el chico que imitaba a Roberto Carlos (Ed. Anaya)

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El chico que imitaba a Roberto Carlos 1 Vi piace ascoltare storie? Vi piace stare sdraiati e che qualcuno vi racconti qualcosa e che le parole scorrano e voi non dobbiate fare nessun altro sforzo se non quello di mantenere le orecchie aperte? A me sì, perché ti dimentichi dei tuoi problemi e puoi addirittura ricavarci qualcosa, un qualche insegnamento che ti sia utile, imparare dagli sbagli altrui, che è il modo migliore per imparare, a quanto dicono. Per questo, quando mio padre mi mandava a prendere le sigarette da Los Moscas, il bar di sotto, non mi dispiaceva mai, e a volte ci mettevo un po' a salire, perché incontravo il Pinza, al bancone, che raccontava una storia di quartiere, come quella del nonno della Dentona, il giorno in cui ci rubarono la partita e il Fenix non fu promosso in Terza, saranno già passati vent'anni da allora, e per poco non fecero fuori il nonno della Dentona, perché lo avevano scambiato per l'arbitro, e dovettero salvarlo due agenti della Guardia Civile, che a quei tempi portava ancora il tricorno. Le sigarette me le dava sempre la Chari, che era piccoletta e magra come un osso rinsecchito al sole e mi guardava sempre con sfiducia, come a dire: così giovane e già con vizi, anche se sapeva perfettamente che le sigarette erano

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Chapitre 1 à 12 Traduction de l'espagnol à l'italien par Rosanna Carluccio (Editions Anaya)

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El chico que imitaba a Roberto Carlos

1

Vi piace ascoltare storie? Vi piace stare sdraiati e che

qualcuno vi racconti qualcosa e che le parole scorrano e voi non

dobbiate fare nessun altro sforzo se non quello di mantenere le

orecchie aperte? A me sì, perché ti dimentichi dei tuoi problemi

e puoi addirittura ricavarci qualcosa, un qualche insegnamento

che ti sia utile, imparare dagli sbagli altrui, che è il modo

migliore per imparare, a quanto dicono. Per questo, quando mio

padre mi mandava a prendere le sigarette da Los Moscas, il bar

di sotto, non mi dispiaceva mai, e a volte ci mettevo un po' a

salire, perché incontravo il Pinza, al bancone, che raccontava

una storia di quartiere, come quella del nonno della Dentona, il

giorno in cui ci rubarono la partita e il Fenix non fu promosso in

Terza, saranno già passati vent'anni da allora, e per poco non

fecero fuori il nonno della Dentona, perché lo avevano

scambiato per l'arbitro, e dovettero salvarlo due agenti della

Guardia Civile, che a quei tempi portava ancora il tricorno.

Le sigarette me le dava sempre la Chari, che era

piccoletta e magra come un osso rinsecchito al sole e mi

guardava sempre con sfiducia, come a dire: così giovane e già

con vizi, anche se sapeva perfettamente che le sigarette erano

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per mio padre e poi c’era chi aveva due anni meno di me e già

fumava. Il Pinza diceva che la Chari era brutta ma onesta, e che

entrambe le cose non erano colpa sua. E se il Pinza stava

raccontando, ad esempio, la storia del nonno della Dentona, o

una qualsiasi altra, mi fermavo un po' ad ascoltare, e quando

tornavo, mio padre mi sgridava per averci messo tanto, anche se

di solito mi dava il resto come mancia.

Però la storia che sto per raccontarvi non è quella del

nonno della Dentona, né quella del Pinza e neppure quella di

mio padre, ma quella di un nero che non era nero e di una testa

rapata che non era una testa rapata, e anche quella di due amici

che facevano graffiti, e soprattutto quella di un ragazzo che era

il fratello maggiore di uno di loro e che ai battesimi e ai

matrimoni, quando glielo chiedevano gli adulti, quelli di una

certa età, cantava canzoni di Roberto Carlos. Non è nemmeno la

storia di un pappagallo verde, perché alla fine né io né altri ce lo

siamo comprati, per quanto Sandra, la sorella di Alber, me lo

dicesse ogni due per tre. Che peccato, vero?, non avere un

pappagallo verde o rosso o di un qualsiasi altro colore, un

pappagallo che non smette di parlare, perché allora, se il tempo è

eterno, questo pappagallo, come la scimmia che scrive a

macchina, ad un certo momento racconterebbe questa storia, o

una molto più bella, ed io potrei ascoltarla, sdraiato sul letto,

assopito, lasciandomi invadere senza sforzo, con gli occhi

semichiusi e le orecchie aperte…

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Sapete quanti anni avevo a quei tempi? Io sì, e voi lo

saprete subito, perché sto per dirvelo: avevo quattordici anni,

una vittoria al totocalcio*, due settimane, un anno meno di

Alber, il mio migliore amico. Alber era spagnolo quanto lo ero

io, anche se sua madre era nera, quindi lui era mulatto. Tutti nel

quartiere lo trattavano bene, perché era cresciuto lì, era uno

come gli altri, solo molto più scuro, ma tanto che importava.

Portava un orecchino all'orecchio sinistro, i capelli rasati sulla

nuca e gli altri lunghi, e diceva che eravamo tutti uguali e che

bisognava essere di sinistra, perché solo quelli di sinistra si

sarebbero preoccupati del nostro quartiere. Lo conobbi alla

radio, nell'emittente pirata che allestiva la domenica mattina, nel

retrobottega della rivendita di uova dei suoi vecchi. O per dirla

meglio, lo conoscevo da prima, dai tempi della scuola media, ma

fu nel retrobottega che diventammo amici, per la storia della

radio pirata. Alber metteva la musica, non tecno, ma musica che

si poteva cantare ed ascoltare, e nel mezzo lanciava invettive per

protestare contro l'ingiustizia sociale, le guerre e la droga, e se la

prendeva con i politici, che secondo lui mentivano invece di

* Quiniela in spagnolo. Si vince totalizzando quattordici punti.

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parlare, e disquisiva sulla Bosnia e lanciava allarmi sul disastro

ecologico. Fece alcuni programmi molto buoni, senza pubblicità

né altro, e cominciava sempre allo stesso modo: " Il dottor Alber

di nuovo con voi, se sei in ascolto o hai qualcosa di divertente

da raccontare o qualcosa da denunciare, sai già cosa fare …" La

storia del dottore era un'invenzione, ovviamente, non avevamo

nessun titolo, o meglio, sì, un diploma di scuola elementare, e se

per questo, Alber non aveva nemmeno la carta d'identità, perché

diceva che i documenti limitano le libertà individuali.

La radio si ascoltava nel nostro quartiere e non molto

oltre, però anche così, un giorno arrivarono dei vigili e ci

confiscarono sine die l'apparato, perché era illegale trasmettere

senza permesso. Alber ed io chiedemmo che cosa significasse

sine die, e risultò che nessuno lo sapeva. Dato che non si seppe

più niente della radio, deducemmo che significava per sempre.

Siccome Alber era minorenne, ed anche io, non ci successe

niente, però rimanemmo senza le nostre domeniche mattina.

Quando ci chiusero il locale, cominciammo ad andare alla

colombaia abbandonata, al torrione. Lì fumavamo qualche

sigaretta ogni tanto, e sempre lì decidemmo di cominciare a fare

graffiti per strada, di bombardare la città, come diceva Alber.

– Tu sai perché bombardiamo la città? – mi chiese un

giorno.

– Non lo so – esitai un istante, sconcertato proprio perché

la risposta mi sembrava tanto evidente quanto superflua la

domanda –. Per divertirci, no?

– No. Per continuare a protestare, adesso che non

abbiamo più la radio.

Alber era fin troppo responsabile, logico, non si era

ancora innamorato, nemmeno platonicamente.

