EMOZIONI D'AFRICA Lungo la Valle dell'Omo

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4 - Avventure nel mondo 2 | 2012 ............................................................................. S e intraprendete la lettura di questo racconto nella speranza di trovare indicazioni puntuali del viaggio resterete delusi. È solo una raccolta di pensieri sparsi, impressioni, sensazioni colte durante l’andare, squarci di paesaggi, momenti. La speranza è che la sua lettura possa stimolarvi a partire. Adis è un traffico caotico di vetusti autocarri FIAT che bruciano male il gasolio e si lasciano dietro una scia nerissima di fumo grasso. Non c’è speranza di salvare il mondo dall’inquinamento. Man mano che la strada che porta a sud si lascia alle spalle la capitale il traffico si dirada. Scompare quasi del tutto quello privato. Restano sulla strada asfaltata solo i camion e piccoli pulmini addetti al trasporto pubblico. La vista corre in un bel paesaggio di pianura, ben coltivata e ordinata. Gente in cammino, animali al pascolo, campi arati, orti. La vegetazione spontanea è caratterizzata dalla presenza di alti eucalipti e grandi acacie spinose ad ombrello dalla forma stupenda. Sul molo di Ziway, grandi marabù si contendono i resti del pesce. Sono un po’ inquietanti di aspetto questi strani, sgraziati uccelli, alti come un uomo. Tanto goffi a terra, tanto leggeri e potenti in volo. Arrivano dal centro lago, spesso in coppia, sostenuti dalle grandi, possenti ali, veloci, con pochi battiti d’ala i pellicani bianchi. Planano sulle sponde del lago Awasa, tra marabù, garzette, aironi, cavalieri d’Italia. Una penisola sulla destra è coperta da un bel manto erboso e da alcuni grandissimi alberi sulle cui fronde trovano riposo molti volatili. Mi piacerebbe andarci, sedermi all’ombra dei grandi rami, stare ad osservare e ascoltare la vita del grande lago, osservare il lavoro dei pescatori, l’andirivieni della gente….. Procedendo verso sud l’Etiopia diventa sempre più Africa, quell’Africa topica e immaginaria fatta di grandi spazi vuoti, di bush, di savana, costellata di acacie ad ombrello, dominata dal colore beige. Immersi nell’acqua micidiale che brucia la pelle, rovina gli occhi, le orecchie, lima la speranza di vita, già così breve in Etiopia uomini cavano un fango salmastro dalle acque nere del lago sul fondo della caldera del vulcano El Sod. Durissima esistenza. L’ambiente naturale, la fatica del lavoro lasciano un ricordo indelebile e forte che stimola alla riflessione. Un funerale ingorga le strade d’un minuscolo villaggio; uomini e donne accompagnano un feretro portato a spalle, la bara avvolta in un drappo bianco. Quasi tutti indossano vesti o scialli bianchi. Ma non mancano specie tra le donne tocchi di colore intenso quali il rosso, il giallo, l’arancio. Una processione silenziosa e composta. È giorno di mercato. Lo spettacolo è fantastico; spiccano tra i mille colori le gonne a righe verticali rosse e gialle delle donne di etnia Konso. È quasi il tramonto e molte donne si affardellano sulle spalle immensi carichi e ripartono verso casa, verso remoti villaggi. Camminano piegate in avanti, facendo poggiare il peso del carico sulle vertebre lombari. Tremenda fatica per minuscoli guadagni. Una vita estremamente semplice quella che vedo, fatta di antichi gesti iterati, di azioni quotidiane volte a preparare il cibo, andare a prendere l’acqua, accudire i figli, lavorare con antichi metodi i prodotti agricoli, portare gli armenti al pascolo. Gente che vive di poco, di essenziale, come sarebbe moralmente corretto che tutti al mondo facessero. Il cavallo, l’asinello, rappresentano la ricchezza e alleviano la fatica quotidiana del lavoro, del viaggio. Questa vita mi pare bucolica, dolce; è nostalgia, poesia, dolcezza di medioevo. Viverne la quotidianità credo sia molto differente. Ancora la strada corre tra rilievi con continui saliscendi e curve e poi si affaccia su una vastissima pianura: è l’inizio della valle dell’Omo. Rapidamente perdiamo quota lasciando l’altopiano e acquistiamo in temperatura: il caldo aumenta subito di un grado o due e l’aria si fa più “pesante”, il paesaggio più piatto. La pianura che attraversiamo è tutta un coltivo di cotone. Tra il verde dei bassi cespugli della pianta del cotone d’improvviso risalta il colore violento dei teli che coprono enormi mucchi di fibra già raccolta. Transitiamo accanto ad un villaggio Borana, la prima delle etnie che incontriamo. È un tripudio di colori, acconciature, ornamenti incredibilmente vari e fantasiosi, curiosi. Uomini e donne vestono corti gonnellini in pelle di capra o stoffa ricamati con perline di vetro o plastica colorate, con cipree; i capelli sono spesso rasati o acconciati in fogge fantasiose e strane. Una infinità di oggetti è usata per creare ornamenti: dal tappo di bottiglia a corona al bracciale di ottone, al cinturino di orologio. La breve fermata presso il villaggio suscita una reazione scomposta. Tutti si affollano attorno a noi premendoci, tirandoci, chiedendoci denaro per essere fotografati. Molti sono EMOZIONI D’AFRICA Lungo la Valle dell’Omo VIAGGI | Africa - Etiopia Da un Omo River gruppo Levratti Testo e foto di Daniele Bruno Levratti 01 02 03

