Elisi, noi entriamo, ebbri di fuoco, nel tuo€¦ · Il passo del poema nella sua versione...

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A Vienna, il 7 Maggio del 1824, il pubblicodel Teatro di Porta Carinzia assisteva allaprima esecuzione della Nona Sinfonia in reminore, ultimo dei grandi capolavori sinfonicidi Beethoven, che veniva presentata dopouna lunga gestazione, durata più di ottoanni. A Vienna, il musicista si era già trasfe-rito dal 1792, abbandonando la natia Bonn,allora provinciale cittadina, la cui atmosferanon era più di stimolo per uno spirito ormairomantico, intriso di ideali libertari.

Eppure già a Bonn, Beethoven aveva avuto lafortuna di conoscere Cristian Gottlobb Neefe,organista di corte e apprezzato musicista,esponente di spicco della setta degli "Illumi-nati di Baviera". Questi, intuito il talento e laspiccata sensibilità del giovanissimo compo-sitore, lo aveva introdotto nella vita intellet-tuale cittadina, permettendogli di accostarsial messaggio dei grandi filosofi e letteratidell’epoca, da Immanuel Kant a Johann Wol-fgang Goethe, da Johann Gottfried Herder aFriedrich Schiller, che divennero così punti diriferimento della sua formazione culturale.

Alla luce di questi antefatti non appare dun-que strano che Beethoven decidesse di chiu-dere la Nona Sinfonia musicando parte diuna poesia, il celeberrimo Inno alla Gioia,composta proprio da Schiller nel 1786, più divent’anni prima, in cui i valori della fratel-lanza e della libertà sono esaltati in massimo

grado e con forti accenti universalistici. Il grande amore per libertà, che faceva sen-tire Beethoven così vicino al poeta, avevaperò procurato a Schiller molte grane fin daitempi de I masnadieri. Il dramma, scritto nel1777, fu infatti vietato nel Ducato del Wür-ttemberg da Carlo II Eugenio, protettoredelle arti ma nondimeno signore assoluto,che proibì a Schiller di occuparsi di lettera-tura, punendolo anche con quindici giorni diarresto. Succedeva infatti che, in un punto fa-tidico del dramma, Karl, uno dei protagonisti,esclamasse “Libertà o Morte!”. Gridoquanto mai preveggente: i giovani deldramma schilleriano la libertà non la ve-dranno mai, tutti incontreranno una morteviolenta, per assassinio o suicidio. Un’esor-tazione alla libertà tanto esplicita venne dun-que modificata nella versione definitiva in unpiù prudente “Gioia o Morte!”. Rappresen-tato nel 1782 a Mannheim, il dramma ot-tenne un clamoroso successo.

Cionondimeno, anche in seguito, Schiller do-vette evitare non solo di trattare il tema dellalibertà, ma persino di utilizzare l’imbaraz-zante parola. L’Inno alla Libertà divenne unpiù generico Inno alla Gioia. La trasforma-zione fu facilitata anche dall’assonanza chein tedesco corre tra Libertà (Freiheit) e Gioia(Freude). Il passo del poema nella sua versione defini-tiva “Gioia, bella scintilla divina, figlia degli

Elisi, noi entriamo, ebbri di fuoco, nel tuotempio”suona potente, non c’è che dire. Maproviamo a sostituire Gioia con Libertà: lafrase assume, ora come allora, un valoresovversivo. Tanto più che l’ulteriormente as-sonante Fuoco (Feuer) avrebbe potuto scal-dare i cuori in maniera preoccupante.

Beethoven, compositore assai poco senti-mentale, nelle sue opere fu però sempre at-tento a trasmettere idee che potesseroessere esplosive come solo i sentimentisanno essere. E l’Idea cui più teneva fu quella della libertà,dell’autodeterminazione, che compare allastregua di un sole splendente, nell’operacome nella vita.

Una volta suo fratello, in calce a una lettera,si firmò "Beethoven, proprietario terriero".Ludwig gli replicò con un furibondo "Bee-thoven, proprietario di un cervello”.

EDITORIALE

Guido GiannuzziDirettore Responsabile

“Filarmonica Magazine”[email protected]

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LE MIE DOMANDEdi Cecilia Matteucci

Michele Mariotti, 34enne direttored'orchestra, pesarese ma ormai bolo-gnese d'adozione, uno dei maggioriinterpreti della sua generazione, re-duce da un anno di successi, dal Me-tropolitan di New York, al CoventGarden di Londra, oltre a essere be-niamino del nostro Teatro Comunale.

Michele Mariotti Cecilia Matteucci

Il suo debutto operistico è stato IlBarbiere di Siviglia di Rossini, l'ultimo straordinario successo Guillaume Tell a Pesaro: questocompositore ha un posto specialenel suo cuore?

Certo, è un compositore geniale, che co-stituisce l'ossatura del melodramma ita-liano insieme a Mozart, Verdi e Puccini.L'esperienza che ho accumulato da mu-sicista e da pesarese mi ha portato a co-noscere e apprezzare molto inprofondità il suo linguaggio e il suo co-dice estetico, facendomi scoprire un au-tore la cui cronologia compositiva nonha mai seguito quella temporale, mo-tivo per cui non è riconoscibile in lui unpercorso evolutivo uniforme (come adesempio in Verdi).Questo aspetto della sua poetica mi hasempre affascinato, e alla luce di questeacquisizioni, posso ritenermi un suo cre-dibile interprete.

Chi è il suo mito, tra i grandi direttori del passato? E dei viventi,con chi si sente in maggiore sintonia?

É sempre difficile rispondere a questadomanda, e trovo quello di fare nomie/o confronti, un vizio che riflette in re-altà un senso di fastidio e di insoddisfa-

zione nei confronti di se stessi e del pro-prio presente.Del passato e del presente ammiro queimaestri che riescono a creare un'atmo-sfera, un suono, quelli che riescono aconvincermi di un pensiero o di un'ideamusicale che non condivido, ma ammirola loro coerenza e autorevolezza inter-pretativa e comunicativa.Lasciamo da parte qualsiasi discorso ri-guardo ai tempi musicali: saranno sem-pre o troppo lenti o troppo veloci.

C'è un'opera che preferisce dirigere? E perché?

Il Tell e Un ballo in maschera: en-trambe parlano di momenti e situazioniparticolari della mia vita.

La canzone della sua adolescenza?

L'ascolto dei cantautori italiani mi hareso un musicista e una persona mi-gliore,Dalla, Conte, De Andrè, De Gre-gori e Guccini, ognuno a modo suo, miha arricchito.

Al di fuori della classica, ama altramusica?

Ho già risposto in qualche modo!

LE VIE DEI CANTI a cura di Guido Giannuzzi

L'uomo molto ricco deve parlare sempre di poesia o di musica ed esprimere pensieri elevati,cercando di mettere a disagio le persone che vorrebbero ammirarlo per la sua ricchezza sol-tanto.

Ennio Flaiano

“”

Bisogna ascoltare la musica che cipiace, senza vergogna...non esiste unaclassifica fatta per generi musicali.A casa ascolto di tutto, faccio in realtàpiù fatica ad ascoltare quella classicaperché difficilmente il suo ascolto acasa riesce a rilassarmi e a farmi stac-care la spina.