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Vi voglio parlare di Risa. Risa aveva diciotto anni, ed

era…(fate un respiro profondo)… la ragazza di cui era

innamorato il ragazzo che imitava Roberto Carlos, mio fratello.

Risa in realtà si chiamava Sira, però mio fratello aveva

scambiato le lettere e la chiamava Risa, perché diceva che era

festa ed allegria, e non capisco perché lo diceva, visto che

spesso diventava molto triste a causa sua. Non ho mai saputo

cosa c'era stato esattamente tra loro un anno prima di tutto

questo, ma sono stati fidanzati o qualcosa del genere, sicuro.

Siccome non avevo mai avuto una ragazza, e nemmeno ne

avevo bisogno, non ci capivo granché. Io preferivo stare con gli

amici. Una volta lessi senza permesso un pensiero scritto da lui

che diceva: "La donna che amo ha un sorriso a forma di luna e

un neo sulla schiena". Risa apparteneva a una famiglia

numerosa. Uno dei suoi fratelli era stato eroinomane, e aveva

preso l'aids con una siringa infetta. Però non morì per questo. Si

ammazzò in un incidente di macchina, prima che la malattia

mostrasse i primi sintomi. Si chiamava Santos, ed era stato

molto amico di mio fratello. Quando cominciò a farsi, iniziarono

a separarsi. La macchina dell'incidente era rubata. Nel quartiere

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si disse che era con mio fratello, che lo aveva aiutato a rubare il

ferro collegando i fili. Mio fratello non me ne aveva mai parlato,

ed io non ci credevo. L'unica cosa certa era che se ne intendeva

di macchine e di meccanica. Il fatto che Risa avesse un fratello

maggiore che era morto credevo le conferisse una certa

superiorità sugli altri, come se quella disgrazia l'avesse resa più

saggia e più bella. Adesso so che ciò ti rende, soprattutto, un po'

più triste.

Nel periodo in cui il ragazzo che imitava Roberto

Carlos e Risa erano fidanzati o quasi, mio fratello mi aveva

mandato a casa sua con una lettera per lei. Le consegnai la busta

in mano, proprio come mio fratello mi aveva fatto promettere, e

le chiesi se aveva un neo sulla schiena. Risa rise della domanda,

e disse:

– Quasi tutte le ragazze ne hanno uno.

Dalla finestra della camera, che non era solo sua, Risa

vedeva la città come se fosse un grande paese, con un bel tempio

romano e, in fondo, un castello. Di tanto in tanto immaginava

che da quel castello sarebbe sceso il suo Principe Azzurro.

Le ci volle troppo tempo per capire che quel Principe

Azzurro viveva molto più vicino, qualche isolato più in là del

suo.

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Non vi parlerò della scuola, perché tutto successe

d'estate, durante i tre mesi di vacanza…Tre mesi di vacanza, che

sogno solo a ripensarci! Agli inizi dell'estate raccogliemmo

Charli. Lo avevano abbandonato, e a me fece pena. Mio fratello

ed io stavamo nella distesa di campagne e coltivazioni che

volevano riqualificare, ai margini del quartiere, dalle parti del

torrione e della ferrovia, quando vedemmo un cane, che vagava

tutto disorientato, da una parte all'altra. Ci avvicinammo, e ci

venne incontro. Era molto magro. Era tutto color cannella.

– Lo hanno abbandonato.

– Come lo sai? – chiesi.

Era senza collare, quindi come lo sapeva? E se per

questo, Charli all'epoca non aveva nemmeno un nome.

– Si vede. È un bel cane, non un bastardo. È un bracco

di Weimar. Ha un anno. C'è gente che si compra un cane, e

quando arriva l'estate, si stufa e non vuole portarselo al mare.

– Loro sì che sono cani – dissi.

– È un cane da ricchi. Lo hanno lasciato qui, lontano da

casa, affinché non ritrovi la strada.

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Lo accarezzai e gli presi la pelle del collo. Gliene

avanzava un sacco, perché era tutto ossa. C'era come angoscia

nel suo sguardo.

– E se ce lo tenessimo?

Mio fratello fece una smorfia di fastidio. Era più alto di

me, mi superava…di mezza testa, quasi una.

– Tenere un cane in casa? Non dire sciocchezze. E poi

non credo che i capi la manderebbero giù.

– È malato, guarda gli occhi, sono gialli.

– Malato? Ma che dici, sono così.

– Bisogna dargli da mangiare.

– Che impari ad arrangiarsi – disse mio fratello.

Però lo stava accarezzando. Anche a lui faceva pena.

– Potremmo chiamarlo Charlie – dissi.

– Charlie? Che tamarrata – si burlò. Un nome straniero.

Però aveva tirato fuori una corda dalla tasca della sua

tuta blu da meccanico. La mise al collo di Charli, e fece un

nodo.

– Possiamo chiamarlo Charli senza e, così è meno

straniero e meno da sfigati – proposi, animandomi nel vedere il

gesto della corda –. E poi hai detto che è di Weimar, no?

– Vabbé – disse –. Vediamo che cosa ne pensano Isabel e

Fernando.

Tornammo con Charli al guinzaglio, anche se ci avrebbe

seguito comunque, io entusiasta e mio fratello silenzioso.

Incrociammo Sandra. La sorella minore di Alber aveva tredici

anni, una compagnia di disperati e spacconi, una sfiga da anni, e

a me sembrava bellissima.

– Ehi, Sandra! Guarda! Si chiama Charli! È nostro!

– Per me è come se ti fossi comprato un pappagallo

verde! – gridò lei, e andò via di corsa.

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Se fossi stato da solo, non sarebbe scappata in quel

modo, così veloce e così nervosa. Sospettai che alla sorella di

Alber piacesse mio fratello. Non era giusto. Mio fratello piaceva

a tutte. Che andasse affanculo, Sandra. E poi era di un anno più

piccola, quindi per me era una bambina, no? Allora, che andasse

a cagare.

– Ti piace?

– No – mentii a metà: mi piaceva e non mi piaceva–. È

un po' stupida. Credo che mi piacerebbe di più se io le piacessi

di più.

– Però – rimase sorpreso –. Stai a vedere che sei tu che

devi insegnare delle cose a me.

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I capitani accettarono Charli a metà: ce lo saremmo

potuti tenere, però nel terreno che avevamo, non molto lontano

dalla colombaia. Era un appezzamento molto piccolo e di terra

cattiva, quasi senza valore, perché non era edificabile.

– Quando avremo soldi – diceva mio padre –. Quando

avremo soldi e permetteranno di costruire, lì costruiremo una

casa.

Isabel e Fernando dicevano sempre: quando avremo

soldi, però non li avevamo mai ed io non capivo davvero come

saremmo mai riusciti ad averli.

In tre giorni mettemmo in piedi una casetta di mattoni

per Charli, e se l'estate precedente era stata quella della radio

pirata, quella fu l'estate dei graffiti, ed anche di Charli e della

sua casetta. Il nome Charli era dovuto alla guerra del Vietnam.

Gli yankee chiamavano i vietnamiti Charlie, Alber e io

l’avevamo imparato dai film, come Platoon e altri. Alber diceva

che Charlie era dalla parte della ragione in questa guerra. Per me

non era così chiaro e chiesi a mia madre che cosa ne pensava.

Neanche lei era molto sicura, però sospettava che nessuno dei

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due avesse ragione, e che in ogni caso ormai non faceva

differenza, dato che quella guerra era finita e adesso quelle che

contavano erano altre. Disse anche che, comunque, quando un

piccoletto litigava con uno più grande, lei si schierava quasi

sempre col piccoletto, a meno che il piccoletto non fosse più

cattivo di un demonio. A volte mia madre mi parlava come se

avessi sette anni. Comunque, quando Alber seppe il nome che

avevamo dato al cane abbandonato, Charli, rimase un sacco

contento.

