliorata.

Allora, come per incanto, cominci ad accorgerti dellenebbie soffocanti che ti circondano, ma nell’attimo stessoti avvedi che hai poco tempo e due sole possibilità: olasciarti inghiottire e morire con esse, o provare a riemer-gere, cambiando totalmente strada con una «conversionea u». Ma non è facile, perché, se la ragione è leggera e vor-rebbe volare via, le membra sono ormai fiacche e avvezzeal vizio di quel piacere effimero, che pure dona loro qual-che istante di estasi nel godimento carnale.

Sono entrato con questa consapevolezza in una nuovafase della mia «militanza gay». Di giorno provavo a difen-dermi da quanto avrei fatto di notte. Mi dicevo che sareirimasto a casa, che ne avevo le scatole piene di quella fin-zione spietata per cui ogni senso di pienezza e realizzazionecessava insieme con l’eiaculazione. Ma la sera bastava unnonnulla per riaccendere il vortice del vizio. Magari anche

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solo un sms, quando non erano gli amici che passavano a prendermi, e le passioni mi spingevano a ripercorrere ilciclo del loro triste soddisfacimento.

Entravo nel locale in camicia e verso l’una mi trovavoimmancabilmente a torso nudo, euforico, grazie ancheall’alcol, in preda all’eccitante presagio di come avrei datosfogo a quell’ennesima serata. Quanta gente salutavo,quanta gente conoscevo...: giovani ragazzi e corpi pale-strati si mettevano in bella mostra, anche per me, vivendola mia stessa emozionante attesa. Era come trovarsi inpasticceria di fronte a un banco imbandito, con una com-messa gentile pronta a dirti: «Scegli ciò che vuoi». Così,come un bambino che fiacca i suoi buoni propositi,anch’io mi gettavo in una nuova abbuffata di piacere.

Solo che adesso mi accorgevo subito del mal di panciae quanto fosse malsano il cibo che tanto mi attirava. Oracominciavo a mettere a fuoco l’eterno ritorno che presie-deva al rito di ogni mio atto sessuale: mi abbandonavo aldesiderio, ormai sempre più sotto gli effetti di qualchesostanza «consolatoria», per rispondere al bisogno dicompensazione del trauma subito nell’infanzia; seguivanoi preliminari del rapporto, in cui, anche attraverso l’affi-namento di pratiche tantriche, avveniva la dissociazionefra sentimenti e ragione: in questo modo, anziché assecon-dare il bisogno di intima relazione, si «armavano» le pul-sioni; quindi, mi gettavo nel corpo a corpo di un coito ani-malesco, che non è fatto di comunione, di cameratismo,ma di realizzazione di sé nella sopraffazione dell’altro.

Da ultimo mi ritrovavo esausto a fare i conti con il miofallimento. Mi trovavo schiantato come dopo un salto nelvuoto con gli sci o frastornato, a terra, scaraventato fuoridall’auto da corsa che, pure, mi aveva fatto sognare.

E qui, riaffiorava dal profondo una voce, a dirmi chemi stava bene se avevo la bocca nel fango, perché era ilfango che avevo cercato e voluto mangiare. In questa fase,finalmente, l’intelletto ritrovava la via dell’io e le passionisi ammorbidivano nei sentimenti, che ora si impregnavano

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di un vago e via via più certo senso di dissociazione, di ver-gogna e di colpa, che, con sguardo al bambino innocenteche ero stato, chiedeva anche scusa, dichiarandosi pron-to a riparare il male fatto e deliberatamente subito.

Da questo stadio primigenio di coscienza sono ripartito:è bastato il mio piccolo sì perché iniziassi una risalita dif-ficile, resa possibile per grazia, dall’alto, un giorno qual-siasi, il più importante per me, nel faccia a faccia conPadre Pio e poi con la Vergine Maria, che mi ha trafitto ilcuore a Medjugorje.

