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1 Erasmo da Rotterdam RITRATTI DI THOMAS MORE Saggio introduttivo traduzione e commento di Matteo Perrini LA SCUOLA

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Erasmo da Rotterdam RITRATTI DI THOMAS MORE

Saggio introduttivo traduzione e commento

di Matteo Perrini

LA SCUOLA

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BREVE STORIA DI UN’AMICIZIA

A Germain Marc’hadour, insigne maestro di studi moreani e di amabile disponibilità. Un vivo ringraziamento a Mario Pedini e Franco Buzzi; ai colleghi Arria Sora, Giacomo Prandolini, Rolando Anni e P. Simpliciano Olgiati; alla chara muliercula.

I numeri delle lettere rinviano all’Opus epistolarum Desiderii Erasmi Roterodami dei coniugi P. S. - H. M. Allen e altri (Oxford-London, 1906-1958). La traduzione delle quattro lettere di Erasmo su More - le Epistolae 999, 1117, 1233 e 275 - è stata condotta su questa edizione. Di essa si segue altresì la divisione in capoversi.

Le lettere in cui al numero segue il nome Rogers rinviano al volume The Correspondence of Sir

Thomas More, pubblicato a cura di E. F. Rogers (Princeton University Press, 1947).

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Premessa

È difficile, se non addirittura impossibile, scindere il nome di Erasmo da quello di Thomas More, anche se non pochi biografi lasciano spesso nell’ombra l’immagine di uno dei due amici per rendere plausibili le loro tesi interpretative. In effetti, a chi fa di More un modello di ortodossia alquanto ri-gida, la vicinanza dell’umanista che maneggiava l’ironia e la polemica graffiante come nessun altro può sembrare compromettente; d’altra parte, a chi vuol vedere in Erasmo uno scettico, il ricordo del suo migliore amico, martire della fede cattolica, deve apparire ingombrante. Erasmo e Thomas Mo-re erano diversi e nello stesso tempo inseparabili, al punto che per conoscere da vicino l’uno biso-gna sempre interpellare l’altro. Abbeverati alle medesime fonti e vissuti nella stessa epoca, furono legati da una di quelle simpatie totali la cui delicatezza si rivela in mille tratti affascinanti, tanto che essi resteranno nella storia come la coppia più affiatata e insieme di più alto profilo dell’età moder-na.

Le tre parti in cui si articola questo scritto sono state pensate in modo da rendere l’approccio ai due umanisti cristiani il più diretto e il meno incompleto possibile. Ho prima ricostruito la Breve storia di un’amicizia attraverso gl’incontri tra Erasmo e More, i loro doni reciproci, gl’interventi dell’uno in difesa dell’altro, le comuni battaglie speranze e delusioni. La fonte non unica, certo, ma primaria è stata per me la monumentale corrispondenza di Erasmo e l’epistolario di More, racchiuso invece in un solo volume. Segue poi il testo, tradotto integralmente per la prima volta e annotato, delle quattro lettere su More che Erasmo invia ad altrettanti amici: l’Epistola 999, in cui, su richie-sta di un ex discepolo, Ulrich von Hutten, si traccia un penetrante profilo fisico e psicologico di Mo-re quarantunenne, nel pieno della maturità; l’Epistola 1117, a Germain de Brie, l’umanista francese che per boria nazionalistica aveva attaccato More con acrimonia; l’Epistola 1233, a Guillaume Bu-dé, il maggiore tra gli uomini di cultura in Francia, per descrivere ed esaltare l’ardita “utopia dome-stica”, con la quale More apriva la via a un mutamento epocale: l’accesso delle donne alla cultura superiore - umanistica, scientifica e religiosa - e all’arte; infine l’Epistola 2750, indirizzata al ve-scovo di Vienna, Johann Faber, verso la fine del 1532, per difendere dalle calunnie More, che da sei mesi non era più Cancelliere e sperimentava con l’isolamento le ristrettezze della povertà. Si è provveduto, infine, a ricostruire il profilo biografico di More e di Erasmo in rapporto agli uomini e agli avvenimenti decisivi del loro tempo: una fatica questa necessaria per evitare sovrapposizioni indebite e giudizi in blocco che, mancando di sfumature, mancano sempre di verità. Di qui l’attenzione all’ordine cronologico, quale mezzo per evidenziare i nessi evolutivi di un fenomeno, o di un orientamento dello spirito, e per avvicinare il lettore all’universo di More e di Erasmo.

Per capire quei due occorre rendersi conto delle situazioni in cui si inserì la loro azione e a quali “sfide” essi dovettero far fronte. La qualità delle loro “risposte” e la direzione in cui esse si muove-vano, le alte finalità a cui erano orientate ci danno la misura della loro grandezza. La speranza è che anche questo piccolo libro possa, in qualche misura, contribuire a ridare a Erasmo e a More ciò che a loro spetta, e a noi la coscienza della rilevanza attuale del loro messaggio.

Matteo Perrini

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Time alwais trieth out the truth «Il tempo prova sempre la verità» Thomas More

All’inizio dell’estate 1499 un giovane inglese, che aveva studiato con profitto a Parigi, rientra in patria, portando con sé, come proprio ospite, il migliore dei suoi maestri e il più dotto. Quel giovane “di così squisita gentilezza” (Ep. 118) era William Blount, barone di Mountjoy, e il suo maestro-amico, Erasmo da Rotterdam. Fu lui, il Mountjoy, a fare da tramite tra Erasmo e More, che erano informati dei rispettivi interessi e dei loro primi tentativi letterari, ma non si erano mai visti, né si erano scritti. Secondo un’antica tradizione, i due s’incontrarono per la prima volta ad un pranzo del Lord Maior di Londra. Non erano stati presentati, ma nel corso della conversazione, che allora si svolgeva in latino, ciascuno rimase tanto colpito dall’intelligenza, dalla signorilità e dallo humour dell’altro che, ad un tratto, come per un’improvvisa illuminazione, esclamarono vicendevolmente: “O tu sei More, o nessun altro”, “Se non sei il diavolo, tu sei Erasmo”.

Erasmo aveva nove o dieci anni più di Thomas, che era venuto al mondo nel 1478. Erasmo e Thomas perdettero entrambi la madre quando erano ancora ragazzi; Thomas, però, ebbe nel padre una guida nello stesso tempo energica e affettuosa, mentre Erasmo fu molto presto orfano anche del padre. Egli inoltre soffrì tutta la vita per la sua condizione di “bastardo”, il cosiddetto defectum na-talium, e non ebbe mai intorno a sé il calore di una famiglia. L’inglese nasce in un ambiente della media borghesia, che gli permette di conciliare la passione per la cultura e un’ottima preparazione professionale; l’olandese, che è nato per gli studi, riesce nel suo intento anche perché viene abban-donato dal suo tutore in un convento agostiniano fornito di un’ottima biblioteca. Studente senza mezzi, Erasmo patirà ristrettezze assai gravi che metteranno in pericolo la sua salute; per troppi anni egli sarà alla ricerca di un posto da precettore, di un titolo accademico, di un mecenate che capisse finalmente il suo genio e la sua missione. Erasmo conoscerà una relativa agiatezza tardi, solo dopo che alcuni suoi scritti avranno successo, inondando letteralmente l’Europa, benché i diritti d’autore fossero in quel tempo molto aleatori. Erasmo e More differiscono dunque in tutto, o quasi: per l’ambiente in cui sono cresciuti, per il tipo di formazione ricevuta, per il temperamento che si porta-no appresso e per la personalità che ognuno di essi riuscì a costruirsi. Ma quando i due si incontra-no, scoprono le loro affinità elettive e l’uno diventa all’altro insostituibile e prezioso. 1. I TRE SOGGIORNI DI ERASMO IN INGHILTERRA

Giunto in Inghilterra al seguito del ventenne Lord Mountjoy, che più tardi divenne precettore del principe Enrico, Erasmo vi rimase fino al gennaio del 1500. Quei sei mesi, trascorsi tra Londra e Oxford, furono per lui molto importanti: «In Inghilterra ho trovato - scrive Erasmo all’altro suo di-scepolo inglese, Robert Fisher, rimasto a Parigi - un’umanità e una cultura non trite e triviali, ma profonde, precise, solide» (Ep. 118). Fu quella l’occasione per conoscere ed essere conosciuto da uomini eminenti come John Colet, vero maestro spirituale degli umanisti inglesi, o i grecisti Wil-liam Grocyn e Thomas Linacre. Nella casa di campagna di Mountjoy, a Greenwich, incontrò More ed ecco in quali termini, nella stessa lettera del 5 dicembre 1499, parla per la prima volta di colui che sarebbe diventato l’amico di tutta la vita: «La natura ha mai plasmato - si chiede Erasmo - un ingegno più duttile, più incantevole, più felice di quello di Thomas More?» (ibid.). Erasmo aveva allora trent’anni, o poco più, e Thomas ventuno e tra i due scoccò subito la scintilla di una simpatia, che nasceva a un tempo dalla testa e dal cuore.

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Erasmo compie nel 1505 un nuovo viaggio in Inghilterra. Vi ritrova i vecchi amici e se ne fa di nuovi, due su tutti: John Fisher, cancelliere all’università di Cambridge, e William Warham, arcive-scovo di Canterbury. Durante questo secondo soggiorno di Erasmo a Londra, More - che s’era spo-sato l’anno precedente, nel 1504 - l’ospitò a casa sua, nella City, e per l’umanista olandese quei giorni furono qualcosa di indimenticabile. Nel tempo libero Erasmo e More insieme si esercitavano a tradurre alcuni dialoghi morali di Luciano di Samosata. Il greco di Siria, vissuto nel II secolo d. C., è uno spirito caustico, ma per i due traduttori la sua critica delle menzogne convenzionali, persino il suo sarcasmo irridente, potevano ben servire, quale pars destruens, alla causa del risveglio religioso e allo smascheramento di soprusi e superstizioni.

Una preoccupazione, però, assillava la mente di Erasmo: dove cercare un lavoro per non essere troppo di peso agli amici benefattori e, nello stesso tempo, come conciliare questa necessità con l’incoercibile vocazione a dedicare interamente la sua vita agli amatissimi studi? L’acuta consape-volezza di ciò che chiama “l’incerto presente” (Ep. 189 del 1° aprile 1506) rende tanto più gradita la proposta del medico della famiglia reale, l’italiano Giovanni Battista Boerio, di accompagnare in I-talia per un viaggio d’istruzione i suoi due simpatici figli, sovrintendendo anche ai loro studi. L’impegno era per un anno; ma poi Erasmo si fermò a Venezia, dalla fine del 1506 alla metà del 1508, nella casa di Aldo Manuzio, a curare la stampa dell’Adagiorum chiliades («Migliaia di Ada-gi»). In quell’opera Erasmo commenta, con rigore filologico e con fine percezione dei sentimenti umani, detti epigrammi e proverbi tratti dal tesoro dell’erudizione classica; ma quella specie di “bi-blioteca di Minerva” era vivificata dalla passione cristiana del suo autore e dal dibattito religioso che allora affascinava gli spiriti. Nel 1509 Erasmo conclude il periodo italiano, un triennio di espe-rienze di opposto segno: era stato affascinante esplorare grandi biblioteche e manoscritti, viaggiare, conoscere di persona uomini di cultura e alti prelati; ma era stato terribile, e terribile fino all’angoscia, toccare con mano quanto grande fosse la crisi del centro stesso del cattolicesimo, della Chiesa di Roma, dopo un Alessandro VI e durante il “regno” di Giulio II, il papa guerriero.

Dall’Inghilterra, intanto, giungevano ad Erasmo pressanti sollecitazioni a portarsi al più presto nell’isola a lui cara, in cui con il nuovo re, Enrico VIII, al quale egli era ben noto, sembrava dovesse aver inizio un’era di pace tra i popoli e di progresso negli studi. Erasmo si mise, dunque, in viaggio a metà luglio e fu attraversando a cavallo le Alpi, al passaggio dello Spluga, che concepì l’Elogio della Follia. A Strasburgo Erasmo abbandonò il cavallo e proseguì per nave sul Reno, fino al mare. Questa volta in Inghilterra si fermerà a lungo, quasi ininterrottamente cinque anni, dal 1509 al 1514. Al suo arrivo, e si era alla fine del 1509, costretto all’immobilità da un dolore ai reni, si fermerà nel-la casa di More, nel cuore della City, accolto con gioiosa ospitalità da Joan Colt, la giovane moglie di Thomas. Lì Erasmo scrive, senza il sussidio di alcun libro, non essendo ancora arrivata la sua «biblioteca», quel mirabile intreccio di fantasia e protesta, di scherzo e serietà, di critica implacabile e invocazione appassionata alla rinascita spirituale che è il Moriae encomium id est stultitiae laus. Racconta Erasmo:

«Il piacere di un’opera che si comincia me la fece mostrare ad alcuni cari amici, per rendere più piacevo-

le lo scherzo condividendolo con altri. Piacque molto a loro e insistettero perché continuassi. Obbedii e im-piegai nel lavoro più o meno sette giorni» (Ep. 337).

Erasmo dedicò l’Elogio a More, “il cui nome è così vicino al termine greco moría, che designa

appunto la Follia, quanto ne è lontana la sua persona”. Nella lettera dedicatoria, che è la sola vera chiave di lettura di quello scritto, Erasmo conia per l’amico l’espressione che diverrà celebre: cum omnibus omnium horarum homo, “l’uomo di tutti in ogni momento”. In quegli anni di incontri rav-vicinati l’amicizia tra Erasmo e Thomas non poteva che accrescere la gioia reciproca del confronto sulle idee e le prospettive care a entrambi; ma essi amavano anche gareggiare in battute e facezie che servono a ridimensionare uomini e cose, sollevando gli animi con una risata liberatoria. Thomas è felice di aprire in totale libertà il suo animo a Erasmo che, a sua volta, può fare altrettanto con lui.

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È questo un raro privilegio anche per spiriti eletti e i due amici ne erano consapevoli. Lo aveva capi-to anche Richard Whitford, un sacerdote legato a entrambi da affettuosa ammirazione, che li so-prannominava «i gemelli» (Ep. 191 del 1° maggio 1506).

More in quel tempo era ormai un avvocato di grido e a lui erano affidati compiti sempre più pre-stigiosi. La carica a Vice Sceriffo della City, che ricoprì dal 1510 al 1518, gli imponeva di ammini-strare la giustizia a livello municipale, ed era compito che egli assolveva con rapidità e competenza, soprattutto a difesa di chi era vittima dell’altrui prepotenza. Eppure, che More fosse a Londra, o fos-se impegnato all’estero in una delle difficili missioni che gli venivano affidate, la corrispondenza con Erasmo attesta con quale delicata premura egli si adoperasse costantemente a liberare l’amico da incombenze fastidiose, o da richieste imbarazzanti. È uno dei tratti di umiltà generosa che carat-terizzano il modo in cui Thomas si rapporta a Erasmo, come a un fratello maggiore. 2. QUEL MAGICO 1516 - LA RIFORMA UMANISTICA DELLA POLITICA

Dopo il 1514 Erasmo farà in Inghilterra ancora brevi puntate, ma ormai i suoi lavori lo impegna-no direttamente sul continente dove sorgono le “officine” dei suoi editori. Alcuni tra i frutti migliori del suo lavoro sono colti in quel mirabile 1516. Vede allora la luce l’Institutio principis christiani («L’educazione del principe cristiano»), dedicata a Carlo di Gand, il giovane sovrano dei Paesi Bas-si, divenuto nel 1516 re di Spagna per la morte di Ferdinando d’Aragona. Il nuovo re Carlo I nel giugno del ’19 sarà eletto imperatore e si chiamerà Carlo V. A lui e agli altri sovrani che si dicono cristiani Erasmo chiede di abbandonare per sempre le sanguinose illusioni della politica di potenza, foriera d’inevitabili guerre; sostituendo ad essa, nelle intenzioni e nella prassi, l’effettiva ricerca del-la pace: in politica estera, mediante oneste trattative diplomatiche, per stroncare alla radice il ricorso alla guerra; in politica interna, attraverso il rispetto delle autonomie locali, unica via per tenere uniti popoli fra loro diversi.

Tra l’estate del 1516 e la primavera dell’anno seguente l’umanista mette al centro della sua ri-flessione politica il tema della pace nel Dulce bellum inexpertis («Dolce è la guerra per chi non ne ha fatto esperienza»). Nel ‘16 l’umanista pubblica anche la Paraclesis («Esortazione allo studio del-la filosofia cristiana») per offrire una visione d’insieme sui fini della cultura e dell’educazione. L’avvenimento culturale e religioso per eccellenza, che segna per sempre la missione e la vita di E-rasmo - ponendole al centro dell’attenzione dell’intera Europa, ma anche inevitabilmente delle più roventi polemiche - è, però, la sua edizione, in greco e in latino, del Nuovo Testamento con le anno-tazioni apparsa anch’essa nello stesso 1516. L’umanista olandese aveva osato riprendere dopo undi-ci secoli il testo sacro così come Gerolamo, il più venerato tra i suoi maestri, lo aveva consegnato alla cristianità con la sua Vulgata, per rileggerlo avvalendosi dei nuovi strumenti filologici acquisiti nella conoscenza del greco. L’arditezza dell’impresa era tale da sembrare a molti blasfema, e co-munque scandalosa; per fortuna di Erasmo, papa Leone X aveva dato ad essa il suo avallo, accettan-do la dedica del Nuovo Testamento.

Ma quale sorpresa ha in serbo per i suoi amici ed estimatori Thomas More? Dieci anni prima a-veva dato buona prova della sua cultura e del suo gusto letterario, traducendo in inglese la vita di Pico della Mirandola, scritta in latino dal nipote Gianfrancesco nel 1498, quattro anni dopo la morte dell’umanista, appena trentunenne, tra le braccia di Savonarola. Malgrado il titolo, The Life of John Picus, la biografia occupa appena un terzo del libro che il giovane More dedica a un’amica divenuta clarissa; il resto comprende un’antologia di brani dello stesso Pico e la trasposizione in versi delle sue massime spirituali. Poi, come sappiamo, More aveva curato la versione dal greco in latino di al-cune operette morali di Luciano. Ebbene, in quel magico 1516, More esce allo scoperto con un’opera che gareggia con l’Elogio erasmiano per finezza, ironia e passione riformatrice. Quel libro, incominciato nel 1515 nei Paesi Bassi, dov’era in missione, e finito l’anno seguente a Londra, sarà il suo capolavoro: ha per titolo Utopia, dal greco u-topos, “non luogo”, ciò che non è in nessun luogo.

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Una parola che da quel momento è entrata a far parte del linguaggio universale. Il 3 settembre 1516 il manoscritto è inviato a Erasmo, con la preghiera di rivedere il testo prima che venga stampato; l’opera esce alla fine dell’anno.

La materia affrontata scotta, non meno di quella dell’ Elogio, e More - che nel 1513 aveva comin-ciato a scrivere in latino La storia di Riccardo III - sa perfettamente che nell’età moderna ci sono poche gallerie di mostri paragonabili alla serie di sovrani di cui, negli ultimi cento anni, ha benefi-ciato l’Inghilterra. Egli non può, quindi, non porsi un interrogativo: come Nerone nei primi anni del principato, Enrico VIII chiama a servizio dello Stato i migliori tra i sudditi e fa la figura del principe saggio e brillante, ma fino a quando durerà l’idillio? Ci sarà anche per lui, come ci fu per il figlio di Agrippina, un elemento scatenante che, a un certo punto, lo spingerà a invertire la rotta e a trasfor-marsi in crudele tiranno capace di ogni arbitrio? E perché mai gli Stati e i popoli dovrebbero essere alla mercé di un potere che si pone al di sopra della legge, invece di ordinare la loro esistenza me-diante istituzioni meno ingiuste e regole certe? More è consapevole di quanto sia decisivo il ruolo della politica nella sorte dei popoli, ma conosce anche quanto sia rischioso parlare di politica in un regime assolutistico. Tuttavia, assecondando una sua inclinazione, egli affronta le questioni di fondo del buon governo (de optimo reipublicae statu), con un tipo di scrittura che gli permetta meglio di criticare i mali della sua Inghilterra e, nello stesso tempo, di indicare vie nuove a un’umanità che non voglia rinunciare al sogno di una vita più degna: dopo tutto, non è forse vero che «la realité n’est que dans le rêve», come dirà Beaudelaire? Ne verrà fuori uno scritto singolarissimo, che More chiama bagatela litteraria, ma che farà entrare il suo nome tra gl’immortali.

L’Utopia è opera assai complessa, perché il suo autore fa di un racconto fantastico una vera e propria “parabola meta-storica” ricca di profondi significati. Egli indugia a descrivere la mescolanza di acuta razionalità e stravagante insensatezza, che caratterizza la società degli utopiani, perché l’elemento fabulatorio ha uno scopo ben preciso: il viaggio-finzione deve apparire a volte assai poco credibile per aprire più agevolmente il varco alla diagnosi severa dei mali della società e per inaugu-rare un nuovo tipo di riflessione su problemi di così grande importanza. Ciò permette a More di ave-re una maggiore libertà di espressione e, nello stesso tempo, di ribadire che il suo pensiero non è sic et simpliciter quello del protagonista dello scritto, il misterioso navigatore Itlodeo. La connotazione enigmatica data al racconto ha colpito in ogni tempo l’immaginazione dei lettori, ma non deve farci dimenticare che anche la prefigurazione della società futura, almeno sotto alcuni aspetti, trova la sua premessa nell’analisi critica dei mali della società inglese, come ebbe a sottolineare Erasmo nell’Epistola 999. L’autore di Utopia ha individuato le tare del mondo moderno e la maggior parte dei problemi che ne derivano, nella concentrazione del potere politico e della ricchezza, nella spieta-tezza dei rapporti sociali, nel bellicismo criminale, nella frenesia del danaro “unica misura di tutte le cose”, nella riduzione dell’uomo a ciò che produce.

“Quando considero con attenzione - scrive More verso la fine dell’opera - tutti questi Stati che oggi pro-

sperano dappertutto, non riesco a scorgervi nient’altro, e Dio mi perdoni, che una sorta di congiura di ricchi (quaedam conspiratio divitum) i quali, in nome e sotto il pretesto dello Stato, badano solo ai propri interes-si”.

Insomma, con Utopia entra nella storia un nuovo modo di vedere le cose e una nuova prospettiva

per cambiarle. Le proposte utopiane, infatti, una volta divenute oggetto di discussione, non saranno più messe a tacere. Se proviamo solo ad elencarle, ci accorgiamo che nel corso di quasi mezzo mil-lennio esse sono divenute progetti e ideali storici a cui l’umanità migliore non può rinunciare: un regime costituzionale che escluda i diabolici opposti, tirannide e anarchia; la parità tra uomini e donne dinanzi alla legge, nel lavoro e nella cultura; una giustizia penale mite, ma efficace e real-mente uguale per tutti; la tolleranza religiosa reciproca tra le diverse confessioni religiose e, più in generale, tra quanti credono in Dio e nella vita ultraterrena in cui solo può realizzarsi la perfetta e-quazione tra virtù e felicità; l’armonia tra la fatica del lavoro e la libera attività ricreativa, e quindi

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una vera e propria cultura del tempo libero, di “un tempo dedicato a piaceri onesti fondati sulla na-tura e la verità”.

Non si può capire il profondo legame che unisce Erasmo e More, se si prescinde da quello che il Mesnard ha definito il loro “evangelismo politico”; ma è anche vero che, se non si legge corretta-mente l’Utopia, si rischia di fraintendere la personalità stessa del suo autore. L’Utopia non va presa, infatti, come un esempio di società perfetta, la quale non esiste e non potrebbe mai esistere nella storia, che presenta ad ogni passo opzioni e risultati ambivalenti, avanzamenti e arretramenti, svi-luppi perfettivi e degenerazioni, vittorie e sconfitte prima di tutto di ordine morale. Gli utopiani so-no ancora dei primitivi e la loro razionalità si attiene alle regole di una morale prevalentemente edo-nistica e utilitaria. Essi ignorano l’orizzonte cristiano della fede, del perdono, dell’amore disinteres-sato; eppure, col loro buon senso, hanno saputo fare di risorse limitate l’uso migliore, costruendo una società non priva di difetti e tuttavia assai più giusta di quella edificata nei regni e nelle repub-bliche dei cosiddetti Stati cristiani, in cui la politica si è trasformata in sistema di brutale dominio dell’uomo sull’uomo, in una prassi metodicamente estranea a ogni imperativo morale e religioso. La provocazione di More è dunque questa: se si vuole restituire la politica alla sua propria essenza e al valore che la specifica, se si vuole umanizzarla, occorre assolutamente acquisire la consapevolezza critica degli esiti disastrosi di un potere che, scisso dalla coscienza morale, si ponga come fine a se stesso,.

Nel 1532, cinque anni dopo la morte dell’autore, appariva Il Principe di Machiavelli, benché terminato nel dicembre del 1513; ma Erasmo nell’Institutio principis christiani e More nell’Utopia, rispettivamente all’inizio e al termine del 1516, ne avevano stilato in anticipo la confutazione, ri-vendicando la connessione assolutamente necessaria tra morale e politica. Ancora una volta i due amici si trovano a combattere la stessa battaglia, naturalmente ciascuno a modo suo e secondo il suo genio, ma nella comune convinzione che all’opera insostituibile di risveglio delle coscienze, alla ri-nascita culturale e religiosa, debba essere affiancata una vera e propria riforma umanistica della po-litica.

3. I RECIPROCI DONI

Tra il 1515 e il 1521 i due amici si scambiano “doni” che, in realtà, sono tra i più grandi che po-tessero farsi; e il primo di essi è proprio quello di procurare l’uno all’altro nuovi amici. Il 7 maggio 1515 - il giorno stesso in cui More e Cuthbert Tunstall, sacerdote umanista e fine diplomatico, sono nominati “ambasciatori nelle Fiandre per conto del re” - Erasmo scrive una lettera al suo affezionato Pietro Gilles, umanista anch’egli e segretario della municipalità di Anversa, allora primo centro commerciale in Europa, per presentargli “le due persone più colte di tutta l’Inghilterra”, suoi “amici carissimi” (Ep. 332). More ben presto si lega molto a Gilles ed è a lui che toccherà scrivere la lettera di dedica dell’Utopia a un illustre personaggio, l’erasmiano Gerolamo Bussleyden. Gilles ed Era-smo, a loro volta, preparano per l’amico inglese un dono degno di lui: nell’estate del 1517 si fanno ritrarre dal celebre pittore fiammingo Quentin Metsys e inviano a More, allora ambasciatore del suo re a Calais, le due tavole del dittico. More risponde ai donatori con due lettere che portano la data del 7 ottobre 1517. Quella per Gilles è di una cortesia squisita ed è accompagnata da due poemetti di ringraziamento; ma la lettera a Erasmo è un’altra cosa. È di quelle che si portano con sé per qual-che giorno, senza decidersi a separarsene, e che si rileggono nelle ore di scoraggiamento, fino a sa-perle a memoria, perché sono, com’è stato ben detto, “il dono di un’anima”.

Scrive More:

“Al mio affetto per te, mio amatissimo Erasmo, credo nulla si possa aggiungere; eppure il desiderio che ti ha preso di legarmi a te ancora più strettamente lo accresce in modo indicibile. Mi è impossibile esprimerti fino a qual punto io sia fiero al pensiero che, con un segno di straordinaria predilezione nei miei confronti, tu mi dici che non vi è persona da cui desideri essere amato più che da me. Forse io interpreto con un po’ di

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presunzione l’invio di questo tuo ritratto, ma è grazie ad esso che il tuo ricordo si rinnova nel mio cuore ogni giorno, anzi ogni ora di ogni giorno. Tu mi conosci: non devo provare a uno come te che il mio spirito, tutto invischiato in occupazioni insulse, è molto distaccato da sciocche vanterie. C’è, tuttavia, in me un sentimen-to d’orgoglio da cui non riesco a liberarmi e che mi pone in uno stato di dolcissima agitazione: è la coscien-za che agli occhi della lontana posterità io sarò raccomandato dall’amicizia di Erasmo - amicizia attestata da lettere, libri, dipinti. Possa io provare, e in maniera insigne, di non essere indegno dell’affetto di un così grand’uomo, il cui nome sopravanza la sua generazione e le generazioni che seguiranno” (Ep. 683).

More è inviato più volte nel continente per condurre a buon fine contenziosi che si trascinano da

anni; ma egli sa darsi la concentrazione necessaria per far bene anche altre cose. Il diplomatico e il giurista non cancellano in lui l’uomo di pietà, l’amico, il padre. Segue con attenzione delicata la vita della sua varia e numerosa “tribù familiare”, e in particolare i problemi relativi alla formazione cul-turale e spirituale delle ragazze e del piccolo John; alla primogenita Margaret raccomanda vivamen-te di specializzarsi negli studi di medicina e di teologia anche quando è diventata Lady Roper. Più difficile, ma non meno necessario, è l’impegno a cui tiene moltissimo di affiancare Erasmo - autore del tanto frainteso Elogio della Follia e dell’edizione greco-latina del Nuovo Testamento, fortemen-te contestata prima ancora della sua pubblicazione - nella sua battaglia contro i conservatori. Gli scritti latini di More in difesa delle idee e del lavoro di Erasmo costituiscono il 15° volume della Ya-le Edition of Complete Works of St. Thomas More, che reca il titolo emblematico: In Defense of Humanism. In quel volume i corrispondenti sono tutti inglesi, eccetto uno: Martin Dorp, docente dell’università di Lovanio e studioso di Aristotele. Dorp è olandese come Erasmo, a cui è divenuto ostile dopo la pubblicazione dell’Elogio. Erasmo aveva cercato di chiarire le sue intenzioni e il ca-rattere religioso del suo pamphlet (Ep. 337, maggio 1515), ma la replica del suo conterraneo era sta-ta durissima. More, però, intuisce che, a differenza di altri, Dorp è un moderato incerto sulle vie da percorrere per rinnovare la Chiesa, non un integralista, e gli scrive. La lunga, meditata Lettera a Martin Dorp, (Ep. 15 Rogers), inviata da Bruges in data 21 ottobre 1515, è personale e non destina-ta alla pubblicazione, a significare che sulle questioni serie la “sfida” e la polemica devono cedere il posto alla riflessione silenziosa e al dialogo fraterno.

L’argomento centrale di More è che il rinnovamento autentico non distrugge affatto la tradizione, ma è la via obbligata per restituirle l’originario vigore. La critica di soprusi, deviazioni, pratiche a-berranti che si sono introdotte nelle istituzioni è la pars destruens necessaria perché l’umanità possa riscoprire con il messaggio di Cristo il vero volto della Chiesa. Ancora una volta, rendendo la sua personale testimonianza alle idee direttrici della riforma religiosa e culturale di Erasmo, More onora nello stesso tempo la verità e il suo più caro amico. Dorp ne è sinceramente conquistato e rende pubblica la sua ritrattazione. E lo fa, come riconosce More, “con incredibile onestà e totale mode-stia” (Ep. 82 Rogers).

4. TRE RITRATTI DI MORE: PER VON HUTTEN, DE BRIE E BUDÉ

Il 1519 è ancora un anno propizio alle iniziative riformatrici degli umanisti cristiani: in quel mo-mento Lutero appare a Erasmo un “medico crudele” della Chiesa e non l’artefice della rottura dell’unità religiosa dei cristiani; Enrico VIII si avvale sempre più del consiglio e della collaborazio-ne diretta di More ed è lecito pensare che l’interesse dei rispettivi popoli, il sentire cristiano e la mi-naccia turca inducano Carlo V e Francesco I a non gettare l’Europa in una lotta insensata per il pre-dominio. In tale stato d’animo, con il cuore aperto alla speranza, Erasmo scrive l’Epistola 999, un piccolo, grande capolavoro come I Sileni di Alcibiade del 1515, Il lamento della Pace del ’17 e la Lettera a Paolo Volz del ‘18. Un brillante poeta e patriota tedesco, il cavaliere Ulrich von Hutten, da tempo aveva chiesto a Erasmo notizie dettagliate su More. Pare che Erasmo si sia messo all’opera fin dal 1517 e due anni dopo abbia portato a termine quello che il Bremond chiama le portrait défi-nitif dell’amico inglese, la sua prima biografia in forma di lettera. Il More, qui magistralmente di-pinto, ha poco più di quarant’anni ed è passato dalla City al servizio del re esattamente da un anno,

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dal 23 luglio 1518. All’alba dell’età moderna con quella lettera, idealmente indirizzata alla Repub-blica delle Lettere e alla posterità, Erasmo propone More - laico nutrito di vasta cultura e di profon-da pietà, avvocato e diplomatico al servizio della cosa pubblica, padre e amico incomparabile - co-me l’uomo nuovo, il modello vivente e accattivante di un’umanità rinnovata e, per così dire, festiva.

È interessante mettere a fuoco anche la vicenda che portò ad uno scontro violento fra More e un

giovane umanista francese, Germain de Brie (il cognome latinizzato è Brixius); essa costituisce, in-fatti, un’altra splendida prova sia dell’amicizia, franca e indissolubile, che lega l’inglese e l’olandese, sia dello spirito cristiano che anima entrambi. In appendice all’edizione definitiva dell’Utopia - che uscirà nel marzo 1518, a Basilea - Erasmo vuol pubblicare gli Epigrammata, gli epigrammi in versi latini di More. È, come al solito, un atto di attenzione per l’amico, il quale, però, giudica che alcune di quelle composizioni - e precisamente quattro di esse - pecchino di animosità. Erano state scritte anni addietro per mettere in ridicolo la boria nazionalistica di De Brie, ma anche la mania degli inglesi di imitare tutto ciò che veniva dal Continente; tuttavia, secondo More, era op-portuno togliere ogni occasione di contesa. Erasmo non si preoccupava di reazioni inconsulte da parte di De Brie, che gli era molto affezionato; le cose, invece, andarono proprio come aveva temuto More. Il successo dell’Utopia comporta la vasta diffusione anche degli Epigrammi e ciò scatena il risentimento del francese, il quale si mette subito all’opera approntando una sua risposta in versi, l’ Antimorus. Quando Erasmo viene a saperlo, invia a De Brie una missiva per invitarlo a non pub-blicare il suo libello “al fiele”, che avrebbe posto l’uno contro l’altro due uomini a lui cari e fedeli. La lettera giunge al destinatario nel momento in cui l’ Antimorus è in corso di stampa, per cui il francese si sente autorizzato a metterlo in circolazione. More legge quell’opuscolo intessuto di odio-se malignità e, scrivendone a Erasmo, la sua amarezza esplode - è il caso di dirlo - con durezza i-naudita nei confronti del De Brie (Ep. 1087, primavera del 1520).

La lettera, sottaciuta dai biografi, è invece importante perché mette a nudo il temperamento for-temente impulsivo e passionale che More si portava appresso e contro quali ostacoli egli dovesse lottare per raggiungere quello stato di grazia - fatto di gentilezza cordiale, comprensione magnanima e festosa ospitalità del cuore - che tutti ammiravano in lui. Erasmo, assai preoccupato della piega che va prendendo la polemica, in cui del resto ha una sua parte di responsabilità, gli risponde in mo-do fermo, col tono del fratello maggiore che vuol essere ascoltato; ed è l’unica volta che questo ac-cade nella loro corrispondenza. Egli scongiura More, forse sarebbe meglio dire gli ordina, di non re-plicare in alcun modo al De Brie, mettendo semplicemente a tacere le ragioni a difesa del suo onore e del suo diritto a una riparazione: egli non vuol neanche entrare nel merito di quelle ragioni, perché la sola cosa da fare ora è chiudere una volta per sempre una diatriba quanto mai incresciosa (Ep. 1093).

La risposta di More - l’Epistola 1096 - è un documento eccezionale. All’inizio egli ha parole di rimprovero verso l’amico-fratello maggiore. De Brie ha torto e ha mostrato anche di non essere in buona fede, mirando non a ristabilire la verità, ma a porsi bene in vista con una polemica addirittura oltraggiosa; tuttavia Erasmo tiene ad annoverarlo ancora tra i suoi amici. C’è nelle frasi di More do-lore ed anche amarezza. Sembra emergere da esse questo appunto: “io sono il tuo amico più caro, ma tu non hai preso le mie difese, né hai voluto confermarmi nel mio buon diritto a sentirmi offe-so”. Questo incipit suona comunque rivendicazione della priorità della loro amicizia su ogni altra cosa; l’inglese, però, non si lascia vincere neppure per un attimo dal risentimento e, anzi, dà subito voce a qualcosa che si inscrive nell’ordine della nobiltà interiore, di ciò che proviene dalle sorgenti del cuore e dalle profondità dello spirito:

“Ho ricevuto la tua lettera, caro Erasmo, non quando il libro era in stampa, ma quando era già stampato

per intero. E poiché chi me la inviava è un uomo verso il quale io provo un sentimento che ai miei occhi vie-ne prima di ogni calcolo, io non ho imitato affatto il mio avversario De Brie [...]. Quanto a me, tranne due copie spedite una a te e l’altra a Gilles prima ancora che arrivasse la tua lettera, e altre cinque già vendute in

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libreria, io ho ritirato tutti gli esemplari e li tengo sotto chiave, in attesa che sia tu a decidere che cosa farne. Posso dire francamente di non odiare più De Brie e, ora che il mio animo si è purificato, arriverei ad amarlo per amore delle lettere” (Ep. 1096, maggio 1520).

Nella conclusione, finemente autoironica, della lettera More ricorda a se stesso e ai futuri lettori -

e dunque anche a noi - che una sorridente accettazione dei propri limiti aiuta a valutare ogni situa-zione per quello che essa è e a capire che, in ultima analisi, “è la pietà che l’uomo all’uom più de-ve”, per dirla con un verso del nostro Pascoli:

“Bisogna pur ridersela di ciò che è risibile e sono sicuro che un lettore che sia rimasto umano mi perdo-nerà di aver ceduto a sentimenti che sono propri di noi uomini: sentimenti da cui nessuno, del resto, riesce a liberarsi del tutto. Sì, è da qualche tempo che sono in questo mondo, ma non faccio ancora parte della socie-tà degli eletti” (ibid.).

Erasmo, che ringrazia More dal profondo del cuore, intende però volgere a un esito ben più alto

anche per De Brie l’epilogo della vicenda: il suo più ardente desiderio è che il francese, ora che so-no cessate le ostilità, possa avvicinare veramente More, nell’insieme dei suoi scritti, per stimarlo come merita e per divenirne amico: “Se tu conoscessi bene More - scrive Erasmo - confesseresti che nulla vi è al mondo più degno del tuo amore (si Morum penitus nosses, fateris nihil unquam gen-tium esse dignius tuo amore)”. E qui Erasmo passa a delineare un altro ritratto dell’amico prediletto (Ep. 1117, 25 giugno 1520), con particolare attenzione alle sue qualità di uomo di cultura e di scrit-tore. È il secondo dopo quello inviato a Ulrich von Hutten.

Germain de Brie è un animoso, combattivo rappresentante dell’intellighenzia francese, ma il ca-

po incontestato di essa è Guillaume Budé. Nel suo Paese egli è il primo tra i grecisti ed è lui a creare una disciplina affascinante, la storia del diritto, con le sue Adnotationes Pandectarum («Annotazioni delle Pandette»). Studioso della civiltà classica, non vive con la testa voltata all’indietro e nei suoi scritti sviluppa opinioni politiche e religiose assai critiche sulle istituzioni del suo tempo. Uomo di grande valore, Budé ha un temperamento non felice: convinto di essere, e non solo rispetto ai suoi connazionali, il numero uno tra i campioni dell’umanesimo, spesso nella corrispondenza inclina a mescolare cortesie, riconoscimenti e insinuazioni sgradevoli. Erasmo, però, capisce che Budé è un prezioso intermediario presso gli umanisti della sua nazione e gli rimane amico. Fa di più: lo mette in relazione con i suoi amici più cari, con More, Gilles, Tunstall ed altri. L’incontro tra Budé e More avviene nel giugno 1520 al Campo d’Oro, dove i due si trovano, anche se con funzioni diverse, al seguito dei rispettivi sovrani. Erasmo con la sua lettera vuol fornire a Budé la chiave per entrare nel mondo interiore dell’inglese, un uomo complesso e semplice a un tempo, capace di anticipare il meglio di un’umanità futura specialmente per il modo in cui concepisce e realizza la sua piccola “u-topia domestica”. Scritto con molta cura - a completamento di quelli eseguiti, da prospettive diver-se, per Hutten e De Brie - con l’Epistola 1233 Erasmo traccia un terzo ritratto di More che, vincen-do pregiudizi di ogni genere, è divenuto l’antesignano della promozione della donna. Nove anni più tardi, in una lettera all’umanista spagnolo Juan Vergara, Erasmo ricorderà ancora con immutato en-tusiasmo la casa di More come “domicilio delle Muse” (Thomae Mori domus nihil aliud quam Mu-sarum est domicilium - Ep. 2133).