Li passammo da dio, quei tre giorni. Recintammo il

terreno con del filo spinato, anche se il primo giorno Charli lo

saltò come niente e ci seguì, per questo dovemmo legarlo. Alber

ed io costruimmo la casetta di mattoni, e mio fratello ci diede

una mano. Il giorno che la finimmo e la dipingemmo di verde,

una figata, Sira venne a vederla. Lei e mio fratello discussero,

nonostante non si vedessero da tempo, almeno a quanto ne

sapevo io. Sira se ne andò senza salutarci.

– Che maleducata – mormorò tra i denti Alber,

sicuramente se Sira non gli fosse sembrata così carina, non gli

sarebbe importato tanto che se ne fosse andata in quel modo.

Mio fratello veniva verso di noi, e per questo Alber

aveva parlato a voce bassa e quando arrivò alla casetta gli chiesi

che cosa era successo.

– Mi ha deluso – disse –. E credo di averla delusa

anch'io.

Ho già detto di non aver mai capito molto bene che cosa

era successo tra loro. Nel quartiere girava la voce che Sira era

rimasta incinta, e che aveva abortito. C'erano due versioni: la

prima sosteneva che era stata Sira ad aver voluto abortire, e

l'altra che mio fratello l’aveva obbligata. Però questa era una

balla, ne sono sicuro. E poi c'era la storia del fratello, Santos, e

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dell'incidente. Altra palla, logico. Mio fratello che ruba

macchine? Ma dai…

– Siete stati fidanzati? – chiesi.

– Qualche mese. Ti ricordi della sera dei venticinquemila

bigliettoni? Quel giorno abbiamo litigato.

Si riferiva a un concorso a La Sirena, l'anno prima.

Quella fu la prima volta che mio fratello imitò Roberto Carlos, e

siccome non mi avevano fatto entrare, me lo persi. Vinse il

secondo premio, 25.000 pezzi, e anche questo servì perché la

gente del quartiere inventasse i suoi pettegolezzi. Dissero, ad

esempio, che quei soldi se li spese per l'aborto di Sira.

Chiacchiere. So molto bene che cosa ne fece: si comprò una

Rieju 75 di seconda mano, nera con le scritte gialle, e l'aggiustò

nell'officina in cui lavorava qualche ora a settimana, quando

c'era lavoro arretrato e avevano bisogno di lui. Nel quartiere

molta gente, soprattutto alcuni della sua età, cominciarono a

prenderlo in giro e a dire, quando non era presente, perché in

faccia non si azzardavano, che era una checca e un pappamolla,

perché gli piacevano quelle canzoni mielose e sfigate di Roberto

Carlos, e Sira si mise ad uscire con il Maxi e il suo gruppo, a cui

piaceva il rock duro e per questo si credevano chissà che, come

se fossero speciali.

A mio fratello, seduto davanti la scrivania, con la finestra

aperta e una sigaretta accesa o da accendere in mano, che

osservava le mille luci della città, le navi industriali e gli enormi

depositi cilindrici, le battute lo lasciavano indifferente. Io credo

che lo rendessero addirittura più forte.

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Vi piace fare pipì sopra un limone tagliato con il getto

giallo che sembra quasi succo di limone? Vi piace? A me no, e

lo dico perché negli orinatoi de Los Moscas, il bar del

Seipesetas, ci sono limoni tagliati a metà, e dispiace pisciare

sopra il limone, così pulito e bello, così ben fatto e aromatico,

anche se è proprio questo il motivo per cui il Seipesetas lo mette

nel pisciatoio, il suo odore, ma chi aveva il fegato di dirlo al

Seipesetas? Lo chiamavano così perché era più duro di un duro*,

e una volta, a La Sirena, o almeno così raccontava il Pinza, i

suoi compagni, per farsi una risata, gli riempirono di pipì il

boccale di birra, approfittando del fatto che era andato a

pisciare, e quando al suo ritorno diede un sorso fece una faccia

un po' strana, ma poi se la finì, e disse, un'altra, però che sia

Mahou fatemi il piacere, come nel mio bar, e non una di quelle

schifezze importate calde che servite qui, e tutti giù a spaccarsi

dal ridere, e lui, cosa avete da ridere?, cosa avete da ridere? Uno

di quei giorni in cui scendevo a Los Moscas a prendere le

sigarette per mio padre, intervistavano in televisione López-

Alegría, l'astronauta spagnolo. Nel bar incontrai Alber.

* La parola duro, in spagnolo, significa non solo “duro, tosto”, ma indica

anche la moneta da cinque pesetas. Da qui, il soprannome Seipesetas, ossia

“un po’ più duro di un duro, che vale poco più di una moneta da cinque

pesetas”.

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– Sono molto contento di essere qui, un saluto alla

Spagna.

– E com'è la Spagna dall'alto? – chiedeva la giornalista.

– Dallo spazio, la Spagna è marrone.

– Anche da qui è marrone, ma di merda – disse il Piglia,

e scoppiò a ridere, rideva tanto della sua battuta, come se fosse

la più riuscita del mondo, che la birra gli uscì da quel suo

nasone, e si soffocò, e cominciò a tossire.

Io sono stato solo una volta in aereo. Quando avevo sette

anni. Era morto un parente più o meno lontano, e non lo dico

perché viveva alle Baleari, ma perché era una prozia di secondo

grado, o qualcosa del genere, e nostro zio ricco ci pagò il

viaggio in aereo per Maiorca. La distanza era poca, un'oretta,

però mia madre diceva che le distanze si misurano in pesetas, e

che per noi era lontanissimo. Ricordo che da lassù la Spagna si

vedeva marrone, era vero quel che diceva l'astronauta, però si

trattava di luglio. In primavera, chi lo sa, forse è più verde.

Il Piglia faceva coppia con il Pinza, si sedevano a un

tavolo del bar e giù a bere e dai a criticare e a parlare e a

sfogarsi, e giù, parla che ti parla e bevi che ti bevi. Il Pinza lo

chiamavano così perché aveva le gambe storte, anche se non

aveva mai montato né un asino né qualcosa di simile, come

faceva notare sarcasticamente mio fratello. Il soprannome del

Piglia veniva dal fatto che, quando arrivava tardi, diceva: a che

birra siete? La terza. E allora diceva, tre birre per me, che così li

ripiglio. Beveva più di una spugna, il disgraziato.

– Io, che sono di Getafe…– cominciò a dire il Pinza.

– Patria dell'aviazione spagnola…– scherzò al mio

orecchio Alber.

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– …patria dell'aviazione spagnola, vi dico che è molto

difficile arrivare così in alto nella vita come il López-Alegría…

In quel momento entrò il Lanas, il nipote del Piglia.

Sembrava un cadavere ambulante, uno zombi, tutto emaciato e

con le occhiaie. Il Lanas era stato amico di Santos, il fratello di

Risa, il tossico. Santos diceva di potersi controllare, però poi

non controllò un bel niente. Tutti quelli che nel quartiere

iniziavano con la droga dicevano che era tutto sotto controllo,

che erano gli altri a cadere, ma loro no, erano più furbi e forti, e

poi, nell'ora della verità, non controllavano niente, e vivevano

una vita di merda, e facevano fare una vita di merda anche a chi

li amava. Era stato mio fratello a spiegarmelo, e lui sapeva di

cosa parlava, perché era stato intimo di Santos. Il Lanas andò

dritto verso suo nonno, inciampò in uno sgabello, e siccome il

Seipesetas gli lanciò uno sguardo assassino, o almeno da pugile,

il Lanas lo raccolse goffamente, mormorando delle scuse

incomprensibili.

– Sto un sacco male, nonno

– Soldi, non te ne do.

– Un sigaro, voglio solo un sigaro.

Il Piglia gli diede un sigaro avana, il Lanas lo accese con

un cerino, rimase un momento a guardare suo nonno come un

allocco, per vedere se sganciava, e siccome il nonno sviò lo

sguardo, se ne andò.