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Se intraprendete la lettura di questo racconto nella speranza di trovare indicazioni puntuali del viaggio

resterete delusi. È solo una raccolta di pensieri sparsi, impressioni, sensazioni colte durante l’andare, squarci di paesaggi, momenti. La speranza è che la sua lettura possa stimolarvi a partire.Adis è un traffico caotico di vetusti autocarri FIAT che bruciano male il gasolio e si lasciano dietro una scia nerissima di fumo grasso. Non c’è speranza di salvare il mondo dall’inquinamento.Man mano che la strada che porta a sud si lascia alle spalle la capitale il traffico si dirada. Scompare quasi del tutto quello privato. Restano sulla strada asfaltata solo i camion e piccoli pulmini addetti al trasporto pubblico. La vista corre in un bel paesaggio di pianura, ben coltivata e ordinata. Gente in cammino, animali al pascolo, campi arati, orti. La vegetazione spontanea è caratterizzata dalla presenza di alti eucalipti e grandi acacie spinose ad ombrello dalla forma stupenda.Sul molo di Ziway, grandi marabù si contendono i resti del pesce. Sono un po’ inquietanti di aspetto questi strani, sgraziati uccelli, alti come un uomo. Tanto goffi a terra, tanto leggeri e potenti in volo.Arrivano dal centro lago, spesso in coppia, sostenuti dalle grandi, possenti ali, veloci, con pochi battiti d’ala i pellicani bianchi. Planano sulle sponde del lago Awasa, tra marabù, garzette, aironi, cavalieri d’Italia. Una penisola sulla destra è coperta da un bel manto erboso e da alcuni grandissimi alberi sulle cui fronde trovano riposo molti volatili. Mi piacerebbe andarci, sedermi all’ombra dei grandi rami, stare ad osservare e ascoltare la vita del grande lago, osservare il lavoro dei pescatori, l’andirivieni della gente….. Procedendo verso sud l’Etiopia diventa sempre più Africa, quell’Africa topica e immaginaria fatta di grandi spazi vuoti, di bush, di savana, costellata di acacie ad ombrello, dominata dal colore beige. Immersi nell’acqua micidiale che brucia la pelle, rovina gli occhi, le orecchie, lima la speranza di vita, già così breve in Etiopia uomini cavano un fango salmastro dalle acque nere del lago sul fondo della caldera del vulcano El Sod. Durissima esistenza. L’ambiente naturale, la fatica del lavoro lasciano un ricordo indelebile e forte che stimola alla riflessione.Un funerale ingorga le strade d’un minuscolo

villaggio; uomini e donne accompagnano un feretro portato a spalle, la bara avvolta in un drappo bianco. Quasi tutti indossano vesti o scialli bianchi. Ma non mancano specie tra le donne tocchi di colore intenso quali il rosso, il giallo, l’arancio. Una processione silenziosa e composta.È giorno di mercato. Lo spettacolo è fantastico; spiccano tra i mille colori le gonne a righe verticali rosse e gialle delle donne di etnia Konso. È quasi il tramonto e molte donne si affardellano sulle spalle immensi carichi e ripartono verso casa, verso remoti villaggi. Camminano piegate in avanti, facendo poggiare il peso del carico sulle vertebre lombari. Tremenda fatica per minuscoli guadagni.Una vita estremamente semplice quella che vedo, fatta di antichi gesti iterati, di azioni quotidiane volte a preparare il cibo, andare a prendere l’acqua, accudire i figli, lavorare con antichi metodi i prodotti agricoli, portare gli armenti al pascolo. Gente che vive di poco, di essenziale, come sarebbe moralmente corretto che tutti al mondo facessero. Il cavallo, l’asinello, rappresentano la ricchezza e alleviano la fatica quotidiana del lavoro, del viaggio.Questa vita mi pare bucolica, dolce; è nostalgia, poesia, dolcezza di medioevo. Viverne la quotidianità credo sia molto differente.Ancora la strada corre tra rilievi con continui saliscendi e curve e poi si affaccia su una vastissima pianura: è l’inizio della valle dell’Omo. Rapidamente perdiamo quota lasciando l’altopiano e acquistiamo in temperatura: il caldo aumenta subito di un grado o due e l’aria si fa più “pesante”, il paesaggio più piatto.La pianura che attraversiamo è tutta un coltivo di cotone. Tra il verde dei bassi cespugli della pianta del cotone d’improvviso risalta il colore violento dei teli che coprono enormi mucchi di fibra già raccolta.Transitiamo accanto ad un villaggio Borana, la prima delle etnie che incontriamo. È un tripudio di colori, acconciature, ornamenti incredibilmente vari e fantasiosi, curiosi. Uomini e donne vestono corti gonnellini in pelle di capra o stoffa ricamati con perline di vetro o plastica colorate, con cipree; i capelli sono spesso rasati o acconciati in fogge fantasiose e strane. Una infinità di oggetti è usata per creare ornamenti: dal tappo di bottiglia a corona al bracciale di ottone, al cinturino di

