Effetti e Limiti del Debito Pubblico in Impostazioni...

112
Università degli studi RomaTre Facoltà di Economia “F.Caffè” Effetti e Limiti del Debito Pubblico in Impostazioni Teoriche Alternative Relatore: Prof. Roberto Ciccone Dottorando: Paolo Forestieri Anno Accademico 2007/2008

Transcript of Effetti e Limiti del Debito Pubblico in Impostazioni...

Università degli studi RomaTre

Facoltà di Economia “F.Caffè”

Effetti e Limiti del Debito Pubblico in

Impostazioni Teoriche Alternative

Relatore: Prof. Roberto Ciccone Dottorando: Paolo Forestieri

Anno Accademico 2007/2008

2

Indice

Introduzione…………………………………………………………….pag. 3

I. Premessa storica: da Ricardo a Keynes ……………………………pag. 6

II. Le Reazioni Neoclassiche all’Impostazione Keynesiana:

il “Crowding Out” e la “Neutralità del Debito”…………….........pag. 16

III. Debito Pubblico e “New Political Economy”…………………….pag. 39

IV. Il Debito Pubblico in una Prospettiva Teorica Alternativa……..pag. 61

V. La Questione della Sostenibilità del Debito Pubblico…………….pag. 70

Appendice………………………………………………………….......pag. 100

Bibliografia………………………………………………………….…pag. 104

3

Introduzione

Il debito pubblico è uno degli argomenti che desta maggiore interesse

nell’ambito della teoria economia. La letteratura sull’argomento è

estremamente ricca e variegata. In particolare esistono diverse posizioni circa

gli effetti dell’accumulazione del debito pubblico sul livello del reddito e

dell’occupazione. È necessario, però, sottolineare che allo stato attuale la

posizione dominante tende ad individuare nel debito pubblico un fattore che

produce effetti negativi per l’economia nel suo complesso.

Questo lavoro si muove, invece, da una prospettiva diversa, secondo la quale

la spesa pubblica può avere effetti espansivi in termini di reddito e

occupazione. Tale posizione, che induce una rilettura critica delle

argomentazioni neoclassiche sul tema del debito pubblico, si fonda sul

presupposto che i livelli del prodotto complessivo siano determinati anche nel

lungo periodo dalla dimensione della domanda aggregata, le cui determinanti

sono a loro volta concepite come indipendenti dal livello di produzione

potenziale. In sostanza si afferma che sia la domanda ad imporre un limite

superiore ai livelli di attività dell’economia, e che in generale essa deve

considerarsi non sufficiente a garantire la piena occupazione. Questa premessa

si lega all’adesione ad un’impostazione teorica alternativa a quella neoclassica,

anche sul terreno della distribuzione del reddito, la cui spiegazione viene

ricondotta a circostanze diverse dall’equilibrio di domanda e offerta dei “fattori

produttivi”.

Questo secondo aspetto è di supporto al primo; l’idea, che i livelli di reddito

siano determinati dal lato della domanda è ereditata dalla teoria keynesiana, e

4

una spiegazione della distribuzione, che non presupponga la tendenza al pieno

impiego delle risorse produttive, diventa un elemento di importante sostegno

all’ipotesi che la domanda sia la determinante dei livelli di reddito anche nel

trend e non solo nel ciclo economico.1

Il presente lavoro si articola in cinque capitoli e una breve appendice di

carattere empirico.

Nel primo capitolo si ripercorrono rapidamente le concezioni prevalenti della

teoria economica fino alla rivoluzione keynesiana circa gli effetti della spesa

pubblica in deficit. Per gli economisti classici e per i primi autori neoclassici il

debito pubblico costituiva sostanzialmente un fattore negativo, in quanto si

riteneva che avrebbe sottratto risorse all’accumulazione di capitale. Per gli

autori di impostazione keynesiana, come quelli che alimentarono il filone della

così detta Finanza Funzionale, la spesa pubblica in deficit costituiva invece uno

strumento di politica economica, utilizzabile per obiettivi di reddito e

occupazione.

Nel secondo capitolo si analizzano gli argomenti portati dalla teoria

neoclassica in risposta al contributo keynesiano. Si esaminano il fenomeno del

crowding out e la neutralità del debito di Barro. Si mette in evidenza come

l’effetto negativo, che alla spesa pubblica in deficit viene attribuito in questo

contesto, sia necessariamente legato alla tendenza al pieno impiego delle

risorse produttive, affermata dalla teoria tradizionale.

Nel terzo capitolo si delinea la struttura teorica dell’approccio della New

Political Economy, la quale, pur conservando una struttura neoclassica,

incorpora alcuni elementi di carattere socio-istituzionale. Successivamente si

prende in esame uno specifico modello, proveniente da questo filone teorico,

nel quale si analizza in particolare il debito pubblico. La New Political

Economy conserva un giudizio negativo circa gli effetti del debito pubblico,

differenziandosi, però, dall’approccio neoclassico tradizionale nel fare del

1 Si vedano i lavori di P. Garegnani e L. Pasinetti, che hanno ispirato successivi contributi.

5

ricorso al debito pubblico un risultato del comportamento razionale degli

agenti.

Nel quarto capitolo, invece, si applicano al debito pubblico le premesse

teoriche indicate sopra, e si evidenzia attraverso un semplice modello come la

spesa pubblica in deficit possa avere effetti positivi sul reddito, accompagnati

da una corrispondente formazione di risparmio, e quindi di ricchezza privata,

addizionali. Si afferma che il livello dei risparmi, non essendo dato al livello di

pieno impiego delle risorse, si adegua ai nuovi livelli di debito pubblico.

Nel quinto, ed ultimo capitolo, si analizza la questione della “sostenibilità” del

debito pubblico, e cioè l’eventuale esistenza di un qualche limite all’espansione

del debito, oltre il quale possa essere a rischio il finanziamento o il

rifinanziamento dello stesso.

La letteratura propone essenzialmente due nozioni di sostenibilità.

La prima definisce la sostenibilità in termini di costanza del rapporto tra

debito e prodotto. La seconda considera sostenibili situazioni in cui il valore

attuale del flusso di tutti gli esborsi futuri del governo non ecceda il flusso

degli incassi.

Entrambe le nozioni di sostenibilità non sono però esenti da critiche, anche

interne alle premesse sulle quali le nozioni stesse si fondano. Quindi non

sembra essere possibile individuare un limite superiore alla dimensione del

debito pubblico, oltre il quale emerga un qualche problema di sostenibilità.

Questa conclusione appare rafforzare la possibilità di utilizzare la spesa

pubblica in deficit ai fini dell’espansione dei livelli di produzione, nell’ipotesi

che quest’ultimi siano limitati dalla domanda aggregata.

6

I

Premessa storica: da Ricardo a Keynes

1. L’esistenza di debito pubblico e la sua accumulazione rimangono ancora

oggi argomenti centrali nel campo della ricerca economica. Ovviamente il

dibattito ha assunto nel tempo forme differenti, si cercherà qui di tracciarne le

linee salienti. Sarà evidenziato come il giudizio circa l’esistenza del debito

pubblico, e il ruolo che esso può assumere nell’influenzare le altre grandezze

economiche, cambi nel corso del tempo. Inoltre si evidenzierà come la

valutazione, circa l’utilizzo del debito pubblico come strumento di politica

economica dipenda in maniera cruciale dalla struttura teorica utilizzata

nell’analisi.

Il punto di partenza di questa lavoro è la ricostruzione storica del dibattito

circa il debito pubblico. Tale dibattito ha acquisito un risalto crescente fino a

diventare centrale dopo la seconda guerra mondiale, quando i lavori di Keynes2

divennero il punto di riferimento per gran parte del panorama macroeconomico.

In questo lavoro si prenderanno in considerazione anche posizioni precedenti

a quelle di Keynes in modo particolare il pensiero di Ricardo, che ancora oggi,

anche se tra molti fraintendimenti, rimane un punto di riferimento per una parte

degli economisti che si occupano di debito pubblico.

Dopo la ricostruzione storica, nei prossimi capitoli, si propongono gli sviluppi

più recenti, e in modo particolare si ricostruirà il punto di vista di alcuni autori

che hanno contribuito allo sviluppo della New Political Economy, che oggi

rappresenta uno dei filoni più importanti della ricerca economica in generale. 2 J. M. Keynes (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money, in The Collected Writings of J. M.

Keynes, vol. VII, Macmillan, Londra, 1973.

7

Successivamente proporremo un approccio differente in cui si fonde il principio

della domanda aggregata di Keynes e una teoria della distribuzione differente

da quella neoclassica.

2. La spesa pubblica finanziata in deficit, nel corso della storia, è stata oggetto

di una continua oscillazione di opinioni, alcune delle quali favorevoli altre

molto contrarie.3

Il primo autore a dare un contributo consistente e relativamente completo alla

questione del debito pubblico fu David Hume4. Egli sostiene che il debito

pubblico può avere l’effetto positivo di accrescere il volume delle attività

mercantili e stimolare l’attività economica in generale. L’emissione di debito

pubblico, al fine di finanziare spese straordinarie dello Stato, è equiparata da

Hume, per quanto riguarda gli effetti positivi sull’economia, alla spesa del

tesoro accumulato precedentemente dal sovrano. L’immissione nell’economia

di moneta (oro e argento) precedentemente accumulata darebbe uno stimolo

all’economia reale. La teoria quantitativa della moneta di Hume afferma che a

fronte di un aumento della moneta nell’economia ci sarebbe un aumento dei

prezzi delle merci e viceversa. Ma egli aggiunge che le variazioni dei prezzi, a

fronte dell’aumento della moneta circolante, non sarebbero immediate. In

questo intervallo di tempo aumenterebbe la produzione di beni reali e gli

occupati dell’economia. Da qui segue anche il carattere solo temporaneo dei

benefici per l’economia derivanti dalla spesa del tesoro. Quanto detto vale

secondo Hume anche per i titoli del debito pubblico, i quali garantiti dallo Stato

sarebbero una sorta di moneta e circolerebbero facilmente come l’oro e

l’argento.

3 P. Ranuzzi (1988), Il Debito Pubblico in Italia 1861-1987, Relazione del Direttore Generale alla Commissione parlamentare di Vigilanza, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma. 4 D. Hume (1752), On Public Credit, in Writing of Economics, edited by Eugene Rotwein, Freeport, New York, 1972.

8

Accanto agli effetti positivi, ma temporanei, Hume indica anche numerosi

svantaggi legati all’emissione di debito pubblico. In primo luogo gli effetti

inflazionistici del debito, dovuti non solo alle richieste crescenti dei lavoratori,

ma anche al fatto che l’aggiunta di titoli fiduciari alla moneta metallica

porterebbe ad un aumento del prezzo delle merci. Poi Hume indica una serie di

svantaggi legati all’emissione di titoli del debito pubblico, per i quali, però, non

è facile dare una chiara interpretazione economica; quindi ci si limita qui ad

elencarli, per completare la visione di questo autore. Egli afferma che il debito

pubblico fa concentrare le ricchezze e la popolazione nelle aree metropolitane,

con conseguenti minacce di “violenza giacobita e frenesia democratica” 5.

Inoltre il debito pubblico costituirebbe un incoraggiamento ad una vita oziosa

della classe dei redditieri, percettori degli interessi sul reddito. Infine Hume

vedrebbe nel debito pubblico un elemento di debolezza dello Stato nei

confronti dei propri sudditi e nei rapporti internazionali.

L’analisi di Hume presenta molti elementi interessati, che rimarranno nel

dibattito, ma allo stesso tempo non è assolutamente una teoria articolata e

completa delle conseguenze dell’accumulazione di debito pubblico. Per avere

un’analisi più organica e sistematica è necessario arrivare al contributo degli

economisti classici6.

3. Per gli economisti classici in linea di principio il debito pubblico costituisce

un onere. Iniziamo con l’analisi condotta da Smith7: egli parte dal concetto di

Stato e dalle cause del debito pubblico; sostiene che il governo, con le risorse

accumulate attraverso il debito, sovvenziona solo particolari attività

commerciali e crea così privilegi, che danno luogo a situazioni di monopolio. In

5 Hume (1752), pag. 104. 6 Il termine economisti classici presenta diverse definizioni, qui si fa riferimento a quella marxiana che individua l’inizio dell’economia classica con Richard Petty e la fine con Ricardo, individuando nelle successive teorie del fondo-salari l’origine della successiva teoria marginalista. 7 A. Smith (1776), An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, trad. It. La ricchezza delle nazioni, Newton Compton editori, Roma, 1976, traduzione di Ada Bonfirraro. In particolare si veda libro quinto, capitolo III.

9

questo modo da vita ad un’attività dannosa, perché verrebbero utilizzati fondi

altrimenti impiegati in attività produttive per finanziare attività improduttive.

Sostanzialmente egli considera la spesa pubblica finanziata attraverso

l’emissione di debito come consumo a discapito dell’accumulazione di capitale.

Quanto detto è indissolubilmente legato a due elementi che contraddistinguono

il pensiero di Smith, ossia considerare il capitale accumulato come

determinante dei livelli di produzione, e il vedere nel libero mercato la fonte

privilegiata delle attività produttive, e di conseguenza dell’accumulazione.

Smith ritiene però indispensabile il ricorso al debito pubblico, come strumento

necessario, in situazioni particolari come la guerra.

4. Ai fini di questo lavoro è molto importante analizzare il contributo di

Ricardo, visto che come spiegherò più avanti il concetto di neutralità del debito,

tanto utilizzato nelle analisi neoclassiche, gli viene spesso attribuito

(equivalenza Ricardiana8), in realtà il suo punto di vista sembrerebbe differente

da quello di parte degli autori neoclassici.

5. La posizione di Ricardo circa la spesa dello Stato finanziata attraverso

l’accumulazione di debito pubblico è sostanzialmente critica. Egli sostiene che

l’interferenza da parte del governo, attraverso una spesa in deficit, è

paragonabile all’interferenza di un corpo di consumatori improduttivi: servitori,

burocrati e coloro che vivono dell’interesse del debito nazionale. Aggiunge che

la spesa pubblica, in quanto destinata al consumo improduttivo (per esempio al

fine di finanziare una guerra), costituisce un modo per distogliere risorse

all’accumulazione di capitale, ponendo così un freno all’occupazione e al

reddito.

8 Il termine “Ricardian Equivalence theorem” fu introdotto da James Buchanan nel 1976 (J. Buchanan (1976), Barro on

the Ricardian Equivalence Theorem, The Journal of Political Economy, vol. 84, No. 2.).

10

When, for the expenses of a year’s war, twenty millions are raised by means of loan, it is the twenty millions which are withdrawn from the productive capital of nation.9

Per quanto riguarda gli interessi pagati sul debito, Ricardo li considera come

una somma di denaro che passa dalle mani del debitore alle mani del creditore,

quindi, pur se cambia il soggetto che consuma o accumula questa somma, nulla

cambia in termini aggregati.

Quanto detto è ben evidente in un passo che Ricardo inserisce in nota nel

XVII capitolo di “Sui Principi dell’Economia Politica e della Tassazione”:

Melon10 says, that the debts of a nation are debts due from the right hand to the left, by which the body is not weakened. It is true that the general wealth is not diminished by the payment of the interest on arrears of the debt: The dividends are a value which passes from the hand of the contributor to the national creditor: Whether it be the national creditor or the contributor who accumulates or consumes it, is, I agreed, of little importance to the society; but the principal of the debt – what has become of that? It exists no more.11

La parte più nota della trattazione di Ricardo, anche se non centrale della sua

analisi, riguarda quella che ormai è indicato come il teorema dell’equivalenza

tra debito ed imposta straordinaria sul patrimonio. Secondo Ricardo il ricorso al

debito pubblico implica far fronte al servizio perpetuo degli interessi con un

flusso annuo d’imposta sul reddito. Quindi, a fronte di una spesa pubblica

finanziata in deficit, ci si aspetta il ricorso a tasse future per servire il debito.

Questo flusso ha un valore attuale pari all’ammontare del debito sottoscritto per

far fronte alla spesa. Quindi l’emissione di debito e una tassazione straordinaria

risulterebbero equivalenti, in quanto intaccano allo stesso modo il patrimonio

dei singoli contribuenti e di conseguenza della collettività.

9 D. Ricardo (1821), On the Principles of Political Economy and Taxation, trad. It. Sui i Principi dell’Economia

Politica e delle Tassazione, Isedi, Milano, 1976, pag. 254. 10 J.F. Melon (1761), Essai Politique sur le Commerce, Nouvelle Édition. 11 Ricardo (1821), pag. 252.

11

Naturalmente la trattazione del debito pubblico, da parte di Ricardo, è parte

integrante del contesto teorico in cui si muove, e l’accezione negativa del

debito nasce da fattori diversi rispetto alle motivazioni che verranno portate in

seguito in ambito neoclassico. In Ricardo l’emissione di debito pubblico riduce

la quota del risparmio privato destinato all’accumulazione di capitale, e ciò

dipende fondamentalmente da due fattori: l’idea che il livello del prodotto è

determinato dal capitale accumulato in precedenza, e dal fatto che il debito

pubblico va a finanziare una spesa ritenuta improduttiva. Quindi questa sorta di

spiazzamento che troviamo in Ricardo non può essere associato in nessun

modo a quello tipico dell’analisi neoclassica, in quanto quest’ultima richiede,

come vedremo, la tendenza al pieno impiego delle risorse produttive. La

struttura analitica di Ricardo non si fonda affatto sull’equilibrio tra forze di

domanda e offerta, lasciando la possibilità di esistenza e di persistenza di

risorse inutilizzate. Allo stesso modo non è attribuibile a Ricardo neanche il

concetto di neutralità del debito, che si affermerà poi con Barro a partire dal

1974.12,13

6. Il giudizio negativo circa gli effetti del debito pubblico rimane tale anche

dopo la rivoluzione marginalista. In particolare si ritiene che la spesa pubblica

ordinaria vada finanziata con le imposte. Inoltre l’accumulazione di debito

pubblico e la spesa per gli interessi vengono considerati potenziali rischi per

l’economia. Ciò sembra coerente con l’idea che non esista alcun effetto

positivo della spesa pubblica finanziata in deficit sul reddito. Infatti in questa

teoria esiste la tendenza al pieno impiego delle risorse produttive, garantita dai

12 R. Barro (1974), Are Government Bonds Net Wealth?, Journal of Political Economy, December. 13 Il concetto di neutralità del debito, sviluppato da Barro, dipende dall’equivalenza tra finanziamento in deficit e finanziamento con imposte della spesa pubblica. Anche se in Ricardo esiste, almeno da un punto di vista puramente logico, tale equivalenza; comunque rimangono gli effetti negativi del deficit sull’accumulazione; quindi non è possibile attribuirgli il concetto di neutralità.

12

consueti meccanismi di domanda e offerta. A testimonianza di quanto detto è

possibile citare un passo di Pigou:

In normal time the main part of government’s revenue is required to meet regular expenditure that recurs year after year. There can be no question that in a well-ordered State all such expenditure [spesa pubblica ordinaria]14 will be provided for out of taxation, and not by borrowing. To meet it by borrowing […] would involve an ever-growing government debt and a corresponding ever-growing obligation of interest. […] The national credit would suffer heavy damage;[…] This thesis is universally accepted.15

Pigou, inoltre, suggerisce che questa tesi è universalmente accettata. Ciò

testimonia che nel periodo in esame la teoria neoclassica fosse l’unica

utilizzata, e come i suoi principi conducano inevitabilmente ad una valutazione

negativa dell’accumulazione di debito pubblico.

In realtà gli economisti neoclassici dedicano scarsa attenzione al tema del

debito pubblico16 fino a primi anni del novecento, forse anche per la sostanziale

stabilità del debito pubblico che si è avuta nel periodo (dal contributo di

Ricardo alla prima guerra mondiale). È possibile, però, menzionare la

letteratura, che si è sviluppata in Italia, la quale presta grande interesse ai temi

della scienza delle finanze, come argomento indipendente dalla scienza

economica.17 Questa letteratura si occupa principalmente di studiare gli effetti

del finanziamento in deficit o attraverso la tassazione della spesa pubblica.

Between the end of the XIX and the beginning of the XX century, the “Italian school” of public finance explored further the conditions needed for debt neutrality to hold: Pantaleoni and Borgatta focused on the role of bequests; De Viti De Marco on financial markets imperfections; Griziotti on agents time horizons; Puviani on bounded rationality and fiscal illusion.18

14 La parte tra parentesi non è presente nel testo originale. 15 A. C. Pigou (1929), A Study in Public Finance, 2nd revised edition, London, Macmillan, pag. 233. 16 Ranuzzi (1988), pag. 119. 17 J. Buchanan (1960), “La Scienza Delle Finanze”:The Italian Tradition in Fiscal Theory, Fiscal Theory and Political Economy: Selected Essays, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 24-74. 18 F. Balassone, D. Franco e S. Zotteri (2004), Public Debt: A Survey of Policy Issues, Public Debt, Banca D’Italia, pag. 35.

13

Sostanzialmente questo gruppo di autori propone un’analisi delle conseguenze

del finanziamento in deficit o mediante imposte della spesa pubblica, partendo

dagli effetti negative che la spesa pubblica comunque possiede, seguendo l’idea

di Ricardo.19

Il dibattito si concentra essenzialmente sulla possibilità che l’onere del debito

pubblico ricada sulle generazioni future, o sulle generazioni in cui il debito è

stato creato. Griziotti,20 ad esempio, sostiene la prima ipotesi, mentre De Viti

De Marco21 la seconda.

7. Il giudizio circa l’accumulazione di debito pubblico varia in maniera

cruciale a seguito della Grande Depressione e con l’affermarsi delle tesi

kenynesiane22. Gli effetti e le conseguenze di una spesa pubblica in deficit

vengono considerati su nuove basi: il deficit pubblico non è più una misura

straordinaria da utilizzare in situazioni di emergenza, ma diventa uno strumento

macroeconomico indicato per il raggiungimento di obiettivi di reddito e di

occupazione.

Si pone quindi l’attenzione sulla possibilità che lo Stato ha, utilizzando

strumenti finanziari, di intervenire direttamente nel sistema economico per

interventi strutturali e per attenuazione di eventuali periodi di crisi. Nelle fasi

recessive la spesa pubblica addizionale, finanziata mediante indebitamento, è

destinata ad incrementare la domanda aggregata, e di conseguenza reddito e

occupazione.

Con Keynes si manifesta un nuovo approccio nei confronti dell’equilibrio del

sistema economico. La teoria neoclassica afferma la tendenza al pieno impiego

dei fattori della produzione, e fare ricorso al deficit per finanziare la spesa

pubblica significherebbe distogliere risorse agli investimenti privati; ma se si 19 Si Ricorda che l’uguaglianza tra spesa finanziata in deficit o attraverso l’imposta è puramente concettuale come lo stesso Ricardo chiarisce nel suo lavoro. 20 B. Griziotti (1917), La Diversa Pressione Tributaria del Prestito e dell’Imposta, Giornale degli Economisti, Ristampato in Studi di Scienza delle Finanze, 1956, II, Milano. 21 A. De Viti De Marco (1893), La Pressione Tributaria dell’Imposta e del Prestito, Giornale degli Economisti, I. 22 J.M. Keynes (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money, in The Collected Writings of J. M.

Keynes, vol. VII, Macmillan, Londra, 1973.

14

considera non valido l’assunto di piena occupazione e si ritiene il livello di

produzione determinato dal lato della domanda, non sembra esserci ragione di

un effetto negativo sugli investimenti privati. Quindi ne consegue un

rafforzamento della tesi a favore della spesa pubblica, perché l’azione dello

Stato può determinare un incremento della produzione di beni ed un aumento

del reddito. La persistenza di un ampio ammontare di disoccupazione

costituisce uno spreco di risorse, che mediante la spesa pubblica ed il

conseguente aumento della domanda aggregata è possibile mobilitare.

8. Nonostante la portata rivoluzionaria del pensiero keynesiano, già a metà

degli anni quaranta, a causa dell’aumento del debito accumulato da vari Stati,

entra nel dibattito economico il tema della sostenibilità.23 Viene attirata

l’attenzione sul pericolo che il servizio (ossia il pagamento degli interessi) del

debito e l’ammortamento dello stesso richiedano tasse sempre più elevate con

la possibile conseguenza di un soffocamento del sistema economico. In questo

contesto è centrale il contributo di Evesy Domar24.

Domar afferma che un continuo deficit di bilancio può dar luogo ad un

incremento dell'ammontare assoluto del debito. Ma se, per ipotesi, il reddito

aumentasse in una certa percentuale e lo Stato ricorresse al debito in

percentuale costante al reddito, il debito crescerebbe con la stessa velocità del

reddito, cosicché il rapporto tra debito e reddito nazionale resterebbe costante.

Invece se la crescita del prodotto nazionale risultasse inferiore al tasso di

interesse pagato sul debito, il rapporto debito/reddito aumenterebbe e la parte

del reddito nazionale da riservare ai possessori delle obbligazioni pubbliche

aumenterebbe. Domar, pur rimanendo nella tradizione keynesiana, ma trattando

in definitiva il tasso di crescita dell’economia come un dato, introduce un

23 Ranuzzi; P. (1988) Il Debito Pubblico in Italia 1861-1987, Relazione del Direttore Generale alla Commissione parlamentare di Vigilanza, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 24 E. Domar (1944), “The Burden of the Debt” and the National Income, America Economic Review, December.

15

particolare concetto di sostenibilità e vedremo più avanti quanto esso diventerà

importante nel dibattito circa il debito.25

9. Nello stesso periodo, però, si sviluppa un altro filone di pensiero

marcatamente keynesiano, in cui si afferma la necessità dell’intervento dello

Stato, attraverso il deficit pubblico, al fine di perseguire obiettivi occupazionali

e di stabilità, che altrimenti non potrebbero essere raggiunti. Il contributo più

rilevante di questa parte di letteratura è sicuramente quello di Abba Lerner, che

per certi versi con la sua Finanza Funzionale ne rappresenta anche la parte più

radicale.26 Lerner afferma che la spesa pubblica finanziata attraverso

l’emissione di debito pubblico è uno strumento che può essere utilizzato al fine

di mantenere l’utilizzo dei fattori produttivi vicino alla piena occupazione. Allo

stesso tempo vede il rimborso del debito come mezzo per frenare le spinte

inflazionistiche, causate da una domanda aggregata che ecceda la produzione di

piena occupazione. In questo tipo di ragionamento si intravede la struttura

analitica che utilizza questo autore. Infatti, pur considerando indispensabile

l’intervento dello Stato per garantire la piena occupazione, in Lerner non è

chiaro se i suoi argomenti si riferiscano a carenze cicliche di domanda

aggregata, presenti in un’economia capitalistica, oppure ad una insufficienza

cronica, che renda l’intervento dello Stato indispensabile anche da un punto di

vista di lungo periodo. Il contributo di Lerner non è l’unico in questa direzione,

a testimonianza del fatto che negli anni quaranta le posizione keynesiane erano

largamente diffuse.27

25 Riprenderemo ampiamente l’analisi di Domar quando tratteremo della sostenibilità del debito pubblico. 26 A. Lerner (1943), Functional Finance and the Federal Debt, Social Research, vol. 10. 27 Si veda per esempio A. Hansen e G.Greer (1942), The Federal Debt and the Future: An Unflinching Look at the

Facts and Prospects; J.E. Meade (1958), Is the National Debt a Burden?, Oxford Economic Papers, New Series, 10, in L.C. Kaounides e G.E. Wood (1992), Debt and Deficits, Elgar Publishing Limited, vol. II.

