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ARACNE Emiliano Dante Merda d’artista

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ARACNE

Emiliano Dante

Merda d’artista

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I edizione: dicembre 2005

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INDICE

Breve introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Capitolo I Piero Manzoni tra il 1956 e il 1961 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

Capitolo II Merda d’artista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45

Appendice iconografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95

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Breve introduzione

La Merda d’artista è di gran lunga la più popolare opera d’arte ita-liana del dopoguerra. Tuttavia, mentre i mass media le hanno concesso un’attenzione inedita e probabilmente irripetibile, negli studi su Piero Manzoni l’opera ha ricevuto uno spazio piuttosto limitato, specie se paragonato alla sua notorietà. La Merda d’artista, anzi, è stata spesso affrontata dalla critica più autorevole con una certa sommarietà, quan-do non con malcelato fastidio.

Il problema è che spesso si è temuto che la fama della Merda

d’artista potesse collocare Manzoni su posizioni troppo vicine al (neo)dadaismo. In altri termini la Merda d’artista rischiava di ritrar-re Manzoni come un epigono, mentre per molti aspetti egli è stato precursore di praticamente tutte le correnti più importanti degli anni ’60–’70. Ciò ha indotto a letture dell’opera estremamente sintetiche, attente soprattutto a sottacere o negare le radici dada. Tuttavia, nega-re queste radici non è meglio di liquidare la Merda d’artista come una pedissequa ripresa di Duchamp nel momento in cui stava andan-do di moda. In entrambi i casi, infatti, non si prende seriamente in esame la straordinaria complessità dell’opera.

Di fatto, tra la superficialità dei giornali e la parzialità della sintesi critica, l’unico tentativo analitico di una certa efficacia finora compiu-to è l’interessante articolo Myths and meanings in Piero Manzoni’s

Merda d’artista di Gerald Silk, apparso su “Art Journal” nell’autunno del 1993. Fuori di questo testo, che verrà citato più volte nella seconda parte del mio lavoro, l’approfondimento più lungo e interessante non è un saggio, ma un documentario, Chacun sa merde di Hugues Peyret. Il filmato, dedicato ai possessori degli esemplari di Merda d’artista e al-le loro opinioni in merito al contenuto delle scatolette, è stato fonda-mentale per il mio lavoro. Tuttavia, esso non è effettivamente dedicato all’opera, ma ai suoi proprietari e, volendo, ai suoi fraintendimenti. È costituzionalmente lontano da un approccio storico–artistico.

A fronte dell’enorme numero complessivo di interventi, dunque, la Merda d’Artista vive in uno strano vuoto critico. Il mio saggio si ri-propone di contribuire a colmarlo, proseguendo, pur con prospettive spesso divergenti, lungo il solco tracciato dall’analisi di Silk.

In chiusura di questa breve introduzione, credo sia doveroso rin-

graziare quanti mi hanno aiutato nel lavoro: in primo luogo Rosalia

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Breve introduzione

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Pasqualino di Marineo, responsabile dell’Archivio Opera Piero Man-zoni, che è stata un punto di riferimento indispensabile per la mia ri-cerca. Un ringraziamento va anche a Hugues Peyret, per la perentorie-tà con cui mi ha mandato il suo utilissimo materiale; a Bernard Bazile per la sua disponibilità; a Graziella Dosa, che mi ha aiutato nei rappor-ti con la Francia e con la lingua francese; a Roberta Cerini Baj, per la sua cortesia.

Gli ultimi due ringraziamenti vanno a Simona Montanari e a Sauro

Dante, con affetto e riconoscenza.

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CAPITOLO I

Piero Manzoni tra il 1956 e il 1961

Baj, il Movimento Nucleare, Milano

Il Movimento Nucleare nasce ufficialmente con una mostra di En-

rico Baj e Sergio Dangelo alla Galleria San Fedele di Milano, nel 1951, e con la successiva pubblicazione del Manifesto della Pittura

Nucleare nel 1952, a Bruxelles. In questo periodo, Baj pratica una figurazione carica di elementi

simbolici, che riutilizza tecniche e climi vicini all’informale e al-l’action painting per costituire figure atomizzate, evocanti qualcosa di simile ad una visione lirica e magica della deflagrazione della bomba atomica. Le figure antropomorfe di Baj dei primi anni ’50, infatti, sembrano spesso colte nel momento di scomparire, come se un foto-gramma le avesse congelate pochi milionesimi di secondo dopo lo scoppio della bomba, in una sorta di istantanea, di moment after.