Del resto, come fosse giudicato More, e non solo nella cerchia degli umanisti, lo si capisce dai

mille aneddoti che fiorirono intorno alla sua figura come uomo di spirito e magistrato integerrimo, ma anche da alcuni particolari significativi: il personaggio More, ad esempio, balza con netto rilievo persino da una guida all’apprendimento del latino, in cui il grammatico Robert Whittinton, pren-dendo dall’attualità gli esempi per una versione, nella parte posteriore del foglio 15 parla di Thomas More in questi termini:

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“Ha l’intelligenza di un angelo e una singolare sapienza; io non ne conosco una pari alla sua. Dove trova-re tanta dolcezza, umiltà, gentilezza e, secondo le circostanze, grave serietà o allegrezza straordinaria? Egli è un uomo per tutte le stagioni” (Vulgaria, 1520).

La frase finale a man for all seasons - certamente improntata all’espressione cum omnibus

omnium horarum homo, “un uomo di tutti in ogni momento”, che Erasmo usa nella lettera di dedica all’amico dell’Elogio della Follia - è divenuta la definizione più popolare e classica a un tempo di More. Essa sta a significare sia la sua perfetta disposizione a essere all’altezza di ogni situazione, fino a quella suprema del sacrificio della vita, sia la possibilità per gli uomini di qualsiasi epoca sto-rica di incontrare More e di accoglierlo per molte buone ragioni come ideale compagno di viaggio.

Negli anni in cui More è sempre più impegnato a servizio dello Stato, il rapporto più affettuoso è quello che intercorre tra Margaret, la figlia primogenita di Thomas, e il vecchio amico del suo papà. Non è un caso, infatti, che sia Meg a presentare il 1° ottobre 1524 la prima traduzione inglese, la sua, di un’opera erasmiana, la Parafrasi del Padre Nostro; ma a preparare un’altra bellissima “sor-presa” per Erasmo è tutta la famiglia che coopera. A Chelsea fa bella mostra di sé il ritratto eseguito nel 1517 da Metsys, ed ecco che More e i suoi vogliono rendersi presenti allo stesso modo a Era-smo. In effetti il pittore che avrebbe potuto emulare il grande Metsys era a portata di mano. A Basi-lea la riforma iconoclasta “faceva gelare le arti” (hic frigent artes, scriveva l’olandese a Gilles nell’estate del ‘26 - Ep. 1740) e Hans Holbein il Giovane se ne allontana per trasferirsi in Inghilter-ra, con una lettera di presentazione per More ( Ep. 1770). Holbein divenne ben presto ospite di casa More, a Chelsea, e lì ritrasse la famiglia More al completo, tra il febbraio e l’aprile 1527. Molto probabilmente fu lo stesso Holbein a portare nella sua Basilea il quadro a Erasmo, il quale accolse quel dono con esultanza e ne scrisse a Margaret il 6 settembre 1529 in modo toccante:

“Margaret Roper, onore della tua Inghilterra, difficilmente potrei esprimere con parole il piacere che ho provato nel mio cuore, perché il pittore Holbein ha ritratto per me tutta la tua famiglia in maniera così felice che, se io stesso fossi in mezzo a voi, non potrei vedervi meglio. Spesso tra me e me col pensiero torno a de-siderare che, prima del termine inevitabile della mia vita, io abbia la gioia di rivedere la vostra piccola briga-ta, a me tanto cara, a cui io debbo in buona parte la mia riuscita e la mia fama: dell’una e dell’altra, infatti, a nessuno più che a voi sono debitore. La mano geniale del pittore ha adempiuto in gran parte il mio ardente desiderio. Nel quadro siete tutti somigliantissimi, ma nessuno lo è più di te. Attraverso il tuo bel viso io vedo risplendere la tua anima, che è ancor più bella” (Ep. 2212).

Il quadro del gruppo di famiglia disgraziatamente è andato perduto, ma di esso sono state esegui-te parecchie copie; di Holbein rimane comunque quello che probabilmente è lo schizzo preparatorio, in inchiostro di china su carta, con l’indicazione in latino dell’età di ognuno e con un appunto su modifiche da apportare. Il disegno è conservato al Kunstmuseum di Basilea. Anche solo sulla base di queste continue, reciproche attestazioni di affetto e di grande delicatezza, e prescindendo dai con-tinui richiami a More nella corrispondenza di Erasmo con amici ed estimatori di mezza Europa, ci pare francamente difficile accogliere la tesi di un “raffreddamento” nei loro rapporti a causa di pre-sunti dissapori. Il periodo in cui il rapporto tra i due si fa più difficile, per ovvi motivi di prudenza e di riservatezza, è quello in cui More tocca l’apice della carriera politica, diventando Lord Cancellie-re. Erasmo, che aveva una netta predilezione per l’Inghilterra, non volle stabilirsi definitivamente nell’isola per una ragione molto precisa: “Mi fa orrore - aveva scritto a More senza mezzi termini anni addietro - l’idea di stare sotto un tiranno” (Ep. 597 del 10 luglio 1517). Si capisce, quindi, qua-le fosse il suo stato d’animo nel vedere la persona che gli era più cara esposta, a causa del suo inca-rico, al più grave pericolo: More è elevato alla dignità più alta dopo quella del re, ma per volere di un re che, con tutto il suo fascino, è pur sempre un autocrate da cui ci si può attendere di tutto. Dopo quella nomina, Erasmo scrive lapidariamente a Tunstall, anch’egli intimo di More e dal 1522 ve-scovo di Londra: “Io mi felicito per l’Inghilterra, ma non certo con Thomas More” (Ep. 2263). Il 30

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marzo 1530 Erasmo ribadiva quel giudizio in una lettera a Lord Mountjoy (Ep. 2295). In realtà nep-pure More si felicitava con se stesso.

5. GLI ANNI DELLA DISILLUSIONE E LA FINE DELL ’UNITÀ RELIGIOSA a. More apologista.

L’abbraccio tra Erasmo e More a Bruges, nell’agosto 1521, e un mese dopo la lettera dell’olandese a Budé, con lo schietto elogio dell’amico inglese, chiudono un’epoca. Nei dieci, dodi-ci anni successivi la storia registra un’accelerazione incredibile a causa della rivoluzione portata dal-la stampa nella circolazione delle idee e per l’intreccio di fattori molto diversi, tra i quali assumono particolare rilevanza la protesta religiosa, il destarsi della coscienza nazionale tedesca e l’agitazione sociale. Tra il 1510 e il 1525 la leadership culturale e religiosa in Europa è formata in netta preva-lenza dagli umanisti cristiani, tra i quali primeggiano Budé, Erasmo e More; intorno alla metà degli anni Venti chi domina la scena è, invece, un ex monaco agostiniano di Wittenberg, il teologo Martin Lutero, divenuto in pochi anni maestro di fede, scrittore efficacissimo e formidabile trascinatore di folle. Negli studi della seconda metà del Novecento l’interesse si è portato sempre più sulla teologia di Lutero, perché questa caratterizza il riformatore di Wittenberg più della sua critica nei confronti della Chiesa; ma per i contemporanei, ed anche per Erasmo, non fu affatto così: fu la critica ai co-stumi corrotti della Chiesa che diede alla protesta religiosa una risonanza immediata e vastissima, rendendo popolare il nome di Lutero e vittoriosa la sua lotta, al punto che in meno di due lustri metà Europa si pose al suo seguito.

Il verbo di Lutero giunse anche in Inghilterra e il re scese in campo di persona a contrastare l’eresia. Aiutato nella ricerca del materiale di documentazione dal suo ministro e consigliere Tho-mas More, Enrico VIII scrisse contro Lutero una Difesa dei sette sacramenti, pubblicata nel luglio 1521, e per questo fu insignito da Leone X del titolo di defensor Fidei; ma sette anni dopo, nel ‘28, una donna da cui il re era molto attratto, Anne Boleyn, gli pose tra le mani un opuscolo di William Tyndale, L’obbedienza di un cristiano, in cui il distacco da Roma veniva associato alla tesi del do-vere di sottomissione assoluta dei credenti ai principi temporali. Dopo averlo letto, Enrico VIII a-vrebbe esclamato: “Ecco il libro che fa per me!”. Tyndale era stato prete cattolico e aveva tradotto in inglese il Manuale del soldato cristiano di Erasmo. Una volta passato al luteranesimo, aveva soggiornato un anno a Wittemberg per approntare la versione inglese del Nuovo Testamento, pub-blicata nel 1526. Quella versione fu introdotta clandestinamente nell’isola insieme a numerosi e agi-li opuscoli degli evangelici.

I vescovi e i teologi erano impreparati a fronteggiare la nuova situazione e il vescovo di Londra, Cuthbert Tunstall, supplicò un amico, a lui particolarmente caro e già molto preso da importanti oc-cupazioni, di assumersi nel tempo libero la fatica supplementare di leggere e confutare gli scritti de-gli eretici. La vittima designata era More, che si accinse all’impresa con grande impegno. Nel 1529 pubblicò l’opera sua migliore in questo campo, il Dialogo concernente le eresie. L’esame delle tesi di Lutero-Tyndale da parte di More investe tutti i punti su cui le nuove dottrine rovesciano le anti-che: la condizione nell’aldilà di chi non sia stato né santo, né peccatore impenitente; l’uso corretto delle immagini e delle pratiche di pietà; il dovere di cogliere gli aspetti positivi della “religione po-polare”, che va incessantemente purificata e non respinta a priori come superstizione satanica; il ce-libato del clero; la difesa del valore esemplare dei martiri e dei santi, fedeli e originali imitatori di Cristo; la giustificazione dei sacramenti e così via.

Con l’intelligenza e la preparazione che aveva, More avrebbe potuto scrivere una sintesi di gran-de respiro sui problemi più dibattuti, senza estenuare le sue forze in un lavoro di documentazione minuziosa; tuttavia qua e là riesce ad emergere lo stesso il pensatore originale e penetrante, che sa afferrare il nocciolo di una questione e i caratteri della crisi della coscienza europea del suo tempo. More coglie nel segno, ad esempio, quando denuncia l’errore di metodo degli eretici, che attribui-scono le colpe degl’individui alle istituzioni, per rifiutare poi le istituzioni, e cancellano l’haec face-

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re et illa non omittere del Vangelo, sostituendolo con un perenne e perentorio aut aut, o questo o quello, che non permette mai di afferrare l’interazione necessaria tra aspetti diversi di uno stesso problema. Né manca di far capolino anche in questi scritti quell’amore intransigente per la giustizia, che lo aveva reso celebre come giudice e come autore di Utopia: nell’Apologia, che è del 1533, Mo-re non accetta che il clero delle parrocchie debba vivere in miseria, mentre gli alti prelati sguazzano nelle ricchezze; a costoro la Chiesa, per sua interna disposizione, dovrebbe togliere il denaro che sprecano nel superfluo e nello sfarzo più vergognoso per impiegarlo in attività caritative e, più pre-cisamente, a finanziare le scuole per i figli della povera gente.

Il problema discusso più in profondità da More è, però, quello della Chiesa. Sulla Chiesa società mistica e regno di Dio realizzato, “dove l’errore e il peccato sono assenti”, tutti sono d’accordo; è l’altra Chiesa, infatti, che fa problema, quella che è entrata nella storia del mondo e che si presenta, ora come all’inizio, in una duplice dimensione: la dimensione della divino-umanità del suo capo e maestro, Gesù Cristo, e quella semplicemente umana dei suoi membri tra i quali, insieme a uomini e donne che vivono in totale dedizione a Dio e al prossimo, ci sono peccatori e traditori. La logica dell’incarnazione ci impone di testimoniare il Cristo nel mondo e attraverso una Chiesa che deve continuamente annunciare il Vangelo e, nello stesso tempo, riconoscere la sua inadeguatezza a te-stimoniarlo. Il realismo ecclesiologico di More non poteva essere più schietto e deciso, ed è alla lu-ce di esso che egli pone e avvia a soluzione la questione del rapporto tra Chiesa e Scrittura. La tesi basilare di Lutero-Tyndale è l’anteriorità cronologica e l’assoluta priorità di valore della Scrittura sulla Chiesa. More, che non ama teorizzare in astratto, ricorda ai suoi interlocutori che vi è distin-zione e continuità fra Parola orale e Scrittura e che se la Parola orale è venuta prima della Chiesa e ha presieduto alla sua nascita, la Chiesa, a sua volta, ha fatto sì che la Parola orale diventasse Scrittura. “La Chiesa primitiva - si precisa nell’Apologia - si riuniva a professare la fede prima che una qualsiasi parte del Nuovo Testamento fosse stata redatta”. Del resto anche le origini della fede nel popolo inglese confermano questa realtà: l’Inghilterra è stata evangelizzata e le anime conobbe-ro la Parola di Dio prima e senza l’uso del libro. I luterani reclamano l’uso esclusivo della Bibbia, ma se tanta parte della popolazione è illetterata, se ne deve per questo concludere che l’analfabetismo è causa di dannazione? Chi oserebbe proferire una bestemmia del genere?

Tyndale e More si fronteggiarono a viso aperto, eppure le loro esistenze furono unite da uno stes-so destino: passarono tutti e due per le stesse prove e pagarono entrambi con la vita la fedeltà alle loro convinzioni. Sulla questione del divorzio Tyndale si schierò inaspettatamente con Caterina con-tro Enrico, “il leone al quale egli aveva rivelato la sua forza”, come acutamente ha osservato Ger-main Marc’hadour. Costretto a fuggire in esilio, Tyndale non tornò in patria neppure dopo la sepa-razione della Chiesa d’Inghilterra da Roma e l’invito rivoltogli dallo stesso Enrico VIII. Nei Paesi Bassi fu preso e incarcerato dalle autorità imperiali; nell’ottobre 1536, quindici mesi dopo la decapi-tazione di More, fu strangolato e, una volta morto, arso sul rogo. b. Che cosa significò per Erasmo la “tragedia luterana”

L’umanista riformatore vide subito le potenzialità positive che la protesta di Lutero avrebbe po-tuto avere per il rinnovamento religioso, se portata avanti con spirito cristiano e con i mezzi che quello spirito comanda. Ogni volta che Erasmo pensa a Lutero o scrive di lui, abitano sin dall’inizio insieme nel suo animo la speranza più grande e la paura di vederla atrocemente vanificata. Erasmo giunge addirittura a scrivere al principe di Sassonia, Federico il Saggio, perché prenda Lutero sotto la sua protezione, temendo per la sua incolumità (Ep. 933); quando, però, Lutero di lì a poco chiede l’avallo erasmiano, il rifiuto è cortese, ma inequivocabile (Ep. 980). L’umanista cristiano, che si era battuto per la riforma della Chiesa almeno quindici anni prima di Lutero, non ci sta a essere arruola-to in un movimento che non è il suo e di cui nessuno può prevedere per quali vie s’incamminerà.

Lutero e i suoi passarono allora ad accreditare l’idea di un tacito accordo tra i “due Ercoli della teologia”; l’astuta manovra trovò un’immediata eco tra i numerosi avversari dell’olandese in campo cattolico e suggerì anche ai posteri, purtroppo, un’immagine deformata della personalità, del pensie-

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ro e del ruolo storico di Erasmo. In realtà il grande umanista non gioca affatto questa sorta di jeu des dupes: il suo scopo è prima di tutto ammonire Roma a prendere sul serio la protesta di Lutero e a non difendere ciò che invece doveva ripugnare a chiunque avesse a cuore la pietà autentica e la pu-rezza del Vangelo. Occorreva mettere subito fine, o almeno un freno, alla violenta campagna di dif-famazione di monaci e teologi contro Lutero, per tenere aperta la porta al dialogo tra Roma e Wit-tenberg nella speranza di evitare la rottura.

Erasmo non si stanca di raccomandare a Lutero - per lettera, o attraverso comuni amici - modera-zione e purezza di cuore; ai papi, però, chiede con insistenza di riconoscere onestamente, prima che sia troppo tardi, dove i dissidenti hanno ragione, cercando sul resto un’onorevole intesa. La media-zione tra Roma e Wittenberg era necessaria e va da sé che il più convinto e autorevole assertore di essa fosse tenuto ad assumere, affinché quella prospettiva rimanesse aperta, un atteggiamento neu-trale tra le due parti. Erasmo aveva mille ragioni per temere quello che poi effettivamente accadde e fece di tutto perché la protesta non diventasse scisma. La sua lungimiranza, il suo coraggio, il suo anticonformismo sul “problema Lutero” fanno di lui il primo dei grandi spiriti ecumenici; allora, pe-rò, non gli procurarono che accuse e incomprensioni, sospetti e amarezze da una parte e dall’altra. Tutto divenne assai più difficile, quando nel giugno del 1520 fu emessa la bolla Exsurge Domine, con cui Leone X condannava Lutero pur senza nominarlo, e in ottobre Lutero rispose imprimendo una svolta violentemente anticattolica alla sua protesta, con lo scritto La schiavitù babilonese della Chiesa. Erasmo si lamentò con Leone X della bolla (Ep. 1143) perché la scomunica ostacolava gli sforzi di quanti lavoravano a non far cessare del tutto il dialogo tra le due parti.

In campo cattolico la tempesta luterana forniva nuovi pretesti ai conservatori contro Erasmo, il presunto “luterano mascherato”, e questa volta l’attacco gli fu mosso nella sua stessa terra, all’università di Lovanio, e fu tale da costringerlo verso la fine del 1521 a trasferirsi a Basilea, la cit-tà in cui sorgeva l’officina di Froben, da cui usciranno le più belle edizioni dell’umanista. L’amarezza di Erasmo nasceva dal constatare la pervicace incomprensione di tutta la sua opera da parte di chi - teologi, università e ordini religiosi - avrebbe dovuto essere più preparato ad accoglier-la; ma anche e soprattutto dalla consapevolezza del danno incalcolabile che arrecava alla Chiesa cat-tolica la prevalenza dei conservatori in una delle ore più difficili e decisive per il futuro dell’intera cristianità. I conservatori, che pretendevano di essere i soli custodi e maestri dell’ortodossia, si illu-sero di ridurre al silenzio Lutero, facendolo mettere al bando dell’impero; ma in tal modo ne decre-tarono il trionfo. Erasmo, malgrado tutto, non rinuncia ancora a sperare e a lottare e, quando il 9 gennaio 1522 diventa papa, col nome di Adriano VI, un olandese tutt’altro che maldisposto nei suoi confronti, gli scrive per supplicarlo di prendere al più presto quei provvedimenti atti a suscitare fi-ducia nella Chiesa universale, riportando la pace e l’unità tra i cristiani. Le proposte preliminari pre-sentate al papa erano esplicite e concrete: la rinuncia a usare mezzi repressivi verso i dissidenti, un’amnistia generale, serie riforme per cancellare soprusi di ogni genere (Ep. 1352). Adriano VI morì troppo presto, nel settembre 1523, e pertanto non fu possibile accertare se e fino a qual punto i suoi progetti fossero in sintonia con quelli del suo conterraneo.

Nell’estate di quel 1523, anche il mondo luterano - falliti i tentativi prima di annessione e poi di utilizzazione strumentale - rompeva apertamente con Erasmo. L’attacco al maestro dell’umanesimo cristiano fu portato con inaudita violenza da Ulrich von Hutten, già suo protetto, che si era messo a capo di una banda armata, credendo così di servire la causa dell’unità nazionale tedesca e del lutera-nesimo estremo. Nella sua Expostulatio («Spiegazione») Hutten definisce Erasmo uomo di grande intelletto, ma privo di carattere; il quale sa che la verità del Vangelo è stata riportata in onore da Lu-tero, ma la tace o le si oppone per vigliaccheria e interesse. A settembre arrivò come un fulmine la risposta di Erasmo, la Spongia, ossia «La spugna» per pulire gli schizzi di fango di Hutten. L’apostrofe iniziale è particolarmente felice nel farci capire le idee e la linea di condotta di Erasmo:

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“Non nego di cercare la pace ovunque è possibile. Credo di dover guardare a entrambe le parti con oc-chio aperto. Amo la libertà. Non posso e non voglio servire un partito. Ho affermato che non si può soppri-mere tutto l’insegnamento di Lutero senza sopprimere il Vangelo; ma per il fatto che io abbia appoggiato Lutero all’inizio, non vedo perché si debba pretendere che io approvi tutto ciò che ha detto in seguito” (Ope-ra omnia, Leiden 1703-1706, J. Leclerc ed., vol. 10°, 1637-1638 B).

Né meno significativa è la conclusione: occorre che luterani e cattolici imparino a convivere no-nostante tutto, perché discordie e ingiurie, bolle e roghi non portano con sé nulla di buono. La morte colse Hutten su un’isola del lago di Zurigo nel momento in cui veniva pubblicata la risposta di Era-smo al suo libello.

L’anno seguente, nel marzo 1524, Erasmo per due volte torna a parlare di Lutero con piena, deli-cata comprensione del suo compito. A Giorgio Spalatino scrive che “Lutero non può perire, senza che con lui scompaia una gran parte della purezza evangelica” (Ep. 1348). La lettera fu quasi certa-mente letta anche da Lutero, tramite Federico il Saggio. L’altra occasione fu l’ennesima edizione dei Colloqui, con l’aggiunta del dialogo “Esame della fede”, che si svolge tra un cattolico e un lutera-no. Lo scopo è di mostrare che l’uno e l’altro accettano integralmente il Credo apostolico; ma se questo accordo esiste, opinioni diverse su altre questioni non sono necessariamente eresie. Sono due documenti generosi nei confronti del riformatore di Wittenberg ed esprimono alla perfezione la forma mentis di Erasmo; se non che erano proprio la sua mentalità e il suo modo di sentire che ripu-gnavano sempre più a Lutero, per il quale l’allergia dell’umanista cristiano allo spirito di asseveran-za, il suo senso critico e la sua moderazione erano altrettante prove di scarso fervore e di scetticismo teologico (moderata sceptica Theologia). Dopo Hutten, il cui attacco aveva fatto da detonatore, è Lutero in persona che nella primavera del 1524 invia una sorta di diffida ad Erasmo. Lutero esordi-sce affermando che evidentemente è superiore alle forze dell’olandese mettersi con decisione al suo fianco, essendo debole di carattere e di limitate risorse. All’insulto, però, segue una supplica rac-chiusa in una frase di struggente sincerità:

“Ti domando, se non puoi far altro, che tu sia soltanto spettatore della nostra tragedia” (A te peto ut, si a-liud praestare non potes, spectator sis tantum tragediae nostrae, Ep. 1443).

Il commento più penetrante a questo passo della lettera di Lutero l’ha espresso Lucien Febvre, scrivendo: “Fra tutti gli omaggi che ha ricevuto in vita il grande umanista, io non ne conosco uno più bello. Gli è reso da un avversario, forte del suo trionfo, e non di meno tradisce qualcosa di più di un involontario rispetto” (Un destin: Martin Luther, Paris 19484, p. 172).

Erasmo prova un’intima esitazione a entrare in un campo che non era il suo, come scrive all’amico Louis Ber (Ep.1524); tuttavia le preghiere insistenti degli amici cattolici e le insolenze di Lutero lo convinsero a scrivere e a pubblicare Il libero arbitrio, che uscì contemporaneamente a Ba-silea e ad Anversa nel settembre 1524. Vi aveva posto mano perché pressato da molti amici, ma l’argomento scelto andava veramente al nocciolo della questione, come riconobbero subito Melan-tone e lo stesso Lutero. Quel tema, però, era anche decisivo per ogni umanista cristiano. Dice molto bene Renaudet: “Erasmo, umanista cristiano, difende contro Lutero la base stessa dell’umanesimo cristiano”.

La più dura di tutte le affermazioni di Lutero (durissima omnium sententia) è per Erasmo quella che considera la libertà di scelta un nome vano per l’uomo e una pretesa blasfema, essendo essa una prerogativa esclusiva di Dio, che opera in noi il bene e il male. La critica di Erasmo è stringente e chiara, benché rispettosa. Lutero nel dicembre del 1525 replicò a muso duro con Il servo arbitrio, rovesciando sul principe degli umanisti - una volta chiamato “venerato maestro” - insinuazioni e in-vettive di ogni genere e condensando la sua fosca visione teologica in una formula ancora più esa-sperata:

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“La volontà umana è posta nel mezzo come un giumento. Se lo cavalcherà Dio, vuole e va dove Dio vuo-le [...]. Se lo cavalcherà Satana, vuole e va dove vuole Satana” (Humana voluntas in medio posita est ceu iumentum. Si insederit Deus, vult et vadit quo Deus vult [...]. Si insederit Satan, vult et vadit quo vult Satan - De servo arbitrio, in Luthers Werke ediz. Weimar, vol. 18°, p. 635).

Erasmo ebbe tra le mani Il servo arbitrio nel febbraio del 1526 e in dodici giorni scrisse e pub-blicò, requisendo i sei laboratori di Froben, una prima replica; la seconda - insistentemente sollecita-ta anche da More - apparve in settembre. L’opera si intitola Hyperaspistes («Scudo di difesa contro il ‘Servo Arbitrio’ di Lutero»). Le posizioni estreme sul problema del libero arbitrio sono quelle di Pelagio e Lutero. L’uno e l’altro hanno una concezione antagonistica del rapporto tra l’uomo e Dio e fanno sparire uno dei due termini: Pelagio relega Dio al ruolo superfluo di notaio che registra, a cose fatte, ciò che senza il suo aiuto l’uomo ha raggiunto con le sue sole forze; Lutero fa di Dio la causa unica, totale, esclusiva non solo del bene, ma anche del male che egli opera in noi. L’ottimismo antropocentrico del primo e il pessimismo radicale del secondo appaiono a Erasmo come i due poli dell’errore e della sofistica in campo teologico. Pelagio afferma: “Dio mi ha fatto uomo, io mi faccio giusto”; Lutero gli contrappone: “Ogni azione dell’uomo è peccato”. Né l’uno né l’altro sono in grado di associare creazione e redenzione, natura e grazia, volere umano e volontà divina. La salvezza è sempre grazia, ma l’uomo non può salvarsi contro la sua volontà e Dio, bontà infinita, non lascia perdere nessuno che non voglia egli stesso perdersi.

c. Strategie diverse e convergenze profonde

È inevitabile chiedersi in che cosa le posizioni di Erasmo e di More sulla questione Lutero siano simili, o addirittura identiche, e in che cosa differiscano. Innanzi tutto è bene ricordare che gli scritti controversistici in quanto tali non piacevano per nulla a Erasmo perché, a cominciare da quelli di Agostino, sono tutti esposti al pericolo di sostenere tesi estreme in risposta ad asserzioni ancora più estreme. L’olandese, però, non lesse le opere di More su Tyndale perché scritte in una lingua, l’inglese, che non conosceva. Certamente, in alcune pagine l’oltranzismo polemico tenta anche Mo-re, ma nell’insieme egli riuscì a vincerlo grazie al suo buon senso, alla conoscenza dell’animo uma-no e al lungo sodalizio spirituale con Erasmo. Qualche biografo ha parlato di “rottura” e qualche studioso di “gelo” fra i due, a causa del diverso modo di rapportarsi a Lutero, che col suo successo aveva spiazzato quel “partito” riformatore di cui Erasmo e More erano gli esponenti più noti. Del presunto dissidio e del preteso gelo, però, non si ha la benché minima prova, né da solo può essere accolto come indizio il rarefarsi della corrispondenza, compensato tra l’altro da attestazioni di affet-to dell’uno verso l’altro, espresse mediante gesti concreti e nelle lettere inviate a comuni amici in quello stesso periodo.

Nel contrapporsi alle nuove dottrine, More è pur sempre l’intellettuale che vuol capire e il catto-lico che vuol rafforzare in sé e negli altri la fede che professa; ma egli è anche il politico che vuol risparmiare al suo Paese i disordini sociali che in Germania hanno accompagnato la rivoluzione re-ligiosa e, nello stesso tempo, salvaguardare il vincolo di unione della Chiesa d’Inghilterra alla Chie-sa di Roma. Inopinatamente, sarà il secondo obiettivo a palesarsi in breve tempo il più difficile a es-sere conseguito. Erasmo e More concordano perfettamente nel prevedere che la rottura dell’unità re-ligiosa, combinandosi con le rivalità politiche, avrebbe portato alle guerre di religione. Essi si chie-dono, sgomenti: se si dovesse arrivare a quel punto, quanti spaventosi misfatti saranno commessi in nome della fede e quanto tempo ci vorrà prima che la pace tra i cristiani possa essere ristabilita? Una logica perversa sembra menar diritto a un esito che dovrebbe riempire di orrore ogni discepolo di Cristo; ma quella catastrofe si può evitare se si cerca subito, senza preclusioni e riserve mentali, ogni possibile chiarimento e intesa. Bisogna però far presto, incalza Erasmo, prima che si accendano da una parte e dall’altra i roghi dell’intolleranza e le guerre portino nel cuore stesso dell’Europa moderna lutti e rovine finora inimmaginabili. Questo fu il tormento di Erasmo, questa la sua posi-

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zione per cui egli fu permanentemente destinato ad apparire “guelfo per i ghibellini, ghibellino per i guelfi”.

Lo scenario e i compiti di More e di Erasmo nel loro confronto con Lutero non sono, dunque, gli stessi, senza essere per questo fra loro in conflitto. Ambedue avvertono con angoscia quanti e quali pericoli comporti la perdita dell’unità religiosa dell’Europa, causata a sua volta da una crisi di cui essi sono testimoni d’eccezione, e si può anche dire che, con qualche sfumatura in più, le conclusio-ni a cui perviene More nei suoi scritti apologetici Erasmo avrebbe potuto sottoscriverle, se avesse potuto conoscerle. Tuttavia il “problema Lutero” è vissuto da Erasmo come una tragedia che lo sconvolge nel profondo e che, riflettendosi nei rapporti con tutti gli altri, dal 1519 in poi diventa il motivo dominante della sua vastissima corrispondenza.

Vi è, infine, un aspetto non secondario su cui occorre richiamare l’attenzione. Nella controversia con Tyndale More assume posizioni che non sono certo quelle oltranziste dei conservatori di parte cattolica, con i quali a suo tempo aveva polemizzato molto vivacemente, in difesa di Erasmo; ora la situazione è mutata e altre sono le battaglie per cui combattere, altri gli avversari da fronteggiare. In una parola, dinanzi all’attacco luterano More pone tra parentesi, pur senza mai sconfessarle, le grandi polemiche del passato. Per Erasmo, al contrario, quelle polemiche non appartengono affatto al passato, anche perché le aggressioni dei conservatori al suo onore cristiano sono diventate assai più numerose e violente proprio con l’esplodere della protesta luterana. Erasmo non concede nulla, avverte il dovere di non dimenticare e di contrastare attivamente fino all’ultimo, ribattendo colpo su colpo, quel “partito” la cui prevalenza - nelle università, nella curia romana, fra i teologi, nella pre-dicazione e negli ordini religiosi tradizionali - aveva dato, sia pure praeter intentionem, un contribu-to enorme al successo di Lutero.

Erasmo, coscienza critica ed anche un po’ enfant terrible della Chiesa cattolica, rimase sempre in essa, ma ebbe discepoli e amici sinceri nei due schieramenti e il termine “erasmiano” stette a signi-ficare uno spirito che cerca e costruisce la pace, rifiuta il fanatismo e non rinuncia alla grande spe-ranza di ricomporre l’unità religiosa tra i seguaci di Cristo. Erasmiano fu detto allora anche chi lavo-rava alla reciproca convivenza delle confessioni cristiane all’interno di uno stesso Stato (Ep. 2366). La Confessio augustana del 1530 - quando Erasmo e More erano ancora in piena attività - e la Dieta di Ratisbona dieci anni dopo, nel 1540, quando i due amici erano entrambi morti, resero visibile all’Europa e alle due Chiese la larghezza di vedute e il coraggio degli erasmiani. L’erasmismo ha costituito comunque, nell’ampio arco di quasi mezzo millennio, un punto di riferimento alto per la coscienza cristiana, una fonte d’ispirazione per l’ecumenismo, una vera e propria “magistratura spi-rituale”, come ha scritto felicemente Roland Bainton. L’irrefrenabile avversione che Lutero nutrì fi-no alla sua morte nei confronti del grande olandese non può farci dimenticare che Erasmo aveva vi-sto giusto nel cogliere le esigenze profonde da cui era nata la protesta e l’anima di verità che si cela-va nelle stesse “iperboli teologiche” del riformatore di Wittenberg. Agli occhi di Erasmo Lutero, malgrado il suo linguaggio aggressivo ed estremo, ha avuto un grande merito: ha voluto porre la Scrittura nelle mani del popolo cristiano e ha proclamato la gratuità della salvezza, facendo riscopri-re a tutti i cristiani che la grazia di Dio, lungi dall’essere meritata, è essa stessa la sola sorgente pos-sibile di un merito che non sia illusorio. Dopo il Concilio Vaticano II questi giudizi sono largamente condivisi nella Chiesa cattolica e nelle Chiese evangeliche. Ben pochi, però, sanno ancora oggi che a formularli alcuni secoli prima fu Erasmo. 6. MORE LORD CANCELLIERE E IL SUO RITIRO

La nomina di More a Gran Cancelliere avviene in una situazione resa dirompente dalla questione del divorzio da Caterina d’Aragona e dal pressing asfissiante di Anne Boleyn su Enrico VIII. Il 25 ottobre 1529, a Greenwich, More riceve dalle mani del re lo scettro di Gran Cancelliere d’Inghilterra. Il giorno dopo presta giuramento a Westminster. Al duca di Norfolk, che prende la pa-

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rola in nome del sovrano per ricordare “quanta gratitudine debba l’Inghilterra a sir Thomas More”, questi risponde con un discorso nobile e triste, a dir poco sorprendente:

“Ho ragione di guardare alle dignità umane come a cosa di poca durata e al posto di Cancelliere come molto meno desiderabile di quanto pensino coloro che me ne vogliono onorare. Per questo mi accingo a sa-lirvi come a un posto pieno di fatica e di pericoli, privo di ogni onore solido e reale: un posto dal quale tanto più si deve aver timore di cadere, quanto più è in alto” (Th. Stapleton, Vita Thomae Mori, in Tres Thomae, 1588).

All’indomani, il 28 ottobre, dalla casa di campagna di Chelsea More scrive a Erasmo, “colui che è più della metà della mia vita”, per annunciargli l’avvenuta nomina a Lord Cancelliere. Lo fa in questi termini:

“Alcuni amici sono esultanti e si congratulano vivamente con me. Ma tu, che hai l’abitudine di pesare le vicende umane con sagacia e prudenza, forse mi compiangerai per la mia fortuna” (tu qui res humanas soles prudenter et sollerter expendere, fortunae meae fortasse miserebis - Ep. 2228).

More, dunque, non si fa alcuna illusione e sa bene ciò che da un momento all’altro può accadere; ma allora perché accettare una carica che inevitabilmente lo pone nell’alternativa di piegarsi o spez-zarsi? La risposta, a mio avviso, è in questo passaggio dell’Utopia:

“Non si deve abbandonare la nave in mezzo alle tempeste solo perché non si possono estinguere i venti. Si deve operare, invece, nel modo più adatto per cercare di rendere se non altro minore quel male che non si è in grado di volgere al bene” (Utopia, The Yale University Ed., 1965, vol. IV, p. 96).

More è lucidamente consapevole del rischio gravissimo a cui va incontro e tuttavia crede, quale che sia il costo da pagare sul piano personale, di non doversi sottrarre a due precisi doveri: servire il bene comune del proprio Paese in un momento di estrema difficoltà e mettere in atto l’unico tentati-vo legale possibile affinché la faccenda del divorzio non sfoci nello scisma religioso. C’è un episo-dio, fra i tanti, che aiuta a capire l’animo disincantato e la libertà interiore con cui More affronta le dure responsabilità della politica. Nel corso del 1529, quando era in pieno svolgimento la guerra con la Francia, una sera, senza farsi annunciare, il re si recò a cena a Chelsea e dopo si intrattenne a pas-seggiare per un’ora in giardino, appoggiando il braccio sulle spalle di More. Nella sua Life of Sir Thomas More, William Roper, il marito di Margaret More, racconta:

“Appena Sua Grazia se ne fu andato, io domandai tutto lieto a sir Thomas More quanto fosse anche lui contento che il re lo trattasse con tanta familiarità, come non mi era mai accaduto di vedergli fare con nessun altro [...]. Mi rispose: - Di ciò ringrazio Dio, figliolo. Ma posso anche dirti che non vedo la ragione per an-darne fieri: se la mia testa potesse servire al re a conquistare una fortezza in Francia, non esiterebbe a farla cadere.”

More sarà Cancelliere dal 25 ottobre 1529 al 16 maggio 1532: due anni, sei mesi e tre settimane. Sulla “grave questione del re” (the King’s Great Matter), il divorzio da Caterina per sposare Anne Boleyn, la sua linea di condotta è assai riservata e al tempo stesso molto precisa: solo conversando in privato con il re e su sua richiesta, egli espone le sue personali opinioni sullo scioglimento del matrimonio; ritiene tuttavia la questione non di sua competenza, ma degli specialisti in diritto cano-nico e della Santa Sede; chiede pertanto di esserne tenuto del tutto fuori, così come di non essere mai costretto a pronunciarsi su di essa pubblicamente. Il re, a sua volta, assicura il Lord Cancelliere che rispetterà la sua libertà di coscienza. Certamente nella sua stima egli pone More al di sopra di tutti, ma ci si deve chiedere fino a che punto sia sincero con lui, e fino a che punto pensi di ricattarlo con la sua stessa benevolenza, piegando prima o poi anche lui al suo volere.

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Nei settori in cui è chiamato a operare, il nuovo Cancelliere lavora con l’acuta intelligenza e la straordinaria capacità realizzatrice che tutti gli riconoscono; ma egli è soprattutto il “Ministro dell’Equità” per antonomasia, a causa del suo impegno nel rendere giustizia a chi l’attende da tre, dieci, dodici anni. Il suo lieto trionfo lo ebbe il giorno in cui, aperte le udienze e definita una causa, quando chiamò la successiva, si sentì rispondere che non c’era più nessuno che attendesse giudizio. “Volle che l’avvenimento venisse registrato negli atti ufficiali della Court of Chancery”, ci ricorda uno dei suoi primi biografi; e ancora due generazioni più tardi la cosa non cessava di suscitar mera-viglia. E fu proprio l’appassionata dedizione con cui servì la giustizia, insieme al suo senso dell’humour, a caratterizzare l’immagine di More nella tradizione popolare:

“Nel tempo ch’era More Cancelliere / di cause in mora non ce n’eran più. / Cose così non le potrem ve-dere / che quando More tornerà quaggiù”.