16

II

Le Reazioni Neoclassiche all’Impostazione Keynesiana:

il “Crowding Out” e la “Neutralità del Debito”

10. Già all’inizio degli anni sessanta, a causa del rapido riassorbimento della

teoria keynesiana all’interno di un contesto marcatamente neoclassico, viene

rapidamente abbandonata l’idea della possibilità di utilizzare la spesa pubblica

in deficit come mezzo per il raggiungimento di obiettivi di reddito e

occupazione. Il riassorbimento della teoria keynesiana, iniziato poco dopo il

contributo di Keynes con gli autori della sintesi neoclassica,28 ha aperto la

strada ad una ampia letteratura,29 che critica in maniera decisa il punto di vista

della Functional Finance.

Questi autori sostengono che in un contesto di piena occupazione,

l’accumulazione di debito pubblico spiazza la spesa privata per investimenti,

causando così una progressiva riduzione dell’accumulazione di capitale e

quindi un reddito e un benessere minore nel lungo periodo. Naturalmente

questa posizione dipende in maniera decisiva dal contesto scelto, ossia la

tendenza alla piena occupazione. Nella teoria neoclassica il reddito e quindi il

risparmio sono dati; i titoli del debito pubblico emessi per finanziare la spesa

sostituiscono gli investimenti privati nell’impiego del risparmio.30 Questa

28 J.R. Hicks (1937), Mr Keynes and the ‘Classics’: a suggested interpretation, Econometrica, vol. 5. 29 Per esempio si veda: J.M. Buchanan (1958), Public Principles of Public Debt: A Defence and Restatement, Homewood Illinois; rist. L.K. Kaounides ae E.G. Wood (1992), Debt and Deficits, Edward Elgar Publishing Limited, Aldershot, vol. II; P.A. Diamond (1965), National Debt in a Neoclassical Growth Model, in American Economic Review, LV, Dicembre; F. Modigliani (1961), Long-Run Implications of Alternative Fiscal Police and the Burden of

the National Debt, The Economic Journal, vol.71, No. 284. 30 Quanto detto non è altro che la teoria dello spiazzamento nella sua versione originale.

17

posizione rimane dominante per tutti gli anni sessanta e i primi anni settanta,

periodo in cui le posizioni monetariste si fanno largo.

11. Nel 1974 appare l’articolo di Barro,31 che, sebbene non riferendosi

all’equivalenza Ricardiana, sostiene la neutralità del debito, un argomento che

viene portato a difesa dell’inutilità, ma allo stesso tempo dell’innocuità, della

spesa pubblica finanziata attraverso emissione di titoli. La posizione di Barro è

criticata fortemente anche da autori di impostazione neoclassica. Secondo

Barro l’accumulazione di debito pubblico non rappresenta un elemento che

influenza negativamente l’accumulazione di capitale. Il concetto di equivalenza

tra finanziamento in deficit e finanziamento con imposte della spesa pubblica,

lo abbiamo già trovato in Ricardo, ma è con Barro che acquista grande

importanza, tanto che ancora oggi è centrale nel dibattito circa il debito.

Barro nel suo articolo argomenta che il finanziamento della spesa pubblica

attraverso l’emissione di titoli sarebbe equivalente nei sui effetti al

finanziamento mediante imposte. Ciò discenderebbe dal fatto che i privati

risparmierebbero di più a fronte di un aumento della spesa in deficit, perché il

disavanzo generato, secondo Barro, sarebbe coperto in futuro con tasse più

elevate. Questo comportamento degli agenti economici dipende dal fatto che gli

individui, per natura mortali, sotto la condizione che ogni generazione includa

nella propria funzione di utilità, insieme ai consumi personali, anche l’utilità

delle generazioni future, avrebbero in realtà orizzonti temporali infiniti.32

L’utilità del figlio è funzione delle condizioni iniziali di cui gode, più l’eredità

ricevuta dai propri genitori. Per un dato valore attuale della tassazione, se

questa viene trasferita nel tempo da una generazione a quella successiva,

l’individuo presente si trova a dover affrontare lo stesso vincolo di bilancio

31 R. Barro (1974), Are Government Bonds Net Wealth?, Journal of Political Economy, December. 32 Se l’orizzonte dei consumatori è finito il differimento delle imposte alla generazione futura farà aumentare il consumo delle generazioni presenti.

18

intertemporale, e provvederà a far fronte alla maggiore tassazione che il figlio

dovrà sostenere, lasciandogli un’eredità più cospicua. La catena di generazioni

successive, che si comportano nello stesso modo, renderebbe così infinito

l’orizzonte di ciascuna generazione.

Questo tipo di costruzione non è esente da critiche. Infatti la catena che lega le

generazioni che si susseguono può interrompersi. Inoltre l’esistenza di lasciti

ereditari spesso non è legata direttamente alle condizioni iniziali di cui godono i

figli: il donare è spesso gratificazione del donatore e non tanto benessere di chi

riceve; in questo caso le eredità sono correlate alla ricchezza dei genitori

piuttosto che alle presunte necessità degli eredi.33

Nonostante le critiche al modello di Barro, qui accennate, il suo contributo è

ancora centrale nel dibattito circa il debito.

12. Come già detto, sia il fenomeno del crowding out sia gli argomenti di

Barro, sebbene molto diversi tra loro, nascono entrambi in ambito neoclassico,

e ne costituiscono una parte importante nella risposta all’impostazione

keynesiana per gli argomenti relativi al finanziamento in deficit della spesa

pubblica. In questo capitolo ci occupiamo di descrivere e criticare queste due

argomentazioni.

13. In questa parte ci occuperemo del fenomeno del crowding out, o

spiazzamento. Questo tipo di argomentazione comincia ad affermarsi a partire

dagli anni cinquanta, come reazione alle posizioni keynesiane, ed in particolare

alla Finanza Funzionale di Abba Lerner,34 più aperte all’utilizzo dello

strumento del debito pubblico, per il raggiungimento di obiettivi di reddito ed

33 J. Tobin (1982), Problemi di Teoria Economica Contemporanea, con prefazione di Federico Caffè, Libri del tempo Laterza. 34 A. Lerner (1943), Functional Finance and the Federal Debt, Social Research, vol. 10.

19

occupazione. Il lavoro di Lerner diventa l’oggetto di critica di molti lavori

provenienti dalla parte più tradizionale della teoria.35 La spiegazione del

fenomeno del crowding out non è univoca. Qui si analizzeranno le più rilevanti

e ne saranno indicati i punti deboli. Iniziamo la trattazione di questi argomenti

dalla spiegazione tradizionale, che tra l’altro sembra essere la più solida.

14. Con il fenomeno dello spiazziamento reale (crowding out) si intende

sostanzialmente la sottrazione di risorse agli investimenti privati che si

verificherebbe a seguito di spesa pubblica finanziata con l’emissione di titoli

del debito pubblico. I titoli emessi, secondo i sostenitori di questo fenomeno,

non andrebbero ad aggiungersi alla ricchezza detenuta dai privati, ma

sostituirebbero altre attività.

La spiegazione del crowding out è direttamente riconducibile alla teoria

neoclassica, la quale presuppone la tendenza dell’economia al pieno impiego

delle risorse produttive.

In the classical system all private income is spent on either consumption or investment. Full employment is secured automatically.36

Infatti i livelli di reddito e quindi il risparmio, che si forma presso il settore

privato, sono determinati indipendentemente dai flussi di spesa pubblica in

deficit. Di conseguenza l’espansione del debito pubblico riduce l’ammontare

dei risparmi che il settore privato è in grado di destinare agli investimenti e

causa pertanto una minore formazione di capitale privato. Tale meccanismo

come in tutta la tradizione neoclassica si attiva grazie alla variazione del

35 Si veda per es.: J.E: Meade (1958), Is the National Debt a Burden?, Oxford Economic Papers, New Series, 11; R. Musgrave (1959), Classical Theory of Public Debt, in The Theory of Public Finance, New York: McGraw-Hill; J.M. Buchanan (1960), “La Scienza Delle Finanze”:The Italian Tradition in Fiscal Theory, in Fiscal Theory and Political Economy: Selected Essays, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 24-74. 36 R. Musgrave (1959), Classical Theory of Public Debt, in The Theory of Public Finance, New York: McGraw-Hill, pag. 556.

20

sistema dei prezzi, e nel caso specifico all’aumento del tasso d’interesse, che

porta all’equilibrio tra domanda e offerta in tutti i mercati.

Per maggiore chiarezza scriviamo l’equazione dell’equilibrio

macroeconomico generale con l’esistenza del settore pubblico:

S + T = I + G [1]

da cui:

S = I + G – T [2]

Nelle equazione sopra S sono i risparmi, T rappresenta il gettito fiscale, I il

livello di investimenti privati, e G la spesa pubblica.

L’aumento della spesa pubblica, finanziata in deficit, non può generare

risparmi aggiuntivi37 perché il reddito, incontrando il limite del pieno impiego

delle risorse, non può aumentare.

Ora tenendo in considerazione l’equazione scritta sopra e quanto appena

affermato, il mantenimento dell’equilibrio macroeconomico richiede che, se

non si aumentano le imposte e non varia la propensione al risparmio,38 gli

investimenti privati devono necessariamente diminuire al crescere della spesa

pubblica e quindi del debito.

È ora chiaro perché, da questo punto di vista teorico, lo stock di debito

pubblico è considerato come un onere per la collettività. Infatti lo stock di

debito nelle mani del settore privato non rappresenta ricchezza aggiuntiva,

creata dall’attività di spesa del settore pubblico, bensì risparmio, che senza

l’attività di spesa in disavanzo, si sarebbe rivolto al finanziamento di

investimenti privati. La spesa pubblica si sostituisce quindi all’investimento

37 La possibilità di generare risparmi aggiuntivi è centrale per i possibili incrementi di reddito che l’espansione del debito può avere. 38 S, ossia il risparmio, è uguale alla propensione al risparmio per il reddito di pieno impiego.

21

privato. Al debito corrisponde un ammontare di investimenti inferiore, e quindi

uno stock di capitale privato e di reddito inferiore per le generazioni presenti e

future, nella misura in cui il debito pubblico finanzia consumi e non

investimenti.

È possibile illustrare quanto detto anche in modo differente, in particolare se

indichiamo con W la ricchezza detenuta dai privati, possiamo affermare che la

variazione di essa è uguale ai risparmi del periodo, inoltre, tenendo conto

dell’equazione contabile di uguaglianza tra risparmi ed investimenti sempre

verificata, possiamo scrivere:

∆W = S = I [3]

Ora introducendo il debito pubblico (D), e ricordando che nel contesto teorico

in discussione S dipende dal reddito, e che quest’ultimo è dato al livello di

pieno impiego delle risorse produttive, è chiaro dalla seguente equazione che

gli investimenti privati sono in una relazione di trade-off con il debito pubblico:

S = I + D [4]

Passando dall’analisi dei flussi a quella degli stock l’emissione di debito

pubblico determina una riduzione dello stock di capitale disponibile per le

generazioni future. In altre parole l’emissione di titoli del debito pubblico

determina un passaggio alle generazioni future di un onere.

Proprio questo spostamento dell’onere diventa uno degli argomenti centrali

della discussione tra i sostenitori di politiche di espansione del debito e coloro

che, invece, sono contrari:

22

I shall be concerned with whether or not the debt burden can be postponed. The real question involves the possible shiftability or nonshiftability of the debt burden in time.39

L’origine del fenomeno del crowding out risiede direttamente nei fondamenti

della teoria tradizionale: la spiegazione della distribuzione in termini di

equilibrio tra domanda offerta dei fattori, che assicura il pieno impiego delle

risorse. Questa causa di spiazzamento dell’accumulazione non troverebbe,

quindi, fondamento in una analisi che, offrendo una spiegazione diversa della

distribuzione, non presenterebbe vincoli particolari con riguardo ai livelli di

produzione, e in cui il sottoutilizzo delle risorse produttive potrebbe costituire

un elemento normale dell’economia.

15. Ora passiamo alla descrizione di altre cause di crowding out, non

direttamente connesse, almeno apparentemente, al pieno impiego delle risorse

produttive e quindi alla teoria tradizionale della distribuzione.

Cominciamo con l’analisi del cosiddetto spiazzamento di portafoglio.40

Questo tipo di argomentazione non esclude l’esistenza di risorse inutilizzate, e

in questo caso la spesa pubblica può contribuire ad alzare il livello della

domanda aggregata e del reddito prodotto. Il debito pubblico genera quindi

risparmio addizionale e quindi ricchezza aggiuntiva presso il settore privato.

L’aumento della ricchezza detenuta dal settore privato, a parità di altre

condizioni, genera un aumento della domanda di attività in cui la ricchezza

stessa può essere detenuta, tra queste attività è naturalmente presente anche la

moneta. A fronte di questa aumentata domanda di attività esiste un aumento

anche dell’offerta di esse, costituita però, nelle ipotesi adottate, esclusivamente

da titoli del debito pubblico. Quindi la composizione della domanda di attività

39 J.M. Buchanan (1958), Public Principles of Public Debt: A Defence and Restatement, Homewood, Illinois, in L.C. Kaounides e G.E. Wood (1992), Debt and Deficits, Elgar Publishing Limited, vol. II, pag 435. 40 Si vede per es.: J.Tobin e W. Buiter (1976), Long-run Effects of Fiscal and Monetary Policy on Aggregate Demand, Cowles Foundation Paper 437a; A. Blinder e R. Solow (1973), Does Fiscal Policy Matter?, Journal of Public Economics, vol. 2, November.

23

risulta essere differente da quella dell’offerta, in particolare si avrebbe un

eccesso di domanda di moneta e un eccesso di offerta di titoli del debito

pubblico. Questo squilibrio provocherebbe un aumento del saggio di

rendimento dei titoli, che, supponendo la quota di ricchezza che i privati

desiderano in forma di moneta elastica a tale saggio, adeguerebbe la

composizione della domanda di attività all’offerta. L’aumento del tasso di

interesse determinerebbe però effetti negativi sul livello degli investimenti e di

conseguenza sull’accumulazione di capitale e sul reddito.

Questo tipo di spiazzamento non presuppone una scarsità di risorse

disponibili, e in questo senso appare come un fenomeno diverso da quello

analizzato in precedenza, inevitabilmente legato alla teoria tradizionale. Esso

presuppone tuttavia una relazione funzionale tra il tasso di interesse e il livello

degli investimenti. Tale relazione sembra trovare naturale collocazione in un

contesto teorico caratterizzato dai meccanismi di sostituzione marginalisti.

Quindi è possibile affermare che, pur non essendo la piena occupazione una

delle premesse di questo argomento, in esso sono comunque presenti elementi

fondamentali della teoria tradizionale.

La causa di questa forma di crowding out, ora in considerazione, appare però

discutibile già nei termini stessi in cui viene formulata. Se distinguiamo tra

titoli del debito pubblico e quelli rappresentanti attività reali, a fronte

dell’aumento della spesa pubblica finanziata in deficit, gli iniziali eccessi di

domanda di moneta e di titoli rappresentativi del capitale reale, e il

corrispondente eccesso di titoli del debito pubblico, determinano un aumento

oppure una diminuzione del saggio di rendimento delle attività reali a seconda

che i titoli del debito pubblico siano considerati, da chi possiede la ricchezza,

sostituti delle attività reali o della moneta. In questo caso supponendo che il

volume degli investimenti privati sia legato da una relazione inversa con il

24

saggio di rendimento delle attività reali, il debito pubblico può avere effetti di

crowding out, ma anche di crowding in, come B. Friedman ammette:41

In a general model including money, bonds, and capital, there is no justification for presuming a priori whether the portfolio effect associated with bond-financed government deficits offsets or reinforces the familiar income effect of fiscal policy.42

Inoltre, pur accettando l’idea che la quantità di moneta desiderata sia funzione

crescente delle ricchezza, ossia la funzione di domanda della moneta presenti la

ricchezza come suo argomento, quanto affermato sopra presuppone che a fronte

di una espansione del debito pubblico la quantità di moneta rimanga constante.

Ma presupporre la costanza dell’offerta di moneta a fronte di un aumento della

quantità di moneta desiderata implica una deliberata politica monetaria, in

particolare una politica restrittiva. In sostanza lasciare invariata la quantità di

moneta, a fronte di un aumento della domanda di essa, è equiparabile

all’immobilità delle autorità monetarie dinanzi ad ogni altro squilibrio tra

domanda e offerta, e quindi una precisa decisione di politica monetaria. 43

Considerando che la quantità di moneta presente nell’economia è il frutto di

decisioni passate delle autorità monetarie, è lecito attendersi che tale attività

regolatrice continui a fronte di qualunque squilibrio tra domanda e offerta di

moneta. Quindi il lasciare la quantità di moneta invariata, che potrebbe

sembrare a prima vista una condizione di ceteris paribus, in realtà non lo è.

Sarebbe invece una condizione ceteris paribus, se le autorità monetarie

continuassero a svolgere il proprio compito regolatore del mercato della

moneta.

41 Si veda anche L.H. Meyer (1975), The Balance Sheet Identity, the Government Financing Constraint, and the

Crowding Out Effect, Journal of Monetary Economics, pag. 66-78. 42 B. Friedman (1978), Crowding Out or Crowding In? Economic Consequences of Financing Government Deficits, in Brooking Papers on Economic Activity, vol. 1978, No. 3, pag. 629. 43 Si veda W. Buiter (1985), A guide to public sector debt and deficits, Economic Policy, November; J. Tobin (1979), Deficit Spending and Crowding Out in Shorter and Longer Runs, in Economic Theory for Economic Efficiency: Essay in Honor of A.P. Lerner, M.I.T. Press.

25

16. Un'altra forma di spiazzamento analoga alla precedente è lo spiazzamento

che deriva dall’accresciuta domanda di moneta per transazioni che accompagna

l’emissione di nuovi titoli del debito (transactions crowding out).44

La spiegazione di questo spiazzamento trae le sue origini nel modello IS-LM di

Hicks,45 come viene indicato in B. Friedman:

The transactions crowding out associated with a government deficit financed by using nonmoney claims had been a standard part of the keynesian fiscal policy analysis at least since Hicks’ formalization of it in the IS-LM model.46

Anche in questo caso ci troviamo nella condizione di non pieno impiego delle

risorse, infatti l’aumento della quantità domandata di moneta a scopi transativi

presuppone l’aumento della domanda aggregata e del reddito. Come nel caso

precedente, affinché tale tipo di spiazzamento si verifichi, è necessario che la

quantità di moneta offerta rimanga invariata, quindi anche in questo caso è

possibile applicare la critica precedente, circa la costanza della moneta.

Questa spiegazione dello spiazzamento presenta un limite ulteriore rispetto

alla precedente perché, mentre lo spiazzamento da portafoglio rimane anche

qualora gli effetti sul reddito terminino, questa forma cessa quando gli effetti

sul reddito cessano. Comunque l’ipotesi di costanza della quantità di moneta,

evidente anche nel passo di Friedman riportato, rappresenta un aspetto critico

per entrambe le forme di crowding out considerate.

Ciò è ben più evidente se si tiene in considerazione il fatto che l’effetto

negativo sul livello degli investimenti non è una conseguenza diretta della

spesa pubblica finanziata in deficit, ma scaturisce da un aumento del tasso

d’interesse causato dall’invariata quantità di moneta offerta. A conferma di

quanto detto è possibile ricordare che un aumento della domanda di moneta può

dipendere dalla variazione di qualunque altra componente della domanda 44 Si veda per esempio: Tobin (1979); Friedman (1978). 45 J.R. Hicks (1937), Mr. Keynes and ‘Classics’; A Suggested Interpretation, in Econometrica, vol. 5. 46 Friedman (1978).

26

aggregata, tra cui gli stessi investimenti privati. Anche in questi casi lo

spiazzamento agirebbe nello stesso modo, e la costanza della quantità di

moneta costituirebbe comunque un freno per l’espansione del livello del

reddito.

Per concludere è possibile dire che l’effetto negativo sugli investimenti privati

dipende esclusivamente dall’ipotesi di costanza della quantità di moneta e non

da un effetto diretto dell’accumulazione di debito pubblico.

17. Ci occupiamo ora di un ultimo argomento per la spiegazione dell’esistenza

di crowding out: uno stock crescente di titoli del debito pubblico avrebbe effetti

negativi sulla accumulazione privata di capitale perché esisterebbe un limite

superiore al rapporto tra ricchezza e reddito che il settore privato desidera

detenere. Di conseguenza una volta raggiunto tale limite, ogni emissione

ulteriore di debito pubblico andrebbe a sostituire e non ad aggiungersi ad altri

tipi di investimento nella ricchezza del settore privato. Un debito pubblico

crescente in rapporto al reddito sottrarrebbe quindi spazio alle attività reali

nella ricchezza del settore privato e avrebbe una conseguenza negativa

sull’accumulazione di capitale.

Questo tipo di argomentazione è riconducibile sostanzialmente al caso dello

spiazzamento reale sopra descritto. Ma mentre in quel caso l’attenzione era

concentrata sulle grandezze flusso, ora l’attenzione è spostata sugli stock.

Come abbiamo notato in precedenza, nel caso dello spiazzamento reale,

l’effetto negativo sugli investimenti privati ad opera del deficit pubblico

presuppone condizioni di pieno impiego delle risorse produttive. Vedremo di

seguito, che lo stesso vale per questo tipo di spiazzamento a testimonianza del

fatto che, sostanzialmente, i due argomenti sono accomunabili.

Come accennato la giustificazione dell’esistenza di questo particolare

fenomeno di crowding out risiede nell’idea che gli individui siano caratterizzati

27

da uno specifico rapporto desiderato tra reddito e ricchezza detenuta nelle varie

fasi della vita.

I have elsewhere proposed some answer to these questions by advancing the hypothesis that savings (and dissavings) is not a passive reactions to income but represents instead a purposive endeavour by households to achieve a desirable allocation of resources to consumption over their lifetimes.47

Così si esprime Modigliani in un suo articolo del 1961 dove si occupa della

questione del debito pubblico, anche se non direttamente collegato alla tematica

del crowding out, ora in esame. L’esistenza di un rapporto prestabilito tra

reddito e ricchezza viene giustificato attraverso la teoria del ciclo vitale

formulata da Modigliani e Brumberg48 nel 1954, e riportata sinteticamente

dallo stesso Modigliani nel passo sopra.

Secondo questa teoria l’accumulazione individuale di ricchezza (quindi il

risparmio degli individui) è finalizzato al mantenimento di un livello del

consumo constante nell’arco della vita a fronte di redditi variabili nel tempo.49

Di conseguenza l’individuo accumulerebbe ricchezza nei periodi in cui dispone

di un reddito più elevato, mentre consumerebbe la ricchezza stessa nei periodi

successivi al ritiro dall’attività produttiva, o comunque nei periodi in cui

necessita di un consumo maggiore rispetto al reddito. In ogni dato periodo la

ricchezza aggregata si troverebbe allora, in relazione al reddito, in un rapporto

preciso, dipendente dalla lunghezza del periodo in cui l’individuo partecipa

all’attività produttiva e dall’età media degli individui.

L’effettiva capacità del ciclo vitale di dare una spiegazione delle ragioni per le

quali gli individui risparmiano è stata ampiamente discussa, in particolar modo

sul piano empirico, con risultati quantomeno controversi. In particolare si è

47 F. Modigliani (1961), Long-Run Implications of Alternative Fiscal Policies and the Burden of Natonal Debt, The Economic Journal, Vol. 71, No. 284, December, pag. 742. 48 F. Modigliani e R. Brumberg (1954), Utility Analysis and the Consuption Function: An Interpretation of Cross-

Section Data, in Post-Keynesian Economics, a cura di K. Kurihara, New Brunswick, N.J.: Ruters University Press. 49 In particolare gli individui risparmierebbero un ammontare negativo nel primo periodo lavorativo attraverso la sottoscrizione di mutui, per poi risparmiare maggiormente nella fase successiva in cui si presume una retribuzione più elevata, e in fine una diminuzione dei risparmi in fase matura.

28

tentato di confrontare il volume del risparmio privato, riconducibile al ciclo

vitale con e l’entità dell’accumulazione di capitale per verificare se i due

fenomeni fossero correlati.50

Inoltre esistono altri argomenti di carattere empirico che tendono ad escludere

la validità del ciclo vitale per giustificare il risparmio degli individui. Per

esempio è stato notato che i ricchi comunque risparmiano una quota del reddito

maggiore rispetto ai meno abbienti, che le generazioni più giovani in paesi

come il Giappone o l’Europa occidentale risparmiano una quota positiva e

crescente del proprio reddito, e in fine che le persone in età avanzata e

pensionati risparmiano una quota notevole del proprio reddito.51

Ma oltre a questi argomenti di carattere empirico per la critica della teoria del

ciclo vitale, ne esiste un’altra di carattere teorico che rende questa ipotesi

discutibile come base per i fenomeni di crowding out. Essa deve attribuire un

peso pressoché nullo ai lasciti ereditari nel trasferimento della ricchezza da un

individuo ad un altro. Infatti tra le motivazioni che spingono gli individui a

risparmiare in questo tipo di teoria viene esclusa la volontà di lasciare ricchezza

a propri eredi, in quanto il risparmio è giustificato esclusivamente dalla volontà

di ottimizzazione intertemporale del consumo. Il trasferimento di ricchezza tra

generazioni avverrebbe quindi esclusivamente, o quasi, attraverso la vendita di

attività da parte delle generazioni anziane a quelle più giovani. Ma quanto detto

appare essere in contrasto con la distribuzione della ricchezza ineguale che

invece caratterizza la realtà. Intuitivamente, con l’ipotesi adottata qui, grandi

concentrazioni di ricchezze dovrebbero tendere a scomparire perché gli anziani

con stock di ricchezza elevati non possono che liquidare il proprio patrimonio

50Per una critica alle evidenze empiriche della teoria del ciclo vitale si veda: L. Kotlikoff e L. Summers (1981), The

Role of Intergenerational Transfers in Aggregate Capital Accumulation, Journal of Political Economy. Una posizione opposta è invece in: .F. Modigliani (1988), The Role of Intergenerational Transfers and the Life Cycle Saving in the

Accumulation of Wealth, Journal of Economic Perspectives. 51 M. Baranzini (2005), La Teoria del Ciclo Vitale del Risparmio di Modigliani Ciquant’anni Dopo, in Moneta e

Credito, giugno-settembre.