In che ruolo vorrebbe dirigere la suabellissima moglie, il soprano OlgaPeretiyatko?

É sempre un piacere lavorare insieme,molto divertente e naturale.Magari vorrei dirigerla in un'opera incui non muore alla fine, visto che piacesempre molto uccidere i soprani.

In giro per il mondo, Italia esclusa,quale teatro l'affascina di più?

Ogni teatro ha la sua storia, all'inizionon ti appartiene, ma col tempo riesci afarne parte. Ricordo l'emozione, lastrana sensazione di condividere al Me-tropolitan di New York l'unico camerinocon 4 direttori: incontrai nello stessotempo Luisi, Gatti, Benini, Callegari (5italiani a NY!)E ognuno a turno si spostava un enormesedia che intralciava l'apertura del ri-spettivo armadietto: era la sedia di Le-vine.

Mi dicono che lei sia un grande ap-passionato di basket: preferirebbedirigere una prima alla Scala o loscudetto alla Scavolini?

Scudetto Scavolini!

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Quante sono Cristina Zavalloni? Dateun’occhiata agli “events” passati e futuridel suo sito ufficiale e datevi voi la rispo-sta. La cantante classica, jazz, pop, rock,lirica, l’icona della musica contempora-nea, l’attrice, la singer, la scrittrice, la com-positrice, e poi ancora la conduttrice, lapresentatrice tv... Presto la vedremo incartellone al Teatro Comunale di Bologna,dove debutta nel ruolo di Miss Jesselnell’opera Giro di Vite di Benjamin Brit-ten, sette recite dal 19 al 27 novembre,

con la regia di Giorgio Marini e la dire-zione di Jonathan Webb. Da dove iniziare?Dal personale: 15 anni fa, in un’audizionea Modena dal maestro di canto AngeloBertacchi. Un ricordo vivido, una “Haba-nera” dalla Carmen di Bizet potente esensuale.

Voleva diventare cantante lirica?Qualcuno diceva che avevo una voce li-rica. Avevo cominciato a cantare da pic-cola con mio padre, a 16 facevo jazz, poi

entrai in conservatorio per caso nellaclasse di canto, ma in realtà io volevo stu-diare composizione. Ero alla ricerca di unsuono che ancora non conoscevo. Chi di-ceva che ero un soprano, chi un mezzoso-prano. Io ho sempre saputo di esseremezzosoprano, non ho mai avuto dubbi.Dunque Carmen. Ora la canto nello spet-tacolo dell’Orchestra di Piazza Vittorio, aSant’Etienne. C’è un Don José indiano eun Escamillo tunisino. Ma la mia parte èintatta, in tessitura originale.

Nel frattempo è successo ben altro.È successo di tutto…

Si è avvicinata al canto di parola, alcanto di teatro. Non conclusi gli studi di canto, poichéquello che sentivo come il mio insegnantegiusto lo trovai fuori dal conservatorio:Miguel Angel Curti, un argentino trapian-tato a Bologna. Mi ha fornito tutti gli stru-menti che mi servivano per affrontare idiversi repertori con serenità.

Quale la svolta che l’ha portata allafama internazionale?L’incontro col compositore olandese LouisAndriessen. Mi ascoltò la prima volta al-l’Aja nella Passion selon Sade di Syl-vano Bussotti. I due avevano condivisouna grande interprete comune, Cathy Ber-berian. Tornò ad ascoltarmi ad Amster-dam. Ero giovanissima, 22 anni, ricordoche mi disse “Ho sentito il tuo lato demo-niaco, voglio scoprire quello angelico”.Cominciò a scrivere per me, obbligandomia lavorare la voce sulla morbidezza, sullaleggerezza, sui fiati e sul registro piano.Abbiamo fatto un lungo tratto di stradaassieme. Ora sta per compiere 75 anni einterpreterò la sua musica in un grandeconcerto ad Amsterdam e in tournée negliStati Uniti. Una registrazione di Los Ange-les è stata pubblicata dalla DeutscheGrammophon e l’opera Anaïs Nin a mededicata è diventata un DVD.

La sua musa?Lo sono stata per un lungo periodo che si èconcluso. Ora c’è una bellissima amicizia euna frequentazione continua, ma il rap-porto di “artigianato” è finito. È giusto così.Non canterei Britten al Comunale se la sua

UN FANTASMA DI NOME CRISTINAdi Alberto Spano

La cantante più eclettica del momento, Cristina Zavalloni, debutta nell’opera Giro di Vite di Brittenal Comunale di Bologna, in scena dal 19 al 27 novembre.

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presenza fosse così forte come anni fa.

C’è molta musica contemporaneanella sua vita?Ne ho fatta abbastanza in passato, ma nefaccio sempre meno. Ho eseguito moltiautori, da Mac Millan a Michael Nyman,da Carlo Boccadoro a Luca Mosca: misono sempre ritagliata questo ruolo di in-terprete che si dedica al contemporaneoperché il mio cuore batte nella modernità.Però se si va a spulciare nella mia biogra-fia, di autori contemporanei se ne trovanopochi. Ho invece cantato molto il reperto-rio del Novecento in duo con Andrea Re-baudengo e in complessi cameristici:Schönberg, Falla, Poulenc, Berio sono imiei autori, che canto sempre più spesso.

E finalmente Britten.Quest’anno faccio tre importanti produ-zioni: The Rape di Lucretia, una copro-duzione Reggio Emilia-Ravenna-Firenze,uno spettacolo bellissimo con la regia diDaniele Abbado; ora Giro di Vite a Bo-logna, poi Phaedra a Parma e Piacenzain dicembre con la Filarmonica Toscanini.Tutto è nato da quest’ultima che avevoeseguito al West Corck Festival in Irlanda,dove avevo fatto un Pierrot Lunaire conartisti giovani e rampanti come PatriciaKopacinskaja, Sol Gabetta, David Coehn eMicaela Ursuleasa, purtroppo scomparsal’anno scorso. Dopo quell’esperienza mihanno proposto la Phaedra di Britten,una cantata per voce e orchestra. Me nesono innamorata. Ho dato la registrazioneal mio agente e gli ho detto: io questoposso e voglio fare. Eccoci qua.

A Bologna è un debutto assoluto nelGiro di vite: anche al Teatro Comu-nale?Non proprio: avevo già calcato quel pal-coscenico nella Scala di Seta di Rossiniquando ero allieva del conservatorio.

Ora interpreta un fantasma, Miss Jes-sel.È un ruolo abbastanza piccolo perché èpresente solo in quattro scene, ma è unpersonaggio chiave: è il termometro concui cambia l’aria e tutta la vicenda.Quando entra Miss Jessel si ferma tutto:la governante è giustamente terrorizzatavisto che è pur sempre uno spirito chetiene in scacco la vita di due bambini.

Un ruolo da cattiva?No, è uno spirito tormentato che ha biso-gno di essere liberato, continua a ripetere“I’m here, I’m here”, sono stanca, ho bi-

sogno di riposo. Come in tutti i film del-l’orrore che si rispettino, gli spettri si ma-nifestano perché non sono liberi di andarea riposare eternamente e non si possonoliberare perché qualcosa li tiene legati.Cercano aiuto da persone che rivelanouna sensibilità diversa. In questo caso lagovernante che entra in sintonia con lospirito dell’ex governante. Le sue arie, isuoi interventi sono pieni di tormento, dipathos, di drammaticità.

