Edgar Morin e il problema della complessità: ecologia, etica ...nell’ambito dell’etica...

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1 Indice Edgar Morin e il problema della complessità: ecologia, etica ed educazione. Introduzione pag. 3 Capitolo I: Ecologia e complessità Premessa pag. 16 Paragrafo I.1 Perché l’ecologia? pag. 43 Paragrafo I.2 Dopo l’ecologia: un nuovo discorso sul metodo Paragrafo I.2.1 pag. 58 Paragrafo I.2.2 pag. 79 Paragrafo I.3 Il sapere dopo la complessità pag.100 Capitolo II: Etica ed educazione Paragrafo II.1 L’etica dell’identità umana pag. 117 Paragrafo II. 2 Pensare ecologicamente: l’educazione nell’era planetaria pag. 136 Conclusioni pag. 154 Appendice pag. 163 Bibliografia pag. 181 Sitografia pag. 186

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Indice

Edgar Morin e il problema della complessità:

ecologia, etica ed educazione.

Introduzione pag. 3

Capitolo I: Ecologia e complessità

Premessa pag. 16

Paragrafo I.1 Perché l’ecologia? pag. 43

Paragrafo I.2 Dopo l’ecologia: un nuovo discorso sul metodo Paragrafo I.2.1 pag. 58 Paragrafo I.2.2 pag. 79

Paragrafo I.3 Il sapere dopo la complessità pag.100

Capitolo II: Etica ed educazione

Paragrafo II.1 L’etica dell’identità umana pag. 117

Paragrafo II. 2 Pensare ecologicamente: l’educazione nell’era planetaria pag. 136 Conclusioni pag. 154

Appendice pag. 163

Bibliografia pag. 181

Sitografia pag. 186

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“I filosofi hanno soltanto diversamente

interpretato il mondo

ma si tratta di trasformarlo”. K. Marx

“I debiti economici potranno

dominare i titoli dei quotidiani

ma i debiti ambientali

domineranno il nostro futuro”.

Lester Brown

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Introduzione

“Mai prima d’ora nella storia dell’umanità, il nostro destino

comune di esseri umani ci obbliga a cercare un nuovo inizio”1. E’

quanto viene affermato nell’ Earth Charter Campaign 2000 in cui si

sostiene altresì che:

ci troviamo a una svolta critica nella storia del Pianeta, in un

momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro. Man mano che il

mondo diventa sempre più interdipendente e fragile, il futuro riserva allo

stesso tempo grandi pericoli e grandi opportunità. Per progredire dobbiamo                                                             1  Carta della Terra tratta da “Assisi Nature Council”. Un’ iniziativa a livello internazionale ha dato vita a tale Carta che si configura come la sintesi di valori, principi e aspirazioni che riflettono le consultazioni globali condotte durante un lungo periodo. Essa è basata su rigorose analisi scientifiche, leggi internazionali e visioni filosofiche e religiose. Il Presidente dell’Assisi Nature Council, Maria Luisa Cohen, ha fatto parte nella preparazione della Carta della Terra e l’ha introdotta in Italia nel 1999, ad Assisi, con una cerimonia intitolata: “Gli Italiani e la Carta della Terra: un nuovo stile di vita per il Nuovo Millennio”; A new lifestyle for a new Millennium http://www.assisinc.ch/i/programs/programs.html  

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riconoscere che, pur tra tanta straordinaria diversità di culture e forme di

vita, siamo un’unica famiglia umana e un’unica comunità terrestre con un

destino comune. Dobbiamo unirci per costruire una società globale

sostenibile, fondata sul rispetto per la natura, i diritti umani universali, la

giustizia economica e una cultura di pace. Per raggiungere questo obiettivo

è imperativo che noi tutti, popoli della Terra, dichiariamo le nostre

responsabilità reciproche e nei confronti della comunità più grande degli

esseri viventi e delle generazioni future2.

Ai nostri occhi, di cittadini del mondo globale e globalizzato,

niente dovrebbe essere più palese di tali asserzioni; eppure è come se

qualcosa nel nostro modo di analizzare, interpretare, spiegare ci

impedisse di guardare al fondo delle cose, alla verità che il reale ci

mostra e di conseguenza ci rendesse ciechi di fronte all’evidente,

tangibile e consistente stato delle cose.

Non di meno, si constata quotidianamente un’opposizione

constante tra la Natura da una parte e l’Uomo dall’altra; un continuo

oscillare tra necessità e schiavitù, tra spinta all’indipendenza e

impossibilità di non dipendenza da parte dell’uomo nei confronti della

natura, tra una natura considerata minacciosa per gli esseri umani,

quindi inviolabile, e un bisogno perpetuo delle sue risorse per la

sopravvivenza umana, e dunque al suo sfruttamento incontrollato.

                                                            2  Carta della Terra, cit. 

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La situazione attuale può essere così schematizzata:

In epoca contemporanea, sul continuum di questa seconda

posizione, in cui l’essere umano si configura come unico dominatore,

l’uomo si considera addirittura estraneo alla natura poiché le

innovazioni tecnologiche degli ultimi 50 anni lo hanno illusoriamente

sollevato dal rango di animale. Senza nulla togliere all’importanza e

alla genialità di scoperte e innovazioni scientifiche di ogni epoca e

genere ciò che in questa sede si vuol portare alla luce è quanto in

verità sia l’ambiente, o meglio la relazione tra habitat e uomo, a

rivestire un ruolo decisivo per ciò che l’uomo, macchina naturalmente

perfetta, è riuscito a porre in essere.

E’ possibile apportare un esempio chiarificatore: l’energia

utilizzata per attivare una qualunque tecnologia o dispositivo

artificiale proviene necessariamente da un substrato naturale; ciò sta a

La minaccia da parte della Natura nei confronti dell’uomo

 

Si trasforma in sacralità:

l’uomo si integra alla natura, utilizzandola per la sua sopravvivenza

ma rispettandola con devozione.

Si trasforma in dominio: da parte dell’ uomo sulla natura

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dimostrazione di quanto l’uomo non sia affatto svincolato dalla natura

e dai suoi elementi costitutivi ma piuttosto del fatto che egli ha

modificato i suoi meccanismi di relazione con l’ambiente naturale.

E’ questo un punto d’intersezione fondamentale e

indispensabile per lo sviluppo successivo del discorso qui appena agli

esordi, per alcuni motivi capitali e tra loro strettamente interconnessi:

• si annuncia oggi la necessità di un nuovo sapere, di una nuova

modalità conoscitiva in grado di superare le dicotomie

inaugurate dal pensiero moderno, soprattutto nella figura di

Descartes e che tengono separati soggetto/oggetto,

mente/cervello, natura/uomo.

• si rende altresì necessario ricollocare l’essere umano nell’

ambiente che gli è proprio; così da rendere evidente

l’impossibilità di un’etica, di una politica, di un antropologia, di

una scienza, nel senso più ampio del termine, senza una

indagine delle influenze reciproche e retroagenti di ogni azione

umana.

Soffermandosi sull’aspetto etico, senza aver la pretesa di

isolarlo in un excursus, è da sottolineare quanto sostiene Aldo

Leopold che a tal proposito scrive: “che la Terra sia una comunità

è l’idea fondamentale dell’ ecologia ma che debba essere amata e

rispettata è un’estensione dell’etica”3. Sulla scia delle sue parole è

possibile asserire che la Terra non dovrebbe essere considerata un                                                             3 A. Leopold, Almanacco di un mondo semplice, Red, Como, 1997 , p. 188 

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bene appartenente al genere umano e di cui questi possa abusare

indiscriminatamente quanto piuttosto una comunità alla quale

l’umanità ontologicamente appartiene.

Anche se Platone e Aristotele (attraverso Kant) sono tra i filosofi che

hanno avuto maggiore influenza sulle teorie etiche si riscontrano dei

problemi nei fondamenti dell’etica, sia nei principi essenziali kantiani sia

nel razionalismo aristotelico. L’etica riguarda le scelte che si effettuano

nelle relazioni umane e noi, ora, ci troviamo in una cultura e multi cultura

globale in cui non possiamo evitare il confronto con valori diversi da quelli

occidentali dominanti, borghesi e patriarcali, che abbiamo appreso come

verità incontrovertibili della logica e della realtà dei fatti.

Separare l’etico dal deontico, il privato dal pubblico, l'intra-morale

dall'extra-morale, anche se solo temporaneamente, può distrarci dal vedere

la loro interdipendenza4.

Troppo spesso le categorie dei concetti etici sono astratte e

perciò distanti dalla complessità delle situazioni reali di cui si fa

esperienza.

Qualunque sistema logicamente coerente e privo di contraddizioni

presenta dei problemi di efficacia, poiché, come già ha indicato Gödel nel

suo attacco ai sistemi di logica formale, tali sistemi diventano auto-

giustificanti e circolari. Se l'etica fosse solo un insieme di concetti o

principi, non sapremmo cosa fare nelle situazioni in cui questi principi

vengono in conflitto.

                                                            4 cfr. “http://www.minerva.unito.it/Epistemologia&Etica/Articoli1/

EticaEducazione.htm"

 

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Anche se i principi di universalizzabilità trascendono i valori

culturali, non siamo in grado di dedurne concetti le cui pratiche o

concezioni si possano valutare come estremamente utili. Il semplice pensare

all'interno di un sistema coerente di idee non ci aiuterà a risolvere le dispute

interculturali. I due grandi comprensivi sistemi etici, l'etica del dovere

kantiana e l'utilitarismo, pongono in modo esasperato l'accento sulla

razionalità umana. In un mondo complesso, sistemi coerenti in

competizione tra loro richiedono una negoziazione continua per i meriti in

competizione di differenti concezioni etiche, che possono a loro volta essere

coerenti con i propri concetti astratti, ma sono incompatibili tra loro. La

sola ragione non consente alla mosca di uscire dalla bottiglia che la

rinchiude5.

Rimane dunque da delineare un terzo punto tra i motivi capitali di

cui sopra si diceva, ovvero:

• si palesa l’esigenza di una nuova educazione, della quale in

questo elaborato per questioni metodologiche verrà presa in

considerazione soprattutto l’aspetto per cui essa si interessa

all’ambiente, come punto d’appoggio archimedeo per una

diversa elevazione dell’uomo: non più padrone indiscusso sulla

natura ma piuttosto motore di un nuovo rapporto col mondo e le

sue risorse, basato in primis sulla cooperazione e

l’inglobamento anziché sullo sfruttamento.

                                                            5 “http://www.minerva.unito.it/Epistemologia&Etica/Articoli1/ EticaEducazione.htm” 

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Una delle domande più vive ed attuali poste in essere

nell’ambito dell’etica ambientale, diramazione della filosofia che

considera in modo prettamente specifico i raporti tra uomo e natura,

può essere così proposta: l’umanità tecnologizzata, la civiltà umana è

strutturalmente basata sullo sfruttamento della natura? Il vero

problema da cui l’etica ambientale si sviluppa è, detto in altri termini,

l’uso, o meglio, gli usi della Terra.

La natura come fondamento dell’etica era il punto di vista

originario della filosofia ma nel mondo moderno uomo e natura sono

stati separati. Ciò di cui maggiormente ora si ha bisogno è

un’estensione dei confini del mondo morale in virtù di un dialogo vero

tra ecologia e fenomenologia. Ciò che serve infatti è una coscienza

ecologica che ponga in evidenza la consapevolezza dell’unità

strutturale (e funzionale) del mondo vivente. La questione ambientale

diviene un problema d’interesse peculiarmente etico nel momento in

cui la critica all’antropocentrismo, proprio della tradizione occidentale

(giudaico-cristiana e scientifico-moderna), si fa assoluta: l’esigenza

più impellente è di abbandonare ciò che è “ideologia del dominio

incontrastato sulla natura, che giustifica e razionalizza l’idea che essa

esista solo per l’uomo, per la sua utilità e il suo piacere”6 senza però

per questo dover approdare ad un ecocentrismo radicale, che

considerari la natura come realtà dotata di valore intrinseco. Allo

stesso modo, al centro della riflessione di Aldo Leopold, considerato

come il padre fondatore dell’etica ambientale o comunque il genio

fondatore e che si rifà al paradigma della comunità biotica7, vi è la                                                             6  L. Battaglia, (a cura di ) Filosofia ed ecologia, Abelardo, Roma, 1994, p. 72

7 di Charles Elton, secondo il quale l’ecologia si configura come analisi delle relazioni alimentari tra i viventi: capire la relazione tra piante, erbivori e carnivori

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presa di coscienza del fatto che non c’è rottura, ma continuità tra

natura e cultura come vi si trova altresì l’affermazione che tutte le

culture non sono altro che un modo specifico di abitare la natura8.

“Alla nostra costituzione fisica- infatti scrive Edgar Morin-

dobbiamo aggiungere il nostro insediamento terreno”9.

Riconsiderazione della posizione attribuita al soggetto umano

dunque e ipotesi di un’etica che sia relazionale prima che utilitaristica

o deontologica, sono gli imperativi a cui guardare per un’analisi del

presente.

E’ da tali presupposti che sorge il bisogno di farsi guidare e

accompagnare lungo la strada da un pensatore del nostro tempo che

più di chiunque altro ha lungimirantemente indagato e mirabilmente

descritto la situazione in cui verte il genere umano, nell’epoca

contemporanea, attraverso uno sguardo che tende costantemente ad

essere il più omnicomprensivo possibile.

  Sociologo francese, in primis ma non esclusivamente, Edgar

Morin nasce in Francia nel 1921. Ciò che del suo pensiero più attrae è

al contempo ciò che più inquieta l’intelligentia post-moderna: volontà

dichiarata, l’aspetto che più attira la nostra attenzione delle idee

moriniane è la capacità, ad esse intrinseca, di cogliere la complessa

struttura del reale che ci circonda, spaziando dal microscopico

all’infinitamente grande. Presupposto essenziale di una tale missione,

                                                                                                                                                                   significa avere la chiave per intendere la struttura globale e le attività delle comunità biotiche.  8 Cfr. articolo: La lezione di Aldo Leopold e le prospettive in Italia dell’etica ambientale, Marco Armandi, in rivista Silvae, http://www3.corpoforestale.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1021 9 E. Morin, Metodo I. Natura della Natura, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 7

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che trova epilogo ma mai fine in ambito etico postulando l’importanza

della responsabilità e della relianza (come verrà esposto nel secondo

capitolo di questa trattazione), è, come poc’anzi si accennava, un

nuovo modo di intendere la natura del soggetto. Ciò che infatti Morin

ipotizza è l’idea di un soggetto vivente (in continuo divenire) o, come

lo definisce Sergio Manghi, un soggetto ecologico10; idea che sta a

significare l’attribuzione della qualità di soggetto a ciascuna creatura

vivente e di cui l’autore parla in questi termini:

ci appare evolutivamente logico che la chiave dell’individuo- soggetto

umano sia nell’individuo-soggetto batterico. Occorre dunque tentare di

legare queste due proposizioni in un anello produttore di conoscenza11.

Con tale concetto si annienta il mito dell’umanesimo moderno

che attribuiva all’uomo, unico ad aver diritto ad essere innalzato al

rango di soggetto, un potere assolutamente manipolatore sui contesti

ambientali, sennonché sociali, di cui è parte. Non solo,

l’ipotesi moriniana sulla soggettività di ogni essere vivente porta la

sfida del rispecchiamento reciproco uomo-natura nel cuore dell’idea

moderna di soggetto; nel cuore della separazione dualistica tra mente e

materia[…]12.

E’ intenzione esplicita di tale trattazione, più specificatamente nei

paragrafi che andranno a comporre il primo capitolo, mostrare la via

percorsa da Morin nella laboriosa costruzione del suo Metodo che

trova nella formulazione di ciò che viene definito “Pensiero                                                             10 S. Manghi, Il soggetto ecologico di Edgar Morin, Erickson, Trento, 2009, p.22 

11 E. Morin, Il Metodo VI. Etica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, p.235 

12 S. Manghi, Il soggetto ecologico di Edgar Morin, cit. p. 56 

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complesso” il suo scopo cardine. Questo pensiero si configura come

elaborazione di una scienza totale - non totalizzante- dell’uomo e

capace di far comunicare natura e cultura, bios e anthropos. Un

pensiero che si compone di principi esplicatori quali: principio

dialogico, anello ricorsivo, principio ologrammatico, computo, autos

che, pur essendo chiarificatori sono essi stessi inesplicabili cosicché,

pur rappresentando un avanzamento nell’ interpretazione dell’umano,

della vita e del mondo, non annullano l’incompiutezza insita nella

conoscenza umana e rafforzano il mistero intrinseco alla natura

umana.

Come Morin stesso scrive le idee di Metodo e di Pensiero

complesso non sono certo nate dal nulla o all’improvviso; anzi, esse

sono nate e si sono modificate lungo la ricerca da egli condotta e

hanno subito l’influenza di intuizioni che hanno modificato le nozioni

stesse della scienza classica, della fisica moderna, della biologia.

Concezioni che Morin ha saputo cogliere e interpretare appunto in

modo complesso, in quanto le ha integrate nel suo sitema di pensiero

superandole, e che ha attinto dalla cibernetica, dalla sociologia,

dall’antropologia, dalla biologia, dalla politica, dalla cosmologia, dalle

teorie dei sistemi. Quella della multidisciplinareità è un’esigenza che

Morin sostiene aver avuto da sempre ma che viene a svilupparsi in

modo significativo soprattutto dopo la sua esperienza (1969) al Salk

Institute -  for Biological Studies-, in California. Per l’autore, questo

fu un periodo di autoformazione e riacculturazione che si unì alle sue

precedenti indagini, condotte soprattutto sulla teoria generale

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dei Sistemi13, sulle opere di Gregory Bateson, di Heinz von Foerster e

che tendevano alla riformulazione di una dialogica aperta e non

totalizzante rifuggendo altresì il primato della causalità lineare. Tale

esperienza inoltre convinse definitivamente Morin dell’importanza di

riunire gli studi, allora separati, sulle società dei primati e sulle società

umane arcaiche così come quelli tra aspetto biologico e

sociale/culturale dell’umanità.

Il Metodo, che scaturisce dal percorso compiuto, ma mai finito, da

Morin è dunque il risultato di una gestazione e di continuii apporti

dall’esperienza vissuta in prima persona come anche dai più disparati

campi del sapere e conduce, come egli stesso sostiene, a una riforma

dell’educazione oltre che ad una svolta epistemologica.

Ripercorrendo (come sarà fatto nel primo capitolo della tesi) il

cammino tratteggiato nel volume Mon Chemin grazie all’intervista

condotta da Djénane Kareh Tager, si palesa il progetto, mai progettato

definitivamente potremmo dire, di Edgar Morin; un cammino che

riguarda non solo gli interessi conoscitivi ma anche la vita, nelle sue

tragedie e nelle sue gioie, e che, sulle orme di Machado, egli stesso

così commenta: “le chemin se fait marchant”. Questo errare trova

fondamentalmente inizio in ambito antropologico con l’opera

L’Homme et la mort (1951) e lo studio di Morin su Plozevet (ricerca

multidisciplinare di una Comune in Bretagna, e che darà luogo alla

pubblicazione dal titolo La Métamorphose de Plozevet nel 1967; si

tratta di uno dei primi saggi di etnologia sulla Francia contemporanea)

e ci conduce attraverso la fisica, la biologia, la cibernetica a rendere

giustizia al sapere nella sua complessità, intesa non in senso di

                                                            13  Cfr. p.36 della presente trattazione

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complicanza ma anzi di interconnessione e relation; ad un sapere che

non è solo cultura ma anche civilizzazione e che non può essere

considerato tale se, come oggi invece avviene, è frammentario,

separato, specializzato e se non guarda ai molteplici aspetti del reale

nei loro legami, strutturalmente intrinseci e reciprocamente influenti.

Detto in estrema sintesi, l’opera più maestosa (composta di sei

tomi) e oggetto dell’intera trattazione, Il Metodo, raccorda

l’interrogazione dell’umano a quella del mondo fisico e del mondo

vivente per indagare poi, nei volumi successivi le possibilità e i limiti

della conoscenza umana legando antropologia ed epistemologia, le

quali si rinviano una all’altra, nella concatenazione operata da Morin

per approdare infine, nei volumi quinto e sesto, alla trattazione dei

problemi e del destino dell’umanità nell’era planetaria, nella quale

oggi siamo immersi. Scrive infatti Morin, “l’antropo-sociologia ha

bisogno di articolarsi alla scienza della natura e questa articolazione

richiede una riorganizzazione progressiva della struttura del sapere”14.

Oltre a ciò Morin non sottovaluta certo un aspetto di vitale

importanza che troverà spazio, per quanto riguarda questo elaborato

nel secondo capitolo: la necessità, e la sua urgenza, di una riforma

paradigmatica, in seno all’istruzione, in favore di una scienza nuova

in grado di mostrare le connessioni da cui l’uomo dipende e da cui

non può svincolarsi per amore di semplificazione, e che ponga in

essere un diversa conoscenza della conoscenza.

Si verifica perciò un movimento circolare tra causa ed effetto:

l’educazione, che insieme a Morin molti prospettano, non deve

estrapolare l’uomo dal suo ambiente, non deve considerarlo ad esso

                                                            14 E. Morin, Metodo I. Natura della natura, cit. p. 21

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superiore ma anzi una nullità se strappato dal suo contesto originario e

che deve indurre a tenere uniti due campi del sapere da troppo tempo

separati: da un lato l’ambito scientifico/ tecnologico dall’altro

l’ambito umanistico/ letterario.