29

attraverso la cessione di quote di esso ad una molteplicità di individui

giovani.52

Si è detto in precedenza che l’ipotesi dell’esistenza di un determinato rapporto

tra ricchezza e reddito non è unanimemente riconosciuta sul piano empirico.

Ma se anche si concedesse tale ipotesi, un rapporto costante tra ricchezza e

reddito non necessariamente sarebbe concepibile come un livello desiderato o

“naturale” del rapporto in questione.53 Per quanto detto finora, sembra di poter

affermare che l’ipotesi di ciclo vitale poggia su basi non propriamente solide, di

conseguenza è del tutto lecito avanzare dubbi circa il reale funzionamento di

questa ulteriore spiegazione dello spiazzamento.

Infine, procediamo nell’analisi, ammettendo che esista un valore desiderato

del rapporto tra ricchezza detenuta dagli individui e il loro reddito. Se, però, si

ammettesse che il livello del reddito sia dipendente positivamente dalla spesa

pubblica, il finanziamento di questa mediante debito, causerebbe un aumento di

entrambi i termini del rapporto. Di conseguenza non sarebbe possibile dire a

priori se la spesa in deficit determini un aumento o una diminuzione del

rapporto tra ricchezza e reddito.54 È anzi possibile aggiungere che le condizioni

necessarie, affinché il rapporto decresca, sono non stringenti55. Naturalmente

52 Kotlikoff e Summers (1981). 53 È possibile a riguardo fare un paragone con i livelli di disoccupazione. La costanza di un elevato tasso di disoccupazione nel tempo non significa naturalmente che quello sia un valore desiderato o naturale. 54 R. Ciccone (2002), Debito Pubblico, Domanda Aggregata e Accumulazione, Aracne, Roma. 55Consideriamo in un sistema economico due periodi che indichiamo rispettivamente con 1 e 2; alla fine del primo periodo B1 e WP1 costituiscono rispettivamente il valore del debito pubblico e della ricchezza detenuta dal settore privato mentre G1 e Y1 rappresentano rispettivamente la spesa pubblica e il livello del reddito. Ora supponiamo che nel secondo periodo avvenga una manovra espansiva attraverso una spesa pubblica maggiore finanziata attraverso titoli del debito pubblico. Allora avremo che: ∆G = G1 – G2

Poi supponiamo che il prelievo fiscale sia determinato da una aliquota fissa sul reddito pari a t, e che il moltiplicatore del reddito sia m, allora avremo che: ∆B = ∆G (1– tm)

L’incremento dello stock di ricchezza privata generato da un aumento dei titoli del debito pubblico è accompagnato da un rapporto tra ricchezza e reddito inferiore se vale: ∆Y/ Y1 > ∆B/ WP1

Riformulando la precedente la condizione diventa WP1/Y1 > (1 - c)(1 - t).

30

questo argomento presuppone che il livello del reddito dipenda dal livello della

domanda aggregata.

Segue che anche questa particolare forma di crowding out presuppone una

situazione di pieno impiego delle risorse, nella quale la domanda aggregata non

può influenzare i livelli di reddito. Infatti anche se si accetta l’ipotesi del ciclo

vitale lo spiazzamento non si verificherebbe se il reddito fosse crescente a

fronte di aumenti del debito pubblico.

18. Nel 1974, con la pubblicazione dell’articolo di Barro “Are Government

Bonds Net Wealth?“, 56 si palesa nel dibattito circa il debito pubblico una nuova

posizione, profondamente differente da quella degli autori del crowding out, e

dalle posizioni keynesiane, che si erano sviluppate in precedenza. Secondo gli

argomenti di Barro, comunque maturati all’interno del contesto teorico

neoclassico, e di conseguenza sotto la condizione di pieno impiego delle risorse

produttive, il finanziamento della spesa pubblica in deficit sarebbe equivalente

al finanziamento mediante imposizione fiscale (equivalenza Ricardiana)57 per

quanto riguarda gli effetti sull’economia; da qui il concetto gemello di

neutralità del debito rispetto alle altre grandezze economiche. La posizione di

Barro dipende dal non considerare i titoli del debito pubblico come ricchezza

per il settore privato. Barro ritiene che su questo punto poggino il ragionamento

coloro i quali ritengono che la spesa pubblica in deficit possa avere effetti reali:

The assumption that government bonds are perceived as net wealth by the private sector play an important role in theoretical analyses of monetary and fiscal effects. This assumption appears, explicitly or implicitly, in demonstrating real effects of a shift in the stock of public debt […]58

La grandezza (1 - c)(1 - t).rappresenta la propensione marginale al risparmio, al netto dell’imposta sul reddito. Perciò la conclusione è che essa sia inferiore al rapporto tra ricchezza detenuta e reddito, affinché un aumento del debito pubblico si accompagni ad una diminuzione del rapporto, piuttosto che un aumento. 56 R. Barro (1974), Are Government Bonds Net Wealth?, Journal of Political Economy, December. 57 E’ interessante notare che Barro non menziona nel suo articolo Ricardo, la definizione di “equivalenza Ricardiana” è in J.Buchanan (1976), Barro on the Ricardian Equivalence Theorem , Journal of Political Economy, April. 58 Barro (1974), pag 1095.

31

19. Descriviamo ora il ragionamento di Barro: se gli orizzonti degli agenti

economici non si estendessero oltre la loro vita, sostituire le imposte con

emissioni di titoli del debito pubblico farebbe aumentare il consumo delle

generazioni presenti, qualora le imposte per ripagare il debito ricadessero oltre

il loro orizzonte temporale; in questo modo il debito pubblico spiazzerebbe gli

investimenti privati e l’accumulazione di capitale reale.

Considerando inoltre che il debito pubblico sarà comunque ripagato in futuro,

le generazioni presenti con il loro comportamento trasferirebbero l’onere dello

stesso alle generazioni future.

A questo punto del ragionamento interviene il contributo fondamentale di

Barro: egli mostra che gli individui avrebbero in realtà orizzonti temporali

infiniti. La condizione, indispensabile per tale affermazione, risiederebbe nel

fatto che è che ogni individuo includa nella propria funzione di utilità, insieme

al consumo dei vari stadi della propria vita, anche l’utilità della generazione

futura. L’utilità del figlio sarebbe quindi funzione delle condizioni iniziali e di

reddito di cui gode, più l’eredità ricevuta dai propri genitori.

Quindi nella logica di Barro un aumento della spesa pubblica, finanziata con

l’emissione di debito, genera l’aspettativa del settore privato di un aumento

futuro della tassazione da parte del governo, per ripagare gli interessi del debito

ed, eventualmente, per rimborsare lo stesso debito. I privati, quindi, a fronte di

una aumentata ricchezza costituita dai titoli del debito pubblico, non

aumenteranno i propri consumi perché, prevedendo una tassazione maggiore

che ricadrà sulle generazioni future, aumenteranno i propri risparmi per

compensare le generazioni future. In questo modo, da un lato non variano il

proprio piano intertemporale dei consumi, e dall’altro provvedono a lasciare ai

propri eredi un ammontare di ricchezza invariato, considerando il prelievo

fiscale che gli eredi subiranno a causa del debito pubblico. Perché anche se non

32

saranno i soggetti economici, presenti nell’economia al momento

dell’emissione del debito, a pagare direttamente le tasse aggiuntive, essi,

incorporando nella propria funzione di utilità anche quella dei discendenti,

provvederanno attraverso lasciti alla necessità delle generazioni successive di

ripagare il debito pubblico e i suoi interessi.

In sostanza è possibile dire che l’emissione di debito pubblico in questo

contesto non ha alcun effetto sulla ripartizione tra risparmi ed investimenti,

lasciando invariato il piano di consumi e risparmi intertemporale degli agenti

economici.

Nella costruzione di Barro viene meno ogni effetto che la politica fiscale può

avere sulla ricchezza degli individui, allontanandosi così dalla teoria

tradizionale, ma allo stesso tempo anche da un’interpretazione “keynesiana”

degli effetti reali che il debito pubblico può avere sul reddito.59 Inoltre egli

ribadisce a più riprese che la diversità della sua analisi risiede nel fatto che il

debito pubblico non verrebbe percepito in nessun modo come ricchezza netta

detenuta dai privati.

More generally, the assumption that government debt issue leads, at least in part, to an increase in the typical household’s conception of its net wealth is crucial in demonstrating a positive effect on aggregate demand of “expansionary” fiscal policy, [...] The key result here is that, so long as there is an operative intergenerational transfer, there will be no net-wealth effect and, hence, no effect on the aggregate demand or on interest rates of a marginal change in government debt60.

Nel ragionamento di Barro la politica fiscale perde perciò ogni possibilità di

influenzare le grandezze reali; essa è sostanzialmente inefficace. Però a

differenza di quanto visto a riguardo del fenomeno del crowding out, essa è

anche innocua: non compromette la formazione del capitale privato. Per questo

59 Come accennato nel paragrafo di introduzione alla fine di questo capitolo esporremo il nostro punto vista, che porterà alla luce gli effetti positivi che il debito pubblico ha sul reddito, in condizione di non piena occupazione e utilizzo della teoria classica della distribuzione. 60 Barro (1974), pag. 1096-1097. Nel passo riportato sembra che l’opinione di Barro sarebbe differente se i titoli del debito pubblico fossero avvertiti come ricchezza da parte degli individui.

33

motivo è chiaro come questa teoria non è esente da critiche provenienti dalla

teoria tradizionale.61

20. Iniziamo proprio con il riportare le critiche provenienti da questa parte

della teoria, a cui lo stesso Barro aderisce, essendo la tendenza alla piena

occupazione essenziale per i suoi argomenti.62

Nella costruzione di Barro, che gli permette di affermare la neutralità del

debito pubblico, è centrale la catena che collega le varie generazioni, ma essa

può essere interrotta per vari motivi.

Una prima causa dell’interruzione della catena è costituita dalla possibilità che

una generazione non abbia figli o sia indifferente al destino degli stessi.

Prevedendo in anticipo questa interruzione la generazione presente è

incentivata ad aumentare i consumi se le imposte ricadranno oltre il punto in

cui la catena si interrompe. Ciò può spingere gli individui a cambiare il proprio

piano di consumi e risparmi, a fronte di un’emissione di debito pubblico.

Come tutti sanno, in ogni generazione vi sono famiglie senza figli o indifferenti alle sorti dei propri figli. Queste famiglie consumeranno di più se possono pagare meno imposte a spese delle generazioni successive. Allora le altre famiglie che hanno figli e si preoccuopano per loro, capiscono che i propri discendenti sopporteranno non solo le imposte che esse non pagano, ma anche le imposte che non pagano i loro contemporanei senza prole o indifferenti alla sua sorte. Questi genitori non possono mantenere costanti sia il consumo di tutta la loro vita sia l’utilità dei figli; un generale differimento delle imposte allenta il loro vincolo di bilancio. Agiranno su entrambi i lati: aumenteranno le eredità, ma non abbastanza da pagare le imposte dei figli. Prendendo insieme i due tipi di famiglie, si vede che la politica economica basata sull’indebitamento pubblico fa aumentare il consumo presente.63

Una altro motivo che rende debole la catena di Barro risiede nel fatto che

l’utilità dei genitori può anche dipendere dall’ammontare di eredità che essi

lasciano ai figli, indipendentemente dall’utilità o dalle condizioni complessive 61 J. Tobin (1982), Problemi di Teoria Economica Contemporanea, Libri del Tempo la Terza, pag. 60-61. 62 Si tornerà su questo punto in modo approfondito più avanti. 63 Tobin (1982), pag. 66.

34

di cui godono i figli. Il donare è sempre, e alcune volte esclusivamente,

gratificazione di chi dona, e non tanto benessere di chi riceve. In questo caso le

eredità sono correlate alla ricchezza dei genitori più che alle presunte necessità

degli eredi.

Infine un’ipotesi che potrebbe inficiare il discorso di Barro è la possibilità che

la soluzione di ottimo preveda un’eredità pari a zero o addirittura negativa

(evento escluso per ipotesi da Barro), soluzione possibile in economie in

crescita, in cui i nipoti avranno una condizione economica migliore dei genitori

o dei nonni.64

21. Un altro argomento che mette in difficoltà le ipotesi di Barro è quella

legata ai vincoli di liquidità che mettono in discussione la possibilità di

trasferire risorse nel tempo. La non completezza dei mercati finanziari rende gli

orizzonti dei piani di consumo privati più vicini delle loro vite, quindi

sembrerebbe non esserci spazio per la considerazione dei propri discendenti.

Even within the lifetime of one generation, households are generally not able to shift consumption at will from a later date to an earlier date. […] Even in countries with sophisticated financial institution and well-developed capital markets, opportunities for borrowing against future earnings from labor are limited. Compulsory or contractual saving, down payment and collateral requirements, illiquidity of future retirements pension – these are other “imperfection” – further limit the intertemporal fungibility of lifetime resources, not to mention intergenerational resources. There are good reason for all these departures from the theorist’s presumptive norm of perfect capital markets, but they are outside my current topic. The implication of these facts of life is that a large fraction of households, even in affluent societies, are liquidity-constrained as well as wealth-constrained. Their horizons for consumption plans are shorter than their lifetimes, let alone the lifetimes of their linear families. They will not be indifferent to the opportunity of defer tax payment. Even if they themselves must pay the taxes later, they will increase their consumption now.65

64Per questo tipo di critiche vedi: J. Tobin (1982). 65 J. Tobin (1980), Government Deficits and Capital Accumulation, in J. Tobin, Asset Accumulation and Economic Activity, Oxford: Basil Blackwell, pag 57.

35

Un ulteriore argomento di critica portato alle ipotesi di Barro, è la scelta di

utilizzare un’imposta in somma fissa come strumento di tassazione.

Qualora i debiti d’imposta non siano costituiti da somme specifiche a carico di

particolari individui, ma da importi relativi ad alcune condizioni che

caratterizzano gli individui (reddito, ricchezza, consumo o famiglia), allora le

imposte che si prevede verranno istituite dipendono dalle aspettative su queste

condizioni e dalla legislazione fiscale.

There are two senses in which the nature of the tax system is relevant. First, if tax liabilities are not specified amounts levied on named individuals but amounts related to individuals’ circumstance – income, wealth consumptions, family size, etc. – then anticipated taxes depend on expectations of those circumstances and of tax legislation. Second, of course, non-lump-sum levies generally induce tax-reducing behaviour.66

22. Le critiche qui proposte non hanno comunque impedito all’articolo di

Barro di diventare un punto di riferimento per la teoria economica successiva;

perché tali critiche non minano la struttura logica delle sue argomentazioni, ma

vanno a criticare solo il realismo di alcune ipotesi. Sappiamo bene però che il

dibattito teorico più rilevante non si dipana su questo piano. Tali elementi

infatti possono essere facilmente ridotti a componenti che incidono sul

fenomeno in discussione solo in termini quantitativi e non qualitativi. Rimane

quindi la possibilità di utilizzare la teoria in esame come punto di riferimento,

per questo motivo ora cercheremo di proporre una critica non connessa alle

ipotesi di Barro ma al ragionamento logico che ne consegue.67

Pur ammettendo che esistano i legami intergenerazionali, che assume Barro, è

comunque possibile mettere in dubbio che il comportamento razionale dei

singoli individui a fronte dell’emissione di titoli del debito pubblico sia

effettivamente quello teorizzato; ossia che gli individui agiscano in modo tale 66 Tobin (1980), pag 58. 67 Per questo genere di critiche si veda: R.Ciccone, (2002), Debito Pubblico, Domanda Aggregata e Accumulazione, Aracne, Roma.

36

da lasciare invariato il proprio piano intertemporale di consumo e quello degli

eredi.

Infatti se si tiene in considerazione che ogni individuo è generato da una

coppia di individui, egli fa parte di più di un albero familiare. Inoltre se si

guarda da una prospettiva diversa è possibile affermare che individui che non

hanno alcuna relazione familiare, in realtà condividono i medesimi discendenti.

La ragnatela di relazioni familiari qui descritte impedisce di considerare

ciascun individuo e i suoi discendenti semplicemente come un unico individuo

con vita infinita, come invece fa Barro.

Implicitly, Barro takes each dynastic family to be an independent, self-contained unit. […] For the human species, propagation normally requires the participation of two unrelated individuals. Thus, family linkages from complex networks, in which each individual belongs to many dynastic groupings, and in which unrelated individuals share common descendents. Due to the linkages between families, it is in general impossible to represent any particular family (or set of families) as a single, utility-maximizing agent, even when the well-being of each individual is assumed to depend only on his own consumption and the well-being of his children.68

Le relazioni familiari complesse mettono in discussione il meccanismo

intergenerazionale perché l’incentivo a lasciare eredità, e quindi a ridurre il

proprio consumo, sarebbe ridotto o addirittura scomparirebbe in quanto

esisterebbe l’aspettativa dei singoli individui che siano gli altri potenziali

donatori a prendere l’onere dei lasciti. Questo tipo di comportamento rende non

determinato il comportamento razionale degli individui, e potrebbe indurre

all’inesistenza di lasciati ereditari.69

Questo tipo di considerazioni costituiscono una critica più forte alla

costruzione teorica di Barro in quanto minano la logicità del suo ragionamento.

Naturalmente quanto detto inficia la motivazione addotta da Barro ai lasciti

ereditari, ma non esclude l’esistenza di altre motivazioni che inducono

all’esistenza di lasciti, come d’altra parte è già stato sottolineato in precedenza.

68 D.Bernheim (1989), A Neoclassical Perspective on Budget Deficits, Journal of Economic Perspectives, Spring. 69 Vedi anche D.Bernheim e K.Bagwell (1988), Is Everything Neutral?, Journal of Political Economy.

37

23. Ora viene affrontato l’ultimo punto di questa parte, ossia si analizza se le

argomentazioni di Barro siano valide, al di là della critica appena proposta,

anche in un contesto teorico differente, in cui non sia garantito il pieno impiego

delle risorse produttive.

Si utilizza come ipotesi che il livello del reddito è determinato dalla domanda

aggregata, l’espansione dello stesso non presenta limiti legati alle risorse, e

l’accumulazione di capitale non dipende dalle decisioni di risparmio della

collettività.

In questo contesto, come sarà spiegato meglio più avanti, la spesa pubblica in

deficit genera un ammontare di risparmio addizionale pari all’entità del deficit

stesso. Quindi il finanziamento in deficit della spesa pubblica contribuirebbe

alla formazione di ricchezza privata che altrimenti non si sarebbe creata. In

questo scenario mutato non ha senso pensare che le generazioni future

riceveranno un ammontare di ricchezza inferiore a quello che avrebbero

ricevuto in assenza di disavanzo pubblico. Infatti facendo una semplice analisi

contabile della situazione delle generazioni future a fronte di una emissione di

debito pubblico, esse avrebbero tra le passività il valore attuale del debito e il

servizio di esso, mentre tra le attività i titoli del debito e gli interessi che

riceveranno da essi. Quindi l’emissione di debito non aumenta ma neanche

diminuisce la ricchezza tramandata alle generazioni future.

La diversità di questo ragionamento rispetto a quello di Barro risiede proprio

nel fatto che egli opera in un contesto di piena occupazione. Infatti la piena

occupazione implica che i titoli del debito pubblico non costituiscano ricchezza

aggiuntiva ma bensì sostitutiva delle attività private. Quindi mentre il debito

pubblico non aggiungerebbe nulla alle attività delle generazioni future, le

maggiori imposte che dovrebbero nascere dal pagamento degli interessi sul

38

debito e dalla restituzione del debito stesso andrebbero a diminuire i consumi

disponibili per queste generazioni (nell’ipotesi di rimborso futuro del debito).70

Infine si ricorda che Barro nel suo lavoro presuppone che il debito pubblico

sia prima o poi ripagato. In assenza di questa ipotesi il suo ragionamento circa i

lasciti ereditari perde di valore, perché verrebbe meno la motivazione stessa del

lascito addizionale. Il rimborso futuro del debito, dipende da un presunto

parallelismo tra capitale e debito pubblico:

[…] the transversality condition for an individual’s optimization problem, limh→∞(dhkh)=0, ensured that people did not leave over any resources that asymptotically had positive present value. But the public debt is held by individuals as a part of their assets; so it follows from the same arguments that dhBh must approach zero asymptotically.71

Il valore attuale del capitale (dhkh) detenuto dai privati deve essere uguale a

zero, su un orizzonte temporale infinito. Ciò discende dal comportamento

ottimizzante degli individui, infatti in caso contrario non sarebbe massimizzata

l’utilità. Poi Barro estende questo ragionamento anche al valore attuale del

debito pubblico (dhBh). Questo passaggio però non è scontato perché il debito

pubblico non è accomunabile al capitale privato. Per ora il ragionamento si

ferma qui, ma torneremo in modo approfondito su questo aspetto, quando ci

occuperemo di sostenibilità del debito pubblico.

70 Ciccone, (2002). 71 R. Barro (1989), The Neoclassical Approach to Fiscal Policy, in L.C. Kaounides G.E. Wood (1992), Debt and

Deficits, Elgar Publishing Limited, vol. III. Si noti che nell’articolo del 1974 Barro non spiega la necessità di ripagare il debito pubblico.

39

III

Debito Pubblico e “New Political Economy”

24. In questo capitolo sarà analizzato come all’interno della New Political

Economy è trattato l’argomento del debito pubblico.72 Esistono diversi lavori

che si occupano di questo argomento e della politica economica in generale.73

Qui sarà considerato in modo approfondito un modello di Persson e Tabellini,74

al fine di evidenziare il modo di analisi di questo filone di letteratura.

La New Political Economy si differenzia dall’analisi neoclassica tradizionale,

perché studia approfonditamente le relazioni che esistono tra i soggetti

economici e i soggetti preposti alle scelte di politica economica. Proprio queste

relazioni determinano dei vincoli per il raggiungimento degli obiettivi di

politica economica, oltre al consueto vincolo delle risorse. In sostanza chi

effettua scelte di politica economica, nel massimizzare la funzione di utilità

collettiva, avrà ulteriori vincoli determinati dalla sua relazione con i soggetti

economici che rappresenta.

Prima di proporre come questa letteratura tratta il tema del debito pubblico è

necessario trattare in modo generale la struttura teorica di riferimento, affinché

si abbiano gli strumenti necessari per affrontare il tema specifico del debito

pubblico. 72 Per esempio: T. Persson e L. Svensson (1989), Why a Stubborn Conservative Would Run a Deficit: Policy with Time

Inconsistent Preferences, Quarterly Journal of Economics, 104; A. Alesina e R. Perotti (1994), The Political Economy

of Budget Deficit, NBER Working Paper Series, No. 4637, February. 73 Per esempio: A. Drazen (2000), Political Economy in Macroeconomics, Princeton, NJ: Princeton University Press; A. Dixit (1996) The Making of Economic Policy: A Transaction-Cost Politics Perspective, Cambridge MA, MIT Press; A. Alesina e H. Rosenthal (1995), Partisan Politics, Divided Government, and the Economy, Cambridge, Cambridge University Press; T. Persson e G. Tabellini (2000), Political Economics, MIT Press. 74 T. Perssson e G. Tabellini (1996), Politica Macroeconomica, La nuova Italia Scientifica, Urbino.

40

25. Nel capitolo precedente ci siamo occupati del crowding out e

dell’equivalenza Ricardiana in riferimento all’analisi del debito pubblico. È

chiaro che questi due tipi di analisi sono profondamente differenti tra loro. Allo

stesso tempo, però, presentano un importante punto di contatto, ossia

condividono l’approccio teorico neoclassico.

Gli strumenti analitici utilizzati per affrontare i problemi di politica economica

nella teoria neoclassica, fino al contributo di Barro compreso, sono esattamente

gli stessi utilizzati in microeconomia nell’analisi delle scelte del consumatore.75

In particolare il responsabile della politica economica (che indichiamo con il

termine di policy maker) stila una mappa di curve di indifferenza che riflette i

desideri dei singoli individui, poi confronta le curve di indifferenza con una

curva di trasformazione (o, meglio, con una relazione che lega i diversi

obiettivi) fra le variabili che sono argomento della sua funzione di utilità, in

modo tale da massimizzare l’utilità stessa.76

Prima del contributo della New Political Economy l’approccio dominante nel

campo della politica economica trascura elementi fondamentali che

contraddistinguono il reale funzionamento delle scelte di politica economica. In

particolare non si considera che il sistema economico non è composto da

operatori indistinti, pur se caratterizzati da specifiche preferenze e diverse

dotazioni iniziali. Inoltre non si tiene in considerazione che i responsabili di

politica economica non sono anonimi, e semplici esecutori delle preferenze

degli operatori dell’economia. Sostanzialmente la teoria non si cura del reale

comportamento degli operatori economici, i quali tendono ad organizzarsi in

gruppi di interesse attraverso associazioni private; e non tiene in considerazione

75 N. Acocella (1999), Fondamenti di Politica Economica, Carocci. 76 In una economia divisa in due aree regionali gli obiettivi potrebbero essere la massimizzazione del reddito delle due aeree. Se i redditi delle due aree sono in una relazione di trade-off, le scelte del policy maker nascono dal confronto tra questa relazione inversa e le curve di indifferenza che derivano dai desideri della collettività.

41

che i policy makers possono avere propri interessi o perseguire quelli di uno

specifico gruppo.

La scelta di eliminare dall’analisi questi elementi non è ovviamente casuale.

Infatti la teoria neoclassica per natura non si presta all’inserimento di elementi

di carattere politico, i quali sono non sistematici.77 Inoltre ha contribuito

all’esclusione di questi elementi la crescente formalizzazione matematica della

teoria, avvenuta a partire dall’inizio del secolo scorso. La tendenza è quella di

considerare tali elementi non appartenenti alla scienza economica, ma ad altre

branche delle scienze sociali.78

26. In questo contesto si inserisce dalla fine degli anni settanta la New

Political Economy. Questo filone di ricerca si pone l’obiettivo di considerare

nell’analisi di teoria economica gli elementi di carattere politico esclusi dalla

teoria neoclassica tradizionale. I risultati ottenuti sono allo stato attuale parziali

e controversi, infatti questi autori si propongono di analizzare questi fattori

attraverso gli strumenti tradizionali dell’economia neoclassica, e in modo

particolare mediante i processi di ottimizzazione.