More rimase alla Cancelleria fino a quando l’assemblea dei vescovi, cedendo alle pressioni del re, riconobbe in Enrico VIII, sia pure ad personam, “il Capo Supremo in terra della Chiesa d’Inghilterra”. Loro avevano creduto di aver fatto al re una concessione limitata nel tempo e non si rendevano conto di aver aperto la porta al distacco dalla Chiesa cattolica, passando sopra a uno dei principi cardine del Vangelo e della civiltà europea, la distinzione tra religione e politica, Chiesa e Stato, enunciato in modo inequivocabile da Cristo: “Date a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio” (Mt. 22, 21-22). More, inascoltato, aveva paradossalmente chiesto a Enrico VIII di non accrescere oltre il giusto, nello scritto contro Lutero, l’autorità del papa, perché anch’essa va e-sercitata nello spirito del Vangelo e nei limiti che il Vangelo le assegna; egli riteneva inoltre dove-roso limitare le interferenze del papa nella giurisdizione temporale. Il Cancelliere era un autentico cristiano, e proprio per questo rifiutava ogni forma di clericalismo; ma egli non poteva neppure ac-cettare la svolta cesaropapista del re e l’assoggettamento totale della Chiesa al volere della corona. L’intrusione del potere politico nella sfera della fede e la pretesa di una provincia della cristianità a legiferare in antitesi con la Chiesa universale attestavano, agli occhi di Thomas More, quanto si fos-se spinto avanti il processo di perversione assolutistica dello Stato in una nazione che pure si diceva cristiana. La gerarchia della Chiesa d’Inghilterra non ebbe su problemi tanto gravi e di così straordi-naria importanza la lucidità del laico Thomas More e capitolò. La resa fu sottoscritta il 15 maggio 1532.

Il giorno seguente More presentò le dimissioni, peraltro da tempo annunciate al sovrano a motivo delle non buone condizioni di salute. Come all’atto di insediamento di More al Cancellierato, anche ora, al momento del ritiro, il duca di Norfolk lo ringraziò pubblicamente a nome del re per la sua amministrazione esemplare. Tra il re e il suo ex Cancelliere c’è, dunque, un congedo che ambedue vogliono senza rottura e More spera ora di potersi dedicare a tempo pieno ai suoi studi, ai suoi scrit-ti, ad una più intensa vita di preghiera e di contemplazione. Ma fino a quando gli sarà consentito di starsene in disparte con un re come Enrico VIII? Nella lucida narrazione degli avvenimenti che Ge-offrey Elton fa per la nuova Storia moderna, a cura dell’università di Cambridge, di Enrico VIII si dice che aveva “il dono supremo dell’egoista”. Aveva cioè l’incrollabile convinzione che il diritto fosse sempre dalla sua parte e, dunque, la sincera pretesa di imporlo ad ogni costo.

7. LE ULTIME DUE LETTERE DI MORE A ERASMO

In quei giorni in cui i suoi rematori e la sua barca passano al servizio di Thomas Audley, il sosti-

tuto nella Cancelleria, e una dignitosa povertà bussa alla porta della “Casa Grande” di Chelsea, le preoccupazioni di More sono assai gravi. Egli è realmente malato e senza possibilità di riprendere l’esercizio dell’avvocatura; si aggiunga che due anni prima, alla morte di sir John More, il figlio non aveva ereditato nulla del suo patrimonio, essendo ancora in vita l’ultima moglie del padre. Nella sua nuova condizione tutto muta, fin nelle minime cose, e tuttavia More pensa subito a scrivere final-

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mente una lunga lettera, una delle più belle, all’amico di sempre: l’Epistola 2659, in data 14 giugno 1532, un mese dopo le dimissioni. È come un ritrovarsi di nuovo improvvisamente insieme, dopo un lungo intervallo, con la persona più cara, a cui, pur scrivendo poco e di rado, non aveva smesso un solo giorno di pensare, cercando di indovinare il suo dissenso o il suo consenso su ognuna delle questioni che contano.

More tace sulla “grave questione del re”, ma su tutto il resto il suo cuore si apre al ricordo grato ed esaltante delle comuni speranze e battaglie. Con gli anni sono arrivate anche le disillusioni e le sconfitte e quella lettera è inevitabilmente un bilancio in cui l’accento batte sul tasto delicato del “che cosa avremmo dovuto dire e fare in un altro modo”; ma essa è soprattutto l’alta, diretta testi-monianza che momentanei malumori, se mai ce ne fossero stati, e differenti giudizi, derivanti del resto dalla fortissima personalità di ognuno dei due, non hanno mai potuto oscurare lo splendore di un’amicizia che durava ininterrottamente da più di trent’anni. Certo, annota More, se Erasmo avesse potuto prevedere l’eresia, avrebbe detto le stesse cose con più moderazione e possibilmente con maggior chiarezza; si deve riconoscere, però, che lo stesso si può dire dei Padri della Chiesa e persi-no degli Apostoli e degli Evangelisti. I malevoli e i malpensanti ci sono e ci saranno sempre, e allo-ra Erasmo, “che Dio ha colmato di beni particolari”, ha fatto bene a continuare il suo lavoro, la-sciandoli abbaiare. Da una parte e dall’altra si esalta o si accusa Erasmo di aver aperto la strada ai luterani con le sue critiche, ma egli attaccava per riformare - ribatte More - e non per distruggere.

L’ultima lettera di More a Erasmo a noi pervenuta, l’ Epistola 2831, risale al giugno 1533. Ad es-sa è unito uno scritto molto singolare: l’Epitaffio, composto da lui stesso per la tomba in cui inten-deva riposare. Che More ne abbia inviato subito il testo a Erasmo, è un ulteriore segno del vincolo che unisce in modo unico l’olandese e l’inglese. L’epitaffio - che è in parte il testamento di sir Thomas More, e per altri aspetti il suo autoritratto - va preso in attenta considerazione. Dopo l’arguta affermazione iniziale, secondo cui la famiglia in cui era nato “non era nobile, ma degna di essere onorata”, More elenca rapidamente le tappe della sua carriera politica: Vice Sceriffo, membro del Consiglio del re, Cavaliere, Tesoriere, Cancelliere di Lancaster, Gran Cancelliere d’Inghilterra. Delle missioni diplomatiche ricorda solo quella che portò alla Pace di Cambrai, firmata il 15 agosto 1529, perché sapeva di aver dato un proprio contributo al suo buon esito. Parlando di sé in terza per-sona, More scrive infatti:

“Egli ebbe la gioia di veder realizzato ciò a cui aveva contribuito come ambasciatore: lo stabilirsi di nuo-ve relazioni tra le più potenti monarchie del mondo e il ritorno a una pace generale, da tempo ardentemente desiderata. Possa il Cielo renderla solida e perenne!”

More si sofferma poi a rievocare amabilmente la figura del padre John - “uomo civile, piacevole, incapace di fare del male, dolce, misericordioso, giusto e integro” - e prosegue:

“Finché egli era vivo, il figlio appariva giovane agli altri e ai suoi stessi occhi, ma ora che il vegliardo è morto, guardando ai quattro figli e ai suoi undici nipoti, cominciò anch’egli a trovarsi vecchio. Questo stato d’animo, accresciuto dalla malattia di petto che fece seguito alla dipartita del padre, fu per lui un segnale dell’approssimarsi alla vecchiaia. Per questo, sazio di ogni cosa mortale, egli domandò che gli fosse conces-so ciò che aveva sempre desiderato fin da quando era adolescente: avere, verso la fine della vita, alcuni anni di cui disporre liberamente, durante i quali, sottraendosi a poco a poco agli affari della vita terrena, potesse meditare sulla vita futura”.

More aveva fatto costruire la tomba per sé e per la seconda moglie, nella chiesa di Chelsea; ma quando nel 1532 vi fece trasportare anche le spoglie di Joan Colt, la sua chara muliercula (“cara mogliettina”), allora aggiunse alcuni versi scritti anni prima, in cui diceva di non sapere quale delle due mogli gli fosse più cara: Joan che gli aveva generato i figli, o Luisa che glieli aveva allevati. L’epigrafe chiude in modo imprevedibile:

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“Come avremmo potuto vivere bene tutti insieme noi tre, / se il destino e la religione lo avessero consen-

tito!” ( O simul o juncti poteramus vivere nos tres, / quam bene si fatum religioque sinant! - Epigr. 258). Il desiderio di More di riposare tra le due mogli non si realizzò, ma egli aveva la certezza che “la

morte ci darà quello che non ha potuto darci la vita” (sic mors, non potuit quod dare vita, dabit - i-bid).

L’invio al vecchio e fedele amico dell’epitaffio avrà il suo corrispettivo nella lettera che Erasmo indirizza al vescovo di Vienna Johann Faber verso la fine di quello stesso 1532: l’Epistola 2750, che ci dà il quarto ritratto di More - a completameno di quelli già scritti, da prospettive diverse, per Hutten, De Brie e Budé - e che costituisce un’esplicita, appassionata apologia dello statista cristiano proprio nel momento in cui veniva atrocemente calunniato. 8. PROCESSO E MORTE DI MORE

Era più che legittimo, dopo aver servito per tanti anni il suo Paese, disporre di un tempo riservato al recupero della salute e ad attendere, come diceva Seneca, ad maiora et meliora; i tre anni che vanno dal 16 maggio 1532 al 6 luglio 1535 saranno, invece, per More un periodo in cui sarà visitato dalla prova e dalla sventura. All’indomani delle dimissioni il partito protestante, guidato da Thomas Cromwell e al servizio di Anne Boleyn, tentò di screditare l’ex Cancelliere, accusandolo di crudeltà verso gli eretici. More si difese brillantemente nella sua Apologia, pubblicata nel 1533: egli era te-nuto ad essere ereticis molestus, dovendo far rispettare le leggi dello Stato nei loro confronti, ma non permise mai, finché fu Cancelliere, che fossero torturati e nessuno di essi fu messo a morte. More rivendica con fierezza questo merito ed Erasmo, che su quel punto si era informato con scru-polo, è felice di scriverne a un altro statista cattolico, Johann Faber, vescovo di Vienna e stretto col-laboratore di Ferdinando d’Asburgo, il fratello di Carlo V.

Sul divorzio del re e sul suo matrimonio con Anne Boleyn prima, durante e dopo il Cancellierato, More aveva imboccato la sola via - quella del silenzio assoluto e della resistenza passiva - che gli permetteva di non esporsi inutilmente e, nello stesso tempo, di non tradire la sua coscienza. Quella linea di condotta aveva anche una precisa motivazione religiosa che More formula così:

“Io non ho condotto una vita talmente esemplare da potermi senz’altro offrire alla morte. Forse Dio mi castigherebbe per una tale presunzione. Perciò non voglio essere io a farmi avanti; ma se sarà Dio stesso a chiamarmi, confido che, nella sua grande misericordia, non mancherà di darmi la grazia e la forza di cui avrò bisogno” (Ep. 207 Rogers).

L’ex Cancelliere finirà lo stesso col rimetterci la testa, ma ha l’umiltà e il buon gusto, l’intelligenza di non averlo voluto. Questo spiega perché egli, da grande avvocato qual era, abbia fatto ricorso a tutte le armi del diritto prima di dire pubblicamente, come avrebbe fatto all’ultimo processo, le ragioni per cui la coscienza gli vietava di giurare l’Atto di Successione. Otto giorni do-po la Pasqua del 1534, il 12 aprile, More era andato a Londra con Roper, il marito di Meg, e dopo aver assistito alla messa si era recato a salutare la figlia adottiva Margaret Giggs e suo marito John Clement a Bucklersbury, in quella casa che un tempo era stata la sua. Lì fu raggiunto da un funzio-nario incaricato di notificargli l’intimazione a comparire davanti alla commissione per il giuramento dell’Atto di Successione. More rientrò immediatamente a Chelsea e la sera si congedò dai suoi fa-miliari. La mattina seguente, come faceva sempre prima di assumersi qualche alto incarico o di prendere qualche importante decisione, andò a messa nella chiesa di Chelsea. Non volle che la mo-glie e i figli lo accompagnassero come il solito all’imbarco, per dargli il bacio del commiato. La te-stimonianza di Roper è precisa:

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“Chiuse con forza il cancello dietro di sé, lasciandosi tutti i suoi alle spalle. Poi, con l’animo oppresso, come appariva dal suo aspetto, salì nella barca con me e i nostri quattro servi, diretto a Palazzo Lambeth. Sedette in silenzio per un po’ di tempo, triste e abbattuto; poi, d’un tratto, mi si avvicinò e mi disse all’orecchio: Figliolo, grazie a Dio la battaglia è vinta. In quel momento io non capii cosa significassero le sue parole, ma, per non far brutta figura, risposi: Ne sono proprio contento, signore.”

Quelle parole stavano a significare che la decisione che metteva in gioco la sua stessa vita era

stata definitivamente presa: la battaglia era vinta perché More aveva deciso di obbedire solo all’imperativo della sua coscienza, resistendo anche a ciò che un martire italiano della lotta di libe-razione, Teresio Olivelli, chiamerà “la tentazione degli affetti”. I quattro giorni tra il rifiuto del giu-ramento a Palazzo Lambeth e l’incarcerazione alla Torre, More li passò sotto la custodia dell’abate di Westminster. Frattanto si tennero febbrili consultazioni, al più alto livello, sulla sorte da riservare all’ex Cancelliere.

Risulta dal documento 867, contenuto nell’ottavo volume delle Letters and Papers of the reign of Henry VIII, che More e Fisher avevano deciso, ognuno per conto proprio, di giurare, anche se con disagio, l’Atto di Successione con cui dal marzo 1534 si imponeva di riconoscere eredi legittimi al trono i soli figli nati dal matrimonio tra il re e Anne Boleyn; non lo fecero perché nel testo del giu-ramento era inclusa l’affermazione secondo cui il re è il Capo Supremo della Chiesa d’Inghilterra. I due amici, l’uno laico e l’altro vescovo, non morirono, dunque, per uno dei tanti annullamenti di matrimonio negato o concesso dalla curia romana, ma per questioni maledettamente serie: essi cre-devano nell’unità e nel carattere universale della Chiesa, nella libertà di coscienza e nella corretta laicità dello Stato, secondo la quale il capo politico non può essere nello stesso tempo il suo capo religioso. Essi sapevano, inoltre, da buoni inglesi, ciò che il primo articolo della Magna Charta esige dal re e dal Parlamento: Ecclesia anglicana libera sit («La Chiesa in Inghilterra sia libera»). Non avendo giurato, More e Fisher furono imprigionati nella Torre di Londra nella primavera del 1534 e sottoposti a processo.

Un mese e mezzo prima dell’arresto More, sollecitato da Cromwell il 1° febbraio 1534, si era detto pronto ad esprimere il proprio punto di vista, “secondo coscienza, con onestà e franchezza”, non appena il re glielo avesse chiesto, ma che non sarebbe mai venuto meno all’obbligo di fedeltà, manifestando in pubblico un eventuale dissenso. Espresso al re solo e per sua istanza, il dissenso si sarebbe ridotto a monito salutare, non a censura e tanto meno a tradimento (Ep. 197 Rogers). Nel nucleo inattaccabile della coscienza ogni singolo non può non continuare a pensare: se ha l’obbligo di tacere lo farà, ma senza piegarsi al conformismo e alla menzogna, salvando così la propria coe-renza, sia pure muta.

In carcere, avendo più tempo per scrivere, More portò a termine il Dialogo del conforto, un’opera in inglese; negli ultimi mesi compose in latino Nell’Orto degli Ulivi. Non c’è più spazio, ora, per la polemica e la confutazione. More torna ai maestri della sua giovinezza - Pico, Colet e lo stesso Erasmo - e ritrova la vena sua più propria. Ma la galera gli dà modo anche di ricevere qualche lettera e di scriverne, soprattutto alla diletta Meg. Le Lettere della prigionia - diciannove in tutto, di cui due sono di Meg, due di Lady Luisa senior e una di Luisa junior - sono un documento storico di prima mano e gettano luce sul dramma dall’ex Cancelliere. Una lettera sopra tutte le altre attesta con radicale semplicità il primato che More riconosce alla coscienza personale: è la sua risposta a un prete, un certo Stephen Leder, che si era rallegrato con lui perché presto sarebbe uscito dal carcere, avendo capito che il giuramento non valeva la sua vita. More gli scrive:

“La notizia che si è diffusa è, grazie a Dio, pura invenzione. Confido che la grande bontà di Dio non

permetterà mai che sia vera [...]. Io non posso indurre la mia coscienza a pensare nei riguardi del giuramento diversamente da quello che penso [...]. Sono certissimo che se dovessi prestare il giuramento, arrecherei un dolore mortale alla mia coscienza, ben sapendo che mai potrei indurla a pensare il contrario. In quanto alla coscienza degli altri, io non desidero occuparmene [...]. Sua Maestà non crede che la causa del mio rifiuto

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risiede nella mia coscienza, e pensa che sia piuttosto frutto di un’ostinata caparbietà, ma l’unico ostacolo è proprio la mia coscienza che conosce Dio, al cui volere io affido tutta questa vicenda” (Ep. 213 Rogers).

Chi aveva scritto “di proprio pugno” tali parole espresse la stessa convinzione in una frase de-

stinata a diventare meritatamente celebre: “Io non ho mai affidato il peso della mia coscienza ad alcuno, nemmeno all’uomo più santo che oggi co-

nosca” (Ep. 206 Rogers). Uno dei testi più lunghi e commoventi delle Lettere della prigionia è il resoconto che Margaret

fa alla sorella acquisita, Luisa Middleton, divenuta Lady Alington, del drammatico colloquio avuto col padre, nella cella del carcere, nel tentativo di indurlo a trovare una qualche via d’uscita per sot-trarsi alla morte. Le argomentazioni di Margaret in quella lettera dell’agosto 1534 sono sue, appas-sionate e angosciose, e in esse non v’è traccia di reminiscenze letterarie; le risposte del padre, affet-tuose e lucidissime, convergono tutte a una sola, ineludibile conclusione: l’affermazione del primato della coscienza personale, perché è solo obbedendo fino in fondo ad essa che si compie la volontà di Dio. La parola “coscienza” ricorre quarantaquattro volte in quel testo, l’Epistola 206 Rogers; ma la si legge sedici volte anche nella lettera autografa, l’Epistola 200 Rogers, che More aveva scritto alla figlia il 17 aprile 1534, il primo giorno della sua detenzione. È spontaneo pensare al Critone plato-nico e a More come al Socrate cristiano, ma la perorazione di Margaret è ben più sottile e motivata di quella del buon discepolo e amico del protomartire della libertà di coscienza.

Nei quindici mesi di prigionia, si moltiplicarono i tentativi di fargli prestare giuramento e gl’interrogatori, ma inutilmente perché nessuno riuscì a piegarlo. A quel punto la regina Anne Bo-leyn, il suo clan che dominava a corte e nel governo e, in ultima analisi, lo stesso Enrico VIII decise-ro che bisognava farla finita con quell’uomo il cui silenzio era diventato assordante. L’ultimo pro-cesso per chiudere la faccenda fu celebrato il 1° luglio 1535, quando la testa di John Fisher da più di una settimana era esposta all’ingresso del Ponte sul Tamigi, ove rimarrà fino al 6 luglio, quando il boia isserà al suo posto quella di More. L’ex Cancelliere si presentò a quest’ultimo processo fisica-mente prostrato, ma tenne testa ai giudici con la consueta ironia e con la sua competenza in campo giuridico. Audley, che presiedeva una corte di giustizia a cui era stato ordinato di assassinare legal-mente More, si affrettò a pronunciare la sentenza della sua condanna a morte per tradimento senza neppure dare la parola all’imputato per la dichiarazione a sua difesa. Allora sir Thomas More, cal-missimo e profondamente padrone di sé, come se fosse toccato a lui presiedere il dibattito, lo inter-ruppe con parole che marcavano tutta la differenza fra il Cancelliere precedente e il suo successore:

“Milord, quando ero magistrato, era consuetudine chiedere all’imputato, prima della sentenza, quel che

aveva da dire per impedire che il giudizio fosse pronunciato contro di lui” (W. Roper, op. cit.). Essendo ormai decisa la sua morte, More volle allora dichiarare apertamente le ragioni per le

quali era pronto a subire in tutta coscienza l’iniqua condanna:

“Milord, questa imputazione è basata unicamente su un Atto del Parlamento che è in diretto contrasto con le leggi di Dio e della sua Chiesa. La suprema giurisdizione della Chiesa non può, infatti, essere avocata a sé mediante una legge da alcuna autorità temporale: essa appartiene di diritto alla Sede di Roma, per quel primato spirituale che con la sua stessa parola Cristo nostro Salvatore, al tempo della sua presenza su questa terra, conferì unicamente a san Pietro e ai suoi successori, vescovi della stessa Sede” (ibid.).

Audley cercò di replicare che dal momento che i vescovi, le università e gli uomini più dotti del regno avevano sottoscritto quell’Atto, si meravigliava che lui, contro tutti, si irrigidisse nel suo ri-fiuto. More allora diede la sua risposta definitiva:

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“Quand’anche il numero dei vescovi e delle università avesse tanta importanza quanto Vostra Signoria sembra credere, io non vedo affatto alcun motivo per cui tutto ciò dovrebbe portare qualche cambiamento nella mia coscienza. Io non ho il minimo dubbio che in tutta la cristianità, anche se non in questo regno, co-loro che hanno la mia stessa opinione, tra i vescovi di più vasta dottrina e le persone di più alta virtù tuttora viventi, non sono una minoranza. Che se poi dovessi riferirmi a quelli che sono già morti, e di essi molti ora sono santi in paradiso, ho l’assoluta certezza che durante la vita terrena la massima parte di loro su questo punto la pensavano esattamente come penso io in questo momento. E perciò, Milord, io non sono tenuto a conformare la mia coscienza al concilio di un solo regno contro il concilio dell’intera cristianità” (ibid.).

Nel 399 a. C. Socrate non sarebbe stato condannato a bere la cicuta, se avesse accettato un qual-che compromesso con la sua coscienza, o se avesse fatto domanda di grazia. Allo stesso modo More avrebbe potuto evitare la morte. Socrate e More, però, non lo fecero. Non spetta ai martiri, infatti, facilitare le cose ai violatori di coscienze.

Dopo il processo More fu condotto da Westminster alla Torre e durante il percorso, sul molo, in-

sieme alla figlia adottiva Margaret Giggs, ora Lady Clement, lo attendeva Meg. Il marito William Roper ci ha descritto l’incontro tra il padre e la figlia prediletta:

“Appena lo vide, essa si inginocchiò reverente per ricevere la sua benedizione; poi, non curante di sé, a-prendosi un varco in mezzo alla folla e al drappello delle guardie armate di lance e alabarde che si serravano intorno al padre, corse fino a lui, lo strinse a sé e, gettategli le braccia al collo, lo baciò davanti a tutti”.

Uno dei presenti ci racconta che Margaret, incapace di parlare, si aggrappava al padre, tenendolo strettamente abbracciato, mentre More le diceva: “Coraggio Margaret, non ti angosciare. È la volon-tà di Dio. Tu conoscevi da tempo i segreti del mio animo”. Roper aggiunge un altro particolare:

“Non bastando a Margaret di averlo potuto incontrare, quasi smarrita e interamente presa dall’affetto per

il padre tanto amato, improvvisamente tornò indietro, corse di nuovo fino a lui, e di nuovo, gettandogli le braccia al collo, lo baciò ripetutamente con tutto il suo affetto”.

Passarono ancora cinque giorni prima dell’esecuzione. La vigilia More scrive con un carboncino

l’ultima lettera alla diletta Meg: “So di darti molta pena, mia buona Margaret, ma mi dispiacerebbe se tutto dovesse compiersi oltre do-

mani, giorno in cui cadono la vigilia di san Tommaso [Beckett] e l’ottava di san Pietro. Mai ti comportasti in maniera che mi fu più cara dell’ultima volta, allorché mi abbracciasti, e mi piace che la pietà filiale e l’amore affettuoso possano permettersi di infischiarsi delle convenienze umane” (Ep. 218 Rogers).

Il 6 luglio gli viene comunicato, all’alba, che Enrico VIII ha ordinato di eseguire quello stesso

giorno la sentenza: More sarà decapitato sulla collina di Tower Hill, nella grande piazza antistante alla Torre, invece di subire il supplizio dei traditori, che consisteva nell’appendere i condannati alla forca, ma facendo sì che rimanessero coscienti mentre erano squartati e sventrati. Come il martire Cipriano, More chiede che sia consegnata al boia una moneta d’oro, togliendola da quel poco che gli era rimasto. Probabilmente in obbedienza a ordini ricevuti, viene imposto a More di togliersi l’abito migliore che aveva voluto indossare per l’esecuzione e di vestire i poveri panni del suo ser-vo. È quindi condotto, tra due ali di folla, al luogo dell’esecuzione.

Sale il patibolo alle 9 del mattino, appoggiandosi al braccio del Governatore della Torre, a cui regala un’ultima battuta: “Vi prego, signor Governatore, aiutatemi a salire, perché a scendere lo farò da solo”. Egli, che aveva il terrore del dolore fisico e che umilmente aveva temuto fino all’ultimo di poter cedere (Epp. 211 e 213 Rogers), affronta la morte con la regale libertà del martire. Il re temeva che aizzasse la folla, ma sir Thomas, nel dichiarare: “Muoio da suddito fedele del re e innanzi tutto

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di Dio”, chiede ai presenti di pregare per il sovrano perché Dio lo assista con buoni consiglieri. Rac-conta Thomas Stapleton:

“Quindi, inginocchiatosi, recitò a voce chiara il Salmo 50, il Miserere. Poi si alzò rapidamente e, quando

il carnefice gli chiese perdono, lo baciò con grande affetto, dicendogli: - Tu mi rendi oggi un favore più grande di quello che nessuno mi abbia mai fatto o potrà farmi -. Il carnefice voleva bendargli gli occhi, ma egli disse: - Me li coprirò da solo - e lo fece con un fazzoletto che aveva portato con sé. Pose quindi egli stesso, con decisione, il suo capo sul ceppo. E subito gli fu tagliato”.

Il re aveva vietato ai familiari, e forse anche agli amici, di assistere all’esecuzione. Le cronache

di altre esecuzioni ci descrivono il luogo del supplizio fin troppo affollato, ma per More non c’è neppure la presenza di un sacerdote a confortare gli ultimi istanti. Confuse tra la folla, però, c’erano la figlia Meg e Margaret Giggs. Saranno ancora esse, le due sorelle di latte, a provvedere alla sepol-tura del corpo decapitato dell’amatissimo padre nella chiesetta di San Pietro in vinculis, incuneata tra le mura interne della Torre. La testa mozzata di More venne infissa su di una picca ed esposta sulla torretta del Ponte di Londra, a sostituirvi quella di Fisher. Lì stette per un mese. Quando stava per essere gettata nel Tamigi, Meg riuscì a farsela consegnare segretamente, pagando il carnefice che accudiva ai resti dei traditori. La tenne presso di sé fino alla morte.

Erasmo vorrebbe avere notizie dettagliate dall’Inghilterra, ma “la morte o il terrore chiude la

bocca agli amici” (Ep. 3104); quanto riesce a sapere gli viene comunicato dall’ambasciatore di Car-lo V, Eustachio Chapuys, o da altri corrispondenti non inglesi che risiedono sul continente. Solo il 24 agosto, a un mese e mezzo di distanza, viene a conoscenza del martirio di More. La commozione e lo strazio afferrano il suo animo, che non vuol darsi pace. Una settimana dopo Erasmo scrive al vescovo di Cracovia Pietro Tomicki:

“Dal frammento di lettera che ti invio saprai ciò che è accaduto al vescovo di Rochester e a Thomas Mo-re in Inghilterra, nazione che non ebbe mai uomini più santi e di maggior valore di quei due. Con la scom-parsa di More, sento anch’io di aver smesso di vivere, perché noi due eravamo un’anima sola” (Ep. 3049).

Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce; se però è lecito, almeno in certa misura, associa-re al mistero della morte qualche ipotesi che non sia indegna di esso, ecco quella che più spesso mi torna in mente: quando cade il muro d’ombra, tra coloro che ci hanno preceduto a venirci incontro sarà chi abbiamo amato di più. Nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1536, quando Erasmo concluse la sua giornata terrena, ad attenderlo c’era il “suo” More.

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LE QUATTRO LETTERE DI ERASMO SU THOMAS MORE

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LETTERA 999

Gli “umanisti del Nord” maneggiano l’arma della critica in maniera superba e sono per lo più uomini di opposizione, anche se diverso è il modo in cui ognuno di essi combatte la sua battaglia. Tra i maestri, al primo posto, sono Erasmo e More - gli autori di due libri che fecero storia, l’ Elogio della Follia e l’Utopia - e con loro Guillaume Budé; tra i numerosi discepoli spiccano i nomi del francese François Rabelais, il futuro autore di Gargantua e Pantagruel, e del tedesco Ulrich von Hutten, che aveva dieci anni meno di More e una ventina meno di Erasmo. Hutten giovane combattivo e brillante aveva destato le più belle speranze in Erasmo. Egli era di quella generazione che in Germania, nel secondo decennio del secolo, vide nel maggiore degli umanisti l’ispiratore principale e la guida nella lotta contro l’oscurantismo. Erasmo aveva incontrato per la prima volta nel 1514 il giovane tedesco - che apparteneva a un ceto ormai in decadenza, quello dei cavalieri o, se si vuole, della piccola nobiltà squattrinata - e di lui fece menzione nell’opera a cui teneva di più, la sua edizione del Nuovo Testamento (Epp. 365 e 611); egli, inoltre, garantì per lui presso i suoi numerosi amici, che accolsero il cavaliere umanista ovunque con premurosa ospitalità. Nel 1517 Hutten ricevette dalle mani dell’imperatore Massimiliano il diploma di “poeta laureato” e l’anello d’oro riservato agli oratori di grido. Malgrado le sue intemperanze, quando Erasmo gli dedicò la lettera su More, il tedesco non aveva ancora mostrato il lato peggiore della sua personalità.

Nella celebre lettera del 23 luglio 1519, l’Epistola 999, More è, per così dire, raffigurato “tutto

intero”: nel suo aspetto fisico, dalle mani contadinesche agli occhi grigio-verdi; nei suoi affetti, delicati e intensi, per le due spose e per i figli; nei suoi interessi straordinariamente vari, nelle sue amicizie, nelle occupazioni, nella vita di pietà. L’animo di More è svelato per la prima volta al mondo cosmopolita della cultura in tutto lo splendore della sua umanità. Sempre serio e sempre allegro, appassionato in tutto ciò che intraprende e insieme interiormente distaccato, egli ha una personalità dolce e ardente. La sua trasparenza è quella di un fanciullo e ha la profondità misteriosa propria di chi vive unito alla divina Sorgente. Thomas More è l’uomo che ha saputo realizzare nella sua esistenza quotidiana, nella famiglia come nell’attività pubblica, la sintesi di virtù che sembrano opposte e sono, invece, complementari. Per Erasmo l’amico inglese è indubbiamente l’esempio più alto e persuasivo di un’umanità veramente superiore in cui, senza posa e senza albagia, natura e grazia, tecnica giuridica e vita mistica, azione politica e dono totale di sé, eredità classica e dinamismo evangelico si fondono mirabilmente. L’olandese ritrae More nel pieno vigore dei suoi quarantun’anni e la sua eccezionale testimonianza è ancora più credibile perché sulla testa dell’inglese non c’era allora l’aureola del martire. Dopo vent’anni di amicizia confidente e senza nubi, dal 1499 al 1519, Erasmo ne spiega l’origine mediante un’affinità segreta di anime, che ci fa trovare un’attrattiva preziosa in certi spiriti e non in altri.

La descrizione dell’aspetto fisico di Thomas è dettagliata, attentissima ai particolari: la taglia media, ben proporzionata; la barba rada, i capelli castani, l’andatura un po’ squilibrata; la voce perfettamente impostata, così necessaria a un avvocato e a un uomo politico. Vi è in tutto ciò quasi una tenerezza, che traspare nel giudizio complessivo sull’aspetto fisico dell’amico: nell’uomo maturo s’indovina ancora la bellezza del giovane incontrato vent’anni prima. Ma Thomas piace ancora più perché è uomo libero da ogni etichetta, di fronte al danaro e al potere, semplice in tutto:

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nel mangiare, nel vestire, nel trattare con gli altri. In lui la cortesia naturale si sposa all’allegria e questa si accompagna costantemente a uno scintillante humour: un’inclinazione, questa, pressoché irresistibile, che non l’abbandona mai - a casa e con gli amici, a corte e nel Consiglio del re, in tribunale o in Parlamento - e che mai si fa irrisione e sarcasmo. Aveva ragione John Fisher, il vescovo di Rochester, quando, in un’annotazione a margine dell’Opus epistolarum di Erasmo, apparso nel settembre 1529, a pagina 387 definiva la lettera a Hutten Thomae Mori verissima laus, un elogio di More quanto mai rispondente a verità. A quella lettera Erasmo aveva cominciato a lavorare, di tanto in tanto, fin dal 1517; due anni dopo la terminò a Lovanio, dove risiedeva, anche se la spedì a Hutten da Anversa. Erasmo la pubblicò nel mese di ottobre del ’19 inserendola nella Farrago nova epistolarum e ne rivide il testo sia per la raccota epistolare del ’21 e del ’29. L’ultima edizione è quella riprodotta da Allen nell’Opus epistolarum.

Per quali motivi e in che modo cambiarono i rapporti tra Erasmo e Hutten, “da amico fattosi

all’improvviso nemico” (ex amico subito factus hostis)? Erasmo subiva il fascino di Hutten, di cui ammirava il genio poetico e l’ardore; quando, però, la protesta luterana cominciò a scuotere il mondo germanico, il cavaliere umanista ne diventò il propagandista più acceso e, ad un certo punto, il guerrigliero. Il suo disegno era collegare a Lutero la lotta armata per l’unificazione del mondo tedesco, trasformando il Sacro Romano Impero in uno Stato nazionale germanico. Lo strumento politico poteva essere l’uno o l’altro principe tedesco, anche lo stesso Carlo V, o suo fratello Ferdinando, se disposti a staccarsi definitivamente da Roma attraverso una vera e propria guerra contro i preti, il Pfaffenkrieg. Lasciato il servizio di Alberto di Magonza, che Erasmo ricorda verso la fine della lettera, Hutten si unì a Franz von Sickingen, l’ultimo condottiero dei cavalieri tedeschi, che egli assoldava ora per l’imperatore, ora per il re di Francia, pronto nello stesso tempo ad arruolarsi anche per un ideale. Dalla fortezza di Sickingen, Ebernburg, l’ex discepolo scrisse a Erasmo, esortandolo a unirsi al più presto ai luterani, anzi a lui stesso: “Fuggi, Erasmo, fuggi! [...] Vieni da me” (Ep. 1161). Hutten evidentemente non aveva capito che in nessun caso Erasmo era disposto a seguire chi si poneva sul terreno della violenza, che squalifica sempre qualsiasi causa e rende ineluttabilmente disumani i suoi sostenitori. Il cavaliere umanista era finito addirittura col mettersi a capo di una banda, composta da una quarantina di elementi, che tendeva imboscate agli avversari. Erasmo - che deprecava la brutta fine di un uomo tanto dotato e lo sviluppo in senso deteriore del suo carattere - decise allora di assumere nei suoi confronti una linea ben precisa: continuare, malgrado tutto, a difendere l’uomo che aveva conosciuto, il letterato e il poeta, senza per questo avallare la totalità delle sue opinioni e tanto meno delle sue azioni. Erasmo era profondamente addolorato a causa dei ripetuti tentativi messi in atto da Hutten per comprometterlo dinanzi all’Europa e alla Chiesa cattolica, facendolo apparire come il vero maestro di Lutero e, in segreto, il suo più fervido sostenitore.

La crisi nei rapporti tra Erasmo e Hutten divenne aperta rottura quando il cavaliere tedesco concluse a Treviri, con una campagna disastrosa contro il vescovo di quella città, la sua avventura di poeta masnadiero e riparò a Basilea. Forse sperava nell’ospitalità che un tempo Erasmo gli aveva concesso e, comunque, sollecitò un incontro con l’ex maestro, non rendendosi conto che, al punto in cui erano giunte le cose, Erasmo non desiderava neppure vederlo (Ep. 1331). L’umanista olandese provava un’invincibile ripugnanza anche per la sifilide che copriva di piaghe il corpo del cavaliere tedesco. In ogni caso ben diversamente da Hutten si era comportato Melantone che, trovandosi nei pressi di Basilea, si era astenuto dal far visita a Erasmo; e sappiamo che l’olandese si dispiacque molto di non averlo potuto riabbracciare (Ep. 1496). Melantone, che per cultura e moderazione era il più erasmiano tra i compagni di Lutero, non aveva mai condiviso l’estremismo infantile di Hutten e, quando questi si scagliò apertamente contro Erasmo, non esitò a prendere posizione a favore del maestro (Epp. 1397, 1401, 1445). In ogni caso Erasmo, sempre restio a respingere del tutto un servitore delle bonae litterae, offrì a Hutten un aiuto in danaro e continuò a scrivergli. Hutten frattanto si era trasferito a Zurigo, dove la situazione era sotto il controllo di

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Zwingli. Corroso dal rancore verso tutti e dalla sifilide, il cavaliere sconfitto trovò un altro pretesto per

sferrare un nuovo attacco contro l’antico maestro proprio in una lunga lettera, l’Epistola 1342 del 1° febbraio 1523, che l’olandese aveva scritto a Marco Laurino, decano del Collegio san Donaziano di Bruges. In essa si leggevano affermazioni rivelatrici dell’intimo orientamento spirituale di Erasmo: “Odio la discordia non solo per gli insegnamenti di Cristo, ma anche per un certo oscuro impulso di natura. Non so se una delle due parti possa essere soppressa senza grave pericolo di un generale disastro. Potessi almeno negli anni della mia vecchiaia godere il frutto delle mie fatiche! Ma ogni parte mi pungola ed ogni parte mi rimprovera. Il mio silenzio nei riguardi di Lutero s’interpreta come consenso, mentre i luterani mi accusano di aver disertato per viltà la causa del Vangelo”. E ancora: “Io non posso essere diverso da quello che sono. Io non posso far altro che esecrare la discordia. Io non posso non amare la pace e la concordia [...]. Io vedo quanto è più facile suscitare un tumulto che placarlo”.

Hutten lesse in quelle espressioni una clamorosa confessione di viltà e tornò ad accusare Erasmo di opportunismo e malafede in un velenoso libello, l’Expostulatio cum Erasmo («Spiegazione con Erasmo»), uscito nel giugno del 1523. Quando Erasmo ebbe tra le mani un esemplare dello scritto di Hutten, in sei giorni ne scrisse la confutazione: la Spongia, ossia «La spugna», per detergersi dal fango che gli aveva gettato addosso un discepolo che gli era stato tra i più cari. La fiammeggiante replica apparve a fine agosto e la sua pubblicazione venne a coincidere con la morte di Hutten, sopravvenuta, secondo quanto afferma Erasmo, il 29 di quello stesso mese, a trentacinque anni, su un’isoletta del lago di Zurigo. Il maestro degli umanisti cristiani dichiarerà in seguito che, se avesse potuto prevedere la morte di Hutten, non gli avrebbe risposto, o l’avrebbe fatto diversamente (Ep. 1388). Implacabile nel ribadire le sue convinzioni e le sue scelte, Erasmo signorilmente si astenne dal fare allusione ai misfatti briganteschi e alla condotta debosciata del tedesco (Ep. 1446, 8 maggio 1524), che pure lo aveva così crudelmente calunniato. E ciò gli fa onore. “In una delle mie lettere - annota Erasmo - giunsi a paragonare Hutten a More [...], ma egli si è mostrato ben diverso da lui e ha fatto di me un cattivo profeta” (Ep. 1173). Negli anni dell’ammirazione illimitata per il maestro, Hutten chiamava Erasmo “il Socrate tedesco”. Di quel Socrate egli fu l’Alcibiade.

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ERASMO DA ROTTERDAM

ALL’ILLUSTRISSIMO CAVALIERE HULRICH VON HUTTEN

Anversa, 23 luglio 1519.