In definitiva, attraverso Hiroshima, i nucleari attualizzano e rivisi-tano istanze desunte dal futurismo, concettualmente e geograficamente il movimento più prossimo al gruppo:

Le forme si disintegrano: le nuove forme dell’uomo sono quelle dell’universo atomico, le forze sono cariche elettroniche. (…) (La bellezza ideale) coincide con la rappresentazione dell’uomo nucleare e del suo spazio. Le nostre co-scienze cariche di imprevedibili esplosivi preludono a UN FATTO. Il nucleare vive in questa situazione che gli uomini dagli occhi spenti non riescono ad av-

vertire1. Tanto i toni quanto i concetti paiono direttamente mutuati dai ma-

nifesti futuristi. Gli “occhi spenti” dei nucleari sono l’occhio velato dall’“atavismo” e dalla “coltura” del Manifesto Tecnico del 1910; la bellezza ideale della rappresentazione dell’uomo nucleare è sostan-zialmente la stessa bellezza che rende il cofano di un’automobile “più

1 E. Baj, Manifesto della Pittura Nucleare, in M. Corgnati, Il movimento nucleare, catalogo

mostra, Centro per l’arte contemporanea, Umbertide, luglio 1998, p. 105.

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Capitolo I

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bello della Venere di Samotracia”2; le cariche elettroniche che ora di-sintegrano le forme sono filiazioni dirette delle forze che negli anni dieci distruggevano “la materialità dei corpi”3: il moto e la luce. Al-l’esaltazione vitalista del proprio presente dei futuristi, i nucleari sosti-tuiscono l’incertezza del domani tipica degli anni ’50: «La questione nucleare come atto di appartenenza alla nostra contemporaneità, con un sentimento di angoscia e di speranza allo stesso tempo»4.

Il problema centrale degli artisti del Movimento Nucleare, in fin dei conti, è rappresentare le tensioni caratteristiche del proprio periodo storico, tensioni che orbitano attorno all’energia atomica: «Artisti di un’epoca in cui l’indagine atomica e nucleare spalancava nuovi, infi-niti orizzonti: artisti, quindi, più che nucleari, di un’epoca nucleare»5. La loro è una finalità di tipo espressivo e rappresentativo. Questo è il punto che maggiormente li distanzia dagli artisti del Movimento Spa-ziale, l’altro braccio dell’avanguardia milanese. Contrariamente ai nu-cleari, gli spaziali dichiarano di aver «coscienza di un mondo che esi-ste e si esprime da se stesso e che non può esser modificato dalle no-stre idee»6. E questa — anche quando si adottano le stesse tecniche, gli stessi smalti, lo stesso dripping — rimane una divisione sostanzia-le, che spesso si risolve banalmente nell’antitesi — allora estrema-mente sentita e utilizzata — tra astratto e figurativo.

Beniamino Fabbro sintetizzò questa dicotomia in maniera polemi-ca, nel ’53: «Dopo tutto, i nucleari sono, in origine, dei romantici in ribellione contro il classicismo accademico degli astrattisti»7, dove gli astrattisti in questione erano, appunto, gli spaziali. Questa nota pole-mica allude, parlando di accademia, anche ad una differenza di condi-zione sociale dei due gruppi. Al momento della nascita del Movimen-to Nucleare, Enrico Baj faceva pratica d’avvocato, mentre l’appena diciannovenne Dangelo svolgeva lavori saltuari. C’era un tono sostan-zialmente dilettantesco, tono che viene «rivendicato dagli artisti stessi come assoluta garanzia di apertura culturale e di prevalenza del com-portamento e del valore conoscitivo del fare artistico rispetto

2 F.T. Marinetti, Manifesto del futurismo. 3 U. Boccioni, La Pittura Futurista, Manifesto Tecnico. 4 E. Baj, La Pittura spaziale e nucleare a Milano. 1950–1960, cat. mostra, Bergamo, Galle-

ria d’Arte Bergamo, apr. 1997, p. 26. 5 Lettera di E. Baj citata in T. Sauvage, Arte Nucleare, Milano, 1962, p.19. 6 L. Fontana, Manifesto bianco, in L. Fontana, Concetti Spaziali, Torino, 1970, p. 119. D’ora

in avanti Manifesto Bianco. 7 B. Fabbro, Definizione dei Nucleari, cat. mostra, Milano, Studio B24, settembre 1953; cita-

to da M. Corgnati, op. cit. p. 24.