orologio. La breve fermata presso il villaggio suscita una reazione scomposta. Tutti si affollano attorno a noi premendoci, tirandoci, chiedendoci denaro per essere fotografati. Molti sono

EMOZIONI D’AFRICA Lungo la Valle dell’Omo

VIAGGI | Africa - Etiopia

Da un Omo River gruppo LevrattiTesto e foto di Daniele Bruno Levratti

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Etiopia

ubriachi, molti armati. Non riusciamo a gestire la situazione, a goderci lo spettacolo inconsueto del loro abbigliamento, delle loro fattezze, ad instaurare un rapporto di comunicazione. Sconfitti ce ne andiamo. La pressione era eccessiva e non abbiamo compreso come gestirla. Peccato. Sarebbe stato interessante stare lì ad osservare, semplicemente osservare queste genti diverse.È la prima notte di campo. Monto la tenda su un bello spiazzo erboso del campeggio. Faccio una doccia fredda, al buio della capanna che ospita il tubo dell’acqua. Sarà la prima d’una lunga serie di rinfrescate serali in cui forse non vedere quello che circonda e si muove, ronza o striscia intorno è meglio. Il buio cala rapido alle 18,30 ed è subito un frinire di grilli, un gracidare di rane, un luccicare infinito di stelle sotto il quale è dolce coricarsi e addormentarsi. In questo momento la terra d’Africa appare serena, colma di abbondanza e vita. Ma sotto questa pelle sottile esiste la realtà delle cose, spesso dura, corrotta, violenta e cruda. Da questo contrasto nasce il fascino d’Africa, il mal d’Africa che porta a tornare, nella speranza di riuscire ancora una volta a rivivere il contatto con il divino, con la forza primitiva e primordiale della Terra, di Madre Natura, che qua è capitato di sfiorare, sentire; contatto che qua si sa possibile e che richiama, incessantemente richiama a sè.Le notti tiepidissime terminano allietate dal cinguettio di centinaia di uccelli, talvolta da un abbaiare lontano di cani. L’aria profuma di verde e di fiori. Immagino queste zone prima dell’avvento del genere umano. Dovevano essere un vero e proprio paradiso per gli animali selvatici. Ormai in Etiopia non ve ne sono quasi più; troppa pressione umana nei secoli li ha scacciati, sterminati. Sopravvivono nei grandi parchi del Kenia, della Tanzania. Ma un tempo tutta questa immensa area dovette essere un gigantesco, sublime tempio della natura. Tutto questo è perduto, perduto per sempre.L’apertura della cerniera della tenda fa fuggire coloratissimi uccelli che curiosano attorno.Il corpo dei Mursi è violentato dai segni di scarificazione, le labbra delle donne devastate dal piattello labiale, i lobi straziati dagli orecchini, l’abbigliamento particolare e curioso, le acconciature estremamente varie per foggia ma tutte molto elaborate e curate. Sopra a tutto la brama di denaro. Si ripete il copione della

richiesta di denaro per farsi fotografare. Cosa mai ne faranno dei soldi così guadagnati? I beni economici di prima necessità vengono prodotti in totale autonomia e non è dunque per questo che la moneta viene utilizzata. Più probabilmente serve ad acquistare alcuni materiali decorativi con cui ornano gli abiti ed il corpo – perline, conchiglie, orecchini, bracciali, cavigliere e collari in metallo. E armi, perché alcuni uomini sfoggiano moderni fucili mitragliatori. Le ragazze giovani hanno corpi molto belli, ben modellati e proporzionati. I seni scoperti puntano dritto al cuore con la loro vigorosa sodità. Le donne emanano un’aura selvaggia, violenta. I gesti dei Mursi sono forti, decisi, netti, il portamento fiero. Lo sguardo sempre fermo, deciso. Emana forza da queste persone, coraggio. Invecchiano molto presto. Anziani veri e propri non se ne vedono, e tuttavia alcune donne dalla pelle rugosa, dai seni vizzi sembrano anziane. Probabilmente non lo sono. La vita in Africa è dura e il tempo la consuma in fretta. Ecco, nel contatto con queste popolazioni il medioevo si fa quasi preistoria. Il viaggio in Etiopia diventa il viaggio nella storia dell’uomo, un attraversarla fisicamente, sentirne il fascino e il peso, intuirne il miracolo e il disastro.Il contatto con le etnie della valle dell’Omo è forte, segna, spinge a meditare. Il fortore che emana dai Mursi è il ricordo tangibile del nostro ieri che ritorna alla memoria inconscia. Questi relitti di come eravamo sono sopravvivenze del nostro ieri che perdurano nell’inconscio. La loro cultura tradizionale, le loro tradizioni, usi e costumi hanno un altissimo valore che merita di essere trasmesso e conservato. È correttissimo lasciare loro la scelta se permanere o meno nelle loro tradizioni. Noi ammettiamo e orgogliosamente vantiamo l’evoluzione della specie, le “umane sorti e progressive” e tuttavia vorremmo che le altre culture non evolvessero, non mutassero. Le vorremmo immobili, fisse per sempre dentro uno stile di vita. Questo non lo possiamo pretendere. Il turismo sfiora appena queste zone, ancora non intacca modi e abitudini. Eppure anche questo fattore, ma non solo questo, porterà nel tempo mutazioni e desideri in queste persone. E un domani più o meno lontano anche essi abbandoneranno le capanne, abbandoneranno il macinare sulla pietra avari cereali, abbandoneranno abiti di capra e perline. Come affermare che tale mutamento è sbagliato, che non deve avvenire, quando noi