Nel campo dell’educazione, a mio parere, torna attuale il pensiero

di Maria Montessori (di cui si tratterà in Appendice a questo scritto)

per la sua attenzione all’ambiente, sia fisico che culturale, che

circonda il bambino nei primi anni della sua vita educativa ed

emotiva.

Nell’attuale momento d’instabilità e dubbio nelle metodologie

educative, sembra ineluttabile dedicarsi alla comprensione di tali

fenomeni. E’ altresì certo che la vastità della questione non permette

di spaziare in ogni suo ambito; per questo la presente trattazione

prende ad esempio strettamente le possibilità, e, dove queste si siano

attuate, le realizzazioni fattuali delle potenzialità espresse nell’ambito

dell’educazione ambientale.

Affinché si verifichi l’auspicata riforma paradigmatica, affinché si

sviluppi altresì una virtù ecologica moralmente significativa e ormai

di fondamentale importanza, un’educazione nuova è necessaria ma

per porla in essere bisogna assumere un paradigma di complessità,

quale è quello moriniano, a livello gnoseologico.

Questi due cambiamenti formano un equilibrio dinamico e sono

equiparabilmente essenziali e necessari l’uno all’altro.

 

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Capitolo I

Ecologia e complessità

Premessa

E’ inammissibile, o quanto meno riduttivo, imprigionare Edgar

Morin in una definizione univoca di ciò che è la sua personalità e il

suo monumentale lavoro. Partigiano nella Resistenza francese,

sociologo, storico, geografo, appassionato di cinema, microfisica,

ecologia, poesia, politica, enciclopedico 15 come Diderot, di cui egli

assicura di conservare la misteriosa connessione tra le diverse

dimensioni dell’esistenza, ma anche figlio di Montaigne, da cui

sostiene di aver ereditato la lotta permanente contro la maschera della

pseudo-oggettività, in Morin si scorge la piena volontà di creare un

pensiero nuovo, complesso e capace di comprendere e agire nel

mondo contemporaneo. Una tal esigenza si è andata creando nello

                                                            15 Questo termine non deve essere inteso in senso accumulativo ma nel suo senso originale di ankhyklios paideia, apprendimento che mette in circolo il sapere 

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spirito di Morin e lo ha via via portato a superare una fase totalitaria

del suo pensiero per approdare ad una fase liberale16, attraverso

diverse tappe alcune delle quali caratterizzate anche da momenti

drammatici. Secondo Girolamo Cotroneo la teoria moriniana della

complessità si presenta come l’esatto contrario delle filosofie

totalizzanti e nasce indissolubilmente legata alla crisi delle certezze

che ha dominato la cultura post - idealista e post – marxista. E’ il ‘900

ad essere caratterizzato dal crollo dei fondamenti stessi del sapere.

Proprio al fondo del suo essere – scrive Cotroneo a proposito di

Morin- si trovano le basi intellettuali, le condizioni primarie del rigetto – e

della negazione dialettica- di tutti i dogmatismi e del pensiero semplice che

impoverisce la realtà, che vieta di cogliere gli infiniti particolari di cui è

composta17.

Mai totale, l’incertezza, sinonimo di dubbio –visto non come

nemesi ma come condizione del sapere-, non si trasforma in nessun

momento, nel vasto corpus delle opere moriniane, né in scetticismo né

in un relativismo radicale, che anzi Morin ripudia; piuttosto diviene

il terreno per demolire delle false certezze.

Oltre ai nomi citati in precedenza bisogna tener conto, per capire

da dove nasce l’insaziabile ricerca di verità di Morin, di altri pensatori

antichi e moderni quali ad esempio Pascal, che dichiarava di ritenere

                                                            16 Ispirato anche dall’affermazione di Niels Bohr, fisico e matematico danese che diede contributi essenziali nella comprensione della struttura atomica e nella meccanica quantistica e che sostiene: “ il contrario di una verità profonda è un’altra verità profonda”. 

17  E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità. Morin filosofo a Messina, Siciliano, Messina, 2003, p. 15  

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impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, come

conoscere il tutto senza conoscere le parti proprio perché la relazione

tra le parti è generativa, e tener conto della smisurata distanza che lo

separa da Descartes. Sulla scia delle parole riportate

nell’articolo della giornalista Marianna Barone, dedicate a

Morin e pronunciate in occasione della sua insignazione

alla laurea honoris causa in Filosofia presso l’Università

di Messina (Marzo 2002), si può a ragione sostenere che:

con Morin si verifica una svolta metodologica, nel modo di

guardare al mondo di cui siamo parte integrante; un mondo

articolato e intricato, a fronte di quello tradizionale,

mutilante ed astratto, svolta che scaturisce avendo operato

una sintesi originale tra il pensiero di Vico18, di Hegel 19 e                                                             18 Non a caso ne “Il Paradigma perduto” si legge: “il nuovo paradigma (i cui sviluppi vengono qui esposti e chiariti nel primo paragrafo di questo capitolo) dell’antropologia fondamentale richiede una ristrutturazione della configurazione complessiva del sapere. […] Si tratta dunque non soltanto di far nascere la scienza dell’uomo ma di far nascere una nuova concezione della scienza. […] La scienza dell’uomo non va concepita come un edificio da completare ma come una teoria da costruire. La Scienza Nuova, o scienza generale della physis, dovrà stabilire l’articolazione tra la fisica e la vita, […] tra il vivente e l’umano”. E. Morin, Il Paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 205, 206 

19  del quale Morin parla in questi termini “mi ha insegnato ad affrontare le contraddizione piuttosto che ad eliminarle e mi ha condotto all’idea che il pensiero vivo vive alla temperatura della propria distruzione. Ma la dialettica di Hegel era troppo euforica per me, perché ha sempre una sintesi che permette di superare le contraddizioni : io ho eliminato l’idea che poi la sintesi arriva sempre. Le contraddizioni sono vitali. La mia concezione, più che hegeliana è eraclitea”. E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo Un viandante della complessità, cit. p 19. Avvicinatosi prima ad Hegel credendo, come egli sosteneva, che “la verità è la totalità” Morin se ne discosta seguendo il principio enunciato da Adorno “la totalità è la non verità” per approdare infine alla presa di coscienza che queste due preposizioni possono in realtà convivere in quanto indicano un’aspirazione alla

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di Marx da un lato e di Heisemberg20, Prigogine21, Von

Forster22 e Maturana23 dall’altro.

                                                                                                                                                                   totalità con la consapevolezza che la pretesa di una conoscenza totale è pienamente sbagliata.  20  Ebbe l'idea della meccanica matriciale, la prima formalizzazione della meccanica quantistica, nel 1925. Il suo principio di indeterminazione, introdotto nel 1927 afferma che la misura simultanea di due variabili coniugate, come posizione e quantità di moto oppure energia e tempo, non può essere compiuta senza un'incertezza ineliminabile.  21  Ha elaborato la teoria dei processi irreversibili e la nozione di "strutture dissipative", quali sistemi che si generano, a partire da stati caotici, con dissipazione di energia, in condizione di lontananza dallo stato di equilibrio. La sua teoria delle strutture dissipative è la prima descrizione approfondita di sistemi auto-organizzantesi. Prigogine intuisce che la nascita della vita sulla Terra contraddice il principio dell’entropia e scopre che nei sistemi lontani dall’equilibrio la dissipazione di energia e il caos diventano fonte di nuove strutture ordinate. Tali sistemi sono espressi matematicamente da equazioni non-lineari le quali hanno infinite soluzioni non prevedibili poiché a ogni biforcazione il sistema si trova di fronte a diversi percorsi possibili da imboccare. La nuova alleanza (Prigogine-Stengers, 1979) tra umanesimo e scienze della Natura in nome del loro comune operare nel segno della complessità si presenta come una rottura epistemologica rispetto alla loro tradizionale separazione nella cultura occidentale. Le strutture dissipative sono sistemi chimico-fisici di tipo caotico. Si definiscono caotiche quei sistemi in cui le traiettorie che partono da due punti infinitamente vicini divergono nel corso del tempo in modo esponenziale. In tali sistemi gli errori si propagano in modo non- lineare e non sono possibili previsioni certe poiché cause microscopiche possono provocare effetti macroscopici sulla loro traiettoria di sviluppo, secondo il principio noto come effetto farfalla. È il fisico Edward Lorenz a introdurre nel 1979 il principio noto come “effetto farfalla”. Questo principio, che ha portato allo sviluppo della Teoria del Caos, indica che nei sistemi non lineari piccole variazioni delle condizioni iniziali producono effetti macroscopici non prevedibili nel comportamento successivo a causa della grande sensibilità del sistema agli agenti che lo sollecitano. 22  Ha lavorato nel campo della cosiddetta Seconda Cibernetica (che estende e complessifica la tradizionale prima cibernetica di Norbert Wiener e John von Neumann) ed è stato essenziale per lo sviluppo del costruttivismo radicale:  posizione filosofica e epistemologica secondo la quale non è possibile perseguire una rappresentazione oggettiva della realtà poiché il mondo della nostra esperienza, il mondo in cui viviamo, è il risultato della nostra attività costruttrice. La vita è un processo cognitivo: vivere significa conoscere e conoscere significa

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20

Analizzando inoltre l’aspetto etico-politico del pensiero di Edgar

Morin si evidenzia come egli sia giunto a una concezione della

complessità, basata in primis sul concetto di unità nell’accezione di

unitas-multiplex (l’uno nel molteplice/ il molteplice nell’uno), in

seguito al superamento di una ideologia politica riduzionista e

semplificante e attraverso il recupero di due idee epistemologiche

fondamentali:

- la relatività della verità e dell’errore

- la complementarità delle posizioni contraddittorie.

Approfondendo poi l’aspetto epistemologico del pensiero di Morin,

in particolar modo il nucleo centrale della svolta che lo ha portato alla

definizione della visione complessa, si manifesta la ridefinizione

radicale dall’autore operata di due concetti sostanziali del paradigma

tradizionale di conoscenza e della loro relazione:

- la nozione di soggetto

- la nozione di oggetto

La redifinizione del soggetto è stata ispirata a Morin […]dalla

constatazione, intorno al 1959, di un atteggiamento mentale che egli stesso

ha tenuto ma che è tipico dell’uomo in generale: […] quando un uomo

                                                                                                                                                                   vivere. È attraverso il processo cognitivo, che nasce dall’esperienza individuale, che ogni essere vivente genera il proprio mondo.  23  Biologo, cibernetico e scienziato, ha inventato la cosiddetta teoria dell’autopoiesi proseguendo il percorso di Bateson, Wittgenstein, G.B. Vico (per la sua teoria dei Corsi e Ricorsi), Paul Weiss (per la nozione di Autoproduzione). Continua ad elaborare la sua teoria generando evidenza sperimentale che assecondi la tesi secondo cui la realtà è una costruzione consensuale della comunità nel momento in cui appare "oggettivamente" esistere. La nozione di "oggettività" è quindi sostituita da quella di "costruttivismo”.

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abbraccia un’idea finisce spesso per credere in essa. L’uomo cioè si

trasforma da essere critico e razionale in dogmatico24.

Ciò avviene, sostiene Morin – nell’opera Introduzione al

pensiero complesso-, poiché la ragione porta in sé il suo peggior

nemico ovvero la razionalizzazione, cioè la riduzione a un sistema

coerente di idee della realtà che si pretende di descrivere. La

razionalità presuppone due dialogiche, termine che sta a significare

l'utilizzazione di principi o di argomenti complementari, ma che

potrebbero anche essere concorrenti o antagonisti.

1. La prima dialogica è quella tra il razionale, o meglio tra il

logico, e l'empirico. Da un lato lo spirito umano elabora dei

sistemi di idee logici, che confronta con il mondo

dell'esperienza, ed è necessaria una adeguazione tra il discorso

o il sistema e il mondo empirico o la sfera di esperienza alla

quale si dovrà applicare. Beninteso, se c'è un eccesso di logica e

le strutture logiche non corrispondono al mondo empirico, si

verifica un divorzio tra il logico e l'empirico. Nessuno dei due

ha la supremazia assoluta sull'altro, perché, se un sistema di

idee è perfetto, se ha una grande eleganza logica, e poi si trova

ad essere contraddetto dall'esperienza, bisogna abbandonarlo;

ma se si resta semplicemente al livello dell'esperienza, si ha a

che fare con meri dati o fatti, bisogna abbandonare anche l'idea

di razionalità.

2. L'altra dialogica, è quella tra lo spirito critico e lo spirito di

coerenza. Da un lato la razionalità critica attacca non soltanto i

                                                            24  E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo,Un viandante della complessità, cit. p. 20

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miti, le religioni, gli dei, ma anche i sistemi di idee, per tentare

di dissolverli; dall'altro c'è la volontà di costruire una visione

coerente delle cose, dei fenomeni e al limite del mondo stesso.

Queste due forze possano essere antagoniste: lo spirito critico

illimitato dissolve tutto, diventa uno scetticismo generalizzato e

inclina al nichilismo, dove non c'è più niente, nessuna certezza,

nessuna possibilità di pensare. Uno spirito di coerenza senza

limiti produce dei sistemi ammirevoli, capaci di spiegare tutto,

ma che sono chiusi in sé, e, al limite, deliranti: è ciò che si

designa col nome di "razionalizzazione".

Tutto ciò può essere così schematizzato:

Due dialogiche della razionalità

Tra logico ed empirico Tra spirito critico e spirito di coerenza

Sistema di idee in sé perfetto 

 Mera esperienza Scetticismo/nichilismo  Razionalizzazione

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Mentre la razionalità è, anche se non unicamente, unione di

coerenza e logica applicate al reale, la razionalizzazione cerca di

dissolvere l’empiria, di rimuoverla, di respingere ciò che non si

conforma alle regole dettatte da ragione cadendo così nel dogmatismo.

Molto frequentemente, infatti, le idee della ragione diventano a loro

volta miti e superstizioni mettendo in atto una sorta di circolarità con

effetto di retroazione negativa25.

                                                            25 A mò di esemplificazione può essere utile riportare l’intervista fatta ad Edgar Morin nel 1991; niente meglio delle sue parole infatti coglie l’aspetto fondamentale della questione, ovvero la differenza abissale e dicotomica tra razionalità e razionalizzazione: “La razionalità occidentale si è ritenuta, specialmente a partire dal XVIII secolo, proprietaria della ragione. Il che vuol dire che  considerava arretrati gli uomini di altre civiltà, delle grandi civiltà come la civiltà indù o quella cinese; li considerava arretrati perché non erano arrivati allo stadio del pensiero razionale. E del resto, all'inizio del XX secolo questa concezione è stata teorizzata, in particolare, agli inizi dell'antropologia. L'antropologo francese Lucien Lévy-Bruhl ha elaborato la teoria di quelli che chiamava i "primitivi", espressione, sia detto tra parentesi, impropria perché non ci sono uomini primitivi. I cosiddetti primitivi, che sopravvivevano ancora all'inizio del secolo ( i boscimani del Kalahari, gli aborigeni d'Australia, gli indiani d'Amazzonia, ecc.) erano civiltà di cacciatori-raccoglitori, che avevano accumulato conoscenze e avevano una cultura millenaria, che affonda le sue radici nei primordi dell' homo sapiens, un essere che è apparso 50-60 mila anni fa. Non ci sono primitivi, ma società formate da uomini pluricompetenti, e ciò che c'è di più straordinario in quelle società è la pluricompetenza delle donne in ciò che concerne le piante, le proprietà medicinali delle piante, la preparazione degli alimenti, e la competenza degli uomini riguardo ai luoghi, agli animali, alle loro abitudini, alla loro anatomia, ecc. E inoltre le competenze pratiche: la fabbricazione di archi, frecce, utensili, giocattoli, ecc. Nacque l'idea che per comprendere quei primitivi bisognasse utilizzare le stesse categorie mentali che usiamo per caratterizzare i bambini e i nevrotici. In un certo senso il primitivo era un grande bambino, il cui modo di pensare mistico e magico aveva qualcosa di nevrotico. Ma una cosa evidentemente restava inspiegata in questa concezione, e l'aveva notato Wittgenstein nelle Osservazioni sul "Ramo d'oro" di Frazer dove dice: ma come è possibile che quei primitivi, che passano il loro tempo a fare cerimonie propiziatorie, a disegnare gli animali che poi cacceranno e a trapassarli con frecce immaginarie nelle rocce su cui li disegnano, che siano gli stessi che

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                                                                                                                                                                   sanno poi cacciare benissimo con frecce reali e sanno anche fabbricarle? Evidentemente sviluppano delle strategie, dispongono di buone tecniche, hanno una grande razionalità. Il fatto che restava totalmente in ombra nella visione razionalistica dominante è che nelle società cosiddette primitive c'era una grandissima razionalità, ma diffusa, sparsa, mescolata alla magia. Noi stessi, nella nostra società, abbiamo molta magia, molta mitologia mescolata alla razionalità e d'altra parte una razionalità concentrata nelle teorie, nei concetti. Si pensava che quelle società fossero incapaci di qualsiasi forma autentica di saggezza, di conoscenza e non producessero che un coacervo di superstizioni. Questa era la concezione etnocentrica dell'Occidente, che ha diretto e giustificato l'imperialismo e il colonialismo, con il pretesto dei vantaggi che la civilizzazione avrebbe recato a quelle popolazioni considerate arretrate. C'è stata dunque questa terribile malattia della ragione occidentale etnocentrica, una patologia atroce per coloro che l'hanno subita. Come ha potuto l'esperienza del mondo occidentale liberarsi da quella ragione chiusa in sé ed arrogante? C'è voluta la relativa decadenza dell'Europa, la perdita del suo primato mondiale, i processi di decolonizzazione. Questa autocritica comincia con Montaigne, comincia con gli indiani fatti prigionieri dai conquistadores in America. E' allora che si sviluppa la nozione, forse mitologica, del "buon selvaggio", l'idea che la nostra civiltà ha perduto qualcosa e che gli altri hanno qualcosa che noi abbiamo smarrito. Questa utilizzazione dei selvaggi e più tardi del mito dell'uomo di natura da parte di Rousseau è un elemento di critica, di auto-critica della nostra civiltà, ma un elemento di auto-critica ancora impuro, commisto di mitologia. Solo adesso possiamo cominciare a mettere in atto un'autocritica dell'Occidente. Dobbiamo mantenere la capacità di criticare non solo le nostre istituzioni, ma anche le nostre dottrine, le nostre idee. La capacità di auto-critica è uno dei beni, forse il bene più grande di tutta la storia, di tutta l'avventura della razionalità occidentale. Non è un caso che Freud abbia usato il termine di razionalizzazione per designare questa tendenza nevrotica e/o psicotica per cui il soggetto si intrappola in un sistema esplicativo chiuso, privo di qualsiasi rapporto con la realtà, pur se dotato di una logica propria”.

Tratto dall'intervista-lezione Razionalità e complessità, Napoli, Vivarium, 2 Aprile 1991 http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=30

 

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Per Morin, come nota Giuseppe Gembillo, una volta scoperta la

ragione, l’uomo ha finito per ridurre se stesso, o meglio la propria

facoltà conoscitiva al solo intelletto, trascurando o emarginando

nell’ambito del non conoscitivo, il resto di sé. Tutto ciò si verifica

relegando nell’ambito dell’illusione e dell’opinione la conoscenza

derivante dai sensi, tendenza che da Platone fino ad arrivare a Cartesio

e Kant si è sviluppata sistematicamente.

Vi è poi da tenere in considerazione un’altra riduzione, oltre

all’interna appena enunciata, ovvero quella di tipo esterno: nella

concezione tradizionale l’uomo è visto estraneo, diverso e distaccato

dal mondo in cui vive.

A tutto questo Morin ha voluto contrapporre l’Uomo intero, nel

quale il processo conoscitivo è il risultato della collaborazione e della

interazione tra razionale e immaginario, tra emozione e riflessione, tra

homo sapiens e homo demens. Ha voluto contrapporre l’idea di un

soggetto conoscente che ha una sua storia personale e di specie, che è

figlio del proprio divenire e che, nello stesso tempo è radicato non

solo nel processo storico, ma anche nella natura, di cui è parte

integrante.

A tal fine Morin ha inserito il soggetto all’interno del processo

evolutivo che ha condotto, per prove ed errori, per contrasti e

attraverso varie deviazioni dalla retta via, al configurasi della specie

“uomo”.

Quanto qui messo in evidenza, mostra come l’uomo, a sua

volta, si sia evoluto e si sia organizzato sfruttando e utilizzando,

innanzitutto, il proprio “immaginario” nel creare via via l’idea di vita

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oltre la morte, di Dio, di famiglia, di società civile, di stato, fino alle

produzioni mentali più astratte ed elaborate.

In questo modo Morin ha nello stesso tempo storicizzato e inteso

in modo complesso il Soggetto conoscente, radicandolo fermamente

all’interno di un contesto e di un processo, nel quale è,

contemporaneamente, produttore e prodotto, creatore e creato, in un

rapporto interattivo il cui vero senso risiede nella reciproca relazione

tra le parti in causa.