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Piero Manzoni tra il 1956 e il 1961

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all’oggetto–quadro»8. Al contrario, il Movimento Spaziale, guidato da un artista affermato come Lucio Fontana e supportato nell’attività da una galleria importante e vivace come la Galleria del Naviglio di Car-lo Cardazzo, nella pratica e nell’estetica tende a porre l’accento sul ca-rattere professionale dell’artista. Quella che gli spaziali cercano è «un’arte che valga di per sé a prescindere dall’idea che di essa ci sia-mo fatti…»9. Dove il dilettantismo dei nucleari cerca il carattere di-stintivo del proprio tempo, l’energia atomica, il professionismo degli spaziali è teso verso le nuove possibilità strumentali offerte dal-l’evoluzione tecnologica: ecco, quindi, l’idea di un’arte che venga te-letrasmessa, che utilizzi materiali nuovi a fini estetici, che sia del pro-prio tempo in primo luogo in virtù degli elementi costitutivi.

Tuttavia, anche se la contrapposizione tra i due gruppi raggiunge talvolta punte di aspra polemica, non bisogna pensare a una vera frat-tura, specie in termini pratici. Lo spaziale Gianni Dova lavora per un certo periodo nello studio di Baj, Lucio Fontana incoraggia i giovani pittori — nucleari inclusi — comprando i loro quadri o effettuando scambi con i suoi, decisamente più quotati e vendibili. Si frequentano gli stessi locali di Brera, ci si muove negli stessi ambienti e, in un cer-to senso, si è parte dello stesso gruppo, in quanto entrambi i movimen-ti sono cronologicamente gli ultimi a comparire sulla scena artistica milanese.

Gli ominidi

Al momento della sua prima mostra, nel 1956, Manzoni è eviden-

temente influenzato dalla prima pittura nucleare. La straordinaria so-miglianza tra i suoi quadri e quelli che Baj andava dipingendo tra il 1950 e il 1952 prova senza ombra di dubbio una discendenza diretta

Gli esseri antropomorfi, tanto in Baj quanto in Manzoni, sono ri-dotti ad una grande testa poggiata su un piccolo corpo che non ha né braccia né gambe. In entrambi questa figura è sospesa su sfondi dalle cromie piuttosto accese, non immemori né della pittura futurista, né dell’informale.

Dando per evidenti le somiglianze, è bene sottolineare alcune fon-damentali differenze. Se nel primo Baj la figura antropomorfa richia-

8 M. Corgnati, op. cit. p. 25. 9 Manifesto bianco.

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ma la sagoma del fungo atomico, in Manzoni rimanda alla raffi-gurazione popolare degli extraterrestri. Ciò è dovuto in gran parte alla presenza di antenne nere sul capo, che sono — specie in quel periodo — l’attributo per eccellenza dei “marziani”.

Contrariamente alle figure di Baj, che poggiano sempre sul fondo, quelle di Manzoni fluttuano all’interno del quadro, di solito al centro, senza poggiare su alcuna base, a sottolineare il proprio carattere non terrestre. Il corpo è rappresentato da una sorta di goccia nera che ter-mina in un elemento modulare ricorrente, dalla forma di mezzaluna rovesciata. Questo elemento viene spesso ripetuto nel quadro come figura indipendente, creando una relazione formale tra gli ominidi e lo sfondo, e ponendo gli stessi in un contesto metaforicamente armonico. La stessa mezzaluna assume talvolta un valore dichiaratamente simbo-lico, divenendo un ventre materno, quando contiene una figura più piccola, o un principio maschile, quando interrotta da una linea retta.

Gli ominidi di Manzoni sono sostanzialmente privi di una fisionomia individuale e — di norma — degli stessi tratti somatici. Non suggeriscono alcuna emozione: sono neutri, sospesi in uno spazio atemporale, in cui nulla turba la loro quiete. Hanno la stessa serena so-litudine di un feto nel liquido amniotico. Le figure nucleari di Baj, al contrario, mantengono generalmente dei tratti somatici (di norma gli occhi e la bocca), anche quando solo accennati. La presenza dei line-amenti del viso conferisce inevitabilmente alle figure uno stato d’ani-mo e — in parte — una dinamica narrativa (Nella foresta vi era un

tremendo animale, Lo scoppio viene da destra). Confrontando i lavori, è chiaro che Manzoni, pur rimanendo molto