Come sopra accennato, questa letteratura si pone l’obiettivo di descrivere le

conseguenze economiche dei rapporti tra i soggetti economici e i policy

makers. In generale tali rapporti sono descritti come quello tra principale e

agente,79 con molti principali e più di un agente. I singoli cittadini costituiscono

i principali: agiscono non solo nel ruolo di operatori economici ma anche in

quello di soggetti politici. Dal punto di vista politico i cittadini delegano la

formulazione della politica economica ad un agente, il policy-maker. L’agente a

sua volta, sceglie una politica economica che massimizza i suoi obiettivi, dati i 77S. Sayer (2000), Issues in New Political Economy: An Overview, in Journal of Economic Surveys, Blackwell, Oxford. 78S. Sayer (2004), Monetary, Financial and Macroeconomic Adjustment Policies: An Overview, in Journal of Economic Surveys, Blackwell, Oxford. 79 Le relazioni di tipo principale-agente sono largamente utilizzante in teoria economica, i campi di applicazione di tali modelli spaziano dal mercato del lavoro alla finanza. Questo genere di ragionamento hanno acquistato grande influenza in teoria economica con l’affermarsi della Nuova Economia Keynesiana (si veda B. Greenwald e J. Stiglitz (1987), Keynesian, New Keynesian, and New Classical Economics, in Oxford Economic Papers).

42

relativi vincoli sulle risorse. Il rapporto principale-agente presuppone che il

secondo, una volta ricevuta la delega, agisca autonomamente; ma anche

supponendo che gli obiettivi dell’agente coincidano con quelli della collettività

che rappresenta, è possibile che si generino vincoli alla sua azione politica,

diversi da quelli relativi alle risorse. Questo genere di vincoli vengono chiamati

vincoli di credibilità.80 Ossia esistono delle scelte operate dai policy makers che

non sono credibili agli occhi dei soggetti economici, a causa dell’incoerenza

temporale di tali scelte.

27. Si spiega ora il concetto di vincolo di credibilità mediante l’ausilio di un

esempio. 81

Il sistema di delega delle decisioni di politica economica, sopra accennato,

accanto alla constatazione della differenza temporale in cui vengono effettuate

le scelte dei privati e quelle del governo di rappresentanza fa sorgere l’esigenza

di un’analisi dell’interazione tra i comportamenti dei privati e il comportamento

delle autorità governative. In modo particolare un governo quando ottiene la

delega (diventa l’agente) può mettere in atto la politica che ritiene più adatta, al

fine di massimizzare la sua funzione obiettivo fissata a priori. Per fare ciò deve,

però, tenere conto della reazione dei privati.

Si supponga che l’orizzonte temporale sia costituito da due periodi e in ogni

periodo l’autorità pubblica possa scegliere l’azione che massimizza la funzione

di utilità collettiva. Inoltre si supponga che la funzione di utilità sia costituta da

un solo argomento ossia il livello del reddito, e che si voglia conseguire la

crescita di esso attraverso una politica di innovazioni. Al fine di stimolare il

progresso tecnico, l’autorità pubblica può promettere nel primo periodo che gli

autori di invenzioni avranno il diritto di sfruttarle in via esclusiva (creazione di

80 Persson e Tabellini (1996). 81 F. Kydland e E. Prescott (1977), Rules rather than Discretion: The inconsistency of Optimal plans, in Journal of Political Economy, 85, pp 473-490.

43

brevetti). Una volte che le invenzioni sono state realizzate (per ipotesi nel

primo periodo), la massimizzazione dell’utilità richiederebbe che ognuno possa

liberamente utilizzarle, date le caratteristiche non ottimali del monopolio. Una

protezione delle invenzioni è quindi temporalmente incoerente, ossia, pur

essendo ottimale nel primo periodo perde questo carattere nel secondo, quando

gli operatori privati hanno già effettuato le proprie scelte. La possibilità di

cambiare le scelte da parte delle autorità pubbliche nel secondo periodo (ossia

di operare delle scelte discrezionali) garantirebbe alla collettività risultati

migliori. Tuttavia questo ragionamento presuppone una sorta di miopia degli

operatori privati, i quali sarebbero stimolati a svolgere attività di ricerca e

sviluppo per conseguire innovazioni, confidando nella protezione con brevetti

del primo periodo, senza dubitare della conferma di tale politica nel secondo

periodo. Invece se gli operatori privati hanno aspettative razionali (forward

looking), la discrezionalità dell’azione pubblica non assicurerebbe l’ottimalità,

perché gli operatori privati, sapendo che nel secondo periodo le scelte

pubbliche possono rinnegare la protezione brevettuale, non si impegnano in

attività innovative. Un simile ragionamento porta ad affermare che una politica

economica come quella proposta nel primo periodo è temporalmente

incoerente, e quindi non credibile. La reazione degli operatori privati davanti

alle scelte discrezionali di politica economica attuate dai policy-maker pone un

vincolo alle scelte di questi ultimi.

Dal punto di vista formale Kydland e Prescott82 forniscono questa definizione:

un piano politico è temporalmente incoerente se il piano ottimale deciso al

tempo t per il tempo t+j è differente dal piano ottimale deciso per quest’ultimo

periodo al tempo t+j. Se una politica è temporalmente incoerente, il governo ha

un vantaggio a deviare da essa durante la sua realizzazione. L’incoerenza

temporale è la fonte di mancanza di credibilità, ed impone di conseguenza un

vincolo all’operato del governo. Infatti gli agenti privati, tenendo conto delle

82 Kydland e Prescott (1977).

44

loro aspettative, non possono ritenere credibile una decisione di politica

economica che lasci al policy-maker l’incentivo a deviare dalla decisione

iniziale (sorprese di politica economica).

28. All’interno di un sistema basato sulla delega politica, oltre a quelli di

credibilità, esiste un altro ordine di vincoli a cui i policy-maker vanno incontro

nelle loro scelte di politica economica. Questi vincoli nascono da una

differenza tra gli obiettivi della collettività e quelli dei policy makers. In

generale la causa di tale disaccordo deriva dall’eterogeneità tra i cittadini, che li

porta a valutare in maniera differente gli effetti di particolari politiche; il ruolo

del governo è quello di aggregare in qualche modo, nelle effettive decisioni

politiche, questi interessi discordanti.

A differenza dei vincoli di credibilità, di cui abbiamo dato una definizione

precisa, per questo altro ordine di vincoli non è possibile farlo, ma vanno

considerati caso per caso. Un esempio di istituzione politica che genera questo

genere di vincolo è la nomina dei governi attraverso elezioni democratiche.

Infatti l’alternanza tra maggioranze con obiettivi diversi può determinare il non

raggiungimento dell’utilità massima possibile per la collettività. Questa

instabilità politica83 influenza le scelte intertemporali.84

29. Per quanto riguarda le situazioni in cui è presente l’incentivo a

sorprendere o sono presenti i vicoli politici la New Political Economy propone

una analisi comparativa dell’utilità totale.85 Si confrontano i risultati che si

ottengono quando il governo opera con discrezionalità (ossia è libero di

83 Si veda T. Persson, G. Roland e G. Tabellini (1996), Separation of Powers and Accountability: Towards a Formal

Approach to Comparative Politics, IGIER Working Paper, 100. 84 Su questo punto si tornerà in modo approfondito più avanti, quando tratteremo del modello Persson-Tabellini (T. Persson G. Tabellini (1996)). 85 Si veda T. Persson e G. Tabellini (1997), Political Economics and Macroeconomics Policy, NEBR, Working Paper Series, 6329.

45

cambiare le proprie scelte nel tempo come nell’esempio proposto) e

un’ipotetica situazione in cui il governo è impegnato invece a seguire

determinate regole di politica economica, non modificabili. I risultati che si

ottengono in termini di utilità spingono a sostenere l’impegno del governo a

rispettare una determinata regola prestabilita, piuttosto che lasciare i policy-

makers liberi di agire discrezionalmente, ottimizzando l’utilità periodo per

periodo. Questo tipo di regole prendono il nome di commitment.86

Il policy maker si trova in una situazione di first best, quando, nell’operare le

sue scelte di politica economica, non sono presenti vincoli oltre a quelli sulle

risorse. Solitamente, però, i vincoli di credibilità o i vincoli politici sono

operanti. In questo caso i policy makers si trovano in una condizione di second

best.

Desirable policies may suffer from lack of credibility when policy decisions are taken sequentially over time (under “discretion”) and the government lacks a non-distorting policy instrument, so that the socially optimal policy (the optimal policy in the absence of the incentive constrain) yields a second best outcome.87

Quando i policy makers si trovano in questa situazione hanno l’incentivo ad

effettuare politiche discrezionali, al fine di massimizzare la propria funzione di

utilità collettiva. Nella New Political Economy si afferma che in termini di

utilità totale, in queste condizioni, lasciando la discrezionalità ai policy makers

invece di imporre un commitment conduce a risultati inferiori.

30. Sono così descritte le linee generali dell’approccio analitico della New

Political Economy, uno dei filoni più attivi negli ultimi anni.

86 Persson e Tabellini (1996), pag. 157. 87 Persson e Tabellini (1997), pag. 2.

46

Gli argomenti trattati in questo nuovo approccio spaziano su diversi argomenti

dalla politica fiscale,88 in tutti i suoi aspetti,89alla politica monetaria.90

Questo approccio è adottato anche per l’analisi della spesa pubblica finanziata

in deficit, e i suoi effetti in termini di utilità per la collettività. L’argomento è

stato oggetto di molti contributi;91 qui ci occuperemo di ricostruire e proporre

l’analisi critica di uno specifico modello, perché esso è rappresentativo del

modo di analisi di questo contesto teorico, e incorpora il tema del debito

pubblico, attraverso una trattazione dell’argomento in modo isolato da altri

argomenti.92 Come si è accennato, questa letteratura tenta di inserire elementi di

carattere politico-istituzionale in quella che è la teoria tradizionale. Si vedrà se

tali elementi portino, oppure no, a considerazioni differenti, rispetto alla

letteratura analizzata nel capitolo precedente, circa il ricorso al debito pubblico.

31. Si è notato come la considerazione dell’interazione tra policy makers e

soggetti economici privati determina l’esistenza di vincoli particolari nelle

scelte di politica economica, rispetto ad una situazione in cui i policy makers

sono dei semplici esecutori della volontà privata. Questa differenza è rilevante

con riguardo all’analisi del debito pubblico. Nell’impostazione tradizionale il

crowding out, come si è visto, implica che il debito pubblico determini una

perdita per la collettività, dovuta alla minor accumulazione di capitale, e quindi

a minori consumi futuri; e il debito pubblico non risponde, perciò, ad alcun

requisito di razionalità. La New Political Economy conserva questo giudizio 88 Per una rassegna si veda: T. Persson e G. Tabellini (2000), Political Economics, MIT Press; A. Drazen (2000), Political Economy in Macroeconomics, Princeton, NJ: Princeton University Press. 89 Per esempio per quanto riguarda la questione dell’imposta sui redditi da capitale e da lavoro si veda: L. Kotlikoff, T. Persson e L. Svensson (1988), Social Contracts as Assets: A possible Solution to Time-Consistency Problem, American Economic Review, 78. 90 Si veda per esempio R. Barro e D. Gordon (1983), Rules, Discretion and Reputation in a Model of Monetary Policy, Journal of Monetary Economics, 12. 91 Per una rassegna si veda A. Alesina e R. Perotti (1994), The Political Economy of Budget Deficits, NBER, Working Paper Series, No. 4637. 92 Altri modelli si occupano della struttura del debito pubblico sia in termini di scadenza (C. Rogers (1987), A Simple

Rule for Managing the Maturity Structure of Government Debt, Mimeo, Georgetown University.) sia in termini di indicizzazione (M. Persson, T. Persson e L. Svensson (1987), Time Consistency of Fiscal and Monetary Policy, Econometrica, 55.) al fine di analizzare i vincoli di credibilità e politici che ne scaturiscono.

47

negativo, d’altra parte questo filone si colloca a sua volta entro l’impostazione

teorica neoclassica;93 l’elemento innovativo di questo approccio è, però,

costituito dalla conclusione che il ricorso al debito pubblico, sia comunque il

risultato di un comportamento razionale sia degli operatori privati e che dei

policy makers.

32. Il modello che si analizzerà deriva del modello Persson-Svensson del

1989,94 rielaborato successivamente da Persson e Tabellini95 nel 1996. La

versione del modello qui proposta utilizza gli stessi concetti di first e second

best considerati in precedenza.

Gli autori, per iniziare, danno una spiegazione dell’esistenza del debito

pubblico come scelta razionale degli operatori economici all’interno di un

modello neoclassico. Per fare ciò si rifanno alla letteratura del tax

smoothing,96,97 la quale afferma che il ricorso a bilanci pubblici in deficit deriva

dalla scelta di dilazionare nel tempo la pressione fiscale, perché a fronte di una

spesa pubblica variabile nel tempo, il pareggio di bilancio non sarebbe la

politica fiscale ottima. Ciò dipende, come si vedrà meglio tra poco, dall’effetto

distorsivo che la tassazione del reddito da lavoro avrebbe sull’offerta di lavoro.

Il punto focale e più innovativo della trattazione sta nella relazione tra

l’alternanza delle maggioranze politiche e la dinamica del debito pubblico.

93 T. Persson e G. Tabellini (1997), Political Economics and Macroeconomic Policy, NBER Working Paper Series. 94 T. Persson e L. Svensson (1989) Why a Stubborn Conservative Would Run a Deficit: Policy with Time Inconsistent

Preferences, Quarterly Journal of Economics, 104. 95 Persson e Tabellini (1996). 96 Si veda: R. Barro, (1979), On the Determination of the Public Debt, Journal of Political Economy, 87; R. Lucas N. Stokey (1983), Optimal Fiscal and Monetary Policy in Economy without Capital, Journal of Monetary Economics, 12. Per una trattazione più sintetica: A. Alesina e R. Perotti (1994), The Political Economy of Budget Deficit, NBER Working Paper Series, No. 4637, February. 97 La letteratura circa il tax smoothing è un contributo di cui la New Political Economy si avvale, ma che è indipendente da questo filone.

48

33. Il concetto del tax smoothing, e la politica economica che ne scaturisce,

viene utilizzata dagli autori come termine di paragone (la politica che utilizza il

tax smoothing sarebbe quella che garantirebbe la massima utilità possibile) per

valutare le politiche del debito derivanti dal considerare l’alternanza delle

maggioranze.

Il tax smoothing afferma che l’esistenza di una spesa pubblica non stabile (nel

modello che si analizzerà la spesa sarà effettuata completamente in uno dei due

periodi dell’economia) determina l’esistenza di debito pubblico al fine di

distribuire nel tempo le distorsioni derivanti dal prelievo fiscale per finanziare

la spesa stessa.

In particolare il governo andrà in deficit quando la spesa è elevata, e in surplus

quando la spesa è bassa.

Le ipotesi generalmente utilizzate sono: un economia senza capitale, nella

quale un agente rappresentativo lavora, consuma e risparmia; il settore pubblico

è rappresentato da un benevolent social planner,98 che massimizza l’utilità

dell’agente rappresentativo. Il settore pubblico ha l’esigenza di finanziare una

spesa pubblica, che non ha utilità per settore privato.99 Inoltre si suppone che la

tassazione del reddito riduce l’offerta di lavoro, e la concavità della funzione di

utilità. Il risultato deriva dal processo di massimizzazione dell’utilità privata.

In termini di benessere una politica di bilancio in pareggio è inferiore rispetto

una politica che prevede l’accumulazione di debito pubblico, che va a

distribuire in modo uniforme nel tempo le distorsioni fiscali.

These results directly follow from the concavity of the individual utility function. Suppose that government spending has to be high today and low tomorrow. A balanced budget policy implies high tax rates today and low tax rates tomorrow. The tax smoothing policy, instead, prescribes constant tax rates, a deficit today and a surplus tomorrow which (in present value terms) compensates for today’s deficit. The second policy dominates because the additional tax distortions today

98 L’operatore pubblico è lo stesso della teoria neoclassica, il quale esegue la volontà degli agenti privati. Non sono presenti in questa teoria i problemi di rappresentanza, descritti per la New Political Economy. 99 Questa ipotesi poco realistica verrà rimossa dall’analisi della New Political Economy.

49

more than compensate (in utility terms) for the welfare gains of the lower tax rates of tomorrow, due to decreasing marginal utilities.100

Infatti la tassazione del reddito da lavoro indurrebbe gli individui ad offrire una

quantità di lavoro inferiore, e quindi a rinunciare al consumo a favore del

tempo libero.

Ora tenendo in considerazione che l’utilità marginale è decrescente, si

ottengono risultati migliori in termini di utilità totale se l’offerta di lavoro, e

quindi il consumo, subiscano minori riduzioni sopra più periodi, piuttosto che

una riduzione maggiore concentrata in un solo periodo.

In sostanza nella teoria del tax smoothing si rispetta la regola di Ramsey,101

che definisce la tassazione ottimale come quella tassazione in cui la distorsione

causata dall’ultimo dollaro di entrate deve essere uguale per tutte le basi

imponibili. Come già accennato, il concetto di tax smoothing non è originale

della New Political Economy ma è stato già proposto da Barro102 e da Lucas e

Stokey.103 Nelle loro analisi, però, non è presente nella funzione di utilità dei

privati la spesa pubblica, ed inoltre non ci si pone il problema delle

conseguenze di un cambiamento della maggioranza politica, in quanto in questi

modelli il governo è un vero benevolent social planner, che si limita a

massimizzare l’utilità dell’agente rappresentativo.

34. Le ipotesi del modello Persson-Tabellini sono:

- economia aperta (in quanto, come diremo, il canale estero è l’unico

disponibile per la collocazione del debito), di piccole dimensioni con un

orizzonte temporale di due periodi;

100A. Alesina e R. Perotti (1994), The Political Economy of Budget Deficit, NBER Working Paper Series, No. 4637, February, pag. 6. 101 F.P. Ramsey (1927), A Contribution to the Theory of Taxation, in The Economic Journal, Vol. 37, No. 145. 102 R. Barro, (1979), On the Determination of the Public Debt, Journal of Political Economy, 87. 103 R. Lucas e N. Stokey (1983), Optimal Fiscal and Monetary Policy in Economy without Capital, Journal of Monetary Economics, 12.

50

- mercati finanziari perfetti e tasso d’interesse reale mondiale pari a zero;

- economia composta da un continuum di individui, con preferenze identiche

a meno del peso attribuito all’utilità della spesa pubblica;

- il lavoro come unico fattore produttivo;

- tecnologia lineare, che trasforma 1 unità di lavoro in 1 unità di beni di

consumo;

- unico strumento di imposizione fiscale l’imposta sul reddito da lavoro;

- spesa pubblica effettuata solo nel secondo periodo;

- condizione che nel secondo periodo il debito pubblico deve essere uguale a

zero;

- i-esimo individuo caratterizzato da una funzione di utilità di tipo additivo

così strutturata:

F(c1, c2, l1, l2) + αi H(g) = U(c1) + c2 – V(l1) – V(l2) + α

i H(g) [1];

dove c1 è il consumo nel primo periodo, c2104

il consumo nel secondo periodo,

l1 è la quantità di lavoro prestata nel primo periodo, l2 la quantità di lavoro

prestata nel secondo periodo, g l’ammontare della spesa pubblica, H la

funzione dell’utilità della spesa pubblica, e αi è il coefficiente, diverso per ogni

individuo, che rappresenta il peso assegnato all’utilità della spesa pubblica.

Quindi l’utilità totale è la somma algebrica dell’utilità derivante dal consumo

privato e dalla spesa pubblica. A differenza dei modelli tradizionali di tax

smoothing la spesa pubblica entra nella funzione d’utilità degli individui.

Quindi l’utilità dell’i-esimo dipende dal consumo nei due periodi, dalla

quantità di lavoro prestato l1 e l2, e dalla spesa pubblica g. Tutti gli individui

sono simili per quanto riguarda le preferenze circa il consumo privato e

l’offerta di lavoro, e sono invece diversi per il peso attribuito all’utilità della

104 Il consumo del secondo periodo (c2) entra nella funzione di utilità in maniera lineare, affinché non ci siano vincoli di credibilità oltre ai vincoli politici, che si vogliono considerare in questo modello. Si veda: Persson e Tabellini (1996), pag. 204-210.

51

spesa pubblica: individui differenti presentano quindi valori diversi di αi. Gli

individui votano per il valore da attribuire al coefficiente αi, il voto può

determinare valori differenti da attribuire a tale coefficiente nei due periodi,

generando maggioranze politiche differenti. Il susseguirsi nel tempo di

maggioranze politiche è ciò che contraddistingue il modello, che altrimenti

potrebbe essere ricondotto facilmente ai modelli di tax smoothing. Ciò è ben

chiaro agli stessi autori, i quali partono da un contesto in cui la maggioranza

non varia per poi proporre un confronto in termini di benessere con il caso in

cui la maggioranza è invece soggetta a cambiare.

35. Indicando con τ l’aliquota fiscale sul reddito da lavoro, le condizioni di

primo ordine per la massimizzazione dell’utilità del consumatore sono:

Uc(c1) = 1 [2]

Vl(lt) = 1 – τt,105

t=1,2 [3]

Il governo eletto per i due periodi dell’economia deve scegliere la politica

economica, ossia l’aliquota di tassazione del reddito da lavoro, il livello della

spesa e, quindi, il deficit pubblico.

Indicando con b il deficit pubblico, e tenendo in considerazione che nel primo

periodo la spesa pubblica è pari a zero per ipotesi, i vincoli di bilancio dei due

periodi del governo, sono:

τ1l1 + b = 0, τ2 l2 = b + g [4]

105 Le condizioni di primo ordine sono ottenute con la massimizzazione della funzione di utilità sopra descritta, dato il vincolo di bilancio dei privati. Tale vincolo è : l1(1-τ1)+l2(1- τ2)=c1 + c2, in cui è ipotizzato il salrio uguale a 1.

52

Questi vincoli di bilancio indicano che nel primo periodo, considerando il

modello in esame, le imposte sono uguali all’avanzo pubblico; mentre nel

secondo periodo la spesa è uguale all’avanzo del primo periodo più le imposte

del secondo. La politica economica viene scelta dalla maggioranza vincente

all’inizio di ogni periodo, la maggioranza vincente è vincolata a onorare gli

obblighi ereditati dal passato, ossia nell’ottica del modello a due periodi la

maggioranza vincente nel secondo è tenuta a estinguere il debito accumulato

nel periodo precedente,106 ma per il resto è libera di ottimizzare. In particolare,

nel modello considerato, la maggioranza vincente nel periodo 1 sceglie

l’aliquota di tassazione del lavoro per il primo periodo (τ1) e il deficit (avanzo)

pubblico (b), mentre quella vincente nel periodo 2 sceglie τ2 e il livello della

spesa pubblica (g).

Gli elettori sono razionali e votano per la politica economica che massimizza

la loro utilità. Considerando la funzione [1] essa, per costruzione, presenta un

solo punto di massimo, ed esiste quindi una sola politica economica, attuabile

per gli elettori, migliore di tutte le altre: la politica preferita dall’elettore

mediano.107 Indicando con αtm il peso che l’elettore mediano assegna all’utilità

del consumo pubblico, e supponendo che questo valore sia già noto nel primo

periodo,108 allora la politica economica di equilibrio sarà quella che massimizza

la funzione:

F(c1, c2, l1, l2) + αtm H(g), [5]

106 Anche in questo modello non è concepibile l’esistenza di debito pubblico alla fine dell’economia. 107 Il teorema dell’elettore mediano afferma che in una comunità in cui le decisioni sono prese a maggioranza, il risultato della consultazione elettorale tenderà a collocarsi intorno alla posizione mediana nelle preferenze dei diversi individui. Il teorema costituisce uno dei più noti risultati della teoria delle votazioni che indaga le procedure di formazione delle scelte collettive. Esso presuppone che i votanti siano in numero dispari e che le preferenze abbiano un unico massimo (siano, cioè, single-peaked); date queste ipotesi, è possibile dimostrare che il risultato finale della votazione corrisponderà alle preferenze dell'elettore che si colloca in una posizione mediana, se gli elettori vengono ordinati per preferenza. Quest'ultimo elettore, infatti, è quello che, trovandosi sulla mediana della distribuzione di frequenza delle preferenze della collettività, esprime una posizione con cui concorda la maggioranza degli elettori. 108 Sostanzialmente si conosce a priori quale sarà l’elettore mediano nel primo e nel secondo periodo, quindi si conosce in partenza il peso che viene assegnato alla spesa pubblica, attraverso il coefficiente α in termini di funzione di utilità nei due periodi. Si veda per esempio A. Fossati (2000), Economia Pubblica, FrancoAngeli, pag. 88-92.

53

sotto i vincoli di bilancio del settore pubblico.

36. Ora, se α1m = α2

m, e ciò se la maggioranza non cambia nel tempo, le

preferenze circa la spesa pubblica sono uguali nei due periodi. Il deficit

(avanzo) pubblico che massimizza l’utilità, sarà quello che minimizza le

distorsioni fiscali determinate dall’imposta sul reddito da lavoro. Tenendo

conto che le funzioni di offerta di lavoro sono assunte identiche nei due

periodi, esse presentano la medesima elasticità rispetto a variazioni

dell’aliquota d’imposta, e quindi presentano distorsioni equivalenti per la

medesima aliquota sul reddito da lavoro. In altri termini, l’offerta di lavoro nei

due periodi, e quindi la produzione e il consumo, diminuiscono in misura

equivalente a fronte della stessa aliquota fiscale, e la tassazione ottimale sarà

perciò quella che distribuisce in modo identico nei due periodi il prelievo

necessario a finanziare la spesa, ossia τ1 = τ2.109,110 Sostanzialmente ci troviamo

nello stesso caso dei modelli del tax smoothing.

In questo modo abbiamo raggiunto il primo risultato rilevante: l’esistenza di

spesa pubblica solo in un periodo determina l’accumulazione di un avanzo

pubblico, perché la massimizzazione della funzione dell’utilità privata richiede

la distribuzione delle tasse nel tempo, al fine di minimizzare le distorsioni

fiscali. Infatti il risultato in termini di utilità sarebbe inferiore se la tassazione

fosse applicata solo nel periodo in cui avviene la spesa.

Quanto spiegato ora, nel modello in esame, discende dal processo di

ottimizzazione attuato dalle maggioranze che si susseguono. In particolare, se

si uniscono le equazioni dalla [1] alla [4] si ottiene la funzione di utilità

indiretta del consumatore, nella quale le variabili indipendenti sono la spesa

109 Tenendo in considerazione che l’utilità totale derivante dal consumo è determinata dalla somma dell’utilità dei due periodi, e considerando che l’utilità marginale è decrescente nei due periodi presi singolarmente, si ottiene un’utilità maggiore se la riduzione del consumo è diluita nei due periodo, piuttosto che concentrata in uno solo. 110 Se τ1 = τ2, tenendo presente i vincoli di bilancio pubblico della [4], l’utilità sarà massimizzata per τ1 = τ2 = - g/2.