Mi chiamo Luca di Tolve, ho 39 anni. Ero gay, ora sonosposato con Terry e sono felice! Questa è la mia storia…

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VI PRESENTO I MIEI

Una bambina con la valigia

Nel vivo della contestazione giovanile mia madre andòa trascorrere un periodo da una zia, che abitava con lanonna a Milano. Nel 1968, l’anno che verrà preso a sim-bolo della modernità e di una concezione nuova della vita,lei aveva appena 16 anni, ma decise di iniziare a lavorare.Partì dal Sud e non tornò più indietro.

Era una ragazza energica, intraprendente, sempre inmovimento e sapeva darsi da fare.

Il Meridione, con i suoi riti, le tradizioni familiari e i vin-coli d’onore, le stava troppo stretto. La tv era già entratastabilmente nelle case degli italiani, portandoci dentro ilmondo; e mia madre fu presa presto da un irresistibiledesiderio di compiere il percorso inverso e di uscire a sco-prire da sé persone, cose e Paesi lontani. In questo pro-cesso di formazione influirono anche il cinema e i grandicomplessi musicali che si affermarono proprio negli AnniSessanta. I cantanti della Beat-generation fecero sognare edesiderare a un’intera generazione un mondo diverso,colorato e frizzante.

La cantante preferita da mia madre era CaterinaCaselli: voleva incontrarla, conoscere il suo mondo, cometante altre giovani in cerca di rifarsi una vita. Fu, forse,prima di tutto per questo che venne a Milano.

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Nel capoluogo lombardo aveva partecipato alle mani-festazioni per i diritti dei lavoratori e si erano trasferiti,prima di lei, alcuni parenti e amici che, qui al Nord, rac-contavano di aver trovato l’America.

Mia madre mi descriveva il trasferimento nella «grandMilan» come un periodo creativo, assolutamente propo-sitivo, pieno di cose da fare; cambiava un impiego dietrol’altro, perché c’èrano svariate opportunità di lavoro e lasensazione che si andasse comunque a stare meglio. Ilmitico Sessantotto, con la lotta femminista e le sue rivolu-zioni all’insegna dell’emancipazione sessuale, fece il restoper aggiungere interesse e curiosità.

I giovani si conquistarono in quegli anni una libertà dicui non avevano mai goduto prima; soprattutto nelle gran-di città, per un’apparentemente inesauribile profferta disempre nuovi intrattenimenti. Bar, cinema, trattorie, piz-zerie, pub e tanti locali nuovi per quei tempi, come ledisco-dancing, facevano a gara nell’ammaliare i passantifra insegne luccicanti, lampadine soffuse, giochi di cande-la e altri sotterfugi, che promettevano un’irresistibile eintensa vita notturna.

Mamma, che era un tipino solare e sveglio, non ebbeproblemi ad ambientarsi né, tantomeno, a stringere nuoveamicizie, ed entrò danzando lieta nell’età adulta; o, forse,ci si tuffò a capofitto. In ogni caso, al principio, inconsa-pevole che la conquista della propria autonomia comportasempre anche dei costi.

Fotografano perfettamente quel periodo alcune istanta-nee dove la mamma, sorridente, porta i pantaloni a zampadi elefante e i capelli acconciati in modo curioso e birichi-no su altrettanto stravaganti vestiti a fiori. Nel verde deisuoi anni, affrancata dalla madre e del tutto a suo agio neilacci allentati della zia e della nonna già avanti negli anni,assestava anche così un bel calcio al paesino della Pugliadove era nata e cresciuta, imbrigliata e scontenta fra atavi-che convenzioni maschiliste.

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«Al paese», si lamenta ancora oggi mia madre, «unadonna era soggetta a pesanti limitazioni, che la ferivanonella dignità e ne soffocavano le opportunità di azione».Mamma ricorda che quando usciva di casa, anche solo perla spesa, doveva essere accompagnata dalla sorella e che,in ogni caso, non poteva mai girare per le strade da sola,neppure di giorno, per evitare il rischio di venire disono-rata o di trovarsi ad affrontare situazioni sconvenienti…«Non c’era fiducia e io non ci stavo più dentro», concludeimmancabilmente il suo racconto, citando un celebre filmdi Mario Monicelli, La ragazza con la pistola, interpretato,dice, «in modo magistrale, dalla grande Monica Vitti».