vicino al modello, depuri il lavoro di Baj della sua componente più lirica. Ciò è evidente nello slittamento tematico dall’esplosione nu-cleare alla fantascienza (anche se è uno slittamento che nella seconda metà degli anni ’50 coinvolge lo stesso Baj), nella soppressione dei caratteri individuali dei personaggi, ma anche nella frequente presen-za in Manzoni di scritte, piuttosto insolita nell’ambito della pittura nucleare. L’elemento verbale aiuta a palesare come Manzoni concet-tualmente poggi su basi piuttosto distanti da quelle di Baj: mentre il primo Baj cerca di figurare un qui ed ora dell’esplosione nucleare, Manzoni cerca inequivocabilmente una dimensione squisitamente mentale. Questo è piuttosto chiaro nel primo testo teorico firmato da Manzoni, Per la scoperta di una zona di immagini, datato 9 dicembre del 1956 e firmato assieme a Camillo Corvi–Mora, Ettore Sordini e Giuseppe Zecca.

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Piero Manzoni tra il 1956 e il 1961

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La posizione che vi si sostiene dimostra chiaramente una matrice jungiana:

L’opera d’arte trae la sua origine da un impulso inconscio che scaturisce da un substrato collettivo di valore universale (…) da cui l’artista ricava le “arcai” dell’esistenza organica. (…) Per l’artista si tratta di una immersione cosciente in se stesso, per cui, superato ciò che è contingente, egli affonda fino a giunge-

re al vivo germe della umana totalità10.

Al di là di Jung, la cui influenza su Manzoni sostanzialmente non

passerà l’estate del ’57, appare chiaro che, se i nucleari sono ideal-mente figli dei futuristi, le radici di Manzoni sono legate, seppur in maniera meno diretta, al surrealismo11: dove i nucleari sostituiscono l’atomo al moto, Manzoni sostituisce Jung a Freud, restando comun-que legato alla scuola psicoanalitica: «Il fondamento di valore univer-sale dell’arte ci è dato, oggi, dalla psicologia. Questa è la base comune che permette all’arte di immergere le sue radici nell’origine prima di tutti gli uomini e di scoprire i miti dell’umanità».

Tuttavia, tanto nei toni quanto nei contenuti, c’è in Manzoni una tensione razionalista totalmente estranea, se non antititetica, al surrea-lismo:

Per portare alla luce zone di mito autentiche e vergini, l’artista deve avere consapevolezza estrema di se stesso, ed essere dotato di una precisione e di una logica ferrea. Per arrivare alla scoperta vi è tutta una tecnica precisa, frut-to di una lunga educazione; l’artista deve immergersi nella propria inquietudi-ne e, scevrando tutto quello che è in essa di estraneo, di sovrapposto, di perso-nale nel senso deteriore della parola, arrivare sino alla zona autentica dei valo-ri12.

Si tratta di assunti essenzialmente anti–romantici: all’ispirazione, al

vissuto individuale, alla propria visione del mondo e, in ultima istan-za, alla propria immaginazione, si contrappone un metodo che deside-ra essere scientifico per arrivare ad una sorta di immaginazione ogget-tiva, impersonale. Rispetto al surrealismo, quindi, c’è un’inversione di

10 P. Manzoni, Per la scoperta di una zona di immagini, Milano, 9 dicembre 1956, in L. Pa-

lazzoli – F. Battino, Piero Manzoni, Catalogue Raisonné, Milano, 1991. D’ora in avanti: Per la

scoperta. 11 A sottolineare il legame con il surrealismo, tra l’altro, c’è una serie di quadri realizzati tra

il 1955 ed il 1956, basati sull’impronta degli oggetti sulla tela, in cui è evidente l’influenza delle rayographies di Man Ray.

12 P. Manzoni, Per la scoperta.

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posizione: se i surrealisti si ponevano, metaforicamente, dalla parte del paziente, proponendosi di trasferire le forze inconsce sulla tela, Manzoni si pone decisamente dalla parte dell’analista: «Attraverso un processo di autoanalisi possiamo arrivare (…) a scoprire in una seque-la incomprensibile e irrazionale di immagini, un complesso di si-gnificati coerente e ordinato»13. Il processo artistico, viene così a col-locarsi su un gradino ulteriore rispetto a quello del surrealismo: non nello sfogo della vita psichica, ma nell’analisi e nella sintesi dello sfo-go. E questo è tanto più rilevante quando si considera che il referente diretto di Manzoni non è il surrealismo, ma l’action painting, il mo-vimento più importante del suo periodo di formazione.

