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ENRICO BERTI -In principio era la meraviglia Prologo «In principio era il Logos», recita l’incipit del Vangelo di Giovanni, che i cristiani hanno interpretato come «In principio era il Verbo», cioè «la Parola». «... e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio», prosegue Giovanni, indicando con chiarezza di quale «Parola» si tratti. Per i cristiani, infatti, il principio è costituito da Dio inteso come Parola che crea ogni cosa, ma anche dalla parola stessa di Dio, cioè dalla rivelazione con cui Egli si è manifestato agli uomini. Quest’ultimo significato vale per tutte le religioni, almeno per quelle monoteistiche. Per gli antichi Greci le cose non sono andate così. Come tutti i popoli della terra, anche i Greci avevano una religione, ma alla base di essa non c’era alcuna rivelazione, non c’era alcun libro, non c’era nulla che dicesse che cosa c’era «in principio». Essi avevano i poemi di Omero, l’Iliade e l’Odissea, che parlano degli dèi, e i poemi di Esiodo, specialmente la Teogonia, che trattano della loro genealogia; ma non li consideravano libri rivelati, opera degli dèi, bensì li ritenevano opera dei poeti, dei «teologi», a cui si poteva credere, se la propria città lo esigeva, o anche non credere. All’inizio della Metafisica, Aristotele dichiara che «tutti gli uomini (ossia uomini e donne, Greci e barbari, liberi e schiavi) per natura tendono al sapere» 1 . Poco oltre, egli precisa che «gli uomini, sia ora sia in principio, cominciarono a

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ENRICO BERTI -In principio era la meraviglia

Prologo

«In principio era il Logos», recita l’incipit del Vangelo di Giovanni, che i cristiani hanno interpretato come «In principio era il Verbo», cioè «la Parola». «... e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio», prosegue Giovanni, indicando con chiarezza di quale «Parola» si tratti. Per i cristiani, infatti, il principio è costituito da Dio inteso come Parola che crea ogni cosa, ma anche dalla parola stessa di Dio, cioè dalla rivelazione con cui Egli si è manifestato agli uomini. Quest’ultimo significato vale per tutte le religioni, almeno per quelle monoteistiche.

Per gli antichi Greci le cose non sono andate così. Come tutti i popoli della terra, anche i Greci avevano una religione, ma alla base di essa non c’era alcuna rivelazione, non c’era alcun libro, non c’era nulla che dicesse che cosa c’era «in principio». Essi avevano i poemi di Omero, l’Iliade e l’Odissea, che parlano degli dèi, e i poemi di Esiodo, specialmente la Teogonia, che trattano della loro genealogia; ma non li consideravano libri rivelati, opera degli dèi, bensì li ritenevano opera dei poeti, dei «teologi», a cui si poteva credere, se la propria città lo esigeva, o anche non credere.

All’inizio della Metafisica, Aristotele dichiara che «tutti gli uomini (ossia uomini e donne, Greci e barbari, liberi e schiavi) per natura tendono al sapere»1. Poco oltre, egli precisa che «gli uomini, sia ora sia in principio, cominciarono a

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filosofare (philosophein, cioè a cercare il sapere) a causa della meraviglia (dia to thaumazein)»2. Ma già Platone, suo maestro, aveva fatto dire da Socrate a Teeteto: «È proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo, e chi disse che Iride fu generata da Taumante, non sbagliò, mi sembra, nella genealogia»3. Iride, messaggera degli dèi fra gli uomini, qui è identificata con la filosofia, ed è figlia di Taumante, nome che in greco richiama il verbo «meravigliarsi» (thaumazein). Tanto Aristotele quanto Platone, i due massimi filosofi greci, concordano dunque nel riconoscere che il desiderio di sapere ha inizio dalla meraviglia provata di fronte al darsi delle cose del mondo.

Per i greci, tutti gli uomini, anche quelli che credono in una religione, possono fare filosofia, cioè aspirare al sapere; eppure il credente e il filosofo attribuiscono al loro cercare una finalità e un significato differenti. La religione nasce - come disse Max Scheler - dal desiderio di salvarsi dalla morte, mentre la filosofia nasce dal desiderio di sapere, e la scienza (la scienza moderna, indissolubilmente legata alla tecnica) nasce dal desiderio di potere, cioè di dominare la natura4. Ma, mentre la religione ha al suo inizio una rivelazione, la quale narra una serie di fatti ed in tal modo indica la via della salvezza, la filosofia ha al suo inizio solo la meraviglia, e tutti gli uomini, in quanto desiderano semplicemente sapere, non dispongono di alcuna rivelazione, ma solo dei sensi e della ragione - ovvero dei mezzi forniti dal-la loro stessa natura - per soddisfare i propri interrogativi.