La musica?Bella da morire. Io ho un’aria, l’unica veraaria, tutta in fa minore, che un po’ asso-miglia a quella di Phoedra, così piena dipolitonalità, in cui Jessel canta come sefosse autistica. La governante cerca didirle di andarsene, ma lei non ha scelta,rimane lì a cantare il suo desiderio di ri-poso con uno struggimento che com-muove. La vocalità è la stessa di Fedra,mezzosoprano con gli acuti: ci sono dei sibemolle, dei do molto alti, ma c’è anchemolto corpo giù. Nel mondo anglosassoneli chiamano gli “high mezzo”, come certiruoli rossiniani con il registro grave chehanno le note alte.

È il suo primo ruolo da fantasma?Sì, io ho fatto di tutto, uomini, donne,bambini. Mai fantasmi.

Giro di vite è un’opera dura ma av-vincente. Qualcuno ha scritto che di-segna una infanzia che ha perso lamorale. Si sente vicina al mondo diBritten?Io mi sento vicino alla sua musica perquanto riguarda la strumentazione, la po-litonalità, la timbrica, l’uso di strumentiparticolari come l’arpa, i pochi archi. Amole varie sfaccettature della sua musica,con quegli scarti repentini e il suo lirismomai scontato, con questi intervalli intri-ganti. È la sua estetica, che immaginoprovenga dal suo vissuto, dalla sua con-dizione di omosessuale in un’Inghilterraancora molto perbenista, piena di con-traddizioni e ipocrisie. Penso che Brittenabbia vissuto la sua condizione malis-simo. Lo sento nelle sue opere, dove c’èsempre una sorta di bisogno latente di es-sere scagionato. È una specie di graffioamaro che proviene da una rabbia neiconfronti della vita che per lui non deveessere stata facile. Una componente di in-sicurezza che pervade tutta la sua musicae che deriva dall’estrema complessitàdella sua figura di intellettuale, di uomodi cultura e di fascino, ma anche di omo-sessuale. La complessità di Britten mi af-

fascina e ne vengo attratta. Non mi ciidentifico, però sento che questo tor-mento interiore lo ha fatto diventare unartista veramente interessante.

Lo avverte in quanto interprete dellasua musica?Sì: si prenda ad esempio il Female Chorus,il coro femminile che io interpreto nelRatto di Lucrezia: un ruolo micidiale incui si canta dalla prima all’ultima battutae si è sempre osservatore-commentatore-narratore dei fatti che avvengono in scenama non si deve essere mai partecipi. Unruolo tecnicamente “neutrale”: però lamusica trasuda pathos e dramma. Ecco ilvero Britten. Da quando nel mio piccoloscrivo musica, ho imparato che si mettein musica il proprio se stesso. Come inter-preti si deve riuscire ad entrare nei mean-dri dell’io del compositore, nel suo cuore,nel suo cervello. È una forma di voyeri-smo.

Come si pone nel repertorio antico?Cambia il linguaggio, ma l’approccio èsempre lo stesso. Si cambia la tecnica,come quando si parla francese con unfrancese o in inglese con un inglese. Sonosempre io, devo solo produrre suoni di-versi. La musica antica è nel mio cuore, inquanto è moderna: Monteverdi, per esem-pio. Lo amo poiché lo sento molto più mo-derno dei suoi posteri, nel senso dimodernità che a me piace: è vario, è im-prevedibile nei cambiamenti armonici eritmici, però contiene già l’espressione vo-cale drammatica emotiva del bel canto. Ininglese si dice “to convey”, produrre, tra-sportare col tuo suono un sentimento, unaffetto che tocca le corde umane imme-diato.

Il lavoro nel jazz ne risente?Le occasioni vanno prese al volo, è ovvio:chi ci rimette è quasi sempre la mia vitada jazzista. Do priorità al repertorio clas-sico, perché ha bisogno di una cura mag-giore. Per esempio per debuttare inquesto Britten devo rinunciare a unatournée jazz in America nei festival piùimportanti. Un vero peccato. Faccio ri-nunce simili da tempo. Per cantare in Ir-landa ho rinunciato all’invito delMontreux Jazz Festival per due anni diseguito. Ma è normale, poiché il jazz èquasi sempre programmato più tardi,all’ultimo momento: in ottobre dovevoessere a Pechino con Uri Caine e ho do-vuto rinunciare perché sono in prova aBologna.

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Due carriere antitetiche?Semplicemente bisognerebbe essere duepersone.

Nel jazz l’improvvisazione è d’ob-bligo: nel repertorio classico e con-temporaneo?C’è anche lì, ci deve essere: non nel sensoche si cambino note e armonie (anche senel barocco può succedere) però ogni seraqualcosa deve cambiare. Un vero musici-sta ogni sera cerca di vivere uno spetta-colo come se quella sera fosse la primavolta. Deve intervenire un certo grado diimprovvisazione in ogni esecuzione. Igrandi direttori lo fanno. Soffro moltoquando certi direttori tendono a stigma-tizzare un’interpretazione: a volte mi di-cono “ieri qui avevi fatto piano, perchénon lo fai più?”. Io mi ribello, non possocongelare una parte. Non voglio diventaremuseo.

Il suo ultimo album con la Radar BandLa Donna di Cristallo è del 2012: cosabolle in pentola?Sto lavorando ad un nuovo disco, delquale posso solo dire che si avvarrà dimusicisti stranieri.

Continua la passione per la rivisita-zione della canzone d’autore comenel caso di Charles Aznavour?Sempre. Quest’estate ho fatto un pro-gramma interamente dedicato al pop e alrock inglese con rivisitazioni di canzonidei Beatles, dei Genesis, dei King Crimson,dei Radio Head.

Riceve testi o provini da sconosciuti?Quasi ogni giorno: ascolto tutto e ri-spondo a tutti. Lo sento doveroso, perchépenso che se uno ha accumulato un’espe-rienza che può essere preziosa per chiviene dopo, la deve mettere al serviziodegli altri. Soprattutto in una fase storicacome la nostra in cui le musiche nuovenon hanno una linea, non c’è una grandescuola da seguire sia nel jazz che nellamusica contemporanea, ma ci sono tantipiccoli riferimenti di interpreti che fannotante cose diverse. C’è la crisi, non c’è la-voro, chiudono le orchestre, ti dicono chela cultura non serve a niente, fai la fame,se fai il musicista sembra che tu sia fuori-legge, non ci sono più i “Grandi Maestri”.Almeno fra di noi dobbiamo fare “comu-nità”.

Dà lezioni di canto?Non posso farlo, perché debbo studiare iomolto. Però ascolto volentieri chiunque

per un consiglio, magari per indirizzare.Ho solo fatto alcune master class all’Ac-cademia di Pescara, una ne farò a Carta-gena.

Le piace?Sì, nel senso che io imparo molto, ma miè difficile dire “è così, si fa così”, per meche da tutta una vita sto cercando.