Analogo discorso Morin ha fatto per quanto riguarda l’oggetto:

come è noto nella scienza classica l’oggetto è un elemento semplice,

immodificabile, misurabile quantitativamente e formalizzabile in maniera

perfetta. E’ situato in uno spazio-contenitore esterno e in un tempo

qualunque. E’ inoltre determinato da una causa esterna che ne condiziona in

maniera precisa […] il movimento26.

Parafrasando Gembillo si può affermare che Morin, lasciando

emergere l’influenza apportata dagli sviluppi della fisicai, ha operato

una profonda trasformazione di tale concezione mutando l’oggetto

semplice in evento storico e complesso.

Il secondo principio della termodinamica27 ha

dimostrato che tutti gli oggetti sono intrinsecamente

                                                            26   E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità, cit. p. 23  27 Il primo principio è un principio di conservazione dell'energia. Esso afferma che, poiché l'energia non può essere né creata né distrutta, la somma della quantità di calore ceduta a un sistema e del lavoro compiuto sul medesimo deve essere uguale all'aumento dell'energia interna del sistema stesso. Calore e lavoro sono i mezzi attraverso i quali i sistemi si scambiano energia. In ogni macchina termica una certa quantità di energia viene trasformata in lavoro; non può esistere nessuna macchina che produca lavoro senza consumare energia. Il terzo principio della

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strutturati in senso temporale; che hanno una loro storia;

che subiscono una degradazione irreversibile; che sono

situati in un contesto-ambiente fuori dal quale, per citare

Vico, “non durano e non permangono”; sono situati in un

ambiente diversificato, che loro stessi contribuiscono a

rendere diverso e particolare, e non quindi in uno spazio

omogeneo.

A tutti i livelli e a tutte le dimensioni l’oggetto della

scienza classica ha una storia, come il soggetto conoscente

e, come questi, è anche estremamente complesso28.

E’ altrettanto vero che dal tentativo di cercare

l’oggetto elementare, come sottolinea lo stesso Morin, è

emersa una conclusione del tutto divergente per cui ogni

oggetto è costituito da parti, è articolato e organizzato. E’

                                                                                                                                                                   termodinamica afferma che è impossibile raggiungere lo zero assoluto con un numero finito di trasformazioni e fornisce una precisa definizione della grandezza chiamata entropia. L'entropia si può pensare come la misura di quanto un sistema sia vicino allo stato di equilibrio, o in modo equivalente come la misura del grado di disordine di un sistema. Questo terzo principio afferma altresì che l'entropia, cioè il disordine, di un sistema

isolato non può diminuire. Pertanto, quando un sistema isolato raggiunge una configurazione di massima entropia non può subire trasformazioni: ha raggiunto l'equilibrio.

28  Questo discorso vale anche a livello microfisico, dove si è constatata l’ intrinseca instabilità delle particelle elementari; dove si è imparato ad accettare la precarietà delle particelle stesse, che si presentano, addirittura, in forma diversa e opposta. Vale, ancora, a livello della morfologia del nostro pianeta, in relazione al quale dal 1912 abbiamo scoperto che anche la struttura dei contenenti è risultato di una evoluzione storica. Vale, infine, a livello dell’Universo intero, del quale, dal 1929, si è scoperta l’espansione, cioè l’intrinseca storicità.

 

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emerso, cioè, che ogni oggetto-evento è un tutto che non

risulta né semplice né mera sommatoria di parti29.

E’ emerso che ciò che conta, in un sistema

organizzato, in un oggetto-evento, non sono le parti prese

singolarmente, ma l’effetto della loro interazione.

In questo senso il tutto è più delle parti che lo

compongono perché le parti di cui è costituito, interagendo

tra di loro, producono appunto qualcosa di nuovo e

imprevedibile, che è, solo ed esclusivamente, il risultato

delle interazioni stesse.

Ma, e questa è una novità, il tutto è anche meno delle

parti perché queste, interagendo, sfruttano soltanto alcune

delle potenzialità che singolarmente possiedono. Dunque il

tutto è articolato, è un sistema e un sistema è un’unità

globale, non elementare.

Oltre al riconoscimento di questa complessità interna

Morin mette in evidenza anche quella esterna, consistente nel

rapporto inscindibile che ogni oggetto ha con l’ambiente entro

il quale è situato. Rileva in proposito che bisogna certo

distinguere ogni oggetto dal proprio contesto, ma che non

bisogna mai disgiungerlo da esso.

Non bisogna disgiungerlo perché ogni oggetto-evento è,

come ha rilevato Prigogine, un “sistema aperto” che scambia

                                                            29  cfr. Pascal B., già enunciato p. 13

 

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energia per lui vitale con l’esterno e che mantiene il proprio

ordine servendosi del disordine a lui esterno. In questo senso

ordine e disordine sono in rapporto interattivo e

interdipendente. Dunque non dobbiamo più pretendere di

eliminare una volta per tutte il disordine, perché esso alimenta

l’ordine, lo rende possibile, dunque ne è partner essenziale30.

Resta, al fine di concludere tale tematica riguardante

il soggetto e l’oggetto, di analizzare come Morin va a

modificare la concezione, tradizionalista, del loro rapporto,

ma tutt’ora imperante.

Da premessa va sottolineato che il punto di forza della

scienza classica era la pretesa di oggettività, cioè la pretesa

si separare nettamente l’osservatore dall’oggetto da

osservare o per meglio dire, citando Morin: “la scienza

classica era riuscita a neutralizzare questo problema: lo

‘scienziato’ -osservatore/concettualizzatore/sperimentatore-

stava sempre fuori campo, come un fotografo. I limiti della

mente erano soppressi poiché era soppressa la mente”31.

Ma dopo l’enunciazione del principio di

indeterminazione di Heisenberg, dopo le riflessioni sui

                                                            30 E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità, cit. pp. 25, 26 e cfr. “Il pensiero ecologico” indagato in Capitolo II paragrafo 2

31  E. Morin Il Metodo I, Natura della Natura, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p.

98

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Sistemi di Von Foerster, dopo l’elaborazione del concetto

di autopoiesi di Maturana su menzionati, dopo tutto ciò è

possibile dichiarare che l’illusione dell’oggettività è stata

definitivamente smascherata.

In virtù di questi enunciati possiamo ammettere che,

come ha scritto espressamente Morin,

ogni conoscenza, qualunque essa sia, presuppone una

mente conoscente le cui possibilità e i cui limiti sono quelli del

cervello umano, e il cui substrato logico, linguistico,

informazionale proviene da una cultura, dunque da una società

hic et nunc […]. Vi sono sempre decisione e scelta, il che

introduce nel concetto di sistema la categoria del soggetto. Il

soggetto interviene nella definizione del sistema nei, e tramite

i, suoi interessi, le sue selezioni e le sue finalità; egli arreca

cioè al concetto di sistema, attraverso la sua

sovradeterminazione soggettiva, la sovradeterminazione

culturale, sociale e antropologica. Il concetto di sistema può

essere costruito soltanto nella e dalla transazione

soggetto/oggetto, e non nell’eliminazione dell’uno da parte

dell’altro32.

Dunque, per questa strada sistemica, l’osservatore,

escluso dalla scienza classica, il soggetto, “enucleato e

rimandato una volta nella spazzatura della metafisica, fa il

suo rientro nel cuore stesso della physis”33.

                                                            32 E. Morin Il Metodo I, cit. p. 98  

33 E. Morin Il Metodo I, cit. pp. 160, 161, 163  

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Si palesa dunque come necessario fondare l’immagine

di una nuova noosfera, una

Scienza Nuova che prenda le distanze dal cartesianesimo

e che sia connotata storicisticamente.

Si tratta di un metodo, nel senso cartesiano, che permette

di “ben condurre la propria ragione e di cercare la verità nelle

scienze”. Ma il dubbio cartesiano era certo di se stesso. Al

contrario, nell’ottica della nuova prospettiva, il nostro dubbio

dubita di se stesso: scopre l’impossibilità di fare tabula rasa ,

poiché le condizioni logiche, linguistiche, culturali del pensiero

sono indubbiamente dei preconcetti. E questo dubbio, che non

può essere assoluto, non può nemmeno essere purificato in

misura assoluta34.

Tornando su argomentazioni di carattere più generale ed

introduttivo è interessante sottolineare che Morin stesso illustra il

cammino da lui percorso fino ad arrivare alla concezione della

complessità e del pensiero complesso: righe autobiografiche

riscontrabili sia nella lectio magistralis tenutasi a Messina sia in

opere quali Il vivo del soggetto, in cui Morin esplicita l’intento di

formulare un atropo-cosmologia, Il paradigma perduto, Il metodo, I

miei demoni. E, rimanendo sempre su un punto di vista preliminare al

discorso che qui va a formarsi, bosogna chiedersi cosa sia la

complessità. A tale interrogazione Fortin risponde scrivendo che

                                                            34 E. Morin Il Metodo I, cit. p. 11  

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32

“la complexité n’est pas la complication. La complexité est beaucoup

plus compliquée (complexe) que ce qui est simple complication”35.

Si può altresì asserire che idiosincrasie innate e preferenze

intrinseche alla personalità di Morin lo hanno reciprocamente

allontanato e spinto ad essere ciò che è e ad impegnarsi in un’impresa

definita a volte impossibile (secondo gli incastri che crea la

razionalità attualmente imperante) e che si delinea in definitiva come

una vera e propria sfida.

Svariati e molteplici fattori hanno di fatto influito in modo

decisivo sul suo modo di pensare moriniano: innanzitutto il contesto

storico. Non va infatti dimenticato che negli anni ’30 e ’40 del 900,

diversamente da altre nazioni europee in cui i totalitarismi

ingabbiavano gli ideali, la Francia, visse momenti antagonisti molto

violenti e conflitti politici la cui conseguenza più ragguardevole fu un

senso di incertezza e l’esigenza di trovare la verità. In secondo luogo,

la formazione universitaria di Morin fu molto singolare: fu infatti

pluridisciplinare (Filosofia, alla quale era integrata Sociologia; Storia,

Scienze politiche e Diritto, al quale era integrata Economia) e da

autodidatta ( soprattutto a causa del suo ingresso, nel 1942, come

Partigiano nella Resistenza francese e di cui già si è detto in

introduzione). Tale formazione rispecchia quell’aspirazione, che in

Morin è costante, alla multidimensionalità e alla transdisciplinareità.

Dopo l’esperienza da Partigiano e dopo essere stato membro del PCF

-Partito Comunista Francese-, dal quale, a causa delle sue posizioni

antistaliniste, fu però poi espulso, questa sua inspirazione alla                                                             35  R. Fortin Penser avec Edgar Morin. Lire La Méthode, Pul, Chronique Sociale, Quebec, Canada, 2008 p.80

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multidisciplinareità si riversa in primis nell’opera L’uomo e la morte,

scritta tra il 1949 e il 1951. In essa si delinea chiaramente la relazione

tra la morte, come fatto biologico ma anche culturale, letterario,

poetico, mitico, religioso, sociale e l’essere umano che teme la morte

ma al tempo stesso rischia volontariamente di morire ad esempio per

un’idea, per la patria, per difendere qualcuno. Questo argomento trova

molte implicazioni che verranno sviluppate nel corso dell’elaborato,

data la loro importanza.

Nel 1950 Morin entra a far parte del CNR francese Centre

National de la Recherche. In questo periodo, nonostante il suo

interesse principale rigaurdo il cinema, non abbandona né dimentica

nozioni acquisite in precedenza che si riveleranno essenziali nella

costruzione del suo pensiero quale ad esempio, citandone una tra le

più importanti, l’idea di rotatività dialettica (che brevemente può

essere descritta ome ciò grazie a cui il pensiero mai parte da un

singolo punto per approdare ad uno scopo univoco ma percorre

sempre in modo circolare la sua strada logica). Lo studio moriniano

sul cinema si concentra in particolar modo sulla relazione ipnotica che

si viene a creare tra le persone e le immagini cinematografiche e lo

porta a rilevare che vi è il sentimento complesso della vita umana più

al cinema, di fronte ad un film e nel comporlo, che nella realtà

prosaica della vita; il cinema stesso ha un’influenza sul mondo reale.

Inoltre, sostiene Morin, si costituisce negli stessi termini quella che si

può chiamare una dialogica tra produzione e creazione: un film,

soprattutto se di stampo hollywoodiano, è al contempo un prodotto

industriale (cfr. I divi ) il cui unico fine è il profitto, ma anche un’

opera culturale o, in certi casi, un capolavoro culturale.

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34

Non va dimenticato che, sempre latente in Morin è l’attività di

autocritica che in più di un’occasione si manifesta. Esempi

significativi ne sono le sue esperienze personali. Ciò che egli

costantemente infatti compie è un’operazione di autocritica,

soprattutto nei riguardi delle proprie convinzioni politiche, e di

autoriflessione (le quali danno origine a due testi: Autocritica nel

1959 e, il già citato, Il vivo del Soggetto nel 1963, composto dopo un

soggiorno in America Latina e il ricovero in ospedale per una grave

malattia in cui Morin esterna la necessità fortemente sentita di

ritrovare il nucleo di verità della sua persona).

L’ambito antropologico, sociale ed etnologico è l’altro aspetto su

cui si focalizza il lavoro di Morin svolto presso il CNR; egli infatti

porta avanti un’ indagine sociologica su una Comune in Bretagna,

zona nord-ovest della Francia. In tale ambito conduce quella ricerca

multidisciplinare (di cui si accennava in Intruduzione) e che darà

luogo alla pubblicazione dal titolo La Métamorphose de Plozevet

(1967). A tale riguardo scrive Edgar Morin:

questo paese aveva tratti singolari, ma per capire ciò che volevo capire,

la modernizzazione e la trasformazione della sua realtà –non solamente

tecnica ed economica ma anche della mentalità delle donne, dei giovani,

dell’uomo-, le vicende di quel luogo dovevano essere integrate nel flusso di

civilizzazione che allo stesso periodo attraversava l’Europa. C’era la

necessità metodologica di non perdere la singolarità ma neanche la

generalità36.

                                                            36 E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità cit., p. 50

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35

Ciò inaugura anche un nuova modalità di studio sociologico, a

causa della quale Morin non verrà ben visto negli ambiti di ricerca

istituzionali; in essi infatti la ricerca è solitamente

costituita da una preindagine e da un questionario che viene applicato

meccanicamente senza nessun impegno personale del ricercatore, mentre io

–prosegue l’autore- penso che si debba utilizzare tanto il dato oggettivo che

la soggettività37

di chi conduce l’analisi.

Negli anni successivi, oltre a mostrare un vivo interesse per le

controculture giovanili (in particolar modo americane e per il Maggio

francese del 1968, riguardo al quale pubblica articoli sul quotidiano

Le Monde), Morin entra a far parte (1968) del Gruppo dei Dieci: un

gruppo di scambio, di contributi e di discussioni formato da Jacques

Robin e costituito principalmente da biologi e cibernetici. In questa

occasione si fa chiara a Morin un’idea che sarà poi fondamentale per

il suo pensiero ovvero quella per cui “la cibernetica, lungi dall’essere

una riduzione semplicistica a schemi meccanicistici costituisce invece

un’introduzione alla complessità”38.

L’anno successivo accade per Morin un avvenimento che può

essere definito come una vera e propria chiave di volta e che lo

condurrà, sebbene non immediatamente, all’ipotesi di pensiero

complesso. E’ infatti il 1969 quando Morin, grazie a Jhon Hunt e

Jacques Monod, viene chiamato in California all’Istituto Salk di

ricerca biologica dove entra in contatto con la General System

                                                            37 E. Morin, G. Cotroneo, G. Gembillo, Un viandante della complessità cit., p. 51 

38 E. Morin, Il paradigma perduto, cit. p. 10 

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Theory39. Principalmente lì, come descrive lo stesso Morin, il suo

compito era quello di imparare e pensare; gli è stata data, in altre

                                                            39 La teoria dei sistemi o sistemica è un'area di studi interdisciplinari che si occupa delle proprietà di un sistema nella sua interezza. Essa fu fondata negli anni 1950 da Ludwig von Bertalanffy, William Ross Ashby ed altri, basandola sui principi dell'ontologia, della filosofia della scienza, della fisica, della geologia, biologia e dell'ingegneria, trovando poi applicazioni e nuove idee in tutte le scienze, tra cui geografia, sociologia, scienze politiche, teoria delle organizzazioni, management, psicoterapia, economia, etica, virtualità, didattica e sistemi intelligenti. La teoria dei sistemi nacque come risposta alle nuove conoscenze che la biologia cominciò a sviluppare nei primi anni del XX secolo e che fecero nascere la scuola di pensiero organicistica che si opponeva a quella meccanicistica, caratteristica del XIX secolo. Uno dei primi esponenti di questo tipo di pensiero fu Ross Harrison che studiò il concetto di organizzazione identificando nella configurazione e nella relazione i due elementi più importanti degli oggetti che compongono un sistema. Uno degli elementi fondamentali dell'organizzazione negli organismi viventi è la sua natura gerarchica, ovvero l'esistenza di più livelli di sistema all'interno di ogni sistema più ampio. Così le cellule si combinano per formare i tessuti, i tessuti per formare gli organi e gli organi per formare gli organismi. A loro volta gli organismi vivono in gruppi formanti sistemi sociali che vanno poi a formare, attraverso l'interazione con altre specie, gli ecosistemi, ultimo livello di organizzazione sistemica secondo il fisico e divulgatore Fritjof Capra. Ciò che risultò subito chiaro fu l'esistenza di diversi livelli di complessità e che ad ogni livello di complessità i fenomeni osservati mostrano proprietà che non esistono al livello inferiore. Nei primi anni Venti il filosofo C. D. Broad coniò per questo tipo di proprietà il termine Proprietà Emergenti. Questo tipo di concezione contraddice il paradigma cartesiano secondo cui il comportamento della totalità può essere compreso completamente studiando le proprietà delle sue parti. La teoria dei sistemi non può dunque conciliare con l'approccio analitico o riduzionistico che aveva caratterizzato il modus operandi degli scienziati fino a quel tempo. Il concetto di sistema si è rapidamente diffuso nell'ingegneria dove certi strumenti interpretativi ad esso connessi possono ritenersi patrimonio consolidato. Particolarmente efficace è la possibilità di ridurre, in sede di analisi, il funzionamento di fenomeni fisici complessi all'interazione di sistemi più semplici e, viceversa, la possibilità di progettare sistemi in maniera strutturata componendo unità più semplici. Scopo della classica Teoria dei Sistemi (TdS) è introdurre, nei principali metodi di studio, dei sistemi dinamici orientati con particolare riferimento alla classe dei sistemi lineari e stazionari, a tempo continuo e a tempo discreto. In Ingegneria la necessità di associare ai fenomeni una loro descrizione quantitativa ha poi dato luogo all'associazione sistema-modello, cuore della Teoria dei Sistemi: questa pertanto ha l'obiettivo di inquadrare in maniera unitaria le relazioni di causa-effetto e fornire degli strumenti di analisi matematica e sintesi ingegneristica.

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parole, la possibilità di autorieducarsi.

Durante questa esperienza, contrariamente a quanto si possa

immaginare, non accadde una conversione alla biologia del nascente

pensiero moriniano quanto piuttosto una sua riconversione teorica. E’

in tale contesto, e grazie agli enormi passi avanti fatti in campo

biologico (campo in cui, al contrario del determinismo nelle scienze

fisiche e attraverso l’idea di mutazione ed evoluzione, si è introdotta

l’idea di caso; idea che, secondo Morin è di vitale importanza: il

fattore casuale non deve essere eliminato ma anzi integrato nei nostri

sistemi culturali), che sorge il concetto per cui non c’è differenza tra

la materia, la sostanza della vita e la sostanza fisico-chimica: l’unica

differenza che si può scorgere è di organizzazione, ovvero di

complessità dell’organizzazione della vita. Vita che, a livello

organizzativo, costituisce un caso sui generis in quanto si può parlare

di auto-organizzazione (sarà questa una categoria essenziale

nell’evolversi del pensiero moriniano).

Non bisogna dimenticare che molteplici e diverse sono le

correnti di pensiero che implementano l’edificio della Teoria

Generale dei Sistemi come non bisogna tralasciare il fatto che in

quegli stessi anni la problematica ecologica cominciava ad imporsi in

ogni dove.

Una volta tornato a Parigi, segnato dall’ esperienza oltremodo

formativa acquisita al Salk Institute, Morin trae, da due idee

fondamentali allora di recente scoperta, un’ulteriore spinta per la

rimessa in questione dei fondamenti stessi del suo stesso sistema di

pensiero. Tali nozioni sono:

1. L’idea di Von Neumann quale è espressa nella “Teoria

degli automi” che si auto-organizzano, cioè la differenza

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tra una macchina artificiale e una naturale, viva. Si crea

in tale concezione il paradosso per cui la macchina

artificiale, costituita da componenti più solide e più

affidabili ha meno possibilità di durare di una macchina

naturale sebbene quest’ ultima sia costituita di

componenti (le proteine) molto deboli e che si

disintegrano rapidamente poiché tra le due solo la

macchina vivente è in grado di auto-ripararsi e di auto-

generare le proprie parti costitutive.

2. L’idea detta “order from noise” o “casualità

organizzatrice” del già citato Heinz Von Foerster

secondo cui il disordine (il rumore nel senso della teoria

della dell’informazione) gioca un ruolo nella creazione

dell’organizzazione.