– Suo fratello è stato nei parà e lì lo hanno raddrizzato,

ma questo qua... – disse il Pinza–. La colpa ce l'hanno i neri e gli

arabi, che sono quelli che vendono questa merda, e i gitani…

– Sempre la stessa musica, sempre a insultare i neri

e gli arabi e i gitani – riconobbi la voce profonda e

allo stesso tempo soave di mio fratello, e mi voltai: era

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vicino alla porta –, ma i peggiori sono i polacchi: vengono qui,

non imparano lo spagnolo, e con disprezzo dicono che noi siamo

arabi e africani. Però sapete una cosa? I peggiori non sono i

polacchi, né gli arabi, né i neri: i peggiori siamo noi che li

insultiamo solo perché sono arabi, neri o polacchi.

– E tu come sai queste cose dei polacchi? – disse il

Pinza, che guardava con rancore mio fratello.

– Perché me lo ha detto a La Sirena una polacca un

secondo prima di baciarmi – replicò mio fratello, guardando di

fronte, la parete, nessuno –. Ed io gli dissi: firmiamo un accordo

internazionale tra la Spagna e la Polonia.

– Mentecatto! – esplose il Pinza, con odio verso mio

fratello –. Mi devi rispetto! I giovani se ne vanno in giro a

provarci, e le ragazze a darla via! Vergogna nazionale! E alcune,

dopo, devono fare cose brutte condannate dalla religione e dal

Papa San Pietro in Roma! Perché quel che ha fatto so io chi è

peccato capitale e fuoco eterno!

Mio fratello si girò, lasciò con calma cento carte al

banco, e disse:

– Senti, Seipesetas. Non gli spacco la faccia perché è

ubriaco e perché è un vecchio rimbambito. E nemmeno perché si

tratta di tuo padre, capisci?

Rimasi molto impressionato del fatto che mio fratello

parlasse in quel modo al Seipesetas, e ancor di più del fatto che

il Seipesetas non fiatasse. Mio fratello girò la testa, guardò il

Pinza con infinito sdegno, ed uscì.

Io guardai il Piglia e il Pinza con tutto il disprezzo di cui

fui capace, e nel caso non fosse stato sufficiente sbuffai col

naso, ed uscii dietro di lui, seguito da Alber.

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Quando avevo dieci o dodici anni, il Pinza e il Piglia

m’impressionavano, e pensavo che sapessero molto della vita.

Nell’ultimo periodo avevano già cominciato a starmi meno

simpatici, perché mi rendevo conto che molte delle cose che

dicevano erano avvelenate. In realtà non erano loro ad essere

cambiati, ma ero io che, a quattordici anni, cominciavo a

cambiare, e a perdere non solo l'innocenza, ma anche il rispetto

per le persone più grandi, quando questo fosse l'unica ragione

per cui glielo si dovesse.

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Uscimmo per strada. Mio fratello camminava, qualche

metro più in là, con le mani in tasca e la testa inclinata.

Non era scontroso, però solitario sì. Voglio dire che era

simpatico con la gente, però di solito gli piaceva stare solo.

Questo lo rendeva più attraente e misterioso, ma, era

matematico, ciò faceva sì che la gente inventasse storie su di lui.

– Lo hai sentito entrare?

– No – disse Alber –. Tuo fratello è un principe.

Andai di corsa da lui.

– Ehi - gli dissi –. È la verità?

– Cosa?

– Beh…

– Come puoi dubitare di me, proprio tu?

Mi sentii molto importante, ma allo stesso tempo

malissimo, e abbassai la testa.

– Credi che io avrei voluto che Sira abortisse?

Alber, che era rimasto indietro, si unì a noi.

– Ciao – salutò.

E siccome era rimasto in silenzio, dissi:

– Alber vuole dirti qualcosa.

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Mio fratello aspettò qualche secondo. Alber non si

decideva a parlare, e si spazientì.

– Allora, sagoma, che non abbiamo tutta la notte.

– Vuole chiederti la ronzina – intervenni.

– Che modo di parlare è questo? Ti riferisci alla Rieju? –

A mio fratello dava fastidio che la chiamassimo ronzina. C'erano

due cose a cui teneva come se avessero vita propria: la moto e la

macchina da scrivere -. Sai portarla?

Alber annuì con la testa.

- È per andare a bombardare?

Con i suoi occhi marroni e brillanti come chicchi di caffè

mio fratello fissò i miei, e sentii qualcosa di molto strano, sentii

che lui sapeva che sì, era per questo e mi stava chiedendo che gli

mentissi. Era assurdo, lui sapeva, e mentre sostenevo il suo

sguardo compresi anche che sapeva che io sapevo, e tuttavia io

dovevo raccontare la bugia che lui si aspettava per lasciarci la

papera, per averla vinta. Lui voleva lasciarcela, però come

fratello maggiore non poteva farlo se era per qualcosa che

poteva comportare un qualche pericolo, per piccolo che fosse. E

mi guardava negli occhi, o meglio, guardava attraverso i miei

occhi, era così penetrante il suo sguardo, nella speranza che io

capissi tutto questo, e la verità era che non lo capivo molto bene,

non del tutto, anche se sapevo bene che cosa dovevo dire

affinché ci lasciasse la moto.

– No – dissi.

– Martedì potete prenderla, io non la userò. E attenzione,

Alber, che non hai la patente e forse non sai neanche come

cazzo andarci, e se vi succede qualcosa, la colpa sarà mia e

vostra in parti uguali.

Mio fratello si allontanava.

– Ehi – gridò Alber. Mio fratello si voltò –. È vero che

quando avevi la nostra età hai grattato qualche macchina?

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– Ho fatto qualche sciocchezza – rispose –, però questa

non è stata una di quelle.

Mio fratello se ne andò da una parte, Alber dalla parte

opposta, ed io salii a casa. Ci avevo messo così tanto a portare le

sigarette a mio padre che, quando gliele diedi, mi guardò con

aria molto seria, e senza dire una parola si tenne tutto il resto.

Mio padre, dopo l’incidente in moto, all'età di vent'anni, era

rimasto con una gamba un po' più corta dell'altra, e per questo

mi mandava sempre a prendere le sigarette.

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8

Quella notte mi ci volle un'eternità per prendere sonno.

Faceva un caldo infernale ed ero anche nervoso pensando a

martedì. Il nostro appartamento si riscaldava un sacco perché era

l'ultimo, e anche se quella notte soffiava vento, era un'aria calda

che appena dava un qualche sollievo. Pensavo alla storia delle

macchine rubate, sarà stata vera? Verso mezzanotte sentii

Maldonado che gridava dalla strada verso la finestra della

moglie di Castro:

- Che fortuna ha tuo marito, bella! Che fortuna ha tuo

marito, beato!

La moglie di Castro non rispondeva mai. Non era molto

bella, però sì era giovane e con un bel corpo, un gran bel pezzo

d’artista, secondo la Chari. Castro era un venditore, e tutti gli

anni si assentava tre o quattro volte per qualche giorno, e non

appena Maldonado lo veniva a sapere, faceva la serenata, ed io e

altri vicini ascoltavamo, e Maldonado, niente, con i suoi baffi e

la pancia gonfia:

- Che fortuna ha tuo marito, bella! Che fortuna ha tuo

marito, beato!

Mi alzai per bere un bicchiere d'acqua e, passando davan

Page 22: el chico que imitaba a Roberto Carlos (Ed. Anaya)

ti alla porta del soggiorno, che era socchiusa, rimasi un attimo a

spiare i miei genitori. Avevano tolto il volume della televisione,

perché c'era la pubblicità.

– Va a finire male – diceva mia madre, e guardava con

aria accusatoria mio padre.

– CHE FORTUNA HA TUO MARITO, BELLA! CHE

FORTUNA HA TUO MARITO, BEATO!

– Perché mi guardi così?

– Questi versi…Non li hai scritti tu? Me lo ricordo molto

bene, sono tuoi, di gioventù.