L’ammirazione profonda, direi quasi appassionata, che tu provi per la personalità di Thomas Mo-re nasce certamente dai suoi scritti che - come giustamente dici nella tua lettera1 - sono quanto vi può essere di più dotto e di più incantevole. Credimi, carissimo Hutten, questo tuo sentimento è condiviso da molti e More lo ricambia nei tuoi confronti: egli, infatti, si compiace tanto dei tuoi scritti che io quasi quasi ne sono geloso. Tali affinità elettive sono manifestazioni di quella saggezza di cui parla Platone: sommamente amabile fra tutte, essa è capace di suscitare tra i mortali un amore molto più ardente di quello che riescono a destare in noi le meravigliose bellezze dei corpi, benché non si colga con gli occhi del corpo. L’anima, infatti, ha i suoi occhi e si capisce, allora, quanto sia vero il detto greco: presso gli uomini l’amore nasce attraverso lo sguardo2. Accade talvolta che, grazie agli occhi dell’anima, un affetto di straordinaria intensità leghi tra loro persone che non han-no avuto neppure l’occasione di vedersi e di conversare insieme. Come per misteriose ragioni uno è sedotto da una forma di bellezza, e uno da un’altra, così sembra esistere una segreta affinità spiritua-le per cui siamo afferrati dal fascino intellettuale di alcuni e non di tutti gli altri3.

Mi chiedi con insistenza che per te ritragga More tutto intero, come in un quadro: piaccia al Cielo che io ne sia capace e che la precisione del mio dipinto eguagli l’intensità del tuo desiderio! Quanto a me, puoi esserne certo, sarà tutt’altro che spiacevole lasciarmi assorbire nella contemplazione dell’amico di gran lunga più delizioso. Occorre, però, premettere che non è cosa da tutti saper pene-trare tutte le doti di More, né so se egli si lascerà ritrarre da un pittore qualsiasi come me: non credo, infatti, che il suo ritratto presenti meno difficoltà che raffigurare Alessandro Magno o Achille, né che questi fossero più degni del nostro amico di essere immortalati. Un tale soggetto richiederebbe la mano di un Apelle e io temo di somigliare più a Fulvio e a Rutuba che ad Apelle4. Per farti piace-re proverò comunque a delineare, più che a dipingere veramente, l’immagine completa di quest’uomo nella misura in cui mi è stato consentito di osservarlo e attraverso i ricordi di una lunga, assidua familiarità. Se poi qualche missione diplomatica vi metterà un giorno in presenza l’uno dell’altro, ti renderai conto che in questa circostanza ti sei messo nelle mani di un artista ben medio-cre. Temo proprio che finirai allora per accusarmi o di miopía intellettuale o di invidia, perché di tante qualità che ha More ben poche sono quelle che con la mia corta vista ho saputo scorgere, o che, peggio ancora, ho voluto evocare.

Comincio da ciò che di More ti è meno noto, la sua statura e il suo aspetto fisico5. Non è alto, ma

non per questo appare piccolo. La proporzione delle membra è così perfetta che non si può desidera- 1 La lettera di Hutten a cui Erasmo si riferisce non ci è pervenuta. 2 Quel detto è illustrato da Erasmo nell’Adagio 179, che reca il titolo: Amor videndo nascitur mortalibus.. 3 Per hos fit aliquoties ut ardentissima charitate conglutinentur inter quos nec colloquium nec mutuus conspectus in-tercessit. Et quemadmodum vulgo fit ut incertis de causis alia forma alios rapiat, ita videtur et ingeniorum esse tacita quaedam cognatio, quae facit ut certis ingeniis impense delectemur, caeteris non item. 4 Apelle, il più illustre dei pittori greci, visse nel IV secolo a. C.; tra le sue opere più celebri si ricordano la Venere di Cos e Alessandro con la folgore.Nella Storia Naturale (VII, 125) Plinio il Giovane riferisce di un editto con cui Ales-sandro proibiva a chiunque di ritrarre la sua immagine, tranne che ad Apelle. Fulvio e Rutuba sono i gladiatori citati da Orazio nelle Satire (2, 7, 96) per contrapporre i loro nomi sconosciuti e le loro esibizioni da attori grossolani al nome celebre e all’arte raffinata di Pausia, l’altro grande pittore del IV sec. a. C. Plinio (Storia nat. VII, 38, 125) e Orazio (Ep. 2, 1, vv. 239-240) scrivono che Alessandro vietò con apposito decreto a qualsiasi pittore di ritrarre la sua imma-gine, tranne che ad Apelle. 5 Erasmo e More si somigliano per la taglia della corporatura, il colore degli occhi e dei capelli, il colorito e l’espressione del viso, il tono di voce, la pronuncia chiara e netta; e, sul piano spirituale, specialmente per la costanza nell’amicizia e la cordialità del tratto. Uno dei collaboratori più stretti di Erasmo, Beato Renano, che l’umanista defi-

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re nulla di meglio. È di carnagione chiara; il suo viso luminoso, non pallido e tanto meno rossiccio, lascia trasparire in modo costante un tenue rossore. I capelli sono castano-scuri o, se vuoi, scuri con riflessi biondi; la barba è rada. Gli occhi sono di colore grigio-verde e cosparsi qua e là di macchio-line6: caratteristiche queste che denotano una felice disposizione d’animo e che perciò piacciono moltissimo presso gl’inglesi. Noi preferiamo gli occhi neri, ma per loro la chiarità dello sguardo è indice di un animo sgombro dal male. In More il volto corrisponde al carattere perché manifesta sempre simpatia e amicizia, ma anche l’abitudine di prendere occasione da un nonnulla per riderse-la. In altre parole, è più portato al buonumore e alla festevolezza che ad assumere atteggiamenti gra-vi e solenni, pur non concedendo assolutamente nulla a sciocchezze sconvenienti e volgari7. La spalla destra sembra un po’ più alta della sinistra, e lo si nota soprattutto quando cammina; è così non per un’imperfezione di natura, ma per una delle molte abitudini che, fissandosi in noi, finiscono col causare difetti di questo tipo. Insomma, nel suo aspetto fisico non c’è nulla che stoni, eccetto le mani che, paragonate al resto della sua persona, sono tozze, da contadino. Per quanto poi riguarda la cura del corpo, è stato fin da ragazzo sempre molto negligente, al punto da tralasciare anche le po-che cose che Ovidio8 raccomanda agli uomini di tener presenti. Tuttavia ancora adesso, che ha pas-sato da poco la quarantina, non è difficile ravvisare in lui, per quel che ne resta, la bellezza del gio-vane che conobbi quando non aveva più di ventitré anni9.

Gode di buona salute, anche se non è di robusta costituzione10; in ogni caso le forze di cui dispo-ne sono sufficienti a fargli sopportare le fatiche di un cittadino del suo rango; mai, o quasi mai, è soggetto a malattie e si può sperare che abbia lunga vita dal momento che il padre, che è molto a-vanti negli anni, sta trascorrendo una vecchiaia vigorosa e vivace11. Quanto al cibo, io non conosco nessuno meno esigente di lui. Fino alla soglia della maturità, preferiva bere acqua, come suo padre; tuttavia, per non mettere a disagio gli altri commensali, mascherava questa sua abitudine bevendo birra in un bicchiere di peltro, ma tanto diluita da essere assai vicina all’acqua, e talvolta acqua pura. In Inghilterra si usa brindare, bevendo a turno alla stessa coppa; egli allora sfiorava la coppa con le labbra per non sembrare uno schizzinoso e per adeguarsi agli usi comuni. Ai cibi ritenuti prelibati preferisce la carne di bue, il pesce marinato, il pane rustico ben lievitato: egli del resto non ha alcu-

nisce in una lettera homo candidus et amicus (Ep. 909), nel 1540 scrisse una biografia del maestro, la Vita Erasmi, e la dedicò all’imperatore Carlo V ( in Allen, Opus ep., I, pp. 76-71). Beato Renano, che cita l’Epistola 999, usa espres-sioni molto simili a quelle di cui si serve Erasmo per delineare il ritratto di More. 6 Nel disegno e nel dipinto di Hans Holbein il Giovane, eseguiti nel 1527, More ha la barba non folta. 7 Vultus ingenio respondet, gratam et amicam festivitatem semper praeseferens, ac nonnihil ad ridentis habitum com-positus; atque, ut ingenue dicam, appositior ad iucunditatem quam ad gravitatem aut dignitatem, etiamsi longissime abest ab ineptia scurrilitateque (ed. Allen, linee 44-48). 8 Ovidio, Ars amandi I, vv. 507-521. 9 Un po’ dopo la metà dell’Ottocento fu trovata, negli ultimi fogli di un libro lasciati in bianco, la breve storia della famiglia More. L’aveva scritta il padre di Thomas, John More. Da quella specie di promemoria in latino risulta che Thomas “venne alla luce fra le due e le tre del mattino” il 6 febbraio 1478. Nel 1519 egli aveva compiuto da qualche mese 41 anni e mezzo o 42. 10 More si lamenterà delle sue non buone condizioni di salute solo negli ultimi drammatici mesi del suo Cancellierato, nel 1532. Si pensa che soffrisse di angina pectoris. 11 Il padre e la madre di Thomas, John More e Agnes Granger, appartenevano a famiglie borghesi di recente agiatezza. Nato quasi certamente nel 1451, John More aveva 27 anni quando gli nacque Thomas, il secondo di sei figli. Esperto di diritto inglese, fu avvocato di grido e giudice integerrimo. Si ignora la data di morte della madre di Thomas; quando Erasmo rivide nel 1521 la lettera a Hutten, John More si era sposato altre due volte. Alla terza vedovanza seguì il quarto matrimonio. Non volle assolutamente che Thomas facesse di professione l’umanista, ma padre e figlio rimasero vicini come pochi per tutta la vita: avvocati e giudici entrambi, furono uomini di specchiata rettitudine, di sorridente socievolezza, di gentile pietà per gli umili. John More si spense nel 1530 a 79 anni. Durante il Cancellierato, More non tralasciava di inginocchiarsi davanti a suo padre nel tribunale di Westminster, per riceverne, secondo l’uso del tempo, la benedizione. Il giudice John ebbe la fortuna di non vivere abbastanza a lungo da assistere alle tragiche vicende del figlio. Nell’iscrizione che compose per la propria tomba, Thomas rese un commosso omaggio al padre da poco scom-parso.

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na avversione per tutto ciò che arreca un piacere onesto anche al corpo12. Di latticini e frutta è stato sempre goloso; le uova, poi, sono la sua delizia. La voce, non alta ma tutt’altro che debole, è grade-volmente penetrante: non avendo tonalità o inflessioni particolari, è proprio quella che conviene a un parlatore. Benché appassionato di ogni specie di musica, non sembra dotato per il canto. La sua pronuncia è meravigliosamente netta, ben articolata, senza precipitazione e senz’impaccio.

Ama vestire con semplicità; non porta abiti di seta o di porpora, e neppure catene d’oro, se non gli è imposto dal cerimoniale13. È sorprendente vedere quanta scarsa importanza dia all’etichetta, nel rispetto della quale i più fanno consistere la buona educazione. Egli, invece, non ne esige l’osservanza dagli altri nei suoi confronti e non se ne preoccupa più di tanto neanche nelle riunioni e nei pranzi ufficiali; non che ne ignori le regole quando gli piaccia farne uso, ma giudica cosa effe-minata e indegna di un uomo adulto sprecare una buona parte del tempo in tali inezie.

Per molti anni si è tenuto lontano dalla corte e dall’intrattenere rapporti di familiarità con i prin-cipi, perché a lui è particolarmente odiosa la tirannia così come gli è carissima l’uguaglianza14. È ben difficile, infatti, trovare una corte che, per quanto abbia il senso della misura, non sia piena di strepito, ambizioni, ipocrisie e dissolutezze e che sia del tutto esente da ogni specie di tirannia. Si capisce allora che solo con molte insistenze lo si è potuto trascinare alla corte di Enrico VIII, che pure è un principe di cui non si può desiderare uno più civile e moderato. Per natura aspira a essere libero e a disporre del proprio tempo a modo suo: è felice, infatti, di usare come meglio crede il tempo che gli è concesso, ma nessuno è più attento e paziente di lui tutte le volte che le circostanze lo richiedano.

Sembra nato e creato per l’amicizia, di cui è il cultore più sincero e di gran lunga il più tenace15. Non teme la molteplicità delle amicizie, o poliphilia, da Esiodo16 troppo poco lodata. Per lui, inve-ce, non c’è persona con cui non sia pronto a stringere un legame d’amicizia. Per nulla esigente nella scelta delle amicizie, le alimenta con straordinaria generosità e le custodisce con immutabile fedeltà. Se per caso s’imbatte in qualcuno che non può guarire dai suoi vizi, se ne separa al momento oppor-tuno, preferendo diradare i rapporti a poco a poco piuttosto che romperli di colpo. Quando, però, in-contra amici sinceri che abbiano il suo stesso sentire, è felice di stare insieme e di intrattenersi con loro, tanto che sembra far consistere proprio in ciò la gioia essenziale del vivere. Ha una netta av-versione, invece, per passatempi come le partite a palla, i dadi e altri giochi con cui la maggior parte della gente bene ha l’abitudine di ingannare la noia. È senza dubbio molto trascurato in ciò che ri-guarda i suoi interessi, ma non v’è nessuno che curi meglio quelli dei suoi amici. Che dire di più? Chi volesse cercare un esempio di vera amicizia, non ne potrebbe trovare uno più perfetto di More.

Quando è in compagnia, la sua squisita gentilezza e la sua capacità di piacere agli altri sono tali da rasserenare chiunque, anche chi per temperamento sia incline alla malinconia, non essendovi si-tuazione penosa di cui egli non riesca ad allontanare il disagio. Fin da ragazzo traeva un tale piacere da battute e motti di spirito che sembrava fatto apposta per quel tipo di divertimento, pur senza mai scadere nella buffoneria scurrile e nel sarcasmo17. Adolescente, scrisse e rappresentò anche piccole

12 Alioqui neutiquam abhorrens ab omnibus quae voluptatem innoxiam adferunt etiam corpori (ed. Allen, linee 72-73). Anche gli utopiani non bandiscono affatto nullum voluptatis genus, a patto che i piaceri siano innocenti e non ab-biano conseguenze spiacevoli (Utopia, Yale ed., p. 144). 13 In Utopia l’uso dell’oro è riservato con allegro umorismo a umili impieghi: le catene per gli schiavi e i vasi da notte. “More è un pioniere dell’informality anglosassone”, annota Germain Marc’hadour. 14 Erasmo fa la stessa allusione nell’Epistola 832 del 24 aprile 1518. 15 Ad amicitiam natus factusque videtur, cuius et syncerissimus est cultor et longe tenacissimus est (ed. Allen, linee 97-98). 16 “Non è bene avere molti amici, né esserne senza” (Esiodo, Le opere e i giorni, v.713). Esiodo visse intorno al 700 a. C. Cicerone e Plutarco rifiutano di sottostare a questa limitazione sistematica. 17 In convictu tam rara comitas ac morum suavitas, ut nemo tam tristi sit ingenio quem non exhilaret, nulla res tam atrox cuius taedium non discutiat. Iam inde a puero sic iocis est delectatus ut ad hos natus videri possit, sed in his nec ad scurrilitatem usque progressus est, nec mordacitatem unquam amavit (e. Allen, linee 111-115).

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commedie18. Provava un vero godimento quando ciò che si diceva, anche se diretto contro di lui, era espresso in modo spiritoso: anche adesso ama molto le battute, a patto che abbiano mordente e siano veramente scintillanti d’arguzia. Per questo in gioventù compose degli epigrammi e Luciano19 di-venne uno dei suoi autori preferiti. C’è di più: fu lui a spingermi a scrivere l’Elogio della Follia, che è come dire a far danzare un cammello!

Nelle vicende umane, anche quando si tratta di argomenti molto seri, riesce a cogliere sempre qualcosa di interessante e piacevole. Con i dotti e i saggi gusta le gioie dello spirito, con gl’ignoranti e gli scriteriati si diverte alle loro sciocchezze. Non lo infastidiscono neppure i buffoni, avendo il dono di sapersi adattare con un’abilità fuori del comune agli umori degli altri. Anche con le donne, a cominciare dalla moglie, usa lo stesso tono scherzoso e gioviale. Potresti dire di lui che è un altro Democrito20, o piuttosto quel filosofo pitagorico che, aggirandosi per il mercato, con l’animo sgom-bro da preoccupazioni, contempla il tumultuoso affaccendarsi di venditori e compratori. Nessuno meno di lui è schiavo delle opinioni prevalenti, ma al tempo stesso nessuno meno di lui si allontana dal senso comune21.

Il suo hobby preferito è osservare le forme, gl’istinti, le caratteristiche dei diversi animali; non vi è quasi specie di uccelli che non allevi in casa, dove alleva bestie che per i più sono rare, come la scimmia, la volpe, il castoro, la donnola e simili. Se poi gli capita di vedere qualcosa di esotico e di strano, è preso dall’irresistibile voglia di acquistarlo; la casa è tutta piena delle sue raccolte e non vi è un angolo che non attiri l’attenzione dei visitatori; ogni volta poi che More vede costoro trarne di-letto, rinnova anche il suo. Quando pervenne all’età conveniente, non fu affatto insensibile al fasci-no femminile, senza per questo oltrepassare i confini del lecito: gli piaceva più essere desiderato che muovere lui in cerca d’amore, e la corrispondenza degli animi l’attraeva più che l’unione dei cor-pi22.

Fin dai primi anni aveva avuto modo di attingere alle fonti delle buone lettere e da giovane si dedicò allo studio della letteratura greca e della filosofia, ma con l’opposizione del padre. Questi,

18 Doveva avere all’incirca dodici anni More quando, per imparare le rigide norme che regolavano la vita della buona società, fu accolto nella casa di John Morton, arcivescovo di Canterbury e Lord Cancelliere. «Lì, giovanissimo, duran-te le recite di Natale, si divertiva a introdursi tra i commedianti e, senza essersi preparato, improvvisava una parte che divertiva gli spettatori più di quelle recitate dagli attori stessi.» (W. Roper, The Life of Sir Thomas More; prima edi-zione critica a cura di E. V. Hitchcock, London 1935). 19 Luciano di Samosata, vissuto tra il 120 e il 180 d. C., fu avvocato, conferenziere itinerante, professore di retorica. Come scrittore in lingua greca, creò il dialogo satirico. Seppe essere “serio nel far ridere”. Di lui More tradusse tre dialoghi e il Tirannicida. 20 Filosofo greco, nativo di Abdera in Tracia, vissuto all’incirca tra il 460 e il 357 a. C., elaborò una concezione atomi-stica della realtà e ridusse tutte le cause ad una sola, di tipo meccanico. Furono suoi avversari Platone, che ne confutò le teorie senza mai nominarlo, e Aristotele. Nella tarda antichità fu conosciuto come “il filosofo che ride”, probabil-mente per l’alto valore che nella morale attribuiva alla “letizia”. Più tardi, dopo la sua tragica fine, More sarà pargona-to a Socrate. 21 Nemo minus ducitur vulgi iudicio, sed rursus nemo minus abest a sensu communi (ed. Allen, linee 129-130). Nella lettera-prefazione all’Elogio della Follia Erasmo ravvisava nel dosaggio di autonomia di giudizio e di buon senso uno dei segni della riuscita di More e della sua grande umanità: “L’eccezionale penetrazione del tuo spirito ti porta di soli-to a prendere posizioni che sono molto lontane da quelle degli altri; e tuttavia l’incredibile tua gentilezza e l’indulgenza affabile del tuo carattere sono tali che a te riesce dolce essere in ogni momento l’uomo di tutti (cum om-nibus omnium horarum hominem agere et potes et gaudes)”. 22 La frase non abhorruit a puellarum amoris ha acceso l’immaginazione di alcuni biografi alla ricerca di una “conver-sione” nella vita di More, che in qualche modo somigliasse a quella di Agostino, o di Pico della Mirandola. In realtà, nella sua esistenza More non conobbe periodi di sviamento morale. Le parole di Erasmo dicono soltanto che il giovane More era sensibile alla bellezza femminile e che la ricerca di affinità elettive nei rapporti con una donna contava per lui più di ogni altra cosa. In un epigramma scritto poco dopo i quarant’anni More evoca egli stesso il momento nel quale, sedicenne, scoprì con tremore di essere attratto da Elizabeth, un’amica quattordicenne. Dopo un quarto di seco-lo More ricorda la tenerezza pudìca e l’innocenza di quella scoperta: “Tu che un tempo, in tutta innocenza, ti impadro-nisti dei miei sentimenti, / anche oggi, con altrettanta innocenza, mi sei rimasta cara. / Era stato un amore casto: a non renderlo oggi peccaminoso, / se non bastasse la rettitudine, basterebbe l’età” (Epigr. 263, 46-49. Testo latino e trad. it. in Tutti gli epigrammi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994).

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uomo prudente e in tante altre circostanze assai ragionevole; pur di sviarlo da quegli studi, giunse a privarlo dei mezzi necessari e pensò persino di disconoscerlo come figlio, perché sembrava allonta-narsi dalla carriera paterna, essendo John More specialista di diritto britannico. Questa professione è quanto mai lontana dalla vera cultura, ma chi acquista autorità in essa è ritenuto persona molto im-portante e gode della più alta considerazione in Inghilterra: è essa, infatti, la via più idonea a procu-rare vantaggi economici e notorietà e nell’isola ha reso possibile l’ascesa politica di gran parte della nobiltà. Per raggiungere, però, una vera competenza in materia occorre sudare molti anni. Non senza ragione, perciò, lo spirito di More adolescente, aperto a interessi più alti, si allontanò dagli studi giu-ridici; tuttavia, una volta terminato il periodo della formazione scolastica23, egli finì con l’acquistare in quel campo una padronanza tale da essere preferito alla maggior parte dei suoi colleghi che si e-rano applicati esclusivamente al diritto, per cui aveva una clientela più numerosa e guadagnava di più. Tanto grandi erano la forza e la rapidità d’intuizione del suo ingegno!

Tutto questo non gl’impedì di mettersi a studiare con impegno i classici cristiani. Era quasi ado-lescente quando tenne conferenze pubbliche sul De civitate Dei di sant’Agostino dinanzi a un nume-roso uditorio, in mezzo al quale c’erano preti e anziani che non provavano vergogna, né si rammari-cavano di prendere lezione da un giovane laico su argomenti religiosi. Frattanto si applicò con inti-ma adesione all’esercizio della pietà con veglie, digiuni, preghiere ed altre pratiche del genere; pen-sò di farsi sacerdote, e anche in ciò si dimostrò assai più saggio di quelli che si buttano in una mis-sione tanto ardua senz’aver prima messo alla prova le proprie forze. Nulla contrastava in lui con quel tipo di vita, ma non riusciva a strappare da sé il desiderio di prender moglie. Preferì, pertanto, essere un marito casto che un prete impuro.

Sposò una giovanissima donna 24 di illustre casato, ma priva di cultura, perché era cresciuta in campagna e non aveva frequentato altre persone all’infuori dei genitori e delle sorelle. More la scel-se così per poterla meglio formare secondo l’ideale che aveva in mente. Provvide alla sua educazio-ne letteraria, la rese esperta in ogni genere di musica e la plasmò così bene che per il marito sarebbe stata una gioia passare in sua compagnia tutta la vita, se una morte prematura non gli avesse portato via la giovane sposa, quando però gli aveva dato un certo numero di figli, di cui quattro sono ancora in vita: tre figlie, Margaret, Luisa e Cecily, e un maschio, John25. Non sopportò di rimanere a lungo celibe e, contro il diverso parere degli amici, pochi mesi dopo aver sepolti la moglie, preoccupato

23 More passò a Oxford gli anni della formazione alle “umanità” e quelli degli studi giuridici alle Inns of Courts londi-nesi, che erano scuole superiori di diritto consuetudinario. Nel 1501 fu ammesso al Collegio degli avvocati. Quando studiava diritto, More alloggiò per quattro anni presso la Certosa di Londra. 24 Joan Colt (1487-1511) diventò sposa di Thomas More nel gennaio 1505, a 17 anni; il marito ne aveva 27. I coniugi abitarono nella City di Londra, nel quartiere di Bucklersbury, in una casa ampia, ma che sorgeva fra strade anguste e brevi piaz-zette. In principio il disagio di trovarsi in un ambiente lontanissimo dal suo e la nostalgia per la verde cam-pagna dovettero essere avvertiti acutamente dalla giovane sposa; ben presto, però, le difficoltà iniziali, che furono cer-tamente notevoli, furono superate grazie all’affetto intenso e delicato di Thomas. Erasmo - che fu più volte, talora an-che per lunghi periodi, ospite di Joan e Thomas - si divertì a scrivere nei Colloqui un delizioso racconto sugli ostacoli che doveva superare una giovane coppia in cui le disparità di cultura e di ambiente erano molto forti, essendo lei cre-sciuta nell’ozio e nell’ignoranza, malgrado le sue doti naturali, e lui fin troppo colto e aperto ai più nobili interessi. Nei protagonisti della scenetta del Coniugium («Un matrimonio») è facile riconoscere Joan e Thomas. La piena, felice riuscita del matrimonio non può farci dimenticare che esso ebbe per More il carattere di un “rischio” consapevolmente assunto, a dimostrazione delle straordinarie risorse della natura umana, e in questo caso di un’adolescente, se risveglia-te dall’amore. Joan Colt morì nel 1511, a soli 22 anni, dopo cinque di matrimonio. 25 Per inavvertenza Erasmo chiama Luisa la seconda figlia di More, Elisabeth. Margaret, la primogenita, era la più do-tata intellettualmente e aveva passione per gli studi umanistici, teologici e di medicina. Fu la prediletta del padre. Mar-garet si sposò con William Roper il 2 luglio 1521. Di Elisabeth e Cecily sappiamo che si sposarono nello stesso gior-no, il 29 settembre 1525. Nell’ultima lettera dalla prigionia, “scritta con il carbone”, More lascia come suo ricordo a Elisabeth un quadretto in pergamena ricevuto in dono e a Cecily un fazzoletto (Ep. 218 Rogers). Della famiglia More erano entrati a far parte i mariti delle tre figlie, giovani avviati a un grande avvenire, o già membri del Parlamento, ma il tragico destino di Thomas modificò anche il corso delle loro esistenze. Cinque anni dopo l’esecuzione del suocero, nel 1540, moriva per mano del boia il marito di Cecily, Giles Heron. William Roper e William Dauncey, il marito di Elisabeth, ebbero salva la vita, ma non evitarono il carcere; e così pure John, l’ultimo figlio di More.

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delle necessità della famiglia più che del suo piacere, sposò una vedova: quella donna non era nec bella nec puella («né graziosa, né giovane»), com’egli scherzosamente amava dire26, ma una madre di famiglia attenta ed energica, al fianco della quale la vita scorre con affettuosa tenerezza, quasi fosse una giovane di amabile bellezza. Con l’imposizione e la severità un marito ottiene a fatica di essere ascoltato dalla moglie come lui che usa, invece, modi gentili e scherzosi. E che cosa mai non potrebbe riuscire a un uomo come lui? Egli ha fatto sì che una donna già matura, di carattere tutt’altro che malleabile, e per giunta molto presa dalle sue occupazioni, imparasse a suonare la chi-tarra, il liuto, il monocorde e il flauto, eseguendo ogni giorno, alla presenza di un intenditore esigen-te come il marito, il brano che le era stato assegnato per quel giorno27.

Con la stessa amabilità governa tutta la famiglia: una famiglia, la sua, in cui non si fanno dram-mi, né vi sono litigi e quando sorgono, egli vi porta subito il rimedio e la riconciliazione28. More ha fatto in modo che neppure uno andasse via portando con sé, o lasciando, un qualche rancore. In-somma, alla sua casa sembra sia toccata una felice sorte, per cui tutti coloro che vi abitano sono av-viati a una condizione migliore e nessuno si sente sminuito nel suo onore. È difficile che qualcuno viva con la madre in buona armonia come lui con la matrigna: essendosi suo padre risposato, egli ha unito nell’affetto la madre e la matrigna, amandole come se fosse figlio di entrambe. Il padre in se-guito prese moglie una terza volta e More dice in tutta onestà di non aver conosciuto una donna mi-gliore di lei. Egli, d’altra parte, ha per i suoi congiunti - genitori, figli e sorelle - un affetto pieno di sollecitudine, senza riuscire mai assillante.

Egli è del tutto estraneo alla bassezza e all’avidità di un guadagno cercato con animo sordido. Ha messo da parte per i figli ciò che considera sufficiente ai loro bisogni; il resto lo dispensa con lar-ghezza. Anche quando viveva facendo l’avvocato, dava a ciascun cliente un consiglio da amico, considerando il loro vantaggio piuttosto che il suo: di norma egli cercava di convincere le parti in causa a trovare un accordo perché avessero meno spese. Se non vi riusciva - perché c’è pure gente che a litigare prova gusto - indicava le vie per ridurre al minimo le spese legali. A Londra, sua città natale, è stato per alcuni anni giudice nelle cause civili: era un ufficio non gravoso, le cui udienze si tenevano solo il giovedì mattina, ma di grande prestigio. Ebbene nessuno più di lui portò a termine in quell’incarico tanti processi, né con maggiore integrità. Quasi sempre restituiva ai contendenti l’onorario che erano tenuti a versare per legge; prima dell’udienza, infatti, chi è ricorso al tribunale versa tre monete e così pure fa l’accusato, né il giudice può esigere di più. Per questi motivi egli è di gran lunga l’uomo più caro ai suoi concittadini.

La sua posizione gli conferiva prestigio senza esporlo a gravi rischi, ed egli ne era contento. Invi-ato due volte all’estero in missione per incarico del sovrano, operò con eccezionale avvedutezza ed Enrico VIII non si diede pace finché non riuscì a trascinarlo a corte29. “Trascinato” è, infatti, la pa-rola esatta, perché nessuno ha brigato con tanta insistenza per entrare a corte come More per starne fuori. Desiderando quell’ottimo re riempire la propria casa di uomini insigni per cultura, nobiltà d’animo, saggezza e integrità morale, invitò molti personaggi illustri, primo fra tutti More: egli lo voleva tra i collaboratori più stretti, tra quelli che dovevano stargli sempre vicino. Se si devono af-frontare questioni difficili, nessuno è più esperto di More; ma se il re ha voglia di rilassare il suo a-nimo, volgendosi ad argomenti più ameni, quale miglior compagno di allegria? I problemi compli-cati, in cui occorre un giudizio severo e saggio a un tempo, non mancano certo, ma egli li affronta in 26 L’espressione nec bella nec puella è di Marziale (Epigr. I, 64). 27 “Tra il regno di Enrico VI e quello di Enrico VIII l’Inghilterra era Avery musical nation. Era assai diffuso nell’isola l’interesse per la musica. Purtroppo la produzione misicale di quell’epoca è quasi interamente sparita” (C. S. Lewis, English Literatur in the sixteenth Century, London 1954, p. 222). More, sotto questo aspetto, è in piena sintonia con una felice disposizione della società inglese del suo tempo. 28 Consimili comitate totam familiam moderatur, in qua nulla tragoedia, nulla rixa. Si quid extiterit, protinus aut me-detur aut componit (ed. Allen, linee 187-188). 29 “Platone non giudica qualificati a servire la cosa pubblica se non quelli che vi sono trascinati contro la loro volontà (nolentes pertrahunt)”. Così scriveva Erasmo nel 1517 a Filippo di Borgogna nella lettera-dedica dello scritto Querela Pacis («Il lamento della Pace»).

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maniera tale che ognuna delle due parti finisce con l’essergli riconoscente; e nessuno dei contenden-ti è mai riuscito a fargli accettare un qualche dono. Felici, dunque, quegli Stati in cui il principe rie-sca a nominare in ogni settore magistrati che somiglino a More; anche perché lui, malgrado i suoi meriti, non si è mai montato la testa.

In mezzo a così gravose responsabilità, non si dimentica degli amici d’un tempo, anche dei più modesti, né delle amatissime lettere a cui ritorna ogni volta che gli è possibile. Dell’influenza acqui-stata con la sua posizione e dell’ascendente che ha su un sovrano che dispone di così ampi poteri si avvale solo per il bene dello Stato e per giovare agli amici. Il suo animo, mirabilmente incline alla misericordia, ebbe sempre un’ardentissima aspirazione: fare il bene di tutti30. Aspirazione che in lui diventa più evidente nel momento in cui egli è effettivamente in grado di poter giovare di più. Aiuta gli uni con il danaro, dà sicurezza agli altri con la sua autorità, di altri ancora si fa personalmente ga-rante; a quanti non può giovare altrimenti, offre il soccorso del suo consiglio. Non ha mai lasciato andar via nessuno con la tristezza nel cuore31. Si potrebbe dire che More è il patrocinatore di tutti quelli che si trovano in difficoltà: sollevare un oppresso, liberare qualcuno da un’incertezza paraliz-zante, far ritrovare il perdono e la pace a un disgraziato è per lui un guadagno, e un ingente guada-gno. Nessuno accorda più volentieri di lui un favore, nessuno lo fa pesare di meno32. Ha tante ragio-ni per essere un uomo felice e benché alla fortuna si accompagna, di solito, un’arrogante ostentazio-ne di superiorità, finora a me non è mai capitato d’incontrare una persona tanto lontana da quel vi-zio.

Ma torniamo alla sua attività letteraria, che più di ogni altra cosa ha legato me a More e More a me33. Da ragazzo coltivò principalmente la poesia; ma ben presto provvide a rendere più scorrevole la sua prosa, esercitando il suo stile in ogni genere letterario. Ma che senso ha ricordare quale sia il suo stile proprio a te che hai sempre in mano i suoi libri? La “declamazione” è la forma espressiva che preferisce, provando gusto a discutere argomenti fuori dal comune34 perché in essi l’intelligenza meglio affina il suo acume. È per questo che, quand’era adolescente, pensava di scrivere un dialogo in difesa della società comunitaria di Platone, compresa la comunanza delle donne35. Scrisse anche

30 Semper quidem adfuit animus de cunctis benemerendi cupidissimus mireque pronus ad misericordiam (ed. Allen, linee 234-235). 31 Nullum unquam a se tristem dimisit (ed. Allen, linee 238-239). 32 Nemo lubentius collocat beneficium, nemo minus exprobat (ed. Allen, linee 242-243). 33 Quello che Erasmo pensava degli scritti di More lo dice in una lettera all’editore Johann Froben: “Tutto ciò che ha scritto finora More mi ha sempre incantato; solamente a causa dell’amicizia che ci lega strettamente io diffidavo un po’ del mio giudizio. Ora, però, che vedo tutte le persone colte sottoscrivere unanimemente la mia opinione, ed anche sopravanzarmi nell’ammirazione per il suo genio più che umano, non esito più a dire tutto il bene che penso di lui” (Ep. 635, 25 agosto 1517). Erasmo si chiede che cosa avrebbe dato al mondo il genio di More se avesse potuto “con-sacrarsi interamente alle Muse e attendere l’autunno della vita per offrirci i suoi frutti maturi” (ibid.). 34 Erasmo fa la stessa osservazione a proposito di un altro grande amico inglese, John Colet (Ep. 1211). 35 Erasmo sembra darci in questo passaggio una chiave di lettura sia della Repubblica di Platone, sia del ruolo che quell’opera aveva avuto nella formazione mentale dell’autore di Utopia. Erasmo scrive che More, volendo mettere alla prova la sottigliezza del suo ingegno e la sua capacità dialettica, difendeva tesi che sono proposizioni volutamente e-spresse in modo estremo e provocatorio. Gli adoxos, gli argomenti fuori dal comune, che More sceglie come test sono quelli che più colpiscono i lettori dell’opera platonica: la proibizione per le sole classi superiori di ogni proprietà e quella, ancor più decisa, di una vita familiare. Occorre quindi chiedersi quali verità profonde Platone voleva affermare per loro tramite. Il discepolo di Socrate voleva tener lontano nel modo più radicale dalla politica il potere economico-finanziario ed eliminare la confusione tra interesse pubblico e interessi privati, o familiari. Insomma, è nella plutocra-zia e nel primato esclusivo del “particulare” a spese del bene comune che Platone individua la causa principale della corruzione e dell’ingiustizia che portano tutte le società, e in particolare le democrazie, alla rovina. In questo duplice imperativo, che è etico e politico a un tempo, More ed Erasmo concordano in pieno col filosofo ateniese.

Ben diverso è il discorso riguardante la configurazione mitologica che Platone dette al suo Stato ideale: essa non è solo cosa del tutto secondaria e discutibile, ma spesso contraddice apertamente alla vigorosa affermazione di quei va-lori che nella Repubblica e in altre opere sono riconosciuti come il fondamento di ogni giusta comunità politica. I due umanisti cristiani sanno che lo spontaneo mettere in comune i propri beni nelle prime comunità della Chiesa nascente non può tradursi in obbligo giuridico; ma essi pensano che da quella esperienza eccezionale, che è religiosa e non poli-

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una replica al Tirannicida di Luciano, in cui mi volle come suo antagonista per meglio saggiare le sue forze e valutare i progressi compiuti in quel genere letterario. Pubblicò l’Utopia allo scopo di mostrare per quali ragioni gli Stati vanno meno bene di come dovrebbero; ma egli descrive innanzi tutto l’Inghilterra, di cui poteva parlare a fondo per diretta conoscenza. Egli compose in precedenza, nei momenti di riposo, il libro secondo, aggiungendovi poi il primo, buttato giù in fretta nei ritagli di tempo. Di qui una certa discontinuità di stile36.

È difficile ascoltare un oratore più efficace nell’improvvisare, perché in lui la perfetta dizione as-seconda felicemente la capacità inventiva. La sua intelligenza sa concentrarsi su un punto e, nello steso tempo, spaziare in ogni campo; la memoria è pronta e, conservando ogni cosa come in un ar-chivio, gli suggerisce immediatamente, senza esitazione alcuna, tutto quello che è richiesto dalle circostanze o dall’argomento. Nei dibattiti non so chi possa credersi più acuto di lui, che spesso mette in difficoltà anche eminenti teologi, quando si porta sul loro terreno. Parlando di lui tra amici, John Colet37, uomo acuto e preciso nei giudizi, è solito ripetere che in tutta l’Inghilterra - l’isola in cui pure fioriscono non pochi ingegni - non esiste che un genio, Thomas More.

tica, giunga un appello a cercare le vie della fratellanza. Nel primo degli Adagi Erasmo giudica negativamente il modo in cui “i cristiani lapidano Platone” invece di sforzarsi di cogliere quello che c’è di profondo nei suoi paradossi. 36 Queste brevi indicazioni di Erasmo sono illuminanti, perché correggono l’opinione diffusa che l’Utopia sia una fan-tasia da letterato. È un libro “serio”, come lo è l’Elogio della Follia. 37 John Colet nacque a Londra nel 1467 e morì il 16 settembre 1519, due mesi dopo che Erasmo aveva datato la lettera a Hutten. Suo padre, un ricco mercante di drappi, era stato due volte Lord Major di Londra. Colet studiò a Oxford, ma fu insoddisfatto del tipo d’istruzione ricevuta. Giovane di acuta intelligenza, impetuoso e fortemente incline alla pole-mica, a ventitré anni attraversò la Manica per completare la sua formazione a Parigi, a Roma e a Firenze. In quest’ultima città - nella quale allora grandeggiavano le figure di Savonarola, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola - Colet si aprì all’influenza del platonismo cristiano e fece sua l’ansia di una profonda riforma religiosa. Il giovane che nel 1496 tornava in Inghilterra era interiormente trasformato, deciso ormai a dedicare la sua vita al rinnovamento reli-gioso e allo studio della Scrittura. Al rientro, tenne a Oxford un corso pubblico e gratuito sulle lettere di san Paolo, raccogliendo uno straordinario successo. Fu ordinato prete nel marzo 1498. L’anno successivo, nell’ultimo semestre del secolo XV, giunse a Oxford Erasmo. Alloggiato in uno dei collegi della città universitaria, seguì le lezioni di Colet e si innamorò del suo progetto; nacque così tra i due un’amicizia che durò vent’anni, dal 1499 al 1519, e che fu fecon-da per entrambi, superata solo da quella tra More ed Erasmo. Colet prospettò a Erasmo l’ardito disegno di fondare sul-la Scrittura la scienza di Dio, ma lo aiutò anche a individuare la sua missione, a prendere coscienza delle sue forze. Egli avrebbe voluto affidargli subito un corso sulla poesia latina e sull’Antico Testamento, ma l’umanista olandese, pur essendo a corto di mezzi, declinò l’invito. Non si sentiva ancora preparato a quel compito (Ep. 108): aveva com-preso, infatti, la necessità di una perfetta padronanza del greco per lanciarsi in un’impresa del genere. Gli anni seguenti saranno consacrati a realizzare quel programma, in cui gli gioverà anche l’amicizia con i grecisti Thomas Linacre e William Grocyn, anch’essi del circolo di intellettuali che si muoveva intorno a Colet.