Sempre dopo essere tornato a Parigi, Morin ha creato, con l’aiuto

di importanti figure del panorama culturale di quegli anni, il Centro

Royamount istituito per una Scienza dell’Uomo (prima del 1972

denominato CIEBAF acronimo che sta per Centre International

d’etudés bio-anthropologiques et d’anthropologie fondamentale) e

con l’intento di realizzare concretamente la connessione tra

antropologia e biologia, due cose prima totalmente disgiunte e

separate, un’istituto nel quale possano essere possibili scambi

interdisciplinari tra scienze umane e scienze biologiche. Nel 1972

scaturisce, da colloqui internazionali, incontri, letture, dibattiti e

indagini tra intellettuali e scienziati, il volume Il paradigma perduto

(opera che viene a costituirsi, sebbene non in completa

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consapevolezza da parte dell’autore, come fase embrionale per il suo

lavoro più vasto, Il Metodo).

Nel pensiero di Morin è altresì forte l’influenza dell’opera di

Norbert Wiener, fondatore della cibernetica, coma anche della

rivalutazione del secondo principio della termodinamica, ovvero

dell’inevitabilità del disordine e, infine dell’idea di Gregory Bateson

sul problema della contraddizione, il cosiddetto double-mind: due

accezioni contraddittorie possono provocare una paralisi o spingere

alla ricerca di una soluzione. (Sulla stessa linea di pensiero Bateson ha

esteso le sue ricerche alla comunicazione animale, ai temi

dell’ecologia e del sacro, per arrivare – con la pubblicazione di Verso

un’ecologia della mente (1972) e Mente e Natura (1979) – a delineare

la trama di una complessa proposta epistemologica volta a ripensare la

Natura in modo sistemico).

Allo stesso modo, le riflessioni sulla scienza di altri eminenti

intellettuali come Heidegger, Husserl, Bachelard, Lakatos, Popper,

Khun portano Morin, oltre che a scrivere diversi testi a tale riguardo

raccolti poi in Scienza con coscienza, a delineare un’ idea centrale nel

suo lavoro e cioè che la definizione di homo sapiens non è sufficiente

a delineare la complessità umana; bisogna pensare in termini di homo

sapiens-demens, categoria che più avanti verrà meglio delineata.

Le esperienze di Morin fin qui tratteggiate, sebbene brevemente,

sono strettamente personali ma confluiscono incessantemente nel suo

lavoro e nel suo sistema di pensiero; così come influiscono ancor di

più nei suoi intenti riformatori e rinnovatori della logica occidentale.

Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, in un’intervista di

Francesca Pierantozzi, Morin sostiene che

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nella realtà ecco quello che succede ancora oggi: l’uomo biologico è

studiato dalla biologia, l’uomo non biologico dalla psicologia oppure dalla

sociologia o l’economia. Il cervello è sistemato nel reparto biologia, il

pensiero e lo spirito nella psicologia. L’uomo è letteralmente squartato.

Per lunghissimo tempo la scienza ha registrato i suoi più grandi

successi grazie al principio della separazione del lavoro e

progressivamente la specializzazione è divenuta eccessivamente

disgregante nel sapere umano tanto è che nel mondo contemporaneo

divisionismo, riduzionismo e semplificazione sembrano essere l’unico

modo di conoscere ed è andata perduta l’attitudine a globalizzare, a

contestualizzare, a tracciare ponti tra i nostri infiniti campi cognitivi.

Occorre altresì trovare un paradigma di congiunzione che permetta di

leggere la totalità degli elementi nel contesto complessivo.

Considerare le discipline come compartimenti stagni può portarci solo

ad un pensiero chiuso che mai potrà aspirare ad essere sistema. La

nostra conoscenza deve essere cosciente di sé stessa e delle

innumerevoli relazioni di ciò che è legato insieme, complesso (nella

valenza di complexus, termine di derivazione latina e che significa

abbracciato, compreso).

Vi è, come si diceva in precedenza, la necessità di una riforma

del pensiero che, nel lavoro di Morin da più di 30 anni or sono, si

configura in definitiva come un principio guida e filo conduttore. Si

cade così, quasi impercettibilmente in un paradosso, anticipato anche

nell’Introduzione, ovvero alla constatazione che per riformare il

pensiero (inteso nel senso di educazione e sapere) bisogna trasformare

l’istruzione, porre in essere una riforma dell’insegnamento. Non

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sempre in modo evidente, ma la conoscenza in realtà serve per

affrontare la vita e per capire dove andare alla ricerca della verità; in

tutto ciò la didattica ha un ruolo fondamentale, o meglio, una

missione. “La conoscenza fine a sé stessa non serve, deve invece

servire per vivere”: questo il monito di Morin in occasione della sua

lezione “La complessità tra epistemologia e didattica” tenutasi al

Liceo Classico T. Campanella di Reggio Calabria. Si crea una

circolarità tra causa ed effetto inquietante per chi, come oggi accade,

è abituato a ragionare all’interno della casualità lineare in cui si sente

protetto dalle proprie connessioni logicamente rigorose ma limitanti.

All’egemonia del calcolo materiale e mercantile, del

consumismo globale, bisogna opporre il predominio dell’incerto e del

relativo, delle peculiarità della condizione umana, del caos; bisogna

abbandonare in altre parole

la fede nel progresso meccanico della storia e cercare un sviluppo

nella volontà, nella coscienza, nell’intelligenza umana. Insisto -prosegue

Morin- a puntare sull’improbabile perché la rinuncia al migliore dei mondi

possibili non significa rinunciare a un mondo migliore40.

Edgar Morin ha attraversato ogni campo della mappa del

sapere combattendo ogni forma di specialismo disciplinare per

muoversi nella contraddittoria e caotica complessità della realtà in cui

siamo immersi: è quanto enuncia Renato Minore nella sua intervista

                                                            40 Intervista di Antonella Marrone, SWIF Sito Italiano per la Filosofia-Il Mattino, 15 Novenbre 2002

 

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dal titolo “Per capire il mondo e trasformarlo”; in essa vengono

riportate le splendide parole del filosofo francese che per l’appunto

sostiene: “per pensare localmente e padroneggiare discipline

particolari si deve pensare globalmente, avere la padronanza del

contesto generale. Solo un pensiero che unisce e interconnette, aiuta a

comprendere”.

La condizione propria dell’uomo post-moderno è quella di

essere nomade del sapere, nomade tra le varie discipline e non si deve

dimenticare che un nuovo modo di guardare il reale, cosa che Morin ci

spinge costantemente a fare, significa anche scoprire nuovi modi di

autoeducarci e diverse possibilità di essere cittadini del mondo

nell’era planetaria.

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Paragrafo I.1

Perché l’ecologia?

Entrando nel pieno merito del discorso che qui va delineandosi,

si scorgono orizzonti prima invisibili ed è possibile rendersi conto

sempre di più di quanto nulla sia separato; di come siano fondamentali

le interconnessioni che legano i vari aspetti qui indagati, cosicché

sembra inammissibile intraprendere un’argomentazione senza

sconfinare in un altra e senza prendere atto delle sue ripercussioni

nell’intera trattazione.

A riprova di ciò basta vedere come Edgar Morin attua quella

che si può definire una sostanziale riabilitazione del contesto

ambientale, come anche dell’oggettività della soggettività, ponendo in

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esso il soggetto/osservatore, inserendolo cioè all’interno della

situazione spazio/temporale in cui opera.

Si fa necessario qui porre in essere un riferimento ampio ma

essenziale all’ambito ecologico della questione. Questo va visto da

un lato come ponte tra il pensiero complesso e la metodologia che gli

è propria, che poco più avanti verrà delineata nel dettaglio, ed etica

ed educazione dall’altro.

Storicamente il termine ecologia (dal tedesco oekologie a sua

volta derivato dal greco oikos –casa- e logos – studio- letteralmente

sta a significare lo studio della casa) viene proposto per la prima volta

nel 1866, come illustra anche Morin nelle pagine de Il paradigma

perduto, dal biologo tedesco Ernst Heinrich Haeckel41. Nell’idea di                                                             41 E. H. Haeckel (1834- 1919) fu uno dei principali esponenti del darwinismo in Germania, che egli interpretò, e in parte corresse, soprattutto sotto l'influenza della filosofia della natura di Goethe. Il darwinismo rappresentava per Heckel non solo una teoria scientifica e filosofica, ma anche uno strumento di liberazione politica e religiosa. Egli concepì una morfologia strettamente meccanicistica, come parte integrante, con la chimica e la fisica, della scienza della natura: forma, materia e forza. Haeckel pensava a un'unificazione della filosofia con la scienza in un'unica indagine. La legge dell'evoluzione di Darwin fu integrata da Haeckel con la «legge biogenetica fondamentale», secondo la quale l'ontogenesi, cioè lo sviluppo individuale degli embrioni, è una ricapitolazione abbreviata e incompleta della filogenesi, cioè dello sviluppo evolutivo della specie. Scrive: “Tutte e due le serie dell'evoluzione organica, l'ontogenesi, cioè lo sviluppo individuale degli embrioni, è una ricapitolazione abbreviata e incompleta della filogenesi, cioè dello sviluppo evolutivo della specie. Scrive: “Tutte e due le serie dell'evoluzione organica, l'ontogenesi dell'individuo e la filo-genesi della stirpe a cui esso appartiene, stanno fra loro nel più intimo rapporto causale. La storia del germe è un riassunto della storia della stirpe, o, con altre parole, l'ontogenesi è una ricapitolazione della filogenesi.[…] L'ontogenesi ossia lo sviluppo dell'individuo, è una breve e rapida ripetizione (una ricapitolazione) della filogenesi o della evoluzione della .stirpe cui esso appartiene cioè dei precursori che formano la catena dei progenitori del relativo individuo, la quale ripetizione è determinata dalle leggi dell'eredità e dell'adattamento. Questo dato fondamentale è

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quest’ultimo, l’ecologia doveva essere per la natura quello che

l’economia era per l’uomo.

Più precisamente, l’ecologia è lo studio delle relazioni tra gli

organismi e il loro ambiente. Essa è venuta a formarsi gradualmente

nel tempo ma la sua qualificazione è di recente formulazione: si

distingue infatti dalla biologia e diviene una disciplina dai contorni

delineati solo intorno al 1900, ma un vero e proprio interesse generale

rispetto ai suoi contenuti si manifesta unicamente nel 1968-70 con

l’affacciarsi delle prime crisi ambientali.

Scrive Morin a tale riguardo: “la nuova teoria biologica,

sebbene incompleta, cambia la nozione di Vita. La nuova teoria

ecologica, sebbene embrionale, cambia la nozione di Natura”42.

Per quanto concerne il primo termine della posizione

moriniana, è nel 1953 che la biologia molecolare riesce a compiere

un passo di apertura verso il basso, decisivo per i suoi sviluppi futuri.

Il primo atto della rivoluzione biologica sta esattamente nella

possibilità di indagare le strutture fisico-chimiche, grazie alla

dimostrazione della sussistenza esclusiva di Sistemi viventi e non di

                                                                                                                                                                   la più importante legge generale dell'evoluzione organica, la legge fondamentale biogenetica”.

E. Haeckel, Storia della creazione naturale, UTET , Torino, 1982, pp. 178-179

 

42 E. Morin, Il Paradigma perduto, cit. p. 23  

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una Materia vivente: ovvero di un’organizzazione particolare della

materia.

Grazie poi all’unione di tale idea e i concetti, prima

sconosciuti, di carattere cibernetico (in primis: l’identificazione della

cellula con una macchina autocontrollata da un codice informazionale)

e organizzazionale in chimica (nozioni come, messaggio, programma,

codice, espressione ed altre ancora, che si pensavano peculiari solo

delle relazioni umane e inscindibili dalla complessità psico-sociale ),

si è verificato un vero e proprio salto epistemologico in rapporto alla

scienza classica in virtù del quale, l’apertura verso il basso di cui in

precedenza si diceva si rivela essere anche un’ apertura verso l’alto:

non è avvenuto ciò che si temeva, ovvero la riduzione dei fenomeni

viventi a meri fenomeni psico-fisici.

Nonostante ciò, la preoccupazione ecologica restava – al tempo- la

minore nell’insieme delle discipline naturali e l’ambiente era concepito

essenzialmente come un modello geo-climatico ora formativo

(lamarckiano), ora selettivo (darwiniano) in seno al quale le specie vivono

in un disordine generalizzato e dove non regna che una sola legge, quella

del più forte o del più idoneo. La scienza ecologica non è arrivata che in

tempi molto recenti a concepire che la comunità degli esseri viventi

(biocenosi) in uno spazio –meglio definito come nicchia geo-fisica

(biotopo) - dà luogo, insieme a questo, a un’unità globale o ecosistema.

Sistema perché l’insieme di costrizioni, di interazioni, di interdipendenze,

in seno a una nicchia ecologica, costituisce, a dispetto e attraverso il caso e

l’incertezza, un’autorganizzazione spontanea43.

Scrive infatti Fortin :                                                             43 E. Morin, Il Paradigma perduto, cit. pp. 27, 28  

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l’écologie n’est pas seulement la science des déterminations et

influences physiques issues du biotope; elle n’est pas seulement des

interactions entre les divers et innombrables vivants constituent la

biocénose: elle est la science des interactions combinatoires/organisatrices

entra chacun et tous les constituants physiques et vivants des éco-

systèmes44.

Va altresì puntualizzato che l’origine dell’ecologia come

disciplina risale proprio alla scoperta che “gli organismi e le

popolazioni non sono messi insieme a caso ma, al contrario, sono

organizzati in comunità o associazioni, la cui struttura e funzione non

possono essere comprese esaminando isolatamente le loro parti”45.

Non è possibile allora studiare la Natura - descritta dagli

scienziati del Seicento come un meccanismo dal funzionamento

ordinato e controllabile - mediante il classico e riduttivo approccio

analitico, proprio in conseguenza del fatto che la biologia ha svelato

una sua caratteristica peculiare incontrovertibile: la Natura è in realtà

un organismo autopoietico, costituito da relazioni complesse e

attraversato da dinamiche caotiche. La biologia svela altresì che la

Natura non ci mostra mattoni isolati ma appare come una trama

complessa e retificata di relazioni fra le varie parti di un tutto

unificato poiché è strutturata su differenti livelli di complessità46.

                                                            44 E. Morin, La Méthode 2, La Vie de la vie, Le Seuil, Paris, l980, trad. it. Il metodo 2, La vita della vita, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 17

45 Goldsmith E., Ecologia della salute, della disoccupazione e della guerra, ovvero: la grande inversione dell'economia e dello stile di vita, Muzzio, Padova, 1994, p. 11

46 Ciò comporta del resto che a ogni livello superiore si riscontrino proprietà inesistenti al livello inferiore delle unità componenti e per questo denominate

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Come cittadini nell’era globale sappiamo che il futuro non si può più

immaginare in base a un sistema interpretativo lineare e sappiamo che

l’approccio più fruttuoso e credibile è quello della complessità, per cui ogni

elemento del sistema è collegato a ogni altro, anche in modi che non si

notano a prima vista. Non per nulla, la parola ecosistema viene usata

sempre più spesso al posto di sistema: quest’ultimo concetto era stato

segnato dalla modellistica basata sui sistemi di equazioni lineari, mentre

l’ecosistema riesce, per analogia a quanto abbiamo assorbito del

funzionamento dell’ambiente naturale, a evocare la complessità47.

Una serie di intuizioni, quelle fin qui descritte, che conducono,

confluendovi, alla nascita del paradigma ecologico (sistemico) il

quale, identificando il tutto come qualcosa di diverso dalla semplice

somma delle parti –come si accennava anche nella premessa del

presente capitolo attraverso le parole pascaliane-, esamina la realtà

senza tralasciarne le interconnessioni e gli orditi; con l’ulteriore

consapevolezza che il soggetto, con le propri pre-comprensioni e

ipotesi, inquina sempre il campo che indaga.

L’ecologia inoltre si costituisce come disciplina autonoma

proprio in seguito alla scoperta che gli organismi vivono in comunità

organizzate e intessono tra loro e con il loro ambiente fitte e

                                                                                                                                                                   “proprietà emergenti” (cfr. p. 36 della presente trattazione). La complessità può essere definita come l’insieme di proprietà emergenti derivanti dalle relazioni biotiche, abiotiche, fisiche, chimiche e sociali, che influenzano o sono modificate dagli organismi, uomo compreso: è dunque indispensabile, anche sotto questo punto di vista, un approccio multidisciplinare.

 

47 De Biase L., il Sole 24 Ore, 20 Novembre 2008, p.9

 

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importanti relazioni così da dare vita a un ecosistema: una comunità

costituita dagli organismi, dal loro ambiente di vita e dal loro continuo

interagire. Al contempo l’ecologia fornisce al nascente pensiero

sistemico i concetti di comunità e di rete

attraverso la visione di una comunità ecologica come unione di

organismi, legati in un tutto funzionante dalle loro relazioni reciproche.

La concezione dei sistemi viventi come reti fornisce una prospettiva

insolita sulle cosiddette «gerarchie» in Natura. Poiché a ogni livello i

sistemi viventi sono reti, dobbiamo visualizzare la trama della vita come sistemi viventi (reti) che interagiscono in una struttura a rete con altri

sistemi”.48

Per la complessità e l’estensione dei suoi oggetti, l’ecologia,

non può configurarsi come uno studio parcellizzato: anzi, sua

caratteristica peculiare è quella di essere una scienza trans-disciplinare

capace di accogliere e raccogliere differenti contributi scientifici; di

coordinarli per comprendere la particolare natura dei processi gaiani.

Non accidentalmente Goldsmith sostiene che l’ecologia non è una

scienza fredda e distaccata bensì emozionale; l’ecologia è una fede.

Il pensiero, soffermandosi e riflettendo, trova analogia con

molti altri ambiti del sapere contemporaneo e sente di doversi

rivolgere in primis a Gregory Bateson che dell’ecologia della mente

ha fatto, oltre che il tema di un suo volume, un strumento formidabile

(sistemico appunto) di indagine della malattia mentale. Egli scrive:                                                             48  F. Capra,. La rete della vita, Nuova visione della natura e della scienza, Rizzoli BUR, 2001, pp. 46, 47. Fritjof Capra si dedica dal 1995 a sviluppare programmi pedagogici volti a riconnettere i bambini al mondo naturale ed ha fondato, per questo intento, un centro per l’ “Ecoalfabetizzazione” in California.

 

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“se volete comprendere il processo mentale, guardate l’evoluzione

biologica e viceversa, se volete comprendere l’evoluzione biologica,

guardate il processo mentale”49.

Un’ecologia della mente, quella di Bateson, che si mostra come

sapere sistemico anche soprattutto quando indaga l’intersezione della

mente umana e (presumibilmente) della sua volontà con l’ambiente

che la circonda; da ciò scaturisce il concetto di errore epistemologico:

la mente è stata addestrata ( o determinata per via genotipica –come

sostiene Bateson-) e mostra cose che nella realtà non sono come

appaiono, tutto ciò senza intervento della volontà e della coscienza.

Soffermandosi ancora sulla categoria di sistema, data la sua

importanza, si può sostenere che pure il mondo moderno può essere

visto come un sistema, cioè, detto in termini scientifici, un insieme di

elementi tra di loro collegati tramite flussi di energia ed informazione.

Un sistema, proseguendo con una terminologia biologica, origina un’

entità organica, globale ed organizzata. E quello che si può definire

un paradigma di complessità ha dunque lo scopo di capire il

funzionamento di un mondo tale, fatto di fitte relazioni fra ambiti

economici, sociali, culturali ed ambientali; aiutando così l’Uomo nel

suo percorso di adattamento piuttosto che supportandolo nello

sfruttamento dell’ambiente.

Basti pensare alle ricadute in ambito etico della maggior parte

delle scoperte scientifiche; o al fatto che, di fronte alla nuova

immagine della Natura come tutto unificato, dove ogni parte agisce e

                                                            49 G. Bateson, Mente e Natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1993, p. 290 

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retroagisce con le altre, ma anche di fronte ai problemi ambientali,

all’incertezza delle conoscenze umane e all’imprevedibilità dei

fenomeni naturali, sono emerse nuove visioni filosofiche che

ripensano allo stile di vita occidentale e alle idee che lo supportano,

riflettono sull’Uomo e sulla sua natura heideggeriana di essere-nel-

mondo.

L’evoluzionismo darwiniano ha dal canto mutato l’idea del

progresso come avanzamento necessario della storia verso una meta

desiderabile, riducendolo a una successione interminabile e senza

scopo priva di significati metafisici. La modernità e la razionalità

scientifica vengono giustamente accusate di portare a una “nuova

barbarie”50 che si evidenzia in una specializzazione, in

un’iperspecializzazione e in una forte frammentazione del sapere il

quale diventa esoterico, comunicabile solo fra esperti.

Scrive Fortin: si nous voulons sortir de la préhistoire et de l’ère

barbare des idées (religions, doctrines, idéologies réductrices et mutilantes),

nous devons civiliser les idées; apprendre a vivre avec nos mythes et nos

idées, trasformer la relation d’asservissement/parasitisme en relation

symbiotique51.