stessi abbiamo abbandonato utensili in pietra e capanne e caverne? In fondo tutta la storia dell’uomo non è altro che un divenire di culture e tradizioni e religioni che sono sorte, si sono evolute, trasformate, sono state annientate, assorbite. E così sempre sarà. Il piccolo ma interessante museo etnografico di Jinka rivela la complessa ricchezza culturale e tradizionale delle tribù della valle dell’Omo. Scioccante e incomprensibile la descrizione e giustificazione della pratica dell’infibulazione femminile. Ciò che a noi pare un atto di disumana crudeltà, una tortura gratuita e superflua che offende la persona, un atto pericolosissimo, è invece considerato un passo necessario per elevare la donna al rango di essere umano a pieno titolo, per darle valore e pregio. E questa immensa incomprensione è misura di tutta la distanza culturale che ci separa da questi nostri antenati contemporanei.Lungo la pista per Key Afer incrociamo tantissime persone di etnia Bana e Soma che a piedi e stracarichi di merci si recano al mercato. L’Etiopia è veramente una nazione di gente in cammino. I mercati sono una splendida immersione nella vita genuina di queste popolazioni, durante uno dei momenti più caratteristici ed importanti della loro quotidianità. Veramente un bello spettacolo dove finalmente è possibile rubare qualche scatto fotografico genuino. Fotografare in Africa resta comunque più difficile che altrove. Troppo spesso il furto della foto non permette di inquadrare il dettaglio desiderato, di catturare il gioco esatto dei colori od il loro contrasto, di esaltare una forma. E così le foto sono banali, scontate. Scattare belle foto in Africa resta una chimera.Siamo accampati sulle rive del fiume Omo, all’ombra di grandi alberi, molto belli. La natura lungo le sponde del fiume è lussureggiante, sana. Le acque scorrono copiose, rapide e fangose, unico alimento per il lontano lago Turkana. Strida di uccelli nella luce del crepuscolo. L’atmosfera del continente si respira pienamente, inebriante, misteriosa, in quest’ora serotina.

VIAGGI | Africa-Etiopia

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01 Key Afer - ragazza etnia Hamer02 Key Afer - ragazzo etnia Hamer03 Mago Omo N.P. - ragazza etnia Mursi

04 villaggio Kolko - testa di uomo, etnia Karo 05 tra Shashemene e Dinsho - boschetto di acace

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EtiopiaVIAGGI | Africa - Etiopia