Le vivaci discussioni fra Colet ed Erasmo - di cui ci riferiscono le Epistulae 109- 110-111 e le Lucubratiunculae («Discussioncelle») - attestano la loro grande libertà di spirito, ma la franchezza, talora aspra nel dissenso, non diminuiva in nulla la stima e l’amore reciproco. Erasmo mostra come abbia saputo far sua la “lezione” di Colet nell’Enchiridion militis christiani («Manuale del soldato cristiano»), non a caso pubblicato nel 1504 in un unico volume con le Lucubratiunculae (Ep. 181). Alla morte del padre, Colet poté disporre di una notevole ere-dità, che impiegò per istituire a Londra, presso la cattedrale di san Paolo, la Saint-Paul’s School, per giovani desidero-si di essere istruiti in Christo et in bonis litteris. In quanto decano della cattedrale, Colet intervenne nei momenti più importanti della vita della Chiesa inglese. Nel 1512 tenne l’allocuzione inaugurale al Sinodo del clero, in cui denunciò la corruzione della Chiesa e ne invocò con appassionata fervore la riforma; memorabile fu il sermone di netta condan-na di ogni politica bellicista e di ostentazione di potenza pronunciato il venerdì santo 1513, alla presenza del re, men-tre era in pieno svolgimento la guerra contro la Francia.

Erasmo ricordò sempre con gratitudine l’uomo che gli aveva messo nel cuore il desiderio di restaurare la teologia, ponendo al suo centro la Scrittura; Colet, dal canto suo, intuì fin dall’inizio la superiorità culturale dell’olandese e il ruolo che il suo genio avrebbe potuto svolgere nel rinnovamento della paideia cristiana e della Chiesa. Quando ebbe tra le mani l’edizione erasmiana del Nuovo Testamento, Colet ne fu profondamente commosso e scrisse all’amico una lettera toccante - l’Epistola 433 del 20 giugno 1516 - in cui esprime la certezza che il nome di Erasmo non perirà mai (nomen Erasmi nunquam peribit) per la fecondità inesauribile e la perfezione dei suoi apporti, e che la sola immortali-tà che conti, la felicità eterna, egli se l’è meritata affaticandosi a penetrare e a far conoscere il divino insegnamento del redentore (sudans in Jesu). Colet morì di peste nel corso del suo cinquantaduesimo anno. A John Fisher - vescovo di Rochester e amico comune di Colet, More e suo - Erasmo ne scrisse in questi termini: “La morte di Colet mi fa prova-

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Pratica con cura la vera pietà ed è lontanissimo da ogni superstizione. Ha le sue ore consacrate a Dio, a cui innalza le sue preghiere non per abitudine ma con intimo fervore. Quando con gli amici parla della vita futura, si capisce che le sue parole, aperte alla più grande speranza, vengono dal pro-fondo dell’animo. E così si comporta anche alla corte del re. E poi dicono che i buoni cristiani si trovano solo nei monasteri!

Questi sono gli uomini che nella sua illuminata saggezza il re non solo ammette a corte, ma invi-ta; meglio ancora, trascina di forza nella cerchia dei suoi amici. Li prende come giudici e testimoni costanti della sua vita, li sceglie per consiglieri e compagni di viaggio. Di questi uomini ama cir-condarsi, non di giovani scialacquatori e donne facili, di nobili ingioiellati come Mida, o di cortigia-ni servili: tra costoro, infatti, gli uni lo trascinerebbero verso piaceri abietti, gli altri lo spingerebbero addirittura con entusiasmo a farsi tiranno e ad escogitare nuovi sistemi per derubare i suoi sudditi38.

re un dolore grande come non mi capitava da almeno trent’anni. Non posso fare a meno di deplorare, a nome di tutti, la perdita di un così raro esempio di pietà cristiana e di perfetto araldo della dottrina cristiana; personalmente, con lui io ho perduto un amico fedele e un incomparabile protettore” (Ep. 1030, 17 ottobre 1519). Dal momento in cui appre-se la notizia della morte dell’amico, Erasmo si ripromise di presentarne la figura esemplare di prete cristiano. Lo fece con l’Epistola 1211 del 13 giugno 1521, indirizzata a Jodoco Jonas. 38 Nel luglio 1519, quando Erasmo invia la lettera a Ulrich von Hutten, nessuno avrebbe potuto prevedere quello che sarebbe accaduto negli anni Trenta e ancor meno la conclusione tragica della vita di More. Da giovane, il principe Enri-co aveva interessi vivaci e capacità multiformi. Amava le arti e specialmente la musica: sapeva cantare, ballare e suona-va bene l’organo. Scriveva versi ispirati e componeva inni religiosi. Era colto: parlava, oltre all’inglese e al latino, il francese, l’italiano e lo spagnolo. Atleta pieno di grazia e di forza, primeggiava nelle partite a tennis e nei tornei cavalle-reschi. Il suo avvento al trono nel 1509 autorizzava le più belle speranze. Il giovane re, che aveva “l’ansia di rinnovare ogni cosa”, riuscì in breve tempo a rafforzare l’unità nazionale e la popolarità dei Tudor. Riportò la sicurezza e l’ordine in un Paese ancora stremato dalla guerra delle Due Rose e minacciato sia dalla Scozia celtica, che non voleva diventare anglosassone, sia dalle micidiali spedizioni di selvaggi montanari. Enrico VIII ruppe l’equilibrio dei poteri a favore del-la corona rafforzandone la presa autoritaria sui nobili, su quel che rimaneva dell’aristocrazia feudale e sul Parlamento, consultato in linea di massima ogni volta che occorrevano ulteriori mezzi finanziari. Egli sviluppò un’accorta politica marinara e di intese commerciali con i Paesi Bassi a sostegno della trasformazione dell’Inghilterra in senso capitalistico. Quando nel continente si spezzò l’unità religiosa dei cristiani, fu decisamente a fianco della Chiesa di Roma, guada-gnandosi per un suo libro il titolo di defensor fidei. Aprì, infine, la corte e le università all’influsso della nuova cultura dell’umanesimo critico di Erasmo e dei suoi amici inglesi. Il matrimonio con Caterina d’Aragona fu per parecchi anni felice e la fedeltà di Enrico VIII alla moglie non fu inferiore a quella dei suoi colleghi per le rispettive consorti. Un de-stino crudele, però, si accanì contro i reali d’Inghilterra, che pure ebbero sei figli, di cui cinque nati morti, o morti dopo pochi giorni, e la sola creatura rimasta in vita, Maria Tudor, essendo donna, non risolveva affatto le difficoltà della suc-cessione al trono.

Dal punto di vista storico è un grave errore estendere retrospettivamente al ventennio 1509-1529 il giudizio negati-vo che si deve dare sulla seconda metà del regno di Enrico VIII, cioè sul periodo 1530-1547, in cui lo scenario mutò radicalmente: la questione del matrimonio del re con Anne Boleyn portò, infatti, alla separazione da Roma della Chie-sa d’Inghilterra, alla distruzione dei conventi e al saccheggio delle loro proprietà; l’arbitrio e la crudeltà divennero pra-tica di governo, essendosi il re circondato di uomini senza coscienza come Cromwell, Cranmer, Audley e simili. Per le sue incredibili vicende matrimoniali il sovrano apparve agli occhi di molti, e non a torto, come un mostruoso Barba-blù. Erasmo in questa lettera osserva acutamente che ogni corte comporta in qualche misura una dose di tirannia; ed Enrico, malgrado la “moderazione” mostrata fino a quel momento, era pur sempre un sovrano assoluto, che portava nell’esercizio di un potere pressoché illimitato un’impulsività irrefrenabile e un’insofferenza aggressiva verso quanti non erano in sintonia con le sue scelte e le sue inclinazioni. Senza dubbio l’occasione scatenante che portò alla luce il lato oscuro e malvagio che era in lui fu la sua torturante, folle soggezione all’astuta Anne Boleyn, che aveva appreso alla corte francese i modi raffinati e l’arte di sedurre. Non si sa per quanti anni quella donna giocò con la passione del re, di continuo sollecitata e nello stesso tempo elusa, essendo decisa a non darsi a Enrico se non a patto di diventare la nuova regina d’Inghilterra. Bellissimi erano i suoi lunghi capelli neri e gli occhi neri, ma i ritratti che la raffigurano ci mostrano l’angolosità dura, irregolare del suo volto, che a Parigi era giudicato addirittura repellente. Enrico la fece de-capitare per tradimento e adulterio appena un anno dopo che aveva fatto rotolare la testa di Thomas More. La politica estera inglese - affidata prima al cardinale Thomas Wolsey e poi, a partire dal 1529, con l’avvento di More alla Cancelleria, gestita personalmente dal sovrano - si mosse sempre lungo due direttrici contraddittorie: la vec-chia, secolare pretesa inglese di garantirsi una forte presenza sul continente in funzione antifrancese, con il corteo di guerre che ne conseguirono, e l’intuizione nuova che l’avvenire dell’Inghilterra moderna era sul mare. La politica con-tinentale, enormemente dispendiosa e inconcludente, fu criticata da John Colet in un suo sermone e non fu mai condi-visa, nel suo intimo, da More. Questi, invece, fu l’artefice sagace e silenzioso, non a caso, di quella Pace di Cambrai

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Se anche tu, caro Hutten, fossi vissuto a questa corte, ne avresti parlato nel De vita aulica («La vita di corte»)39 in un altro modo, cessando di esserle nemico. Anche tu, però, vivi con un principe che non si potrebbe desiderare più integro40 e non mancano presso di lui uomini dediti alle cose più alte come Stromer e Cop41, anche se si deve riconoscere che le personalità di quel livello sono poche a paragone della folta schiera dei Mountjoy, dei Linacre, dei Pace, Colet, Stokesley, Latimer, More, Tunstall, Clerk42 e tanti altri: citando uno solo di questi nomi, tu nomini contemporaneamente un

che nel 1529 restituì alla Francia il posto che le spettava in Europa, pur salvaguardando gli interessi legittimi dell’Inghilterra e, più in generale, della pace. Fu anche per coprire la voragine del debito pubblico che il re e il Parla-mento d’Inghilterra procedettero, dopo la separazione da Roma, all’incameramento selvaggio dei beni dei conventi. I nuovi proprietari - la piccola e media nobiltà, la gentry, e i borghesi - si legarono allora indissolubilmente alla corona, grazie alla quale si erano impossessati delle terre dei conventi a prezzi irrisori; la corona, però, vide ben presto lique-farsi tra le dita il danaro ricavato da quelle vendite e tornò a spremere i contribuenti con nuove imposte. Le conse-guenze della distruzione dei rapporti economico-sociali che facevano capo ai conventi divennero subito evidenti: i nuovi proprietari erano assai più intraprendenti dei loro predecessori, ma spietati, e la massa dei diseredati non poteva più contare sulle cento forme di assistenza, di cura degli ammalati, di scuole d’istruzione a cui la Chiesa provvedeva. Quando una parte di quell’esercito di disperati si procurò le armi e si mise in marcia, nel 1536, per compiere il cosid-detto “Pellegrinaggio di Grazia” ai piedi del re, perché facesse cessare le loro sofferenze restaurando il vecchio e più umano ordine di cose, la risposta della corona fu la forca. 39 Hutten aveva pubblicato nel 1518, in settembre, un dialogo sulla vita di corte, De vita aulica, in cui l’interlocutore principale si chiama «Misaulos», cioè nemico di corte, cortofobo. Lo scritto di Hutten, ristampato per interessamento di Erasmo nel novembre di quello stesso anno presso Froben, era dedicato a Thomas More. 40 Alberto di Hohenzollern, figlio cadetto dell’elettore del Brandeburgo, a ventitré anni era già arcivescovo di Magde-burgo e amministratore del vescovado di Halberstadt. Non sazio, ottenne dalla Santa Sede anche l’arcivescovado di Magonza, a cui era annessa la dignità di elettore del Sacro Romano Impero. Aveva l’obbligo, però, di pagare a Roma una somma colossale, sia per il versamento consueto della prima annata di redditi dei vescovadi di cui era diventato titolare, sia per la dispensa ottenuta relativamente al cumulo di tante cariche nelle sue mani. Per pagare il debito con Roma Alberto ne contrasse un altro con i Fugger. Gli agenti romani dei grandi banchieri ottennero che nei vescovadi retti da Alberto si predicasse per otto anni l’indulgenza papale e che il ricavato fosse ripartito al 50% tra la curia ro-mana e i Fugger, che avrebbero provveduto alla riscossione del denaro. Il tono e i contenuti della predicazione delle indulgenze, affidata al domenicano Johann Tetzel, fecero il resto. L’elettore di Sassonia impedì al frate di entrare nel proprio Stato e un giovane professore della neonata università di Wittenberg, il padre agostiniano Lutero, volle ricor-dare ai credenti con le sue Novantacinque Tesi che la salvezza viene dalla fede e non ha nulla a che fare con indegne speculazioni. Lo scandalo delle indulgenze dette subito vasta risonanza alla protesta di Lutero. Il 14 aprile 1519, tre mesi prima di apporre la data al suo «ritratto» di More, Erasmo aveva affidato a Ulrich von Hutten una lettera confidenziale, riservatissima, per il vescovo di Magonza, l’Epistola 939: in essa l’umanista spiegava la ragione per cui gli sembrava giusto assumere un atteggiamento di neutralità nei confronti di Lutero nella speranza di indurre, per quanto stava in lui, entrambe le parti a non prendere decisioni inconsulte, da cui poi sarebbe stato molto difficile tornare indietro. Hutten subdolamente fece pubblicare quella lettera, insieme ad altre, per compromettere Era-smo e costringerlo a schierarsi con Lutero. I maneggi di Hutten disgustarono Erasmo, che osservava con innegabile verità: “Lo zelo inopportuno di certi amici mi reca più danno dell’odio dei miei nemici” (Ep. 1123, 13 luglio 1520). In ogni caso l’Epistola 939 ad Alberto di Brandeburgo offrì l’occasione ai teologi conservatori di Lovanio e al legato pontificio in Germania, Gerolamo Aleandro - già intimo amico di Erasmo, quando insieme soggiornavano a Venezia, presso Aldo Manuzio - di bruciare pubblicamente i suoi scritti. Aleandro inviò a Leone X un rapporto sfavorevole a Erasmo, ma il papa continuò, come fecero anche i suoi successori, a stimare l’umanista riformatore e a chiedergli con-siglio. La successiva lettera del 19 ottobre 1519 ebbe la stessa sorte: fu intercettata e pubblicata dai luterani un mese prima che giungesse nelle mani del destinatario. In essa Erasmo scriveva al primo responsabile del traffico delle indul-genze che su quell’argomento Lutero aveva ragione (Ep. 1033). 41 Heinrich Stromer (1482-1542), rettore dell’università di Lipsia nel 1508 e dal 1516 docente di patologia medica, fu medico dell’arcivescovo di Magonza. A lui Hutten dedicò l’opera De vita aulica. Wilhelm Cop (1466-1532) fu uma-nista e scienziato. Tradusse dal greco Galeno e Ippocrate. Fu medico di Francesco I. Nel 1519, quando Erasmo scrive a Hutten l’Epistola 999, Stromer e Cop erano al servizio dell’arcivescovo di Magonza, Alberto di Brandeburgo. 42 Erasmo qui non compila, sia chiaro, l’inventario dei personaggi che attorniavano Enrico VIII, a corte, ma vuole sot-tolineare l’importanza dell’umanesimo inglese, che aveva direttamente conosciuto attraverso i suoi esponenti più qua-lificati. L’elenco si apre con l’ex allievo di Parigi e fedele protettore, almeno fino a quando i mezzi glielo permetteran-no, Lord William Mountjoy. Viene poi ricordato John Colet, primo vero maestro spirituale di Erasmo; segue il gruppo dei più famosi ellenisti e cultori delle bonae litterae, a cominciare da More, dirette alla formazione non solo del dotto in quanto tale, ma dell’uomo integrale, moralmente e politicamente retto, del cristiano autentico.

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mondo intero di saggezza e di sapere. Spero ardentemente che Alberto di Brandeburgo, ornamento unico di cui si fregia oggi la nostra Germania, chiami intorno a sé molti altri spiriti simili al suo, of-frendo così un esempio degno di essere imitato dagli altri principi, ognuno dei quali dovrebbe impe-gnarsi a fare altrettanto nella propria corte.

Adesso hai davanti ai tuoi occhi l’immagine di un modello perfetto, anche se malamente delinea-ta da un pessimo artista: immagine che ti piacerà ancora di meno, se un giorno avrai la gioia di co-noscere More da vicino. Nel frattempo io ho fatto quanto potevo per soddisfare la tua richiesta e questa volta non merito proprio il rimprovero che solitamente mi fai di scriverti lettere troppo brevi. Se questa lettera non mi è parsa lunga nello scriverla e se a te, nel leggerla, non sembrerà prolissa, io ne conosco la ragione: il merito va tutto all’incanto che promana dal nostro More43. Stammi bene.

Gli altri amici umanisti citati da Erasmo sono anch’essi attori, benché non di primo piano, del rinnovamento cultura-le e religioso in Inghilterra. Medico, insigne latinista, editore di Aristotele fu Thomas Linacre (1460-1524); a lui si de-ve anche la versione in latino di Galeno. Richard Pace (1483 circa-1506) conobbe Erasmo in Italia e ne custodì i ma-noscritti (Ep. 412). A lui il re affidò numerose missioni diplomatiche. Fu sempre amico fedele di Erasmo e ne fu ri-cambiato. John Stockley (1475-1539), conoscitore dell’ebraico oltre che del greco e del latino, era cappellano di Enri-co VIII e in tale ufficio assistette il re nella questione del divorzio. William Latimer (1460 circa-1545) fu sacerdote coltissimo, ma non lasciò suoi scritti. John Clerk fu ambasciatore di Enrico VIII in Francia e a Roma e vescovo dal 1523. Morì nel 1541. 43 Nella chiusa della lettera - che qui si riporta integralmente - Erasmo passa a parlare d’altro. Chiede a Hutten spiega-zioni su un paio di episodi poco chiari, su cui tornerà nell’Ep. 1033, aggiungendovi notizie su un comune amico, il grande ebraista Johann Reuchlin. Egli dà voce, infine, all’amarezza del suo animo, trovandosi in quel momento al cen-tro degli attacchi che gli vengono mossi nella sua Lovanio e proprio per l’edizione greco-latina del Nuovo Testamento. Il genio malefico di tutta l’operazione è, a suo avviso, il teologo inglese Edward Lee, che studia a Lovanio e agisce in stretto collegamento con i teologi conservatori di quella università. Di lui, però, Erasmo tace per ora il nome. Ecco il testo degli ultimi due capoversi della lettera. “In risposta alla tua ultima lettera - che ho letto già stampata, prima di ricevere quella scritta di tuo pugno - posso dirti che un’idea dell’umanità dell’illustrissimo principe Alberto me la sono fatta attraverso le lettere che mi indiriz-za. Sono venuto a sapere del dono che egli mi ha inviato da una tua lettera, resa pubblica quando la patèna [d’oro e d’argento] non mi era ancora giunta. Come si spiega ciò? Eppure tu non potevi affidare quel dono a mani più sicure di quelle di Richard Pace, ambasciatore del re serenissimo d’Inghilterra, che io ho avuto occasione d’incontrare nel Brabante e nel suo stesso Paese. A quanto vedo tu combatti attivamente con la penna e la spada, né il tuo successo è inferiore al tuo valore. Ho sentito dire che godi anche di grande credito presso il reverendissimo cardinale Caietano. Mi rallegro nell’apprendere che Reuchlin sta bene. [Per quanto poi riguarda] Franz von Sickingen, le lettere, se non vogliono essere accusate d’ingratitudine, non permetteranno che perisca il suo nome [perché egli ha difeso Reu-chlin].

Delle nostre faccende parleremo un’altra volta. Per ora mi limito a dirti che qui [a Lovanio] abbiamo a che fare con i più sordidi delatori, con cui io non posso certo competere. Se qualcuno dei tuoi desiderasse apprendere quel mestiere, gl’indicherò io un uomo straordinario in quel campo, uno che tu diresti nato proprio per quel tipo di infa-mia. Al suo confronto persino un oratore come Cicerone sembrerebbe meno valente, e dire che quel signore trova presso di noi molti adepti. Il momento non è ancora venuto, ma presto ti confiderò il suo nome perché egli, che conti-nua a brigare indecentemente, possa essere additato da tutte le persone colte per quello che è: più che un uomo, un mostro”.

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LETTERA 1117

Per i francesi Budé era grande come Erasmo e dopo di lui veniva Germain de Brie, latinamente detto Brixius. Nelle lettere erano loro i “principi delle Gallie”. Tra i due non mancavano tratti co-muni: erano i migliori grecisti di Francia, maestri nell’arte epistolare e nella poesia neolatina; ma appartenevano a due generazioni diverse. Nato nel 1488, o nel 1490, De Brie aveva una ventina d’anni meno di Erasmo. Dopo aver studiato diritto, si era recato in Italia a perfezionare la sua formazione e a Venezia nel 1508 aveva incontrato Erasmo. Si stabilì subito tra loro un rapporto di familiarità, al punto che Erasmo piazzò tre poemetti del giovane amico in apertura degli Adagi, nell’edizione di Aldo Manuzio; ma è anche vero che i versi di De Brie celebravano Erasmo come il primo scrittore di razza barbara che fosse riuscito a innalzare il suo nome fino alle stelle, padro-neggiando il greco e il latino come gli stessi antichi.

Libero da preoccupazioni finanziarie, che invece assillavano Erasmo, De Brie organizzò la sua vita in modo che trascorresse tra gli studi, gli atti di pietà e la compagnia di amici scelti, genero-samente ospitati nella sua residenza in campagna. Ordinato sacerdote ancor giovane, divenne pre-sto canonico nella sua Auxerre e poi a Notre-Dame-de-Paris. De Brie, umanista colto e spirito ac-cogliente, ammira Erasmo, ma gli manca l’ansia riformatrice e la passione del combattente che ca-ratterizzano la personalità dell’olandese.

L’umanista francese dedicò una costante attenzione a uno dei grandi padri greci, Giovanni Cri-sostomo, di cui tradusse egregiamente in latino parecchie opere. Di lui Erasmo elogia la “pari de-strezza” del padroneggiare le due lingue (Ep. 2046); gli rimprovera, però, un eccessivo desiderio di perfezione che nuoce alla rapidità e all’efficacia dei lavori (Ep. 2599). La corrispondenza tra Erasmo e De Brie, così come il primo ce l’ha trasmessa, comprende venti lettere scambiate tra il 1517 e il 1532, di cui otto sono del francese e dodici dell’olandese; però da una lettera di Erasmo, l’ Epistola 3101 del 20 febbraio 1536, apprendiamo che i due amici si scrivevano ancora.La sua produzione letteraria era iniziata molto presto, nel 1513, con la pubblicazione del poema epico la Chordigerae navis conflagratio («L’incendio del vascello La Cordelière»), in cui il combattimento navale fra inglesi e francesi nelle acque di Brest, il 10 agosto 1512, diventava occasione per fare del comandante della nave francese un eroico kamikaze, volontariamente sacrificatosi per dar fuo-co alla nave inglese e farla inabissare nel mare insieme a La Cordelière. La passione nazionalistica e l’anglofobia resero popolare quel poema, che piacque molto anche alla regina Anna di Bretagna, di cui il De Brie era segretario. In realtà in quello scritto ci sono tutte le premesse della successiva disputa fra More e De Brie, che scosse per un biennio, dal 1519 al 1520, il mondo delle lettere, su-scitando ripetuti interventi da parte di Erasmo e dello stesso Budé.

Erasmo dovette far ricorso a tutto il suo prestigio per porre fine alla polemica originata dalla

violenta aggressione di De Brie nei confronti di More con la pubblicazione del poema in versi An-timorus. Lo scontro More-De Brie costituiva oggettivamente un pericolo assai grave, perché il fa-natismo nazionalistico avrebbe potuto oscurare il giudizio degli spiriti che dovevano essere i più liberi e colti dell’Europa. Erasmo, europeo per vocazione e instancabile apostolo di pace in ogni campo, ravvisava nella “boria delle nazioni” la causa prima della menzogna e la rovina di ogni cosa buona e le parole che egli ripete, lettera dopo lettera, agli umanisti sono molto chiare: “Con tutti gli oscurantisti che abbiamo da combattere, noi uomini di cultura non dobbiamo metterci a li-tigare l’uno contro l’altro” (Epp. 1087, 1093, 1096, 1131, 1133, 1184). Erasmo agì con estrema

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prudenza e insieme con decisione nella disgraziata querelle che opponeva due suoi amici. Bisogna-va salvare la concordia tra gli uomini di cultura di tutti i Paesi europei, ma il libello del francese era pericoloso anche perché malignamente mirava a porre More sotto accusa agli occhi di Enrico VIII. More all’incoronazione del re aveva scritto un carme latino in cui censurava gli abusi di pote-re del defunto Enrico VII, augurando in tal modo al figlio di non seguire il cattivo esempio del pa-dre; il carme, inedito per alcuni anni, fu poi pubblicato e De Brie colse a volo l’occasione per far apparire More sleale verso il suo re. L’intenzione di More era stata nobile nello scrivere quei versi, ma in un regime assolutistico nessuno poteva permettersi il lusso di essere sospettato agli occhi di un re. Il severo giudizio di Erasmo sul comportamento di De Brie, a lungo represso, è pronunciato in modo incalzante nell’Epistola 1117, scritta quando gli animi cominciavano a placarsi. In essa Erasmo, nel difendere le ragioni della parte lesa, illustra alcuni tratti del vero Thomas More e del suo talento di scrittore. Germain de Brie si ravvede e, nei confronti dell’inglese, passa gradualmen-te dall’acrimonia alla stima e all’amicizia. La grandezza spirituale di More e l’accettazione da par-te sua - per amore di amicizia e per l’onore delle bonae litterae - delle pressanti raccomandazioni di Erasmo conseguirono nel tempo l’effetto desiderato.

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ERASMO DA ROTTERDAM AL SUO CARO GERMAIN DE BRIE

Anversa, 25 giugno 1520.

Mi recavo in vettura ad Anversa44 quando un inglese a cavallo, con cui ci siamo incrociati per ca-

so, mi ha consegnato una tua lettera che, a quanto mi dici, è la terza che mi spedisci. Tu mi rimpro-veri di averti lasciato senza risposta e più ancora di non essere venuto tra voi: stando alle tue parole, a meno che io non porti delle ragioni molto serie, rischio di dare l’impressione di avercela con tutti i miei amici di Parigi. Tu concludi dicendo che, per mia insistenza, consenti a riconciliarti con More, ritenendoti soddisfatto del giudizio da me precedentemente espresso, secondo il quale la tua erudi-zione è superiore alla sua. Questo è almeno come tu interpreti le parole - non so quali - della mia lettera a Bérault45.

A ciascuno di questi punti risponderò brevemente, dal momento che sono assillato dalla mancan-za di tempo. Vorrei proprio che tu, che sei un illustre studioso, ti rendessi conto del lavoro che mi è costato la confutazione delle calunnie di Lee, e Lee è solo uno dei tanti [avversari]; non parlo poi dei pacchi di lettere, alle quali riesco a malapena a dare solo un’occhiata nel tempo libero. Sapendo come sei umano, comprenderai quanto mi costi la fatica a cui mi sobbarco ininterrottamente per re-digere, correggere, rivedere i miei libri. Per tutte queste considerazioni tu perdonerai il mio silenzio. Aggiungi che sono stato colpito da una grave malattia, contratta in seguito a eccessivo calore, per cui mi sento ancora debole e tutt’altro che ristabilito, e che, dopo di allora non ho incontrato nessu-no che venisse da voi [a Parigi].

Ma supponi pure che io non ti abbia scritto a causa della mia pigrizia; era necessario per questo concludere che odio quelli a cui non rispondo? Posso dare una risposta all’amore di tutti, ma non a tutte le lettere. Non c’è nessun altro che io ami più sinceramente di Budé, eppure non ho ancora ri-sposto all’invito che mi fa in due lettere. In realtà, io desidero gioire della compagnia così piacevole di Budé, di te, di Bérault, di Deloynes, di Ruzé, di Ruell, di Lascaris, di Paolo Emilio, di Cipriano46, come voi desiderate vedere me in carne ed ossa, per usare la tua espressione. Ed ecco che prima si mette di mezzo il drammatico scontro con Lee47, a cui ho dovuto dedicare un mese e mezzo; poi il

44 Quando Erasmo scrive a Germain de Brie si trova ad Anversa convalescente di una recente malattia; quasi certa-mente è ospite del sempre accogliente e affettuoso Pietro Gilles. Alla malattia, per altro non ben definita, che lo colpì durante la primavera del 1520, Erasmo accenna brevemente nelle lettere scritte nel giugno di quell’anno. Egli ne attri-buisce la causa al “calore troppo forte” (Epp. 1115 e 1117). 45 Nicolas Bérault, francese di Orléans, visse tra il 1470 e il 1550 circa. Era un umanista che insegnava e faceva il li-braio. Pubblicò tra gli altri Lucrezio nel 1514, Plinio il Vecchio nel 1516, Valerio Massimo nel 1517. Tra gli autori cristiani curò le opere di Atanasio. Quando nel 1506 Erasmo si mise in viaggio per l’Italia, si fermò presso di lui a Or-léans (Epp. 494 e 535). Nel 1522 l’olandese gli dedicò la prima edizione autorizzata del De scribendis epistolis («Trattato di arte epistolare»). 46 Gli uomini ricordati da Erasmo fanno parte tutti del “circolo Budé”. François Deloynes (+1524) aveva studiato dirit-to con Guillaume Budé e si sentiva spiritualmente discepolo di John Colet. Louis Ruzé (+1526), parente e amico di Budé, ebbe particolarmente a cuore l’educazione dei giovani. Jean Ruell (1479-1537), umanista e docente alla Facoltà di Medicina a Parigi, fu medico personale di Francesco I; alla morte della moglie, si fece sacerdote. Giovanni Lascaris fuggì da Costantinopoli, quando la città stava per cadere nelle mani dei turchi nel 1453. Protetto dal cardinal Bessario-ne, fu uno dei più autorevoli introduttori del greco nella cultura dell’Occidente. Fu il bibliotecario di Lorenzo il Ma-gnifico, Luigi XII di Francia e Leone X. Dette lezioni di greco anche a Budé. Curò l’edizione di parecchi testi greci. Paolo Emilio (1460 circa-1529) era veronese. Recatosi a Parigi per studiare teologia, vi rimase. Fu canonico di Notre-Dame. Nel 1516 pubblicò una storia della Francia in quattro volumi, che divennero sei nel ‘19. Altri dieci uscirono postumi. Cipriano Taleo, veneziano trapiantato in Francia, aveva tenuto a Parigi nel 1518 apprezzate lezioni sulla Sto-ria naturale di Plinio (Ep. 768) ed era valente studioso di uno dei Padri greci, Giovanni Crisostomo. 47 Il teologo inglese Edward Lee (1482-1544) sviluppò a più riprese le sue critiche all’edizione erasmiana del Nuovo Testamento. L’opera sua più cospicua fu Annotazioni contro le “Annotazioni del Nuovo Testamento”, che l’umanista olandese poté avere tra le mani nell’ottobre del 1519 (Ep. 1037). Il collegamento tra Lee e i teologi conservatori di Lovanio, suoi implacabili avversari, irritò moltissimo Erasmo, che replicò duramente agli attacchi dell’inglese nel

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ritorno del nostro imperatore Carlo e certe questioni relative alla Spagna mi hanno costretto a cam-biar programma, ma non disposizione di spirito. Ho promesso di venire tra voi, ma sempre con la riserva che vi concorrano alcune circostanze favorevoli; va da sé che quelle circostanze devono ri-manere riservate. Mi avete accordato la vostra indulgenza e io vi ho fatto ricorso volentieri, ma ciò non diminuisce il mio debito di gratitudine nei vostri confronti.

Circa il tuo scontro con More, che a me ha arrecato grande dolore, avevo pensato di inviarti una lettera più dettagliata, come quella scritta, e non certo a cuor leggero, a More. Finora, però, non mi è stato possibile. Ne ho riferito brevemente a Bérault perché temo che il male - quale che ne sia l’origine - abbia a propagarsi e ad aggravarsi. Da parte sua More non desiderava che questo acca-desse, ma mi sembrava ben lontano dal tremare davanti al tuo Antimorus; anzi è intervenuto per far-lo stampare, se devo credere a ciò che mi si scrive da Londra. Seguiva in ciò il consiglio di un grup-po di amici illustri e bene informati; tra loro io so che ve n’era più d’uno che aveva simpatia per te, prima che apparisse il tuo libello, e che ora ti ha voltato le spalle, deluso di non riscontrare in te quella cortesia che si richiede a un umanista. Se tento di mettervi d’accordo, non è perché credo compromessa la reputazione di More da una simile montatura: [passato il momento della polemica,] quasi nessuno legge più quel libello e comunque io non ho sentito una sola persona parlarne bene. Né sottovaluto la capacità che More ha di passare all’attacco nel caso in cui la discussione degeneri. Per l’onore delle belle lettere e perché esse possano farci godere dei loro frutti, io ho cercato di far valere una sola considerazione: è indispensabile una cordiale intesa tra i campioni delle umanità. In compagnia delle Muse ci devono stare le Grazie, soprattutto in questo momento in cui c’è un’intesa tra i nostri avversari, quali che siano le loro diverse provenienze, per sferrare alla nostra corporazio-ne un assalto pieno di odio. Ho voluto difendere il diritto di More alla serenità più che la sua fama: egli è troppo grande, per unanime consenso dei letterati, perché aggressioni tanto meschine possano attentare alla sua gloria. Al contrario, a me stava a cuore prima di tutto la difesa della tua reputazio-ne, desiderando vederla sempre più bella e meglio riconosciuta. Penso, infatti, che l’odiosa querelle riguardasse anche il buon nome della Francia perché, a giudizio di tutti, mai fino ad oggi il vostro Paese ha prodotto un libello così carico di acredine e di fiele come quello che tu hai scritto contro More.

Tu dici che More ti ha provocato? Ma tu l’avevi provocato per primo. Del resto il suo attacco - lo riconoscono apertamente anche i tuoi connazionali - era ben diverso e molto più cortese della tua ri-sposta. I suoi epigrammi sono stati composti in piena guerra [tra l’Inghilterra e la Francia], mentre i tuoi versi risalgono a parecchi anni dopo la conclusione della pace. Non è stato lui a pubblicare i suoi versi latini; se li è lasciati estorcere dagli amici, a condizione che avessero provveduto a rive-derli prima della stampa. Non deve meravigliare che un poeta mescoli una briciola di finzione alla verità per mettere in risalto il soggetto del suo canto e non è disonorevole guardare ad esso con la vista un po’ offuscata dall’amore per il proprio Paese. Non questo More ti rimprovera, ma solamen-te le tue insinuazioni, con le quali hai fatto di tutto per perderlo presso il suo re, accusandolo con crudeltà di aver infangato la memoria di suo padre. Quanto ai rilievi mossi ai tuoi versi, essi non e-rano tali da provocare un dramma, né io intendevo entrare nel merito delle critiche che tu, a tua vol-ta, gli muovi. Io non ho proprio voglia di battermi con il mio amico De Brie e More non ha certo bi-sogno del mio aiuto (sono io piuttosto che ho bisogno del suo). Non amo neppure, a dire la verità, erigermi a giudice tra due amici, per non essere costretto a sacrificarne uno.

Sono molto sorpreso, mio caro De Brie, che ti sia messo in testa d’interpretare alcune frasi, non so quali, della mia lettera a Bérault come un verdetto anticipato, che attribuirebbe a te la palma dell’erudizione. Io desideravo solo conservare la mia amicizia a entrambi, non essendo mia inten-zione esprimere le mie preferenze per l’uno col rischio di alienarmi l’altro, soprattutto quando la vo- marzo 1520 con l’Apologia in risposta a Lee. In difesa dell’opera di Erasmo l’anno precedente era sceso in campo More, amico d’infanzia del teologo inglese, con la sua Lettera a Edward Lee. Grazie all’intervento di John Fisher e di More l’aspra polemica cessò di colpo nella primavera del 1520. In luglio i due antagonisti s’incontrarono da amici a Calais.

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stra polemica era al culmine. Non ricordo bene ciò che ho scritto a Bérault, ma oserei giurare che nulla esprime meno il mio sentire quanto la tua interpretazione. Ciò che mi stava a cuore precisare era che, dal momento che la lotta si svolgeva in ambito letterario, non era il caso che tu ti lasciassi prendere la mano da altre considerazioni, perché il confronto doveva rimanere possibilmente nel campo dell’erudizione. Io ho mostrato quale avrebbe dovuto essere il modo di confrontarsi e non ho espresso alcun giudizio di merito. Anche a supporre che io abbia potuto affermare che come scritto-re tu sei più grande di More, la tua modestia e la tua acutezza avrebbero dovuto farti rifiutare quel complimento. In realtà io non mi sono pronunciato su chi dei due fosse il primo, e niente mi obbliga a farlo ora. Non spetta a me mettermi a fare il censore dei meriti tuoi e di More; il verdetto degli al-tri, però, lo conosco bene.

Non ho letto molte cose di te e non ho personalmente messo alla prova la tua erudizione. Ho più familiarità con gli scritti di More e sono vissuto in intimità con lui. La mia opinione su More è l’opinione di tutti quelli che lo hanno conosciuto bene: un’intelligenza semplicemente geniale, una memoria che non si può desiderare più felice, una straordinaria facilità di espressione. Egli si è im-bevuto del miglior latino sin dall’infanzia e del greco durante la giovinezza alla scuola di maestri eminenti, tra i quali mi piace ricordare Thomas Linacre e William Grocyn. Nello studio della sacre lettere si è spinto tanto avanti da non demeritare la stima dei grandi teologi. Ha coltivato con discre-to successo gli studi liberali e in filosofia non si è accontentato di una comune iniziazione. Non par-liamo poi della sua specialità, che è il diritto, soprattutto il diritto britannico, in cui a stento c’è chi gli sia eguale. Tutto ciò si unisce in lui a una prudenza rara e davvero straordinaria. Avendo More tutte queste doti, Enrico VIII, uomo tra i più avveduti, non si è dato pace finché non lo ha costretto a entrare nel suo Consiglio più ristretto.