Insomma, chi volesse conoscere la storia di mia madre,capire meglio da che cosa stesse scappando, dovrebberivedersi quella pellicola.

Una Milano (ancora) da bere

Fra i modelli di riferimento dei giovani sessantottini unposto preminente era occupato da tutti quei cantanti checavalcavano l’onda della contestazione e, in un certo senso,s’ispiravano all’ideologia rivoluzionaria del Sessantotto, i cuieffetti miravano a capovolgere l’ordine costituito. Un ordi-ne, cioè, dove «tradizionale» coincide con «chiuso, rigoro-so e legalista, triste e bigotto, senza apertura mentale».

Dopo gli scotti di due guerre mondiali e delle distruzio-ni causate dalle più gravi ideologie – nazismo e stalinismo– ripresero nuovamente piede il mito della scienza e delprogresso, con la fiducia in un mondo nuovo senza bar-riere affettive, senza confini e limiti alle libertà individua-li; il tutto condito da forti connotati sentimentalisti e filan-tropici. E questo sentire comune si affermò in gran partegrazie proprio a famose band musicali che, girando ilmondo, crearono per la prima volta le condizioni di unmovimento globale, capace di tradurre i fermenti sotter-ranei di ribellione in un’onda anomala.

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Anche mia madre rimase abbagliata da questi maestridella protesta. Da ragazzina in cerca di identità imitavaalcuni cantanti, lasciandosi coinvolgere nei naturali mec-canismi di identificazione e nell’inavveduto gioco dellaribellione alle regole convenzionali, che, a quell’età, por-tano spesso a vedere, in una persona o in una situazione,tutto bianco o tutto nero, o il male anche dove non c’è.Tant’è, mamma non si diede pace, finché non riuscì a svin-colarsi dal suo paese e da quel tipo di vita che incarnava.

Inutile dire che, cercando aria per respirare, si trovòbenissimo in quel cocktail sublime di sovraffollamento eisolamento che solo una grande metropoli sa offrire. Lacittà le piacque subito e altrettanto la gente, per quella suamentalità aperta, inconcepibile al paesello. Le opportunitàdi lavoro resero, poi, stabile il rapporto con Milano.

Il fatto che mia madre si fosse resa subito indipendentedal punto di vista economico segnò un punto a suo favore.Ma, per vincere le resistenze dei suoi genitori, occorrevaassecondare un’altra condizione non di poco conto.

A quei tempi, e in particolare per la mentalità dei mieinonni, non era assolutamente pensabile che una ragazzapotesse vivere fuori casa, e tanto più dal paese di origine,senza essere ssposata. Quindi, la condicio sine qua non perrestare nella città del Nord era il matrimonio. «Figghiamea», le andavano ripetendo fino all’esasperazione lanonna, il nonno e tutta la famiglia insieme, «c vu ste a Milanta da spsè: se vuoi rimanere al Nord, ti devi sposare».

Un matrimonio combinato

Nessuno era pronto a rassegnarsi, figuriamoci ad accet-tare che «la Ragazzina», come la chiamavano, si trovasseda sola a Milano (la presenza della zia in queste riflessioniera proditoriamente omessa) e, di conseguenza, non per-devano occasione per pressarla e lavorarla ai fianchi colricatto del matrimonio.

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Mamma, che non era certo immune, almeno psicologi-camente, dal retaggio culturale della sua famiglia, cominciòa vivere con una certa ansia l’incubo di un possibile rientroa casa. Oltretutto, essendo la minore, temeva di ritrovarsizitella a fare da infermiera alla nonna…

Fu così che, più per paure sue che per obbedienza aisuoi, incominciò a guardarsi in giro e a porre attenzionese qualcosa, o meglio se qualcuno, si muovesse intorno a lei.