Pur condividendo l’impronta jungiana, Jackson Pollock aveva po-sto la componente di ‘sfogo’ in primissimo piano, tanto da farne il ve-ro soggetto dell’opera, ponendo la visualizzazione dell’inconscio co-me un dato fatale e inevitabile: «Se tu dipingi il tuo inconscio le figure devono per forza emergere. Tutti noi siamo influenzati da Freud, mi pare»14. Questo postulato, in altri termini, vuol dire che il problema di rintracciare le figure dell’inconscio finisce per essere demandato allo spettatore, mentre il compito che rimane proprio dell’artista è l’azione in sé del dipingere l’inconscio, condotta nella maniera più diretta pos-sibile.

Evidentemente la posizione di Manzoni è diametralmente opposta e, probabilmente, è maturata proprio in contrapposizione a quella del-l’action painting. In almeno un passo di Per la scoperta di una zona di

immagini è legittimo leggere tra le righe un’allusione: «L’artista deve affrontare questi miti (primari dell’umanità, n.d.r.) e ridurli da materiale

amorfo e confuso a immagine chiara» (il corsivo è mio). Se Jackson Pollock, tra tutti gli artisti del ’900, è forse quello che meglio incarna l’emotività saturnina e il bisogno viscerale di espressione, Manzoni è già, in fieri, l’artista che nella sua maturità arriverà a dare dell’espres-sione un giudizio inequivocabilmente negativo, per molti aspetti sino-nimo dell’accezione più deteriore del termine “retorica”: «Non sono forse espressione, fantasismo, astrazione, vuote finzioni?»15.

13 ID., Prolegomeni. 14 Frammento di un’intervista a Pollock pubblicata in: S. Rodman, Conversazione con gli ar-

tisti, New York, 1957, in, Jackson Pollock, Lettere, riflessioni, testimonianze, a cura di E. Pon-tiggia, Milano, 1991, p. 102.

15 P. Manzoni, Libera dimensione, in “Azimuth” n. 2, Milano, 1960 (d’ora in avanti Libera

dimensione).

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Piero Manzoni tra il 1956 e il 1961

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Uno degli aspetti più interessanti di Per la scoperta di una zona di

immagini, è proprio quello di contenere — assieme ad elementi che andranno in seguito perduti o rinnegati (in primis proprio la psicoana-lisi jungiana) — alcuni spunti che preludono al periodo di Azimuth, a quando, cioè, la carriera artistica di Manzoni avrà compiuto la sua svolta decisiva. Questo insieme di elementi — più propriamente atti-tudini e idiosincrasie che veri punti teorici — sono condensati nella frase in chiusura di Per una zona di immagini: «Immagini quanto più possibile assolute, che non potranno valere per ciò che ricordano, spiegano, esprimono, ma solo in quanto sono: essere». La parte nega-tiva della frase, «non potranno valere per ciò che ricordano, spiegano, esprimono» si ritrova, lievemente modificata, in un passo di Libera

dimensione, il testo chiave della teorizzazione manzoniana: «Allude-re, esprimere, rappresentare sono oggi problemi inesistenti». La diffe-renza sta unicamente nell’estensione della negazione alla rappresen-tazione, in seguito alla svolta aniconica avvenuta tra il ’57 e il ’58, ma il senso del pensiero rimane fondamentalmente immutato. Questo, se si considera il fatto che le opere del ’60 sono a prima vista abis-salmente distanti da quelle del ’56, è indice di una caratteristica dura-tura di Manzoni, che individuo nel disprezzo per l’oratoria, per la re-torica e per il pathos. Del resto, la sua frase più celebre è quella che conclude Libera dimensione: «Non c’è nulla da dire, c’è solo da esse-re, solo da vivere». Achromes

L’anno fondamentale nel percorso di Manzoni è il 1957. Il 2 gen-

naio, a meno di un mese dalla pubblicazione di Per la scoperta di una

zona di immagini, la Galleria del Naviglio di Carlo Cardazzo tiene la prima personale di Yves Klein in Italia, Proposte Monocrome. Epoca

Blu. Qui vengono esposti undici quadri monocromi blu di medesime dimensioni, cui viene data, però, una differente valutazione economi-ca, in quanto — a detta di Klein — ognuno pregno di una diversa sen-sibilità pittorica.

Manzoni viene profondamente colpito dalla mostra, tanto da tor-narvi più volte. L’influenza diretta di Klein, tuttavia, emerge solo in autunno, dopo l’ingresso ufficiale di Manzoni all’interno del Movi-mento Nucleare. È proprio in uno dei manifesti dei nucleari, Contro lo

stile, firmato anche da Arman, Pierre Restany e lo stesso Klein, che

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Capitolo I

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Klein viene indicato esplicitamente come artista di riferimento. Nel manifesto si dichiarano «come ultime possibili forme di stilizzazione le “proposizioni monocrome” di Klein»; dopo di esse «non resta che la “Tabula Rasa” o i rotoli di tappezzeria di Capogrossi». Questo pas-so, con gli achromes, avrà un valore quasi letterale per il cammino ar-tistico di Manzoni.