Abbiamo poc’anzi accennato all’importanza della meraviglia per la ricerca propriamente filosofica. Ma che cos’è la meraviglia e come essa suscita nell’uomo il desiderio di sapere? E ancora una volta Aristotele a fornirci la risposta più esauriente.

“Chi è nell’incertezza e nella meraviglia (ho d’aporón kai thaumazòn) pensa ili essere nell’ignoranza, perciò anche chi ha propensione per il mito (ho philomuthos) è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose; e quindi, se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza (to epistasthai) col puro scopo ili sapere e non per qualche bisogno pratico5”.

La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarsi a questa, cioè di apprendere, di conoscere, di sapere. Il primo tentativo di sfuggire all’ignoranza è il ricorso al mito, cioè alle narrazioni dei poeti, che a loro modo forniscono una risposta alle domande degli uomini. Ma si tratta di una risposta del tutto insufficiente, che non estingue la meraviglia, anzi la accresce, perché non

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esibisce le proprie ragioni, le proprie giustificazioni. Per questo motivo, gli uomini non si accontentano del mito, ma ricercano la «scienza», cioè il sapere (in greco non ci sono parole diverse per indicare la filosofia e la scienza).

Aristotele era convinto che negli uomini fosse presente questo desiderio di sapere fine a se stesso, e che esso si manifestasse una volta soddisfatti tutti gli altri bisogni, legati alla sopravvivenza.

“E ne è testimonianza anche il corso degli eventi, giacché solo quando furono a loro disposizione tutti i mezzi indispensabili alla vita e quelli che procurano benessere e agiatezza, gli uomini incominciarono a darsi ad una tale sorta di indagine. È chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale indagine senza mirare ad alcun bisogno che ad essa sia estraneo, ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non per un altro, così anche consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto esiste di per sé6”.

La meraviglia, dunque, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, cioè della ricerca disinteressata di sapere, libera dai bisogni materiali e anche dal desiderio dell’agiatezza, o del piacere. Essa presuppone la soddisfazione dei bisogni primari, cioè naturali, e dei desideri secondari, cioè indotti. Per questo motivo, la meraviglia non è un sentimento facile da provare, frequente, diffuso, ma è uno stato d’animo raro e prezioso. Essa è l’espressione della vera libertà: libertà dal bisogno e dagli altri desideri.

Non è facile per noi, oggi, capire che cos’è veramente la meraviglia di cui parlano Aristotele e i Greci. Come si può essere, infatti, totalmente liberi dai bisogni e da tutti i desideri, e soltanto aspirare al sapere? Nel mondo occidentale, in cui assai determinante è stato l’influsso della cultura cristiana, la meraviglia viene spesso confusa con l’ammirazione. Ciò è probabilmente dovuto anche al fatto che il verbo greco thaumazein («meravigliarsi») viene reso in latino col verbo admirari, e quindi la meraviglia diventa «ammirazione» (ad esempio, in Tommaso d’Aquino). Ma l’ammirazione è un sentimento di tipo estetico, che si prova quan-do si è di fronte a qualcosa di affascinante, di ammirevole. Per i cristiani, il creato suscita ammirazione in chi si sofferma a contemplarlo, perché è opera di Dio: emblematico, a questo proposito, è l’atteggiamento di san Francesco, che loda il Signore per la bellezza e la bontà di tutte le creature.

Invece la meraviglia di cui parlano Platone ed Aristotele non ha nulla di estetico, è un atteggiamento puramente teoretico, cioè conoscitivo, è semplice desiderio di sapere. Ma di sapere che cosa? Il «perché», ovvero la spiegazione di ciò che ci sta di fronte e di cui non si vede immediatamente la causa. La mera-

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viglia è essenzialmente domanda di una spiegazione, di una ragione: essa nasce dall’esperienza, dall’osservazione di un oggetto, di un evento, o di un’azione, di cui si vuole conoscere il perché, cioè la causa. A questo proposito non bisogna intendere il concetto di causa nel senso moderno di evento che produce un altro evento, ad esso posteriore. Questa è la causa di tipo meccanico, che Aristotele avrebbe chiamato «causa motrice», o «efficiente». Il perché, o la causa nel senso antico, è qualsiasi tipo di spiegazione: ad esempio, se si tratta di spiegare un oggetto, ci si chiede di che cosa è fatto, perché è fatto in un certo modo e non in un altro, chi lo ha fatto, a che cosa serve. Oppure, se si tratta di un evento, ci si chiede perché è accaduto, che cosa lo ha provocato, perché si è presentato in quel modo e non in un altro, quali conseguenze può avere, a quali fini può essere rivolto.