54

pubblica e il debito: J(b,g).111 Questa funzione presenta un massimo quando il

prelievo fiscale è uguale nei due periodi: τ1 = τ2, punto in cui sono minimizzate

le distorsioni fiscali. Con b maggiore di - g/2, le imposte raccolte nel primo

periodo sono minori, con la conseguenza che un debito più elevato riduce J,

vale l’opposto per b < - g/2.

37. Ora passiamo al caso in cui α1m ≠ α2

m. Il cambiamento della maggioranza

tra il primo e il secondo periodo, per quanto riguarda la scelta della spesa

pubblica da effettuare, implica un valore differente nei due periodi del

coefficiente α, perché esso è rappresentativo delle preferenze degli individui

circa la spesa stessa.

Se la maggioranza futura fosse più liberale della maggioranza attuale, ossia se

preferisse una spesa pubblica più elevata, nel primo periodo avremmo un

avanzo inferiore, rispetto a quello che avremmo nel caso in cui la maggioranza

rimanesse invariata. Se la maggioranza attuale fosse più liberale di quella

successiva, sarebbe vero il contrario.

Quanto detto è così spiegato: il debito pubblico (o avanzo) influenza le

decisioni future di spesa. La maggioranza del periodo 1 nel prendere le proprie

decisioni affronta un problema di trade-off tra una distribuzione subottimale

delle distorsioni fiscali nel tempo e un livello più alto della spesa pubblica.

Se la maggioranza del periodo 1 reputa troppo liberale la maggioranza del periodo 2, allora essa è pronta ad accettare un debito più ampio di quello che sarebbe necessario per minimizzare le distorsioni fiscali. Questa politica economica, anche se economicamente inefficiente, innalza i costi ex post dei fondi pubblici per la maggioranza liberale. In questo modo, il debito pubblico viene utilizzato in maniera strategica per costringere la maggioranza successiva ad accettare un taglio delle spese.112

111 Il consumo e l’offerta di lavoro nei due periodi sono funzioni delle aliquote di imposta. Le aliquote sono a loro volta funzione di b e g. 112 Persson e Tabellini (1996), pag. 227.

55

In generale, tenendo in considerazione che il debito (avanzo) sarà comunque

estinto, la maggioranza del primo periodo, se considera quella del secondo

troppo liberale, accumulerà una avanzo scarso. In questo modo influenzerà le

scelte della maggioranza successiva la quale sarà costretta ad attuare le proprie

scelte di spesa pubblica sulla base del minor avanzo ereditato dal passato.

Nel secondo periodo, la maggioranza vincente fissa il valore delle imposte e

della spesa pubblica in modo da massimizzare la [5], la condizione di ottimo

dell’elettore mediano può essere così scritta:

Jg(b,g) + α2m Hg(g) = 0

113 [6]

Jg(.) è interpretabile come il costo marginale della spesa pubblica, il quale in

equilibrio deve essere uguale all’utilità marginale della spesa pubblica per

l’elettore mediano nel periodo 2. L’equazione [6] definisce la spesa del

governo di equilibrio come funzione di g e α2m : g*

=G(b, α2m). Tale funzione

presenta derivata parziale rispetto a b minore di zero e maggiore di zero

rispetto ad α:114 quindi ereditando più debito (minore avanzo) dal passato la

maggioranza è costretta a tagliare la spesa e una maggioranza più liberale, ossia

che assegna un valore più elevato ad α, spende di più.

Passiamo a spiegare in che modo un elettore mediano con pesi α1m ≠ α2

m

scelga il debito pubblico nel periodo 1. L’elettore mediano sa che la spesa

pubblica verrà fissata in base alla funzione G(b, α2m). Tale funzione entra

quindi come vincolo nel problema di ottimizzazione dell’elettore mediano del

primo periodo. Quindi la maggioranza 1 sceglierà b in modo tale da

massimizzare la seguente funzione:

J(b, G(b, α2m)) + α1

m H(G(b α2

m)) [7]

113 Anche in questo caso, come nel precedente si utilizza la funzione d’utilità indiretta. 114 Intuitivamente la spesa pubblica che sceglierà la seconda maggioranza dipende positivamente dal valore assegnato al parametro α, e negativamente dal debito (b)lasciato dalla maggioranza precedente.

56

La condizione di ottimo che da essa scaturisce è la seguente.

Jb + (α1m - α2

m) HgGb = 0 [8]

Ora tenendo in considerazione che la derivata di G rispetto a b è minore di 0,

mentre la derivata di H rispetto g è maggiore di 0, il segno di Jb deve essere

necessariamente uguale al segno di (α1m - α2

m). Quindi si ottiene che:

b ≥ - g/2 quando α1m ≥ α2

m

b < - g/2 quando α1m < α2

m

Quanto detto prima in via intuitiva lo ritroviamo in queste ultime due

equazioni, che chiariscono come il susseguirsi delle maggioranze determini un

debito (avanzo) di equilibrio, non corrispondente alla minimizzazione delle

distorsioni fiscali. Questo costituisce il secondo e più originale risultato di

questo modello, che permette di spiegare la possibilità di un eccedenza di

debito pubblico, rispetto al caso di tax smoothing. Quindi nel modello il debito

pubblico, ha pur sempre la funzione di rendere uniformi le distorsioni fiscali,

ma la presenza di maggioranze diverse nei due periodo causa un

allontanamento da questa posizione di second-best.

Tra poco approfondiremo le valutazioni di carattere critico di questo modello,

ma in via preliminare è interessante notare che in esso esiste un solo livello del

debito ottimale, e una quantità di debito più elevata causa una perdita in termini

di benessere sociale.

57

38. L’esistenza dei processi politici, in particolare il susseguirsi di

maggioranze con preferenze diverse, è l’elemento che determina, all’interno

del modello considerato, le dinamiche del saldo del bilancio pubblico.

L’elemento politico ne costituisce la parte più originale e rilevante, in quanto si

va ad inserire all’interno di una struttura analitica piuttosto consolidata, che

riflette la tradizione neoclassica. L’esistenza di processi politici è fondamentale

in questo approccio, per riuscire a dare una spiegazione del ricorso al debito

pubblico, in misura diversa da quanto ci si aspetterebbe, ai fini della

massimizzazione dell’utilità, in un’economia formata da individui razionali e

forward-looking.

Il modello in esame, prescindendo dai limiti di carattere descrittivo che può

presentare avendo esso una struttura così stilizzata, è basato su un’economia

con orizzonte temporale pari a due anni, in cui la spesa pubblica avviene solo

nel secondo. Tale spesa viene necessariamente finanziata attraverso le imposte

nell’arco dei due anni, visto che è esclusa la possibilità dell’esistenza di debito

pubblico alla fine dell’economia. In questo semplice modello, non esistendo il

capitale, l’unica forma di reddito tassabile è quello da lavoro. La tassazione del

reddito da lavoro è uno strumento di imposta distorsivo, in quanto va ad

influenzare negativamente l’offerta di lavoro degli agenti economici, riducendo

in tal modo l’utilità totale della collettività. Il debito (l’avanzo) pubblico è lo

strumento che viene utilizzato per rendere minime le distorsioni provocate

dalla tassazione. In un’economia come quella descritta nel modello, la spesa

pubblica, presente come argomento nella funzione di utilità degli individui,

viene effettuata in un solo periodo; perciò al fine di massimizzare l’utilità

sarebbe necessario il ricorso ad un determinato ammontare di debito (avanzo)

in accordo con il concetto del tax Smoothing.

Nel modello in esame, però, l’ammontare di debito (avanzo) non corrisponde

a quello del tax smoothing; in particolare se tra i due periodi cambia la

maggioranza, quella vincente nel primo periodo, ma consapevole di essere

58

sconfitta nel secondo, sceglierà una politica di tassazione del reddito e di

accumulazione di debito (avanzo) tale da influenzare la maggioranza seguente

sui livelli di spesa pubblica.

Gli effetti del debito pubblico sono essenzialmente legati alla distribuzione

nel tempo delle distorsioni provocate dalla presenza di strumenti di tassazione

distorsivi e alla presenza del susseguirsi delle maggioranze politiche con

obiettivi di spesa pubblica differenti.

Dopo aver chiarito brevemente il ruolo del debito pubblico in questo contesto

poniamo l’attenzione su due elementi che caratterizzano il modello di Persson e

Tabellini. Come ogni modello esso tenta di rappresentare una realtà in maniera

astratta, e trascura elementi considerati secondari, o comunque analizzabili in

un momento successivo. In questa ottica, quando si propone un modello in cui

non si vogliono analizzare questioni legate esplicitamente al settore estero,

solitamente si utilizzano modelli con economia chiusa. Gli autori però fanno

una scelta differente, ma indispensabile per il modello stesso. Infatti

considerando il tipo di economia descritta nel modello, con assenza di risparmi

ed accumulazione di capitale, il canale estero diventa l’unico possibile per il

collocamento del debito pubblico. Ciò pone, a mio avviso, almeno due

questioni. La prima riguarda l’asimmetria esistente tra economia interna ed

estera. In particolare è poco ragionevole pensare che esista un’economia

estremamente semplice, in cui non esiste alcuna forma di risparmio e quindi

neanche di collocamento del debito, in contrapposizione con un settore estero

pronto ad assorbire ogni richiesta di collocamento. Inoltre tale ragionamento

viene fatto senza fare alcun riferimento al sistema estero, che viene considerato

alla stregua di una scatola chiusa, pronta ad assecondare ogni esigenza

dell’economia considerata. D’altra parte l’esistenza di un settore estero così

strutturato è indispensabile al funzionamento del modello stesso, il quale

59

altrimenti non potrebbe incorporare l’esistenza di debito pubblico, in quanto

non esisterebbe modo per il collocamento.115

Un altro aspetto ancor più interessante da considerare è la modalità della

spesa pubblica. In questo modello essa è estremamente variabile nel tempo, in

quanto il modello propone il caso limite di spesa completamente effettuata in

uno dei due periodi. La forte variabilità della spesa è indispensabile per la

giustificazione dell’esistenza stessa di debito pubblico: infatti, coerentemente

con il concetto di tax smoothing, se la spesa pubblica fosse equamente

distribuita tra i due periodi non sarebbe necessario ricorrere al debito pubblico

per minimizzare le distorsioni fiscali. Ma la forte variabilità della spesa sembra

essere incoerente con i sistemi economico-istituzionali, che si sono sviluppati

nell’economia reale. Quindi il modello sembra poter dare una spiegazione del

ricorso al debito solo nel caso particolare di spesa estremamente volatile, non

potendo invece spiegare il caso generale di spesa stabile

Un punto a mio avviso molto rilevante, che determina i risultati ottenuti dagli

autori è l’assenza di qualsiasi riferimento alla domanda all’interno del modello.

Questa mancanza è l’elemento che a mio avviso determina maggiormente i

risultati ottenuti, collocando il modello in maniera chiara ed inequivocabile

all’interno della tradizione neoclassica. Infatti la domanda, nell’economia

neoclassica, non costituisce un limite al raggiungimento di determinati livelli di

reddito. In questo contesto teorico il reddito è comunque al livello di pieno

impiego delle risorse produttive, quindi non vengono presi in considerazione, o

meglio si considerano inesistenti vincoli dal lato della domanda.

L’inesistenza della domanda nel modello va di pari passo con la presunta

tendenza al pieno impiego delle risorse. Essa nel modello non è esplicitamente

ipotizzata, ma considerando che in esso non esiste il capitale e i privati possono

trasformare automaticamente il lavoro in beni di consumo, la piena

115 Ragionamento analogo vale anche nel caso in cui l’economia abbia un avanzo. Infatti non esistono nel modello beni immagazzinabili quindi gli avanzi vanno necessariamente impegnati all’estero, se se ne vuole usufruire in un periodo successivo.

60

occupazione risulta in modo implicito. Infatti gli agenti possono scegliere

quanto lavorare, e il loro lavoro si trasforma automaticamente in beni di

consumo che generano utilità.

Inoltre l’accumulazione di debito, oltre il livello che assicura la

minimizzazione delle distorsioni fiscali, se pur derivando da un comportamento

razionale, determina comunque una diminuzione dell’utilità privata. E il debito

pubblico sarebbe del tutto dannoso in termini di utilità se il governo avesse a

disposizione strumenti di imposta non distorsivi.

In conclusione è possibile dire che l’analisi di Persson e Tabellini,

collocandosi entro il tradizionale approccio neoclassico, raggiunge conclusioni

simili a quelle cui generalmente arrivano le analisi svolte entro tale

impostazione. Però l’inserimento di elementi politici ha determinato,

comunque, un risultato importante, ossia la possibilità di dare una spiegazione

razionale del ricorso al debito pubblico.

61

IV

Il Debito Pubblico in una Prospettiva Teorica Alternativa

39. In questo capitolo si cercherà di mettere a fuoco il nostro punto di vista

circa gli effetti della spesa pubblica in deficit. Il contesto teorico di riferimento,

che qui utilizzeremo, per valutare gli effetti della spesa pubblico, finanziata

attraverso l’emissione di titoli del debito pubblico sul livello del reddito, è

differente da quello tradizionale finora considerato. Vedremo che tale

differenza sarà fondamentale nel giudizio finale circa gli effetti positivi o

negativi che la spesa pubblica può avere.

È stato evidenziato, che nel contesto neoclassico tradizionale, quindi con

l’ipotesi di tendenza al pieno impiego delle risorse produttive, la spesa pubblica

in deficit influenza in maniera negativa l’accumulazione di capitale

(spiazzamento). Inoltre si è mostrato che anche in un contesto, solo in parte

differente, ossia nella New Political Economy, il debito pubblico rappresenta

comunque un elemento negativo per l’economia. In sostanza la teoria

neoclassica in tutte le sue versioni non ammette la possibilità di ottenere livelli

di reddito e di occupazione più elevati attraverso la spesa pubblica in deficit.

Al di fuori della struttura teorica neoclassica è possibile invece giungere a

risultati differenti. In particolare si argomenterà che la spesa pubblica

finanziate in deficit, essendo una componente della domanda aggregata può

avere effetti sul reddito, qualora si ammetta che la domanda stessa sia la

determinate del reddito.

62

40. Dopo il contributo fondamentale di Keynes, si sono sviluppate posizioni

che vedono nella spesa pubblica, finanziata in deficit, un elemento regolatore

per l’economia, in particolare si attribuisce ad essa la funzione di mantenere

l’occupazione a livelli più elevati di quanto altrimenti si avrebbe.116 In

sostanza, allorché si ammetta la possibilità dell’esistenza persistente di

disoccupazione, la spesa pubblica e il deficit pubblico diventano strumenti di

politica economica utili per il raggiungimento di obiettivi di reddito ed

occupazione.

Come è noto, negli anni quaranta del secolo scorso, con la così detta

Functional Finance, si sviluppa una corrente teorica che sostiene l’utilizzo

della spesa pubblica finanziata in deficit, per raggiungere l’obiettivo

considerato prevalente, ossia il pieno impiego delle risorse produttive, che le

forze spontanee di mercato non sarebbero in grado i garantire.

In essence the program calls for the application of a carefully but boldly conceived fiscal policy (use of expenditure, debt, and taxation) to obtain, year after year, substantially full utilization of our material and human resources. This means in effect the maintenance of full employment (during the hours per week deemed desirable) for all persons able and willing to work – less of course what is usually described as frictional unemployment caused by shifts from one job to another.117

Per gli autori la spesa pubblica ha un effetto positivo, perché contribuisce alla

formazione della domanda aggregata, che in generale non è adeguata alla piena

occupazione delle risorse.

The first financial responsibility of the government (since nobody else can undertake that responsibility) is to keep the total rate of spending in the country on goods and services neither greater nor less than that rate which at the current prices would buy all the goods that it is possible to produce. If total spending is allowed to go above this there will be inflation, and if it is allowed to go below

116 Qui mi riferisco per esempio ad A.Lerner (1943), Functional Finance and the Federal Debt, Social Research, vol. 10; A. Hansen e G.Greer (1942), The Federal Debt and the Future: An Unflinching Look at the Facts and Prospects, in L.C. Kaounides e G.E. Wood (1992), Debt and Deficits, Elgar Publishing Limited, vol. II. 117 Hansen e Greer (1942), pag. 72.

63

this there will be unemployment. The government can increase total spending by spending more itself […]. In applying this first law of Functional Finance, the government may find itself collecting more in taxes than it is spending, or spending more than it collects in taxes. In the former case it can keep the difference in its coffers of use it to repay some of the national debt, in the latter case it would have to provide the difference by borrowing or printing money. In neither case should the government feel that there is anything especially good or bad about this result; […].118

Questi argomenti sono legati al considerare la domanda aggregata, quale

determinante del livello di reddito. Inoltre si capisce come la gestione del

debito pubblico serva da regolatore per l’economia nel suo complesso, in

quanto la sua riduzione diventa un elemento calmierante per l’inflazione.

Quest’ultimo aspetto, però, assieme alla chiarezza mai fatta da Lerner e dagli

altri esponenti di questo filone, circa il riferimento della propria analisi a

carenze di domanda contingenti o strutturali, non permette di collocare in modo

indiscutibile queste argomentazioni in un contesto di lungo o di breve

periodo.119

La possibilità di collocare in analisi di breve o di lungo periodo questa

letteratura sarebbe di grande importanza; infatti se tali considerazioni si

riferissero esclusivamente al breve periodo non sarebbero completamente in

contrasto con la teoria neoclassica, in cui, anche se si afferma una tendenza

naturale a livelli di attività dell’economia regolati dalla quantità di fattori

disponibili, ammette la possibilità di carenza di domanda aggregata nel breve

periodo, determinata da fluttuazioni cicliche, che determinerebbero una

deviazione temporanea da posizioni naturali. Quindi la collocazione dei lavori

all’interno di un’analisi di solo breve periodo rappresenterebbe naturalmente un

indebolimento di questo genere di posizioni, per quanto esse abbiano

rappresentato un filone teorico importante a partire dalla fine degli anni

quaranta.

118 Lerner (1943), pag. 39-40. 119 Nella letteratura più recente esistono contributi che si ispirano alla Fuctional Finance, ma si riferiscono esplicitamente al lungo periodo, vedi per esempio R. Wray (2007), Demand Constrains and Big Government, The Levy Economics Institute, Working papers No. 488.

64

41. Per il fatto che queste analisi non siano esplicite circa il riferirsi al breve o

al lungo periodo, e per la tendenza più generale del riassorbimento della teoria

keynesiana all’interno della teoria neoclassica, l’idea di utilizzare la spesa

pubblica finanziata in deficit per raggiungere obiettivi di reddito e occupazione

è stata per lungo tempo messa da parte.

Qui si riprende questo punto di vista teorico, e si afferma che la domanda

aggregata è l’elemento che determina reddito ed occupazione. Si chiarisce,

inoltre, che la domanda aggregata è l’elemento determinante del reddito anche

nel lungo periodo. Questa affermazione è rafforzata dall’utilizzo di un

approccio teorico differente, che sembra essere maggiormente adeguato per

supportare tale argomento.120 In particolare il nostro riferimento teorico sarà

costituito dalla teoria classica della distribuzione. 121

In questa teoria la distribuzione è determinata da circostanze socio-

istituzionali, in particolare dalla forza contrattuale delle parti. Quindi non si

concepisce la determinazione della distribuzione in termini di curve di

domanda ed offerta. Questo aspetto è molto importante, perché la

determinazione del livello di produzione e del reddito al livello di piena

occupazione, scaturisce dalla concezione neoclassica di una distribuzione del

prodotto determinata dalla scarsità relativa dei fattori di produzione. Invece la

teoria di riferimento che qui utilizziamo consente l’esistenza di risorse non

utilizzate in condizioni normali dell’economia, anzi l’esistenza di

disoccupazione diventa una delle determinanti della distribuzione stessa.

Questo tipo di analisi ci permette di affermare che la domanda aggregata è la

determinante dei livelli di reddito anche nel lungo periodo. Infatti nella storia 120 Lo stesso non poteva essere fatto da Lerner e gli altri esponenti di questo filone, in quanto solo dagli anni sessanta grazie al contributo fondamentale di Sraffa (P. Sraffa (1960), Produzione di Merci a Mezzo di Merci, Einaudi, Torino) è possibile disporre nuovamente di una teoria della distribuzione alternativa. 121 Si veda per esempio P. Garegnani e A. Palumbo (1998), Domanda aggregata e accumulazione di capitale, Saggi di economia politica, a cura di M.C. Marcuzzo e A. Roncaglia, Bologna, CLUEB, 1998; P. Garegnani (1992), Some Notes

for an Analysis of Accumulation, Beyond the Steady-State, a cura di J. Halevi, D. Laibman e E.J. Nell, Basingstoke&London, Macmillan.

65

del pensiero economico i tentativi di dare rilevanza alla domanda aggregata

nella determinazione del reddito si sono concentrati prevalentemente, a partire

da Keynes in poi, nelle analisi di breve periodo. Questo tipo di ragionamento

sembra essere coerente con l’esigenza di conservare la teoria tradizionale come

punto di riferimento, infatti pur sottolineando la necessità di intervenire sulla

domanda aggregata per superare ostacoli contingenti, sullo sfondo esiste

comunque la tendenza al pieno impiego delle risorse.

Prima di considerare gli effetti dell’emissione di debito pubblico per

finanziare la spesa pubblica è necessario puntualizzare che la domanda

aggregata è l’unico limite alle quantità prodotte nella nostra struttura teorica,

quindi non esistono vincoli all’espansione del prodotto in termini di lavoro e di

capacità produttiva. Quest’ultima si potrà adeguare al nuovo livello di prodotto

attraverso un grado di utilizzo maggiore di quello normale o attraverso una

espansione della stessa.122

42. Si passa ora ad illustrare in termini analitici nel quadro teorico delineato il

ruolo che la spesa pubblica e il debito pubblico assumono.

Si parte dall’identità contabile generale che abbiamo già utilizzato in

precedenza:

S + T = I + G [1]

In questa equazione S rappresenta i risparmi del settore privato, T è la

tassazione, I sono gli investimenti privati e G la spesa pubblica. L’uguaglianza

può essere riscritta per mettere in evidenza che contabilmente il risparmio

privato è uguale all’investimento privato, più il disavanzo pubblico (D), il

122 R. Ciccone (1986), Accumulation and Capacity Utilization: Some Critical Considerations on Joan Robinson’s

Theory of Distribution, Political Economy, vol.2.

66

quale può essere scisso a sua volta in disavanzo primario (DPR) e spesa per gli

interessi (R):

S = I + G – T = I + D = I + DPR + R [2]

Un aumento di una qualunque componente della spesa aggregata, in particolare

della spesa pubblica, fa aumentare la produzione aggregata; i risparmi privati,

che sono uguali alla somma di investimenti privati e deficit pubblico, si

adegueranno ai nuovi livelli di reddito.

Si pongono le seguenti relazioni per descrivere in modo stilizzato i

meccanismi dell’economia:

Y = CP + IP + G [3]

Yp = Y – T + R [4]

T = T* [5]

C = c (Y + R –T) [6]

S = Yp – C = (1 – c) (Y + R –T) [7]

R = i B-1 [8]

G = G* [9]

D = G – T + R = DPR + R [10]

B = B-1 + D [11]

67

Prima di andare avanti si evidenzia il significato di alcuni simboli.

Nell’equazione [3] CP rappresenta il consumo privato, IP gli investimenti

privati, Yp il reddito disponibile, T le entrate fiscali che per semplicità

consideriamo ad un livello dato indipendente dal reddito. B e i sono,

rispettivamente, il valore dello stock di debito pubblico alla fine del periodo e il

tasso di interesse su i titoli pubblici. Infine c è la propensione al consumo del

settore privato. Inoltre si nota che le grandezze presenti in queste equazioni si

riferiscono ad un medesimo periodo, eccetto la quantità B-1 che si riferisce

invece al periodo precedente.

Ora prendiamo in considerazione l’equazione [3] e [6], grazie ad esse

possiamo riscrivere l’uguaglianza tra i valori della spesa aggregata e della

produzione:

Y = 1/(1 – c) (I + G + cR + cT) [12]

Quindi riscrivendo la [4] tenendo in considerazione la [12]:

Yp = 1/(1 – c) (I + G + R + T) [13]

Questa equazione mostra l’effetto moltiplicativo sul reddito disponibile di tutte

le componenti autonome della domanda. Tenendo in considerazione ora

l’equazione [2] è possibile notare come una variazione del deficit del settore

pubblico generi una variazione del risparmio privato nella stessa direzione e

dello stesso ammontare:

∆S = (1 – c)∆Yp = (1 – c)/(1 – c)∆(G +R – T) = ∆D = ∆DPR + ∆R [14]

68

Questa equazione mostra come nelle nostre ipotesi un aumento della spesa

pubblica finanziato in deficit generi un ammontare di risparmio privato

aggiuntivo di uguale ammontare. Quindi considerando gli effetti della spesa

pubblica sul livello del reddito si giunge alla conclusione che i deficit pubblici

generano risparmio privato aggiuntivo, che altrimenti non si sarebbe

formato.123

È possibile, ora, identificare i risparmi privati di un periodo come la

variazione della ricchezza posseduta dal settore privato. Considerando che tali

risparmi sono uguali alla somma degli investimenti privati più l’ammontare del

deficit pubblico, si può affermare che la ricchezza privata in un determinato

momento sarà tanto più ampia quanto più ampi sono i deficit accumulati fino a

quel momento, ossia tanto più ampio è il debito pubblico.

Quanto detto è naturalmente connesso alla concezione che la produzione sia

limitata esclusivamente della domanda, e quindi positivamente influenzata

dalla spesa pubblica. A conferma di ciò si può osservare che in un contesto

teorico neoclassico la formazione della ricchezza privata è indipendente dai

disavanzi pubblici. In questo approccio, infatti, i risparmi sarebbero dati al

livello di pieno impiego delle risorse (data la propensione al risparmio). Quindi

con un ammontare di risparmio dato i deficit pubblici potrebbero solo

sostituirsi e non aggiungersi nella formazione della ricchezza privata. Il debito

pubblico esistente, quindi, corrisponderebbe ad una minore accumulazione di

capitale nel passato. Ciò si accompagnerebbe a livelli inferiori del reddito di

pieno impiego, perché nella logica neoclassica una maggiore accumulazione di

capitale implicherebbe l’impiego di tecniche di produzione a maggiore

intensità di capitale e, quindi, un prodotto per lavoratore più elevato.

123 Approccio analogo in R.Ciccone, (2002), Debito Pubblico, Domanda Aggregata e Accumulazione, Aracne, Roma

69

43. Si è dimostrato come, mutando l’impostazione teorica, sia possibile

ottenere giudizi differenti circa l’accumulazione di debito pubblico. Il giudizio

negativo è indissolubilmente legato alla tendenza al pieno impiego delle risorse

produttive. In conclusione se si abbandona questa ipotesi si afferma con forza

la possibilità di utilizzare lo strumento del debito pubblico al fine di

raggiungere più elevati livelli di reddito e occupazione; possibilità teoricamente

negata nella teoria dominante anche in situazioni di stagnazione dell’economia

e presenza di disoccupazione.