Sotto il nome di achrome va l’intera produzione di monocromie bianche16, diverse per materiale, composizione e formato, che Manzo-ni produsse dal ’57 in avanti. Questi lavori, allo stesso modo degli o-minidi, sorgono brillando di luce riflessa. All’astro di Baj succede, in misura ancora più decisiva, marcata e duratura — quello di Yves Klein, solo in parte filtrato dall’influenza di Lucio Fontana.

Il rapporto di discendenza diretta da Klein (seppur con un intento dialettico, non di plagio), è evidente sin dal nome achrome, che è ine-quivocabilmente in rapporto con il monochrome del francese, deno-tando il tentativo, in realtà non brillantissimo, di superarne le posizioni in via negativa. Quello che Manzoni cerca era stato espresso poco prima, nel manifesto Contro lo stile, dove si afferma che dopo l’opera di Klein «non resta che la “Tabula Rasa”». L’achrome di Manzoni, concettualmente, tenta proprio di costituirsi tabula rasa, il punto in cui ogni valore positivo viene abbandonato, compreso il colore:

La questione per me è dare una superficie integralmente bianca (anzi, inte-gralmente incolore, neutra) al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni in-tervento estraneo al valore di superficie; un bianco che non è un paesaggio po-lare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo od altro ancora; una superficie bianca che è una superficie bianca e basta 17.

Tuttavia, il bianco degli achromes di Manzoni è molto lontano

dall’essere «e basta». Allude ad un’idea di assoluta neutralità, per cui la «superficie totalmente bianca» diviene «anzi, totalmente incolo-re»18. È un’acromia che il bianco può solo simbolizzare, ma ovvia-mente non raggiungere. Paradossalmente, quindi, il tentativo di costi-tuirsi tabula rasa fallisce da principio; proprio nel momento in cui Manzoni cerca di sottrarsi definitivamente ad ogni riferimento simbo-

16 Ci sono tuttavia delle eccezioni che è giusto rilevare, come gli achromes di fibre di vetro,

disposte su una superficie rossa, quelli color oro — realizzati probabilmente sul modello dei mo-

nogold di Klein — e quelli “instabili” che, variano il colore con il variare delle condizioni clima-tiche o di illuminazione.

17 P. Manzoni, Libera dimensione. 18 Ivi.

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Piero Manzoni tra il 1956 e il 1961

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lico, si trova costretto a ricorrere ad un simbolo: bianco significa nes-sun colore19.

Il bianco, d’altro canto, in questa funzione simbolica ha una pecu-liarità propria: se si considera che la “parete tipo” è bianca, la mono-cromia bianca mette il quadro in rapporto diretto con la parete, assu-mendo quindi un carattere di ideale neutralità e continuità rispetto ad essa e superando, almeno in parte, quelli che Manzoni chiama «gli o-stacoli dello spazio». In questa prospettiva mentale e ipotetica, l’achrome diviene effettivamente acromo quando viene appeso. È un camaleonte pigro, messo al mondo per vivere su un solo ramo. Questo rapporto con la parete, d’altro canto, non fa altro che amplificare il senso interno dell’achrome: «Due tonalità dello stesso colore sono già un rapporto estraneo al significato della superficie, unica illimitata (…) Questa superficie indefinita (…), se nella contingenza materiale dell’opera non può essere infinita, è però senz’altro infinibile, ripetibi-le all’infinito, senza soluzione di continuità» (i corsivi sono miei).

Il bianco vuol dire acromia. Tuttavia, credo che sia centrale notare come il bianco degli achromes abbia anche un valore intrinseco al fare artistico, in quanto è il colore della tela prima che venga dipinta. Lo stesso Manzoni ne mette in chiaro il nesso:

Io non riesco a capire i pittori che, pur dicendosi interessati a problemi mo-derni, si pongono a tutt’oggi di fronte al quadro come se questo fosse una su-perficie da riempire di colori e di forme (…) una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie?20.

Il bianco dell’achrome, quindi, va inteso anche come depurazione

dalla pratica pittorica e dalla retorica artistica («colori innaturali, si-gnificati artificiali»).