La reazione in ambito epistemologico porta a rivedere l’idea di

progresso e ad affermare che avanzare non corrisponde

necessariamente a migliorare poiché il concetto di “migliore” non è un

                                                            50 Questi i trermini di cui fa uso Morin; in linea con il pensiero della Scuola di Francoforte, secondo la quale l’eccesso di razionalizzazione presente nella società moderna ha condotto l’umanità a una nuova barbarie, il cui culmine è rappresentato dalle guerre mondiali e dall’olocausto.  

51 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p 135

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valore assoluto. Detto in altre parole, parafrasando Pier Paolo

Pasolini, il progresso non sempre è sinonimo di sviluppo.

Un altro fattore importante, che confluisce nell’esigenza di un

cambiamento paradigmatico, è l’idea per cui il mondo fisico tende

apparentemente alla decadenza e il mondo biologico tende al

progresso.

Mi sono chiesto –scrive Morin- in che modo questi due principi

possano essere le due facce della stessa realtà. Mi sono chiesto come

associare tra loro i due principi, il che ha posto dei problemi di logica e di

paradigma52.

Infine dunque emerge un nuovo concetto di Ambiente, che non

connota solo ed esclusivamente la Natura ma un tutto polisemico, un

“sistema di sistemi” di cui l’Uomo è solo una piccola parte che si

trova all’avventura della vita perché “il ramo di un ramo degli

antropoidi si è trovato proiettato, per fortuna o per sfortuna, nella

nuova avventura dell’ominizzazione”53.

Ciò che in tutto questo deve cadere e che la società deve perdere

è la distinzione jungiana tra pleroma (il mondo delle scienze fisiche) e

creatura (il mondo della comunicazione e dell’organizzazione); è il

paradigma del mito umanista secondo cui la dicotomia tra cultura e

natura è imprescindibile e in virtù del quale, prima delle grandiose

modifiche apportate dalla rivoluzione biologica e dalla cibernetica

                                                            52 E. Morin, Introduzione pensiero complesso. Gli strumenti per affrontare la sfida della complessità, Sperling & Kupfer, Milano, 1993, p. 101

53   E. Morin, Introduzione pensiero complesso, cit. p. 58  

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soprattutto, “sembrava che il mondo fosse costituito di tre strati

sovrapposti non comunicanti:

1. uomo-cultura

2. vita-natura

3. fisica-chimica

e a causa del quale sembrava che l’uomo ignorasse la vita”54.

Ciò che dunque deve venir meno, se veramente si vuol

conoscere, “non è la nozione di uomo ma una nozione insulare di

uomo”55, distinto dal Tutto. D’altro canto, è l’archetipo stesso della

chiusura tra i regni del sapere in favore di una loro saldatura

epistemologica a dovere essere scardinato.

Infatti “la conoscenza pertinente è quella capace di collocare

ogni informazione nel proprio contesto e se possibile nell’insieme in

cui si inscrive. […] La conoscenza è tale solo in quanto

organizzazione, messa in relazione e in contesto delle relazioni”56.

Deduzione logica a tali presupposti porta direttamente ad

esplorare le argomentazioni esposte da Morin nel suo lavoro più

indicativo: Il Metodo.

Il faut vraiment lire l’ensamble de la Méthode comme un multi-

démarche en chaìne qui, d’articulation en articulation cherche faire

                                                            54 E. Morin, Introduzione pensiero complesso, cit. p. 21 

55 E. Morin, Il Paradigma perduto, cit, p. 191  

56 E. Morin, La tète bien faite, Seuil, Paris, 1999, trad. it. La testa ben fatta,

Cortina, Milano, 2000, pp. 8-9

 

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communiquer les grandes sphères du savoir : physis, bios et anthropos.

Chaque tome se boucle sur le suivant qui se boucle sur le précédent. […] La

Méthode est un mouvement spiral qui traverse et explore différents

territoires en traversant et explorant différents savoirs pour faire

communiquer ce qui ne communique pas mais devrait communiquer. […]

Cette méthode, si elle se formuler, elle ne pourra se formuler qu’à la fin, car

la méthode est chemin, chemin non pas tracé à l’avance, mais chemin qui se

fait en marchant57.

Questa la descrizione dell’opera magna di Edgar Morin

dedicatagli da Fortin; genericamente e in modo sommario questa può

essere suddivisa in tre ambiti:

• Tomo I e II: l’idea della complessità (e dunque

dell’organizzazione) viene applicata all’organizzazione fisica,

vivente e sociale. Si ha un primo compimento fisico-bio-

antopo-sociologico e il riconoscimento della complessità ad un

quadruplo livello: fisico, biologico, umano e sociale (Cfr.

Paragrafo I.2, Prima e Seconda parte)

• Tomo III e IV: l’idea della complessità viene applicata alla

conoscenza e alle idee. Si ha il compimento epistemologico che

ritorna nei feedback58 sul compimento precedente.

                                                            57 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., pp. 80-81

58  La retroazione o feedback loop (anello di retroazione) oltre a costituire la differenza tra organismi viventi e macchine “è una disposizione circolare di elementi connessi causalmente, in cui la causa iniziale si propaga lungo le connessioni dell’anello così che ogni elemento agisce sul successivo, finché l’ultimo propaga di nuovo l’effetto al primo elemento del ciclo […] il che dà come risultato l’autoregolazione dell’intero sistema”. F. Capra, La rete della vita, cit., p. 69  

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Riconoscimento della complessità della conoscenza e delle

Idee a livello nooologico. (Cfr. Paragrafo I.3)

• Tomo V e VI: l’idea della complessità viene applicata

all’essere umano, alla società e all’etica. Ugualmente a quanto

avviene nei tomi precedenti, vi è il compimento atropo-socio-

politico-etico che ritorna (loop) sui compimenti antecedenti.

Riconoscimento della complessità ad un altro quadruplo

livello: umano, sociale, politico ed etico (Cfr. capitolo II

Paragrafo 1).

Un metodo è certo sempre un criterio con il quale si affrontano

le questioni ma, in Morin, esso è qualcosa di più, forse proprio perché

incompiuto e mai delimitabile del tutto. Come egli stesso sottolinea il

termine metodo non significa affatto metodologia.

Le metodologie sono delle guide a priori che programmano le

ricerche, mentre il metodo che viene elaborandosi nel nostro cammino sarà

un aiuto alla strategia (che comprenderà utilmente, certo, dei segmenti

programmati, cioè “metodologici”, ma comporterà necessariamente un

margine di scoperta e innovazione)59.

Dato il carattere quasi inattuabile della missione che si

prefigge, Morin apporta una breve ma decisiva giustificazione dei

suoi intenti riformatori sostenendo quanto segue:

                                                            59  E. Morin, Il metodo 3.  La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, Milano,

1993, p. 33

 

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so che è impossibile sul piano della completezza e della compiutezza

ma io, personalmente, non posso accettare le degradazioni e le devastazioni

provocate dalla suddivisione per compartimenti e dalla specializzazione

della conoscenza60.

La differenza è un’idea; poiché tale, può essere rivista e

modificata.

                                                            60 E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit. p. 101 

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“Camminante, non c’è alcuna via.

Ogni via si fa camminando”.

Antonio Machado

“L’adeguatezza del metodo analitico è inversamente proporzionale

alla complessità studiata”.

Woçjciechowski

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Paragrafo I.2

Dopo l’ecologia: un nuovo discorso sul metodo

Paragrafo I.2.1

Per quanto impossibile sia la missione prefissatasi da Morin lo è

ancor di più, come egli sostiene, rinunciarvi.

Ne “La Méthode”, come si diceva opera maggiore di Edgar

Morin il cui completamento è emerso dopo 3761 anni di lavoro e

costituita di sei tomi, vengono magistralmente affrontate le difficoltà

di pensare la complessità del reale e viene altresì illustrata la genesi

del pensiero complesso come unico capace di comprendere la realtà

mutevole e intrinsecamente non semplificabile. Quello che viene a

costituirsi è un metodo di certo esposto ai rischi dell’incertezza ma

che non pretende sicuramente di concepire teorie unitarie, se con tale

                                                            61 

1977, La Nature de la nature 1980, La Vie de la vie 1986, La Connaissance de la connaissance 1991, Les Idées 2001, L’Humanité de l’humanité 2004, L'Éthique complexe

 

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aggettivazione si intendono teorie astratte, semplificanti, ideologiche.

Un metodo che tende a collegare ciò che è disgiunto e ad articolare

ciò che è separato. Un metodo che altresì rivela e non nasconde i

legami, le solidarietà, le implicazioni, le connessioni, le

interdipendenze, le complessità.

Ripercorrere La Mèthode a grandi linee, data la voluminosità

molto corposa dell’opera, è lo scopo principale di questa parte della

trattazione che, nel conseguirlo, prende le mosse dal lavoro di Robin

Fortin. Egli, nel volume Penser avec Morin, metaforicamente

parlando ci porta a seguire il percorso tracciato appunto da Morin

nella costituzione in itinere del suo metodo.

Per questioni d’ordine metodologico e logico, l’indagine qui

perseguita prende le mosse dal testo La Natura della natura in cui è

possibile scorgere in primo luogo il passaggio da una scienza centrata

sull’essere a una scienza orientata al divenire.

La fisica classica, i cui concetti non possono essere considerati

antropomorfi quanto piuttosto antropocentrici perché permettono il

dominio dell’uomo sulla natura, ebbe un’ammirevole ambizione:

isolare i fenomeni, le loro cause e i loro effetti, sperimentare

manipolando, per strappare alla natura i suoi segreti fino a giungere

paradossalmente a considerare la manipolazione stessa uno scopo, per

di più utilitaristico. In altre parole,

la fisica –moderna- occidentale non ha soltanto disincantato l’universo,

lo ha desolato – un universo sbriciolato che oggi è in crisi-. La riduzione e

la semplificazione, necessarie alle analisi, sono divenute i motori

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fondamentali della ricerca e della spiegazione, occultando tutto ciò che non

era semplificabile, cioè tutto ciò che è disordine e organizzazione62.

E – scrive Morin- “noi siamo eredi di questo pensiero dissociante.

Di più, abbiamo messo nel dimenticatoio Hybris e Kaos

(disintegrazione organizzatrice)”63.

Il problema fondamentale è allora quello di ristabilire e di indagare

ciò che nella dissociazione è andato perduto: la relazione, secondo

Morin permanente e simultanea, in tutti i campi del sapere e

soprattutto tra individuo/società/specie. Una saldatura empirica,

questa, necessaria affinché l’individuo (inteso in senso ampio: Uomo)

venga considerato come facente parte di un concetto trinitario in cui

non si può subordinare né ridurre un termine a un altro.

Come supportare una tale esigenza? Teoria dell’organizzazione e

principio di spiegazione complesso sono la risposta, non certo facile e

sommaria, ad una tale necessità e costituiscono anche i fondamenti

del pensiero moriniano.

La conoscenza complessa non può essere operazionale né tanto

meno manipolatrice cosa che invece è caratteristica propria della

scienza classica. Sostiene infatti Morin:

l’operazionalità della scienza classica è di fatto un’operazionalità di

manipolazione. Dal XVII secolo ai giorni nostri si è costituito un anello

prussico in cui la verifica sperimentale è al servizio della manipolazione in

                                                            62 E. Morin Il Metodo I, cit., p. 425, 426

63  E. Morin Il Metodo I, cit., p 61 

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61

quanto la manipolazione è al servizio della verifica; o, visto

schematicamente:

manipolazione sperimentazione

(tecnica) verifica

verità 64

Il concetto di organizzazione, di cui si è parlato in

precedenza per esplorarne la genesi, introduce una dimensione

fisica alle radici della vita e del sistema65 atropo-sociale; entrambi

questi due ultimi ambiti devono essere intesi come sviluppi

trasformatori dell’organizzazione fisica. Ergo, bisogna ancorare

non solo l’antropo-sociologia alla biologia ma entrambe queste alla

fisica:

                                                            64 E. Morin Il Metodo I, cit., p. 69  65 « Un système est une unité globale, non élémentaire, puisqu’ il est constitué de parties diverses interrelationnées. C’est une unité originale, non originelle: il dispose de qualités propres et irréductibles, mais il doit être produit, construit, organisé. C ‘est une unité individuelle, non indivisible […]; une unité hégémonique, non homogène […] ». Fortin R, Penser avec Morin, cit.,p. 105 

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Biologia Fisica

Antropo-sociologia

A prima vista circolo vizioso, questa è una relazione circolare

che esprime l’idea secondo cui una scienza dell’uomo postula una

scienza della natura la quale a sua volta richiede una scienza

dell’uomo, viene in realtà a configurarsi come circolo virtuoso

(riflessivo e generatore di un pensiero complesso).

La scienza classica –scrive Morin- non aveva a che fare con un caos

originario, in un universo eternamente e sostanzialmente ordinato. Essa

aveva anche, all’inizio del XX secolo, dissolta l’idea di cosmo […]. Ora,

l’astronomia posteriore a Hubble66 ha esplicitamente rigenerato l’idea di

cosmo mostrando che l’Universo era singolare e originale riabilitando così

anche l’idea di Caos. Esso è sinonimo di distruzione e confusione ma

soprattutto di indistinzione, che di certo precede quella di separazione e

distinzione67.

                                                            66  E. P. Hubble (1889 – 1953) astronomo e astrofisico statunitense. La legge empirica di Hubble –di cui non viene qui esposta la dimostrazione matematica per ovvi motivi- è un'importante conferma osservativa della soluzione delle equazioni di Albert Einstein che si ottiene ipotizzando un universo omogeneo isotropo ed in espansione.

 

67 E. Morin, Il Metodo I, cit., p 63 

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“Le désordre microphysique, en faisant souche au niveau le plus

élémentaire de la matière, ébranle les fondements de la physis”68.

Per tali cagioni, l’indagine moriniana si fa strada a partire dalla

cosmogenesi che si manifesta nel e tramite il Caos proprio perché esso

è visto come “ciò che è inseparabile nel fenomeno bifronte tramite il

quale l’Universo – simultaneamente- si disintegra e si organizza, si

disperde e si costituisce”.

Da ciò, egli sostiene, può venir messo in evidenza quello che

definisce anello tetralogico69 così composto:

In questo senso il Caos è veramente oriundo70; da esso poi

possono scaturire, senza per ciò eliminare e scalzare il caos, ordine e

organizzazione.

                                                            68 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 30 

69 di cui viene fornita riproduzione di quello moriniano: E. Morin, Il Metodo I,

cit., p. 60 

70  “La disgiunzione e la semplificazione sono morte a partire dalla stessa base della realtà fisica. La particella subatomica è sorta in maniera irrevocabile nella confusione, nell’incertezza, nel disordine”. Morin. E. Metodo I, cit., p.12 

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A detta di Morin, in tale anello nessuna parte può essere presa

in considerazione tralasciando le altre parti che lo compongono. I

termini costituenti infatti vanno concepiti come un insieme: termini

che nello stesso tempo sono concorrenti, antagonisti ma anche

complementari fra loro.

Tale anello viene inoltre, come si vedrà tra breve, a costituirsi

come principio immanente di trasformazione e organizzazione interno

alla physis.

Con tali presupposti si può ben dedurre che physis, cosmo e

caos non vanno più percepiti in maniera dissociativa ma sono anzi da

considerarsi sempre compresenti gli uni agli altri. Il problema è

esattamente qui che nasce poiché la nostra intelligibilità logica tende

costantemente a respingere ciò che il caos spinge a fare, ovvero

obbligare le nozioni antagoniste a contorcersi l’una verso l’altra e ad

allacciarsi fra loro.

Quella fede di cui parlava Goldsmith –riportata in questa sede

poche pagine prima- e che mostra un senso vivo della volontà di

sapere, scaturisce anche dalle toccanti parole di Morin il quale scrive:

il caos ci offre un universo grandioso, profondo, degno di

ammirazione con il quale vi invito a barattare senza esitazioni il vostro

piccolo ordine a orologeria costruito da Tolomeo e attorno al quale Galileo,

Copernico, Newton avevano fatto soltanto delle rivoluzioni senza

apportarvi la Rivoluzione71.

                                                            71 Morin. E. Metodo I, cit., p. 67

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Puntare dunque non più all’equilibrio, alla resa del tutto

ingabbiabile dalle nostre ferree strutture logiche e razionalizzanti ma

anzi far frutto dell’incertezza e del dubbio estremo, non certo neanche

di sé, è l’esortazione moriniana.

Ora, come indica anche Morin, se poniamo il problema nella

sua maestosità cosmica, ci si palesa che l’universo non è, per certi

versi, un sistema; questo perché dobbiamo concepirlo dal punto di

vista del divenire messo in auge: anche l’universo si configura come

un apprendista sistema,

un processo che attraverso le sue continue metamorfosi ( si sbriciola

e fraziona nello stesso movimento in cui si costituisce) prolifera sotto forma

di polisistemi e di arcipelaghi di sistemi ma che, per questi stessi tratti, si

trova privo di ogni organizzazione sistemica d’insieme72.

Proseguendo nella sua dimostrazione, Morin sostiene che il

secondo principio della termodinamica considera, in parte

erroneamente, l’ordine e l’organizzazione come stati iniziali perché

ignora proprio ciò che egli stesso vuole dimostrare.

La sede originaria di questo principio è il sistema fisico (il

dasein, soggetto al tempo e dipendente dal suo habitat) nel quale esso

si definisce come principio statico di degradazione dell’energia, di

disordine degli elementi costitutivi e, quindi, di disorganizzazione.

L’aumento di entropia di un sistema significa crescita di

disordine e disorganizzazione. Accade allora, nella costellazione del                                                             72 Morin. E. Metodo I, cit., p. 76 

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pensiero moriniano, che tale principio travalica i confini della

termodinamica, pur rimanendole intrinseco, per essere compreso in

una teoria dell’organizzazione.

All’entropia – tendenza irreversibile alla disorganizzazione propria

di tutti i sistemi che, in quanto universale, interessa anche i sistemi aperti ivi

compresi gli esseri viventi- bisogna fornire una vita di natura

organizzativa73.

A tale scopo bisogna che un sistema sia collocato in un

ambiente ed evitare di considerarlo in isolamento. E’ così infatti che si

fa chiara l’idea per cui ogni sviluppo di organizzazione, ovvero ogni

regressione di entropia, ovvero ancora ogni neghentropia locale

aumenta l’entropia nell’ambiente che comprende il sistema.

Detto ciò però non si deve certo considerare il secondo

principio della termodinamica come chiave dell’Universo né

l’entropia come unica legge a cui l’organizzazione è votata; anzi,

entrambe devono essere sempre associate, e per di più in modo

complesso, all’anello tetralogico, ovvero al principio cosmofisico e

alla nuova concezione della physis che ne consegue.

A questo punto non vi è più uno iato tra ordine e disordine ma si

ha quello che schematicamente così può esser descritto:

disordine interazioni ordine/organizzazione disordine.

                                                            73  Morin. E. Metodo I, cit., p. 77 

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Seguendo i vari punti fissati da Morin in tale dimostrazione si

può sostenere innanzitutto che il secondo principio della

termodinamica si applica, non più solamente agli oggetti fisici presi in

isolamento, ma allo stesso divenire universale; ed in ciò si staglia

come la grande legge dell’universo. Ma ciò comporterebbe solo una

conseguenza: saremmo incapaci di comprendere perché “tutto non sia

già disordine e polvere cosmica, perché si siano sviluppati ordine e

organizzazione”74.

E’ qui che si innesca allora la problematizzazione moriniana in

seno alla nostra concezione della physis e del cosmo; Morin dichiara

infatti che

si deve concepire il secondo principio come espressione parziale e

amputata di un principio cosmologico complesso –che altro non è se non

l’anello tetralogico esposto in precedenza- e come l’espressione necessaria

e insufficiente di un principio fisico fondamentale che associa e dialettizza

ordine/disordine e organizzazione75.

Va precisato che l’anello tetralogico non è affatto un circolo

vizioso né un moto perpetuo, soprattutto per il fatto che vi è sempre

ciò che viene definita una perdita, ovvero una parte di disordine non

recuperato che diventa dispersione.

                                                            74 Morin. E. Metodo I, cit., p. 76 

75 Morin. E. Metodo I, cit., p. 76 

 

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Indagando ulteriormente i componenti dell’anello tetralogico, oltre

a quello di disordine già visto, ne scaturisce che:

• il concetto di ordine nella fisica classica era tolemaico; sostiene

infatti Morin: “come nel sistema di Tolomeo, in cui soli e

pianeti giravano attorno alla Terra, tutto girava attorno

all’ordine”76.

• il concetto di organizzazione è ciò che conduce dall’oggetto al

sistema. Molteplici sono le definizioni che si possono dare

all’idea di sistema ma quelle più interessanti mettono in

connessione la caratteristica globale del sistema stesso ( visto

dunque come unità costituita da parti) e l’aspetto relazionale (le

unità compongono un insieme in quanto in reciproca

interazione).

• per quanto riguarda le interazioni il discorso che si può portare

avanti è intrinsecamente complesso in quanto con esse si

intendono gli incontri aleatori e imprevedibili che avvengono

nel binomio disordine/ordine e tramite la catastrofe, vale a dire i

cambiamenti di forma. Vi è in altri termini un passaggio dalle

interazioni alle interrelazioni le quali diventano organizzative.