Provare meraviglia significa porsi queste domande. In genere, oggi, chi fa questo è lo scienziato, il quale si pone degli interrogativi molto circoscritti su una determinata classe di fenomeni o di eventi, che costituiscono l’oggetto della sua ricerca. Tuttavia può provare meraviglia anche chiunque di noi, camminando o guardandosi intorno, veda le cose di tutti i giorni sotto una luce nuova. Naturalmente questo accade molto di rado, perché di solito si cammina con degli scopi ben precisi, per andare da qualche parte, per fare una certa cosa, e si dimostra attenzione solo verso le cose che servono ai nostri obiettivi. Eppure qualche volta può capitare di guardare il mondo in modo diverso, di meravigliarsi che le cose stiano in un certo modo. In questi momenti accade, come diceva il mio maestro, di guardare il mondo «con occhi greci», ovvero con gli occhi dei Greci7.

Il titolo di questo volume, In principio era la meraviglia, fa riferimento al «principio della filosofia», cioè al tempo degli antichi Greci, perché la filosofia, come dice la parola stessa (philo- sophia, «amore del sapere», derivata da philein, «amare» e sophia, «sapienza»), l’hanno inventata i Greci. Gli altri popoli antichi, i Cinesi, gli Indiani, i Persiani, gli Egiziani, hanno avuto certamente grandi civiltà, grandi culture, ed anche grandi forme di sapere, o di sapienza, o di saggezza: si pensi a Confucio, o a Buddha. Ma difficilmente queste potrebbero essere considerate «filosofia» nel senso greco del termine, perché non nascono dalla meraviglia, cioè dal puro desiderio di sapere, ma da altri bisogni, desideri, atteggiamenti. Le grandi domande che la filosofia occidentale ha continuato a porsi sono in gran parte quelle formulate per la prima volta dai Greci. Non tutte,

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certo: per esempio i Greci non si sono chiesti quali sono le condizioni a priori del conoscere, o quali leggi regolano la storia, o come scrutare il subconscio dell’uomo, o altre cose del genere. Però le domande che si sono posti, con l’eccezione forse di qualcuna (per esempio: chi sono gli dèi?), sono le stesse con cui la filosofia occidentale ha continuato a confrontarsi nel corso dei secoli.

I Greci tuttavia non hanno soltanto formulato delle domande: essi hanno anche cercato delle risposte. Ancora una volta, a questo proposito, è chiara l’indicazione di Aristotele.

“È indispensabile, comunque, che l’acquisizione della sapienza sollevi, in un certo modo, ad un punto di vista che è contrario a quello in cui noi ci trovavamo all’inizio delle nostre ricerche. Tutti, infatti, come dicevamo, cominciano col provar meraviglia che le cose siano in un determinato modo, come sono soliti comportarsi di fronte alle marionette o ai solstizi o all’incommensurabilità della diagonale. Difatti a tutti quelli che non ne abbiano ancora indagato il motivo sembra un prodigio il fatto che una certa lunghezza non possa essere misurata neppure dall’unità minima. Ma, come avviene nei suddetti casi allorché gli uomini li abbiano compresi, così anche noi dobbiamo approdare, alla fine, ad un punto di vista contrario, che è anche, secondo il proverbio, quello migliore: difatti per un uomo esperto di geometria la maggiore stranezza del mondo sarebbe la commensurabilità della diagonale rispetto al lato8”.

Si comincia, insomma, con la meraviglia, ma non si rimane sempre nella meraviglia. Una volta scoperta la causa che si cercava, non ci si meraviglia più. Gli esempi portati da Aristotele sono significativi: il movimento delle marionette stupisce chi non sa da chi siano mosse, non stupisce più colui che lo scopre; i solstizi, cioè l’arrestarsi della crescita della notte (o del giorno), stupiscono chi non conosce l’astronomia, per cui tutti i popoli hanno fatto del solstizio d’inverno la più grande festa dell’anno (il Natale); l’incommensurabilità della diagonale col lato del quadrato stupì i Pitagorici, che volevano ridurre tutto a misura esatta (tant’è vero che decisero di tenerla segreta e misero a morte quello di loro che la svelò), ma non stupisce la geometria più avanzata.