Una domanda che non le ho fatto?Spesso mi sento dire: “Adesso fai que-

st’opera di Britten che è così difficile, cosìmoderna!”. Mi fa sorridere: in fondo que-sto è un repertorio “vecchio”, ma non èche sia difficile: è semplicemente menoconsueto. Non bisogna averne paura. Ciòche è diverso ci mette in difficoltà e quinditendiamo a chiuderci come essere umani.Dobbiamo fare il contrario: dall’apertura,dall’esperienza nuova si esce migliorati esi scoprono cose che ci piacciono molto,ma che solo non conoscevamo.

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NIETZSCHE PER MUSICISTIdi Bruno Dal Bon

Pochi ricordano che Friedrich Nietzsche(1844-1900) fu anche musicista. Ottimopianista, improvvisatore raffinato, compo-sitore che ci ha lasciato una settantina dibrani in gran parte composti prima dei ven-t'anni. Alle ultime composizioni, scrittedopo il 1865, Nietzsche lavora ancora condedizione e vane speranze di essere inqualche modo riconosciuto anche comecompositore. Brani che nascono in alcunimomenti decisivi della sua vita comequando pubblica il suo primo libro da filo-sofo, quando sente di doverabbandonare Wagner e Bay-reuth o quando incontra e su-bisce il fascino della“charmante” Lou von Sa-lomé. Il suo rapporto con l'arte siesaurisce quasi esclusiva-mente con la musica che con-sidera “l'arte universale”, il“magico fuoco”, “il selvaggiooceano dei suoni”. Vissutaogni giorno di più, in una di-mensione immanente e fisio-logica, per Nietzsche lamusica non è mai quella del-l'essere, ma e ciò che ci ricon-nette alla vita offrendo “allenostre passioni di poter gioiredi loro stesse”.

“Possa la mia musica dimo-strare che si può essere di-mentichi del proprio tempo eche in ciò v'è qualcosa diideale!”, scriveva nel 1875 al-l'amica Malwida von Meysen-burg, aggiungendo poi “perme resta sempre un fatto stra-ordinario come nella musica siriveli l'immutabilità del carat-tere; ciò che vi esprime un fan-ciullo è così chiaramente illinguaggio essenziale dellasua intera natura, che anchel'adulto non ritrova nulla dacambiare“. Come se la propria

natura potesse essere colta anche attra-verso le incertezze e le ingenuità di unacomposizione giovanile. Ed è forse in que-sta prospettiva che ci si dovrebbe avvici-nare alla musica di Nietzsche. Ogni lied,ogni brano pianistico ci mette in contattocon la sua forza motrice più autentica,anche quando è espressa con forme nonancora compiute. “Una specie di frenesia”,come la descrive alla madre poco più cheventenne, lo domina in particolare quandocompone al pianoforte, lo strumento della

sua creatività musicale, dell'intimità solita-ria, il suo “principale confidente”. Il piano-forte è anche lo strumentodell'improvvisazione. Qualità non comunea tutti i musicisti, nella quale Nietzsche cer-tamente primeggiava, come ci testimoniaanche Cosima Wagner. Chissà quanti altribrani musicali saranno nati da questa pra-tica compositiva estemporanea, chissàcome il suo rapporto con la musica vivessenell'immediatezza di questo gesto creativoche faceva appello alla sua “memoria ri-

produttrice”. Per Nietzsche sembra lavera dimensione della li-bertà dionisiaca. Nono-stante in gioventù siaugurasse che “lo studioapprofondito delle regoledella composizione musi-cale attenuasse il peri-colo di diventaresuperficiale a forza di im-provvisazioni”, questobisogno non cessò mai.Forse perché, più di ognialtro lavoro con la mu-sica, lo riconduceva aquella dimensione corpo-rea della pratica musi-cale, a quelle tensioniarmoniche o ritmiche vis-sute come elementi dagestire nel presente,senza ripensamenti ocorrezioni. Il pianofortesarà poi lo strumento chelo accompagnerà nellafollia, dalle interminabilie solitarie esecuzioninella sua stanza di To-rino, raccontate dai vicinie dall'amico Overbeck,fino agli ultimi ascolti diun pianoforte suonato aWeimar da Peter Gastche faceva vibrare perl'ultima volta quel corpodemente, immobile e

“Cera nelle orecchie” era, allora, quasi una condizione del filosofare: un autentico filosofo non porgeva più ascoltoalla vita, in quanto la vita è musica; egli negava la musica della vita – è una vecchia superstizione dei filosofi cheogni musica sia musica di sirene”

La Gaia Scienza af. 372P

Friedrich Nietzsche (1844-1900)

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confinato nell'estrema solitudine. Quelcorpo che sembrava reagire solo all'ascoltodi quel suono amico.

La musica è anche uno degli strumenti diindagine più significativi del Nietzsche fi-lologo che indaga sulla grecità. Quasi ognilavoro del periodo di Basilea è orientato adintercettare i suoni e ilmovimento di quei ritilontani prendendospunto anche solo daflebili tracce. Comecommentò Wagner,Nietzsche con questisuoi lavori tentò di“applicare l'orecchioalle pulsazioni della volontà universale e disentirne, tutto il suo furore”. Per farlo, unodei primi elementi sui quali orienta i propristudi è il ritmo. Il ritmo nel quale forsetrova un campo privilegiato di studio chepermette di operare una straordinaria con-giunzione tra filologia, filosofia e musica.

Il ritmo quale componente che conduce ilmusicista ed il poeta “oltre i limiti della co-noscenza e dello scetticismo” nel tentativodi sottrarsi al fascino del pensiero e dellalogica. Il ritmo che, nel suo lavoro sull'an-tichità, lo porta a sentire prima di ogni altrola forza propulsiva del pensiero dei filosofipresocratici, di quella sapienza greca, an-cora così legata al mito, alla poesia, alla li-rica.

Nietzsche si mette in cammino per com-prendere il ritmo degli antichi dedicandosiin particolare allo studio degli Elementa ry-thmica di Aristosseno di Taranto. Ricercheche lo portano a criticare le vecchie teoriedei filologi dell'epoca rivoluzionando, in uncerto senso, le concezioni di metro e misuraed arrivando a formalizzare addirittura due

concetti greci che utilizza come nucleodella sua riflessione: la “dissonante” alo-gia e l'euritmia, il “buon ritmo”. Due no-zioni che contengono già i caratterioppositori di Dioniso e Apollo, le divinitàdello spirito della musica che diverrannopoi le categorie portanti sulle quali co-

struirà La nascita della tragedia, il testo chelo renderà filosofo.

Resta poi ovviamente l'adesione di Nietz-sche a Wagner sui cui è già stato scrittoquasi tutto. Un devozione che si incardinanel rapporto viscerale che intrattiene conuna sola opera: Tristano e Isotta. Wagnered il wagnerismo furono infatti una breveparentesi nella vita di Nietzsche, intensa e

profonda finché si vuole, ma breve: il pe-riodo di Triebschen, il rifugio svizzero dellafamiglia Wagner che Nietzsche frequentòassiduamente per circa tre anni. Il Tristanofu invece la musica della sua vita. “Ancoraoggi vado in cerca di un’opera che abbia ilfascino pericoloso, la dolce e tremenda in-finitezza del Tristano […] il mondo è po-

vero per chinon è maistato abba-stanza malatoda godere diquesta vo-luttà dell’in-ferno”, parolescritte a To-

rino qualche settimana prima della follia.