Un bel tramonto lascia posto ad stellata superba incorniciata dai rami dei grandi alberi: la notte è senza luna, siamo lontani da ogni fonte luminosa e questo contribuisce ad esaltare lo spettacolo del cosmo immenso, così lontanamente vicino. Ascolto e sento, distinto, il grandioso respiro silenzioso della terra. Il contatto continuo con la bellezza, la forza e la durezza dell’Africa segnano nell’animo un qualcosa di indelebile, di incomunicabile, di pericolosamente affascinante: è come trovarsi sull’orlo di un precipizio che impaurisce e attira….C’è una parte della mia coscienza che è costantemente attenta alla forma della vegetazione e al cielo. Alberi d’Africa tormentati dalla asprezza del clima, dalla mano dell’uomo, di forma stupenda; cielo d’Africa, diverso, che pare più basso, più vicino alla terra, sempre presente col suo incessante moto di bianchi cumuli in lento procedere.Turmi è un paese di due strade e nulla più sperso nel bush, luogo di transito della strada in costruzione. Un piccolo locale funge da posto telefonico. Si passa il numero al gestore che chiama un centralino ad Adis Abeba. Là, nella lontana capitale, l’addetto compone il numero, chiama, ripassa la chiamata al gestore di Turmi che la gira al richiedente. Attese bibliche, collegamento incerto, echi di voci, fruscii, forse voci dell’aldilà. La parabola per le comunicazioni fa quel che può. Poco distante stanno terminando una grande torre metallica su cui verranno installati i ripetitori per la telefonia mobile. Dopo sarà tutto più semplice. Tra qualche anno saranno terminati anche i lavori di costruzione delle strade e spostarsi sarà più facile. La pista adesso corre parallela alla strada, tra buche sassi, polvere. I viaggi sono un pena di lentezza e scossoni, la polvere entra nelle auto, copre tutto e tutti. Tutta l’Etiopia non è altro che un grande cantiere stradale dove grandi e rare macchine da lavoro sono affiancate da un numero incredibile di lavoranti che movimentano pietre, spezzano massi a martellate, badilano, sterrano, vagano. Anche l’Etiopia va verso una modernità strutturale che ancora appare estranea a questa terra. La strada in costruzione per ora è usata dalle mandrie, dai viandanti. Però il viaggio in auto, pur nella difficoltà attuale, rende pienamente il senso d’un viaggio in Africa. Dopo sarà diverso: più comodo e veloce. E probabilmente molto meno bello e poetico.La doccia fredda e buia tenta di lavare una stanchezza che non sento e la polvere che non vedo.Gli Hamer sono davvero una etnia molto particolare. Belli a vedersi per il portamento e la costituzione fisica, amano ornarsi con bracciali, fasce, cavigliere realizzate con file di infinite perline colorate, a formare disegni geometrici, giochi di colore. Nelle vicinanze del campeggio sorge un piccolo villaggio. Una giovane sposa è chiusa in una capanna. Vi deve restare per sei mesi, nutrendosi di latte e burro al fine di ingrassare ed essere più forte per affrontare la vita di sposa e madre, faticosa e dura. Dal suo sguardo traspare una tristezza infinita, o così mi pare. Sei

mesi sono un tempo lunghissimo da trascorrere in una capanna. Il futuro, l’unico possibile, una vita di gravidanze e lavoro duro, ininterrotto.Lungo la strada che porta a Dimeka incontriamo moltissimi Hamer che a piedi, carichi di merci d’ogni genere, camminano sotto il sole implacabile verso la città, per il mercato settimanale dove le varie tribù dell’etnia si incontrano. Le donne trasportano grandi, pesanti sacchi e fasci di legna o di canne: merce da vendere o scambiare. Quasi tutte hanno il capo coperto da un elmetto ricavato dalle zucche che le fa somigliare a soldatesse di un esercito in marcia, allegro, disordinato e colorato. Gli uomini procedono più leggeri affardellati solo dal minuscolo seggiolino di legno, dell’arma e della borraccia e conducono il bestiame. Due, tre, quattro ore di marcia per andare; altrettante per tornare. Nella folla del mercato la nostra presenza passa piuttosto inosservata con grande vantaggio: possiamo osservare tranquilli, guardare senza che il nostro esserci turbi la naturalezza dei gesti, la spontaneità dei rapporti. Amici si ritrovano, amori nascono, commerci si fanno. Scendo verso il fiume. Sotto un grande albero un gruppo di pastori commercia il bestiame. Sulle rive uomini nudi intenti a lavarsi tra la vicina indifferenza delle donne.Le danze Hamer a cui assistiamo, nella luce del tramonto dapprima e poi nella quasi oscurità, sono intense, primordiali, scandite unicamente dal suono delle voci e dal battito delle mani, dallo sfregare tra loro delle file di bracciali metallici che adornano gli avambracci delle donne. Sono danze di corteggiamento in cui, man mano che il gioco procede si formano coppie che si avvicinano sempre più, che sempre più si legano sino ad entrare in contatto fisico. Al termine delle danze le coppie proseguiranno il gioco dell’amore nel bush, lontano da sguardi indiscreti. L’amore è libero, vissuto semplicemente e senza ipocrisie sino al matrimonio. Alla prossima danza nuove coppie si formeranno seguendo l’istinto o il desiderio del momento, liberamente.So già che il viaggio in Etiopia sarà soprattutto le speranze che ho deluso, il denaro che non ho donato, tutto quello che ho guardato senza vedere, tutto quello che ho visto senza comprendere, le