L’uomo che sarebbe diventato mio padre aveva alloraventidue anni. Lavorava in una casa discografica, la Ri-Fi– celebre per aver messo sotto contratto, tra gli altri, Mina,Fred Bongusto, Fausto Leali, Iva Zanicchi… – e aveva unabellissima Fiat 850 gialla cabriolet, con cui andava a pren-dere mia madre. Era un bel tipo e ci sapeva fare: le sbuca-va davanti dal niente, con tanto di rose rosse in mano; leiarrossiva per quelle attenzioni, ma, nel congedarsi dalleamiche, si scopriva anche innocentemente orgogliosa.

Il corteggiamento fu rapido, metodico ed efficace. Miopadre, che comprese immediatamente quali fossero, nellafamiglia di mamma, i valori portanti e le aspettative al suoriguardo, adottò una strategia vincente.

Nei primi tempi si faceva vedere con lei solamente incasa e in presenza della zia, non trascurando mai di porta-re un omaggio floreale o dei cioccolatini da offrire all’unae all’altra. In questo modo coltivò la fiducia della «vecchiaguardia», conquistandone presto la simpatia e l’approva-zione. A quel punto, i giochi erano per lo più già fatti e ilconquistatore fece allora, abilmente, un passo indietro,aspettando la sua preda bella, pronta e infagottata.

Mamma ricorda perfettamente che, tutti in casa, finoal quattordicesimo grado di parentela e poi giù fino algatto del portiere, avevano dei consigli da darle…, che, indefinitiva, si riducevano a uno solo: «È un ragazzo aposto, serio e generoso. Tu sei diventata donna così pre-sto: hai bisogno di un uomo accanto. È la persona giustaper te. Ed è anche bello!».

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Inutile dire che intorno a mamma si eresse rapidamen-te un muro poco propenso a improbabili dissensi: se leiazzardava un dubbio, avanzava su papà l’ombra di un purminimo difetto, subito partiva la rappresaglia: «O ti sposio te ne torni al Sud!». In ogni caso, seppur senza troppipensieri, come del resto senza troppi pensieri se n’eravenuta a Milano e a quel tempo faceva ogni cosa, miamadre si vestì di bianco e convolò a nozze.

Papà

Dopo il matrimonio mio padre, forse reso sicuro eappagato da quella rapida conquista, cambiò presto atteg-giamento con mamma. Mostrò il suo lato più oscuro, pre-tenzioso ed egoista; «tutto l’opposto di quel giovane con-quistatore dinamico e protettivo che mi faceva ridereoffrendomi sicurezza», ricorda lei.

Chissà che cosa successe? Ma papà si lasciò avvinghiareda una forma di narcisismo, per cui, mentre si preoccupavasempre più dei suoi bisogni, si rendeva incapace di ascol-tare e prendersi cura dell’altro.

Certo la vita non era stata tenera con lui: i suoi genitorimorirono quando era poco più che adolescente e, rimastosolo con i fratelli, appena raggiunta la maggiore età dovetteuscire di casa e trasferirsi a Milano, in cerca di lavoro e dimiglior fortuna.

Papà aveva un hobby: quello di andare a caccia, e ognitanto mi portava con lui. Altre volte, di sabato, mi portavainvece a lavare la macchina… Quelle uscite, rare e inaspet-tate, sono gli unici ricordi belli che ho. Pochi frammenti divita insieme, ma intensi e che bastarono a causarmi ancorpiù tristezza e dolore quando papà se ne andò via di casa.Fugaci ricordi che ho custodito gelosamente dentro di me,lavorandoli ed elaborandoli come un appiglio prezioso a cuimi aggrappavo nei momenti bui, sperando il suo ritorno.

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Un padre assente provoca in un bambino forti sensi dicolpa, acuiti da un padre narciso che dà e chiede amore aseconda del suo stato d’animo. Imparai presto a esseremolto ricettivo e a controllare e a modificare i miei com-portamenti in base all’umore di papà. Capitava che, se erotriste, dovessi comparire allegro per compiacerlo e che, alcontrario, se ero felice, dovessi soffocare i miei desideri,la voglia di giocare e l’esuberanza dell’età.

All’epoca attribuivo la sua mancanza di comprensionee di gratuità a qualche mia mancanza che, tuttavia, mirestava oscura, facendomi sentire inadeguato ai suoiocchi. Solo successivamente mi accorsi che il problemanon era soltanto mio e che papà si comportava allo stessomodo, attivando le medesime dinamiche, con mamma.