Vedi, mio caro De Brie, com’eri del tutto fuori strada quando continuavi a ripetere quel tuo pe-noso bisticcio di parole Morus/Môros [“pazzo”], dal momento che non vi è nemico dichiarato di More che non renda largamente onore alla sua saggezza. L’atteggiamento che tu assumi nei suoi confronti e il tono di condiscendenza col quale ti rivolgi a lui non sono fatti certo per piacere alle persone colte e pacate. Proprio perché ti annovero tra le persone di valore, non vedo per qual motivo tu non possa apprezzare More, la sua condizione, i suoi doni naturali, la sua intelligenza, la sua con-dotta di vita, le sue conoscenze nei campi più diversi. Più ammiro le qualità di More, e non sono il solo a farlo, più desidero che v’intendiate tra voi: nel tuo interesse più che nel suo, e anche nel mio, perché nulla venga ad offuscare la nostra amicizia. Ciò che è accaduto nulla può far sì che non sia accaduto, ma io mi auguro che ogni agitazione abbia fine. Se tu, però, credi difficile che il tuo Anti-morus cessi di essere apprezzato, o io m’inganno, e di molto, o non lo si ripubblicherà più, se tu non fai nulla perché ciò avvenga. Una riedizione dispiacerebbe a molti, anche per il fatto che tu hai at-taccato di nuovo More in una prefazione48, mentre egli non ha ancora risposto al tuo libello.

Qui mi fermo, mio eccellente De Brie. Se ti sono graditi i miei buoni uffici presso More, perché riusciate a dimenticare entrambi questa faccenda, io li proseguirò, andando avanti nella stessa dire-zione. Se tu pensi, però, che More debba presentarti le sue umile scuse, ti sbagli. Da quel che ne so, ora il suo umore è tale che sarei felice se da lui ottenessi di non malmenarti troppo rudemente. Se egli consente a risparmiarti, sarà tanto di guadagnato per la rinomanza pubblica degli studi umani-stici che insieme coltiviamo e anche per l’onore del tuo nome.

Non posso che rallegrarmi per le tue disposizioni che ti portano a interessarti con fervore di que-stioni teologiche e ad avere costantemente tra le mani le mie parafrasi. Ho appena pubblicato - ed è l’ultimo parto - la parafrasi alle due lettere di Pietro e a quella di Giuda. Attendevo a quel lavoro quando la malattia mi ha sorpreso, ma ora a poco a poco sto riprendendomi. Sta bene, dottissimo De Brie. Saluta di persona per me tutti i nostri amici.

48 Si tratta probabilmente di uno scritto per la nuova edizione nel 1519 del poema della Chordigera, di cui non si trova più alcun esemplare.

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LETTERA 1233

Guillaume Budé è coetaneo di Erasmo, essendo vissuto tra il 1468 e il 1540. È il maggiore tra gli umanisti francesi. Nato in una famiglia della borghesia parigina, studiò teologia a Parigi e di-ritto a Orléans. A partire dal 1491 si dedicò con grande impegno allo studio della lingua greca e latina, conquistando ben presto nell’una e nell’altra un primato che solo Erasmo, dopo parecchi anni, gli avrebbe potuto insidiare. Non è un caso che già nel 1497, quando Erasmo doveva stringe-re la cinghia e fare lezioni private per mantenersi agli studi a Parigi, Lefèvre d’Étaples poteva de-dicare a Budé una traduzione di Aristotele con queste parole: “Tu conosci il greco come se fossi nato sul suolo dell’Attica, e il latino come se, nato nel Lazio, vi fossi stato educato dai maestri più dotti”. Nel 1508 apparve la sua prima grande opera, Annotazioni sui libri delle Pandette, che resti-tuiva al testo la purezza originaria portando nella storia del diritto il rigore del metodo filologico. Nell’Asse, pubblicato nel 1514-15, studiò il valore delle monete nel mondo classico, tentando di ri-costruire le condizioni di vita nella società di quel tempo. Per Budé la filologia non è mera erudi-zione, ma strumento di accertamento, di critica storica e via al recupero della saggezza antica. Nel-lo scritto su Il giusto metodo per insegnare le lettere, del 1527, e nel dialogo Filologia, che è del ’30, Budé esalta le potenzialità formative della nuova cultura, che egli definisce orbicularis, “circo-lare”, perché dà un tono e un metodo, una forza unificante a tutte le discipline. Erasmo, natural-mente, condivideva in tutto questi ideali, che aveva diffuso largamente in molti suoi scritti sul rin-novamento della cultura e dell’educazione. Nel 1535, un anno prima della morte di Erasmo, Budé pubblicò lo scritto Sul passaggio dall’ellenismo al cristianesimo, difendendo dalle accuse di eresia i suoi studi e con essi il programma dell’umanesimo cristiano.

Erasmo e Budé entrano in rapporto tra loro solo nel 1515 ed è l’olandese a fare il primo passo.

Indubbiamente tra i due umanisti c’è accordo sulle questioni di fondo, come la preminenza dell’umanesimo cristiano, l’urgente necessità della riforma della Chiesa, la lotta contro i teologi oscurantisti. Erasmo, però, mentre apprezzava altamente i contributi scientifici di Budé e la sua padronanza della lingua greca, non aveva né competenza né interesse per gli studi giuridici e mo-netari dell’umanista francese, anche se non avrebbe mai osato confessarlo. Egli si rivolge a Budé perché vuol preparare il terreno alla corretta ricezione in Francia dell’opera che gli stava più a cuore, il Nuovo Testamento, pubblicato nel testo greco e latino; e l’umanista più autorevole di quella nazione, benché difensore della Vulgata di Gerolamo, era il solo che potesse far comprende-re agli altri le intenzioni di Erasmo e la validità del metodo da lui seguito. La prima edizione del Nuovo Testamento conteneva, infatti, un caloroso elogio delle qualità intellettuali del francese, che gliene è molto grato: “Non posso esprimere - scrive Budé - quanto la tua recente lettera mi abbia reso tuo amico” (Ep. 403 del 1° maggio 1516). Poche settimane dopo, Erasmo comunica a Budé l’intento di pubblicare una riedizione del Nuovo Testamento e ne sollecita le osservazioni (Ep. 421).

A Budé Erasmo indirizza, nel settembre del 1521, l’Epistola 1233, una delle più accurate ed ele-ganti. Il tema centrale è uno solo: la novità assoluta ed esemplare dell’incantevole “utopia dome-stica” realizzata da More. Le idee di More sull’educazione delle donne sono fortemente in anticipo sui tempi ed Erasmo, che aveva reputazione di misogino, si converte ad esse con gioiosa adesione. In quel campo - scrive Erasmo - la netta superiorità dell’inglese rispetto a se stesso e a Budé va ri-conosciuta senza indugio alcuno. Il ritratto di More che Erasmo traccia per Budé rivela la simpatia

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di quell’uomo così pienamente virile nei confronti della donne: una simpatia che non è solo com-prensione e apertura al loro mondo, ma anche umiltà. Egli è, infatti, uno di quei rari uomini che nell’età moderna abbia avvertito una perdita di umanità, e quindi un danno per tutti, là dove le donne - spose, madri, figlie - non abbiano interamente il posto unico e insostituibile che loro spetta nella famiglia, nella cultura, nella società. Da tale convincimento nasce la necessità di quell’educazione che More sarà tra i primi a voler impartire alle donne: un’educazione uguale a quella degli uomini, ma non ricalcata su di essa e rispettosa della vera femminilità. L’argomento, che era ben presente nella lettera a Ulrich von Hutten, trova qui uno sviluppo tematico; ciò fa dell’Epistola 1233 un documento di straordinaria importanza per cogliere un aspetto essenziale della personalità di More e del suo modo geniale di preparare un cammino di liberazione per l’altra metà del genere umano. Erasmo, del resto, parla qui per diretta conoscenza, perché quando era stato per mesi ospite nella casa di More, a Bucklersbury, era rimasto ammirato dell’atmosfera di gioia, della vivacità culturale, del gusto artistico e del fervore religioso di quella lieta brigata. Di tale esperienza egli serbava il più caro ricordo, avendo passato nella famiglia More le ore più belle della sua vita.

Quando si venne a sapere, in una conversazione occasionale, che Francesco I intendeva assicu-

rare alla Francia “un vivaio di saggi”, nel circolo di Budé si cominciò a delineare, pur tra molte incertezze, l’ardito progetto di un istituto di cultura superiore aperto al nuovo, in opposizione alla Sorbona, “una vecchia - diceva Vives - in pieno delirio di senilità” (Adversus pseudodialecticos, 1520). Di quell’istituto, che poi sarebbe diventato celebre col nome di Collège de France, Budé scrisse ripetutamente a Erasmo, soprattutto nelle lettere inviategli nel 1517, proponendogli di tra-sferirsi a Parigi e di presiedere così alla sua nascita. Budé, però, puntualizzò con chiarezza che e-gli era solo un discreto intermediario, non un garante, e che pertanto non dipendeva da lui dargli alcuna assicurazione. Occorreva, perciò, la massima prudenza: “Se tu accetti, fatti precisare prima dal principe le condizioni” (Ep. 522). Da parte sua Erasmo, pur ringraziando per l’offerta, prende tempo, chiede di consultarsi con gli amici e anche con Enrico I non si sbilancia. Dice solo: “Vorrei essere degno dell’invito fattomi” (Ep. 533). In effetti, Erasmo non vuol offendere gli amici francesi con un netto rifiuto, ma è anche vero che nessuno di essi era in grado di sostenere fino in fondo presso il re la sua candidatura a maître del nuovo istituto. Frattanto, nel marzo 1519 declina la proposta, ben altrimenti seria, che gli veniva fatta da Vienna, di essere il precettore dell’arciduca Ferdinando. L’olandese intende consacrare tutte le sue forze esclusivamente al lavoro intrapreso, libero da qualsiasi altro vincolo: è, infatti, per lui del tutto inconcepibile vivere a stretto contatto, o peggio alle dipendenze, di una qualsiasi corte, regale o pontificia che fosse. Dal canto suo Budé, malgrado le difficoltà che si opponevano alla realizzazione del progetto, non intende rinunciarvi e nella prefazione alla grande opera dei Commentari della lingua greca, che è del 1529, così torna a ricordarlo al sovrano: “Noi ti abbiamo presentato la filologia come una fanciulla povera, da mari-tare, a cui ti abbiamo pregato di far la dote. Tu ci avevi promesso, con quella bontà naturale e spontanea che ti è propria, che avresti fondato una scuola, un seminario di dotti, di eruditi famosi. Ci avevi detto che avresti ornato la tua capitale con questo istituto [...]. Ci avevi promesso che sa-rebbe sorto un magnifico edificio, in cui sarebbero state insegnate le due lingue [latina e greca]. In questo tempio dei buoni studi tu dovevi offrire, a quanti vi si dedicassero, un mantenimento conve-niente e gli agi necessari: il numero dei membri di tale comunità consacrata a Minerva e alle Muse, non l’avevi limitato; avevi deciso che sarebbe stato cospicuo. Ecco quello che ci avevi promesso!” Nel 1530 Francesco I finalmente istituiva i “lettori reali”, che furono in origine tre per il greco, due per l’ebraico, uno per la metematica. L’anno seguente nasceva il Collège royal de France che, dal tempo della Rivoluzione in poi, sarà chiamato Collège de France.

. I due umanisti avevano concluso tra loro un patto d’amicizia, che li autorizzava a criticarsi re-

ciprocamente in piena libertà (Ep. 493 del 26 novembre 1516). In Budé, tuttavia, la franchezza fa-

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miliare spesso cedeva il posto a qualcosa d’altro: egli arrivava allora a mettere in dubbio il valore di alcuni scritti a cui Erasmo teneva di più e a rivendicare non solo i propri meriti, com’era legit-timo, ma una sorta di primato nei confronti dell’amico (Ep. 531). Erasmo reagiva con l’arma dell’ironia e Budé, offeso, minacciava allora di rompere. L’olandese, però, vedeva giusto quando confidava a Vives: “Budé non giungerà mai a inimicarsi Erasmo, anche se ha lanciato contro di me crudeli invettive: ci vuole ben altro che una scaramuccia letteraria per separare dei cuori uniti dai legami delle Grazie” (Ep. 1066). La lettera a Vives porta la data del 17 febbraio 1520, quando i rapporti tra i due sembravano, almeno per il francese, irrimediabilmente compromessi; ma l’anno seguente è proprio all’illustre e permaloso Budé che Erasmo invia uno degli scritti più belli che siano usciti dalla sua penna, l’Epistola 1233, a celebrazione di More, il più caro e affascinante de-gli amici.

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ERASMO AL SUO GUILLAUME BUDÉ

Anderlecht, [forse nel settembre] 1521.

Recentemente, trovandomi a Bruges tra i molti che erano al seguito dell’imperatore, ho preso più lepri in una stessa tana, come dice il proverbio49, cioè ho salutato in una sola volta un gran numero di amici. Tra questi cito in primo luogo un amico tanto autorevole quanto affettuoso e ben degno e-gli stesso di affetto, il reverendissimo cardinale di York50, che il nostro Carlo51 ha ricevuto con ono-ri regali in quanto incaricato di un’ambasciata a nome del suo sovrano52. Erano presenti, insieme a moltissimi altri, che non nomino perché a te sono ancora sconosciuti, Cuthbert Tunstall53, Thomas More e William Mountjoy54. In cuor suo Thomas More aveva fortemente sperato di incontrarti tra i

49 Erasmo commenta quel proverbio nell’Adagio 2563. 50 Thomas Wolsey, arcivescovo di York, poi cardinale. Fu Lord Cancelliere dal 1515 al 1529. Con Enrico VIII diresse la politica estera dell’Inghilterra mirando a opporre fra loro Francesco I e Carlo V, ma senza raggiungere mai una lea-le intesa con nessuno dei due. Era fuori del suo orizzonte una politica di larghe vedute - come quella che suggerivano Erasmo e More - che si impegnasse a costruire una pace onorevole tra gli Stati europei e a unirli nel fronteggiare la minaccia turca, di cui non si comprese affatto l’estrema gravità. La pretesa di mantenere a ogni costo un sistema di for-tezze militari su una parte cospicua del territorio francese dissanguò le finanze inglesi, costringendo Enrico VIII a un interventismo esasperato nei conflitti del tempo. More fu indicato da Wolsey al re come speaker della Camera dei Comuni, ma in quell’ufficio dovette resistere con tatto e fermezza ai metodi assolutistici del cardinale. Fu lo stesso Wolsey a designare More come suo successore al Cancellierato; Erasmo, però, vide gusto quando, qualche anno dopo, scrisse che Wolsey apprezzava molto i servizi di More, ma non gli era troppo amico, perché più che amarlo lo temeva (Ep. 2750).

Il cardinale Cancelliere cadde in disgrazia per non essere riuscito a risolvere secondo i voleri del re la questione del divorzio da Caterina d’Aragona. More, nel discorso tenuto all’apertura del Parlamento il 3 novembre 1529, pochi giorni dopo la sua investitura a Lord Cancelliere, criticò gli errori e gli arbitrii di cui negli ultimi tempi si era macchia-to il suo predecessore; ma quel discorso suonava anche ammonimento per il re e implicito invito a cambiar strada, a-vendo egli avuto proprio in Wolsey il partner effettivo nella gestione del potere. Di Wolsey ripugnavano a More il ne-potismo, gli abusi di potere, l’accentramento nelle sue mani di cariche e prebende, la sua “vanagloria fuor di misura”; ma di lui apprezzò, nei primi anni di Cancellierato, la volontà di assicurare una giustizia imparziale e il favore accor-dato agli studiosi.

All’inizio i rapporti tra Wolsey e More erano buoni; col passare degli anni, però, malgrado l’abituale riserbo e la signorile deferenza per chi ricopriva la carica di Lord Cancelliere, More dovette esprimere più volte il suo dissenso dai metodi e dalle scelte di Wolsey. Egli ne fa esplicite, divertite allusioni nel Dialogo del conforto, parlando di un “alto prelato che non amava sentirsi dire la verità”. Faceva allora il giro di Londra una storia, che uno dei biografi di More, Stapleton, riporta e che ha tutta l’aria di essere autentica: Wolsey accusa More di essere privo di senno, a causa delle obiezioni mosse a una sua proposta, e More gli replica con estrema gentilezza che è una vera fortuna se in tutto il Con-siglio della Corona ci sia una sola persona priva di senno. Ma su Wolsey circolava anche questa voce: che fosse stato lui a insinuare nella mente di Enrico VIII i primi dubbi sulla legittimità del matrimonio con Caterina, allo scopo di staccare l’Inghilterra dalla Spagna e dunque per opporla all’imperatore Carlo V, zio di Caterina. È significativo che pochi decenni dopo il primo storico di Wolsey, George Cavendish, riporti l’ammonimento, pronunciato dal cardinale in punto di morte, che qualunque cosa i consiglieri avessero messo in testa a Enrico VIII, non sarebbero più stati in grado di levargliela. Wolsey morì il 29 novembre 1530 mentre veniva tradotto alla Torre per ordine del re. 51 Carlo V. 52 Enrico VIII. 53 Cuthbert Tunstall fu sacerdote, matematico, umanista e diplomatico. Segretario di William Warham, arcivescovo di Canterbury e Cancelliere del regno dal 1504 al 1515, Tunstall divenne poi collaboratore del nuovo Cancelliere, il car-dinale Thomas Wolsey. Fu inviato in molteplici e importanti missioni diplomatiche, in alcune delle quali ebbe al suo fianco l’amico fraterno Thomas More. Fu molto amico anche di John Fisher, di Erasmo, Budé e Vives. Vescovo di Londra dal 1522 al 1530 e poi di Durham, non volle far uso del rogo per gli eretici. Fu per le sue insistenze che More scese in campo contro Tyndale, il più autorevole rappresentante del luteranesimo in Inghilterra. Sulla questione del divorzio del re da Caterina d’Aragona e del suo matrimonio con Anne Boleyn, benché riluttante Tunstall finì per pie-garsi al volere del re. Tuttavia rifiutò a Elisabetta quell’acquiescenza che non aveva rifiutato al padre e morì mentre era agli arresti, nel Palazzo Lambeth a Londra. 54 William Mountjoy era stato allievo di Erasmo a Parigi e nell’estate 1499 invitò il suo maestro a visitare l’Inghilterra. A lui Erasmo dedicò la prima edizione degli Adagi (Ep. 126). Sempre su invito di Lord Mountjoy, verso la fine del 1505 Erasmo tornò per la seconda volta in Inghilterra (Ep. 185). Nel 1509 l’ex allievo e il Cancelliere d’Inghilterra,

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membri della delegazione francese a Calais55. L’arrivo del cardinale mi fece particolarmente piacere perché mi aspettavo che, con la sua accortezza e autorità, riuscisse a comporre quelle contese che, con grande pericolo dell’umanità, oppongono fra loro i principi più potenti della terra. Purtroppo, se guardiamo a come vanno le cose oggi, non ho ragione alcuna per sperare, a meno che un Deus ex machina non volga verso il meglio i nostri disegni56. Ma le agitazioni dei re non devono avere il po-tere di annullare i patti delle Muse.

Ci sono persone che intrigano perché l’imperatore e il re di Francia non si accordino nel modo migliore: costoro, con un’astuzia degna di chi abbia animo di tiranno, coltivano il vivaio delle di-scordie allo scopo di consolidare il loro dispotismo, mentre noi esauriamo le nostre forze a litigare. Tu indovini, ne sono certo, a chi mi riferisco. Che i due principi se ne accorgano prima che sia tardi, in modo da non dover poi dire, con una saggezza inutile e pagata a caro prezzo, perché tardiva: ”Non ci avevo pensato!”57.

Tu fai bene a felicitarti con More. In effetti, senza che egli lo avesse domandato o sollecitato, il re gli ha conferito un prestigioso incarico, aggiungendovi un trattamento che non è per nulla da di-sprezzare: è diventato il tesoriere del suo principe. Per gl’inglesi questa funzione è tra quelle che sono più ambite e che danno più lustro, ma è anche esposta all’invidia e a spiacevoli manovre. C’era un concorrente, un uomo che godeva di largo credito, che ambiva talmente a ricoprire quella carica che ne avrebbe pagato di tasca sua le spese per gestirla58. L’eccellente re, tuttavia, dette una prova irrefutabile della predilezione per More, preferendo aumentare lo stipendio a chi non aveva brigato per ricoprire quel posto piuttosto che assegnarlo a chi lo avrebbe tenuto gratuitamente. Non contento di ciò, nella sua grande benevolenza il principe vi aggiunse la dignità di cavaliere; e non si può du-bitare che, presentandosene l’occasione, egli non finisca per mettere nelle mani di More altri onori supplementari, anche se è molto più agevole per i principi conferirli a persone celibi59. More, inve-ce, appartiene pienamente all’ordine dei coniugati, da cui non riuscì a distaccarlo neppure la morte della moglie: perduta la giovane donna che aveva sposato, essendo divenuto vedovo, ha preso in moglie a sua volta una vedova.

Io, però, aggiungerei ancora un motivo per rallegrarmi con More del favore che gode presso il re, perché ciò che accresce la sua autorità e liberalità si traduce in beneficio per gli studi umanistici; Warham, sollecitano vivamente Erasmo, che si trovava in Italia, a tornare al più presto nell’isola perché con l’avvento del nuovo re la rinascita degli studi troverà ogni appoggio (Ep. 215). In effetti lo stesso Enrico VIII scrisse di suo pu-gno due lettere all’umanista olandese per invitarlo a trasferirsi nell’isola. 55 Nel giugno 1520, subito dopo il loro incontro nei pressi di Calais, al Campo del Drappo d’Oro, More scrive a Budé: “Poiché i nostri uffici ci impedirono di incontrarci tanto spesso da soddisfare il mio desiderio di conversare con te, la nostra compagnia appena formata si dovette sciogliere e noi fummo trascinati in direzioni opposte, forse per mai più rivederci” (Ep. 97 Rogers). More faceva parte della delegazione ufficiale inglese, mentre Budé era uno dei numerosis-simi notabili che il re di Francia si era portato dietro. In precedenza, More aveva ringraziato Budé, inviandogli una coppia di cani inglesi, per il giudizio da lui espresso su Utopia e ne aveva esaltato “le preziose fatiche di studioso”. Il suo esempio incoraggiava More, poiché anche Budé era “un laico felicemente sposato”, che aveva raggiunto “un grado di cultura che un tempo era gloria esclusiva del clero” (Ep. 65 Rogers, agosto 1518). 56 L’amara constatazione di Erasmo era pienamente giustificata. Il 17 giugno 1520 Enrico VIII e Francesco I s’incontrarono al Campo del Drappo d’Oro, uno sterminato accampamento appositamente costruito sulle sabbie del litorale di Calais, dove furono installate ben 2800 tende sfavillanti di ori e di tappeti preziosi. L’esibizione di una ma-gnificenza folle - da parte delle corti, ma anche dei nobili e dei cavalieri che vi partecipavano a loro spese - doveva servire a rendere pubblico il nuovo corso politico fondato sull’amicizia tra i re d’Inghilterra e di Francia. Gli unici ri-sultati, però, furono la rovina economica dei nobili e dei cavalieri che presero parte a quell’incontro; dopo pochi gior-ni, infatti, divenne palese a tutti il doppio gioco di Enrico VIII, che si era accordato segretamente con Carlo V. Di fronte a una tale commistione di frode e farsa carnevalesca, Erasmo e More avevano mille ragioni per essere rattristati. Alcuni decenni dopo su quel vergognoso episodio tornerà, con tutto il suo sarcasmo, Shakespeare nel dramma Enrico VIII. 57 Cicerone, De officiis I, 23, 81. 58 Non si conosce il nome del concorrente di More. 59 Celibi per scelta di stato sono gli appartenenti al clero e agli ordini religiosi. Non avendo una propria famiglia, né diretti discendenti, i celibi alla loro morte non fanno sorgere problemi di eredità nella successione a cariche e proprietà assegnate loro dal re.

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More, in effetti promuove quegli studi con un impegno tale che, se i mezzi finanziari fossero all’altezza dei desideri, non mancherebbe ai giovani inglesi che abbiano ingegno un mecenate im-parziale e generoso. Può accadere che alle corti dei principi si proceda allo stesso modo dei medici: costoro cominciano prima di tutto a liberare il corpo affidato alle loro cure e subito dopo lo nutrono, cercando poi di rinvigorirlo. A More fino a questo momento è capitato di fare qualcosa di simile e, per l’esperienza che tu hai, conosci meglio di chiunque altro quanto ciò sia difficile. Tuttavia quelli che hanno testa si sono resi conto della bontà di More: lo hanno compreso soprattutto quando, es-sendo gravato da debiti, era ben lontano dall’avere in abbondanza e tuttavia continuava a largheg-giare.

More, dottissimo egli stesso, è l’ornamento del mondo degli studi e non solo perché accorda im-parzialmente il suo appoggio a tutti gli studiosi: lo è anche perché provvede accuratamente a istruire a fondo tutti i membri della sua famiglia negli studi letterari più elevati. Egli ci dà così l’esempio di qualcosa di assolutamente nuovo che, se non m’inganno, tra breve tempo sarà imitato da molti, tan-to più che l’esperimento è felicemente riuscito60. Delle tre figlie di More Margaret, la primogenita, è già maritata a un giovane61 che prima di tutto è un uomo felice, poi di grande integrità morale e mi-sura nel modo di agire; e non è estraneo neppure ai nostri lavori intellettuali. Di tutt’e tre le figlie More si è preso cura fin dalla loro più tenera età, provvedendo a formarle innanzi tutto a una vita pura e santa, poi a una cultura letteraria di squisita finezza62. Alle tre figlie egli aggiunse una quarta, che alleva per generosità, perché si faccia compagna alle altre63. Della sua famiglia fa parte anche

60 Ipse doctissimus, [Morus] candide favet doctis omnibus, verumetiam quod universam familiam honestissimis litera-rum studiis excolendam curat, novo quidem hactenus exemplo, sed quod brevi plures, nisi fallor, sint imitaturi: adeo feliciter succedit. 61 William Roper. 62 Le figlie di More - Margaret, che tutti chiamavano Meg, Elisabeth, Cecily - e il figlio John, unitamente ad Luisa Middleton e a Margaret Giggs, ebbero una formazione culturale che spaziava dal latino al greco, dalla filosofia alla teologia, dall’astronomia alla matematica, alla logica. L’educazione intellettuale e quella etico-religiosa cominciavano sin dalla più tenera età, pur escludendo indebite anticipazioni e forzature. Costretto spesso ad assentarsi dalla famiglia, More volle che ciascuno dei figli parlasse, per così dire, con lui scrivendogli una lettera al giorno: prima in inglese, perché non andasse perduta la spontaneità, e poi tradotta in latino. Nell’insegnamento delle lingue More anticipò il metodo della doppia versione, facendo tradurre a una figlia il testo latino in inglese e a un’altra il testo inglese in lati-no. Una compiuta educazione umanistica e scientifica delle donne costituiva una novità assoluta, che preparava un fu-turo più degno, ma allora suscitava le critiche più veementi. More ne parla nella lettera indirizzata a William Gunnell, il maestro di scuola che Erasmo gli aveva raccomandato. In essa More scrive: “A entrambi, all’uomo e alla donna, conviene il nome di esseri umani. La ragione li fa distinti dalle bestie e tutt’e due, lo ripeto, sono ugualmente atti alla conoscenza e al sapere di cui si nutre la ragione” (Ep. 63 Rogers). Egli si dice perfettamente convinto di due cose: che “in una donna il sapere è cosa nuova che suona rimprovero all’ignavia degli uomini” e che, “se una donna potesse ag-giungere a grandi virtù dell’animo anche una modesta esperienza di studio, guadagnerebbe un bene vero molto più che se riuscisse a procurarsi le ricchezze di Creso e la bellezza di Elena” (ibid.). Nella sua incantevole “utopia domestica” More si avvale, oltre a Gunnell, di altri valenti precettori: il master Drew; il famoso astronomo tedesco Nicholas Kretzer; lo studioso di medicina Richard Hyrde. Quest’ultimo, quando Marga-ret More tradusse in inglese il Commento al Padre Nostro di Erasmo, ne scrisse l’introduzione, in cui difese calorosa-mente il diritto delle donne ad accedere agli studi superiori. Tra le figlie di More colei che aveva una schietta vocazio-ne per gli studi fu la primogenita Margaret. Il biografo di More Stapleton ricorda con ammirazione alcune sue compo-sizioni latine, ora perdute, e che insigni umanisti elogiavano la sua capacità di ricostruire un testo latino corrotto. A lei Erasmo dedicò nel 1523 il proprio Commento agli “Inni di Natale” di Prudenzio. 63 Si tratta della figlia adottiva Margaret Giggs, sorella di latte di Margaret, la primogenita delle figlie di More, e poi sua compagna di studi. Margaret Giggs riuscì molto bene nello studio del greco, della matematica e della medicina. Ancora giovanissima diagnosticò una malattia di Thomas More che i medici non riuscivano a individuare, avendone letto la descrizione dei sintomi in Galeno. A lei era affidata la mansione di dispensare gli aiuti della famiglia More ai poveri. John Clement, già segretario di More nella missione in Fiandra al tempo della ideazione di Utopia, sposò Mar-garet Giggs, quando entrambi erano studenti di medicina e così anch’egli entrò a far parte della famiglia More. Nel 1528 divenne medico di corte. Donna d’intrepido coraggio, Margaret Clement, travestita da lattaia, riuscì per parecchi giorni a entrare nel carcere di Newgate, comprando la complicità del carceriere; lì, infatti, erano rinchiusi, per non aver giurato l’Atto di Supremazia, dieci monaci della Certosa di Londra, quella in cui Thomas More era stato ospite in gio-ventù. Essi erano condannati a morire di fame. Margaret li imboccava ad uno ad uno, perché erano incatenati, e li de-

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una figlia della seconda moglie, una ragazza di stupenda bellezza e di rara intelligenza64, maritata da qualche anno a un giovane non privo di cultura, la cui condotta di vita vale più dell’oro. Il più gio-vane dei figli di More, nato dal primo matrimonio, è un maschio sui tredici anni.

Meno di un anno fa More mi mostrò qualche saggio dei loro progressi letterari. A tutti prescrisse di scrivermi, ciascuno secondo i propri mezzi; l’argomento non fu imposto e i loro elaborati non fu-rono rivisti neppure a voce. Quando sottoposero per la correzione i loro fogli al padre, questi si mo-strò dispiaciuto per la cattiva scrittura e ordinò di ricopiarli diligentemente, in modo più leggibile. Quando ciò fu fatto, egli, senza cambiare neppure una sillaba, sigillò le lettere e me le inviò. Credi-mi, Budé, non v’è nulla che mi abbia sorpreso tanto65. Riguardo ai contenuti, nulla c’era di infantile o detto a sproposito; lo stile, poi, era tale da evidenziare i passi avanti compiuti giorno dopo giorno. Questa è l’amabile schiera che More riunisce sotto uno stesso tetto, insieme ai mariti delle figlie66. Nella sua casa tu non vedrai nessuna donna starsene oziosa, nessuna che si perda in futilità da don-nicciola. Esse possono anche avere tra le mani un libro di Tito Livio, perché hanno compiuto pro-gressi tali da saper leggere e comprendere senza traduzione autori di quel livello, a meno che ci si imbatta in espressioni che darebbero da pensare anche a me o ad altri.

La moglie, che non è donna di cultura ma ha talento naturale e senso pratico, governa tutta la fa-miglia con ammirevole abilità: in essa adempie per così dire l’ufficio di “reggente”, assegnando a ciascuno un compito ed esigendone l’adempimento, senza permettere ad alcuno di starsene in ozio e di perder tempo in sciocchezze.

Nelle tue lettere67 dici spesso che la filologia non gode di buona reputazione presso di te perché ti arreca due mali: ti rovina la salute e, per le spese che comporta, intacca i tuoi beni di famiglia. Mo-re, invece, riesce a organizzare la sua vita in maniera da godere la stima di tutti e sotto ogni aspetto, dichiarando apertamente che deve alla sua formazione umanistica l’equilibrio che gli assicura una salute prospera, l’affetto e la stima del migliore dei re, un patrimonio più consistente, nonché la simpatia e la benevolenza di chi gli sta vicino e di chi gli è lontano. Viene così a trovarsi in una po-sizione ideale: non solo si rende più accetto a se stesso e agli amici, ma è anche in grado di rendere il servizio migliore alla patria, ai familiari e ai parenti acquisiti. Riesce persino a intrattenere le rela-zioni più adatte con la corte e l’alta società. In una parola, egli è l’uomo che sa affrontare ogni situa-zione ed è, infine, il più gradito a Dio. Una volta gli studi avevano una cattiva reputazione, perché si pensava che facessero perdere il buon senso a chi vi si dedicava: ebbene, More è uno che coltiva gli studi con passione, al punto che non c’è viaggio da intraprendere, né affari da trattare, per quanto numerosi e difficili, che possano strappargli i libri di mano; eppure difficilmente tu troverai qualcu-no che sia come lui l’uomo di tutti in ogni momento. Nessuno, infatti, è pronto come lui a compia- tergeva delle loro lordure; smise di farlo solo quando il carceriere, terrorizzato, non volle più lasciarla passare. Marga-ret Clement e Margaret Roper videro l’amatissimo padre incamminarsi verso il patibolo e assistettero insieme alla sua decapitazione. Margaret Clement e il marito si recarono in esilio nei Paesi Bassi. 64 Luisa Middleton junior aveva all’incirca dodici anni quando sua madre, Luisa Middleton senior, divenne la seconda moglie di More. Luisa fu allevata con le figlie di More, padre attento e affettuoso anche per lei. Andò sposa a sir Giles Alington, deputato al Parlamento. Quando More fu rinchiuso nella Torre di Londra, cercò di intercedere per lui presso Lord Audley, il nuovo Cancelliere. In una sua lettera “alla sorella Roper”, cioè a Margaret More, fece il resoconto di quel fallito tentativo (Ep. 205 Rogers). In visita alla Torre Margaret mostrò al padre quella lettera; ne seguì un lungo colloquio di cui essa a sua volta riferì i passaggi essenziali ad Luisa (Ep. 206 Rogers). Quella lettera costituisce un do-cumento di straordinario interesse storico e umano, perché in essa More apre l’animo alla sua Meg impegnata in un ul-timo, disperato tentativo per convincere il padre a sottrarsi al crudele destino a cui andava incontro.

65 Ante annum visum est Moro mihi specimen aliquod exhibere, quantum in litteris profecissent. Iussit ut omnes ad me scriberent, et quidem suo quisque Marte. Nec argumentum est suppeditatum, nec in sermone quicquam est correc-tum. Etenim cum illi schedas obtulissent patri castigandas, ille velut offensus incommoda scriptura iussit ut eadem accuratius ac purius describerent. Id ubi factum est, ne syllaba quidem mutata literas obsignatas ad me misit. Crede mihi, Budaee, nihil aeque sum admiratus.

66 Margaret sposò William Roper, Elisabeth sposò William Dauncey e Cecily Giles Heron. Ma erano strettamente associati alla famiglia More anche il marito di Luisa Middleton junior, Giles Alington, e il marito di Margaret Giggs, John Clement. 67 Epp. 435 e 583.

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cere gli altri, a venir loro incontro, ad essere più vivace nella conversazione; nessuno come lui sa unire una saggezza così autentica a tanta cordiale gentilezza68. Grazie a queste sue qualità è succes-so che, mentre prima l’amore per le lettere era considerato del tutto inutile per la vita, perché non sembrava essere né un suo sostegno né un suo ornamento, adesso non vi è nessuno tra gli stessi no-bili che consideri i figli degni dei loro avi, se non sono istruiti nelle buone lettere. C’è di più: ai so-vrani sembra che manchi parecchio allo splendore della loro regalità, se la loro cultura umanistica lascia a desiderare.

In quasi tutti gli uomini era radicata l’opinione che lo studio delle lettere non giovasse alla purez-za d’animo e alla buona reputazione delle donne69. Una volta neppure a me ripugnava una simile maniera di pensare ed è stato More in effetti a strapparmela via dall’animo. I due fattori che minac-ciano pericolosamente la purezza delle ragazze sono, a veder bene, l’ozio e i divertimenti sfrenati; l’amore delle lettere ci protegge, invece, dall’uno e dagli altri. Non vi è nulla che preservi il buon nome e l’integrità morale di una giovinetta quanto una condotta incontaminata; né vi sono ragazze più saldamente caste di quelle che lo siano per consapevole scelta. Non disapprovo neppure il parere di chi pensa che giovi alla loro onestà praticare lavori manuali; rimane vero, però, che nulla occupa così interamente il cuore di una giovinetta come lo studio. Grazie allo studio, gli animi si sottraggo-no a un ozio pernicioso e si lasciano penetrare dai migliori precetti, che indirizzano a una vita buona suscitando entusiasmo per essa. L’ingenuità e l’ignoranza dei fatti causano in molte ragazze la per-dita della purezza prima ancora che arrivino a comprendere da quali pericoli sia minacciato un teso-ro così grande. Non capisco poi per quale ragione i mariti dovrebbero temere di avere mogli meno esemplari per probità solo perché istruite, a meno che non abbiano la pretesa di assoggettarle a im-posizioni indegne di un’onesta sposa. Penso che niente sia più difficile che aver a che fare con degl’ignoranti e che un animo esercitato negli studi abbia senza dubbio il vantaggio di poter ragio-nare in modo corretto e onesto, ed anche di saper discernere quello che è giusto e conveniente: è proprio vero, infatti, che chi ha dato un insegnamento, ha quasi fatto nascere anche una convinzio-ne70. L’incanto e la solidità di un matrimonio procedono soprattutto dalla buona disposizione d’animo dei coniugi più che dall’amore carnale; i coniugi tra i quali ci siano effettive consonanze intellettuali sono uniti tra loro da legami molto più solidi e una donna è portata a rispettare di più il marito, se vede in lui anche chi può guidarla nel lavoro intellettuale, né sarà meno pia perché meno superstiziosa. Per quanto mi riguarda [poiché non è il numero delle pratiche di pietà che conta, ma la loro qualità], io preferisco un solo talento d’oro puro a tre talenti falsi, in cui l’oro sia mescolato al piombo e a scorie.

Si sente dire qua e là che alcune donne, dopo aver ascoltato un sermone, vanno ripetendo al ri-torno quello che il predicatore ha lumeggiato così bene; in realtà esse riescono anche a rendere con precisione, come in un disegno, l’atteggiamento e l’espressione del volto di chi ha parlato, ma per il

68 Nulla est profectio, nulla negocia tam multa, tam ardua, quae libellos Moro de manibus excutiant; et tamen vix a-lium reperies qui magis sit omnibus omnium horarum homo, qui ad obsequium facilior, ad congressus magis obvius, in colloquio magis alacer, quique tantum verae prudentiae cum tanta morum suavitate coniunxerit. 69 Nel colloquio Abbatis et eruditae («L’abate e la donna colta»), pubblicato nel marzo 1524, Erasmo scrive che “la scena del mondo sta per cambiare” e in essa anche la donna avrà finalmente una sua parte. E potrà averla grazie alla cultura che, slargando i suoi orizzonti, le consente di scegliere a suoi consiglieri “autori eloquenti, illuminati, saggi” che onorano l’umanità. La possibilità per la donna di essere partecipe a pieno titolo dei valori della cultura, dell’arte, della vita spirituale comporterà, in prospettiva, un mutamento del suo ruolo anche nella vita della Chiesa. Secondo la protagonista femminile del dialogo - che presumibilmente ha il suo modello in Margaret Roper, la dotta figlia primo-genita di More - verrà un giorno in cui il posto della donna sarà pienamente riconosciuto. Il colloquio termina con una battuta per metà scherzosa e per metà seria: “O ciascuno recita la sua parte, o ci si ritira [...]. State in guardia, voi uo-mini, che, se venite meno ai vostri compiti, saremo noi donne a salire le cattedre di teologia e a predicare nelle Chiese. Saremo noi donne a togliervi, infine, le vostre stesse dignità sacerdotali”.

70 Neque video cur maritis sit metuendum ne minus habeant morigeras, si doctas habeant; nisi si qui tales sint ut ea velint exigere ab uxoribus quae non sint exigenda a probis matronis. Imo mea sententia nihil est intractabilius in-scitia. Certe hoc praestat animus cultura studiorum exercitatus, ut intelligat aequas probasque rationes, videatque quid deceat, quid expediat. Atqui propemodum persuasit qui rem docuit.