Scrive a tal proposito Morin, riprendendo un concetto già

espresso:

non vi è nella Natura un principio sui generis di

organizzazione o organtropia che, come deus ex machina

provocherebbe la riunione degli elementi che devono costituire il

sistema. Non esiste un principio sistemico anteriore ed esterno alle                                                             76 Morin. E. Metodo I, cit., p. 117 

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interazioni fra elementi. Al contrario esistono condizioni fisiche di

formazione in cui taluni fenomeni di interazione77

prendono forma di interrelazione.

interazioni

interrelazioni

organizzazione sistema

Il sistema viene a configurarsi allora come “il carattere

fenomenico e globale che assumono le interrelazioni la cui

disposizione costituisce l’organizzazione del sistema”78. E una tale

organizzazione assume la caratteristica di essere ad anello e capace di

creare sistemi aperti, ovvero atti a richiusure attive, in virtù della sua

stessa peculiarità di mantenere relazioni con l’esterno e addirittura di

svolgere scambi con esso.

Una volta scardinati i concetti di semplificazione manipolatrice,

ordine e differenziazione posti in essere dalla scienza classica, fondata

e sviluppata avendo estirpato da sé ogni principio di finalità, si fa

                                                            77 Morin. E. Metodo I, cit., p. 117 

78 Morin. E. Metodo I, cit., p. 117 

 

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urgente, nel pensiero moriniano, porre una trasformazione, affine e

conforme a quella precedente, ai concetti di causalità e di soggetto.

E’ ciò che appunto si accinge a fare Morin, il quale così prosegue

nel suo studio: mentre nella scienza classica il concetto di causalità era

deterministico, lineare, statistico e stabile ed

era fuori questione che un effetto retroagente facesse effetto sulla causa

e senza cessare di essere effetto, divenisse causale sulla sua causa

divenendo il suo effetto pur rimanendo causa79,

ora è necessario approdare al concetto di endo-casualità80.

Perno del discorso diviene la retroazione poiché essa è intrinseca al

concetto di anello, con cui poc’anzi si è descritto il principio che

sottostà alla natura stessa, e attraverso questo rimanda all’autonomia

organizzazionale (propria anche dell’essere- macchina) che a sua volta

rinvia, poiché la determina, ad un’autonomia causale. In altre parole, il

feedback che si viene a creare all’interno del loop tetralogico

determina l’ endo-casualità.

Va altresì sottolineato che la retroazione non annulla mai la

causa, ne annulla solo ed esclusivamente l’effetto normale che                                                             79 Morin. E. Metodo I, cit., p. 297 

80 Per ragioni di chiarezza si anticipa quanto scrive Morin: “L’anello retroattivo può produrre reazioni, contro-azioni che annullando la causalità esterna proteggono e mantengono l’endo-causalità; essa è così in grado di produrre effetti originali. Vediamo qui che la carenza del behaviorismo era quella di ignorare, concependo la reazione come prolungamento meccanico dello stimolo, la fonte causale originaria del comportamento. L’endo-causalità implica produzione-di-sé. Nel medesimo movimento in cui il sé nasce dall’anello, nasce una causalità interna che si genera da sola, cioè una causalità di sé, produttrice di effetti originali”. Morin. E. Metodo I, cit., p. 299 

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voleva attribuirgli la scienza classica. Grazie a questo tipo di

causalità non vi è alcuna causa esterna (o eso-causalità) che può

agire sul sistema senza che i suoi effetti vengano neutralizzati,

bloccati, deviati, deformati: ovvero, essa non può nel modo più

assoluto agire in maniera diretta e meccanica (a meno che la sua

aggressione non superi la soglia di tolleranza dell’organizzazione

stessa che in quel caso allora distrugge). Spesso la retroazione, in

questo caso definita negativa, non produce l’effetto aspettato e

sospettato ma è anzi in grado di annullare, contrastare e perfino

invertire gli effetti di una causalità esterna. Ciò comporta altresì

una produzione, in rapporto complesso con la causalità esterna, di

una causalità interna.

Quello che la scienza classica toglie, la cibernetica rimette in

auge: la finalità che sembrava scomparsa dall’idea stessa di scienza

rientra, a prima vista impercettibilmente, in virtù delle nozioni

rimesse in gioco appunto da questa scienza dei sistemi, o

sistemica. Essa sola, infatti reintroduce il senso di un fine nel

cuore della teoria fondamentale della vita. Una finalità che, come

scrive Morin, “è un prodotto della produzione autoproduttiva che

nasce con l’anello” 81 (che costituisce contemporaneamente la

finitudine di ogni essre macchinale ma anche la sua apertura,

sebbene chiusa nella finitudine, su ciò che non ha fine) e che si

configura come “emergenza nata dalla complessità

dell’organizzazione vivente nei suoi caratteri

                                                            81 Morin. E. Metodo I, cit., p. 304 

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comunicazionali/informazionali”82. A ben guardare, è possibile

scorgere un deficit della biologia molecolare a cui la cibernetica è

invece in grado di sopperire: un’armatura organizzazionale -basata

su concetti di programma, codice, controllo, traduzione,

comunicazione, retroazione-. E’ così infatti che la cellula (senza

dubbio concepibile come macchina vivente), da un tale punto di

osservazione, può essere vista come un’officina automatica in cui

ogni tipo di operazione e di funzione non è casuale ma

intrinsecamente dotata di uno scopo ben preciso e individuabile.

Non solo, la finalità di ogni parte della cellula confluiva in un

unico grande target: produrre, organizzare per vivere. Ma

diversamente da una qualunque macchina artificiale, quelle viventi

non sono finalizzate detrministicamente fin dal momento della

nascita; tendono sì ad uno scopo ma le modalità e i mezzi con cui

possano raggiungerlo sono lasciati completamente al caso ( o,

potremmo dire, al caos) e all’incertezza. Non vi è un sentiero

progettato e prefabbricato insito agli esseri viventi su cui lasciare

orme sicure.

Ora il vero progresso, prosegue Morin, per un cambio radicale

di paradigma83, sta nell’integrare la finalità nella causalità interna,

                                                                82  Morin. E. Metodo I, cit., p. 310 

83  cfr. T. Kuhn (1922-1996), La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Per paradigma si intende una costellazione di principi, leggi e metodi condivisi da una comunità scientifica. I paradigmi secondo Kuhn sono incommensurabili, cioè non conciliabili tra loro e il passaggio da uno all’altro avviene attraverso fratture discontinue e rivoluzionarie che portano profondi cambiamenti in tutti gli ambiti della vita.

 

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senza dimenticare la caratteristica che le è propria ovvero quella di

essere generativa, nel suo rapporto complesso con l’eso-causalità

così da ottenere, non la risoluzione di un conflitto (tra finalità e

determinismo classico), ma anzi il mantenimento necessario di una

lotta all’interno di questo rapporto complementare, concorrente ed

antagonista tra endo ed eso-causalità.

Il principio di complessità che qui si è cercato in parte di

delineare, attraverso l’esposizione di concetti che concorrono a

formarlo, sarebbe incompleto se venisse a mancare in esso la

presenza di chi, come letteralmente scrive Morin, “è spuntato fuori

insieme all’incertezza cosmica: l’osservatore/concettualizzatore” 84. E’

indubbio infatti che “ogni conoscenza presuppone una mente

conoscente”85.

Si arriva così, ultimo ma non per questo meno importante, al

concetto di soggetto; questi subisce una metamorfosi rispetto

soprattutto alla posizione che ricopriva nella concezione cartesiana.

Di fatto, ciò che si cerca di scardinare è esattamente il

paradigma formulato da Descartes e che ha dominato l’Occidente fino

ai giorni nostri: la disgiunzione del soggetto e dell’oggetto, dello

spirito e della materia, l’opposizione dell’Uomo alla Natura.

Nel pensiero di Morin, in cui l’ordine non è più re, “il n’est plus

indépendant, il n’est plus autosuffisant”86, anche la nozione di                                                               84 E. Morin, Metodo I, cit., p. 98

85 E. Morin, Metodo I, cit., p.98

86 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 31 

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soggetto trova le sue importanti modificazioni soprattutto perché,

come soggetto osservatore, ingloba la physis da cui viene inglobato.

Mentre l’ordine elimina l’incertezza, azzerando la mente umana

poiché qualunque certezza soggettiva si persuade di essere una realtà

indiscussa e oggettiva, il disordine lascia posto ad un osservatore

concreto e tangibile ed alle sue incertezze, di cui anzi può far tesoro.

Ogni scienza, anche quella di tipo più fisico, ha in sé e al suo

seguito una dimensione atropo-sociale. Questo è un fatto

misconosciuto poiché, in virtù dell’onnipotenza di un principio di

disgiunzione, nessuna scienza fisica ammette né vuole riconoscere la

sua natura umana. Un sapere di questo genere viene prodotto non per

essere pensato e capito ma per essere utilizzato in maniera anonima e

capitalizzato senza che se ne conoscano le finalità generiche.

Specializzazione e sbriciolamento delle discipline sono le vere

nemesi di una centralità tanto agognata dell’Uomo.

I progressi maggiori delle scienze contemporanee si sono

verificati reintegrando l’osservatore nell’osservazione. Nel dire che

ogni oggetto ideato rinvia al soggetto ideatore si ritrova l’evidenza

messa in luce da George Berkeley quando sosteneva che non esistono

corpi non pensati.

Non solo, si ritrova una prospettiva similare e congrua

nell’armatura concettuale di Maurice Marleau-Ponty il quale

instancabilmente commenta, critica e riformula il cogito cartesiano

(cogito tacito che pretende di essere libero da ogni mediazione

riflessiva), in quanto punto di intersezione di mondo/essere/verità.

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Nonostante la difficoltà e il rischio di banalizzazioni in cui si

incorre cercando di ridurre la posizione di Marleau-Ponty in poche

righe, si può affermare che nella sua idea, una volta abbandonato il

dualismo tra anima e corpo, trova spazio un mondo della vita,

antecedente ad ogni riflessione, nel quale soggetto e oggetto ( o, in

termini cartesiani, res cogitans e res extensa) si presentano indistinti.

In esso il rapporto originario con il mondo si costruisce attraverso il

corpo, la cui dimensione fondamentale è data dall'esperienza vissuta

della percezione. Il mondo è ciò che percepiamo così come il corpo è

anteriore e irriducibile alla contrapposizione, costruita a posteriori

dalla riflessione e dalle scienze fisiologiche, tra soggetto e oggetto, tra

coscienza e mondo. Esso è l'unità indistinta e naturale di questi poli: il

soggetto del sentire è al tempo stesso oggetto sentito e viceversa.

Quella di soggetto è una categoria che, data la sua importanza, verrà

rispresa successivamente (in I.2.2).

Qui, in conclusione dell’argomentazione proposta, d’obbligo è

sottolineare ciò che maggiormente scaturisce dall’epilogo del discorso

moriniano, ovvero il concetto di una physis allargata, generalizzata,

elevata e aperta in cui “tutto” può rientrarvi, comprese le scienze

sociali e le scienze della mente. “E’ nel momento in cui la scienza

dell’uomo diviene una scienza fisica che – infatti- la scienza fisica

diviene una scienza dell’uomo”87. E non si tratta di ridurre l’una

all’altra ma anzi di farle diventare complementari nel loro

antagonismo.

                                                            87 E. Morin, Il metodo I, cit. p .437 

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“Ogni conoscenza è una prassi fisica che è

contemporaneamente una prassi antropo-sociale”88. Secondo tale

affermazione è possibile asserire che i nostri concetti fisici sono, non

solamente legati ad una determinata visione del mondo ma anche

inscritti, in modo assolutamente interconnettivo, in seno ad una prassi

antropo-sociale legata a questa visione del mondo.

La svolta radicale impressa da Morin all’idea di metodo (inteso

sempre come cammino e mai definitivamente tracciato) segna un

nuovo modo di guardare al mondo. Presupposta la caratterizzazione

data dall’autore, di soggetto/oggetto e delle loro interazioni, si può

sostenere che egli ha eseguito un duplice processo di storicizzazione:

- della logica filosofica

- della logica scientifica

unificando altresì questi due percorsi paralleli in un cammino

circolare.

“L’irruzione congiunta del disordine e dell’osservatore nel

cuore della conoscenza introduce incertezza”89 non semplicemente

nelle spiegazioni e nelle prospettive ma anche e soprattutto nella

natura stessa, sia del disordine che dell’osservatore.

Il paradigma di complessità viene allora a mostrarsi come

l’unico capace di creare una nuova giuntura: l’anello, che solo può

dare ragione ad un’unità di circuito mettendo da parte una

metodologia riduzionista.

                                                            88  E. Morin, Il metodo I, cit. p .437 

89 E. Morin, Il metodo I, cit. p .447 

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Poiché si costituisce a forma d’anello, ogni conoscenza diviene

una comunicazione tra essa stessa e gli altri campi del sapere ma non

solo: si interseca finanche con la conoscenza di sé stessa in quanto

conoscenza della conoscenza.

Ciò che rimane da fare, arrivati a tal punto, è trasformare la

scoperta della complessità in metodo della complessità, consci del

fatto che una tale operazione comporta mettere in opera un pensiero

che implica la sua stessa riflessività.

Puntando l’attenzione sul caratteristico percorso a spirale

perseguito da Morin e preannunciando nel contempo ciò che sarà il

tema centrale delle prossime pagine, va affermato che

a livello dell’organizzazione vivente, il rapporto endo-eso-causalità

diviene un rapporto auto-eco-causale. L’organizzazione-di-sé, divenuta

autoorganizzazione, è dotata di una maggiore autonomia, ma anche di una

nuova dipendenza nei confronti dell’ambiente divenuto ecosistema,

obbediente esso stesso a forme sui generis di causalità generativa. Ciò

comporta che i rapporti tra endo e eso raggiungono qui un altissimo grado

di complessità simbiotica e di interpenetrazione, perché l’eco-sistema è

costituito da questi esseri viventi, che a loro volta si costituiscono in e

attraverso le loro interazioni ecologiche. Infine, indichiamo sin da ora che la

causalità interna si riversa sull’ambiente, nei suoi prodotti, nei suoi sotto

prodotti, nei suoi comportamenti, nei sui asservimenti, ma l’eco-sistema a

sua volta retroagisce sull’ asservitore/inquinatore facendogli subire nuove

dipendenze e il contraccolpo delle sue devastazioni90.

E’ altresì incontrovertibile che                                                             90 E. Morin, Il metodo I, cit. p. 311 

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lo sviluppo e la conservazione dell’autonomia dell’individualità

umana sono legati a un numero grandissimo di dipendenze educative,

culturali e tecniche. […] La dipendenza/ indipendenza ecologica dell’uomo

si ritrova a due livelli sovrapposti e essi stessi interdipendenti, quello

dell’ecosistema sociale e quello dell’ecosistema naturale91.

Un chiaro esempio ne è l’ominidizzazione, inconcepibile solo

come evoluzione biologica per di più lineare o solo come evoluzione

sociale; essa è il frutto di una morfogenesi complessa e

pluridirezionale risultante da interferenze genetiche, ecologiche,

cerebrali, sociali e culturali.

Uno schema della situazione fin qui descritta può essere così

proposto:

                                                            91 E. Morin, Il paradigma perduto, cit. p. 28 

Sistema genetico Sistema cerebrale

Prassi

   Ecosistema Società-cultura

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Paragrafo I.2.2

L’apparizione della vita corrisponde alla trasformazione di un vortice

di macromolecole in un’organizzazione di tipo nuovo, capace di auto-

organizzarsi, auto-ripararsi, auto-riprodursi92, atta a trarre organizzazione,

energia ed informazione dal suo ambiente, ma questa origine non sembra

rispondere ad alcuna necessità ineluttabile. Essa resta ancora un mistero

[…] perciò dobbiamo essere coscienti che navighiamo in un oceano di

incertezza93.

Con queste parole prende sostanzialmente avvio l’indagine

moriniana, propria del secondo tomo de La Méthode.

Se nel primo volume del suo Metodo, Edgar Morin si pone

l'obiettivo di non separare il problema della conoscenza della natura

da quello della natura della conoscenza, lo studio condotto in La Vita

della Vita indaga la sfida della complessità dalla quale è investito

l'ambito della biologia. Tale ambito fu profondamente trasformato

dalla scoperta del DNA, che però non fu accompagnata da una

rivoluzione concettuale adeguata alle nuove realtà che emersero e che

ancora oggi rimane prigioniera di miti riduzionismi e semplificatori. È                                                             

92  Per addurre qualche esempio: l’embriologo tedesco Hans Driesch mediante un esperimento si rende conto che gli organismi viventi, a differenza delle macchine, sono in grado di rigenerare degli interi a partire da alcune delle loro parti. Condusse un esperimento sulle uova dei ricci di mare. Distrusse una delle cellule di un embrione allo stadio bicellulare e dalla cellula rimanente non si sviluppò un mezzo riccio di mare, ma un organismo completo, sebbene più piccolo. G. Bocchi - M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, Milano,1993, p. 126 93 E. Morin, Il Metodo II. Vita della vita, Raffaello Cortina, Milano, 2004 p. 57

 

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questa rivoluzione concettuale che Morin si propone di promuovere:

chiarire l'autonomia e la dipendenza dell'organizzazione vivente in

rapporto all'ambiente in cui si inserisce; senonché l'autonomia e la

dipendenza reciproca tra individuo e specie, dando così una risposta

complessiva al problema logico costituito da ciò che egli chiama

autos.

La connaissance de la vie concern l’organisation de nos échanges

avec l’environnement (la relation écologique), la problématique de

l’organisation vivante (l’autos) et les caractères non élémentaires de

l’individualité (l’individu-suject). Elle inclut tout ce qui possède, maintient,

organise, permet de produire ou de reproduire la vie : les premiers

organismes cellulaires, les organismes pluricellulaires, les milieux où se

tissent les relations entre les êtres vivants, les sociétés qui possèdent elles-

mêmes certains caractères et propriétés de l’organisation vivante94.

L’effettivo punto d’intersecazione tra La Natura della natura e

La Vita della vita è costituito dal concetto di informazione che, come

sostiene Fortin, “vont nous permettre de boucler ensemble ce premier

tome La Méthode et d’introduire au second95.

Come egli illustra, l’idea di informazione appare intorno agli

anni ’40 del XX secolo nel campo delle telecomunicazioni e risponde

a problemi di ordine pratico. In principal modo ad un quesito che si

rivelerà fondamentale poi per gli sviluppi futuri: come trasmettere un

messaggio, nel modo più economico possibile, minimizzando il costo

e massimizzando la qualità del messaggio stesso? A grandi linee è                                                             94  R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 56 

95  R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 50 

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possibile asserire in questa sede che la soluzione a tale interrogativo

nasce dal lavoro congiunto di Shannon e Weaver96 i quali definiscono

l’informazione come una grandezza osservabile e misurabile, quindi

calcolabile e quantificabile (in bits, o unità d’informazione).

Comme toute grandeur abstrait, l’information n’est pas visibile, elle

n’est pas localisable matériellement, elle n’a pas de dimension. Et pourtant

elle est reliée à la matière, à l’énergie, à la physis, à l’organisation

néguentropique97.

In questo senso si può leggere l’informazione –costantemente

relazionata e contestualizzata-, per lo più considerata mera astrazione,

come una nozione avente statuto fisico; essa ha anche tutte le

caratteristiche dell’organizzazione e della realtà fisica (e sostenendo

ciò Morin evita di deificare e reificare la nozione in oggetto) quindi

non può che rigenerarsi all’interno della sua disorganizzazione.

L’organizzazione informazionale degli esseri viventi non deve

essere posta preliminarmente alla loro organizzazione neghentropica98.

                                                            96 Architrave della teoria della comunicazione da loro elaborata, l’informazione è un concetto fisico che sorge in campo tecnologico – più precisamente per la società Bell- affinché si venisse a creare un sistema di comunicazione in cui un emettitore trasmettesse un messaggio a un ricevitore attraverso un canale dato. Non va sottovalutato il fatto che la teoria sull’informazione scaturisce in una situazione di sviluppo dell’ambito comunicazionale umano insito alle società industriali avanzate, occultando il suo sub-strato atropo-sociale.  97 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 51 

98 Il primo principio della termodinamica, già descritto in modo più dettagliato (p. 26), stabilisce che la quantità totale dell’energia dell’universo resta costante; questo è anche chiamato “Principio della conservazione dell’energia”. Il secondo principio stabilisce invece, ricordiamolo, che la qualità dell’energia degrada in modo irreversibile trasformando energia libera, ossia spendibile, in energia non

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Il carattere neghentropico precede, produce, avvolge il carattere

informazionale. […] La neghentropia deve innanzitutto trasformarsi in

informazione per permettere all’informazione di trasformarsi, in seguito

altrove e in modo diverso, in neghentropia.99

E’ solo in virtù di tali due peculiarità, ovvero quelle di essere

una realtà organizzazionista e neghentropica, che si è potuto applicare,

con successo, l’informazione al fenomeno vivente.

La vita è solo una forma particolare dell’organizzazione

neghentropica. Ergo:

Organizzazione

Neghentropia

Informazione

Entrando altresì nella dimensione della physis, grazie

all’organizzazione, l’informazione radica in essa “ciò che prima si

cercava unicamente nella metafisica. […] e diviene inconcepibile al

                                                                                                                                                                   più utilizzabile, o meglio in entropia (Clausius, 1865). L’energia dell’universo è una costante mentre l’entropia tende sempre verso un massimo.