Pochi cenni per testimoniare come in Nietz-sche la musica occupasse tutti i centri vitalidella sua filosofia, divenendo di fatto laprincipale via di accesso al suo pensiero eal suo agire. Se, come la tradizione ci ri-

corda, l'iscrizione sopra l'ingresso dell’Ac-cademia di Platone era ”non entri nellamia scuola chi ignora la geometria”, para-frasandola, dovremmo forse immaginareun motto altrettanto rigoroso per Nietz-sche: “che nessuno si occupi di lui se nonconosce la musica”.

. . .Possa la mia musica

dimostrare che si può essere

dimentichi del proprio tempo ...

“”

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JULIUS REUBKE, CHI ERA COSTUI?di Paolo Marzocchi

Uno degli esercizi di pensiero meno interes-santi è forse quello di immaginare qualiopere avrebbero potuto lasciarci alcunigrandi artisti se avessero avuto la possibilitàdi vivere qualche anno in più.Ci si permetta però di fare un’eccezione: Ju-lius Reubke, probabilmente l’allievo più do-tato di Franz Liszt, che passa come unameteora in uno dei luoghi e dei momenti piùfertili della storia della musica, Weimar in-torno alla metà del secolo XIX. Nasce nel 1834, vive solo ventiquattro anni,conosce Franz Liszt nel 1854, e nel giro di solidue anni il suo stile giunge ad un grado dimaturità impressionante. Poi si ammala emuore di tubercolosi nel giro di pochi mesi. Nella sua brevissima vita riesce comunque ascrivere diverse opere, di cui sopravvivonosolo cinque brani pubblicati a stampa e unabreve composizione per organo, recente-mente ritrovata in un album appartenuto aMarie von Sayn-Wittgenstein, compagna diLiszt: un intenso Adagio, che costituisce laprima stesura di quella che diventerà poi lasezione centrale della Sonata per organo. Almomento questo è l’unico manoscritto esi-stente di Reubke, e la cosa curiosa è che finoa qualche anno fa nessuno si era mai accortodi questa magnifica composizione, nono-stante l’album che lo conteneva fosse notoda tempo. Questo la dice lunga anche sullascarsa notorietà di Reubke in ambiente mu-sicologico. In mezzo a queste composizioni troviamodue opere di grande rilievo, una Sonata perpianoforte (ancora oggi piuttosto trascu-rata), e una celebre Sonata per organo, en-trambe composte da Reubke dopo aver fattola conoscenza di Liszt. Proprio osservando ilbalzo in avanti compiuto da questo giova-nissimo musicista, che nelle due Sonate an-ticipa per svariati aspetti compositori comeBruckner, Reger e Mahler, non riesco a farea meno di pensare dove avrebbe potutospingersi la sua ricerca se la vita gli avesseconcesso un po’ di tempo in più. Si può dire,con rammarico, che Reubke incarni perfetta-mente la figura del musicista romantico, chebrucia e si consuma per un incontenibilefuoco interiore. Questa sensazione era giàben chiara ai suoi contemporanei, come ri-sulta dalle parole del critico musicale RichardPohl a proposito di un’esecuzione privatadella Sonata per pianoforte, con lo stessoJulius allo strumento:Julius Reubke, figlio primogenito dell’orga-naro e costruttore di pianoforti Adolf Reubke(1805-1875), nacque il 23 marzo 1834 ad

Hausneindorf, nella regione dell’Harz. Dopo iprimi studi musicali nella vicina Quedlinburgsotto la guida di Hermann Bönicke (1821-1879), entrò nel 1851 al Conservatorio di Ber-lino per proseguire i suoi studi di pianofortecon Theodor Kullak (1818-1882) e di compo-sizione con Adolf Bernhard Marx (1795-1866). Delle prime esperienze compositive ciresta un Trio in Mi bemolle maggiore per or-gano, probabilmente un esercizio di scuola.Risalgono invece con ogni probabilità aglianni berlinesi due delle tre composizioni perpianoforte che ci sono rimaste, la Mazurka inMi maggiore e lo Scherzo in Re minore, in cuilo stile – seppure ancora influenzato da Cho-pin e Schumann – già lascia intravedere trattipersonalissimi nell’uso dell’armonia e nellesoluzioni formali. Di particolare pregio è la se-zione centrale dello Scherzo, vero e propriogioiello di lirismo in cui la melodia è soste-nuta da un accompagnamento di grandecomplessità e raffinatezza.

A Berlino, Julius stringe amicizia con il coe-taneo Alexander Winterberger (1834-1914),che aveva studiato organo a Weimar, doveera poi entrato in contatto con la cerchia dimusicisti e intellettuali che si raccoglievanointorno alla figura di Franz Liszt, divenen-done allievo.Va ricordato che Weimar, intorno alla metàdell’800, era il centro di quella che FranzBrendel (editore della rivista “Neue Zeit-schrift für Muzik” fondata da Schumann) de-finì “Neuedeutsche Schule”, l’avanguardiamusicale che aveva in Liszt e Wagner i mas-

simi esponenti. Per Liszt, questo è un periododi grande fervore creativo, compone alcunedelle sue opere più significative, tra cui primadi tutto la Sonata in Si minore, ma anchepoemi sinfonici, la Sinfonia “Faust”, la Sin-fonia “Dante”, le composizioni per organo, iconcerti per pianoforte e orchestra, dirigeopere di Wagner (che in quel periodo lavo-rava alle prime due opere della Tetralogia eal Tristan un Isolde). Tra i numerosi personaggi che in quegli annifertili gravitavano intorno a Liszt c’eranomolti giovani e giovanissimi, quasi tutti al-lievi del grande ungherese. Per la nostra sto-ria vanno ricordate almeno altre due figureche avranno in qualche misura una relazionecon Reubke: il poeta e compositore PeterCornelius (1824-1874), e il pianista e diret-tore d’orchestra Hans von Bülow (1830-1894), forse tra tutti il più celebre allievo diLiszt, di cui arriverà a sposare la figlia Cosima(che in seguito lo renderà uno dei mariti tra-diti più celebri della storia della musica).

Alexander Winterberger è dunque il primoad accorgersi della genialità di Reubke. Neparla al ventitreenne Bülow, che in una let-tera a Liszt datata 12 Dicembre 1853, rac-conta al maestro che il migliore amico diWinterberger (nella lettera chiamato amiche-volmente “Sascha”), tal Julius Reubke, haqualcosa di speciale. Esattamente Bülowparla di Reubke come del “miglior allievo delConservatorio [di Berlino], dotato di un gran-dissimo talento sia come compositore checome interprete”, raccomandando Liszt di

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accoglierlo nella cerchia di Weimar una voltaterminati gli studi berlinesi.Da Berlino a Weimar il passo è breve.Reubke si trasfersce dunque nella città dellaTuringia per studiare pianoforte e composi-zione con Liszt tra il 1854 e il 1856. La vitaperò non è molto generosa con il giovaneJulius, che morirà di tubercolosi a soli 24anni il 3 giugno 1858 a Pillnitz, vicino Dre-sda, città nella quale si era recato pochi mesiprima per curarsi.Peter Cornelius, profondamente sconvolto,gli rende omaggio con una poesia, l’ode fu-nebre “Der Freunde Klage um JuliusReubke” [L’Amicizia piange Julius Reubke].Cornelius lascerà Weimar nello stesso anno.