Torniamo di nuovo alla tabula rasa, ma con un senso leggermente diverso da quello iniziale, in cui prende un posto di primo piano il problema della pratica pittorica rispetto all’oggetto pittorico. Sarenco, in particolare, trova qui il punto di differenziazione da Klein: «klein usa il blu per trovare una nuova possibilità metafisica di spazio; man-zoni usa il bianco su tele raggrinzite per dimostrare la possibilità di

19 Enrico Castellani, l’artista a più stretto contatto con Manzoni nel periodo degli achromes,

rende estremamente esplicito questo carattere simbolico: “ Il bianco per me non è un colore, ma l’assenza di colore” (cfr. Intervista di Lorenzo Vincenti in “Amica” n.15, Milano, 1983, In G. Dorfles e A. Zevi, Enrico Castellani, Galleria Netta Vespignani, Roma, 1991).

20 P. Manzoni, Libera dimensione.

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non far più pittura»21. Questa frase è indicativa di una verità di fondo, ma è troppo semplificante tanto nel descrivere l’opera di Manzoni, quanto il rapporto che questi ha con l’opera di Klein. Lo stesso uso os-sessivo del bianco, in fondo, al di là delle sue valenze simboliche e funzionali, è un apporto diretto dell’opera di Klein, come parossismo di cifra stilistica. Lo si vedrà con chiarezza in operazioni non legate all’acromia e al quadro, come la Scarpa destra di Franco Angeli, la scultura in pelle di coniglio o l’idea, comunicata a Peeters a pochi me-si della morte, di esporre venti polli completamente bianchi da lasciare liberi nella sala del museo22. È chiaro come, in questi casi, il bianco perda del tutto contatto tanto con l’acromia quanto con la pittura, ma coincida con la ricerca di una completa riconoscibilità, proprio sul modello del blu di Klein23. Esiste per Manzoni un continuo rapportarsi a Klein, che, se non scade mai nella mera imitazione, pure tradisce puntualmente la fonte d’ispirazione. Dove Klein usa il blu, Manzoni usa il bianco; dove Klein sconfina nella musica con la sua Sinfonia

Monotona, Manzoni compone l’Afonia di Herning per orchestra e pubblico (1960) e l’Afonia Milano per cuore e fiato (1961, lo stesso della Merda d’artista); dove Klein progetta (dice di progettare) di di-pingere Nizza del suo blu, Manzoni progetta (dice di progettare) di di-pingere il Duomo di Milano di rosa.

Il fatto stesso che Manzoni presenti negli achromes un desiderio di spazio assoluto trova radici nell’opera di Klein. La ricerca di «una nuova possibilità metafisica di spazio» passa, in questo senso, da Klein a Manzoni, assumendo in quest’ultimo un tono meno mistico (metafisico) e più freddo (meta–artistico, mentale). Nel francese il va-lore cardine sostanzialmente è ancora l’uomo e il cosmo, nell’italiano è l’artista e il sistema dell’arte. Mentre il “nuovo spazio” di Klein è inteso come uno spazio dell’anima (più esattamente per l’anima), quello di Manzoni è lo spazio dell’arte e per l’arte. Da una lato abbia-mo un principio etico, dall’altro uno operativo. Il confronto tra le pa-role dei due artisti rende la differenza estremamente chiara.

Uno dei punti chiave di Libera dimensione di Manzoni, a mio avvi-so, è:

21 Sarenco, Opere & Giorni, Brescia, 1973. L’assenza delle maiuscole non è un refuso, ma

una scelta dell’autore. 22 G. Celant, op. cit. 1992, p. 231. 23 Un aneddoto, citato da più fonti, vuole che Manzoni sia andato da Klein, nel 1961, dicen-

do: “lei è il monocromo blu, io sono il monocromo bianco, dobbiamo lavorare insieme”. (cfr. Ivi. p. 230).

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Piero Manzoni tra il 1956 e il 1961

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…non riesco a capire i pittori che, pur dicendosi interessati ai problemi moderni, si pongono a tutt’oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire di colori e forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato. Tracciano un segno, indietreggiano, guardano il loro operato inclinando il capo e socchiudendo un occhio, poi balzano di nuovo in avanti, aggiungono un altro segno, un altro colore nella tavolozza, e continuano in questa ginnastica finché non hanno riempito il quadro, coperta la tela…