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resto non sanno dirci che cosa sia stato detto e in che modo. Le donne, invece, di cui ti sto parlando sono in grado di riferire un sermone quasi per intero, nel suo ordinato svolgimento, e sanno anche giudicarlo. Se il prete, parlando a vanvera, si lascia andare a dire stupidaggini, cose empie o stram-palate - e accade più di una volta ai nostri giorni - loro, a seconda dei casi, se la rideranno, o non prenderanno nemmeno in considerazione quanto hanno udito, o addirittura ne proveranno orrore. Ecco che cosa significa “ascoltare” un sermone! È una gioia vivere con donne del genere. Devo, perciò, esprimere il mio totale dissenso da quanti credono che una moglie serva solo a soddisfare le loro voluttà, come se a ciò non fossero più adatte certe pazzerelle semifatue. Occorre soprattutto un cuore a una sposa che voglia mantenere la famiglia sulla giusta via, guidare e formare dei figli, ac-contentare in tutto il marito. Nel corso di una recente conversazione, posi a More questa domanda: “Se ti capitasse di perdere delle persone che ti sono care, e può succedere a chiunque su questa terra, la loro morte non colpirebbe te più terribilmente di chiunque altro, proprio perché tu ti sei impegna-to a fondo per la loro crescita spirituale e umana?”. Mi rispose immediatamente: “Anche di fronte all’inevitabile, preferisco che esse muoiano istruite piuttosto che ignoranti”. Mi venne allora in mente all’improvviso una frase che, se non sbaglio, è di Focione, il quale la pronunciò mentre beve-va la cicuta. Alla moglie che gridava: “Povero marito mio, tu muori innocente!”, egli rispose: “Ma che dici, donna? Avresti forse preferito che morissi colpevole?”71.

A poco a poco un pensiero si insinua talora nel mio animo: mi piacerebbe tracciare il profilo pa-rallelo di voi due, entrambi eccezionali campioni impegnati in una battaglia che è la stessa ed è ben degna di lode. Sarebbe come mettere di fronte l’uno all’altro [Marco Furio] Camillo e Scipione l’Africano. Per tanti anni e in tempi più difficili ti sei battuto contro i nemici delle buone lettere e sotto questo aspetto sei superiore a More; tuttavia quello che tu hai tentato di fare solamente con i tuoi figli e fratelli, More non ha esitato a compierlo con le spose72 e le figlie, intrepidamente incu-rante delle critiche che gli vengono mosse per questa sua esemplare novità. In ciò egli ti è, a sua vol-ta, superiore. Con le opere che hai pubblicato tu, però, hai arricchito più di lui i tesori delle due lin-gue73 e in avvenire, come ci ripromettiamo, li accrescerai sempre di più, se finalmente tirerai fuori dai cassetti le tue ricchezze e ti deciderai a renderne partecipi gli altri con generosità. È vero, la gio-ventù studiosa attende da More ancora qualcosa di grande, perché egli è ben lontano dalla vecchiaia e suo padre74 che, come io credo, avrà all’incirca ottant’anni, è un vegliardo così incredibilmente robusto che si farebbe fatica a trovarne uno che porti meglio i suoi anni: la qual cosa ci autorizza a prevedere anche per More una lunga vita. Sono certo che su di un punto tu puoi portare un grande contributo agli studi greci, se non ti limiterai a fare per nostra utilità l’inventario di termini in vista di un lessico assai ricco: tu devi spiegare di quella lingua anche ciò che non è a tutti evidente, come i caratteri tipici, le costruzioni particolari e le figure retoriche75. So che è un lavoro al di sotto della tua fama e che può sembrare assai modesto; credo però che, quando l’interesse generale lo richieda, sia degno di un uomo superiore abbassare talvolta se stesso. È quello che Platone esige dal suo sag-gio76. 71 Focione, generale ateniese, visse nel IV secolo a. C.. Plutarco parla delle sue gesta nelle Vite parallele. 72 More seppe farsi geniale e amabilissimo precettore della prima moglie, Joan Colt, e con lei la sua opera di iniziazio-ne culturale e artistica dette subito ottimi risultati. Eccetto che per la musica, le cose non andarono altrettanto bene con la seconda moglie, Luisa Middleton, che non volle saperne di scienze e astronomia (Epigrammi, 1520) e non capiva nulla di latino. Occorre, però, tener presente che la signora Luisa aveva toccato i quarant’anni, quando venne a contat-to per la prima volta con un mondo a lei del tutto estraneo. 73 Il latino e il greco. 74 Nel 1521, in cui è stata scritta la lettera a Budé, il padre di Thomas More, John senior, era sensibilmente più giovane di quanto pensasse Erasmo, essendo nato nel 1453. Aveva 68 anni. 75 Pare proprio che Budé abbia tenuto conto del consiglio di Erasmo. Infatti otto anni dopo, nel 1529, pubblicò a Pari-gi i Commentari della lingua greca; il Lessico greco-latino apparve dopo la sua morte. 76 Platone, Repubblica VII, 519. “I saggi vedono il Bene e fanno della loro vita una continua ascesa verso il Bene”; la contemplazione e l’autoformazione, però, non possono mai voler dire estraneità alla sorte dei nostri simili. Veri saggi sono pertanto coloro che “vogliono ridiscendere presso i prigionieri [ancora rinchiusi nella caverna] e partecipare alle fatiche e alle imprese onorevoli del mondo, a prescindere dalla loro minore o maggiore importanza”.

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Aleandro77 da parecchio tempo si trova da queste parti, ma finora ha avuto pochi contatti con me, perché del tutto assorbito nell’affare luterano, nel quale si è mostrato coraggioso e determinato. Quando abbandonerà questo incarico, o piuttosto quando lo lascerà avendone adempiuto gli obbli-ghi, sarà possibile godere della sua compagnia piacevole e insieme dotta. Nell’arena letteraria Vi-ves78 prosegue attivamente la sua corsa e con successo; conoscendo abbastanza il suo carattere, sono certo che non se ne starà quieto finché non avrà lasciato tutti dietro di sé. Io poi voglio bene a te e a voi tutti [, amici parigini,] perché, grazie al vostro buon senso, siete venuti a capo di De Brie, e amo De Brie perché si è arreso ai consigli degli amici. D’altra parte More, incapace com’è di serbar ran-core, avrà certamente dimenticato quella piccola disputa che c’era stata. Mi ha arrecato vivo piacere apprendere che, seguendo il tuo esempio, De Brie si sta esercitando anch’egli a scrivere nelle due lingue79 e non dubito affatto che porterà a buon fine quello che tu per primo - non solo in Francia, ma nel nostro tempo - hai osato intraprendere con ardore giovanile e con molto successo. Risponde-rò alla sua lettera umana e dotta appena avrò un po’ di tempo libero80.

Scrivo queste righe dalla campagna di Anderlecht dove, spinto dal tuo esempio, anch’io cerco di condurre una vita campestre; possa anch’io, come te, costruirmi una casa in campagna81. Comunque vada, a me questo soggiorno fa tanto bene che ormai sono deciso a tornarvi ogni anno. Sta bene.

77 Giacomo Aleandro era in quel tempo legato pontificio in Germania. La lettera a Budé è anteriore di poche settimane alla rottura fra Erasmo e Aleandro, che ebbe luogo a Bruxelles il 6 ottobre 1521. 78 Vives lavorava allora all’edizione del De civitate Dei di Sant’Agostino (Epp. 1222 e 1302). 79 In greco e in latino. 80 La lettera di Germain de Brie a Erasmo ci è sconosciuta. 81 Budé aveva fatto costruire per sé e per la sua numerosa famiglia due case di campagna (Ep. 435).

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LETTERA 2750

Il destinatario dell’Epistola 2750 è Johann Heigerlin. Egli era di una decina d’anni più giovane di Erasmo e coetaneo di More, essendo nato nel 1478. Morì nel 1541. Figlio di un fabbro e fedele alle sue origini, prese il nome Faber. Studiò a Tubinga e a Friburgo. Prese gli ordini religiosi e ri-coprì incarichi importanti in molte diocesi del mondo germanico. Ebbe simpatia per gli umanisti, molti dei quali trovarono in lui un protettore. Domenicano liberale, Faber fu costantemente premu-roso con Erasmo; tra i gesti di amicizia verso il leader degli umanisti va annoverato anche il dono del manoscritto delle opere di Ireneo, il primo in ordine di tempo tra i Padri della Chiesa.

Faber fu nominato vescovo di Vienna nel 1530, ma da anni era autorevole ministro e uomo di fi-ducia del fratello di Carlo V, l’arciduca d’Austria Ferdinando, che era anche re di Ungheria e di Boemia. I suoi gravi impegni, i continui viaggi e le missioni diplomatiche si moltiplicavano, perché in quegli anni incombeva sulla capitale del dominio asburgico la minaccia turca, a cui era militar-mente collegata l’insurrezione dei principi protestanti contro l’impero. La missione di Vienna nel mondo germanico fu di essere il centro propulsore della resistenza europea all’Islam e della difesa dell’unità religiosa con Roma; Faber fu l’instancabile interprete dell’una e dell’altra direttrice sto-rica.

Nell’aprile del ‘26 il maestro dell’umanesimo cristiano aveva scongiurato Faber di “non gettare olio sul fuoco nella lotta contro la Riforma” e di prendere in considerazione una prospettiva nuova per risolvere con spirito cristiano il difficile problema dell’inevitabile convivenza tra luterani e cat-tolici in uno stesso Stato e addirittura in una stessa città. “Forse sarebbe preferibile - scriveva Era-smo - che ognuna delle due parti fosse lasciata alle sue convinzioni, fino a quando non giungano il tempo e l’occasione favorevoli per intendersi [...]. Certamente i sobillatori di disordini devono es-sere severamente puniti, ma sta a noi cominciare subito a correggere alcuni degli errori che hanno dato origine a questo flagello, riservando a un concilio le altre questioni bisognose di chiarimenti” (Ep. 1690). Il presbite geniale, come al solito, guardava lontano, ma la situazione si fece sempre più inestricabile e pericolosa a causa dell’alleanza organica tra il re di Francia Francesco I, i principi protestanti e i turchi. Erasmo, temendo che Faber finisse con l’avallare provvedimenti troppo severi contro i luterani (Ep. 1926), che avrebbero aggravato irrimediabilmente le divisioni già esistenti, lo invita a non compiere atti che possano pregiudicare la riconciliazione futura. All’arciduca Ferdinando ricorda, con la solita finezza, che “Dio benedirà solo una politica che promuova il bene comune e la concordia della Chiesa” ( Ep. 2005 del 15 luglio 1528).

Nel giugno 1528 Faber comunica a Erasmo l’invito dell’arciduca Ferdinando a trasferirsi a Vienna con un assegno annuo di 400 fiorini (Ep. 2000). Erasmo ringrazia, ma declina l’offerta: “è sempre difficile trapiantare un albero” ed egli è seriamente malato ai reni; né mancano, neppure a Vienna, “teologi dallo spirito confuso e monaci perversi” decisi a rovinargli l’esistenza (Ep. 2006 del 16 luglio 1528). Faber torna a insistere, ma comprende lo stato d’animo dell’illustre maestro e quando Johann Eck, che pure era personaggio di primo piano in campo cattolico, dichiara eretici alcuni brani tratti dagli scritti di Erasmo, non esita a “fargli una ramanzina” e ad applicare a lui, che pretendeva censurare Erasmo, l’antico detto: “Il maiale vuol farla da maestro a Minerva” (sus Minervam docet). A Erasmo Faber ne riferisce in questi termini: “Recentemente ho ammonito Eck a non esserti d’intralcio nei tuoi magnifici lavori, a non contristare la tua ardente pietà e il tuo spi-rito perfettamente cristiano” (Ep. 2503 del 21 giugno 1531).

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All’ Epistola 2750 può essere assegnata una data approssimativa, tra il novembre e il dicembre 1532, tenendo presente che Erasmo unì ad essa una copia della bellissima lettera che aveva ricevu-to da More poco dopo le dimissioni da Cancelliere, l’ Epistola 2659 del 12 giugno 1532; occorre, infatti, tener conto che in quel tempo tra l’invio di una lettera e la sua consegna potevano passare alcuni mesi. Marie Delcourt, a cui si devono contributi preziosi e assai penetranti su Erasmo e Mo-re, ha avanzato l’ipotesi secondo cui l’Epistola 2750 sarebbe stata scritta allo scopo di salvare Mo-re: in altri termini, essa era, sì, indirizzata a Faber, ma perché questi la facesse pervenire a Enrico VIII. Tali affermazioni non sono, però, sostenibili. Erasmo difende certamente l’onore, le idee-forza, la santità di vita, la grandezza umana e cristiana di More; l’apologia dell’amico più caro della sua vita non è, però, diretta in nessun modo a Enrico VIII. Erasmo sa fin troppo bene che qualsiasi intervento presso il re d’Inghilterra a favore dell’ex Cancelliere da parte del vescovo di Vienna, che era pure ministro dell’arciduca d’Austria, avrebbe fatto il gioco solo dei nemici di Mo-re, facendolo sospettare di essersi inteso con Carlo V. Né si può pensare, neppure per un istante, Erasmo così maldestro e naïf da scrivere in una lettera, il cui vero destinatario fosse Enrico VIII - il re che molto aveva rischiato, pur di non rinunciare ad Anne Boleyn - due cose insopportabili per le orecchie di quel principe: More è uomo al quale non placet ullum divortium (ed. Allen, linee 194-5) ed è un vero modello di virtù coniugale.

La lettera che Erasmo invia a Johann Faber fu scritta cinque o sei mesi dopo le dimissioni di More da Cancelliere e il suo definitivo ritiro dalla scena politica. Il momento, dunque, era estre-mamente delicato per More, i cui amici trepidavano pensando al suo futuro. Il distacco di More dalla politica era motivato da ragioni di salute ed era avvenuto d’intesa col sovrano, ma nella si-tuazione drammatica che si era creata in Inghilterra bisognava temere che l’otium cum paupertate di More non sarebbe durato a lungo. Erasmo aveva ben presente un precedente storico: anche Ne-rone aveva mostrato di comprendere le ragioni del ritiro di Seneca dalla politica attiva e gli aveva esternato pubblicamente la sua gratitudine per i servizi resi all’impero. Nel momento in cui ringra-ziava il filosofo statista, Nerone era quasi certamente sincero, e con molta probabilità lo era anche Enrico VIII nei confronti del suo migliore ministro e consigliere; ma quando il potere diventa in-controllato e autocratico, lo scenario può mutare rapidamente e alla fin fine è proprio sugli uomini di coscienza intemerata e i veri servitori del bene comune che si abbatte l’ira del re. E l’indignatio principis mors est (Proverbi 16, 14). I despoti, infatti, a un certo punto non sopportano neppure il silenzio e il riserbo dei giusti. Questi pensieri dovevano agitare la mente di Erasmo quando scrisse di More al vescovo di Vienna, anche se l’olandese non poteva assolutamente renderli espliciti senza attirare sulla testa dell’amico l’inesorabile vendetta di Enrico: un re ormai sempre più in balia del-le sue passioni e dei nuovi consiglieri. Prima, però, che la situazione volgesse al peggio, e sempre con la speranza nel cuore che ciò non accadesse, Erasmo vuol testimoniare a un eminente uomo di Chiesa e amico, quasi a futura memoria, quanto profonda fosse la sua stima, o più propriamente la sua venerazione, per Thomas More, uomo di cultura e statista cristiano.

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ERASMO DA ROTTERDAM A JOHANN FABER, VESCOVO DI VIENNA

Friburgo, verso la fine del 1532.

Ha messo veramente poco tempo ad arrivare fino a voi la notizia secondo la quale l’illustre

Thomas More è stato rimosso, in seguito a una sentenza, dalla carica di Cancelliere, in cui è stato rimpiazzato da un altro nobile82, che subito ha liberato quelli che More aveva incarcerato a causa delle loro dottrine dissenzienti. Omero e Virgilio83 fanno prendere il volo alla Fama, il cui corpo è tutto rivestito di penne e di piume, per dirci che nulla è più veloce di essa. Ogni altro volo mi sem-bra tardo e lento, se paragonato alla rapidità con cui questa notizia ha raggiunto subito i luoghi più lontani: solo un lampo può arrivare dappertutto più speditamente. E tuttavia, sebbene questa fola volasse di bocca in bocca e io non avessi ancora ricevuto alcuna lettera dall’Inghilterra ( perché quella di Thomas More, che qui ti accludo, era stata ferma parecchi mesi in Sassonia), io sapevo con assoluta certezza che quanto si andava raccontando era del tutto senza fondamento. Conoscevo, in-fatti, il carattere assai umano del principe, la sua costanza nell’essere affettuosamente vicino agli amici, una volta che li abbia accolti nella sua cerchia, e con quanta fatica li allontana da sé, persino quelli in cui egli abbia ripreso qualcosa di sbagliato. Io conoscevo anche la lealtà di Thomas More, la sua grande abilità nel gestire gli affari, dai più importanti ai minimi, e che in nessun caso si asso-pirebbe in lui la vigilanza abituale, sicuro indice di notevole prudenza. C’è di più: la benevolenza del re verso More si mostrava, ai miei occhi, con maggiore evidenza nel momento in cui egli lo libe-rava da quell’ufficio - certamente di grandissimo prestigio, ma pieno di preoccupazioni e di pericoli - che quando gliel’aveva imposto. Affidando quell’incarico a un uomo che lo rifiutava, il re agiva da uomo provvido del bene della sua patria, tenendo conto nello stesso tempo dell’interesse suo e del-lo Stato; togliendolo a un uomo che implorava di esserne liberato, si mostrava amico di More. Allo-ra egli ha meritato, con l’approvazione di tutti, l’elogio dovuto alla sua pietà e alla sua prudenza, per aver conferito l’incarico più difficile all’uomo che, in tutto il regno, era il più capace di assolverlo; ora merita anche di essere lodato per la sua rara umanità, avendo fatto prevalere, sui suoi sentimenti e sulla considerazione dell’interesse generale, la preghiera dell’amico. Questi, infatti, gli chiedeva di poter disporre del suo tempo libero [da impegni pubblici], così come una volta aveva fatto Cassio-doro84, che lo aveva chiesto e ottenuto dal suo principe. Senza dubbio, per domandare il congedo al

82 Sir Thomas Audley. 83 La raffigurazione della Fama non si trova in Omero, mentre Virgilio dedica ad essa nel libro IV dell’Eneide i versi 173-188: La Fama, di cui non esiste un male più rapido, / vive di moto, e forza acquista correndo; / timida e piccola prima, subito alta si leva, / avanza pe ‘l suolo e il capo nasconde tra i nembi. / [...] Veloce nei piedi, veloce nell’ale, / ingente orrido mostro che tanti possiede / vigili occhi, tante lingue loquaci, tante orecchie protese / quante piume ha nel corpo. E vola di notte / a mezzo fra il cielo e la terra nell’ombra / stridendo, né chiude mai palpebre al sonno; / di giorno siede spiando su l’alto dei tetti / o su altissime torri e atterrisce le grandi città; / nunzia egualmente del falso e del vero (trad. it. di Enzio Cetrangolo, pubblicata nel volume: Virgilio, Tutte le opere, Sansoni Editore, Firenze 1966). 84 Flavio Cassiodoro, nato a Squillace in Calabria verso il 490 d. C., fu stretto collaboratore e leale consigliere del re dei goti Teodorico il Grande. Si adoperò a far prevalere una politica d’imparziale tolleranza verso il culto cattolico e quello ariano, nel momento in cui i visigoti in Spagna e i vandali in Africa perseguitavano i cattolici. La tolleranza si estese anche verso gli ebrei, a proposito dei quali mise in bocca a Teodorico un nobilissimo principio: Religionem im-perare non possumus, quia nemo cogitur ut credat (“Non possiamo imporre per comando la religione, perché nessuno dev’essere costretto a credere”). Cassiodoro favorì tenacemente la coesione tra i goti e i romani, ma il regno di Teodo-rico si concluse col tragico fallimento di quella politica. Il simbolo più eloquente di quel fallimento fu l’iniqua con-danna a morte, nell’autunno 524, di Severino Boezio, il filosofo di vasta cultura che era tra i più convinti fautori dell’incontro tra germanesimo e romanità. Nel regno di Teodorico egli ricoprì per alcuni anni la carica di Maestro de-gli Uffici, nella quale dette prova di essere magistrato integerrimo contro le prevaricazioni dei goti e dei romani goti-cheggianti. Benché, imparentato con Boezio, Cassiodoro continuò a collaborare con il re, diventato sempre più sospet-toso e crudele a mano a mano che vedeva svanire il sogno alla cui realizzazione aveva dedicato trent’anni di saggio governo. Nel 537 Cassiodoro chiese e ottenne di potersi ritirare, perché si era convertito alla fede cattolica e voleva dedicarsi interamente al servizio di Dio. Intorno al 550, quando era sui settant’anni, Cassiodoro fondò un vero e pro-

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re More era spinto da ragioni serie; diversamente egli non avrebbe avuto l’ardire di sollecitare il suo ritiro e il re, da parte sua, non sarebbe stato tanto compiacente al punto da prestare ascolto a motivi pretestuosi.

Egli non ignorava che la stabilità del regno intero dipende in gran parte dall’onestà del Cancellie-re, dalla sua prudenza, dall’elevato grado di conoscenza [dei problemi]. Con il nome di Cancelliere lì non si designa, come in altri Paesi, un segretario: [in quell’isola] la sua dignità è la più vicina a quella del sovrano. Quando appare in pubblico, egli tiene nella destra uno scettro d’oro, sormontato da una corona imperiale, anch’essa in oro, e nella sinistra ha un libro: in tal modo si intende desi-gnare, da una parte, il potere supremo che esercita sotto l’autorità del re e, dall’altra, la saggezza delle leggi. Egli è, in effetti, il giudice supremo in tutto ciò che rientra nella giurisdizione britannica: si potrebbe dire che è l’occhio del re, la mano destra sua e del suo Consiglio. Un principe veramente saggio non avrebbe mai affidato una così ardua funzione senz’aver fatto indagini, e nessuno come Enrico aveva esaminato più a fondo e apprezzava immensamente i doni rari, quasi divini, di quel genio. Quando si rese conto che non aveva speranze di ritornare ad esercitare l’antica autorità, per-sino il cardinale di York - che non era affatto, quale che sia stata la sua fortuna, uno stupido - affer-mò che in tutta l’isola More era il solo capace di assumersi un tale onere. E la designazione non era dettata dal desiderio di fargli un favore o da benevolenza, essendo il cardinale maldisposto, finché fu in vita, verso More: assai più che amarlo, egli infatti lo temeva. Non era diverso neppure il giudi-zio del popolo. Tutti si felicitavano pubblicamente, come non era mai successo prima, quando More assunse l’alto incarico; e quando lo lasciò, il suo ritiro fu accompagnato dalla tristezza e dal rim-pianto di tutti gli uomini saggi e onesti. Al momento delle sue dimissioni, egli meritò il più bell’elogio: che nessuno aveva assolto quella funzione con maggiore abilità ed equità. E tu sai quali possono essere, soprattutto nei primi tempi, le recriminazioni della gente nei confronti di quelli che hanno ricoperto gl’incarichi più alti! Te lo potrei provare facendoti leggere delle lettere di uomini eminenti: prima, essi si felicitavano calorosamente con il re, con il regno, con se stessi e persino con me, perché More aveva ricevuto quell’onore; poi, nelle lettere successive alle sue dimissioni, le stesse persone deploravano che lo Stato avesse perduto un tale giudice e un consigliere che aveva voce in Consiglio, per usare l’espressione di Omero.

Il re, ne sono sicuro, avrà sostituito More con un uomo eminente, che tuttavia a me è del tutto sconosciuto85. Per quanto riguarda la notorietà della sua famiglia - Thomas More nel suo spirito fi-losofico non ne parla mai e tanto meno se ne vanta - egli è nato a Londra, e il fatto di essere nato e di essersi formato in una città che è di gran lunga la più popolosa, è per gl’inglesi un titolo di nobil-tà. La sua ascendenza paterna non è oscura, essendo il padre dottore in diritto britannico, titolo che gode presso gl’inglesi del più alto prestigio e da cui la maggior parte della nobiltà insulare trae la sua origine. Subentrando a lui, il figlio, con i successi conseguiti in ogni campo, eclissò l’illustre padre, sebbene nessuno renda onore in modo più autentico ai suoi maggiori, se non oscurandoli in tal misura.

Non elenco qui i titoli onorifici di cui l’uno e l’altro sono stati insigniti, non per averli ricercati, né per averli acquistati, ma per decisione spontanea del re: non è pensabile, infatti, che la vera nobil-tà consista unicamente nel compiere e nel ripetere gesti di valore in guerra e che non vi sia il dovuto riconoscimento a quegli uomini che, in tempo di pace, rendono allo Stato eminenti servizi con il lo-ro consiglio piuttosto che con le armi. Meglio va lo Stato, meno chiede all’arte militare86; i re e i lo-ro governi, al contrario, ritengono necessario in pace e in guerra ricorrere all’aiuto di uomini insigni per dottrina, acutezza di giudizio e competenza giuridica. Noi sentiamo la Sacra Scrittura dirci: È per me che regnano i re (Proverbi 8, 15). È la voce non della milizia, ma della sapienza che si ado-

prio “monastero umanistico”, il Vivarium, presso Squillace. In esso tre attività avevano un ruolo privilegiato: la cura della ricchissima biblioteca, lo studio delle humanae litterae e della Sacra Scrittura, la trascrizione dei testi dei classici antichi e cristiani per trasmetterli alle generazioni future. 85 Si tratta di sir Thomas Audley. 86 Militarem industriam quo melius habet Reipublicae status minus desiderat (ed. Allen, linee 83-84).

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pera perché non ci sia guerra e, se non può essere evitata, perché sia condotta in modo da arrecare il minor danno possibile. C’è, infatti, più felicità nell’evitare una guerra che nel combatterla coraggio-samente. Purtroppo la pace non può essere di lunga durata e, quando lo è, finisce col generare corru-zione nei costumi, a meno che non sia governata dai consigli di uomini prudenti87. Torquato è di-ventato celebre per aver strappato [in duello] a un [soldato] gallo una collana88; ma perché non ren-dere onore a chi ha servito tanti anni la patria come giudice equo e fidato consigliere? Sembrò di dover giudicare ben altrimenti a quei principi che nei tempi antichi conferirono gli onori più alti ai loro collaboratori, che avessero mostrato di essere padroni nella conoscenza e nell’uso delle leggi. Essi decisero di attribuire quei segni di distinzione, di cui fregiano i loro rappresentanti, anche ai grammatici, ai dialettici, ai professori di diritto, che per vent’anni avessero dato prova della loro scienza e della loro probità. In tal modo l’imperatore, eguagliando i professori ai suoi vicari, e questi ai conti e ai duchi, com’è attestato nel libro XII del Codice [di Giustiniano], li eleva alla stessa di-gnità. Oggi, invece, non sono riconosciuti nobili se non quelli a cui non la nascita, ma il principe ac-corda - e più propriamente dovrei dire “vende” - il titolo. Del resto, una distinzione conferita dal re per i servizi resi allo Stato crea, secondo me, una doppia nobiltà perché al valore, sorgente di ogni vera nobiltà, si aggiunge l’autorità del principe. La nobiltà ama richiamarsi al passato, ma c’è più grandezza nell’aver meritato un titolo nobiliare che nell’averlo ricevuto dagli antenati.

Quest’onore, lo so bene, conta molto poco agli occhi di More, che preferisce lasciare in eredità ai posteri l’esempio del suo amore per la religione piuttosto che il prestigio di qualche titolo. Quanto poi alle accuse che si vanno lanciando contro di lui, riguardo a quelli che avrebbe fatto imprigiona-re89, io non so se esse siano vere. Ciò che a me consta è che quest’uomo per natura mitissimo non ha mai fatto del male a nessuno di quelli che, una volta posti sull’avviso, si sono voluti ricredere sulle sette di cui avevano subito il contagio. Si pretende forse che il giudice più elevato in grado in un regno così vasto non debba disporre di carceri? More detesta le dottrine sediziose, che oggi scuo-tono dolorosamente il mondo, e non lo nasconde, né desidera negarlo: egli è tanto portato alla pietà che, se la bilancia dovesse pendere per un momento verso una parte, inclinerebbe piuttosto verso la superstizione che verso l’empietà90. Il fatto che meglio attesta la rara clemenza di More è che sotto il suo Cancellierato nessuna sentenza di pena capitale è stata pronunciata a causa di una condanna dottrinale, mentre nelle due Germanie [quella cattolica e quella protestante] e in Francia tanti uomi-

87 Felicius autem est effugere bellum quam fortiter gerere. Pax autem non potest esse diutina, aut si est, gignit corrup-tos hominum mores, nisi prudentium virorum consiliis gubernetur (ed. Allen, linee 90-93). 88 La tradizione popolare e la rielaborazione annalistica fecero di Tito Manlio la personificazione delle antiche virtù romane. Si vuole che nel 361 a. C. uccidesse in duello un gigantesco soldato gallo e che gli strappasse la collana (tor-quis), per cui si guadagnò il cognomen di Torquatus. In realtà, il personaggio storico ha ben altra consistenza del rac-conto che mirava, come ogni leggenda eziologica, a spiegare il soprannome di Torquato portato da un ramo dei Man-lii. Manlio Torquato condusse importanti campagne militari contro i latini. Console per la terza volta, gli toccò con-dannare a morte il proprio figlio, perché aveva attaccato il nemico contro i sui ordini. L’episodio è narrato da Tito Li-vio (Ab urbe condita VII, 10) e da Aulo Gellio (Noctes Atticae IX, 13, 8). 89 Subito dopo il ritiro di More dalla vita politica, i fautori più accesi del distacco della Chiesa d’Inghilterra da Roma scatenarono una campagna di accuse contro l’oppositore più silenzioso ed autorevole del nuovo corso. More rispose, punto per punto, nello scritto The Apology of Sir Thomas More, pubblicato nel 1533, un anno dopo l’invio della lettera a Johann Faber. 90 Nella lettera a Hutten Erasmo scriveva: “More coltiva ardentemente la vera pietà, ma è estraneo a ogni superstizio-ne”. Nei suoi Études sur la Renaissance (Paris 1855), il Nisard contrappone il giudizio espresso da Erasmo nel 1519 a quello contenuto nella lettera a Johann Faber nel 1532 e ne deduce che fra i due amici, a causa della questione lutera-na, era subentrato un periodo abbastanza lungo di gelo. Pur con qualche attenuazione, la tesi del Nisard è ripresa da Marie Delcourt (Érasme, Bruxelles 1944, pp. 88-111). Noi crediamo di averla confutata nella nostra Breve storia di una grande amicizia. Qui aggiungiamo solo che Erasmo accentua con tanta forza la profonda religiosità di More, fino a dare di essa una formulazione evidentemente paradossale. In effetti, l’alternativa da lui enunciata non è veramente tale: in essa i due piatti della bilancia non sono due contrari, come la vera pietà e la superstizione, ma la superstizione e l’empietà, cioè due errori uno più detestabile dell’altro per ogni autentica coscienza religiosa.

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ni sono stati sottoposti al supplizio91. Adoperarsi a porre rimedio al male e lasciare in vita nello stesso tempo le persone, pur avendo il diritto di metterle a morte, ecco il modo in cui More pratica-va la clemenza, pur detestando l’empietà. Ma si può arrivare al punto di chiedere a chi esegue una sentenza del re e dei vescovi di favorire una novità sediziosa? Immaginiamo per un momento che egli non provasse avversione per le nuove dottrine, e questo non è proprio il caso di More: egli do-veva allora o lasciare l’incarico ricevuto, o dissimulare le sue convinzioni.

Infine, mettendo da parte il conflitto delle dottrine, chi può ignorare che sotto quel pretesto tanti uomini superficiali e sediziosi sono pronti a commettere qualsiasi crimine, se la loro sfrontatezza, che cresce ogni giorno di più, non è tenuta a freno dalla severità dei magistrati? Perché allora ci si indigna se il magistrato più alto in grado del regno ha fatto in Inghilterra ciò che il Senato è talvolta obbligato a fare in quelle città che hanno cambiato religione? Senza quei provvedimenti gli pseudo-evangelici avrebbero ben presto fatto irruzione nei granai e nei forzieri dei ricchi, e chi possiede qualcosa sarebbe accusato di essere “papista”. Ebbene sì, la temerarietà [dei violenti] è così grande, e la malizia della folla è tanto scatenata che gli stessi autori dei nuovi dogmi e quelli che li difendo-no vi si sono opposti con i loro scritti92, e con durezza. Com’è pensabile [in una situazione del gene-re] che il supremo magistrato in Inghilterra chiudesse gli occhi, permettendo che una tale melma i-nondasse un regno in cui fioriscono le ricchezze, gl’ingegni e la religione? Può darsi che alcuni pri-gionieri siano stati liberati per la nomina del nuovo Cancelliere, trattandosi di presunti innocenti o di detenuti per reati relativamente minori; volentieri lo si fa per l’incoronazione dei re, allo scopo di conciliarsi il favore del popolo. Immagino che sia successo anche quando More ricevette il sigillo [della Cancelleria]. Ma con tutte queste storie che vanno propalando dov’è che vogliono parare que-sti Trittolemi93? Intendono farci credere che esiste presso gl’inglesi un rifugio pronto ad accogliere le sette e i loro sostenitori? Molte lettere inviatemi da persone serie attestano che, riguardo alle nuo-ve dottrine, il re è meno indulgente dei vescovi e dei preti94. Non vi è persona pia che non desideri la riforma dei costumi [nella Chiesa], ma nessun uomo saggio pensa che ciò comporti un sovverti-mento generale95.

Nell’apprendere l’ascesa di Thomas More al supremo fastigio [del Cancellierato], poiché per una lunga amicizia sentivo di conoscere, almeno in certa misura, il suo carattere, scrissi che dal punto di vista dell’interesse generale mi felicitavo col re e con l’Inghilterra, ma che con lui personalmente non mi rallegravo affatto96. In questo momento, invece, mi rallegro di cuore con lui per il dono grandissimo che il principe gli ha fatto: con il grato riconoscimento di tutto il popolo, gli è stato concesso di districarsi per tempo dal labirinto degli affari pubblici. A lui, pertanto, è riuscito ciò che non fu possibile a Scipione l’Africano, a Pompeo Magno, a Cicerone. Ottaviano Augusto desiderò

91 Questo passo è decisivo per capire l’animo dei due grandi amici di fronte allo spargimento di sangue di cattolici e protestanti per motivi dottrinali. Ecco il testo latino: Illud tamen eximiae cuiusdam clementiae satis magnum est ar-gumentum, quod sub illo Cancellario nullus ob improbata dogmata capitis poenam dedit, quum in utraque Germania Galliaque tam multi sint affecti supplicio (ed. Allen, linee 118-122). Sull’argomento si legga lo studio di Joseph Le-cler Storia della tolleranza nel secolo della Riforma (Morcelliana, Brescia 1967, Vol. I, pp. 137-167). 92 Erasmo allude all’ostilità di Lutero contro i contadini in rivolta nel 1525. 93 Trittolemo aveva ricevuto dalla dea Demetra una spiga di frumento, perché ne seminasse i chicchi a vantaggio degli uomini. 94 Enrico VIII fu inflessibile sia nel volere la separazione da Roma, per le ben note ragioni, sia nel custodire e difende-re nella nuova Chiesa d’Inghilterra, fatta eccezione per il primato di Pietro, l’«eredità cattolica» delle verità da credere, dei sacramenti e della liturgia. Su questi aspetti e sul diverso orientamento dei figli Edoardo VI ed Elisabetta si vedano le nostre annotazioni nel capitolo I tempi di Erasmo e di More - Profilo biografico e cronologia, pp. 95 Nemo pius non optat Ecclesiae mores emendatos, at nemo prudens existimat recipiendam rerum omnium confusio-nem (ed. Allen, linee 150-152). 96 È quanto Erasmo aveva confidato, nei primi mesi del 1530, a due amici suoi e di More: il vescovo di Londra Cu-thbert Tunstall (Ep. 2263) e Lord Mountjoy (Ep. 2295). Del resto è lo stesso More che, scrivendo a Erasmo tre giorni dopo aver ricevuto lo scettro di Gran Cancelliere, indovina perfettamente i sentimenti dell’amico nei suoi confronti e, nello stesso tempo, manifesta il suo animo in una frase di straordinaria intensità: “Tu, che hai l’abitudine di pesare le vicende umane con sagacia e prudenza, forse mi compiangerai per la fortuna che mi è capitata”.

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deporre il fardello dell’impero e non poté farlo. Thomas More, che è ancora nel vigore dell’età, ac-cede invece con onore a quel genere di vita al quale aspira fin dalla giovinezza, libero di consacrarsi ai benefici studi e alla pietà, stando in mezzo ai familiari che ama come nessun altro. Sulla riva del Tamigi, non lontano da Londra, egli ha fatto costruire una casa di campagna non misera e neppure tale da suscitare invidia: una casa in cui, tuttavia, ci si trova a proprio agio. Là egli vive attorniato dai suoi cari: la moglie, il figlio, la nuora, tre figlie e altrettanti generi, a cui finora si sono aggiunti già undici nipoti. Cristo gli ha dato [la gioia] di vedere i figli dei suoi figli, ed egli vedrà quanti da essi verranno alla luce97. In effetti, essendo nel fiore dell’età, promettono tutti una numerosa posteri-tà. More stesso potrebbe ancora avere numerosi figli, ma la consorte da parecchio tempo non è più in grado di averne; egli l’ha sposata quand’era vedova e da essa non ha avuto discendenti. Dalla prima moglie sono stati messi al mondo tutti i figli che ha e altri che sono morti. More vide morire la moglie Joan ancora giovane, ma egli ama [ugualmente] la seconda moglie, benché sterile e anzia-na; ha per lei ogni attenzione, quasi fosse una giovinetta di quindici anni. Non è che ignori la diffe-renza che passa tra una donna anziana e una giovane, ma la pietà e la saggezza gli fanno amare tutto ciò che entra a far parte della sua vita. Nessuno, poi, ama i figli come lui. Il suo carattere è tale - o, per meglio dire, la sua pietà e la sua saggezza sono tali - da trovarsi sempre al posto giusto in ogni situazione: quand’anche gli capiti qualcosa a cui non c’è rimedio, egli l’affronta come se nulla di meglio gli potesse toccare. Si potrebbe dire che abbia a casa sua un’altra Accademia di Platone, ma il paragone farebbe torto alla sua famiglia: nell’Accademia, infatti, si discuteva di numeri e figure geometriche e, talora, di virtù morali, mentre la sua casa merita di essere chiamata, più esattamente, “una scuola, un ginnasio di religione cristiana”. Non c’è nessuno lì, uomo o donna, che non sia oc-cupato nelle discipline liberali o in fruttuose letture, anche se il primo posto è riservato alla pietà. Lì non vi sono dispute, non si odono parole insolentemente petulanti; non si vede nessuno starsene in ozio. E non è con la severità, né con i rimproveri che questo grande uomo custodisce l’ordine fami-liare, ma con la dolcezza e l’amabilità. Ciascuno fa quel che deve, ma con ardore, e non senza una sana, misurata allegria98.

Egli ha costruito per sé e per i suoi, nella chiesa del villaggio [di Chelsea], una tomba in cui ha fatto portare i resti della prima moglie, perché non gli piaceva che fossero lontani da lui. Murata nel-la parete, c’è una lapide con un’iscrizione sulla sua carriera e sugl’indirizzi a cui ispirò la sua vita. Un mio famulus99 l’ha esattamente trascritta per me e io qui te ne accludo la copia. Mi accorgo di aver parlato troppo, ma si ama parlare di un amico a un amico100. Ti dirò che piace moltissimo a tut-ti i buoni che tu predichi frequentemente al popolo, comportandoti da vero vescovo. Possa questo tuo esempio suscitare molti imitatori.