Sicuramente, oltre al fatto di essere rimasto orfano cosìpresto, il che lo faceva sentire in credito di affetto rispettoagli altri, papà era, a sua volta, vittima di un cliché cultura-le di stampo «machista», che oggi appare superato e ottuso.Sua madre, mia nonna, non aveva saputo infondergli quel-la ricettività, quella componente di sensibilità tipicamentefemminile di cui non possiamo fare a meno e che ci rendecapaci, per esempio, di metterci in posizione di ascolto.

«Io non ho mai avuto affetto; sono dovuto crescere infretta per occuparmi di mio fratello», mi ripeteva semprenelle poche occasioni che si confidava.

Povero papà. Su questo punto come dargli torto?Aveva appena 18 anni quando, a sua volta, scappò dalMeridione, con un biglietto di sola andata per Milano.Alle spalle non lasciava nulla, ma, accanto a sé, nelloscompartimento, sedeva il fratellino minore, con la stessastretta al cuore, con la stessa paura del nuovo, che alloracoincideva con l’incerto, con la speranza di un tetto e diun piatto pieno.

Nella grande città provarono di tutto, prestarono mano-dopera dove c’era bisogno: fecero i facchini, i lavapiatti, ibarbieri, i camerieri, gli impiegati... Alla fine, in un modo

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o nell’altro, fortunatamente si sistemarono: il fratello sisposò e mio padre rimase solo nel piccolo appartamentoche avevano preso in affitto.

Alle radici dell’uomo «macho»

Un’altra immagine che affiora dall’universo di papàsono le donne del suo paese natio. Figure severe e logo-re, parvenze misteriose e cupe, sempre vestite di nero,chiuse in sé stesse, impermeabili alle emozioni. Donneserve di un marito, di una casa, di un sistema che nonlasciava sbocchi intorno a loro; madri e mogli che nonesprimevano gioia, incapaci di comunicare serenità e dioffrire amore.

Questi ricordi e queste sensazioni affiorano e riprendo-no vita mentre osservo una stampa della Sacra Famiglia.Come sono lontani quei volti e quelle sensazioni dal voltodi Maria che allatta il suo bambino, sotto lo sguardo sicu-ro e partecipe di san Giuseppe. Che aria diversa si respi-ra fra le mura di Nazaret, dove tutto, persone e cose,comunicano pace e serenità. Giuseppe assicura sulla suasposa una dolce protezione, mai dura, e la madre trasmet-te al figlio l’amore e il sostegno di cui il neonato ha biso-gno per sentirsi benvoluto e accolto. E la casa: che ordi-ne, che pulizia, che armonia trasmette! Sembra unprolungamento del grembo materno, un posto incantevo-le, pieno di amore, serenità, riconoscenza per la vita con-tinuamente ricevuta e donata.

Papà aveva ricevuto un unico insegnamento: «Tu seiun duro, sei maschio» e crebbe con la convinzione chel’asprezza del carattere coincidesse effettivamente con lamascolinità. Ecco il prototipo del boss, l’uomo che esibisceuna falsa mascolinità, con cui si malcela l’arroganza, laviolenza verbale, quindi fisica, che anima tutti gli esseriincapaci di comprendere che l’autorevolezza viene ricono-

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sciuta in base alla capacità o meno di dare attenzione edolcezza, in una parola, amore.

Il «Padre prodigo» di Rembrandt simboleggia benissimosulla tela l’immagine dell’autorità, frutto dell’amore edella ragione, che nel tempo si è chiarita nel mio cuore.L’artista fiammingo ha realizzato il suo archetipo di padre,dandogli una mano maschile e una femminile, esprimendocon grande efficacia l’idea che aveva in mente. Un padrecompleto sa impugnare la spada e combattere contro tuttele avversità quando serve, ma dovrà avere un cuore chebatte e una testa che ragiona per discernere se ogni cosache fa obbedisca o meno a giustizia e verità. Nei mieisogni papà era così: un uomo completamente tenero,amorevole da perdersi, capace di indicare la via retta e didare consigli sapienti; e, per questo, forte e potente, giustoanche nei rimproveri e nei richiami all’ordine.