70

V

La Questione della Sostenibilità del Debito Pubblico

44. In questo capitolo ci occuperemo della sostenibilità del debito pubblico.

La nostra analisi continuerà ad essere prevalentemente di carattere teorico;

inoltre non muterà il contesto teorico da cui si muoverà il ragionamento (e

quindi gli spunti critici che ne scaturiranno): si utilizzerà una struttura teorica

che non assicura la tendenza al pieno impiego delle risorse produttive; e in cui

la domanda aggregata è il fattore che determina i livelli di reddito.

La sostenibilità ha riscosso grande interesse nel dibattito economico a partire

dalla fine della seconda guerra mondiale. In realtà con il passare del tempo

l’argomento della sostenibilità è diventata sempre più importante. Infatti, come

è noto, nell’ambito degli accordi formulati dall’Unione Europea con il trattato

di Maastricht per la creazione della moneta unica, il contenimento entro certi

limiti del debito e del deficit pubblico è un criterio che gli Stati devono

rispettare. In particolare il trattato indica un rapporto tra debito pubblico e Pil,

che non deve eccedere il 60%, e un rapporto tra deficit e Pil che non deve

superare il 3%. Questo tipo di considerazione, circa il limite del rapporto tra

debito pubblico e Pil, presuppone la possibilità dell’esistenza di un limite oltre

il quale l’accumulazione di debito pubblico condurrebbe a difficoltà per il

finanziamento del debito stesso. Esiste una vasta letteratura che si è occupata di

sostenibilità, ma la nozione utilizzata nell’ambito dell’Unione Monetaria

rimanda al lavoro pionieristico di Domar del 1944,124 e ancora di più ad un

124 E. Domar (1944), “The Burden of the Debt” and the National Income, America Economic Review, December.

71

lavoro di Blanchard (ed altri) del 1990.125 Questi lavori condividono l’idea che

il rapporto tra debito pubblico e Pil non debba superare un certo limite,

definendo quindi la sostenibilità nei termini del limite al rapporto debito/Pil.

In letteratura non è possibile individuare un limite teorico del rapporto in

esame unanimemente accettato come soglia di sostenibilità. 126 In più è

possibile mettere in discussione la stessa esistenza di una soglia all’espansione

del debito pubblico.

45. La letteratura offre varie definizioni di sostenibilità del debito,127 talvolta

anche in contrasto tra loro. Quella basata sul rapporto debito pubblico/Pil

rappresenta solo uno degli approcci.

L’esistenza di diverse definizioni di sostenibilità rende l’argomento

estremamente controverso, ma allo stesso tempo mette in evidenza che l’idea di

un limite superiore oltre il quale non deve essere accumulato ulteriore debito

pubblico è largamente diffusa.

Qui si porrà l’attenzione, in modo particolare, alla definizione di sostenibilità

di Domar e a quella di Hamilton-Flavin,128 perché da esse si dipanano poi gli

indici che, in concreto, sono comunemente utilizzati per valutare la sostenibilità

del debito.

Dopo aver affermato, nel capitolo precedente, che la spesa pubblica finanziata

in deficit può avere effetti positivi in termini di reddito ed occupazione, ci si

soffermerà ora sull’esistenza eventuale di limiti entro i quali sia necessario

contenere la dimensione del debito pubblico.

125 O. Blanchard, J. Chouraqui, R. Hagemann e N. Sartor (1990), The Sustainability of Fiscal Policy: New Answers to

an Old Question, OECD Economic Studies, No. 15, Autumn. 126 A. Bagnai (1996), La sostenibilità del debito pubblico: definizioni e criteri di verifica empirica, Economia Politica, XIII, n. 1. 127 Per una rassegna si veda S. Collignon e S. Mundschenk (1999), The Sustainability of Public Debt in Europe, Economia Internazionale, Numero Speciale, Supplemento al Vol. LII, No. 1, Febbraio. 128 J. Hamilton e M. Flavin (1986), On the Limitations of Government Borrowing: A Framework for Empirical Testing, American Economic Review, vol. 76, n.4.

72

L’eterogeneità dei criteri utilizzati (con conseguenti diverse soglie di

sostenibilità), insieme agli elementi critici che proporremo, ci spinge ad

interrogarci circa l’esistenza stessa di una soglia di sostenibilità. Il dubbio che

sorge è se la ricerca di una soglia nasca da un problema reale di teoria o sia

frutto di un’ostinazione che va al di là di argomenti puramente economici.

46. Come accennato, tra quelle che si incontrano nella letteratura in questione

considereremo le due definizioni più rilevanti. L’esposizione di queste

definizioni risponde essenzialmente a due esigenze: da un lato si vuole

evidenziare l’eterogeneità di vedute presente in questo argomento; dall’altro si

vogliono introdurre alcuni elementi utili sia per rappresentare le diverse

posizioni, sia per trarne spunti critici.

47 Nella definizione di Blanchard (e altri),129 il debito pubblico è sostenibile

se, dato un livello iniziale dello stock (arbitrario), il rapporto debito-Pil si

mantiene costante, o meglio tende al livello iniziale.130

A formal definition can now be given to the notion of sustainability of fiscal policy. Fiscal policy can be thought of as a set of rules, as well as an inherited level of debt. And a sustainable fiscal policy can be defined as a policy such that the ratio of debt to GNP eventually converges back to its initial level.131

Anche se questa definizione è molto diffusa, come tra l’altro dimostra che di

fatto è quella adottata nell’ambito dell’Unione Monetaria; in realtà non è

supportata da nessun argomento teorico, ma è semplicemente legata

all’osservazione di una grandezza esistente. Una definizione del genere può

portare a considerare sostenibile la situazione di paesi con rapporto debito-Pil 129O. Blanchard, J. Chouraqui, R. Hagemann e N. Sartor (1990), The Sustainability of Fiscal Policy: New Answers to an

Old Question, OECD Economic Studies, No. 15, Autumn. 130 In questo lavoro si prendono in considerazione 3 orizzonti temporali (1, 5 e 20 anni). 131Blanchard,. Chouraqui,, Hagemann e. Sartor (1990), pag. 11.

73

elevato, e invece insostenibile quella di paesi con un rapporto basso, ma con la

tendenza a stabilizzarsi a livelli anche di poco superiori.

48. Un’altra definizione molto utilizzata è quella proposta inizialmente da

Hamilton e Flavin:132 si considerano sostenibili i sentieri del debito lungo i

quali il governo non viola il proprio vincolo intertemporale di bilancio, che,

come si vedrà meglio tra poco, impone che il valore attuale del flusso di tutti gli

esborsi futuri del governo non ecceda il flusso degli incassi.

49. Il vincolo intertemporale di bilancio è un indicatore di sostenibilità, che ha

acquisito sempre maggiore credito a partire dal lavoro di Hamilton e Flavin133

del 1986, fino a diventare oggi il più diffuso insieme a quello basato sul

rapporto tra debito e PIL.

Il primo passo che qui si compie è quello di spiegare come questo indice è

stato costruito; analizzeremo, poi, le implicazioni che discenderebbero dal

vincolo posto da questo criterio di sostenibilità sulla politica economica se le

istituzioni preposte osservassero tale criterio; infine si osserverà come questo

criterio di sostenibilità sia indissolubilmente legato al contesto teorico dai cui

trae le sue origini.

50. La condizione di sostenibilità viene ottenuta partendo dall’identità del

bilancio pubblico, con le quali si rappresentano i vincoli intertemporali del

settore. Supponendo che il tasso d’interesse sia costante nel tempo ed

132 J. Hamilton e M. Flavin (1986), On the Limitations of Government Borrowing: A Framework for Empirical Testing, American Economic Review, vol. 76, n.4. 133 Hamilton e Flavin (1986).

74

escludendo per ipotesi il finanziamento monetario del deficit è possibile

scrivere:

B1 = B0 (1+r) +G1 – T1 [1]

Questa uguaglianza ci dice semplicemente che lo stock di debito alla fine di un

periodo (B1) è uguale al debito del periodo precedente (B0) più gli interessi (al

tasso r) maturati su di esso, più la spesa pubblica del periodo (G1), meno

l’ammontare raccolto grazie al gettito fiscale (T1).134 La stessa equazione può

essere scritta per i periodi successivi:

B2 = B1 (1+r) +G2 – T2 [2]

B3 = B2 (1+r) +G3 – T3 [3]

………………………

BJ = Bj-1 (1+r) +Gj – Tj [4]

Estendendo le uguaglianze per un numero infinito di periodi e sommandole

membro a membro, e risolvendo poi per B0, otteniamo:

B0 = Σ (Tt – Gt)/(1 + r)t + lim Bj/(1 + r)

j [5] t=1 j→∞

Questa identità esprime l’uguaglianza tra il valore del debito pubblico presente

e il valore attuale dei futuri avanzi primari sommati al valore attuale del debito

futuro. Essa non implica alcuna relazione di carattere teorico, come può essere

134 Per tutte queste grandezze ci si riferisce a valori di fine periodo. Inoltre si è nell’ipotesi di informazione perfetta circa le grandezze future, in sostanza al tempo 0 sono già noti l’ammontare di spesa e il prelievo fiscale futuro.

75

facilmente dedotto dal fatto che essa sarebbe verificata anche per un valore

attuale del debito pubblico tendente ad infinito.

L’uguaglianza diventa una condizione di sostenibilità, definita nei termini di

Hamilton e Flavin,135 qualora si imponga la condizione

lim Bj/(1 + r)j = 0, [6]

j→∞

e cioè che il valore attuale del debito futuro tenda ad annullarsi; il fondamento

di tale condizione verrà tra poco discusso.

Dalla [6] segue:

B0 = Σ (Tt – Gt)/(1 + r)t, [7]

t=1

135 La formalizzazione qui esposta non coincide con quella originale di Hamilton e Flavin, i quali utilizzano una formalizzazione più complessa, in cui si tiene conto delle variazioni dei prezzi e della base monetaria. Inoltre è interessante notare come viene giustificata la condizione di tenenza a zero del valore attuale del debito futuro:

By recursive substitution forward equation (5) is seen to imply ∞ Bt = Σ (Si – Vi)/(1 + r)i - t + BN(1 + r)t /(1 + r)N (7) i=t+1 Equation (5) and its implication (7) cannot be a point of serious controversy, for they do little more than summarize the definitions of monetary and fiscal policy. What is of economic interest (and subject in principle to empirical refutation) is what creditors expect to happen to the second term of (7) as N gets large. Indeed letting Et denote the expectations of creditors based on information available at date t it is clear from (7) that the hypothesis that the government is subject to the present-value borrowing constrain, ∞ Bt = Et Σ (Si – Vi)/(1 + r)i - t (8a) i=t+1 is mathematically equivalent to the restriction that the real supply of bonds held by the public is expected to grow no faster on average than the rate of interest: Et lim BN/(1 + r)N = 0 (8b) N→∞

(J. Hamilton M. Flavin (1986), On the Limitations of Government Borrowing: A Framework for Empirical Testing, American Economic Review, vol. 76, n.4.pag. 4) Le equazioni di Hamilton e Flavin hanno sostanzialmente lo stesso significato delle nostre eccetto per il termine Vi in cui si racchiude la componenti prezzi, e per il fatto che loro adottano grandezze attese, mentre in questo lavoro le grandezze sono considerate come certe. È centrale invece notare che il vincolo del governo circa il debito pubblico è derivato dal comportamento dei privati, che si manifesta attraverso le aspettative. Quindi è derivato sostanzialmente da una ipotesi circa il comportamento dei soggetti economici, i quali operando razionalmente definiscono la soglia di sostenibilità.

76

vale a dire che il valore presente del debito pubblico deve uguagliare gli avanzi

primari della finanza pubblica.

Come abbiamo visto, si è approdati a questo tipo di equazione imponendo la

condizione [6], ossia che il valore attuale del debito futuro tende ad annullarsi;

ed è perciò che a questa relazione volgiamo ora la nostra attenzione.

51. Analizzeremo in primo luogo gli effettivi limiti che la [6] impone

all’espansione del debito pubblico.

Affinché l’equazione [6] sia soddisfatta, e di conseguenza sia soddisfatta la

condizione di sostenibilità, è sufficiente che il debito pubblico aumenti a tassi

inferiori rispetto al tasso d’interesse. Questa condizione di sostenibilità risulta

perciò essere compatibile con situazioni in cui il debito pubblico cresca

indefinitamente. Infatti, se assumiamo che il debito pubblico cresca ad un tasso

medio α e il tasso d’interesse sia uguale ad r, il valore attuale del debito futuro

su un orizzonte temporale infinito sarebbe dato da:

lim B0 (1 + α )t/(1 + r )

t = B0 lim [(1 + α) /(1 + r )]

t [8] t→∞ t→∞

Se α < r il valore della frazione nella parentesi quadra sarebbe minore di uno,

e quindi tendente a zero al crescere di t. Un aumento del debito pubblico a tassi

inferiori rispetto al saggio d’interesse richiede che da un certo momento in poi

il settore pubblico realizzi degli avanzi primari, e quindi finanzi almeno in parte

gli interessi del debito con le imposte.

Naturalmente una condizione del genere risulta essere poco stringente, perché

l’orizzonte temporale infinito lascia indeterminato il punto nel tempo dal quale

necessita di essere soddisfatta; inoltre, risulta irrilevante la dimensione degli

avanzi primari, purché positivi. D’altra parte, se si adottasse un orizzonte

77

temporale finito, la condizione si ridurrebbe a imporre che ad una data definita

il debito pubblico risulti nullo.

In conclusione, questa condizione di sostenibilità lascia da un lato del tutto

indefiniti gli impegni che la politica fiscale dovrebbe assolvere, o,

alternativamente si risolve nell’impegno all’estinzione del debito stesso entro

una data arbitraria.

Sebbene tale critica sia condivisa in letteratura,136 il concetto di equilibrio

intertemporale della finanza pubblica, e la connessa condizione di sostenibilità,

restano largamente utilizzati.

52. I motivi che hanno spinto la letteratura sulla sostenibilità,137 a cominciare

dal lavoro di Hamilton e Flavin, ad utilizzare questo tipo di criterio sono

essenzialmente due. Il primo, di carattere teorico, sta nel fatto che il vincolo

trae il proprio fondamento dal modello neoclassico di equilibrio intertemporale

con agente rappresentativo, che è diventato egemonico a partire dagli anni

ottanta con l’affermarsi della Nuova Macroeconomia Classica.

Il secondo motivo è di ordine pratico, in quanto la verifica empirica della

condizione è relativamente semplice, potendosi a questo scopo utilizzare

metodi statistici ampiamente consolidati.138

53. Considerando un modello neoclassico di equilibrio intertemporale,

caratterizzato da un orizzonte temporale infinito, preferenze dei consumatori

con condizione di non sazietà e aspettative razionali: la condizione di

136 Vedi per esempio: A.Bagnai, (2004), Keynesian and Neoclassical Fiscal Sustainability Indicators, with Applications

to EMU Member Countries, Public Economics, 0411005, EconWPA; N. Chalk R. Hemming (2000), Assessing

Sustainability in Theory and Practise, IMF Working Paper, No. 81. 137 Si veda per esempio G. Corsetti e N. Roubini (1991), Fiscal Deficits, Public Debt, and Government Solvency:

Evidence from OECD Countries, Journal of Japanese and International Economics, vol. 5; M. Artis e M. Marcellino (1998), Fiscal Solvency and Fiscal Forecasting in Europe, CEPR Discussion Paper, No. 1836, March. 138 A. Bagnai (1996), La Sostenibilità del Debito Pubblico: definizioni e criteri di verifica, Economia Politica, No.1, Aprile.

78

sostenibilità, espressa dall’equazione [6] viene fatta discendere dal

comportamento massimizzante di agenti razionali, incompatibile col trovarsi

indefinitamente in posizione di creditore netto; ciò implicherebbe una rinuncia

al consumo, e di conseguenza un’utilità inferiore alla massima. Per la stessa

ragione segue che, all’infinito, la quantità di capitale detenuta dai privati deve

essere uguale a zero.

Questo tipo di argomentazione è presente, ad esempio, nel lavoro di Barro del

1989:

The real wage rate-and, hence, real labor income-for period t is given to the family as the amount wt. The family holds the amount of real assets, k, at the end of period t, where a negative value signifies borrowing. Assets pay the real rate of return rt in period t+1. Therefore the budget constraint for each period is (5.2) Kt - 1 (1 + rt - 1) + wt = ct + kt. The initial stock, k, is given to the family. Define the present-value factor dt by (5.3) dt = dt - 1/(1+rt - 1), for t = 1, 2, …, and do = 1. Then using Equation (5.2) for each period starting from t=1, the budget constraint in present-value form is K K

(5.4) ko + Σ dt wt = Σ dt ct + dH kH 1 1

for any date H ≥ 1. Now suppose that total utility involved the finite horizon H, rather than an infinite horizon. That is, assume that people did not care about the utils generated after date H. (H would represent a person’s expected remaining lifetime in models where parents where not linked altruistically to their children). If it is infeasible to leave debts after date H (for example, after death), so that KH<0 is ruled out, than the maximization of utility entails setting KH = 0 (which is a transversality condition for this problem). Otherwise people would leave behind some resources that could have been used to raise consumption and hence utility at an earlier date. […]. The same kind of result applies when the horizon is infinite. In this case the transversality condition is that the term dH kH approaches zero as H approaches infinity.139, 140

139 R. Barro (1989), The Neoclassical Approach to Fiscal Policy, in L.C. Kaounides G.E. Wood (1992), Debt and

Deficits, Elgar Publishing Limited, vol. III. 140 Si sottolinea che tale ragionamento può essere valido solo in un contesto neoclassico, con tendenza alla piena occupazione delle risorse produttive, perché in un contesto differente, in cui il reddito, e quindi il consumo, è determinato dalla domanda aggregata, l’utilità totale (che dipende dai consumi) è crescente al crescere dell’accumulazione di capitale Questo concetto sarà approfondito più avanti. Inoltre si evidenzia che gli argomenti

79

54. La necessità di avere un capitale uguale a zero alla fine dell’economia

viene esteso per analogia anche al debito pubblico.141 Ora, vedremo se è

possibile l’estensione del ragionamento effettuato circa il capitale anche al

debito pubblico. Sostanzialmente analizzeremo se l’esistenza di debito pubblico

alla fine dell’economia possa essere considerato alla stregua del capitale, come

rinuncia ad un possibile consumo, e quindi ad una utilità complessiva inferiore.

55. Consideriamo un economia in cui il valore attuale del debito pubblico

futuro sia positivo. Se valesse l’analogia tra capitale e debito pubblico, una

riduzione dello stock di debito comporterebbe un aumento dei consumi.

Una riduzione dello stock di debito pubblico o un annullamento totale del

debito stesso richiede una riduzione della spesa pubblica, o un aumento delle

imposte, oppure naturalmente un mix delle due azioni di politica economica.

Nel caso in cui l’azzeramento del valore attuale del debito pubblico avvenisse

attraverso un aumento delle imposte, esso sarebbe completamente compensato

da un aumento del valore attuale delle imposte. Quindi un valore attuale nullo

del debito pubblico non si tramuta in un’utilità maggiore per i soggetti

economici, in quanto il valore attuale dei consumi resterebbe invariato.

Nel caso in cui l’azzeramento del valore attuale del debito pubblico avvenisse

invece mediante una riduzione dei flussi futuri di spesa pubblica, la questione è

più complessa. La diminuzione dei flussi di spesa pubblica con un valore

attuale delle imposte invariato, determinerebbe un aumento del valore attuale

dei consumi privati (dati i flussi di reddito al livello di pieno impiego). In

relativi ad orizzonti finiti vengono semplicemente estesi ad orizzonti infiniti. Tale estensione, però, non è ovvia; perché affermare che una grandezza debba assumere un particolare valore all’infinito, in realtà lascia la possibilità che tale grandezza assumi valori differenti indefinitamente. 141 Si veda il capitolo II.

80

questo caso dunque l’azzeramento del valore attuale del debito pubblico

determinerebbe un aumento dei consumi privati.

L’analogia tra capitale e debito pubblico sarebbe in questo caso valida, se non

si tenesse in considerazione la diminuzione dei flussi di spesa pubblica. Ma

poiché i consumi pubblici entrano nella funzione di utilità degli individui, per

vedere l’effetto complessivo sull’utilità è necessario vedere in quale relazione

di sostituibilità sarebbero i consumi privati e quelli pubblici. In particolare, nel

caso limite in cui i due tipi di consumo siano perfetti sostituti, gli effetti

sull’utilità sarebbero nulli, e ci troveremmo nel caso precedente, ossia nella

condizione in cui l’azzeramento del debito pubblico non comporterebbe alcun

aumento dell’utilità per gli agenti economici. La possibilità di un aumento

dell’utilità per l’agente rappresentativo resta quindi affidata al caso in cui i

consumi pubblici non siano perfetti sostituti dei consumi privati.

In conclusione, la validità del presupposto che il valore attuale del debito

pubblico sia nullo è legata alle modalità in cui avviene l’annullamento del

valore attuale del debito stesso e alla sostituibilità tra consumi privati e

pubblici, e tenendo in considerazione che solitamente non è nelle mani dei

privati la scelta delle modalità in cui viene effettuata la politica fiscale, non c’è

necessità per gli individui di considerare ottimale un valore attuale nullo del

debito pubblico.142

56. Abbiamo visto che il vincolo, posto sul bilancio intertemporale, come

criterio di sostenibilità del debito pubblico, non ha basi molto solide all’interno

del suo stesso quadro teorico. Adesso vedremo che tale vincolo è ancor meno

adeguato in un contesto teorico differente, in cui il reddito non presenta limiti

all’espansione dal lato dell’offerta e il suo livello sia invece limitato dalla

142 Si veda Ciccone (2002).

81

domanda. In un contesto del genere i consumi, e quindi l’utilità, sono crescenti

rispetto all’accumulazione di debito pubblico e di capitale.

57. Per semplicità consideriamo un’economia di un solo periodo,

caratterizzata da un debito pubblico iniziale pari a Bo, dotata di un ammontare

di capitale pari a Ko. Il vincolo di bilancio per il settore privato di questa

economia sarà:

Ko (1 + r) + Bo (1 + r) + W = C + T +K + B [9]

In questa equazione W rappresenta il reddito da lavoro, mentre C, T, K e B,

sono nell’ordine i consumi, le imposte, il capitale e il debito pubblico. Ci

riferiamo qui a grandezze di fine periodo.

La massimizzazione dell’utilità degli individui imporrebbe valori finali del

capitale e del debito pubblico pari a zero. Tale condizione è, però,

indissolubilmente legata al considerare il reddito come dato, e quindi ad una

condizione di pieno impiego delle risorse.

In un contesto in cui il reddito sia invece determinato dal lato della domanda e

non ci siano vincoli dal lato dell’offerta è possibile vedere che i consumi sono

crescenti rispetto all’accumulazione di debito pubblico e di capitale. Partiamo

dall’uguaglianza tra reddito e spesa aggregata:

Y = C + I + G [10]

Ponendo che i consumi siano uguali a:

C = c (Y + R – T), [11]

82

si ottiene:

Y = cY + c(R - T) + I +G. [12]

Introducendo poi il deficit pubblico, così definito:

D = G – T + R, [13]

in cui la tassazione è considerata per semplicità indipendente dal reddito, e R

indica gli interessi pagati sul debito nel periodo. Sostituendo per G si ha:

Y = [1/(1 – c)]I + (T - R) + [1/(1 – c)] (B - Bo)143 [14]

Ora sostituendo nella [9] i redditi da produzione di lavoro e capitale con Y, così

come espressi nella [14], si ottiene:

Ko + Bo(1+r)+ [1/(1-c)]I + [1/(1-c)](B-Bo) + (T-R)= C + K + B + T [15]

da cui, poiché Bor = R:

Ko + Bo + [1/(1-c)]I + [1/(1-c)](B-Bo) = C + K + B

Supponendo che nell’arco del periodo in considerazione il capitale non si

logori possiamo considerare gli investimenti privati pari alla differenza tra il

capitale iniziale e il capitale finale, e così facendo otteniamo:

[(c/(1-c)] [(B - Bo) + (K - Ko)] = C. [16]

143 Abbiamo sostituito il deficit con la differenza tra il debito pubblico finale e iniziale.

83

Siamo così giunti ad una formulazione del vincolo di bilancio, che mostra

l’esistenza di una relazione diretta tra i consumi privati e la somma di

accumulazione di capitale e di debito pubblico. In sostanza si vuole affermare

che nel momento in cui è la domanda aggregata a determinare il reddito, e di

conseguenza i consumi, essendo gli investimenti privati e la spesa pubblica due

componenti della domanda stessa, un aumento degli investimenti privati o del

debito pubblico (e quindi, ceteris paribus, della spesa pubblica) determina più

elevati livelli di reddito e di consumo.

È chiaro che in questo contesto la condizione dell’uguaglianza a zero del

valore attuale del debito pubblico (ma anche l’annullamento del capitale alla

fine dell’economia), come condizione che massimizza l’utilità, non avrebbe

alcuna giustificazione. Abbiamo evidenziato infatti che l’individuo

rappresentativo non avrebbe alcun interesse alla riduzione del debito pubblico,

anzi più elevati fossero i valori finali di debito pubblico e capitale, più elevati

risulterebbero essere i suoi livelli di consumo.

58. Questo vincolo di sostenibilità, come si è accennato sopra, è un indicatore

largamente utilizzato in lavori empirici. I risultati ottenuti, sulla base di questo

criterio, con riguardo alla sostenibilità del debito pubblico di diversi paesi non

raggiungono però conclusioni uniformi.144 In questa sede si vogliono analizzare

tali differenze, ma preme discutere come in alcuni casi il debito risulti essere

non sostenibile.

Considerato che l’indicatore in questione esprime un’ipotesi di

comportamento razionale degli individui, propria di uno specifico modello

economico, il fatto che in alcuni paesi tale vincolo intertemporale risulti non

rispettato sembra non lasciare alternative all’una o l’altra delle seguenti

144 Si veda per esempio G. Corsetti e N. Roubini (1991), Fiscal Deficits, Public Debt, and Government Solvency:

Evidence from OECD Countries, Journal of Japanese and International Economics, vol. 5; A. Bravo Silvestre (1999), Intertemporal Sustainability of Policies: Some Tests for European Countries, in European Journal of Political Economy, vol. 18.