foto che non fatto. Sarà tutto questo e qualche ricordo, qualche foto banale. Ho avuto la fortuna di non nascere in Etiopia. Chi vi è nato vive in un mondo di polvere e buche, capre e animali, fuoco da accendere la sera, fuoco da accendere per cucinare, acqua da prelevare al pozzo, chilometri da percorrere a piedi ogni giorno, pesi da portare, sole implacabile, violente piogge tropicali, alluvioni o siccità. La fatica domina la vita; per questo le persone sono forti, hanno sguardi forti, limpidi, duri talvolta, i gesti sempre decisi. La voce somiglia ad un grido. Il “sì” è un specie di aspirato deciso, accompagnato dal movimento forte del capo dal basso verso l’alto e dal dilatarsi degli occhi, ad accogliere il destino. A confronto i nostri gesti, la nostra fisicità di uomini “civili” sono deboli, incerti, tradiscono insicurezza, dubbio, paura. Il contatto con queste persone ci deve re-insegnare ad essere persone più forti, schiette, a guardare sempre negli occhi le persone con cui interagiamo.La sera dentro la tenda, con la torcia elettrica accesa a scrivere queste note, pare che piovano insetti, tanti sono quelli che, attirati dal chiarore, vengono a sbattere sul telo.Attraversiamo l’Omo fangoso su strettissime piroghe ricavate dal pieno di grandi tronchi, per raggiungere il villaggio dell’etnia Dasenech. Ma oggi è il lago Turkana che mi chiama e mi chiede di andare a vederlo. Un nome, una meta, come altre volte mi capita: Baines Baobab, Palmira, Capo Nord…… irrazionale, senza ragione apparente eppure devo andare, devo esserci, vedere.Il caldo aumenta, il paesaggio cambia: il bush si dirada sempre più lasciando spazio ad una savana più classica, vuota, spoglia. Si ha la netta sensazione di “scendere” sempre più di quota. Poi, passato un ultimo posto di controllo, entriamo nella “no man’s land” la terra di confine tra l’Etiopia e il kenia, ed ecco il gran mare del lago Turkana, preannunciato da una vastissima spianata erbosa, spazzata da un vento atrocemente caldo. Sulla barche di pescatori etiopi e kenioti, mandrie al pascolo, molti volatili. Non c’è nulla, la luce è violenta, il caldo quasi insopportabile, eppure…. è bellissimo! Provo la sensazione di essere al bordo, al confine d’un qualcosa di grande, in un nulla ricco di tutto. Il deserto mi ha insegnato che nella apparente vacuità esistono mondi infiniti e 06

06 Mercato tra Weito e Konso

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06 Mercato tra Weito e Konso

Etiopia

ricchissimi, che ci parlano, che dicono qualcosa alla nostra anima, al nostro cuore. Sono felicissimo d’essere qua, ma non so il perché di tanta gioia. Un luogo affascinante e desolato, unico. La luce del mezzogiorno è violentissima e spegne quasi i colori, vela la limpidezza dell’aria, sfuma i dettagli delle cose lontane. Alla luce del tramonto il lago deve essere ancora più bello. Mandrie di capre e pecore pascolano a ridosso della riva. Un folto gruppo di volatili staziona nelle basse acque. Sono pellicani, ibis, fenicotteri, cavalieri d’Italia, aquile pescatrici. Passerei l’intera giornata seduto sulla riva, in questo luogo remoto di confine.Lasciamo la valle dell’Omo. Sollievo e nostalgia si fondono nell’animo. Sollievo dovuto forse al fatto che tollerare la pressione di queste genti così forti è impegnativo, difficile; nostalgia perché me ne vado con la sensazione che forse il restare mi avrebbe permesso di comprendere meglio, di più.Il grande cortile dello Swaynesh Hotel, dove montiamo il campo, è in posizione stupenda. Dal terrapieno si domina l’ampissimo panorama di una vasta zona boscosa che si spinge sino ai bordi del lago Chamo e del lago Abaya, proprio in corrispondenza del promontorio che li separa. Magnifica vista, davvero, di quelle che torneranno alla mente ogni volta che ripenserò o racconterò dell’Africa. Babbuini e rapaci si contendono lo spazio dell’inizio della falesia e mi osservano attenti montare la tenda.Dopo molte ore di vento forte, alle quattro del mattino inizia a piovere. Non è una pioggia normale ma un temporale tropicale. Le tende sono messe a durissima prova. Le ore passano e il temporale non accenna a diminuire di intensità. Il terreno argilloso si trasforma in una palude di immense pozzanghere e fango rosso che si attacca ovunque. Organizzo il bagaglio in modo da essere pronto all’evacuazione in caso la tenda non regga, ma fa il suo dovere e l’acqua non entra. La sento scorrere sotto il pavimento, vedo il sopratelo che si piega alle raffiche impetuose, ma tiene, per fortuna tiene. Non vorrei essere qui in questo momento. Ma so anche che questo disagio passerà e si trasformerà in uno dei ricordi più forti del viaggio.In paese tutte le strade sono un mare di fango alto almeno dieci centimetri. Nel primo pomeriggio spiove. Partiamo per il villaggio Dorze. La strada che conduce da Arba Minch al villaggio è una strada di montagna a tornanti in salita ripida, totalmente ricoperta di fango e torrenti di acqua che precipitano a valle, affollata di persone cariche di legna e merci che arrancano nella mota. Pare