 

99 E. Morin, Metodo I, cit., pp. 345 e 353 

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di fuori di interazioni con energia ed entropia”100. Si può qui scorgere

una velata critica ad un aspetto deficitario, sostiene Morin, della teoria

shannoniana: Shannon infatti concepì il sistema emettitore-canale-

ricevitore come un sistema chiuso e dunque non generativo, e neanche

come organizzazione neghentropica.

L’informazione, “produit de le développement et de la

complexification de l’organisation néguentropique”101, fa, si

accennava, da ponte per il problema della nascita della vita a cui

Morin si rivolge partendo dalle condizioni che hanno fatto nascere la

prima cellula vivente. Con ciò che Morin chiama “l’ingresso nella

macchina” viene indicata l’intersecazione di tali teorie informazionali

all’universo delle macchine, senonché il ruolo rivestito, fin dai suoi

primordi, dalla cibernetica.

Non esiste un’informazione prodotta da un deus ex machina e

che, contrariamente a quanto avviene nelle macchine artificiali, sia

pre-generata e pre-stabilita. Anzi, per comprenderla appieno dice

Morin, bisogna partire dalle proprietà retroattive/ricorsive e

produttrici-di-sé dell’organizzazione attiva.

Non solo, per trarre un primo e pur sempre non definitivo

compimento riguardo all’excursus fin qui condotto sul concetto di

informazione, bisogna far menzione di un’idea ad esso strettamente

connessa, ovvero quella di rumore. Come spiega Morin esso è ciò che

nel suo percorso l’informazione incontra ed è “costituito dalle

perturbazioni aleatorie di ogni genere che sorgono nel canale di                                                             100 E. Morin, Metodo I, cit., p. 354  

101 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 53  

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trasmissione”102. Non bisogna altresì dimenticare che nella concezione

shannoniana della comunicazione non si presta affatto attenzione al

senso del messaggio; essa è muta e cieca sulla sua stessa

significazione.

Entrando sempre di più nel vivo del discorso ci si rende

immediatamente conto che vi è da dimostrare ampiamente, nonostante

i concetti fin qui esposti, l’autonomia dell’autonomia vivente, bisogna

cioè “risolvere il problema logico della complessità per riconoscere,

nella sua stessa dipendenza e attraverso di essa, l’autos”103.

“Si l’on définit la vie par l’organisation, l’autos est le macro-

concept de l’organitacion vivante”104 e diviene paradigma.

Per meglio esprimere il suo intento Morin apporta un’analogia

come esempio:

l’uccello che vola nel cielo è determinato fisicamente,

ecologicamente, geneticamente; il suo volo è aleatorio[…]. Ma è anche, in e

attraverso le sue determinazioni e i suoi caratteri aleatori, un individuo

vivente […]. E noi dobbiamo cercare una descrizione, una spiegazione che

non solo non sopprima l’uccello ma lo esprima105.

Per elaborare il concetto di autos Morin è in un certo senso

costretto a demolire tutte quelle concezioni che annientano                                                             102 E. Morin, Il metodo I, cit., p. 348 

103  E. Morin, Il metodo II, cit., p. 11 104 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 79 

105 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 13  

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l’autonomia vivente –soprattutto fenomenica-, tra cui due sistemi di

pensiero, sebbene tra loro contrapposti, quali l’ambientalismo –“qui

ne conçoit de causalité qu’extérieure et qui fait de l’être vivant une

marionette contrôllée, dirigée et mue par le milieu”- e il genetismo –

“assujettit l’individu à l’empire des Gene set qui nie la causalité

extérieure, affirmant que c’est la molécule, le gène ou l’ADN qui tire

les ficelles”106. Ciò accade perché la logica semplificicatrice schiaccia

l’autos nella morsa del determinismo.

“Il patrimonio ereditario dell’essere vivente107, il suo principio

d’organizzazione e il suo principio di riproduzione è di natura

informazionale”108 ma mai completamente determinato e immutabile.

La vita dispone di un’autonomia originale oltre a quella che

appartiene a tutte le organizzazioni fisiche ( esseri fisici organizzatori-

di-sé). Sue caratteristiche proprie sono quelle di essere un’:

- autonomia individuale: un indipendenza questa che si auto-

produce nutrendosi di materia/energia e di informazioni e

resistendo ad alee ed aggressioni.

- autonomia genetica: dalla quale la prima procede ed è costituita

a partire dal patrimonio ereditario (Cfr. DNA)

                                                            106 Cfr. Fortin R., Penser avec Morin,cit., p. 77 

107 La duplicazione del DNA, nonostante tutte le precauzioni è un messaggio per nulla al riparo da perturbazioni aleatorie; tali rumori provocano un errore nella copia del messaggio che, se pur non sempre, possono dar vita ad una crescita di complessità organizzazionale. 

108 E. Morin, Il metodo I, cit., p. 356 

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Queste due peculiarità si costituiscono come due livelli

strettamente connessi ma distinti, e sempre distinguibili, tanto da poter

essere interpretati reciprocamente anche in altro modo:

- livello fenomenico: che contempla e raccoglie su di sé

l’esistenza individuale hic et nunc inserita in un contesto

ambientale che la circonda.

- livello generativo: ovverosia un processo trans-individuale che

genera e rigenera gli individui.

Ciò suggerisce che l’autonomia vivente è un’autonomia

d’organizzazione e lo è a due livelli connessi/disgiunti.

Basandosi su quanto riportato nelle pagine precedenti e,

ovviamente, su quanto detto da Morin sappiamo che ora il concetto di

organizzazione è, diametralmente da come era in passato, molto

importante e che la nozione di autos lo rende ancor più vitale. Questa

nozione diviene anzi “la parola sfinge – in cui si celano un’evidenza e

un mistero- che ci pone il grande enigma della vita”109.

Il termine autos conferisce per di più, indicando un ritorno del

medesimo (idem, dimensione della riproduzione) a sé stesso (ipse,

essere individuale), un senso “vivente”, oltre che a quello di

organizzazione, ai termini di produzione e riproduzione, aggiungendo

loro una valenza di autoreferenzialità.

Resta certo di dare concretezza e maturità all’autos e, di

conseguenza, alla costellazione che esso viene a creare, senza affatto

dimenticare le sue relazioni di dipendenza/indipendenza dall’oikos e il

rischio di ridurlo ad uno solo dei termini su descritti.                                                             109 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 16 

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Sostiene infatti Fortin, a tale riguardo, che

l’auto-organisation est inséparable de l’eco-organisation et […]

lorsque nous passons de l’organisation physique à l’organisation vivante,

tous le caractères de l’organisation physique sont conservés et transférés à

l’organisation vivante, mais la vie va développer des caractères nouveaux et

originaux qui vont permettre à l’organisation physique d’accomplir une

véritable mutation110.

Riunendo le tre linee direttive del discorso fin qui posto in

essere e passando dal fisico al biologico (passaggio in cui l’esistenza

diviene vita e il sé diviene autos), è necessario operare un salto

concettuale.

Attraverso un dettagliato scandaglio, Morin conduce l’analisi

della relazione specie/individuo (binomio estrapolato dalla triade

specie/individuo/società per meglio definirne l’importanza) partendo

dalla constatazione che solo dal XIX secolo la dualità ad essa inerente

è stata profondamente trasformata dalla Genetica: prima delle sue

scoperte infatti si parlava solo in termini di opposizione dei due poli

che si possono intendere come generale/singolare, germen/soma,

genos/phainon (secondo quanto già detto). In realtà, spiega Morin,

non vi è, e mai vi potrà essere, opposizione tra questi due concetti; la

dualità geno-fenomenica è di fatto un’unità la quale va concepita non

solo nell’ambito

dell’interazione e dell’indipendenza ma anche e soprattutto nella

totalità dinamica di un’organizzazione ricorsiva. […] Un’organizzazione

                                                            110 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 62  

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ricorsiva è un’ organizzazione che produce gli elementi e gli effetti

necessari alla propria (ri)generazione ed esistenza111;

affermazione questa che congiunge nozioni appena espresse alle

idee riferite nel primo tomo e di cui qui si chiarisce tutta l’importanza.

Organizzazione vivente che, dunque, si costituisce come

organizzazione meccanica e ricorsiva ( poiché produce prodotti che

coproducono il proprio produttore), ma anche organizzazione

generativa, poiché usufruisce dell’organizzazione fenomenica in una

logica di retroazione coorganizzatrice. L’unità ricorsiva che nasce

dal congiungimento ad anello di genos e phainon, li porta ad essere in

primis indissociabili e reciprocamente costitutivi uno dell’altro; in

secondo luogo, ad essere costituenti necessari dell’autos, da cui

derivano, e a formare quella che appunto è stata definita la dualità

dell’unità o unidualità.

Impossibile a questo punto tralasciare l’influenza dell’ambiente

in tutto ciò, poiché genos, phainon e oikos compartecipano in

medesima misura alla relazione che viene così a costituirsi:

geno feno eco-organizzatrice

Infatti, l’autonomia, in virtù anche di quanto affermato in

precedenza, va pensata nel paradosso della sua dipendenza rispetto a                                                             111  E. Morin, Il metodo II, cit., p. 32 

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ciò che Morin denomina l’impero dei geni e a quello dell’ambiente,

che in realtà vanno a configurarsi non come gabbie dell’autonomia

ma, permettendo e coproducendo l’auto-causalità, come suoi

presupposti basilari.

Si innalza così il vero punto in questione: non si può concepire

la determinazione genetica senza tenere in suprema considerazione il

contesto in cui è inserita né, tanto meno, l’individualità vivente in cui

essa si inscrive, e che per l’appunto non si limita affatto a subire

un’eredità genetica.

Quella che è sempre stata considerata la rigida determinazione

genetica diviene il fondamento dell’identità individuale. Ciò avviene

in virtù del principio che si confà ad ogni produzione d’essere e che

in questo caso fa sì che ogni individuo “costituisce un’emergenza

globale che retroagisce sulle determinazioni della sua formazione e a

sua volta le determina”112.

Proprio perché l’autonomia degli esseri viventi si forgia tra le

catene di questa schiavitù deterministica, diviene interessante

indagare (e concepire) in modo indissolubilmente connesso l’Io,

l’essere, l’individuo, l’esistenza e il destino genetico collocandoli,

come poc’anzi si asseriva, in un oikos.

Nel compiere tale operazione, non potendo certo riportare

integralmente, per questioni metodologiche, il percorso compiuto da

Morin lungo il corso della sua opera verrà comunque tracciata una

linea capace di arrivare fino a ciò che, in questa sede, più preme

                                                            112 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 51 

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contestualizzare (pur non essendo l’unico aspetto focale) ovvero

l’abolizione della posizione imperante dell’uomo su qualunque altro

genere di essere vivente.

Attraverso un’analisi che si può definire millimetrica per quanto

risulta giustamente dettagliata, Morin illustra che non vi è una netta

separazione tra quelli che lui stesso definisce individualità di primo,

secondo e terzo tipo.

113

                                                            113 E. Morin, Il metodo II, cit., p. 127. Tale illustrazione schematica permette di cogliere meglio il senso delle parole moriniane nel momento in cui esprimono la tripartizione dell’individualità. Questa però non indica né divisione, né subordinazione tra i tre circuiti di cui è composta ma anzi correlazione e reciprocità.   

 

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L’individualità intesa in senso moriniano è innanzitutto diversa

dalla singolarità ed è un’entità complessa. Questa tripartizione va

considerata tale solo da un punto di vista formale poiché nella logica

ricorsiva propria del pensiero moriniano cui tutto sottostà, non vi

sono mai realtà nettamente distinte. Ad esempio, l’individualità del

secondo tipo, in cui quella di primo livello non viene abolita ma anzi

integrata in senso organizzazionale, viene a costituirsi solo in virtù

della tendenza associativa che è propria degli esseri unicellulari

facenti parte, in questo caso, del primo tipo di individualità. Ed ancora

l’individualità del terzo genere, ovvero quella umana sostanzialmente,

non è disgiungibile dalla prima in quanto è peculiarmente, anche se

non unicamente, biologica.

Proprio qui allora entra in gioco un altro fattore: a qualsiasi

livello, ogni essere vivente può essere considerato come un essere

computante; caratteristica che rende ognuno di questi capaci di auto-

affermazione attiva. Non a caso Morin esprime questo concetto con la

formula “il vivo del soggetto”.

Il termine computazione non va inteso nel suo senso riduttivo di

calcolo ma anzi nel suo senso originale (cum-puto: esaminare,

valutare insieme legando e confrontando ciò che è separato e

viceversa) ove appunto sta ad indicare un’azione/reazione

cognitiva114.

                                                            114 “L’unicellulare non reagisce meccanicamente, alla cieca, agli stimoli esterni”. E. Morin, Il metodo II, cit., p. 73  

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Sostenere che ogni essere vivente, dalla cellula all’uomo, è un

essere computante rende ben evidente il carattere

informazionale/comunicazionale che gli è proprio. Chiaro è che

un’auto-affermazione conduce direttamente alle radici dell’Io, per

quanto riguarda i soggetti umani, e indirettamente al problema –già

trattato sotto altri punti di vista- del soggetto come oggetto di sé

stesso.

Concentrandosi sulla dicotomia –imposta dal pensiero

occidentale- tra soggetto e oggetto, si palesa quanto la trattazione di

Morin sul computo sia funzionale all’abolizione di tale bipartizione.

Più precisamente,

l’idea del computo, derivata ed evocata dal cogito cartesiano, può

chiarirsi solo per confronto e opposizione con questo cogito. […] Benché

strettamente situato nella sfera della mente umana cosciente, esso si fonda

sugli stessi processi attraverso i quali si costituisce il soggetto biologico.

[…] Così, ad un primo sguardo opera la dissociazione totale tra la coscienza

umana e l’universo naturale, ad un secondo sguardo ci rimanda alla nostra

nozione biologica di soggetto 115.

Nel considerare la logica operativa del cartesiano cogito ergo

sum, formula che presuppone un’auto-comunicazione pensante tra sé e

sé in cui l’io soggettivo dell’io penso si oggettiva come oggetto di

pensiero, Morin scorge quella che definisce la sua spirale ricorsiva.

Nonostante l’ imputazione del merito a Cartesio, per aver istituito la

nozione di autoreferenza (insita nel cogito ergo sum), Morin ne

adduce una giusta critica composta da due momenti essenziali: in                                                             115  E. Morin, Il metodo II, cit., pp.92 e 97  

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primo luogo, il cogito non va considerato come una verifica (tauto)

logica o come una prova ontologica ma piuttosto come un anello

generatore/produttore riferito all’ego. In secondo luogo, Morin

sostiene che l’autoreferenzialità posta in essere da Cartesio è, a ben

guardare, un’autocoscienza per di pù limitata, in quanto si riferisce

solo all’essere umano, e dipendente, per quanto riguarda la sua

origine, da una causa esterna (volontà divina). L’anello ricorsivo

costituitosi col cogito cartesiano non va di certo abbandonato ma deve

essere immerso nelle spirali interattive del mondo vivente –nelle quali

si ritrova- sempre aleatorie, incerte e indeterminate senza per questo

imporre dualismi.

116

Il cervello umano, questo il senso della spirale, è una mente in

grado di concepire il cervello che la produce.

                                                            116  E. Morin, Il metodo II, cit., p. 102

 

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Solo attraverso un pensiero complesso, questo senso del cogito,

spesso incompreso e travisato, può essere interpretato come

costruttivo e ricorsivo della riflessività del soggetto. Ignorando

questo aspetto, ignorando l’anello che conduce all’ego si precipita

nell’errore di smaterializzare il soggetto, reificando l’oggetto, e

sradicarlo dall’essere individuale. Superando sia il pensiero

cartesiano, anche se in parte inglobato, sia, per certi aspetti, quello di

Piaget117 Morin può affermare che ogni atto di organizzazione vivente

comporta una dimensione cognitiva (sebbene non sempre si tratti di

una conoscenza che si conosce). Nel circuito auto-cognitivo118 “il

computatore si obiettiva come computato (Sé, Me) e si risoggettiva

come computatore (Io)”119. Dire Io, in altre parole, è un’auto -

affermazione ontologica e significa escludere dal centro, che ognuno

di noi è per sé stesso, qualsiasi altro soggetto stabilendo così una

relazione circolare, non per forza cosciente, tra Io ed esterno; istanze,

Io ed esterno, tra le quali non si crea opposizione e dicotomia ma co-

emergenza.

In definitiva, il computo, nel suo continuo connettere il soggetto

e il suo mondo di vita, salvaguarda, oltre che riconoscere e generare,

l’individualità del vivente (soggetto-conoscente-/oggetto-di

conoscenza-) e, nella sua dimensione peculiare riflessiva, è necessario

                                                            117 Piaget J. Biologie et connaissance, Gallimard, Paris, 1967 in G. Bocchi, M. Ceruti, Disordine e costruzione, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 273 

118  “Ogni atto di organizzazione vivente è un atto di auto-organizzazione e si suppone che la dimensione cognitiva dell’organizzazione vivente sia auto-cognitiva” E. Morin, Il Metodo II, cit., p. 100  

119 E. Morin, Il Metodo II, cit., p.101

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all’auto-organizzazione. Ma non solo, il computo si inscrive in un

ambito genetico/ bio-fisico: non può dunque esservi dissociazione né

tanto meno subordinazione tra cervello e spirito, tra ego cogitans120 e

res extensa.

Non c’è corpo vivente senza animazione computante, -poiché- la

nozione ad anello di autos è produttivamente anteriore alle nozioni di

spirito e corpo e -poiché- quella di individuo-soggetto è logicamente

anteriore ad esse121.

Tale affermazione, in altri termini, sta a significare una

comprensione complessa (e che dunque annulla) della dualità imposta

tra anima e corpo.

Il biologico non deve essere ridotto all’antropologico, o

viceversa, né, tanto meno va operata una sintesi tra i due concetti; ciò

che l’etologia dei primati superiori e la preistoria dell’uomo

dimostrano è che si può stabilire una saldatura empirica tra Natura e

Cultura, tra Animale e Uomo. E’ ciò che esige e pretende un principio

di spiegazione complesso e una teoria dell’autoorganizzazione122.

                                                            120 E. Morin, Il Metodo II, cit., p.97  

121 E. Morin, Il Metodo II, cit., p.215 

122 « La connaissance de l’organisation doit nous conduire à une réflexion en profondeur sur les principes organisateur de la connaissance (les paradigmes), laquelle devra nous conduire à une restructuration et une réorganisation on chaîne de notre système conceptuel de pensée ». R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 83 Il passaggio dalla conoscenza dell’organizzazione all’organizzazione della conoscenza è ciò che, come poi si vedrà segna il passaggio dai volumi I e II ai III e IV de Il Metodo.

 

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“L’autonomie de mouvement des individus et la plasticité

morphologique de la société sont inseparables”123.

E’ attraverso questi macroconcetti, attraverso in altri termini

l’integrazione di anelli multipli, che si viene infine condotti a ciò

che più ci interessa nel presente lavoro: si giunge infatti alla società

(di esseri policellulari, esattamente) o, in altra parole, alla comparsa

dell’emergenza dell’individualità/entità del terzo tipo.

Società, individuo policellulare e cellula sono tre insiemi che

costituiscono a loro volta un insieme, inglobandosi ad anello.

Sostiene Morin che, analogamente a quanto accade negli eco-

sistemi, le società, se osservate da un punto di vista storico,

comportano una dimensione eco-organizzazionale la quale nasce dalle

interazioni spontanee tra individui e gruppi e che cresce in modo

direttamente proporzionale con l’aumentare della complessità

sociale124.

La società, termine con cui ovviamente e diversamente da

quanto si pensasse non troppo tempo fa non si indica solo quella                                                                            123 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 74 

124Ad esempio attraverso un capitale propriamente sociale quale può essere la cultura. Cfr. E. Morin Il Metodo II, cit., p. 165. La cultura è fonte di evoluzione dei sistemi socio-economici e, in un mondo dominato dall’uomo, il suo ruolo diventa fondamentale. La cultura implica la conoscenza dei processi naturali ed antropici quindi una società con un elevato grado di cultura riesce a valutare i propri limiti di azione; al contrario in assenza di cultura non è possibile valutare le azioni e la società si avvia quindi verso processi fortemente dissipativi dal punto di vista entropico. Il rapporto fra cultura ed entropia è mantenuto da feedback sia negativi che positivi riscontrabili anche nella realtà, dove, infatti, all’aumentare della tecnologia si verifica una conseguente riduzione di cultura.  

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umana, è comunque qualcosa di diverso dalla somma delle interazioni

di cui poc’anzi si è detto poiché queste “producono un tutto

organizzatore retroagente sui suoi elementi costituitivi”125.

In conclusione, con le parole di Sapir126, si può asserire che è

assurdo dire che il concetto di uomo è talvolta individuale, talvolta

sociale così come è assurdo che la materia obbedisce alternativamente

alle leggi della cultura e a quelle della fisica atomica.

La dissociazione dei tre termini individuo/società/specie spezza la

loro relazione permanente e simultanea. Il problema fondamentale è quello

di ristabilire ciò che nella dissociazione è scomparso: questa stessa

relazione. E’ dunque di primaria necessità, non solo la riarticolazione di

individuo e società ( processo che è stato talvolta intrapreso ma a prezzo

dell’appiattimento di una delle due nozioni a vantaggio dell’altra), ma

anche l’effettuazione dell’articolazione, considerata impossibile ( o peggio

superata), fra la sfera biologica e la sfera atropo-sociale127.