84

conclusioni: o gli individui non si comportano come il modello presuppone, o,

più in generale, il modello stesso non riflette il reale funzionamento

dell’economia. In altri termini, se il modello sul quale il vincolo di sostenibilità

si basa descrivesse in maniera adeguata il comportamento degli individui e il

funzionamento del sistema economico, il debito pubblico non dovrebbe in

nessun caso risultare superiore alla soglia di sostenibilità, costituendo tale

soglia un limite imposto dal comportamento degli individui.145

59. L’altro indice di sostenibilità, che si esaminerà in questo lavoro è quello

derivante dal lavoro di Domar del 1944.146

La sostenibilità è identificata con la stabilità del rapporto debito-Pil. In

sostanza, affinché il debito pubblico sia sostenibile, il rapporto debito-Pil deve

tendere ad un valore finito.

60. Domar parte dal presupposto che gli interessi sul debito debbano essere

pagati attraverso il gettito fiscale. Questa ipotesi viene utilizzata per semplicità

di argomentazione, e perché questo era il modo convenzionale di trattare questo

argomento.

This assumption is made both to simplify the argument and to protect the reader from a shock. To many, government investment financed by borrowing sounds so bad that the thought of borrowing to pay interest charges also is simply unbearable.147

Domar spiega che nel caso in cui il reddito rimanga invariato negli anni, mentre

il deficit utilizzato per finanziare la spesa pubblica è ogni anno una quota

costante del reddito, tende ad infinito il rapporto tra debito pubblico e prodotto 145 Negli stessi termini sembra esprimersi anche A. Bagnai (2004), Keynesian and Neoclassical Fiscal Sustainability

Indicators, with Applications to EMU Member Countries, Public Economics 0411005, EconWPA. 146 E. Domar (1944), “The Burden of the Debt” and the National Income, America Economic Review, December. 147 Domar (1944), nota No. 4, pag 799.

85

nazionale, e l’aliquota di imposta sul reddito necessaria per pagare gli interessi

sul debito tende al 100%. Nel caso, invece, in cui il reddito sia crescente ad un

tasso fisso, il tasso d’interesse è costante, e il deficit pubblico è una percentuale

costante sul reddito, il rapporto tra debito pubblico e prodotto dell’economia

tende ad un valore finito, così come l’aliquota di tassazione necessaria per

pagare gli interessi sul debito.

Secondo Domar il problema della sostenibilità del debito pubblico si risolve

allora nella capacità dell’economia di espandere il reddito, e per questo motivo

è centrale per lui il rapporto tra debito pubblico e prodotto nazionale, piuttosto

che la grandezza assoluta del debito stesso.

It is hoped that this paper has shown that the problem of the debt burden is essentially a problem of achieving a growing national income. A rising income is of course desired on general grounds, but in addition to its many other advantages it also solves the most important aspects of the problem of the debt. The faster income grows, the lighter will be the burden of the debt. In order to have a growing income there must be, first of all, a rising volume of monetary expenditures. Secondly, there must be an actual growth in productive powers in order to allow the increasing stream of expenditures to take place without a rise in prices.148

Si nota, in questo passo che la crescita del reddito dipende da una crescita della

spesa monetaria, accompagnata da una crescita della capacità produttiva. Come

è possibile leggere nel passo qui sotto riportato, Domar, come da tradizione

keynesiana, ha fiducia nella possibilità di espandere il livello del reddito

attraverso la spesa pubblica.

The Theory of the multiplier and our actual experience during this war have demonstrated, I believe, that money income can be raised to any desired level if the total volume of public expenditures is sufficiently high.149

Naturalmente l’espansione del reddito attraverso la spesa pubblica in deficit

determina, da un lato l’aumento del prodotto nazionale, e dall’altro un aumento

148 Domar (1944), pag. 822-823. 149 Domar (1944), pag 799.

86

del debito pubblico. Perciò sarà il tasso di crescita del reddito a determinare in

ultima analisi l’andamento del rapporto tra debito pubblico e prodotto

nazionale. Il limite di questa analisi sta nel considerare il tasso di crescita

dell’economia come una variabile indipendente, invece di considerare le

relazioni tra spesa pubblica e reddito.

In conclusione Domar introduce il concetto di sostenibilità legato al rapporto

tra debito pubblico e prodotto nazionale, sebbene confermando la possibilità

dell’utilizzo della spesa pubblica in deficit come strumento per l’espansione del

reddito.

61. Prima di avanzare considerazioni di carattere teorico sull’indice di

sostenibilità in esame, introduciamo la formalizzazione analitica dell’indice

stesso, al fine di rendere maggiormente chiara la discussione successiva.

La variazione del debito pubblico di un periodo dell’economia può essere così

espressa:

∆Bt = Ft – ∆Mt + it Bt – 1 [1]

La [1] indica che la variazione del debito pubblico (∆Bt), relativa ad un periodo

dell’economia, è uguale al fabbisogno primario dell’economia (Ft), più gli

interessi da pagare sul debito accumulato fino al periodo precedente (it Bt – 1),

meno il finanziamento monetario del fabbisogno (∆M).

Ora dividendo per Yt si ottiene:

∆Bt/Yt = ft – mt + (it bt – 1)/(1 + gt) [2]

87

dove ft, mt e b sono rispettivamente il fabbisogno primario, la variazione della

base monetaria e lo stock di debito presente sul mercato in rapporto al Pil, gt è

il tasso di crescita del prodotto (∆Yt/Yt – 1).

Considerando il lato sinistro della [2], ossia il rapporto ∆Bt/Yt, e esprimendo la

variazione del rapporto tra debito pubblico e prodotto, ∆bt, in funzione di tale

rapporto, si ottiene:

∆Bt/Yt = ∆bt + [gt/(1 + gt)] bt – 1 [3]

Infine sostituendo la [3] nella [2] e risolvendo per ∆bt, la variazione dal periodo

t - 1 al periodo t del rapporto tra debito pubblico e prodotto è determinata dalla

seguente identità:

∆bt = at – mt + [(it – gt)/(1 + gt)] bt – 1 [4]

La [4] indica che la variazione del rapporto tra debito pubblico e prodotto è

pari al fabbisogno primario netto, più la differenza tra i tasso d’interesse e il

tasso di crescita dell’economia, moltiplicata per lo stock di debito scontato per

il tasso di crescita.150

L’equazione [4] è un’identità contabile relativa al bilancio pubblico, e nulla ci

dice circa i legami esistenti tra le grandezze presenti al suo interno.

Essa si riferisce alla variazione del rapporto tra debito pubblico e prodotto in

un periodo,151 ed estendendo l’equazione sopra a più periodi è possibile vedere

150 A. Marano (1996), La Dinamica del Debito Pubblico. Un’Analisi del Caso Italiano, 1980-1986, Liuc paper n.33. 151 La variazione del rapporto debito pubblico/Pil dipende dal tasso d’interesse sui titoli, dal tasso di crescita dell’economia, e dal fabbisogno primario dell’ economia. La condizione affinché ∆bt decresca, partendo da una situazione in cui il rapporto debito pubblico/Pil è uguale a b0, è:

- (a - m) > [(i-g)/(1+g)] b0 per i > g - (a - m) < [(g-i)/(1+g)] b0 per i < g - - (a - m) > 0 per i = g

Quando il tasso di interesse è superiore al tasso di crescita del reddito, il rapporto debito/Pil si riduce solo in presenza di un avanzo primario, perché lo stock iniziale di debito pubblico tende ad alimentarsi da solo attraverso gli interessi. Al

88

la dinamica del rapporto tra debito e prodotto nel tempo. In letteratura

l’equazione [4] viene generalmente utilizzata ponendo come dati il tasso

d’interesse sui titoli pubblici e il tasso di crescita dell’economia g, e imponendo

che il limite per il tempo che tende ad infinito del rapporto tra debito pubblico e

prodotto sia uguale ad una costante.152

L’ignorare la relazione che può esistere tra il tasso d’interesse e il tasso di

crescita dell’economia, e ancora più quello tra tasso di crescita dell’economia e

l’accumulazione del debito, è una scelta che influenza fortemente i risultati che

si ottengono circa la dinamica del rapporto debito pubblico/Pil.153

62. Dopo aver introdotto il modo in cui viene analiticamente trattato il

rapporto tra debito pubblico e Pil e l’evoluzione nel tempo dello stesso, ci

occupiamo ora della solidità delle basi teoriche, sottostanti all’utilizzo del

rapporto debito pubblico/Pil come indicatore di sostenibilità.

Il rapporto tra debito pubblico e Pil, come misura della sostenibilità del debito

pubblico, trae le sue origini nell’ipotesi che il prodotto dell’economia

costituisca la base da cui prelevare le imposte per ripagare almeno gli interessi,

così come abbiamo visto nel lavoro Domar. Il reddito viene, quindi,

considerato una sorta di garanzia a copertura del debito pubblico. Questo tipo

di ragionamento racchiude un elemento politico-istituzionale costituito dal

potere di imposizione che il soggetto debitore possiede. In questa ottica, però, il

rapporto tra il reddito prodotto in un anno e il debito pubblico accumulato fino

ad un determinato istante dell’economia non sembra essere la misura più

adeguata dell’ipotetica garanzia sul debito pubblico.154 Da questo punto di vista

un rapporto più significativo potrebbe essere quello fra debito pubblico e contrario, se il tasso di interesse è inferiore al tasso di crescita, è possibile accumulare deficit pubblico senza aumentare il rapporto tra debito pubblico e Pil. 152 Si veda per esempio L. Spaventa (1987), The Growth of Public Debt – Sustainability, Fiscal Rules and Monetary

Rules, IMF Staff Paper, vol. 34, n.2; S. Rossi e G. Salvemini (1987), Alcune considerazioni analitiche ed empiriche in

tema di sostenibilità della crescita del debito pubblico, Rivista di politica economica, vol. 77, novembre. 153 A. Bagnai (1996), La sostenibilità del debito pubblico: definizioni e criteri empirica, Economia Politica, n. 1. 154 M. Salvemini (1992), Le Politiche del debito pubblico, Laterza, Bari.

89

attività totali dell’economia.155 Quindi l’utilizzo del reddito come termine di

paragone nella misura del debito pubblico è una misura parziale.

Più importante è la constatazione che il rapporto debito/Pil non permette di

individuare una soglia di sostenibilità. Infatti le condizioni che possono

eventualmente causare difficoltà non sono individuabili in termini generali, e

tanto meno possono perciò essere ricondotte alla mera dimensione del rapporto

in questione. Quindi, in questa ottica, sembra essere privo di fondamento

l’assegnare ad un particolare valore del rapporto debito pubblico/Pil una

valenza normativa.156 L’inadeguatezza di questo rapporto per la valutazione

della sostenibilità del debito pubblico trova conferma nella letteratura che

sostiene l’impossibilità di individuare un limite teorico del rapporto, oltre il

quale si può affermare che si innescino specifiche conseguenze.157

In questo contesto sono maturate posizioni che sostengono, come indice di

sostenibilità, la tendenza ad un valore finito del rapporto debito-Pil, piuttosto

che la sua tendenza ad un valore specifico.158

63. L’impossibilità di indicare un limite teorico del rapporto in esame, e

quindi affidarsi piuttosto alla stabilità dello stesso quale indice della

sostenibilità del debito, è riscontrabile in Blanchard (e altri).159 Infatti, in questo

lavoro, la consapevolezza di non poter utilizzare un limite teorico spinge gli

autori a prendere come riferimento il valore del rapporto esistente.

Naturalmente una posizione simile mette in evidenza una difficoltà teorica, che

155 In particolare la ricchezza privata costituisce una potenziale base imponibile, mentre il patrimonio pubblico costituisce una garanzia perché vendibile a soggetti privati. 156 Come però è stato fatto nel trattato di Maastricht. 157 Si veda per esempio W. Buiter, G. Corsetti e N. Rubini (1993), Excessive deficits: sense and nonsense in the Treaty

of Maastricht, Economic Policy, April; T. Jappelli (1988), Risparmio tassi di interesse e politica fiscale: l’esperienza

italiana, in La spirale del debito pubblico, a cura di A. Graziani, Bologna, Il Mulino. 158 Il limite teorico degli accordi di Maastricht è in realtà un valore molto vicino a quello reale presente in Germania e Francia al momento del Trattato. 159 O. Blanchard, J. Chouraqui, R. Hagemann e N. Sartor (1990), The Sustainability of Fiscal Policy: New Answers to

an Old Question, OECD Economic Studies, No. 15, Autumn.

90

sfocia per esempio in un lavoro di Pasinetti del 1998,160 in cui si sostiene la

possibilità che paesi con un livello del debito pubblico più elevato presentino

una soglia di sostenibilità, relativa al finanziamento della spesa pubblica in

deficit, più alta.

Pasinetti parte dalla definizione proposta da Blanchard: se, dato un certo

livello del rapporto debito pubblico/Pil,161 la dinamica del debito mantiene

costante o fa diminuire il rapporto stesso su un arco di tempo definito, allora il

debito pubblico è sostenibile.162

We may therefore start from the following definition of sustainability of the public debt: a public debt is sustainable when it satisfies the following condition: (D/Y)(t) ≤ (D/Y)(o), Where: D > 0: public debt of the year Y: annual Gross Domestic Product (GDP), in nominal terms t: time. This means that the public debt is defined as sustainable when the ratio D/Y decreases or, at least, remains constant. 163

Questo tipo di definizione conduce alla determinazione di un indicatore di

sostenibilità così strutturato:

S/Y ≥ (i - g) D/Y

In cui S è l’avanzo pubblico, Y è il reddito, i è il tasso d’interesse, g è il tasso di

crescita dell’economia e D è il debito pubblico. Dati il tasso d’interesse e il

tasso di crescita, livelli più elevati del rapporto debito/Pil accumulati in passato

permetterebbero, oggi, deficit più elevati in condizione di sostenibilità.

160 L. Pasinetti (1998), The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht “parameter”, Cambridge Journal of Economics, 22. 161 Preso arbitrariamente senza alcun contenuto teorico, infatti viene preso il livello del rapporto debito/Pil già esistente nell’economia. 162 Si veda paragrafo introduttivo di questa parte in cui è stata riportata la definizione di Blanchard. 163 Pasinetti (1998).

91

Questo particolare tipo di conclusione induce ad alcune riflessioni. Se il

deficit pubblico che è possibile accumulare ogni anno rispettando la soglia di

sostenibilità, è tanto maggiore, ceteris paribus, quanto maggiore il debito

pubblico accumulato, allora non è possibile indicare un’unica soglia di

sostenibilità sempre valida, venendo così a mancare quel carattere di generalità

che un indice di riferimento richiederebbe.

Il legame che si stabilisce tra deficit e debito pubblico in questa nozione di

sostenibilità potrebbe giustificarsi con l’idea che un’economia con un rapporto

debito/Pil elevato sia maggiormente pronta ad accumulare ulteriore deficit

pubblico senza incorrere in particolari problemi. In questa ottica perderebbe

tuttavia molto del suo senso il problema di un deficit pubblico “eccessivo”.

64. Fino a questo momento non si è analizzata l’eventualità della possibile

relazione esistente tra deficit pubblico e reddito. In particolare nelle versioni

originali dell’indicatore di sostenibilità in esame il tasso di crescita

dell’economia, così come il tasso d’interesse, sono trattati come dati

considerabili costanti nel tempo. Abbiamo visto come il rapporto debito

pubblico/Pil, quale indicatore di sostenibilità del debito, si riveli

concettualmente molto debole.

Se si ammettesse la dipendenza del livello del reddito dalla spesa aggregata,

l’aumento del deficit pubblico non determinerebbe necessariamente un

aumento del rapporto debito pubblico/Pil, e l’adeguatezza dell’indicatore in

esame sarebbe ancora meno solida.

Il rapporto tra debito pubblico e Pil rimane costante, se queste due grandezze

crescono nel tempo allo stesso saggio. Considerando che dal nostro punto di

vista la spesa pubblica è una componente della domanda aggregata, e che

quest’ultima influisce sul livello del reddito, il deficit pubblico determina, a

parità di altre condizioni, un aumento del reddito. Ora l’andamento del rapporto

92

in questione dipende dal saggio di crescita del reddito, generato, a parità di

altre condizioni, dalla spesa in deficit, perciò a priori non è possibile definire

l’andamento del rapporto stesso a seguito dell’aumento di una delle

componenti della domanda (la spesa pubblica).

Quindi in questo contesto teorico il rapporto debito pubblico/Pil perde senso

in termini di sostenibilità (tenendo in considerazione la relazione tra

accumulazione del debito pubblico e crescita del reddito).164

65. Come si è osservato fino a questo punto non sembra essere possibile

individuare un limite superiore al rapporto debito pubblico-Pil e neanche, più

in generale, alla dimensione del debito. Sostanzialmente non è stato possibile

individuare una frontiera di sostenibilità precisa, oltre la quale si possa ritenere

che il debito pubblico inneschi conseguenze negative per l’economia.

Gli argomenti portati fino a questo punto escludono la possibilità di desumere

la sostenibilità del debito pubblico dalla dimensione del rapporto debito/Pil. Per

valutare l’eventuale esistenza di un limite all’espansione del debito pubblico è

necessario analizzare piuttosto in quali condizioni potrebbe aversi un rifiuto dei

privati a finanziare il debito, sottoscrivendone i titoli. Il caso che il debito

pubblico non venga rinnovato è un evento raro, e ciò è ammesso anche in

lavori provenienti dalla letteratura mainstream, in cui la mancata sottoscrizione

164 Come detto il rapporto debito pubblico/Pil è trattato, nella sua versione originale, senza porre attenzione al rapporto esistente tra la crescita del reddito, il tasso d’interesse e il debito stesso. In realtà in letteratura esistono esempi, in cui il la relazione tra le grandezze indicate sopra acquista rilevanza. In particolare questo gruppo di indicatori alternativi si distinguono per la struttura teorica utilizzata. E’ possibile distinguere due filoni quello neoclassico (si veda per esempio H. Zee (1988), The sustainability and Optimality of Government Debt, IMF Staff Papers, vol. 35.) e quello Keynesiano (si veda per esempio J. Tobin e W. Buiter (1976), Long-Run Effects of Fiscal and Monetary Policy on Aggregate

Demand, Monetarism, Studies in Monetary Economics.). Nel primo l’economia cresce ad un tasso esogeno dato, gli agenti definiscono il proprio piano di consumi intertemporale, quindi un aumento del debito pubblico che sostituisce le imposte fa aumentare il consumo corrente, e il tasso d’interesse cresce per riportare in equilibrio il mercato dei titoli, spiazzando l’accumulazione di capitale. Nel secondo, invece, è possibile la presenza di disoccupazione nel breve periodo, i consumi dipendono dal reddito corrente, quindi sono possibili effetti positivi sul reddito per la riduzione dell’imposta fiscale; l’aumento dei tittoli del debito pubblico, però, fa aumentare il tasso d’interesse per collocare il debito emesso, e determina quindi spiazzamento. Sostanzialmente queste sono posizioni già viste quando ci siamo occupati dello spiazzamento. Ora è necessario dire che questi indicatori, così derivati, giungono a soglie per il rapporto debito pubblico/Pil differenti tra loro, rafforzando implicitamente l’idea che non è possibile individuare una soglia di sostenibilità. Inoltre quanto detto evidenzia come anche questa soglia dipenda dal contesto teorico di riferimento e non presenta quindi alcun carattere di generalità.

93

del debito pubblico viene trattata come una circostanza eccezionale. Oltre il

riconoscere la rarità del verificarsi di crisi di fiducia, le quali possono rendere

complicato il collocamento del debito, si riconosce anche l’esistenza di

strumenti di politica economica, atti a contrastare le eventuali crisi.

A third option, in addition to repudiating or raising taxes, is available to the government in the event of a confidence crisis: to consolidate the debt. “Consolidation” is defined as a compulsory transformation of short-term debt due for maturity into long-run debt. If the secondary market for public debt is perfectly efficient, a consolidation would cause a minor capital loss on the current holders of the debt. Thus, if private investors could be sure that the government would respond to the crisis by consolidating the debt rather than by reducing it, they would not “fear” the crisis. But this in turn would seem to make the occurrence of a crisis less likely.165

In questo brano si suggerisce il consolidamento del debito pubblico, al fine di

scongiurare i rischi legati a eventuali crisi di fiducia, tali da indurre i privati a

non sottoscrivere il rinnovo del debito. Ma il consolidamento del debito è una

misura che cade in quel complesso di azioni politico-istituzionali, a

disposizione dei governi, non definibili in termini di grandezze economiche

legate da specifiche relazioni funzionali. La possibilità e la misura di utilizzo di

tali strumenti vanno analizzate caso per caso, tenendo in considerazione le

particolari caratteristiche istituzionali del paese e della sua economia. Ciò

rafforza l’idea che non sia possibile riassumere attraverso un indicatore

sintetico, come può essere il rapporto debito pubblico-Pil, la volontà di

sottoscrivere del debito pubblico in scadenza.

66. Ora ci soffermiamo sulle eventuali difficoltà nel collocamento del debito

pubblico in un economia chiusa, per poi affrontare il caso più complesso

costituito da una economia aperta agli scambi con l’estero.

165 A. Alesina, A. Prati e G. Tabellini (1989), Public Confidence and Debt Management: A Model and a Case Study of

Italy, NBER Working Paper Series, No. 3135.

94

In un economia chiusa la ricchezza generata per effetto della spesa pubblica in

deficit può assumere solo la forma di titoli del debito pubblico o di moneta.

Quindi, l’eventualità che il settore privato non desideri rinnovare i titoli

pubblici in scadenza implica la creazione di una quantità di moneta

addizionale.

Qualora i privati non accettino di sottoscrivere titoli del debito pubblico

sarebbero costretti in aggregato a detenere una quantità maggiore di moneta,

anche se desiderassero detenere una maggiore quantità di beni reali.

In queste condizioni si avrebbe un eccesso di domanda di beni reali e un

eccesso di quantità di moneta detenuta rispetto a quella desiderata. In ogni

caso, sia che le variazioni di prezzo delle attività reali rendano la nuova

composizione della ricchezza desiderabile in breve tempo, sia che persista lo

squilibrio, il settore privato si troverà a detenere in forma di moneta la

ricchezza aggiuntiva.

In linea di principio il cambiamento della forma in cui si detiene la ricchezza

(il passaggio dal detenere titoli del debito a detenere moneta), non implica

effetti di carattere negativo per l’economia nel suo complesso.

L’aumento della moneta nel portafoglio dei privati potrebbe accendere un

processo inflazionistico,166 seppur non automatico. In ogni modo l’inflazione è

un evento che il governo può fronteggiare. Infatti può sia porre rimedio agli

effetti (per esempio un cambiamento nella distribuzione), sia agire sulle cause.

Proprio su questo secondo aspetto le azioni che può adottare il governo sono

fortemente dipendenti dal contesto politico ed istituzionale. Il governo può

adottare provvedimenti atti ad allungare la scadenza dei titoli, così che essi

necessiteranno di essere rifinanziati successivamente, in un momento

dell’economia in cui i privati siano maggiormente disposti a detenere titoli del

debito pubblico. Naturalmente un azione politica di questo genere è legata al

contesto sociale e giuridico in cui viene effettuata, sarebbe necessario

166 Posto che la maggiore liquidità induca ad aumenti delle attività reali, l’estensione del rialzo dei prezzi alle merci non sarebbe, in ogni modo, meccanica. Essa dipenderebbe dalle caratteristiche dei beni richiesti alternativi alla moneta.

95

analizzare prima di tutto la volontà di effettuare tale azione e i conflitti che ne

potrebbero scaturire.

In ogni caso è interessante notare che impedire la monetizzazione del debito è

un provvedimento che potrebbe andare nell’interesse stesso di chi possiede la

ricchezza, perché il processo inflazionistico che potrebbe scaturire dal non

rinnovo del debito sarebbe evitato, e di conseguenza sarebbe evitata la perdita

di valore delle attività non indicizzate possedute dai privati. Quindi si

impedirebbe ai privati di distruggere la ricchezza posseduta attraverso un

proprio comportamento.

Alla luce di queste considerazioni, nel contesto teorico da noi adottato in cui i

deficit pubblici aumentano la ricchezza del settore privato, l’unico fattore che

potrebbe spingere i privati a non sottoscrivere il rinnovo del debito sarebbe un

cambiamento delle condizioni dello stesso (consolidamento). Allo stesso modo

il mancato rinnovo del debito produrrebbe questo tipo di effetti. Quindi il

comportamento del settore privato non avrebbe altro fondamento che gli effetti

che esso stesso produrrebbe.167

67. In questa ultima parte introduciamo l’ipotesi che l’economia sia aperta

agli scambi con l’estero. L’apertura agli scambi implica la considerazione di un

altro settore, che denominiamo appunto settore estero, il quale si affianca ai

due fin qui considerati (il settore privato e il settore pubblico). Il settore estero

si differenzia dagli altri due per il fatto che al suo interno gli scambi avvengono

in valuta differente da quella interna.

68. Abbiamo sostenuto fino a questo punto che la spesa pubblica in deficit

genera più elevati livelli di reddito e nuova ricchezza. È necessario considerare

167Per questa circolarità logica si veda Ciccone (2002).

96

cosa accade, quando l’economia è aperta e parte della ricchezza aggiuntiva

generata della spesa pubblica va a costituirsi nelle mani di soggetti esteri. È

lecito attendersi che i soggetti esteri vogliano detenere la ricchezza in valuta

diversa da quella dell’economia in considerazione. Per questo motivo il settore

pubblico sarebbe costretto a cedere parte delle proprie riserve di valuta estera.

La diminuzione delle riserve valutarie del settore pubblico costituisce un

impoverimento per l’economia nel suo complesso. Per spiegare meglio è

possibile immaginare che la ricchezza detenuta all’estero sia costituita

inizialmente da moneta che il settore pubblico ha emesso per finanziare la sua

spesa, e che successivamente il settore estero ne chieda la conversione in valuta

estera. In questo caso sembrerebbe che il deficit pubblico sia di fatto finanziato

attraverso la cessione di riserve valutarie.

In realtà la consequenzialità deficit pubblico-perdita di riserve valutarie è solo

apparente. La diminuzione delle riserve valutarie è determinata da un

disavanzo commerciale (eccesso di importazioni) dovuto al più elevato livello

di attività interno indotto dalla spesa pubblica in deficit. Il disavanzo

commerciale e la conseguente perdita di riserve valutarie non sono connessi

direttamente al deficit pubblico. Infatti si avrebbe esattamente lo stesso effetto

sulle riserve valutarie per un aumento di una qualsiasi delle componenti della

domanda interna (ad esempio si avrebbe lo stesso effetto se aumentassero gli

investimenti privati, mantenendo il pareggio di bilancio pubblico). In sostanza

la riduzione delle riserve valutarie è dato da un aumento del differenziale tra

importazioni ed esportazioni.

69. Si è appena considerato il caso in cui il settore estero preferisce detenere

la ricchezza aggiuntiva, che si è formata al suo interno per merito della spesa

pubblica in deficit, in valuta diversa da quella dell’economia di riferimento.