– E che colpa ne ho io? – protestava mio padre, divertito.

– Come che colpa ne hai tu? Li hai scritti per me, non te

lo ricordi? Se un giorno/ ti sposi con un altro/ al tuo balcone

alzerò/ un grido di tristezza: / che fortuna ha tuo marito, bella…

– Certo che mi ricordo…

– E allora perché adesso li raglia quel rozzo di

Maldonado? Tu non me li hai mai detti!

– Ma tu non ti sei mai sposata con un altro…

Sarei rimasto più tempo, ma un colpo di vento fece

sbattere la porta così forte che quasi mi spacca il naso, e aprirla

mi sembrò già troppo sfacciato, così tornai nella mia tana. Prima

di potermi addormentare, sentii mio fratello arrivare ed entrare

nella sua stanza. Cominciò a scrivere sulla sua Olivetti rossa,

furiosamente. Trascorse tutta la notte a scrivere ed io, senza

chiudere occhio, morivo dalla curiosità, che cosa avrà scritto con

tanta energia? Versi, come quelli che, a quanto pare, aveva

scritto mio padre, versi di gioventù, grida di tristezza?

Avventure con macchine rubate e inseguimenti? All'incirca

verso le quattro riuscii, finalmente, ad addormentarmi.

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9

Erano le otto di sera, e c'era ancora luce. Mio fratello

aveva preteso, prima di prestare la Rieju, una prova da Alber, e

lo stavamo aspettando. Squillò il telefono, e risposi. Era Sandra

che chiedeva di suo fratello. Le dissi che non era ancora

arrivato, e mi salutò con un ciao e con un bacio. Io ero sorpreso

e contentissimo. Un bacio! Anche se era telefonico, non era

niente male, no? Quando Alber chiamò al citofono, scendemmo.

Lo guardai pensando: se sapessi…

– Scusate per il ritardo – si discolpò–, ma i miei vecchi

non mi lasciavano uscire prima di aver finito i compiti…

Per prima cosa andammo a prendere Charli.

– Possiamo approfittarne per portargli da mangiare–

dissi.

– No – si oppose mio fratello–. Glielo porterai dopo.

Quando arrivammo, Charli si avventò come un pazzo su

di noi. Mi sporcò la camicia e i pantaloni, e per poco non mi

butta giù per la contentezza.

– Vediamo quando lo lavi – disse mio fratello, dopo

averlo accarezzato ed essersi annusato la mano.

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– Non gli piace – replicai.

– E allora? A me nemmeno, che ti credi?

Andammo nelle strade di un quartiere costruito a metà,

in cui non circolava quasi nessuno. Avevano cominciato i lavori

senza licenza, ed erano fermi da due anni. Mio fratello mise

delle pietre, e fece in modo che Alber dovesse descrivere delle

esse, inchiodare, schivare dei pali e prendere una curva in una

zona con del ghiaino.

– Fine? – disse Alber, tutto soddisfatto.

– No – disse mio fratello–. Manca l'ultima prova.

Tirò fuori una fetta di salame dal panino che si stava

pappando, e la mise fra la maglietta e il pantalone di Alber, e

allora capii perché dare da mangiare a Charli dopo la prova della

moto.

– Guarda, Charli – gli disse, tenendolo per il collare che

gli avevano regalato i marescialli–. Vai, Alber!

Alber accelerò e partì con un sibilo, e mio fratello liberò

Charli, che iniziò la caccia come se ne andasse della sua stessa

vita, abbaiando furioso perché il suo misero pasto stava

scappando.

- Se deve fare il botto è meglio che lo faccia adesso -

mormorò mio fratello.

Alber aveva messo le ali alla moto, e quando inserì la

quarta cominciò a distanziare Charli, che correva anche lui come

un pazzo. La strada si interrompeva bruscamente e l'asfalto era

sostituito da un terreno molto sconnesso, Alber esitò, e fece una

frenata. Vide che il bracco gli si stava lanciando addosso

abbaiando, scese di corsa dalla Rieju, la appoggiò per terra, e,

non appena prese la fetta di salame, Charli gli si lanciò addosso

e lo buttò a terra. Mio fratello ed io stavamo morendo dal ridere.

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Alber si liberò del salame come poté e venne verso di noi, a

cavallo della ronzina e seguito di nuovo da Charli, ma adesso

più tranquilli entrambi, il cane che scodinzolava dopo essersi

divorato il salame e Alber che sorrideva, sapendo di essersi

guadagnato il permesso.

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10

Vi piace ascoltare il suono del vento, il suo sussurro

triste, lagnoso come un verso d’amore appassito o come il

lamento di un vecchio che piange i suoi figli? A me sì, perché

stai camminando in mezzo alla strada, al rumore del traffico, o

sei a casa tua, con il televisore acceso, e all’improvviso ti rendi

conto che soffia il vento, e spegni la tele, perché quello che stai

guardando è una solfa e ti senti più unito alla terra, più selvaggio

ed anche più puro, e se stai per strada non senti più il rumore

delle macchine, e pensi che con un po’ di fortuna avresti potuto

essere un uccello, con un po’ di fortuna e con qualche piuma,

ovviamente. Io, seduto dietro, come un pacco, con il vento che si

divideva in due sul mio viso, mi sentivo libero e selvaggio, e mi

rallegravo di essere vivo e di essere amico di Alber e del fatto

che fosse una notte d’estate, e mi sembrava molto difficile poter

essere più felice di quanto non fossi in quei momenti, cantando

a pieni polmoni una canzone dei Beck che Alber mixava con

frequenza all’epoca della radio pirata, Soooono un perdeeeente,

I’m a loser, babyyyy, so why don’t you kill meeee…Arrivammo

al nostro primo obiettivo, un muro di mattoni semidistrutto,

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scendemmo dalla moto e tirammo fuori dalla borsa di plastica

gli spray, le bombe. Siccome Alber dipingeva molto meglio, io

mi limitavo a riempire quello che lui stilizzava, però mi

divertivo lo stesso come se fossi io a fare i disegni, mi sembrava

ugualmente emozionante. Avevamo tre colori, rosso, giallo e

nero.

– Sarà un graffito antibellico – mi informò.

Con il nero disegnava sagome di persone con le braccia

in alto, in segno di protesta, o inginocchiate, in preghiera, o stese

per terra, gementi, senza gambe né braccia, e un bambino

piangeva con una bambola rotta in mano, e con il rosso e il

giallo dipingeva le esplosioni e il sangue. Era come il Guernica,

ma con più colori e senza cavalli né tori. Alber dipingeva molto

bene, davvero. Scriveva da cani, e per questo era stato bocciato

in alcune materie, per questo e per il fatto che non faceva una

mazza, però disegnava benissimo. Per fortuna, quel che sapevo

fare io mi permetteva di essere promosso facilmente, mentre

quel che lui faceva bene – guidare la Rieju, dipingere– non gli

serviva a molto. Questo anno era stato segato in tre materie.

– Da dove hai tirato fuori la grana?

– Li ho fregati.

Ognuno si occupava della sua parte, lui disegnava nuove

figure, o perfezionava quelle che c’erano già, ed io le riempivo.

– A chi? A Flórez?

– Sì.

Il muro stava diventando sempre più bello, io me la

spassavo, ma non mi andava molto a genio la storia del furto.

– Ti sembra brutto?

– Abbastanza.

Adesso Alber stava disegnando un albero spezzato e

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mezzo carbonizzato, e quella sarebbe stata sicuramente l’ultima

figura, perché appena rimaneva spazio per altro.

– Non essere intransigente – disse, e si allontanò di

qualche passo per osservare l’opera con una certa prospettiva–.

Il fine giustifica i mezzi, lo dicono le Scritture.

A me sapeva tanto di balla il fatto che lo dicessero le

Scritture, ma siccome non sapevo la Bibbia a memoria, non

potevo controbattere.