La scarsità di notizie biografiche sul sog-giorno a Weimar è però inversamente pro-porzionale all’incredibile maturazione dellostile e della qualità delle opere composte inquegli anni da Reubke, che assimila e meta-bolizza in pochi mesi il linguaggio e la scrit-tura pianistica di Liszt, ma anche l’armoniawagneriana, le nuove forme, l’idea lisztianadi musica a programma, la tensione versonuove sonorità. Diventa un fervente soste-nitore della “Nuova Scuola Tedesca”. Lecomposizioni concepite dopo l’incontro conLiszt sono vere opere d’avanguardia, dicomplessità sconcertante, in particolare sepensiamo che a scriverle fu un giovane disoli ventidue anni. L’opera di Liszt che segna lo spartiacque nelpercorso di formazione di Reubke è senzaalcun dubbio la Sonata in Si minore, pubbli-cata proprio nel 1854 dall'editore Breitkopf& Härtel, che come è noto vuole essere unasintesi di una forma sonata tradizionale, bi-tematica e tripartita, e di una sonata in piùmovimenti di cui di solito solo il primo è informa sonata.

Le potenzialità di questa nuova forma, chesulle prime non fu accolta con entusiasmounanime (Clara Schumann la definì insop-portabile), furono però immediatamentecomprese e interiorizzate da Reubke, spin-gendolo a cimentarsi con due composizionidi ampio respiro – una per organo e una perpianoforte – sul modello della sonata li-sztiana.Le due Sonate di Reubke sono state conce-pite quasi contemporaneamente. Forse que-sto è il motivo per cui entrambe lecomposizioni impiegano sostanzialmente lostesso materiale musicale, una sorta di “idéefixe”, seppur elaborato in modo che i temiveri e propri siano differenti. La Sonata per pianoforte, in Si bemolle mi-

nore, composta nel 1856 e dedicata al suo“eccellentissimo maestro” Franz Liszt, è conogni probabilità il primo esempio di sonataper pianoforte in un unico movimento, di-chiaratamente ispirato al modello della So-nata in Si minore. La Sonata in Do minore perorgano “Der 94ste Psalm”, oltre ad esserela prima sonata in un movimento per questostrumento, è anche la prima sonata “a pro-gramma” (il programma è il testo del“Salmo 94”, che compare nella prima pa-gina dell’edizione a stampa).La Sonata per pianoforte, pur mostrandochiaramente la filiazione dalla Sonata li-sztiana nella forma e nella scrittura pianistica(in un recitativo c’è anche una citazione deltema principale della Sonata di Liszt, quasiuna dedica per “iniziati”), si distingue daquesta per il suo carattere peculiare, perun’armonia forse più vicina a Wagner che aLiszt, e per la compattezza del materiale mo-tivico. La Sonata per organo si spinge, se pos-sibile, ancora più avanti, e dichiara la propriavolontà di rottura col passato sin dalle primeardite battute; la forma sonata è meno rico-noscibile, e l’armonia tonale viene portata adun limite cui nessuno aveva osato spingersifino a quel momento in composizioni stru-mentali.

In entrambe le opere, ma forse più chiara-mente nella Sonata per pianoforte, si notaanche la ricerca di un superamento dei limitidello strumento. Nella Sonata di Reubke,forse addirittura più che in quella lisztiana,ci si trova davanti ad una scrittura palese-mente orchestrale; ma se Liszt scrive per ilpianoforte cercando di riprodurre effetti or-chestrali, Reubke scrive per orchestra,avendo però a disposizione il pianoforte eusandolo al limite delle sue possibilità.Nel caso della Sonata per organo è fonda-mentale ricordare che Reubke concepì ilpezzo sul monumentale organo della catte-drale di Merseburg, costruito nel 1855 daFriederich Ladegast (1818-1905) e in gradodi produrre sonorità inaudite, quasi apoca-littiche. L’organo di Merseburg avrebbe do-vuto essere inaugurato da un nuovo lavorodi Liszt, il “Präludium und Fuge über B-A-C-

H” (tra l’altro dedicato a Winterberger), ap-positamente composto per sfruttarne le po-tenzialità timbriche ed espressive. In realtàLiszt non riuscì a terminare il “Präludium undFuge” in tempo, e per l’inaugurazione Win-terberger eseguì in “prima assoluta” un altroimportante pezzo per organo di Liszt, la Fan-tasia e fuga sul corale “Ad nos ad salutaremundam”. Il “Präludium” fu eseguito alla pre-senza dell’autore diversi mesi dopo (il 13Maggio 1856). È curioso notare che Lisztstesso eseguì in seguito la sua composizionea Magdeburg, su uno strumento costruito daAdolf Reubke, padre di Julius.Non ci sono prove che Reubke fosse presentealle esecuzioni dei pezzi per organo di Liszt,ma – anche per il legame di amicizia conWinterberger – è facile dedurre che cono-scesse molto bene entrambe le composizionilisztiane. Tracce del “Präludium und Fugeüber B-A-C-H” sono presenti nella sonataper pianoforte, così come il motivo di quattronote che simboleggia il nome di Bach (in no-tazione tedesca il motivo “Sib-La-Do-Si na-turale” si scrive appunto “B-A-C-H”)compare come una dichiarazione nel finaledella Sonata per pianoforte. Allo stessomodo l’approccio sinfonico all’organo rivelauna conoscenza precisa degli esperimenti li-sztiani così come una consapevolezza, forsesuperiore a quella di Liszt stesso, delle pos-sibilità espressive dello strumento.Bisogna infine riconoscere che la musica diReubke, per l’uso dell’armonia o per il trat-tamento dei temi di chiara matrice wagne-riana, è spesso più affine alle composizionisinfoniche di Bruckner (che nonostante fossepiù anziano arriverà a scrivere la sua primaSinfonia solo nel 1866, dopo diversi tentativi)che alla musica di Liszt. Ma al di là di fredde considerazioni tecnicheo musicologiche, quello che colpisce di più inquesta musica è come la bellezza riesca a re-dimere e a rendere tollerabile anche il più di-sperato presentimento della propria fine.Reubke è stato un grande artista, che è riu-scito a sublimare l’ansia e i tormenti dellasua malattia in un monumentale edificio disuoni, il quale attende ancora di trovare ilposto che gli spetta nelle sale da concerto.

l'articolo è apparso sul numero di luglio 2012 della rivista Amadeus

Julius Reubke

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SPENGLER, LA STORIA È CICLICAdi Stefano Biguzzi