impossibile che la quotidianità di queste persone sia fatta da così grandi fatiche e disagi.Lungo la strada molti bimbi improvvisano balli per far fermare le auto e chiedere denaro: uno dei tanti modi per arrotondare il magro bilancio familiare. Ma sono troppi! È impossibile dare a tutti, anche se costa in fondo così poco farlo. Il paesaggio è stupendo: boschi di eucalipti e pinete fanno da cornice al panorama dei laghi che si vede in fondo alla valle.Le acque del lago Chamo, immenso, sono calme. Avvistiamo ippopotami e coccodrilli e una grande colonia di pellicani, macchia bianca tra il verde intenso della vegetazione. Alcuni pescatori, su minuscole imbarcazioni di tronchi, sono al lavoro circondati da molti pellicani che reclamano un po’ di pesce. Vado ancora una volta sul ciglio della falesia a gustarmi il panorama. Numerosi rapaci volano alla mia altezza o poco sotto, vicinissimi, e ho modo di osservarli a volontà, nella bella luce del primo mattino. Le grandi ali aperte, immobili a sfruttare le correnti ascensionali. Il volo ampio, quieto, sicuro è magnifico, elegante. Il silenzio della natura perfetto, la luce dolce, l’aria profumata. Un momento di vita sublime, a cui tornare per trovare forza, energia, speranza nei momenti bui che la vita riserva.Viaggiare in Etiopia non smette di stupire e affascinare. Il paesaggio è bucolico, dolce; gente al lavoro nei campi, mandrie, sorrisi e saluti ad ogni incontro, vecchi camion che arrancano, asinelli che trottano, siepi di piante grasse che recingono piccole case ordinate e pulite, fiori….. le ore di viaggio trascorrono veloci, come in un sogno; lo sguardo, l’attenzione continuamente richiamati da sempre nuovi particolari. Lungo i tanti chilometri che separano Shashemene da Dinsho che spettacolo, che varietà di paesaggi! Dapprima un immenso altopiano a tratti ben coltivato a tratti lasciato a pascolo dove mandrie di bovini e cavalli pascolano bradi; la pianura dell’altopiano si alterna a tratti collinosi che ricordano i paesaggi toscani, assolutamente impreveduti e imprevedibili nel cuore dell’Africa. Sulla destra, un bosco rado, attraversato da un ruscello, di immense acacie che ornano un grande pascolo pianeggiante. Lo spettacolo di questi alberi, che a giudicare dalle dimensioni devono essere molto vecchi è bellissimo, magico. Le grandi chiome si allargano, si sfiorano. Un bosco incantato, che emana una forza primitiva, una bellezza struggente, una poesia palpabile, una armonia unica. Divino è la parola che mi viene

in mente. Gli dei forse abitano qua. I loro cavalli pascolano tranquilli nel vasto spazio intorno al bosco.Ancora avanti, ancora buche, polvere, camion in avaria, ancora una foratura, l’incontro con qualche facocero ed una volpe e poi ecco Dinsho nel Bale Mountains National Park.Ma a dominare l’attenzione è soprattutto la vegetazione esuberante, particolare, spettacolare. Grandi, frondosissimi, antichi alberi di Hegenia Abyssinica e di Juiniperus procera creano un’atmosfera magica, da bosco incantato. Canti di infiniti, invisibili uccelli e l’incontro con numerosi esemplari di nyala, l’antilope di montagna, accompagnano la nostra visita. Le fronde, le barbe che pendono dai rami creano una verde cortina che nasconde, vela, impedisce allo sguardo di procedere oltre e lo trattiene, lo avvolge. Questo bosco fitto e silente potrebbe davvero ospitare elfi e fate e magie.Mi scaldo alla fiamma del bel fuoco che arde nel grande camino centrale del salone del rifugio. Fuori piove e fulmini saettano all’orizzonte. Per fortuna almeno questa notte non dormiamo nelle tende. Il temporale contribuisce a far sentire ancor più piacevole il tepore del fuoco, l’accoglienza asciutta del rifugio. Siamo ad oltre tremila metri di quota.Ancora dorme la campagna prima dell’alba. Lo sterrato ci porta verso Goba. Nella luce tenue del giorno nascente intravvedo profili di capanne, persone già in cammino, qualche roditore che attraversa la pista, mandrie. Proseguiamo verso il Sanetti Plateau. La strada sale, sale sempre più raggiungendo il vastissimo altopiano, caratterizzato dalla quasi totale assenza di vegetazione arborea; solo cespugli e particolari piante, la Lubilia, sopravvivono a questa quota. Tutto il plateau è ricoperto da un fittissimo tappeto di elicriso fiorito in bianco e in giallo: una magnificenza! Siamo a 4.000 metri di altezza e, nonostante la giornata solare, la temperatura è di appena 5°C. Tre lupi etiopi sospetti ci osservano a debita distanza e poi si allontanano: per loro è quasi ora di iniziare la caccia. Il vello è di colore rossiccio e ricorda quello delle volpi, la struttura fisica appare robusta, forte. Saliamo ancora sino a raggiungere la cima dei Monti Bale a 4.300 metri. Il panorama è aperto verso ogni lato, l’aria rarefatta. Avvistiamo un altro lupo etiope a pochi metri dalla pista, sdraiato a prendere il sole. In molte aie di piccoli insediamenti rurali uomini e donne sono al lavoro per la battitura del cereale, fatta ancora tutta a mano, con l’ausilio di bastoni e talvolta di asini o mucche che vengono fatti camminare circolarmente sul raccolto steso a terra. Bellissime scene di vita, di un modo di lavorare da noi completamente abbandonato e dimenticato. Abbiamo un problema alla balestra di una delle auto e ci fermiamo per sistemarla. Ne approfittiamo per consumare il nostro consueto spuntino a base di pane, scatolette di tonno e carne, formaggio e affettato. C’è un piccolo nucleo di case a ridosso della strada ed i pochi abitanti si divertono ad