– Bisogna protestare contro le guerre, no? Sta venendo

un gioiellino.

Alber guardava orgoglioso la sua opera, o meglio, la

nostra opera. Mi misi vicino a lui. Anche a me piaceva molto.

– O invece non sei d’accordo?

– Sul fatto che sta venendo benissimo?

– No, sull’altra cosa.

Non dissi niente. Ad ogni modo Flórez non si sarebbe

rovinato per tre polverizzatori. Alber firmò il graffito. Scrisse il

suo nome in lettere maiuscole che si scioglievano, tremavano,

sgocciolavano: era la sua firma estiva. D’inverno era simile,

però le lettere erano azzurro chiaro, invece che rosse, e dritte,

dure, congelate, come pezzi di ghiaccio.

Quando finii di riempire il poco che mancava del graffito

antibellico, scrissi la mia: Il Falco. Il nome era molto fico,

davvero, Il Falco, però la firma faceva pietà, perché non sapevo

disegnare bene. La cosa mi faceva rabbia. Alber prese la bomba

rossa e disegnò a lato un cuore, e dopo scrisse, in giallo:

CARITA, TI AMO.

– Chi è Carita?

– Nessuno– rispose–. Ma immagina che qualcuno si

chiami Carita lo vede e le viene un colpo, così pareggio il fatto

di aver fregato le bombe a Flórez, no?

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– Beh – dissi–. Il problema è che non so chi diavolo

possa chiamarsi Carita…

– Sei un rompipalle, sempre a farti problemi…Perché

non ti fai prete o professore? Per questo c’è soluzione.

Alber scrisse allora, sempre in giallo: VANESSA, AMO

ANCHE TE.

E mi guardò, felice della sua soluzione.

– Bene, no? Di Vanessa ce n’è a bizzeffe, non dire di

no…Soltanto in classe nostra ce ne sono due…

– Sì, però…A chi potrà piacere? A quale ragazza piace

sentirsi dire che la si ama insieme ad un’altra? A nessuna, né a

Carita, né a Vanessa, né ad altri.

Alber mi guardò scherzoso.

– E tu da dove tiri fuori tutta questa saggezza? Che io

sappia non ti sei dichiarato a nessuna tipa.

– Lo so e basta.

– Certo, dai romanzi e dai film.

Alber si sedette sul marciapiede, ed io lo imitai. Mi

infastidiva che fosse così strafottente, neanche fosse un’autorità

nel campo. Una volta aveva avuto un intrallazzo con una

ragazza della scuola, sì, figurati, neanche fosse chissà che.

– Non importa da dove. Se si amano due persone

contemporaneamente vuol dire che non se ne ama nessuna…

– Bah – disse Alber –. Queste sono stupidaggini

borghesi, pregiudizi antirivoluzionari. Se ci sono tipe diverse,

perché non se ne può amare più d’una? Perché una soltanto?

Era una notte calma, il vento era andato a gemere

altrove, e la metà della luna risplendeva nel cielo blu.

– E loro?

– Loro? – Alber rimase qualche secondo pensieroso–.

Loro lo stesso, ovvio.

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– E se fosse tua sorella?

– Sandra? La stessa identica cosa, chiaro.

Non sapevo davvero come replicare, però il fatto di

amarne diverse mi sembrava un imbroglio.

– E tu? – gli dissi–. Non mi hai detto un giorno che avevi

l’animo gitano e che ti saresti innamorato una sola volta?

– Bah – disse Alber–. Animo gitano io? Ma che? L’ho

detto per dire. Sono mezzo nero, di zingaro non ho niente. Ad

ogni modo ho l’animo del Mozambico, che è il paese di mia

madre. Vabbé, dove andiamo adesso?

Mi alzai, presi i barattoli e li agitai.

– Sono quasi finiti.

– Caspita se durano –commentò Alber–. Anche se non

possiamo certo andare dal Flórez a protestare, sicuro che si è

già accorto che gli mancano.

– Qualche firmetta sì che possiamo farla lungo la strada.

– Ehi! – disse Alber, e indicò l’angolo della strada.

Sull’asfalto, delle luci azzurre giravano–. La Madama!

Alber mise in moto, salii immediatamente, e partimmo a

tutto gas. Quando girammo per una stradina mi voltai, e mi

accertai che nessuno ci stesse seguendo.

– Eh, tranchi, che non viene nessuno.

Alber ridusse la velocità, e dimenticata la tensione, ci

mettemmo a ridere.

– Ma era la Madama, eh?

Cavolo se lo era! E lo era anche la macchina appena

apparsa di fronte, e che ci lampeggiava.

– Merda– disse Alber–. Siamo fottuti.

Frenò, e scendemmo dalla papera. La carrozza rimase

qualche metro più in là, e scesero due agenti. Uno ci salutò,

portandosi la mano alla visiera con evidente pigrizia, e l’altro

non fece nemmeno questo. Ci fecero segno di avvicinarci.

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– Buona sera.

– Buona sera – rispose Alber.

– Patente e libretto di circolazione.

Siamo fottuti, pensai. Ce la requisiscono sine die, e non

appena vedranno le bombolette nel sacchetto ci faranno mille

domande, e…

– Li ho nella moto– disse Alber.

E mi fece di nascosto un gesto perché lo accompagnassi.

Andammo verso la Rieju, mentre i poliziotti erano

rimasti vicino alla loro macchina, dieci o dodici metri più in là.

– Apri il sellino e tira fuori i documenti – mi ordinò

Alber bisbigliando–,fa due passi verso di loro, e appena metto in

moto, ti giri e sali come se uno scorpione ti avesse pizzicato il

culo…

Il cuore mi si mise a battere veloce. Aprii il sellino, diedi

la chiave ad Alber e tirai fuori i documenti. Li mostrai ai

poliziotti e feci un passo verso di loro.

– Adesso! –gridò Alber, dando un colpo al pedale della

messa in moto.

Salii e partimmo sparati, forzando le marce a più non

posso, facendo un rumore tale che sembrava che la papera si

sarebbe rotta in mille viti e bulloni. Gli agenti ci misero qualche

secondo a reagire, e s’infilarono il più veloce possibile nella

carrozza, ma li avevamo distanziati di trenta o quaranta metri, e

poi dovevano anche fare retromarcia.

– Togliti la maglietta e copri la targa! – gridò Alber.

Buttandomi su di lui per non cadere, mi levai la maglietta

e feci ciò che mi aveva chiesto. Sentii la sirena. Alber svoltò in

una strada, saltò un semaforo rosso, una coppia che stava per

attraversare ci insultò, e ne imboccammo una vietata.

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– Li abbiamo seminati! – esclamò, trionfante–. Non

vengono!

Era vero: il suono della sirena si sentiva sempre più

lontano.

Ormai di ritorno al quartiere, passammo sotto un ponte, e

ci fermammo. Lui con il rosso ed io con il giallo, riempimmo il

cemento di messaggi d’amore, molto patriottici per via dei

colori, anche se ad Alber, a dire il vero, la storia della patria non

importava un fico secco: affermava che i confini erano la nostra

prigione. DAVINIA, TI AMO. ANNA, SEI LA MIGLIORE.

Alle volte ci accontentavamo di scrivere un nome che

racchiudevamo in un cuore. Alber ed io ridevamo come pazzi, ci

sembrava divertentissimo. Approfittando del fatto che era di

spalle all’altro lato della strada e che non mi guardava, scrissi,

ricordandomi del bacio che sua sorella mi aveva mandato per

telefono: SANDRA, TI ADORO.

Una Ibiza passò a tutta velocità abbagliandoci e

suonando, e Alber ed io ci attaccammo ognuno ad una parete del

ponte.

– Stronzo! – gridò Alber–. Figlio di puttana!

E gli lanciò la bomboletta. Ormai non faceva differenza,

perché era finita e l’Ibiza era ben lontana.