Ma la realtà era diversa. Mio padre era un uomo belloe forte, ma poco attento ai nostri bisogni. Non ricordo chesia venuto mai a tirarmi fuori dal lettino o momenti d’in-timità con lui, a parte quell’unica volta, e per questo inde-lebile, che si mise a scherzare con me, e, giocando allalotta, mi fece il solletico. Ricordo, invece, mia madre cheseguiva alla lettera gli ordini che lui le impartiva, e le lun-ghe sere in casa, senza uscite a teatro, al cinema o scappa-telle romantiche come sarebbe stato lecito aspettarsi dauna giovane coppia. Mamma si era fatta triste, resa gior-no dopo giorno nella condizione di una serva che, presto,si sarebbe ribellata davanti agli occhi ancora ignari delfiglio, fra parolacce, porte che sbattevano, e proclami diseparazione. In quei momenti gli gridava di tutto: che nonl’amava, che non l’aveva mai amato e che si era sposatasolo perché era stata obbligata dai suoi.

Quella vita era un inferno, si sentiva in gabbia; quandosi era ritrovata incinta ingoiò la candeggina, perché avrebbepreferito morire, piuttosto che darmi alla luce e affrontarequesta nuova vita con lui.

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All’epoca ero ancora molto piccolo; e, dal momentoche papà stava fuori spesso la notte per lavoro, non ebbimai la percezione piena di che cosa stesse accadendo fralui e mamma. Rammento le liti in modo indistinto; e lamia irrequieta vivacità di allora era certo sintomo chequalcosa non girasse per il verso giusto.

Tuttavia, ancora oggi, quando penso a mio padre allavoro, ne ho nostalgia e lo aspetto.

Presto appassiscono i fiori d’arancio

Quando si era sposata mamma aveva 17 anni. Con iltempo, ripercorrendo quei fatti lontani, ho capito che siera dovuta assumere responsabilità davvero troppo grandiper la sua giovane età. Da pioniera del piccolo Sud, sbar-cata, libera e spensierata, nella sua America metropolitana,si era ritrovata a fare da moglie e da madre, senza avernela maturità. Oltretutto avrebbe voluto una figlia femmina.In ogni caso la mia nascita segnò per lei una svolta inevi-tabile. Mamma dovette gioco forza cambiare atteggiamen-to e adattarsi a uno schema di vita più responsabile;cominciò a fare grandi sacrifici e ad alzarsi alle sei del mat-tino per portarmi al nido e poi andare a lavorare.

Lo stato di necessità richiedeva l’impegno di lavoro dientrambi i genitori, altrimenti non si sarebbe potuto man-tenere un regime di vita decoroso. Tuttavia, il cambio dimarcia che dovette imporsi le provocò tristezza, nervosismoe inquietudine.

L’assenza di mio padre fu una caratteristica della vitafamiliare anche quando i miei genitori coabitavano: si trattava del tipico padre che lavorava molto fuori casa;faceva straordinari e turni di notte e, quindi, lo vedevopoche volte, giusto il tempo di un pasto frugale; ma questo mi permetteva di conservare ancora il senso del-l’unità della famiglia.

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Purtroppo, come si è detto, il suo carattere mutò, manon nel senso di un maggiore e partecipe coinvolgimen-to. Dalle attenzioni iniziali che aveva per mia madre, passòa trattarla con indifferenza; si tramutò nello stereotipo dipadre padrone: usava la moglie come un’inserviente,riprendendola per ogni piccola cosa, anche quando il cibonon era cucinato in modo perfetto.

Due ragazzi troppo giovani con le radici spezzate ave-vano deciso troppo presto di legare i loro destini. Alquantoimmaturi e con aspettative diverse, opposti di carattere,ancora incapaci di elaborare le ferite piccole e grandiinferte dalle rispettive famiglie d’origine… Non potevafunzionare e non funzionò.