Nel caso, invece, il settore estero accetti di detenere la ricchezza in forma di

97

titoli del debito pubblico, la situazione è del tutto analoga a quella descritta nel

caso di economia chiusa. Spesso, però, viene avanzata un’opinione diversa

ossia esisterebbe una differenza tra debito pubblico collocato all’interno e

debito pubblico collocato all’estero. In quanto il primo non costituirebbe per il

complesso dell’economia un debito, mentre il secondo costituirebbe un debito.

Il considerare diversamente il debito pubblico detenuto all’interno da quello

detenuto dal settore estero, nasce da una lettura non chiara di cosa accade nel

momento in cui soggetti esteri sottoscrivono titoli del debito pubblico. Infatti a

fronte della passività per l’economia, costituita appunto dal debito sottoscritto

all’estero, esiste un’attività di valore corrispondente, costituita dall’ingresso di

valuta estera. Quindi questa costituisce una operazione (come in generale ogni

movimento di capitale) in cui le attività o passività nette dell’economia non

variano. Analogamente per quanto riguarda gli interessi pagati sul debito

pubblico al settore estero, essi potrebbero essere compensati dal rendimento di

attività estere acquistabili grazie all’afflusso di valuta avvenuta al momento del

collocamento del debito pubblico all’estero.168

70. È stato chiarito che in una economia chiusa la ricchezza generata dai

deficit pubblici può prendere esclusivamente forma di titoli del debito o

moneta.

Vediamo cosa potrebbe accadere in economia aperta in cui i privati desiderino

detenere la ricchezza in attività estere. Ciò comporterebbe che il settore privato,

al momento della scadenza dei titoli del debito pubblico posseduti, ne chieda la

monetizzazione. Successivamente cambierebbe questo ammontare di moneta in

attività estere, riducendo così le riserve valutarie.

Naturalmente la preferenza per attività estere, rispetto a quelle interne è

un’evenienza sempre possibile, ed inoltre ha il medesimo effetto sulle riserve

168 Per questa parte si veda R. Ciccone (2002).

98

valutarie detenute dal settore pubblico. Però tale fenomeno, nel caso di assenza

di debito pubblico, sarebbe limitato alla quota di ricchezza privata, costituita da

base monetaria. Esso sarebbe quindi sotto controllo, nella misura in cui le

autorità monetarie siano in grado di regolare la base monetaria.

In questo contesto una monetizzazione del debito, causata dal mancato

rinnovo alla scadenza, e la conseguente perdita di controllo sulla quantità di

moneta in circolazione, potrebbe alimentare una richiesta di attività estere che

andrebbe ad intaccare le riserve valutarie, il debito pubblico potrebbe allora

costituire una minaccia alla convertibilità della valuta nazionale in valuta

estera.169

Anche in questo caso però, pur potendosi individuare un potenziale problema

per l’economia, non sembra possibile poter indicare un limite superiore

all’espansione del debito pubblico, perché non è possibile stabilire un nesso di

causalità preciso tra crisi valutarie e dimensione del debito pubblico.

In realtà l’eventualità che si verifichi una crisi valutaria dipende da vari fattori,

ed inoltre esistono, come accennato in precedenza, strumenti atti a ridurre sia la

possibilità del verificarsi di una crisi che gli effetti della crisi stessa.170

In questa discussione si è assunto l’assenza di vincoli al movimento

internazionale di capitali. Tale condizione in realtà non è unanimemente

accettata. Infatti esiste una vasta letteratura che propone vincoli e istituzioni di

controllo che limitino il movimento internazionale di capitale.171

169 La valuta interna in questo caso è un debito per il settore pubblico, il quale ne deve garantire la conversione. 170 Per quanto riguarda l’insorgere di crisi valutarie è rilevante la posizione di debito che l’economia ha con l’estero. Inoltre è necessario analizzare l’ampiezza delle riserve valutarie che un’economia possiede e le linee di credito di cui essa può avvalersi. Esiste una ampia letteratura empirica che lega questi fattori all’insorgere di crisi valutarie (M. Obstfeld (1995), International Currency Experience: New Lessons and Lessons Releated, in Brooking Papers on Economic Activity; J. Frenkel e A. Rose (1996), Currency Crashes in emergine Markets: An Empirical Treatment, Journal of International Economics, vol. 31.) Inoltre è centrale la struttura per scadenze del debito pubblico. Infatti scadenze diluite nel tempo affievoliscono le possibilità di crisi (A. Alesina, A. Prati e G. Tabellini (1989), Public

Confidence and Debt Management: A Model and a Case Study of Italy, NBER Working Paper Series, No. 3135; si veda anche Linee guida della gestione del debito pubblico 2007, Ministero dell’Economia e delle Finanze Dipartimento del Tesoro ). 171 Si veda per esemipo: P. Davidson (2003), The future of the international financial system, Conference on the Future of Economics at Cambridge University; B. Greenwald e J. Stiglitz (1987), Keynesian, New Keynesian, and New

Classical Economics, in Oxford Economic Papers; J. Stiglitz (2000), Capital Market Liberalization, Economic Growth,

and Instability, in World Development; J. Tobin (2000), Financial Globalization, World Development.

99

Il nostro ragionamento porta in definitiva ad affermare che, la spesa pubblica

finanziata in deficit procura sicuramente dei benefici per l’economia. Inoltre,

pur ammettendo la possibilità di crisi valutarie determinate dalla

monetizzazione del debito pubblico in un’economia aperta sotto determinate

condizioni istituzionali, non è stato possibile individuare limiti precisi

all’espansione del debito pubblico, oltre i quali si innescano necessariamente

conseguenze negative per l’economia. Quindi si afferma la possibilità di

utilizzare lo strumento della spesa in deficit per l’espansione del reddito,

nell’ipotesi naturalmente che quest’ultimo sia limitato dal lato della domanda.

Da un’ottica opposta è possibile dire che la rinuncia a questo strumento di

politica economica, significa sostanzialmente rinunciare all’opportunità di

crescita del reddito e dell’occupazione.

100

Appendice

Rapporto Deficit/Pil e investimenti fissi lordi

In questa appendice ci occupiamo di valutare alcuni dati statistici per valutare

se il deficit pubblico effettivamente spiazzi gli investimenti privati. Ci

riferiamo, in particolare, a dati relativi all’Italia nel periodo 1981-2007.

Anno Pil Invest. Fissi Lordi

Invest. Fissi Lordi/Pil Deficit/Pil

1981 205.100 51.195 24,96% 10,9%

1982 244.640 60.475 24,72% 10,0%

1983 290.914 68.595 23,58% 10,1%

1984 345.634 79.583 23,03% 11,5%

1985 393.543 87.777 22,30% 12,4%

1986 441.937 98.374 22,26% 12,0%

1987 490.193 107.062 21,84% 11,5%

1988 541.447 119.778 22,12% 11,0%

1989 597.021 131.992 22,11% 11,4%

1990 647.035 145.110 22,43% 11,4%

1991 712.109 156.710 22,01% 11,4%

1992 771.725 163.549 21,19% 10,4%

1993 798.526 150.575 18,86% 10,0%

1994 847.614 156.993 18,52% 9,1%

1995 902.521 173.587 19,23% 7,4%

1996 957.716 184.794 19,30% 7,0%

1997 1.022.571 193.187 18,89% 2,7%

1998 1.063.463 206.659 19,43% 2,8%

1999 1.107.342 218.759 19,76% 1,7%

2000 1.168.717 235.160 20,12% 0,8%

2001 1.212.713 248.563 20,50% 3,1%

2002 1.254.318 263.267 20,99% 2,9%

2003 1.295.007 267.577 20,66% 3,4%

2004 1.355.809 277.900 20,50% 3,4%

2005 1.399.242 287.413 20,54% 4,1%

2006 1.454.674 303.186 20,84% 3,4%

2007 1.501.540 315.002 20,98% 1,9%

Tabella 2

101

Nella seconda e nella terza colonna sono indicati rispettivamente il Pil e gli

investimenti fissi lordi.172 Nella quarta colonna è indicata la percentuale degli

investimenti sul reddito, mentre nella quinta il rapporto Deficit/Pil.173

Davanti all’aumento del disavanzo pubblico, sempre se vale il fenomeno del

crowding out, si dovrebbe verificare una diminuzione della quota di reddito

utilizzata per gli investimenti privati, a parità di altre condizioni. Nella tabella 2

non è possibile riscontrare tale regolarità, si introduce, quindi, un elemento che

spinge a dubitare dell’esistenza di tale fenomeno. Questa considerazione è

tuttavia parziale perché non vengono prese in considerazione gli altri fattori che

potrebbero influenzare la quota degli investimenti. Si nota comunque che negli

anni considerati tale quota è molto stabile, ciò porta a pensare che gli

investimenti siano determinati da fattori relativamente invariabili nel tempo. Mi

riferisco in particolare a determinate strutture socio-istituzionali che

caratterizzano un’economia.

I dati, sembrerebbero essere compatibili, o per lo meno non escludono la

possibilità che sia la spesa pubblica ad influenzare il reddito, e attraverso il

reddito gli investimenti.

172 Fonte Istat. I valori sono a prezzi relativi all’anno precedente. 173 Rapporto Deficit/Pil fonte Istat. Esistono due versioni di questo rapporto, qui si considera quella valida per le procedura di deficit eccessivo dell’UE.

102

0,0%

5,0%

10,0%

15,0%

20,0%

25,0%

30,0%

1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Deficit/Pil

% Invest su Pil

Grafico 2

Collocamento titoli del debito pubblico

Nel quinto capitolo di questo lavoro si è chiarito come il problema della

sostenibilità debba essere trattato in termini di disponibilità del settore privato e

estero a sottoscrivere titoli del debito pubblico. Per quanto riguarda il debito

pubblico italiano allo stato attuale non sembrano esserci problemi di

finanziamento del debito. Nella Tabella 3 sono riportati i collocamenti dei BTP

(che costituiscono la quota più importante dei titoli del debito pubblico)

nell’ultimo trimestre del 2008.174 Si può notare che la domanda di titoli del

debito pubblico eccede regolarmente l’offerta, non evidenziando quindi alcun

problema per il collocamento.

174 Fonte Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento del Tesoro.

103

Dic-08 dic-08 bis nov-08 ott-08 tot.

BTP 3anni imp offerto 1.953,96 1.420,24 3.374,20

imp richiesto 3.161,96 2.405,74 5.567,70

Dom. Sodd. 62% 59% 61%

BTP 5anni imp offerto 999,23 999,23

imp richiesto 1.830,53 1.830,53

Dom. Sodd. 55% 55%

BTP 10anni imp offerto 1447,064 3000 2075 6522,064

imp richiesto 2263,364 4044,358 3155,673 9463,395

Dom. Sodd. 64% 74% 66% 69%

BTP 15anni imp offerto 1402,805 1402,805

imp richiesto 2394,055 2394,055

Dom. Sodd. 59% 59%

BTP 30anni imp offerto 1416,5 1416,5

imp richiesto 2177,5 2177,5

Dom. Sodd. 65% 65%

Tabella 3

Si nota in particolare che viene soddisfatta circa il 60% della domanda.

La Tabella 3 si riferisce al collocamento di titoli per l’ultimo trimestre del

2008, quindi a dati estremamente parziali. Nella Tabella 4, invece, ci riferiamo,

seppur per una sola tipologia di titoli, a tutte le emissioni dal 2004 al 2008.175 Si

nota che i risultati rimangono essenzialmente gli stessi, rivelando una

sostanziale assenza di problemi nel collocamento dei titoli.

2004 2005 2006 2007 2008

BTP 10anni imp offerto 32750 29000 29000 28000 34653

imp richiesto 61734 49072 46655 40822 47880

Dom. Sodd. 53% 59% 62% 68% 72%

Tabella 4

175 Fonte Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento del Tesoro.

104

Bibliografia

AA. VV. (2007), Linee guida della gestione del debito pubblico 2007, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento del Tesoro. N. Acocella (1999), Fondamenti di Politica Economica, Carocci. A. Alesina, A. Prati e G. Tabellini (1989), Public Confidence and

Debt Management: A Model and a Case Study of Italy, NBER Working Paper Series, No. 3135. A. Alesina e R. Perotti (1995), The Political Economy of Budge

Deficit, Brooking Papers on Economic Activity. A. Alesina e R. Perotti (1994), The Political Economy of Budget

Deficit, NBER Working Paper Series, No. 4637, February. A. Alesina e H. Rosenthal (1995), Partisan Politics, Divided

Government, and the Economy, Cambridge, Cambridge University Press A. Alesina e G. Tabellini (1990), A positive Theory of Fiscal Deficits

and Government Debt, The Review of Economic Studies, vol. 57. M. Artis e M. Marcellino (1998), Fiscal Solvency and Fiscal

Forecasting in Europe, CEPR Discussion Paper, No. 1836, March. T. Aspromourgos (2006), Public Debt Sustainability and Alternative

Theories of Interest, Working Paper. A. Bagnai (2004), Keynesian and Neoclassical Fiscal Sustainability

Indicators, with Applications to EMU Member Countries, Public Economics 0411005, EconWPA. A. Bagnai (1996), La sostenibilità del debito pubblico: definizioni e

criteri di verifica empirica, Economia Politica, XIII, No. 1. F. Balassone, D. Franco e S. Zotteri (2004), Public Debt: A Survey of

Policy Issues, Public Debt, Banca D’Italia. M. Baranzini (2005), La Teoria del Ciclo Vitale del Risparmio di

Modigliani Ciquant’anni Dopo, Moneta e Credito, giugno-settembre.

105

R. Barro e D. Gordon (1983), Rules, Discretion and Reputation in a

Model of Monetary Policy, Journal of Monetary Economics, 12. R. Barro (1989), The Ricardian Approach to Budget Deficits, Journal of Economic Perspectives, vol. 3, No. 2. R. Barro (1989), The Neoclassical Approach to Fiscal Policy, in L.C. Kaounides e G.E. Wood (1992), Debt and Deficits, Elgar Publishing Limited, vol. III. R. Barro (1979), On the Determination of Public Debt, Journal of Political Economy, vol. 87, No. 5. R. Barro (1974), Are Government Bonds Net Wealth?, in The Journal

of political Economy, vol.82, No. 6. D. Bernheim e K. Bagwell (1988), Is Everything Neutral?, Journal of Political Economy. D. Bernheim (1989), A Neoclassical Perspective on Budget Deficits, Journal of Economic Perspectives, Spring O. Blanchard, J. Chouraqui, R. Hagemann e N. Sartor (1990), The

Sustainability of Fiscal Policy: New Answers to an Old Question, OECD Economic Studies, No. 15, Autumn. O. Blanchard (1984), Current and Anticipated Deficits, Interest Rates

and Economic Activity, European Economic Review. S. Blinder e R. Solow (1973), Does Fiscal policy Matter?, Journal of Public Economics, vol. 2. A. Bravo Silvestre (1999), Intertemporal Sustainability of Policies:

Some Tests for European Countries, European Journal of Political Economy, vol. 18. J. Buchanan (1976), Barro on the Ricardian Equivalence Theorem, The Journal of Political Economy, vol. 84, No. 2. J. Buchanan (1960), “La Scienza Delle Finanze”:The Italian

Tradition in Fiscal Theory, in Fiscal Theory and Political Economy: Selected Essays, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 24-74.

106

J. Buchanan (1958), Public Principles of Public Debt: A Defence and

Restatement, Homewood Illinois, rist. L.K. Kaounides e E.G. Wood (1992), Debt and Deficits, Edward Elgar Publishing Limited, Aldershot, vol. II. W. Buiter, G. Corsetti e N. Rubini (1993), Excessive deficits: sense

and nonsense in the Treaty of Maastricht, Economic Policy, April. W. Buiter e J. Tobin (1979), Debt Neutrality: A Brief Review of

Doctrine and Evidence, Cowler Foundation Paper 505. W. Buiter e J. Tobin (1976), Long-Run Effects of Fiscal and Monetary

Policy on Aggregate Demand, Monetarism, Studies in Monetary Economics. W. Buiter (1985), A guide to public sector debt and deficits, Economic Policy, November. R. Ciccone (2002), Debito Pubblico, Domanda Aggregata e

Accumulazione, Aracne, Roma. R. Ciccone (1986), Accumulation and Capacity Utilization: Some

Critical Considerations on Joan Robinson’s Theory of Distribution, Political Economy, vol.2. N.Chalk e R. Hemming (2000), Assessing Sustainability in Theory

and Practise, IMF Working Paper, No. 81. S. Collignon e S. Mundschenk (1999), The Sustainability of Public

Debt in Europe, Economia Internazionale, Numero Speciale, Supplemento al Vol. LII, No. 1, Febbraio. G. Corsetti e N. Roubini (1991), Fiscal Deficits, Public Debt, and

Government Solvency: Evidence from OECD Countries, Journal of Japanese and International Economics, vol. 5 P. Davidson (2003), The future of the international financial system, Conference on the Future of Economics at Cambridge University. A. De Viti De Marco (1893), La Pressione Tributaria dell’Imposta e

del Prestito, Giornale degli Economisti, I. P. Diamond (1965), National Debt in a Neoclassical Growth Model, The American Economic Review, vol. 55, No. 5.

107

A. Dixit (1996) The Making of Economic Policy: A Transaction-Cost

Politics Perspective, Cambridge MA, MIT Press. E. Domar (1944), The “Burden of the Debt” and the National Income,

in American Economic Review, vol. XXXIV. A. Drazen (2000), Political Economy in Macroeconomics, Princeton, NJ: Princeton University Press. R. Eisner (1989), Budget Deficits: Rhetoric and Reality, Journal of Economic Perspectives, vol. 3, No. 2. W. Easterly, C.A. Rodrígez, e K. Schmidt-Hebbel (1994), Public

Sector Deficits and Macroeconomics Performance, The World Bank, Washington. M. Feldestein (1985), Debt and Taxes in the Theory of Public

Finance, NBER Working Paper No. W1433. A. Fossati (2000), Economia Pubblica, FrancoAngeli. J.A. Frenkel e A. Razin (1996), Fiscal Policies and Growth in the

World Economy, MIT Press, Cambridge. J.A. Frenkel e A. Rose (1996), Currency Crashes in emergine

Markets: An Empirical Treatment, Journal of International Economics, vol. 31 B. Friedman (1978), Crowding Out or Crowding In? Economic

Consequences of Financing Government Deficits, Brooking Papers on Economic Activity, vol. 1978, No. 3. M. Friedman (1968), The Role of Monetary Policy, American Econmic Review, March. E. Galli e F. Padovano (1997), A Comparative Test of Alternative

Theories of the Determinants of Public Deficits, Working Paper, Dipartimento di Istituzioni Politiche e Scienze Sociali, Università ROMA TRE. P. Garegnani e A. Palumbo (1998), Domanda aggregata e

accumulazione di capitale", Saggi di economia politica, (a cura di) M.C. Marcuzzo e A. Roncaglia, Bologna, CLUEB, 1998.

108

P. Garegnani (1992), Some Notes for an Analysis of Accumulation, Beyond the Steady-State, a cura di J. Halevi, D. Laibman, E.J. Nell, Basingstoke&London, Macmillan. P.Garegnani (1981), Marx e gli Economisti Classici, Einaudi Paperbacks, Torino. B. Greenwald e J. Stiglitz (1987), Keynesian, New Keynesian, and

New Classical Economics, Oxford Economic Papers. B. Griziotti (1917), La Diversa Pressione Tributaria del Prestito e

dell’Imposta, Giornale degli Economisti, Ristampato in Studi di

Scienza delle Finanze, 1956, II, Milano. J. Hamilton e M. Flavin (1986), On the Limitations of Government

Borrowing: A Framework for Empirical Testing, in The American Economic Review, vol. 76, No. 4. A. Hansen e G. Greer (1942), The Federal Debt and the Future: An

Unflinching Look at the Facts and Prospects, in L.C. Kaounides e G.E. Wood (1992), Debt and Deficits, Elgar Publishing Limited, vol. II. J.R. Hicks (1937), Mr Keynes and the ‘Classics’: a suggested

interpretation, Econometrica, vol. 5. D. Hume (1752), On Public Credit, in Writing of Economics, Eugene Rotwein (edited by), Freeport, New York, 1972 L.C. Kaounides e G.E. Wood (1992), Debt and Deficits, Elgar Publishing Limited. J. M. Keynes (1963), The general Theory of Employment, Interest and

Money, in The Collected Writings of J. M. Keynes, vol. VII, Macmillan, Londra, 1973. L.A. Kochin (1974), Are Future Taxes Anticipated by Consumers?, Journal of Money, Credit and Banking, August. L. Kotlikoff, T. Persson e L. Svensson (1988), Social Contracts as

Assets: A possible Solution to Time-Consistency Problem, American Economic Review, 78.

109

L. Kotlikoff e L. Summers (1981), The Role of Intergenerational

Transfers in Aggregate Capital Accumulation, Journal of Political Economy. F. Kydland e E. Prescott (1977), Rules rather than Discretion: The

inconsistency of Optimal plans, Journal of Political Economy, 85. T. Jappelli (1988), Risparmio tassi di interesse e politica fiscale:

l’esperienza italiana, in La spirale del debito pubblico, a cura di A. Graziani, Bologna, Il Mulino. A. Lerner (1943), Functional Finance and the Federal Debt, Social Research, vol. 10. R.C. Lipsey (1960), The Relationship Between Unemployment and the

Role of Change of Money Wage Rates in the U.K. 1862-1957: A

Further Analysis, Economica, febbraio. R. Lucas e N. Stokey (1983), Optimal Fiscal and Monetary Policy in

Economy without Capital, Journal of Monetary Economics, 12 A. Marano (1996), La Dinamica del Debito Pubblico. Un’Analisi del

Caso Italiano, 1980-1986, Liuc paper, No. 33. K. Marx (1857-58), Lineamenti fondamentali della critica

dell’Economia Politica, Enzo Grilli (edited by), La Nuova Italia, Firenze, 1968. J.E: Meade (1958), Is the National Debt a Burden?, Oxford Economic Papers, New Series, 11, in L.C. Kaounides e G.E. Wood (1992), Debt

and Deficits, Elgar Publishing Limited, vol. II. J.F: Melon (1761), Essai Politique sur le Commerce, Nouvelle Édition. F. Modigliani e F.R. Brumberg (1954), Utility Analysis and the

Consuption Function: An Interpretation of Cross-Section Data, in Post-Keynesian Economics, a cura di K. Kurihara, New Brunswick, N.J, Ruters University Press. F. Modigliani (1988), The Role of Intergenerational Transfers and the

Life Cycle Saving in the Accumulation of Wealth, Journal of Economic Perspectives.

110

F. Modigliani, (1987), The Economics of Public Deficits, in A. Razin e E. Sadka (edited by) Economic Policy in Theory and Practice, The Macmillan Press, London. F. Modigliani (1961), Long-Run Implications of Alternative Fiscal

Police and the Burden of the National Debt, The Economic Journal, vol.71, No. 284. R. Musgrave (1959), Classical Theory of Public Debt, in The Theory

of Public Finance, New York: McGraw-Hill; M. Obstfeld (1995), International Currency Experience: New Lessons

and Lessons Releated, Brooking Papers on Economic Activity. L. Pasinetti (1998), The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP

Maastricht “parameter”, Cambridge Journal of Economics, 22. M. Persson, T. Persson e L. Svensson (1987), Time Consistency of

Fiscal and Monetary Policy, Econometrica, 55. T. Persson, G. Roland e G. Tabellini (1996), Separation of Powers

and Accountability: Towards a Formal Approach to Comparative

Politics, IGIER Working Paper, 100. T. Persson e L. Svensson (1989), Why a Stubborn Conservative Would

Run a Deficit: Policy with Time Inconsistent Preferences, Quarterly Journal of Economics, 104. T. Persson e G. Tabellini (2000), Political Economics, MIT Press. T. Persson e G. Tabellini (1997), Political Economics and

Macroeconomic Policy, NBER Working Paper Series, 6329. T. Perssson e G. Tabellini (1996), Politica Macroeconomica, NIS. A.W. Phillips (1958), The Relation Between Unemployment and the

Rate of Change of Money Wage Rates in the United Kingdom, Econometrica, Novembre. A.C. Pigou (1929), A Study in Public Finance, 2nd revised edition, London, Macmillan. F.P. Ramsey (1927), A Contribution to the Theory of Taxation, The Economic Journal, Vol. 37, No. 145.

111

P. Ranuzzi (1988), Il Debito Pubblico in Italia 1861-1987, Relazione del Direttore Generale alla Commissione parlamentare di Vigilanza, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma. D. Ricardo (1821), On the Principles of Political Economy and

Taxation, trad. It. Sui i Principii dell’Economia Politica e delle

Tassazione, Isedi, Milano, 1976. C. Rogers (1987), A Simple Rule for Managing the Maturity Structure

of Government Debt, Mimeo, Georgetown University S. Rossi e G. Salvemini (1987), Alcune considerazioni analitiche ed

empiriche in tema di sostenibilità della crescita del debito pubblico, Rivista di politica economica, vol. 77, novembre. M. Salvemini (1992), Le Politiche del debito pubblico, Laterza, Bari. A. Smith (1776), An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth

of Nations, trad. It. La ricchezza delle nazioni, Newton Compton editori, Roma, 1976, traduzione di Ada Bonfirraro. S. Sayer (2004), Monetary, Financial and Macroeconomic Adjustment

Policies: An Overview, Journal of Economic Surveys, Blackwell, Oxford. S. Sayer (2000), Issue in New Political Economy: an Overview, Journal of Economic Surveys, vol. 14, No. 5. L. Spaventa (1987), The Growth of Public Debt – Sustainability,

Fiscal Rules and Monetary Rules, IMF Staff Paper, vol. 34, No. 2. P. Sraffa (1960), Produzione di Merci a Mezzo di Merci, Einaudi, Torino. J. Stiglitz (2000), Capital Market Liberalization, Economic Growth,

and Instability, World Development. J. Tobin e W. Buiter (1976), Long-run Effects of Fiscal and Monetary

Policy on Aggregate Demand, Cowles Foundation Paper 437a. J. Tobin (2000), Financial Globalization, World Development.

112

J. Tobin (1982), Problemi di Teoria Economica Contemporanea, con prefazione di Federico Caffè, Libri del tempo Laterza. J. Tobin (1980), Government Deficits and Capital Accumulation, in J. Tobin, Asset Accumulation and Economic Activity, Oxford, Basil Blackwell. J.Tobin (1979), Deficit Spending and Crowding Out in Shorter and

Longer Runs, Economic Theory for Economic Efficiency: Essay in Honor of A.P. Lerner, M.I.T. Press R. Wray (2007), Demand Constrains and Big Government, The Levy Economics Institute, Working papers No. 488. H. Zee (1988), The sustainability and Optimality of Government Debt, IMF Staff Papers, vol. 35.