– Caspita – disse–. Ne abbiamo avute di emozioni, anche

se per me il massimo sarebbe dipingere un vagone della metro.

– Perché?

– Perché è una figata, e alla fine, se ti pigliano, siccome

siamo minorenni, non ci succederebbe niente…Qualche fine

settimana a pulire scritte, che non è poi così male…E questo, se

ci prendono – aggiunse, molto gasato, a ricordare che avevamo

appena preso in giro gli agenti.

Mise in moto la 75, salii, e ritornammo al quartiere, tutti

e due cantando a squarcia gola e stonati come campane,

Soooono un perdenteeee, I’m a loser babyyyy, ed ognuno

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pensava ai fatti suoi, io, al fatto che sua sorella Sandra, quale

Sandra?, la mulatta, avrebbe visto con un po’ di fortuna la scritta

col suo nome, e lui, suppongo, al fatto di riempire un vagone

della metro con scritte antibelliche, ed entrambi sognavamo, lui,

ad esempio, che invece di mandare a puttane otto fine settimana

di seguito a strofinare pareti, il sindaco lo premiava per le sue

qualità artistiche, ed io, ad esempio, che il bacio telefonico e

tredicenne di Sandra si trasformava in un bacio reale e sempre

tredicenne, e che ero un falco veloce e sicuro che tagliava l’aria

come una saetta, e così arrivammo al quartiere, con il vento che

ci accarezzava le guance e le braccia, e le stelle che vegliavano

su di noi, con la luna che ci illuminava, Soooono un

perdenteeee, e quando eravamo ormai vicini, smettemmo di

cantare, perché nessun conoscente ci vedesse storpiare una

canzone, accanirci su di lei.

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11

Lasciammo la papera incatenata a un lampione, di fronte

al nostro portone, dove era solito parcheggiarla mio fratello.

– Che ne dici di una sigaretta al torrione?

– Ok. Portiamo Charli?

– No –disse Alber–, che poi non c’è chi lo tiene ed è una

scocciatura.

Per trenta pesetas comprammo due sigarette da Lucas,

che se ne stava nel suo angolo, come al solito, anche se adesso,

siccome era estate, non era morto di freddo, intirizzito, con la

sciarpa logora e le mani nelle tasche di un cappotto dell’epoca in

cui la naia si faceva con la lancia, ma in maglietta, a proprio

agio, e ci incamminammo verso la campagna. Quando

arrivammo alla fila dei tralicci dell’alta tensione, ci fermammo.

Da lì alla colombaia, attraverso i campi, c’erano un paio di

chilometri, approssimativamente. Dovevamo attraversare un

binario, però era un binario morto e non c’era nessun pericolo.

– Pronti, attenti…Via!

Correvamo entrambi molto veloce, però non al massimo,

perché dovevamo conservare le forze per gli ultimi duecento

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metri. Alber mi precedeva di un paio di falcate, ed io mi

sforzavo di seguire il suo ritmo e di non inciampare o storcermi

una caviglia. Cercavo di distrarmi per non soffrire, di pensare a

delle cose, e di tanto in tanto buttavo lo sguardo al cielo stellato,

fugacemente per non mettere male i piedi, e pensavo a Gagarin

che girava per lo spazio, e che al suo ritorno aveva detto di non

aver visto Dio, o a quella cagna che lanciarono i russi, Laika, e

all’inizio i sovietici erano all’avanguardia nella ricerca spaziale,

però poi gli americani presero il sopravvento, recuperarono il

terreno perso e arrivarono sulla luna, e lo mandarono in diretta

televisiva, e i miei genitori lo videro, che fortuna, all’alba, ma io

non ero ancora nato, io ero stato invece testimone dei disastri, il

Challenger, e l’Ariane 5, e poi i russi, che avevano a malapena i

soldi per far ritornare i loro cosmonauti, insomma a questo stavo

pensando, fino a che non riconobbi il binario morto, che segnava

più o meno la metà del percorso. Sentendo che qualcuno si

avvicinava, la Remedios uscì da dietro uno dei vagoni che erano

quasi dei rottami, ma quando ci riconobbe, tornò indietro. Era

vestita come in inverno, con minigonna e tacchi.

– Vi andrete ad ammazzare un giorno!

– Ciao, Reme! – gridò Alber.

Io non gridai per risparmiare le forze, ma poi pensai che

era una gran cavolata, Alber mi batteva sempre per pochi metri,

e se spingeva un po’ di più, si regolava per tirar fuori più forza e

battermi per la stessa distanza, così che le poche forze che

potevo risparmiare non gridando non sarebbero valse a niente.

– Ciao, Reme! – urlai, ma credo che non mi sentì, perché

eravamo ormai abbastanza lontani, e le due o tre volte

successive che respirai dovetti farlo aprendo tutta la bocca,

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come un lupo affamato o come una tigre che sbadiglia o meglio

come un pesce fuori dall’acqua, perché mi mancava il fiato.

Alber aumentò leggermente il ritmo, come faceva

sempre una volta passato il binario maledetto, o il maledetto

binario, e io correvo guardando la sua schiena e per terra,

desiderando che la corsa finisse una maledetta volta, per

dimenticarmi dello sforzo che facevo, e del fatto che

cominciavano già a farmi male il petto e le gambe e che la

bocca diventava amara.

– Quei vagoni – disse Alber–, un giorno li dipingerò per

allenarmi per la metro.

Non risposi, e continuai a pensare alla Remedios, alla

vita stentata che faceva, aspettando gli uomini lì, sul binario

morto, e trascinandoseli tra i campi, fra le erbacce, o nei vagoni,

secondo i gusti del cliente, d’inverno o d’estate, sempre con la

minigonna, che facesse freddo o caldo, bonaccia o vento forte,

più truccata del ponte che avevamo riempito di messaggi

d’amore Alber e io; guardala, ecco la Reme con i suoi dipinti di

guerra, come diceva il fiammiferaio, il Lucas, che poi si portava

la mano alla bocca e ululava, uh uh uh uh, come se fosse un

indiano sioux, era fuori di testa, il Lucas, e nel quartiere ce n’era

per tutti i gusti, e a chi non era pazzo gli mancava poco, e la

Reme tutta truccata che chiedeva e offriva amore, ma no, non

era amore quello che dava né quel che chiedeva, lì non c’era

amore, ai bordi delle rotaie ossidate e inutili, abbandonate, e

avevamo ormai superato la Reme da un po’, così che mancava

molto poco, il torrione era sempre più grande, si ingigantiva

nella misura in cui le mie riserve si rimpicciolivano, ed Alber

aumentò la velocità, e a poco a poco, malgrado i miei sforzi, la

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distanza di due falcate andò crescendo fino a diventare di tre, di

quattro, e la colombaia era ormai vicinissima, e le gambe non mi

rispondevano, erano incapaci di aumentare le falcate o di farle

più veloci, più continue, rimanevano solo cinquanta, quaranta

metri, ed avevo già rinunciato a vincere, ormai non avrei più

potuto essere come gli americani, che avevano superato i russi

nella ricerca spaziale, e mi accontentavo di finire, Alber toccò

col palmo della mano la cornice della porta del torrione

abbandonato, e lo stesso feci io dopo pochi secondi, e

rimanemmo un attimo in piedi, senza parlare, ansimando e

sputando e recuperando il fiato.

– Cazzo – disse Alber –. Trombare con la Reme…Deve

essere dura essere una puttanella, no?

– Eh sì – convenni.

Ci sedemmo su dei sassi. D’inverno eravamo soliti

metterci dentro, per proteggerci dal vento, però d’estate

preferivamo stare all’aria aperta.

– Allora, fumiamo?

– Aspettiamo un po’ – dissi–. Ho letto che quando si

respira così, dopo uno sforzo, fumare fa male il doppio.

– Tu e le tue letture – disse Alber–. Un giorno ti verrà la

faccia a forma di lettera.