Ma prendere un marito o una moglie sbagliati non è lostesso di acquistare una macchina. Qui si fa i conti con icuori infranti e, fra questi, va contato anche il mio.

La separazione tra due genitori è quanto di peggiopossa capitare a un figlio; è vero che non tutti i bambinidi separati hanno disturbi appariscenti, specialmentequando sono piccoli, ma quel taglio che di fatto è la sepa-razione penetra nel più profondo dell’organismo e scavadei solchi, provocando, prima o poi, un’infezione; unaferita profonda che lo segnerà per tutta la vita, come rile-vano e spiegano, in età scolare, gli insegnanti, quando siverificano cali di rendimento.

Personalmente non sono propenso a credere a queigenitori separati che danno assicurazioni sulla serenità deiloro bambini; dietro l’affermazione «i ragazzi l’hannopresa bene» spesso si nascondono le giustificazioni di tante sofferenze, o, peggio, l’alibi di chi non vuolerinunciare a un nuovo compagno.

Nell’atto di lasciarsi, specie in presenza di figli, è sem-pre evidente un’affermazione egocentrica; quei genitoriche, in seguito, non sapranno riconoscere il proprio egoi-smo, è difficile che possano comprendere lo sconquasso e

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il turbamento che hanno generato nei loro bambini. Delresto, se la natura ha stabilito che, per avere un figlio,occorrano una mamma e un papà e se, a livello fisico, neldna del nascituro sono impressi per sempre i caratterigenitoriali, è naturale che la loro divisione spezzi in duel’intimo di quella creatura.

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FRA IMPULSI OMOSESSUALI E RIVENDICAZONI MASCHILI

Con quell’aria da «bambina»

Superato lo choc della gravidanza, mamma aveva spe-rato di portare in grembo, almeno, una femmina. Lei stessaera ancora poco più di una bambina e, forse, in questomodo pensava, trovando una piccola amica, di renderepiù facile il compito che la attendeva.

Non so se per questa ragione o per ristrettezze econo-miche, mia madre mi faceva indossare gli indumenti chele passavano le amiche e, di fatto, mi vestiva da femmina.Mettendomi la calzamaglia e camicette merlate mi educavacome fossi una bambina; e, sicuramente, non si rendevaconto degli input che mi stava dando e neppure del dannoche avrei subito.

Se dovessi sintetizzare l’esperienza dell’omosessualità eavessi un solo modo per farlo, direi che è una trappola;una condizione in cui ci si ritrova quasi meccanicamente.

Fin da piccolo afferravo la sensazione di sentirmi diversodai coetanei e ho sviluppato istintivamente una sensibilitàaffettiva verso i ragazzi: sono stato subito risucchiato nel-l’occhio del ciclone.

La separazione da mio padre e la sua successiva gra-duale scomparsa dalla mia esistenza mi indussero, in

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modo automatico, a immedesimarmi in un ruolo femmi-nile e ad assumere gesti e comportamenti della personache mi era più vicina: mia madre.

Le prime «burla» cominciarono prestissimo, fin daquando frequentavo la scuola primaria. I compagni diclasse non mi percepivano come uno di loro e la conse-guente esclusione causò in me un senso di frustrazione,potenziando ulteriormente lo spostamento dei miei inte-ressi verso il gruppo delle bambine. Sviluppai così la ten-denza a familiarizzare più con queste ultime che con imaschi, e ciò mi attirò addosso, con sempre maggiore vee-menza, lo scherno dei compagni, che ora mi davano aper-tamente della «femminuccia».

Il comandante Eros

Questo stato di cose aumentò, certo, la mia confusione.Eppure, al di fuori della classe dove i maschi, di fatto, mirifiutavano come uno di loro, ci sono state situazioni in cuivissi serenamente la mia mascolinità.

Ciò avveniva regolarmente, per esempio, ogni volta cheprendevo parte alle colonie estive dell’Azienda municipaledei trasporti di Milano, dove lavorava mio padre. Ledisponibilità economiche della famiglia non erano tra lepiù brillanti e l’andarvi costituiva per me anche l’unicapossibilità di una vacanza.