I Greci non avevano il gusto per la ricerca fine a se stessa: essi cercavano per trovare. Oggi a volte si preferisce concepire la filosofia come pura ricerca, o come ricerca senza fine. Sembra quasi che il cercare sia un atteggiamento nobile, critico, raffinato, che desta simpatia e rispetto, mentre il trovare sia banale, grossolano e dogmatico. In realtà la ricerca è sincera, o autentica, solo se cerca per trovare. Chi cerca per il solo piacere di cercare non cerca veramente, ma finge di cercare. Chi

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invece cerca veramente, con impegno, con determinazione, con passione, lo fa perché gli interessa trovare ciò che cerca. Altrettanto si può dire del domandare. Il domandare autentico è quello che vuole ottenere una risposta. Il domandare fine a se stesso è solo una posa. Perciò i Greci non hanno solo formulato domande, ma hanno cercato anche di dare delle risposte alle loro domande. Nel seguito di questo libro ho cercato di presentare con chiarezza alcuni degli interrogativi che hanno attraversato la storia del pensiero greco e le risposte che ad essi hanno fornito i principali filosofi.

Per esempio alla domanda «qual è l’origine dell’universo?», alcuni filosofi greci hanno risposto che l’universo non ha origine, cioè è sempre esistito, è eterno.

Altri invece hanno risposto che l’universo è stato fabbricato come un’opera d’arte da una materia preesistente, o che è stato creato dal nulla, o che è l’«emanazione» di un principio unico. Alla domanda «che cos’è l’essere?», alcuni filosofi hanno risposto che esso è l’essere immutabile, altri che è l’essere intelligibile, altri che è Dio, o l’Uno, o il Bene, mentre qualcuno ha risposto più modestamente che è un insieme assai variegato di enti individuali, percepibili coi sensi. Alla domanda, tipicamente greca, «chi sono gli dèi?», alcuni hanno risposto indicando gli dèi del mito, che spesso sono stati accolti come dèi della polis, per cui negarli era rischioso per i filosofi; altri hanno indicato gli astri, o certe intelligenze motrici degli astri, oppure li hanno ricondotti ad un unico Dio, scoprendo in tal modo il «Dio dei filosofi».

Alla domanda «che cos’è l’uomo?» alcuni hanno risposto che l’uomo è il suo corpo, altri che l’uomo è la sua anima, mentre altri ancora hanno detto che egli è un’unità indissolubile di anima e corpo.

Alla domanda «perché dici questo?», cioè «su quali argomenti si basa la tua opinione?», alcuni hanno risposto che tutte le opinioni si equivalgono, altri che alcune opinioni sono confutabili, perché si contraddicono, mentre altre resistono alle confutazioni. Sempre riflettendo sulle caratteristiche della parola (logos), alla domanda «che effetto fa la poesia?» alcuni hanno riposto che essa ci fa godere con l’inganno, e quindi va evitata, altri che essa produce il piacere dell’apprendimento, e quindi va coltivata.

Alla domanda su come vivere per essere felici alcuni hanno risposto che bisogna ricercare tutti i piaceri possibili, altri invece che bisogna rinunciare ai piaceri e rendersi impassibili, altri che bisogna esercitare soprattutto l’intelligenza, altri ancora che bisogna sviluppare armonicamente tutte le capacità umane. Alla domanda sul destino dell’uomo dopo la morte, alcuni hanno risposto che l’anima dell’uomo è separabile dal corpo, e quindi immortale, altri invece che è

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inseparabile, e quindi mortale; tra i primi alcuni hanno ammesso la reincarnazione, altri invece no.

Queste sono alcune delle «grandi questioni della filosofia antica», al principio si delle quali c’è la meraviglia, ma che non si arrestano alla meraviglia, bensì cercano di venirne fuori. Il modo in cui i Greci le hanno formulate e hanno cercato di dare delle risposte può essere istruttivo anche per chi fa filosofia oggi. Per questo, infatti, la filosofia greca è considerata «classica». «Classico» significa ciò che vale sempre, ciò che conserva sempre un suo valore, al di là delle mode che cambiano. La filosofia greca è classica perché non invecchia mai e conserva tutta la freschez-za di ciò che è originario. L’intero mondo greco è stato considerato, ad esempio da Hegel, l’espressione della giovinezza dell’umanità. Le figure con cui esso si apre e si chiude sono, secondo Hegel, rispettivamente Achille e Alessandro, eroi en-trambi morti giovani e perciò divenuti emblematici. Nessuno, infatti, potrà mai rappresentarsi un Achille vecchio o un Alessandro vecchio. Altrettanto si deve dire della filosofia greca, da cui hanno direttamente o indirettamente attinto tutte le filosofie successive e da cui continueranno a trarre la linfa vitale le filosofie a venire.