VIAGGI | Africa-Etiopia

07 Tra Turmi e Weito - villaggio etnia Arbore, donna che allatta

Page 5: EMOZIONI D'AFRICA Lungo la Valle dell'Omo

8 - Avventure nel mondo 2 | 2012 .........................................................................................................................................................

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SAFARI AUSTRALE OVESTsulle piste di un’Africa autenticaTesto e foto di Pasquale Soda

Parliamo, nella realtà dei fatti, di una travolgente e spettacolare cavalcata attraverso il microcosmo

immaginario del continente africano: dal leone al pinguino, dalle paludi ai deserti, dalle cascate agli oceani. Le proposte che si susseguono lungo quest’itinerario, molteplici e variegate, sono sostanzialmente riconducibili a quattro tipologie

differenti:1. Scenari naturali incontaminati: Cascate Vittoria, Epupa Falls, Deserti con baobas in Botswana e di sabbia colorata in Namibia, Parchi Nazionali di Chobe, Moremi, Etosha;2. Realtà antropologico - culturali quali le etnie Himba ed Herero, il retaggio coloniale teutonico a Swakopmund e dell’apartheid a Cape Town;3. Santuari faunistici straordinari, con innumerevoli

incontri di animali esotici, proposti continuamente lungo quasi tutto l’itinerario, all’interno e non dei Parchi Nazionali.4. Escursioni ed attività fuori cassa comune, ma comunque altamente consigliabili: sorvolo delle Cascate Vittoria, all day game drive al Parco Moremi, sorvolo del deserto a Swakopmund ed a Sesriem, attività quali quad biking e sand boarding nel deserto del Namib: tutte integrabili con

osservarci mentre pranziamo. Regaliamo loro magliette e saponi, cerchiamo un contatto. I sorrisi e gli sguardi colmano il divario linguistico, rendono superflue le parole stesse. Un cane affamato mi osserva. Non resisto gli offro la mollica dei nostri panini, tutta la cotenna del prosciutto. Divora tutto, ma non riesco a conquistarmi la sua fiducia tanto da farlo avvicinare e carezzarlo.E ancora lungo il tragitto di rientro verso la capitale mi perdo nell’osservare il dolce paesaggio, la vita rurale, povera ma non misera, la forma magica delle grandi acacie, il lavorio degli uomini attorno ai pozzi dove una infinità di taniche gialle attende di essere riempita, dove pazienti asinelli attendono d trasportare l’oro blu verso le case. Cerco di non pensare, ascolto e basta; osservo e basta. Lascio che tutto questo penetri in me e di me divenga parte. Faccio in modo che il pensiero non sia ostacolo tra l’animo e il mondo, non filtri con concetti le sensazioni che dal mondo arrivano. Esse devono scendere diritte e pure all’animo e all’animo parlare. Così, solo così l’essenza di tutto questo diverrà forse mia per sempre. Ci

vorrà tempo perché gli infiniti ricordi del viaggio, le sensazioni, le intuizioni si sedimentino, si depurino. Dopo ogni viaggio fisico inizia un altro viaggio – talvolta inconscio – dell’animo che esce mutato e arricchito.Adis Abeba non mi piace, non mi emoziona. La trovo anonima, poco caratterizzata, senza un vero e proprio centro che la identifichi. Per certi aspetti mi ricorda Antananarivo, spalmata su un’area immensa, ma senza un punto di riferimento, senza anima.Le orbite vuote dello scheletro di Lucy, il fossile di umanoide più antico sinora ritrovato, mi osservano vacue. Nel loro fondo oscuro intuisco una voragine incommensurabile di tempo, capace di inghiottire la ragione. La saluto prima che sia troppo tardi per salvare il poco senno che mi è stato dato in sorte, mi volto e velocemente lascio il bel museo dove ora riposa.Ho voglia di tornare a casa, oramai e colmo queste ore che avverto un po’ vuote, con il pensiero di domani quando tornerò in Italia, riabbraccerò i miei cari, rivedrò gli amati luoghi che il destino mi

ha dato per vivere la quotidianità.E come sempre capita quando viaggio volge al termine ed è ora di bilanci, mi sento arricchito, so che avrò cose su cui riflettere, ripensare, che in qualche modo qualcosa nella mia percezione del mondo è mutata.Andate in Etiopia, se potete; sono certo che anche il vostro percorso sarà ricco di scoperte.

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