A guardarsi intorno nel mondo di oggi, pernon palare dell’Italia, non si può fare ameno di pensare con divertita malinconiaa cosa mai potrebbero dire o scriverequanti ne avevano intravisto la fatale de-cadenza già un secolo fa. È il caso adesempio di Oswald Spengler e del suo ce-leberrimo Il tramonto dell’Occidente, mo-numentale e controverso affrescostorico-filosofico che ha impresso una trac-cia profonda nel pensiero politico delprimo Novecento restituendo con dramma-tica efficacia il travaglio sociale e spiritualedi quell’epoca. Approdato alla filosofia dopo studi discienze matematiche e naturali, Spengler(1880-1936) appartiene alla corrente diquello storicismo tedesco che guardavaalla storia non come sconnesso affastella-mento di fatti ma come totalità di eventi incontinuo sviluppo dialettico; e prettamentetedesca è anche la tradizione culturale cheispira l’autore attraverso le mille e quattro-cento pagine di questa sua opera prima:dall’eredità romantica alla visione goe-thiana della realtà, dal pessimismo di Scho-penauer agli inconfondibili riflessi delpensiero nietzschiano. Muovendo dall’assunto che l’umanità noncostituisce un complesso unico di individui,il ponderoso studio di Spengler delinea unadottrina storiografica incentrata sull’auto-nomo sorgere di molteplici ed eterogeneeciviltà analizzate dal punto di vista natura-listico. Ogni civiltà, come ogni organismo,ripropone la costante ripetizione di un me-desimo ciclo vitale biologicamente deter-minato e assimilabile a quello di un annocon le sue quattro stagioni. La parabolaascendente del millenario arco temporalein cui si sviluppa questo processo culminanella Kultur mentre la fase discendente siavvia con il passaggio ad una Zivilizationdestinata a progressiva decadenza, finoalla morte e al definitivo estinguersi dellaciviltà. Più che nella discutibile gabbia del deter-minismo biologico in cui la realtà storica eil suo sviluppo vengono costretti riducen-dosi così a una sorta di metafisica, la for-tuna incontrata da Spengler nel primodopoguerra risiede appunto nell’antitesitra Kultur e Zivilization; là dove per «cul-tura» si intendeva un organismo vivente,in crescita, animato da un impulso metafi-sico e per «civilizzazione» lo stato agoniz-zante di quella stessa «cultura», uno«stato esterno e artificiale», materialistico

e privo di una dinamica propria. Il richiamodi questa visione all’idealismo e al roman-ticismo è evidente tanto quanto il suo ri-fiuto dell’illuminismo. Secondo Spengler, èproprio con il Settecento e con quelle cheegli considerava le sue trite razionalizza-zioni e la sua critica distruttiva che avrebbepreso avvio l’autunno dell’Occidente; unautunno fattosi inverno nell’Ottocento conil definitivo esaurirsi dell’impulso metafi-sico. Il trionfo del denaro, l’equiparazionetra potere economico e politico, la crisidella morale e della religione, la rinunciase non addirittura l’ostilità del ceto bor-ghese dominante alle virtù aristocratiche,l’assenza di vitalità e dinamismo che carat-terizzava una società sazia di sé stessa,l’avanzare di una filosofia della rassegna-

zione parallelamente all’affermarsi del so-cialismo materialistico; questo«rovesciamento di tutti i valori», come giàlo aveva definito Nietzsche, rappresentavala prova lampante di un tramonto sceso aoscurare la civiltà occidentale. In questoscenario tuttavia, la Grande Guerra ap-parve a Spengler come un elemento dirom-pente in grado di aprire imprevisteprospettive per il XX secolo, rimettendo inmoto i processi di evoluzione biologica del-l’Occidente. Una nuova era di lotte perpe-tue era iniziata, l’orgoglio e l’istintoavrebbero avuto la meglio sul denaro esulla civilizzazione facendo rivivere il prin-cipio di una élite aristocratica. La società si

sarebbe polarizzata attorno ad una mo-derna generazione di capi, i «nuovi bar-bari» e alle grandi masse popolari. Aglisconvolgimenti del conflitto armato sa-rebbe seguito un neo-primitivismo cheperò avrebbe recato i semi di uno sviluppofuturo e di un mondo nel quale gli uominiavrebbero ritrovato l’aspirazione al sopran-naturale e al metafisico. Per la Germania del 1918, sconfitta e fru-strata nella sua volontà di potenza, il pen-siero di Spengler non poteva non caricarsidi valenze simboliche e per certi versi ad-dirittura messianiche, ben oltre le inten-zioni del suo stesso autore. Il tramontodell’Occidente assurse così a immagine delcrollo tedesco e l’impianto teorico spengle-riano finì per offrirsi come sistema di rife-

rimento per quanti, già prima della guerra,vedevano nel progresso economico e nellamodernità, nell’avvento delle masse sullascena politica, nella decadenza delle vec-chie istituzioni liberali, nella perdita di unbaricentro ideale, una minaccia al propriostatus sociale così come al complesso deipropri valori. Accettare la «cultura» rifiu-tando la «civilizzazione» consentiva di eva-dere da una società in cui non ci siriconosceva più, rifugiandosi nella ricercadi un «radicamento» spirituale da conse-guire attraverso l’interiore corrispondenzatra individuo, patria, popolo (Volk) e uni-verso. E chi guardava con terrore al pro-gresso nel timore di perdere il proprio

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RECENSIONIdi Alberto Spano

LA SAGRA DI GATTI

IGOR STRAVINSKYSagra della primavera, Petrouchka. Orchestre National de FranceDaniele Gatti, direttore

Parigi, 29 maggio 1913. Al Théâtredes Champs-Elysées va in scena unanovità dei Balletti russi, la famosis-sima compagnia di Sergej Djaghilev.La musica è di Igor Stravinsky direttada Pierre Monteux e la coreografiadel mitico Nijinskij. È una rivolu-zione, il pubblico insorge, l’opinionesi divide. Si può dire che c’è un primae un dopo quella data nella storiadella musica. Il titolo Sacre duprintemps verrà tradotto in italiano(in modo impreciso) come La sagradella primavera (in luogo del piùcorretto “rituale” o “rito”). 100 annidopo giungono in negozio moltenuove incisioni: fra di esse ci sen-tiamo di dire che la migliore siaquella di Daniele Gatti, che dellaSagra è stato ottimo interprete findagli esordi. Ne ricordiamo fra l’altroun’esecuzione da manuale con l’Or-chestra del Teatro Comunale di Bo-logna una quindicina d’anni fa, nellaquale il direttore milanese, oggi acapo dell’Orchestre National deFrance e in odore di direzione musi-cale al Teatro alla Scala, diede saggiodelle sue eccezionali capacità anali-tiche. In questo cd Sony che giungepochi mesi dopo la pubblicazione diun bellissimo e vigoroso Debussy (LaMer, Prélude à l’après-midi d’unfaune, Images) si conferma la sualettura, volta ad una quasi radiogra-fica resa del testo, con virtuosisticosenso del ritmo e del suono e grandetensione. E l’Orchestre National deFrance si presenta come una dellemigliori compagini internazionali,con una tenuta eccellente, fiati pro-digiosi e archi da primato. Altret-tanto avvincente la lettura dellaSuite dal balletto Petrouchka: Da-niele Gatti entra di diritto nel par-naso dei (pochi) grandi direttoristravinskiani.