Né ad Alber né a me piaceva troppo fumare, ma quello

era una specie di rito. Erano le uniche cicche che fumavamo.

Mio fratello, invece, sì che fumava, e Sandra anche, di nascosto.

– Credi che qui ci siano scorpioni?

– Ovviamente, ed anche rinoceronti.

Alber si alzò per pisciare, ed ebbe l’accortezza, che non

sempre aveva, di farlo qualche metro più in là, e non sulla parete

della colombaia. Quando svuotò la vescica entrò nel torrione, e

uscì con una bottiglia di whisky.

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– Guarda cos’ho trovato– la agitò in aria. Ne rimaneva

uno sputo.

– Di chi sarà?

– Non lo so. Ci sono anche delle bucce di mandarino, e

un limone spremuto. Un tossico, immagino.

Alber lanciò lontano la bottiglia, che si ruppe al cadere

per terra.

– Bravo, bravissimo – applaudii–. Così se un giorno

cadiamo, sapremo già con cosa tagliarci.

– Mamma mia – disse lui–. Tutto il giorno a criticare

quel che faccio, che ti succede?

– Ok – cambiai discorso per non litigare–. A proposito di

messaggi d’amore, hai già incontrato la brutta dei tuoi sogni?

Alber aveva una teoria secondo cui si sarebbe

innamorato di una brutta, perché le belle, a guardarle bene, più

che belle erano volgari, e poi non si consideravano forse belle

proprio quelle che lo erano per tutti? Cioè, il gusto più comune,

più volgare, era quello che incoronava le reginette di bellezza, e

visto che era sacrosanto ammettere che in generale la gente ha

dei gusti normali, bisognava arrivare alla conclusione che le

belle erano in realtà brutte. Alber diceva di essere vaccinato

contro le tipe fighe, e che per questa stessa ragione Iciar e quelle

della sua stessa risma – Iciar era la bellona della nostra classe –

lo lasciavano indifferente e gli risultavano insopportabili, e se

una di loro si fissava con lui, aveva le idee molto chiare.

– No, ancora no – disse, accendendosi una cicca. Mi

avvicinò la fiamma del cerino e accesi la mia.

– Come mai? È già passato qualche mese dalla tua teoria

sulle brutte, qual è il problema?

– Credo che il problema con le brutte – disse Alber

pensieroso– …Con le presunte brutte – si corresse immediata

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mente – è che ce n’é troppe tra cui scegliere…

– Già – dissi–. Per questo adesso credi che te ne possano

piacere molte insieme.

– Può essere – ammise–. Anche se adesso mi

accontenterei di una, davvero. Per cominciare ad imparare.

Feci un tiro più profondo degli altri e mi venne la tosse.

– Non sai fumare – mi prese in giro Alber.

Nel tepore della notte si udì un miagolio, seguito da altri.

– È una gatta – disse Alber, dopo aver ascoltato

attentamente–. E forse se la stanno…– fece un gesto osceno con

le dita di tutte e due le mani–. Come alla Remedios, capisci?

– Finimmo le sigarette insieme, e le spegnemmo contro

un sasso.

– E adesso, torniamo?

– Sì – dissi–. Però camminando.

Prendemmo la via del ritorno.

– E a te? Piace qualcuno?

Fui sul punto di confessargli che era sua sorella, però ci

ripensai.

– Sì – dissi–. Questa stella che brilla tanto. È Venere. Mi

sono innamorato di Venere, la dea dell’amore.

Dopo una scemenza così grossa, continuammo a

camminare in silenzio. Venere, lontana, irraggiungibile come

tutte, brillava più di ogni altra.

In lontananza si sentì il latrato di un cane che non era

Charli.

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Erano le dodici o giù di lì, e stavo facendo colazione,

perché durante le vacanze dormivo tutto il tempo che volevo e

anche di più, e poi rimanevo un pò a letto, a poltrire o a leggere

fumetti o racconti, e per questo mia madre diceva che le mie

lenzuola avevano più colla della fabbrica tedesca Uhu. Quella

mattina ero rimasto a leggere Orzowei. La prossima volta che

avremmo corso fino alla colombaia, sapevo già a che cosa avrei

pensato: a Orzowei con la pelle tinta di bianco, che correva

instancabile per la savana, col suo trotto monotono e costante,

mentre fuggiva dai suoi inseguitori.

Siccome Alber era stato fregato in tre materie, la mattina

rimaneva a casa a studiare, o piuttosto a guardare i toporagni, o

ad ammazzare mosche, ed io mi sentivo un po’ disorientato,

perché la maggior parte dei miei amici passava le vacanze con la

famiglia ad Alicante, o Torremolinos, o La Manga, o in un

qualsiasi posto sul mare. Mio fratello entrò in cucina.

– Alla buonora, eh?

Non risposi nemmeno. Erano le mie vacanze, no?

– Devi fare qualcosa stamattina?

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– Non granché – strinsi le spalle, riservandomi un’uscita

di sicurezza, perché c’era puzza di commissione, e se era una

commissione particolarmente scottante, la faceva sua nonna.

– Puoi portare questo a Risa?

Mi mostrò una busta azzurra.

– È possibile – dissi, con cautela, e rimanendo più calmo

di una buca delle lettere–. Che mi dai in cambio?

– Cento pesetas. E se no, una mazza, scegli.

– Le cento pesetas.

– Ecco, prendi – mi diede la lettera e un cioccolatino–.

Che mi costi più delle Poste.

Finii la maddalena e il bicchiere di latte, e scesi per

strada. Immediatamente mi venne la voglia irrefrenabile di

leggerla. Aprii la busta, e lessi:

Il tuo amore è un sogno

–incubo che sempre ho temuto–

e il ricordo dei tuoi baci

non mi lascia dormire

E interruppi la lettura, perché all’improvviso mi

accalorai e pensai che continuare a leggere era una canagliata, e

che se mio fratello se ne accorgeva, non avrebbe mai più avuto

fiducia in me. Non potevo portare la busta così, rotta, perché si

notava che era stata aperta e sarei morto di vergogna

consegnandola a Sira, così entrai in tabaccheria. Avevano solo

buste bianche. Nell’eventualità ne comprai una, che mi costò

quindici pesetas, e proseguii il cammino. Ormai ero quasi

arrivato, e all’angolo c’era una cartoleria in cui vendevano

cartoncini e buste colorate. Prima di entrare, incrociai il Maxi e

tre della sua banda. Portavano, tanto per cambiare, magliette

nere e scarpe da ginnastica, un sacco originali. Passandomi a

fianco schioccarono la lingua, come se fossi un cane o una

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mucca. Continuai a guardare avanti, prestandogli la stessa

attenzione che se fossero stati scarafaggi, anche se mi sarebbe

piaciuto spaccargli la faccia e il cuore aveva cominciato a

battere più forte. Sentii ridere alle mie spalle, però non mi voltai.

Non ero un cacasotto, né un codardo né un verme, niente di tutto

questo, ma loro erano quattro, un poker di mangiamerda, e più

grandi di me. Maxi e il Piroetta avevano diciassette anni, quindi

erano sessantasei anni contro quattordici, troppi per me. Se

fossero stati sessantasei anni e una sola persona, sessantasei anni

insieme, i miei quattordici avrebbero avuto qualche possibilità,

ma divisi così, fra quattro, cadere nella provocazione sarebbe

stato una stupidaggine. Bisogna avere sangue freddo, come i

ramarri e i serpenti, mi dissi, e continuai a camminare, anche se

mi sarebbe piaciuto prenderli a pugni, affrontarli, coraggiosi

com’erano. Entrai nella cartoleria, e anche se le buste azzurre

che avevano non erano identiche a quella di mio fratello, si

assomigliavano abbastanza, quindi ne comprai una, mi

spillarono venticinque carte. Suonai al citofono di Sira, dissi che

portavo un messaggio quando mi chiesero chi era, e salii.