In un ambiente spartano, che si ispirava all’esperienzadello scoutismo, mi succedeva ogni volta una cosa vera-mente strana: cambiavo completamente modo di essere,addirittura nome (mi facevo chiamare «il capitano Eros»),mi innamoravo delle ragazze, avevo una fidanzata e riuscivoa essere quello che desideravo. In altre parole, ero felice.

Ci ho pensato a lungo, ma non so capacitarmi sullagenesi di questa sorte di metamorfosi; che, poi, è forseerrato definire così, dal momento che consisteva nella riaf-fermazione di quello che ero e che sono; né saprei dire

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quale strano «flauto magico» suonasse per renderla pos-sibile; so solo che, o diventavo un’altra persona, o trovavola condizione per essere semplicemente me stesso.Liberatomi della cappa che mi opprimeva a casa e a scuo-la, mutavo pelle; assumevo l’identità di Superman, dopoaver tolto gli abiti di Mister Clark.

Diventavo intraprendente, programmavo feste e unsacco di altre cose, ero il jolly delle iniziative. All’arrivo nelluogo di villeggiatura, il direttore finì addirittura con l’af-fidarmi carta bianca e piena fiducia nell’organizzare garedi ogni tipo. Ero talmente pieno di idee che il responsa-bile della colonia non riusciva a starmi dietro e quasidiventava matto.

In montagna, alla casa alpina di Motta in provincia diSondrio, a quei tempi, fui veramente l’ispiratore di ogni ini-ziativa: un anno organizzai il Festival delle canzoni, un altroil Concorso per le Miss e mi fidanzai con la vincitrice…

Insomma, come d’incanto, la «femminuccia» lasciavaposto a un leader di indiscussi carisma e capacità nel tra-scinare un gruppo. Ma, rientrato a Milano, con i genitorie con gli amici, tornavo a essere il ragazzino troppo dolcee sensibile di prima.

Il mio primo fidanzato

Fin dal primo giorno delle medie mi assegnarono comecompagno di banco Paolino, un ragazzo dal quale nonriuscivo a staccare gli occhi di dosso. Provavo attrazionefisica. Mi piaceva. Lo vedevo bello. Era osannato dalleragazze e mostrava una potenza maschile che io nonavevo, sebbene fossi più grande. Era un esempio classicodi «maschio dominante e brillante».

Fu un colpo di fulmine, volevo stare sempre con lui: loseguivo agli allenamenti di calcio e stavo seduto in pan-china in adorazione, anche sotto la pioggia. Lo aspettavocome un servetto; ero pronto a tutto per fargli piacere.

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Per suo conto Paolino sembrò gradire le mie attenzioni.Francamente ero un ragazzo educato e simpatico; e chinon gradirebbe poi la compagnia di uno che, citando lacanzone, «si fa sempre in quattro per te?».

Man mano che il compagno si lasciò andare con me, siapprofondì fra noi un’amicizia particolare. Iniziò un rap-porto di complicità affettiva, come capita a tanti adolescen-ti, che cercano di esplorare e capire a vicenda i cambiamen-ti della crescita, non trovando il coraggio di chiederespiegazioni e aiuto agli adulti.

Su questo terreno ero io a creare le situazioni, spingendol’asticella del nostro rapporto sempre un po’ più in là.

Ero totalmente infatuato, come ipnotizzato dalla suaforza, dalla sua sicurezza. Non credo che amassi in lui unaltro da me, ma che, più semplicemente, incarnasse per-fettamente l’immagine di ciò che avrei voluto essere neipanni maschili. Ma io non ero come lui. Di fronte allesfide e ai giochi da maschi ero del tutto passivo, congelato;e non avevo nel mio orizzonte quotidiano nessun uomoadulto – un mentore, un educatore, un fratello maggiore –,che mi accompagnasse nell’elaborazione della mia perso-nalità, aiutandomi a superare nel modo giusto i blocchi,le timidezze. Così guardavo a quel «semidio» come a unmodello per me irraggiungibile e, così facendo, mi convin-cevo di essere del tutto diverso.

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