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BRAHMS E LA BELLA HÉLÈNE

JOHANNES BRAHMSI 2 Concerti per pianoforte e orchestra opp. 15 e 83Hélène Grimaud, pianoforteSymphonieorchester des BayerischeRundunks, Wiener PhilharmonikerAndris Nelsons, direttore

È il suo disco più bello finora uscitoper la Deutsche Grammophon, regi-strato nell’aprile (op. 15) e nel no-vembre (op. 83) del 2012 coldirettore lettone Andris Nelsons edue compagini orchestrali di grandeblasone, l’Orchestra della Radio Ba-varese e i Wiener Philharmoniker. Leiè Hélène Grimaud, pianista il cui fa-scino mediatico – la bellezza,l’amore per i lupi, l’infanzia dorata,la depressione, la vittoria sulla ma-lattia – spesso sovrasta sull’indubbiotalento, mercé alcune prove sbiaditedegli ultimi tempi. Come rigenerata,a 43 anni rivela ora un’interpretematura, intelligente e in pieno pos-sesso dei suoi mezzi. I tempi sonocomodi, rilassati, spesso grandiosi, inuna parola “brahmsiani”; il fraseg-gio è fremente e molto partecipatoemotivamente. Non c’è virtuosismo,non sfoggio, ma c’è intensità, pre-gnanza di significati, in una parola:una visione. La Grimaud trova unostato di grazia nel Primo Concerto,non a caso registrato live, quindiforse condizionato dalla presenzadel pubblico. Più controllato il Se-condo Concerto, in cui non c’è maiveramente espansione lirica. Labuona prova di Hélène è però certa-mente coadiuvata grazie alla pre-senza di un autentico talentodirettoriale, fra i più grandi di oggi,quello del lettone Andris Nelsons,che già diede prova discografica ma-iuscola per DG nei due Concerti diChopin con Daniel Barenboim al pia-noforte. La vera rivelazione di questodisco è dunque lui, il quale è capacedi far sprigionare dalla formidabileorchestra bavarese i colori più lividiche si possa pensare, affondandocon la bacchetta in un suono denso,profondo, magmatico. Un plausoparticolare vada all’ingegnere delsuono che ha captato dal vivo isuoni del Primo Concerto nellasplendida acustica della Herkules-saal di Monaco di Baviera: il suonome è Peter Urban.

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OMAGGIO AL NOBILE PIERO

PIERO GUARINOLa vita e la musica(a cura di Micaela Guarino)Orchestra da Camera di TrentoGiancarlo Guarino, direttore

Piero Guarino (1919-1991) è statouno dei musicisti più importanti del se-colo scorso. Valente pianista, già al-lievo di Alfredo Casella, cameristad’eccezione in varie formazioni da ca-mera, in particolare in duo con la mo-glie, la violoncellista DonnaMagendanz, docente apprezzato, fon-datore del Conservatorio di Alessan-dria d’Egitto (dove nacque),indimenticato direttore del Conserva-torio di Parma, dove formò molti allievie didatti e dove la sua impronta an-cora si sente, Guarino fu compositoreeclettico e raffinatissimo, la cui ispira-zione discende direttamente per lirami di Debussy e Ravel, con una sen-sibilità moderna e smaliziata. In occa-sione del ventennale dalla suascomparsa la figlia Micaela gli dedicauna bella monografia pubblicata a Bo-logna dall’editore Albisani (www.albi-sanieditore.it). Nel libro di quasi 100pagine, ricco di foto per la maggiorparte inedite che da sole raccontanodi una fortunata e per certi versi ine-guagliata stagione della musica in Ita-lia, è composto da vari saggi:discografia, catalogo e testimonianzedi allievi e amici, alcune delle quali af-fettuose ma pungenti (Minardi, DeBarberiis, Vlad, Terni, M. Abbado, Giu-ranna, R. Chailly, Gelmetti, Porta,Bronzi, Maurizzi, etc.), le quali tuttecontribuiscono a delineare la figura diun musicista di calibro internazionale,tanto elegante quanto intransigente,innamorato della propria arte, servitasempre con feroce autocritica. Nel cdallegato una bella antologia di suemusiche, eseguite magnificamente dalvivo a Trento nel 2011 dalle cantantiMargherita Guarino e Martina Belli,dal pianista Stefano Guarino, dal cla-rinettista Lorenzo Guzzoni e dall’Or-chestra da Camera di Trento diretta daGiancarlo Guarino. Vi si ascolta la Ber-ceuse (da Garcia Lorca) del 1951, Tusanta solitudine su testi di Rilke del1944, Huit Poèmes d’Henri elKayen del 1952, lo splendido e do-lente Schlaflied (Ninna nanna) pervoce e clarinetto su testo di Rilke, il DeProfundis del 1965 per due vocifemminili e archi, l’Omaggio a Cle-menti per pianoforte e archi del 1971,Jeu Parti del 1966 e Quattro Haikuper canto e pianoforte del 1987.

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ZAPPA D’EMILIA

ORCHESTRA SPAZIALE MEETS ZAPPAFRANKVincenzo Vasi, voceGiorgio Casadei, chitarra e arrangiamentiOrchestra Spaziale

Son già vent’anni che è morto FrankZappa e non si contano gli omaggidi musicisti colti ed extracolti, diestrazioni le più diverse, a questoenfant terrible della musica rock,che con la sua inventiva seppe por-tare il genere ai livelli di più altaraffinatezza qualitativa ed intellet-tuale. Un genio con cui la storiadella musica dovrà fare presto iconti, anche a livello istituzionale edidattico. È qui inutile ricordare ciòche Zappa ha fatto nel campo dellaricerca sulla sonorità, sul ritmo, sulsuono. Tanto che non pochi musici-sti e compositori colti (non ultimoPierre Boulez) si sono dovuti arren-dere al suo talento, spesso emulan-dolo o imitandolo. Giunge a fagioloquesto nuovo compact disc di pro-duzione felsinea che assembla mi-rabilmente alcune ottimeperformance dell’Orchestra Spa-ziale di Giorgio Casadei, realizzatedal vivo in varie città emiliane fra il2000 e il 2005, il tutto partendo daun’idea del musicologo GiordanoMontecchi, da sempre innamoratodi Zappa, che dunque di questodisco è praticamente l’inventore. Glieccellenti arrangiamenti sono tuttidi Casadei, che è anche bravo chi-tarrista che si mescola fra i tantimusicisti filozappiani, tutti italiani,fra i quali spicca la personalità diVincenzo Vasi, voce solista e suona-tore di theremin. Alle tastiere c’èquasi sempre Marco Dalpane, il pia-nista-musicologo bolognese impe-gnato nei più vari repertori, dallaclassica all’avanguardia al rock alpop, artista autentico, dall’onnivoracuriosità, autore per la stessa eti-chetta di un altro bellissimo albumdi musiche proprie (Sound Form, cda simple Linch 01ASL2013), in cui èimpegnato al pianoforte verticale,al toy piano, alla fisarmonica e allepercussioni, all’interno di una pale-stra di scuola (le elementari Roma-gnoli) dotata di eccezionaleriverberazione. Si ascolta una mu-sica bella e di suggestione, a metàfra un minimalismo morbido allaTen Holt e una certa “musiqued’ameublement” di sapore sa-tieano. Cuore del cd Aha Erlebnis(aha-esperience) e Insight.

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€ 1

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