Quanto mi scrivi su quello che re Ferdinando va facendo, mi ha arrecato molto piacere. Questi primi anni di regno mi fanno ben sperare che un giorno la fortuna corrisponda ai meriti di questo principe101 assai buono e santo. Sta bene.

97 Virgilio, Eneide III, 98: et nati natorum et qui nascentur ab illis («e i figli dei figli e quanti da essi verranno alla lu-ce»). 98 Nullus ac nulla illic (=apud Morum) est, non vacans liberalibus disciplinis ac frugiferae lectioni, tametsi praecipua primaque pietatis cura est. Nulla illic rixa, nullum petulantius verbum auditur, nemo conspicitur ociosus. Ac tantam familiae disciplinam vir ille non supercilio iurgiisve tuetur, sed comitate ac benevolentia. In officio sunt omnes, sed adest alacritas, nec deest sobria hilaritas (ed. Allen, linee 186-192). 99 Il famulus, figura tipica del XVI secolo, era un po’ discepolo-segretario, un po’ domestico alle dipendenze di una famiglia, di un principe, o di un personaggio importante (F. Bierlaire, La familia d’Érasme, Vrin, Paris 1968). Erasmo qui si riferisce a Quirino Hagius, entrato al suo servizio nella primavera del 1532. In agosto l’umanista lo invia in In-ghilterra “allo scopo di avere un rapporto degno di fiducia sulla situazione lassù” (Ep. 2704). Hagius ritorna dall’Inghilterra verso la fine del 1532 (Ep. 2741), nello stesso periodo in cui Erasmo scrive a Johann Faber. Nel giu-gno del 1533 More invia a Erasmo l’ultima lettera a noi pervenuta, l’Epistola 2831, insieme ai testi dell’Epitaffio e dell’Epigrafe. 100 Video me fuisse loquaciorem, sed fabulari iuvat de amico apud amicum (ed. Allen, linee 197-198). 101 Ferdinando d’Asburgo (1503-1564) era il fratello minore di Carlo V. Poco dopo l’elezione a imperatore, avvenuta nel 1519, Carlo diede a Ferdinando l’investitura a re d’Austria. Gli istituti e gli organismi che Ferdinando creò nello

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Stato austriaco formarono la base su cui sorse la sapiente struttura dell’impero asburgico. Alla morte di Luigi II, re di Boemia e d’Ungheria, Ferdinando fu eletto suo successore sul trono di Boemia, ma dovette contendere l’Ungheria al voivoda di Transilvania, il quale nel 1529 si alleò con Solimano II, aprendo così le porte dell’Europa centrale alla po-tenza turca. Nel 1556, all’atto di abdicare, Carlo V lasciò al figlio Filippo i possedimenti spagnoli e al fratello Ferdi-nando quelli degli Asburgo, ereditati dal padre, designandolo a succedergli nell’impero. Sulle spalle di Ferdinando per oltre tre decenni pesarono compiti assai difficili e scelte drammatiche, ma egli dette sempre prova di alto senso di re-sponsabilità. Fu il principale artefice della pacificazione religiosa - l’unica in quel momento possibile - sottoscritta ad Augusta il 25 settembre 1555. Quel trattato decretò che dovesse regnare “una pace perpetua tra i cattolici e i seguaci della Confessio augustana” sottoscritta nel 1530, cioè i luterani. Fu sancita allora ufficialmente la norma, che più tardi sarà espressa con la formula cuius regio eius religio, secondo la quale i sudditi dovevano uniformarsi alla scelta reli-giosa del sovrano territoriale e ai dissidenti si riconosceva il diritto di emigrare “senza subir danni nell’onore e nella proprietà”. Ma il passo più importante verso la tolleranza religiosa fu la Declaratio ferdinandea che si accompagnò segretamente al trattato: in essa si assicurava che nelle città dell’impero e nei principati ecclesiastici le minoranze già esistenti dell’una o dell’altra confessione dovevano godere di libertà religiosa anche in futuro.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Questo volumetto vuol essere un approccio, il più diretto possibile, a due spiriti eccezionali at-traverso la storia della loro amicizia. In piena sintonia con l’autore delle quattro lettere qui tradotte, ho cercato di mettere a fuoco la straordinaria personalità di Thomas More e di delineare i tratti spe-cifici della sua intuizione cristiana della vita. Le indicazioni bibliografiche si muovono nella stessa direzione.

Le citazioni dall’epistolario di Erasmo, che comprende ben 3183 lettere, e da quello di More ac-compagnano da cima a fondo questo lavoro; si è voluto far parlare sempre i testi dei due amici, i soli in ultima analisi in cui si devono cercare le risposte, o se si vuole le conferme, a qualsiasi ipotesi in-terpretativa. Nell’appendice al capitolo I tempi di Erasmo e di Thomas More-Profilo biografico e cronologia si dà conto anche degli studi di maggior rilievo apparsi tra la fine dell’800 e la fine del ‘900. I. LE OPERE DI ERASMO E MORE - LE TESTIMONIANZE PIÙ ANTICHE SU THOMAS MORE - LE PRIME

BIOGRAFIE - GLI SCRITTI DI MORE TRADOTTI IN ITALIANO a. Le edizioni fondamentali

Desiderii Erasmi Roterodami Opera omnia in decem tomos distincta, ed. J. Lecler, Leiden 1703-1706, voll. 10. Ristampa anastatica, Hildesheim 1962.

Opus epistolarum Desiderii Erasmi Roterodami, ed. Percy Stafford Allen, in collaborazione con la signora Helen Allen e altri, Clarendon Press, Oxford-London 1906-1947, voll. 11. Il volume degli Indices, il 12°, apparve dodici anni dopo, nel 1958. Il testo latino dell’Opus epistolarum è tradotto integralmente in francese e annotato da un’equipe di studiosi belgi sotto la direzione di Aloïs Gerlo: La Correspondance d’Érasme, Presses Accadémiques Européennes e poi University Press Bruxel-les, Bruxelles 1967-1982, voll. 11. Nel 1984 fu pubblicato il volume 12° delle Tables générales, edd. Colette Maton-Sonon e Aloïs Gerlo.

The Complete Works of St. Thomas More, edd. Richard S. Sylvester e Clarence H. Miller, Yale Univer-sity Press, New Haven-London 1963-1994.

The Correspondence of Sir Thomas More, ed. Elizabeth F. Rogers, Princeton University Press, 1947. Ristampa nel 1954.

Sir Thomas More: Neue Briefe, ed. H. Schulte Herbrüggen, Aschendorff, Münster 1966. b. Le testimonianze più antiche

Le testimonianze più antiche sul processo e la morte di More sono tre: 1. la Paris News Letter («Lettera di ragguaglio da Parigi») e la sua traduzione latina, che costituisce la

parte centrale dell’Expositio fidelis de morte D. Thomae Mori et quorundam aliorum insignium vi-rorum in Anglia («Racconto fedele della morte del signor Thomas More e di alcuni altri insigni uo-mini d’Inghilterra»);

2. gli Acta Thomae Mori («Atti di Tommaso Moro»); 3. i Documenti di Stato del regno di Enrico VIII, pubblicati nell’Ottocento.

Col nome Paris News Letter viene indicata la più antica narrazione del processo e, molto più in breve,

dell’esecuzione di More di cui si abbia notizia. Il manoscritto autografo dell’ignoto autore è andato perduto, ma di esso si conoscono otto copie manoscritte in francese. Due traduzioni tedesche della Paris News Letter vennero stampate nel 1535 e una terza nel 1536, ma la traduzione più importante è quella latina. La migliore edizione dell’Expositio è pubbli-cata in appendice alla corrispondenza di Erasmo edita da P. S. Allen. Allo stato attuale delle cose è molto difficile dire chi abbia scritto quel resoconto sui tragici eventi di More. Il Vásquez de Prada avanza l’ipotesi che il testo originale sia la relazione inviata a Carlo V da Eustachio Chapuys, ambasciatore di Spagna in Inghilterra: un documento oggi perduto, ma di cui parla Erasmo nell’Epistola 3056 del 12 settembre 1535. La traduzione latina è quasi certamente di Filippo

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Montano, l’ex segretario di Erasmo da qualche anno docente di greco a Parigi. Egli era in grado di venire subito a cono-scenza della Paris News Letter e provvide a tradurla per il venerato maestro, ansioso di conoscere i particolari della morte dell’amico.

Gli Acta Thomae Mori comprendono il testo, ignorato fin quasi alla metà del Novecento, di un antico resoconto del processo l’Ordo condemnationis Thomae Mori. Pubblicato nel 1947 da Henry De Vocht, presso la Librairie Universitai-re di Lovanio, il documento è preceduto da un ampio studio introduttivo e porta in appendice la parte dell’Expositio fi-delis relativa al processo e all’esecuzione di More

Le raccolte dei documenti di Stato sono due:State Papers of Henry VIII, London 1830-1852, e Letters and Papers, Foreign and Domestie, of the reign of Henry VIII, London 1862-1910. La prima riporta una scelta di documenti nel te-sto integrale; la seconda riproduce l’intera documentazione, ma in compendio.

c. Le prime biografie di More

Le prime vere biografie di More sono quattro: 1. W. Roper, The Life of Sir Thomas More.

Scritta nel 1557, all’incirca, fu pubblicata nel 1626 a Saint Omer, nelle Fiandre. L’edizione critica è uscita nel 1935 dall’Oxford University Press. Traduzioni italiane: Vita di Sir Thomas More, a cura di M. Bertagnoni e L. Di Schio, Morcelliana, Brescia 1963; Vita di Tommaso Moro, a cura di J. Cinquino, D’Andria, Napoli 1968.

2. N. HARPSFIELD, The Life and Death of Sir Thomas More. Scritta nel 1557, all’incirca, fu pubblicata a puntate su un bollettino parrocchiale solo nel 1913-1914. L’edizione critica, a cura di E. V. Hitchcock e R. W. Chambers, è uscita dall’Oxford University Press nel 1932; la ristampa è del 1963. Il volume contiene in appendice «The Rastell fragments» e «The Paris News Letter». William Rastell (1508-1565), figlio di una sorella di More e suo editore quando lo zio era in vita, aveva scritto su di lui una biografia assai ampia, della qua-le sono rimasti solo dei frammenti.

3. TH. STAPLETON, Tres Thomae. Fu pubblicata nel 1588 nei Paesi Bassi, a Donai. È stata tradotta in inglese col titolo The Life and Illustrious Martyrdom of Sir Thomas More, Burns, Oates and Washbourne, London 1932. Ripubblicata nel 1966 a cura di E. E. Reynolds.

4. RO. BA., The Life of Sir Thomas More, Sometimes Lord Chancellor in England. Composta nel 1599 e diffusa clandestinamente, rimase a lungo inedita. La prima edizione è quella critica, pubblicata dall’Oxford University Press nel 1950 e ristampata nel 1957. Non è stato possibile finora individuare l’autore, anche se le iniziali sembrano indicare che “Ro.” stia per Robert e “Ba.” per Basset, pronipote di More.

Il giudizio sulle prime biografie è concorde: essenziale e penetrante, ricca di pathos e di precisi riferimenti quella di Roper, che era vissuto sedici anni in casa More; Harpsfield utilizza certamente la testimonianza di Margaret Giggs, fi-glia adottiva di More, e gli appunti di Roper, ma è scrittore professorale di opaca limitatezza; Stapleton, che era nato nell’anno della decapitazione di More, trova una fonte di informazioni di prima mano nei manoscritti di John Harris, se-gretario e amico di More, e in sua moglie Dorothy Colley, damigella di Margaret Roper; Ro. Ba. è scrittore autentico che sa inquadrare magistralmente tradizioni e documenti.

Gli autori di queste biografie fanno circolare clandestinamente i loro scritti e vivono in una condizione di pericolo a causa della loro fede. Harpsfield, ad esempio, fu in carcere per sedici anni. Ai loro occhi il “cristianesimo critico” di E-rasmo doveva apparire qualcosa di inopportuno e pericoloso per quei tempi difficili; di qui il loro tentativo di separare More da Erasmo. Obbligati ad ammettere che More era l’amico prediletto di Erasmo, vogliono che almeno non lo sia stato sino alla fine. Intorno al 1520, questo è il loro pensiero, More pregò Erasmo di correggere le sue opere, dal mo-mento che la tempesta protestante ne stravolgeva il significato; Erasmo non lo fece e fu una disgrazia per la posterità, che si vide costretta a purgarle o a rigettarle completamente.

d. Gli scritti di More tradotti in italiano

Lettere dalla prigionia, a cura di M. Teresa Pintacuda Pieraccini, Boringhieri, Torino 19652. Venti lettere, a cura di A. Castelli, Edizioni Studium, Roma 1966. Lettere, a cura di B. Fortunato, Morcelliana, Brescia 19902. Tutti gli epigrammi [testo latino a fronte]. Prima versione italiana integrale di L. Firpo e L. Paglialun-

ga, commento di Clarence H. Miller e prefazione di G. Marc’hadour. San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994.

Il dialogo del conforto nelle tribolazioni, a cura di A. Castelli, Studium, Roma 1970. Le quattro cose ultime, trad. dall’inglese e commento di V. Gabrieli in «La Cultura» 1977, n.4. Nell’Orto degli Ulivi. «Expositio Passionis Domini», a cura di M. Bertagnoni, Ares, Milano 1983. Preghiere della Torre, a cura di M. Bertagnoni, Morcelliana, Brescia 19802.

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Utopia. Tra le numerose traduzioni del testo più celebre di More segnaliamo quella di T. Fiore, Later-za, Bari 1942; la ristampa, Roma-Bari 1990, è preceduta da un saggio di M. Isnardi Parenti. Di L. Firpo abbiamo un’edizione presso l’Utet, Torino 1971, e una presso Guida, Napoli 1979, ristampata nel 1990. G. Zuanazzi ha curato un’edizione ampiamente commentata presso La Scuola, Brescia 1998.

II. STUDI SUL RAPPORTO ERASMO-MORE E SULLE EPP. 999, 1117, 1233, 2750 DI ERASMO - LA

PERSONALITÀ E IL RUOLO STORICO DI MORE Érasme de Rotterdam et Thomas More, Correspondance, edd. R. Galibois e G. Marc’hadour, Vrin, Sherbrooke et Paris 1985. Comprende le 50 lettere scambiate tra i due amici dal 1499 al 1533. Correspondance d’Érasme et de Guillaume Budé, ed. M. M. de La Garanderie, Vrin, Paris 1967. Un interessante parallelo tra Erasmo e Budé è svolto, dando la preferenza al secondo, da Christophe de Longueil in una lettera del 29 gennaio 1519 al vescovo di Orléans Jacques Lucas. Erasmo la pubbli-cò, di sua iniziativa, nella raccolta epistolare Farrago nova epistolarum, uscita nell’ottobre dello stesso anno, e scrisse a De Longueil per complimentarsi con lui (Epp. 914 e 935).

M. M. DE LA GARANDERIE, Les relations d’Érasme avec Paris 1516-1521, in «Scrinium Erasmianum», Vol. 1°, E. I. Brill, Leiden 1969.

Un érasmien français: Germain de Brie, in «Colloquia erasmiana turonensia», Vol. 1°, Vrin, Paris 1972.

P. MESNARD, Érasme et Budé, in «Bulletin de l’Ass. G. Budé», Paris 1963. Qui était Guillaume Budé? in «Bull. de l’Association G. Budé», Paris 1967. M. BATAILLON , Budé «fondateur» du Collège de France, in «Moreana», nn. 19-20, 1968. A. STEGMANN, Érasme et la France 1495-1520, in «Colloquium Erasmianum», Mons 1968.

* B. FABER, Malleus in haeresim lutheranam («Il maglio contro l’eresia luterana»), 1524; in «Corpus

Catholicorum», ed. Anton Naegele, voll. 2, Aschendorff, Münster in Westfalen 1941-1952. Ulrichi Hutteni Equitis Germani opera omnia, ed. Edward Boecking, 7 voll., Teubner-Leipzig 1855

sgg. Il dossier della polemica tra Erasmo e Hutten - contenente il testo dell’Expostulatio di Hutten e la Spongia di Erasmo - fu pubblicato nel 1825, nel 5° volume di un’altra opera omnia: Deutschen Ritters Ulrich von Hutten Sümmtliche Werke, Münch-Berlin-Reimer, 1821-1825.

W. KAEGI, Hutten und Erasmus. Ihre Freundschaft und ihr Streit, «Historische Vierteljahrschrift» 1924-1925, n. 22, pp. 200-278 e 461-514.

D. CANTIMORI, Ulrich von Hutten e i rapporti tra Rinascimento e Riforma, Pisa 1930. L. QUATTROCCHI, Ulrich von Hutten e l’Umanesimo tedesco, Roma 1963.

* Due sono le raccolte più ampie, benché incomplete, degli scritti di John Fisher:

Ioannis Fischerii opera omnia, Wurtzbourg 1597. Ristampa anastatica Farnborough 1967. Questa edizione contiene l’Assertio septem sacramentorum di Enrico VIII, la lettera di Lutero e la risposta del re; dà la traduzione latina di parecchie opere scritte in inglese e omette alcuni scritti latini.

The English Works of John Fisher, coll. Early English Text Society, Londra 1876. Riedizione nel 1535. Erasmus and Fisher, theier Correspondence. Biographie, bibliographie, texte latin, trad. angl. et notes.

Ed. J. Rouschausse, Paris 1968. I testi di Fisher più conosciuti sono:

Treatise concernynge the fruytfull sayngs of David, 1506 e più volte ristampato; tradotto anche in latino.

De necessitate orandi, in latino, pubblicato postumo a Douai nel 1576 e poi in più versioni inglesi. Psalmi seu precationes. Nel periodo 1544-1650 ebbe una quarantina di edizioni. A spiritual Consolation e The Wayes to perfect Reliigon. Questi due scritti sono dedicati alla “sorella

Elisabetta”, figlia di seconde nozze della madre Agnese e suora domenicana.

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In Saint John Fisher (coll. “Les écrits de Saints”, Éd. Du Soleil Levante, Namur 1964) J. Rouschausse ha tradotto in francese e commentato estratti del Sermone sul Salmo 102, il trattato De necessitate orandi e A spiritual Consolation.

* D. NISARD, Études sur la Renaissance. Renaissance et Réforme. Érasme, Morus, Mélanchton, Lévy,

Paris 1855; 18773. K. G. CHESTERTON, Tommaso Moro. L’articolo del 1928 è ripubblicato in «Perché sono cattolico»,

Gribaudi Editore, Milano 19952. R. G. VILLOSLADA , Tomas More en las Epistolas de Erasmo, in «Razón y Fe», Madrid (tomo 109,

1935, pp. 303-324; tomo 110, 1936, pp. 328-352; tomo 111, 1936, pp. 168-187; tomo 112, 1936, pp. 386-405).

R. W. CHAMBERS, Thomas More, J. Cape, London 1935. Trad. it. «Tommaso Moro», Rizzoli, Milano 1965. Opera di storia autentica. L’autore è anglicano.

The Place of St. Thomas More in English literature and History, Being a revision of a lecture delivered to the Thomas More Society, Haskell House, New Yorck 1964.

P. MESNARD, L’essor de la Philosophie politique au XVIe siècle, Paris, Vrin 1935, 19695; trad. it. 2 voll., Laterza, Bari 1963-64.

D. SARGENT, Thomas More, Sheed Ward, London 1936. Trad. it. Morcelliana, Brescia 1940; 19783. G. DE LUCA, Tommaso Moro beato martire, in «Nuova Antologia», 1° giugno 1935. Riprodotto nel

volume «Scritti su richiesta», Morcelliana, Brescia 1944. Il nostro san Tommaso, prefazione al «Tommaso Moro» di D. Sargent.

M. DELCOURT, Érasme e Thomas More. Histoire d’une amitie, nel volume «Érasme», Éditions Libris, Bruxelles 1944; Éditions Labor, Bruxelles 19862.

J. K. SOWARDS, Thomas More and the Friendship of Erasmus 1499-1517. A Study in Northern Hu-manism, University of Michigan Press, Ann Arbor 1952.

On Education: More’s Debt to Erasmus, in «Thomas More Gazette», Moreanum, Angers 1989. J. H. HEXTER, More’s Utopia. The Biography of an Idea, Princeton University Press, 1952; trad. it.

Guida, Napoli 1975. J. LECLER, Histoire de la tolérance au siècle de la Réforme, Éditions Aubier, Paris 1955, voll. 2. Trad.

it. Morcelliana, Brescia 1967. L. FEBVRE, Au coeur religieux du XVIe siècle, Paris 1957.

R. PINEAS, Erasmus and More - Some contrasting theological opinions, in «Renaissance News», New Yorck 1960, n. 13, pp. 298-300.

E. E. REYNOLDS, Saint John Fisher, London 1955. La seconda edizione del 1972 è notevolmente mi-gliorata. Margaret Roper, London 1960.

The Trial of St. Thomas More, London 1964. Trad. it. «Il processo di Tommaso Moro», Salerno Editri-ce, Roma 1986.

Thomas More and Erasmus, London 1965. The Field is Won. The Life and Death of Saint Thomas More, London 1968. Tutti gli scritti moreani di

Ernest Edwin Reynolds sono pubblicate dall’editrice Burns and Oates. G. MARC’HADOUR, Thomas More vu par Érasme, in «Saint Thomas More», Éditions du Soleil Levant,

Namur 1962. Il volume comprende i testi integrali, tradotti in francese, dell’Epistola 999 di Erasmo e due scritti di More: la Lettera a Martin Dorp e La supplica delle anime.

L’Univers de Thomas More. Chronologie critique de More, Érasme et leur époque (1499-1536), Vrin, Paris 1963.

Thomas More et la Bible. La place des Livres saints dans son apologétique et sa spiritualité, Vrin, Paris 1969.

The Bible in the Works of Thomas More, B. de Graaf, Nieuwkoop 1969-1972, voll. 5. Thomas More ou la sage folie, Paris, Éditions Seghers, Paris 1971.

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Érame et John Colet, in «Colloquia Erasmiana Turonensia», Vrin, Paris 1972, pp. 760-769. Érasme et John Fisher, in «Colloquia Erasmiana Turonensia», ed. cit., pp. 771-780. L’Humour de Saint Thomas More, in «Carmel» 1989, n. 4, pp. 26-38. Thomas More, voce del «Dictionnaire de Spiritualité», tomo 15, Beauchesne, Paris 1990, coll. 849-

865. Thomas More. Un homme pour toutes les saisons, Éditions Ouvrières, Paris 1992. Thomas More. Il personaggio e lo scrittore, prefazione all’edizione italiana di «Tutti gli epigrammi»,

ed. cit. 1994, pp. 9-22. A. VÁSQUEZ DE PRADA, Sir Tomas Moro, Rialp, Madrid 1962; 19895.

E. SURTZ, The Works and Days of John Fisher, Cambridge,Mass. 1967. M. BERTAGNONI, Religione e politica in Tommaso Moro, in «Studi Cattolici» 1968, n. 6. V. GABRIELI, Giovanni Pico und Thomas More, in «La Cultura» 1968, n. 6. M. NÉDONCELLE, L’humour d’Érasme et l’humour de Thomas More, in «Scrinium Erasmianum», Brill,

Leiden 1969. A. PREVOST, Thomas More et la crise de la pensée europeenne, Mame, Tours 1969. C. R. THOMPSON, Erasmus, More and the conjuration of spirits, in «Moreana» 1969, n. 24, pp. 45-50.

Y. REMY, Le portrait de Thomas More par Érasme, in «Hommages à Marie Delcourt», Latomus, Bruxelles 1970, pp. 307-316.

J. ROUSCHAUSSE, John Fisher - Sa vie, son ouvre, Moreanum et Nieuw-Koop, De Graaf 1972. S. John Fisher, voce nel «Dictionnaire de Spiritualité», tomo 8, coll. 512-516, Beauchesne, Paris 1972. B. BYRON, Loyalty in the Spirituality of Thomas More, Nieuwkoop, De Graaf 1972. R. S. SYLVESTER (a cura di), St. Thomas More: Action and Contemplation, Yale University Press,

1972. Comprende quattro relazioni. R. S. SYLVESTER-G. MARC’HADOUR (a cura di), Essential Articles for the Study of Thomas More, Arc-

hon Books, Hamden 1977. A. GERLO, Érasme et ses portraitistes: Metsys Dürer, Holbein, B. de Graaf, Nieuwkoop 1969. A. GERLO (a cura di), Thomas More 1477-1977. Colloque intern. tenu en nov. 1977, Bruxelles 1980. L. CAMPBELL - M. MANN PHILLIPS - H. SCHULTE HERBRÜGGEN - J. B. TRAPP, Quentin Metsys, Deside-

rius Erasmus, Pieter Gilles and Thomas More, in «Burlington Magazine», novembre 1978. A. J. GUY, The Public career of Sir Thomas More, The Harvester Press, London 1980. M. BERTAGNONI-A. C. GRAMPA-A. PAREDI (a cura di), Idea di Thomas More, Neri Pozza, Vicenza

1978. J. DUNCAN - J. D. M. DERRET, Saint Thomas More as a martyr, in «Downside Rewiew», luglio 1983,

pp. 187 e sgg. J. P. MOREAU, Rome ou l’Angleterre? Les réactions politiques des catholiques anglais au moment du

schisme (1529-1533), Presses Universitaires de France, Paris 1984. L. BOUYER, Sir Thomas More humaniste et martyr, Éditions C.L.D., Chambray-lès-Tours 1984. Trad.

it. Jaca Book, Milano 19942. A. PAREDI, Vita di Tommaso Moro, Edizioni O. R., Milano 1987.

H. TREVOR-ROPER, Tommaso Moro e l’«Utopia», in «Il Rinascimento», trad. it. Laterza, Roma-Bari 1987.

M. CASSA, Dell’antichissima e nuova e immutabile sapienza. Lezioni sulla «Repubblica» di Platone, Agostino, Moro, Campanella e Muratori, Franco Angeli, Milano 1991.

C. QUARTA, Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’«Utopia», Dedalo, Bari 1991. Thomas More, Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1993.

AA. VV., Fortuna dell’Utopia di Thomas More nel dibattito politico europeo del ‘500, Atti della 2a Giornata Luigi Firpo, Olschki, Firenze 1996.

J. K. SOWARDS, On Education: More’s Debt to Erasmus, in «Moreana», n. 100, pp. 103-123, Angers 1989.

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J. B. TRAPP, Erasmus, Colet and More, The early Tudor Humanists and their Brooks, British Library, London 1991.

B. ZUCCHELLI, Un uomo per tutte le stagioni, in «Paideia» 1994, pp. 191-196. P. ACKROYD, The Life of Thomas More, Doubleday Edition, Hardcover 1998. F. BUZZI, Teologia e cultura cristiana tra XV e XVI secolo, Marietti, Genova 2000.

* Nel tempo di Erasmo e di More giocò un ruolo di prim’ordine Lutero. Ecco le indicazioni essen-

ziali sugli scritti del riformatore di Wittenberg. D. Martin Luthers Werke, Kritische Gesamtausgabe, Hermann Böhlaus ed., Weimar, 1883 sgg. Le 95 Tesi, trad. it., presentazione di S. Quinzio, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1984. Contiene

anche: Della libertà del cristiano e Sulla prigionia babilonese della Chiesa, entrambi del 1520. P. RICCA - G. TOURN, Le 95 Tesi di Lutero, Edizioni Claudiana, Torino 1998. La Lettera ai Romani 1515-1516, a cura di F. Buzzi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano)

1991. Scritti religiosi, a cura di V. Vinay, Utet, Torino 19862. Il volume comprende tra l’altro: I sette Salmi

penitenziali del 1517, Le Tesi sull’indulgenza del 1517, La disputa di Heidelberg del 1518, il Com-mento al “Padre Nostro” del 1519, il Commento al “Magnificat” del 1521, Il piccolo catechismo del 1529.

Il servo arbitrio, a cura di F. De Michelis Pintacuda, Ediz. Claudiana, Torino 1995. La stessa editrice ha pubblicato, a cura di R. Jouvenal, in un unico volume Il libero arbitrio di Erasmo e Il servo arbi-trio di Lutero, Torino 19732; seconda ristampa nel 1993.

La Confessione augustana, tradotta e annotata da G. Tourn, Ediz. Claudiana, Torino 1980. Ci sono due scritti di More che prendono direttamente in esame le nuove dottrine: la Responsio

ad Lutherum («Risposta a Lutero»), che è del 1523, e la Responsio ad Pomeranum («Risposta a un signore della Pomerania»), del 1526. Il destinatario di quest’ultimo scritto è un pastore luterano pro-veniente dalla Pomerania, la regione che è attraversata dall’Oder e che si trova tra la Prussia e la Po-lonia. Gli scritti apologetici e di confutazione delle dottrine luterane, soprattutto nella formulazione data ad esse da William Tyndale, occupano sette tomi, dal 5° all’11°, dell’edizione critica The Complete Works of St Thomas More, Yale U. P. Su questo aspetto dell’opera di More:

W. E. CAMPBELL, Erasmus, Tyndale and More, London 1949. G. MARC’HADOUR, Thomas More et la Bible, Vrin, Paris 1963, pp. 237-286. William Tyndale entre Érasme et Luther, in «Actes du Colloque international Érasme - Tours 1986»,

Librairie Droz, Genéve 1990, pp. 191-197. A. M. O’DONNEL ed., Tyndale special - Biblical Interpretation in the Age of Thomas More, «Moreana»

nn. 106-107, Angers 1991.

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INDICE DEI NOMI ACHILLE Ackroyd Peter Adriano VI, papa (Adriano di Utrecht) Agostino d’Ippona, santo Agrippina, madre di Nerone Alberto di Brandeburgo Alberto Pio di Carpi Alcibiade Aleandro Gerolamo Alessandro Magno Alessandro VI, papa (Rodrigo Borgia) Alington Luisa (=Aloysia=Alice), figlia di

Luisa Middleton Alington Giles Allen Helen Allen Stafford Percy Anna di Bretagna Anne di Cleves Anouilh Jean Apelle Aristotele Arturo, fratello di Enrico VIII Aske Robert Atanasio Audley Thomas BAINTON ROLAND Bataillon Marcel Beato Renano Beaudelaire Charles Beckett Thomas, santo Beda Noël Ber Louis Bérault Nicolas Bertagnoni Marialisa Bessarione Giovanni Bierlaire Franz Blount William, vedi Mountjoy Boerio Giovanni Battista Boezio Severino Böhlaus Hermann Boleyn Anne Bolt Robert Bonvisi Antonio Bora Katharina (von) Bremond Henri Bridget Thomas E. Budé Guillaume Bussleyden Gerolamo Buzzi Franco CALVINO (JEAN CALVIN ) Camillo Marco Furio Campbell Lorne Campbell William E. Campeggio Lorenzo Cantimori Delio Elizabeth, primo amore di Thomas More

Carafa Gian Pietro Charlier Yvonne Carlo di Gand, vedi Carlo V Carlo V, imperatore Cassa Mario Cassiodoro Flavio Castelli Alberto Caterina d’Aragona Cavendish George Chambers Raymond Wilson Chapuis Eustachio Chesterton K. Gilbert Cetrangolo Enzio Cicerone Cinquino Joseph Cipriano, santo Clement John Clement Margaret, vedi Giggs Margaret Clemente VII, papa (Giulio de’ Medici) Clerk John Colet John Colley Dorothy Colt Joan o Jane, prima moglie di Thomas

More [Joanna in latino] Contarini Gaspare Cop Wilhelm Copernico Nicolò Cranmer Thomas Cristoforo Colombo Critone Cromwell Thomas DAUNCEY WILLIAM De Brie Germain De Luca Giuseppe Delcourt Marie De La Garanderie Marie-Madeleine Della Mirandola Gianfrancesco, nipote di

Pico Deloynes François Demetra De Michelis Pintacuda Fiorella Democrito De Vocht Henry Di Schio Loredana Dorp Martin Drews, master in casa More Dürer Albrecht ECK JOHANN Ecolampadio Johannes, pseudonimo di J.

Husschin Edoardo VI, re (figlio e successore di En-

rico VIII) Elisabetta I, regina (figlia di Enrico VIII e

di Anne Boleyn) Hutten Ulrich (von) Hyrde Richard

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Elton Geoffrey Enrico VI Enrico VII Enrico VIII Erasmo da Rotterdam Esiodo FABER JOHANN, pseudonimo di Johann

Heigerlin Federico il Saggio, principe di Sassonia Ferdinando II d’Aragona, re di Spagna Ferdinando I d’Asburgo, re e dal 1556

imperatore Febvre Lucien Ficino Marsilio Filippo il Bello, figlio dell’imperatore

Massimiliano d’Asburgo Filippo di Borgogna Filippo Neri, santo Fiore Tommaso Fisher John Fisher Robert Focione Fortunato Bruno Francesco I, re di Francia Froben, editori Fugger, banchieri GALENO Galibois Roland Gellio Aulo Gerlo Aloïs Gerolamo, santo Giggs Margaret, figlia adottiva di Thomas

More - vedi Clement Margaret Gilles Pietro Giovanna d’Aragona, detta la Pazza dopo

il 1506 Giulio II, papa (Giulio della Rovere) Granger Agnes, madre di Thomas More Grampa Cesare Grocyn William Guy A. John Gunnell William Gutenberg Johann HAGIUS QUIRINO Harpsfield Nicholas Harris John Heigerlin Johann, vedi Faber Herbrügger H. Schulte Heron Giles Hexter H. Jack Hitchcock Elsie V. Holbein Hans il Giovane Howard Catherine Howard Thomas, vedi duca di Norfolk More John senior, padre di Thomas More John junior, figlio di Thomas More Margaret, figlia di Thomas e moglie

ISABELLA DI CASTIGLIA Isnardi Parente Maria Itlodeo Raffaele JUVENAL ROBERTO KAEGI WERNER LASCARIS GIOVANNI Latimer William Latomus, o Jacques Masson Laurino di Bruges Lecler Jean Lecler Joseph Leder Lee Edward Lee Joyce Lefebvre d’Étaples Jacques, noto come

Jacobus Faber Stapulensis Leonardo da Vinci Leone X, papa (Giovanni de’ Medici) Leone XIII, papa (Gioacchino Pecci) Le Sauvage Jean Lewis Clive Staples Linacre Thomas Longueil Christophe (de) Lorenzo dei Medici, detto il Magnifico Luciano di Samosata Lucrezio Luigi II, re d’Ungheria Luisa di Savoia, madre di Francesco I Lutero Martin MACHIAVELLI NICCOLÒ Magellano Mann Phillips Margaret Marc’hadour Germain Maria Tudor la Cattolica, regina Marziale Marco Valerio Massimiliano I d’Asburgo, imperatore Maton-Sonon Colette Matteo, evangelista Melantone, Philipp Schwarzerd (detto) Mesnard Pierre Metsys Quentin Michelangelo Mida, re Middleton Luisa, seconda moglie di Tho-

mas More Middleton Luisa Junior, vedi Alington

Luisa Miller H. Clarence Montano Filippo More Cecily, figlia di Thomas e moglie di

Giles Heron More Elizabeth, figlia di Thomas e moglie

di William Dauncey Riccardo Gloucester, re Riccardo III Ro. Ba., pseudonimo di un biografo di

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di William Roper More Thomas Moreau Jean-Pierre Morton John Mountjoy, William Blount (lord di) NÉDONCELLE MAURICE Nerone Newman John Henry Nisard Désiré Norfolk, Thomas Howard (duca di) O’CONNELL DANIEL O’Donnell Anne M. Olivelli Teresio Omero Orazio Origene Ovidio PACE RICHARD Paglialunga Luciano Paolo, apostolo Paolo III, papa (Alessandro Farnese) Paolo IV, papa (Gian Pietro Carafa) Paolo Emilio, umanista Paredi Angelo Parr Catherine Pascoli Giovanni Peel Robert Pelagio Pellico Silvio Perugino, Pietro Vannucci (detto il) Pietro, apostolo Pineas Rainer Pio XI, papa (Achille Ratti) Pirenne Henri Pitagora Platone Plinio il Vecchio Plutarco Pole Reginald Prévost André Prudenzio QUARTA COSIMO Quattrocchi Luigi Quinzio Sergio RABELAIS FRANÇOIS Raffaello Sanzio Rastell William Remy Yvonne Renaudet Augustin Reuchlin Johann Reynolds Ernest Edwin Ricca Paolo

More non identificato Rogers F. Elizabeth

Roper Margaret [Meg], vedi More Margaret Roper William Rouschausse Jean Ruell Jean Rutuba Ruzé Louis SADOLETO JACOPO Savonarola Girolamo Scipione l’Africano Schulte Herbrüggen Hubertus Seneca Seymour Joan Shakespeare William Sickingen Franz (von) Socrate Solimano il Magnifico Sowards Jesse Kelley Spalatino Giorgio, pseudonimo di Georg

Burckhardt Stapleton Thomas Stegmann André Stokesley John Stromer Heinrich Stunica Giacomo Lopez, pseudonimo di

Zuniga Surtz Edward Sylvester Richard S. TALEO CIPRIANO Teodorico il Grande, re Teresa d’Avila, santa Tetzel Johann Tito Livio Tiziano Vecellio Tomiezchi Pietro Torquato Tito Manlio Tourn Giorgio Trapp J. B. Trittolemo Tunstall Cuthbert Tyndale William VALERIO MASSIMO Valla Lorenzo Vásquez de Prada Andrés Vergara Juan Villoslada Garcìa Ricardo Vinay Valdo Virgilio Vives Juan Louis Volz Paul XIMENES FRANCISCO DE CISNEROS

WARHAM WILLIAM Wellington Arthur Wellesley Whitford Richard

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Whittinton Robert Wolsey Thomas ZINNEMANN FRED Zuanazzi Giovanni Zucchelli Bruno Zwingli Ulrich

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INDICE GENERALE

Premessa BREVE STORIA DI UN’AMICIZIA

1. I tre soggiorni di Erasmo in Inghilterra 2. Quel magico 1516 - La riforma umanistica della politica 3. I reciproci doni 4. Tre ritratti di More: per von Hutten, De Brie e Budé 5. Gli anni della disillusione e la fine dell’unità religiosa a. More apologista b. Che cosa significò per Erasmo la “tragedia luterana” c. Strategie diverse e convergenze profonde 6. More Lord Cancelliere e il suo ritiro

7. Le ultime due lettere di More a Erasmo 8. Processo e morte di More LE QUATTRO LETTERE DI ERASMO SU THOMAS MORE

Lettera 999. Erasmo da Rotterdam all’illustrissimo cavaliere Hulrich von Hutten Lettera 1117. Erasmo da Rotterdam al suo caro Germain de Brie Lettera 1233. Erasmo al suo Guillaume Budé Lettera 2750. Erasmo da Rotterdam a Johann Faber, vescovo di Vienna I TEMPI DI ERASMO E DI THOMAS MORE (Profilo biografico e cronologia) 1. La nascita di una grande amicizia (1449-1514) 2. Un triennio di straordinaria fecondità (1515-1517)

3. In difesa dell’umanesimo e del rinnovamento religioso - Tre ritratti di More (1518-1523)

4. Il confronto con Lutero e le grandi polemiche - L’ascesa politica di More, ministro del re (1524-1529)

5. More, Lord Cancelliere (1529, 25 ottobre - 1532, 16 maggio) e il ritiro a vita privata (1532, 16 maggio - 1534, 16 aprile)

6. La prigionia nella Torre di Londra, il processo e la decapitazione (1534, 17 aprile - 1535, 6 luglio)

7. L’epilogo Appendice Il mutamento di clima a partire da Newman e la riscoperta di More nel XX secolo Nota bibliografica

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I. Le opere di Erasmo e More - Le testimonianze più antiche su Thomas More - Le prime biografie -

Gli scritti di More tradotti in italiano II. Gli studi sul rapporto Erasmo-More e sulle Epp. 999, 1117, 1233, 2750 di Erasmo - La personalità e

il ruolo storico di More Indice dei nomi Indice generale