È una descrizione beckettiana del dipingere: come in Beckett, la

serie di movimenti che costituiscono un’azione vengono scomposti, divenendo grotteschi e immotivati, sostanzialmente ridicoli. In Klein troviamo un attacco analogo, ma del tutto privo del gusto teatrale di Manzoni, rivolto non contro il pittore di cavalletto, ma contro l’action

painter e, in generale, le correnti espressioniste: Detesto quegli artisti che si riversano nei loro dipinti, come succede spesso oggi. Morbosità! Invece di pensare alla bellezza, alla bontà, alla verità, loro mostrano, eiaculano, sputano fuori tutta la loro orribile, misera ed infetta complessità nei loro dipinti, come per alleviare se stessi e caricare gli altri, i “lettori” delle loro opere…24

È chiaro che dove il bersaglio grosso (e il punto d’attenzione) di

Manzoni è costituito dalla pratica artistica, quello di Klein è costituito dall’etica; dove Manzoni trova assurda e immotivata un’azione, Klein trova ingiusto e dannoso un principio. L’attenzione verso l’azione artistica dell’italiano comporta la rarefazione dell’opera (che sarà ancora più evidente nelle linee e in tutta la produzione più matura), quella verso l’etica del francese comporta la ricerca della bellezza, di una sublimazione, cioè, degli ideali etici negli ideali estetici, in una sorta di ritorno al kalos kai agathos greco.

Klein utilizza un blu da lui brevettato, di un’intensità straordinaria e ipnotica, che cattura l’occhio e lo lascia fluttuare instancabilmente sulla superficie dell’opera. L’importanza dei valori sensibili, fisici, di questo blu è evidenziata dal fatto che Klein lo studia appositamente con l’aiuto di un chimico: non ne userà mai altri. Manzoni, al con-trario, utilizza un bianco che non vuole nemmeno essere bianco, ma nessun colore. Quello che è centrale, in Manzoni, non è affatto l’opera, ma l’idea dell’opera. E l’esaltazione dell’idea in lui comporta la svalutazione non solo dei dati materiali che la compongono, ma

24 Passo citato in S. Stich, Yves Klein, Hayward Gallery, Londra, 1995, p. 68; la traduzione

dall’inglese è mia.

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della sua carica emotiva e suggestiva. In questo senso, il passaggio dal monochrome all’achrome, dall’International Klein Blue al “quasi bianco”, è nodale: la perdita del colore è sintomatica di una generale volontà di deprivazione dell’arte della sua carica suggestiva. Questo si vedrà a pieno nelle linee ed è già abbastanza chiaro nel 1958, quando Manzoni compie un’operazione estremamente simile a quella condotta nei confronti dei monochromes di Klein con l’opera di uno degli artisti d’oltreoceano più importanti e innovativi del periodo, Jasper Johns.

Alfabeti

La relazione stretta che passa tra gli alfabeti di Manzoni e quelli di

Johns non permette di supporre alcuna casualità nella somiglianza tra le opere, tanto più che sappiamo per certo che Manzoni conosceva e apprezzava profondamente il lavoro dell’americano25.

L’operazione che Manzoni compie sull’alfabeto di Johns, così co-me accadrà con i numeri, consiste basilarmente in un lavoro di sem-plificazione compositiva ed esecutiva. Elimina la pennellata del-l’americano, immediata e potente, resa ancora più incisiva dall’uso dell’encausto, e la sostituisce con un segno impersonale, composto da caratteri neri piuttosto regolari, pur non nella perfetta precisione del mezzo meccanico, posti su un supporto uniformemente bianco. Dove la pennellata di Johns agisce dinamicamente, creando un effetto di “caos” contrario al rigore compositivo del quadro, Manzoni lascia le sue lettere sole con se stesse, come se fossero esemplificazioni di un carattere tipografico. Dal punto di vista compositivo avviene la mede-sima riduzione. Johns, prendendo l’esempio di Gray Alphabet, ripete l’intera sequenza alfabetica sia dall’alto verso il basso che da sinistra verso destra. Lasciando uno spazio vuoto nell’angolo alto di sinistra, dispone le lettere consecutivamente, facendo seguire l’ultima dalla prima (XYZABC). Con una precisione geometrica, fa sì che le prime lettere in alto a sinistra siano entrambe delle A, mentre quelle sui re-stanti angoli del quadro siano tre Z. Prendendo in esame un dettaglio di quattro righe di quattro lettere ciascuna, in qualsiasi punto del qua-dro, escludendo le righe al margine, l’alfabeto segue tanto da sinistra a destra, quanto dall’alto verso il basso, nello stesso modo (yzab; zabc;

25 Non a caso, la prima immagine riprodotta nel primo numero di Azimuth è proprio

un’opera di Johns, Target with plaster casts.