Interessante, e con questo si conclude la prima parte delle

trattazione, è il quesito che Morin si pone:

Non è forse un’estrema e derisoria pretesa egocentrica quella di

crederci gli unici e veri soggetti del divenire? […] Il divenire-soggetto non

può svilupparsi nell’esclusione di uno dei due termini della coppia

individuo/società. Nonostante le nostre spaventose carenze e i nostri deliri,

solo noi, individui umani, siamo in grado di confrontare conoscenza e

                                                            125 E. Morin Il Metodo II, cit., p.158

126 Edward Sapir (1884 –1939) etnologo e linguista statunitense 

127 E. Morin Il Metodo I, cit., p. 4  

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coscienza, solo noi cerchiamo di accedere alla coscienza riflessiva del sé

mantenendo una referenza alla coscienza del tutto128.

Nelle righe conclusive di questa affermazione può essere scorto

ciò che conduce direttamente alle problematiche indagate da Morin ne

La conoscenza della conoscenza (oggetto del prossimo paragrafo).

                                                            128 E. Morin Il Metodo II, cit., pp. 224, 225

 

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“Il semplice

è sempre il semplificato”

G.Bachelard

“Personalmente credo che vi sia almeno un problema che interessa

tutti gli uomini che pensano: quello di comprendere il mondo, noi

stessi e la nostra conoscenza in quanto essa stessa fa parte del

mondo”.

Popper K.

“Sono sempre più convinto che la scienza atropo-sociale ha bisogno di

articolarsi sulla scienza della natura, e che quest’articolazione richiede

una riorganizzazione nella struttura stessa del sapere”

Edgar Morin

La condizione fondamentale delle possibilità di un giusto sapere è il

sapere dei presupposti fondamentali di ogni sapere.

M. Heidegger

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Paragrafo I.3

Il sapere dopo la complessità

Troppo spesso la conoscenza scientifica viene concepita

come

depositaria della missione di dissipare l’apparente complessità dei

fenomeni al fine di rivelare l’ordine semplice al quale obbediscono. Ma le

modalità semplificanti di conoscenza mutilano la realtà o i fenomeni di cui

rendono conto più di quanto non li esprimano129.

Il sapere scientifico non tiene in considerazione il fatto che “il

problema della conoscenza si annida nel cuore della vita”130. Con

questa espressione, Morin non sta certo invocando il bisogno di una                                                              129 E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p 1

130 E. Morin, Il Metodo III, La conoscenza della conoscenza, Raffaello Cortina, Milano, 200, p 43. La biologia ha posto nell’epicentro dell’organizzazione cellulare l’idea di programma e quella di informazione, aventi entrambe una dimensione cognitiva. 

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concezione biologistica; esprime anzi, cosa ben diversa, la necessità

di un radicamento vitale della conoscenza.

Proseguendo la tendenza già insita nella critica apportata al

cogito cartesiano Morin entra, nei tomi III e IV131 de Il Metodo, nel

vivo della conoscenza. Riafferma che, anche a questo stadio

propriamente epistemico del suo lavoro, finanche in termini formali di

composizione dell’ opera stessa, la presunta dualità si traduce in

unità: i due tomi infatti devono essere presi in considerazione in modo

ineluttabilmente intersecato.

Tale opinione trova riscontro, in primo luogo, nell’analisi

fortiniana ove non vi è posta una netta disgiunzione tra i due volumi,

che anzi “constituent une tentative audacieuse de reparadigmatisation

de la connaissance”132 ed in secondo luogo nelle parole di Morin

stesso, il quale interseca costantemente, non solo parti dei due testi,

ma questi con Natura e Vita. Si vedrà, poco più avanti l’importanza di

questi legami.

E’ inammissibile parlare di conoscenza senza apporre al centro

del discorso chi, massimo oggetto d’oblio delle scienze e della

maggior parte delle epistemologie, è stato rilegato a starne fuori:

riprendendo la tematica del soggetto/oggetto infatti Morin torna a

trattare la questione, e tutta l’importanza che essa comporta, della

riflessività della conoscenza, in primis dicendo che: “l’operatore della

conoscenza deve divenire nello stesso tempo l’oggetto della

                                                            131 Ovvero i volumi: Il metodo III, La Conoscenza della Conoscenza e Il metodo IV, Le idee: Habitat, Vita, Organizzazione, Usi e Costumi

132 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 91

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conoscenza”133 pur rimanendo soggetto. A conferma di quanto si

sosteneva in precedenza, la reintegrazione del soggetto riporta sulla

spirale creata e preannunciata nei volumi iniziali de La Méthode.

La mente, non facendo attenzione a se stessa, s’illude e crede di

poter concepire effettivamente corpi che esistono come non pensati e come

esterni alla mente sebbene allo stesso tempo essi vengano colti ed esistano

in essa134.

Strettamente connessa all’abolizione del rapporto dicotomico

tra soggetto e oggetto trova spazio la problematizzazione della

relazione tra mente (psiche, spirito) e cervello. E’ questa in realtà una

tematica che si insinua giustamente in molte pagine dell’opera di

Morin proprio a causa del suo essere fondamentale e mai

completamente circoscritta.

Un medesimo paradigma continua a imporre un antagonismo

insormontabile alle nostre concezioni della mente e del cervello. Esse

rimangono condannate o alla disgiunzione o alla riduzione o alla

subordinazione”135.

Tale è l’antagonismo tra materialismo e spiritualismo, in cui

entrambe le posizioni hanno la pretesa di essere egemoniche. Ancora

più nettamente viene affermata da parte di Morin, l’esigenza di “far

cadere completamente l’idea che possa esistere un fenomeno psichico                                                             133 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 34  134  G. Berkeley, Principles of Human Knowledge, Editore Oxford University

Press, USA, p. 23 trad. It. Trattato sui principi della conoscenza umana, Bari,

Laterza & Figli, 1991, p.39  

135 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 80  

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indipendente da un fenomeno bio-fisico”136 e ancor più quella di

eliminare “la disgiunzione fra la sostanzialità dell’essere e

l’immaterialità del conoscere”137.

La soluzione apportata in prima istanza da Morin è quella di

concepire un anello ricorsivo-produttivo in cui, come ultima

emergenza dell’evoluzione cerebrale, lo spirito è continuamente generato-

rigenerato dall’attività cerebrale […] ed in cui svolge un ruolo attivo e

organizzatore per la conoscenza e l’azione138 .

Come è accaduto in precedenza, per le categorie di autonomia e

dipendenza, l’unità di spirito e cervello crea quella che è possibile

definire con l’espressione “unidualità”: nessuno dei due termini può

annullare l’irriducibilità dell’uno all’altro. Vi è poi da sottolineare

che, in ogni caso, chi conosce non è né lo spirito né il cervello

ovviamente ma è l’essere/soggetto che usa la mente/cervello come

mezzo. Scrive Morin:

abbiamo un bisogno vitale di situare, riflettere, reinterrogare la

nostra conoscenza, cioè di conoscere le condizioni, le possibilità e i limiti

della sua capacità di giungere a quella verità a cui mira139.

Si potrebbe essere tratti in errore e pensare che una conoscenza

che pretende di conoscere sé stessa debba necessariamente costituirsi

come meta-pensiero o meta-coscienza; che debba, in altri termini,

                                                            136  E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 83 

137 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 87 

138 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 91 

139 E. Morin, Il Metodo III, cit., p.114 

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costituire un sistema di meta-punti di vista sulla disposizione della

mente a considerare se stessa. Ma così non è ed anzi è stato forse

questo il grande errore di qualunque teorizzazione sia stata fatta fino

ora. Al riguardo, l’epistemologia moriniana auspica di fatto a tutt’altro

destino: una concezione in cui la conoscenza sia innanzitutto

peninsulare ovvero, a un tempo, biologica, cerebrale, spirituale,

logica, sociale e guidata da principi né separazionisti né dissociativi.

Ogni evento cognitivo richiede la congiunzione di processi fisiologici,

esistenziali, psicologici, fisici, collettivi, personali e trans-personali,

ingranantisi gli uni negli altri. In quanto fenomeno

multidimensionale, la conoscenza, se viene disgiunta e frazionata in

una miriade di aree specializzate che non comunicano tra di loro, non

è più in grado di svolgere quella che è la sua funzione.

Non concepibile come tribunale esterno né superiore alla

scienza, non trasformando la logica in diktat indubitabile

“l’epistemologia complessa deve avere una competenza più vasta

dell’epistemologia classica; non dispone di un fondamento e di un

sito privilegiato e non ha potere unilaterale di controllo”140. Essa

costituisce, nel momento in cui prende forma, una rivoluzione

hubbleana141 in campo epistemologico nel senso che, priva di

fondamento come è, non si reputa il centro della verità ma anzi ruota

attorno al problema della verità.

                                                            140 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 29 

141  Hubble, come già sottolineato in precedenza, ha mostrato che l’universo è privo di centro. 

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Non è possibile addentrarsi pienamente nel merito del discorso

moriniano, che consta di un lavoro da lui mirabilmente condotto ma

in questa sede troppo specifico. Percorrendo e indicando però gli

snodi focali della questione si possono asserire qui vari principi guida.

Nella sua “Antropologia della Conoscenza” Morin inserisce una

Biologia e un’Animalità della Conoscenza. Arrivati a tale punto della

trattazione è chiaro che questi due termini hanno una valenza non

trascurabile nel discorso qui messo in essere.

La conoscenza della vita ci introduce alla vita della conoscenza

poiché “la cognizione, biologicamente dipendente dal soggetto, è un

processo costitutivo dell’organizzazione del soggetto conoscente”142.

Nulla dell’attività della mente umana sfugge alla

computazione143. Sebbene non tutta l’attività mentale sia riducibile ad

essa, ogni conoscenza presuppone una computazione144 e, nello

specifico, la computazione vivente, che è “ad un tempo

organizzatrice/produttrice/comportamentale/cognitiva”145, si trova a

dover risolvere incessantemente i problemi della sopravvivenza prima

                                                            142 Maturana H., Stratégies cognitives, 1974, in Piattelli-Palmarini M., Scienza come cultura. Protagonisti, luoghi e idee delle scienze contemporanee, Mondatori, Milano, 1992, p. 218

143 Come già si è visto, tale termine di derivazione latina indica l’azione di calcolare insieme, comparare, confrontare, comprendere. E’ un’attività di carattere cognitivo inerente non solo all’attività cerebrale ma anche all’auto-organizzazione vivente; negli esseri viventi, comprese le cellule, va ben oltre le capacità dei computer, di cui questa attività è propria, in quanto è in grado di computare in modo egocentrico la propria computazione 144 Nel dettaglio, nozione qui trattata in I.2 

145 E. Morin, Il Metodo III,. cit., p. 51 

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106

ancora che quelli della vita. La computazione vivente inoltre

comporta in sé, e non potrebbe essere diversamente, un fenomeno

originale e fondamentale: l’auto-computazione, ovvero la capacità che

mette in atto il circuito ricorsivo (già presentato in I.2.2) formato da

“Io sono me”.

Per quanto riguarda il secondo costituente di un’antropologia

della conoscenza Morin riprende temi trattati nel volume La Vita

della vita e approfondendo studi da altri compiuti sull’apparato

neuro-cerebrale animale (portanti a dimostrazione tra l’altro che la

conoscenza è una computazione di computazioni) sostiene

l’importanza di indagare l’origine della specie umana.

Bisogna, egli sostiene, reintegrare l’umanità nell’animalità

senza dimenticare che, contenendola e conservandola146 l’umanità

appunto supera l’animalità. Scrive Morin: “l’uomo è intelligente ma il

suo cervello sfida la sua intelligenza”147. Sia che venga intesa in senso

fisico che filosofico, quest’organo è una macchina ipercomplessa, o

meglio una complessità di sistemi complessi, se non che un’

ammirabile esempio di unitas multiplex.

Si necessita di tre principi di intelligibilità per concepire questa

ipercomplessità cerebrale (e perché questa possa altresì applicarsi al

reale):

• principio dialogico, con il quale si intende

l’associazione complessa (complementare/concorrente/antagonista)

                                                            146  Questo il senso moriniano del termine superamento 

147  E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 97 

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di istanze necessarie contemporaneamente all’esistenza, al

funzionamento e allo sviluppo di un fenomeno organizzato. La

dialogica opera a tutti i livelli dell’organizzazione cerebrale148.

• principio ricorsivo a proposito del quale Morin scrive: “ogni

esame delle attività cerebrali deve utilizzare non soltanto

l’idea di interazione ma anche quella di retroazione”149 poiché

si tratta di processi circolari nei quali gli effetti non sono solo

tali ma divengono cause a loro volta. E’ ormai stabilito e

appurato che l’idea di anello non va presa come una mera

nozione cibernetica; essa anzi essa rappresenta molto di più:

ci svela un processo organizzatore multiplo nell’universo

fisico e che si sviluppa nell’universo biologico e ci permette […]

di concepire l’organizzazione del pensiero, la quale può essere

intesa solo secondo un anello ricorsivo in cui

computazione e cogitazione si generano a vicenda150.

Il dinamismo ricorsivo tra spirito e cervello si rispecchia

in quello tra cogito (in riferimento alla parte

psichica/spirituale di apparato cerebrale) e computo (in

riferimento alla parte neuro-cerebrale, al cervello in quanto

entità fisica e organica).

                                                            148E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 112  

149 E. Morin, Il Metodo III, cit., p.114 

150 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 115 

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• principio ologrammatico: con ologramma (dal termine greco

holos, tutto) si intende un’ immagine fisica, concepita da

Gabor, in cui ogni punto dell’oggetto ologrammato è

memorizzato, in un certo senso, dall’ologramma nel suo

insieme e ogni punto dell’ologramma contiene la presenza

dell’oggetto nella sua integralità o quasi. L’ologramma

dimostra la realtà fisica di un tipo sorprendente di

organizzazione in cui il tutto è nella parte che è nel tutto. E’

questo un principio cosmologico chiave poiché la complessità

organizzazionale del tutto esige la complessità

organizzazionale delle parti, come fossero dei micro-tutto

virtuali.

Detto ciò si può asserire che

non si ha più entità di partenza per la conoscenza: il reale, la materia,

la mente, l’oggetto, l’ordine. Si ha un gioco circolare che genera quelle

entità che appaiono come altrettanti momenti di una produzione. Con ciò

non ci sono più alternative inesorabili tra le entità antinomiche che si

disputavano la sovranità ontologica151.

La vera disputa sta ora tra complessità e semplificazione.

V’è da aggiungere infine che, come non si può isolare il cervello dallo

spirito né viceversa, tanto meno si può separare il cervello/spirito

dalla cultura (termine che sta ad indicare genericamente codici

linguistici e simbolici sociali). Essa infatti è “un terzo incluso

                                                            151 E. Morin, Il Metodo I, cit., p. 445  

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nell’identità dello spirito/cervello”152 capace di trasformare

quell’unidualità in trinità.”

Questo punto costituisce il train d’union tra l’antropologia della

conoscenza fin qui indagata, la quale prende in considerazione “la

conoscenza dal punto di vista delle condizioni psico-cerebrali che

presiedono alla sua formazione”153 e che -nel far ciò- la esamina a

partire dalla percezione fino ai miti e alle idee, e una sociologia della

conoscenza: ambito e scopo del IV° tomo de La Méthode.

Face au probléme du fondement, et devant l’impossibilité de troveur

un fondement premier à la connaissance, Morin se voit contraine ancore

une fois à faire travailler la circularité154.

Alcuni concetti espressi nel suddetto volume possono in realtà

essere considerati introduttivi a nozioni esposte e trattate nei volumi

precedenti in quanto indagano le stesse problematiche; ma

quest’indagine ora viene condotta da tutt’altro punto di vista: invece

che muovere dal mondo concepito dalle idee che l’umanità ha, si

rivolge proprio alle idee, alla loro natura, organizzazione e condizioni

di sussistenza. Si ha così una chiara saldatura epistemologica tra le

differenti sfere della conoscenza che è tale solo in quanto prodotto

delle loro interazioni: “il n’est pas de sociologie de la connaissance

                                                            152 E. Morin, Il Metodo III, cit., p. 85  

153 E. Morin, Il Metodo IV. Le idee: Habitat, Vita, Organizzazione, Usi e Costumi, Feltrinelli, 1993, p. 11  154  R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p. 91  

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sans antropologie de la connaissance, les conditions socio-culturelles

de la connaissance”155.

Alla prima esposizione in questi termini, ovvero alla trattazione

di un’ecologia della conoscenza che prende in esame la conoscenza

dal punto di vista delle condizioni socio-culturali e storiche che

presiedono alla sua formazione, fa seguito, logicamente e

cronologicamente, un esame noologico che invece considera la

conoscenza dal punto di vista dell’esistenza e dell’organizzazione del

mondo delle credenze e delle idee.

“Prigioniera della cultura, la mente non può liberarsi se non con

l’aiuto della cultura”156.

Strettamente connessa all’idea di cultura è certamente l’ecologia

della conoscenza tanto è che, scrive Morin,

le condizioni socio-culturali della conoscenza sono per natura affatto

diverse dalle condizioni bio-cerebrali, le une e le altre sono legate assieme a

mo’ di nodo gordiano: le società possono esistere, le culture formarsi,

conservarsi, svilupparsi solo attraverso le interazioni cerebrali/intellettuali

tra individui157.

L’attività cognitiva degli individui si nutre di memoria biologica

ma anche di una memoria culturale, la quale funge da strutturazione

interna più che da determinismo sociologico interno.

                                                            155  R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p. 104

156  E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 97 

157 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 19 

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111

Va ribadito, a questo punto, l’imperativo dell’autonomia

dipendente, ossimoro che si applica anche e soprattutto al concetto di

conoscenza. Infatti, nonostante il determinismo a questa attribuito,

Morin insiste, ragionevolmente, sull’aspetto potenziale di costante

libertà e liberazione della conoscenza stessa in virtù di ciò che egli

chiama crepe/buchi/rotture e depressioni e che stanno ad indicare

genericamente rivolte e devianze, libere polemiche, alee, autonomia

cognitiva, immaginazione individuale, scambi.

Riportando in questa sede in forma affermativa ciò che Morin

scrive in senso interrogativo, si può asserire, senza per ciò travisare il

senso moriniano dell’espressione poiché tutta la sua opera è

indirizzata ad una risposta affermativa a quella domanda: le nostre

idee possono sottrarsi non soltanto all’ego-centrismo personale ma

anche al socio-etno-centrismo (o empreinte sociale, così lo definisce

Fortin158) che ci racchiude in una società e in un’epoca determinate159.

Le idee non vanno astratte dal reale160, dalla società, dal contesto

culturale in cui nascono ma non per ciò vanno ridotte ad essi.

Per quanto concerne, in modo più generico, la sociologia della

conoscenza, si può asserire che la sociologia a cui fa riferimento

Morin, e a cui auspica, non è di certo quella deterministica ma anzi

un’ auto-trans-meta (termini il cui significato è messo in evidenza

nello schema che segue) sociologia in grado innanzitutto di

contemplare riflessivamente se stessa come oggetto hic et nunc.                                                             158  R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p. 107

159 Cfr. E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 96 

160 Come se fossero, di ispirazione platonica, meramente autonome e dominanti. 

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Questa va altresì inscritta in un rapporto di interdipendenza ad anello

tra logica ed epistemologia, tra scienza e conoscenza, tra nooologia e

biologia.

Riportando tale affermazione in modo schematico si ottiene che:

161

Inoltre, connettere questi concetti in modo sistemico significa in

parte addentrarsi nell’elaborazione di una noologia.

La noologia “considera le cose della mente come entità

oggettive”162 ma ciò non esclude che codeste entità possano essere

considerate in modo assolutamente complementari, invece che

antagoniste, sia dal punto di vista degli intelletti/cervelli umani che le

producono (Antropologia della conoscenza) che dal punto di vista

                                                            161 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 100 

162  E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 117 

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delle condizioni culturali della loro produzione (Ecologia della

mente).

Dire ciò, significa altresì dichiarare la necessità che la noosfera

vada articolata nel mondo atropo-sociale poiché “l’intelletto/cervello e

la cultura condizionano, eco-organizzano, vincolano, liberano la

noosfera, la quale condiziona, eco-organizza, vincola, libera

l’intelletto/cervello e la cultura”163.

Nous allons voire que les idées - scrive Fortin a tal riguardo- sans

disposer d’une autonomie propre, disposent d’un pouvoir propre qui leur

confère une réalité et une existence objectives ; […] les idées rétroagissent

sur les esprits/cerveaux et la culture 164.

Noosfera che va inoltre -per i motivi già esposti intrinseci alla

dinamica del pensiero moriniano- strutturata anche nella biosfera,

ovvero nella Natura e nel cosmo, in quanto vi è inglobata, immersa ed

è aperta ad essi.

Per comprendere poi le logiche che sottostanno alla noosfera,

come anche alla biosfera, all’universo fisico e a quello umano, è

necessario ritornare sui passi percorsi ne la Méthode poiché pure la

noosfera stessa è sottomessa a una dialogica di

ordine/disordine/organizzazione (in cui nascono, si trasformano e

muoiono le entità noologiche).

                                                            163 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 129 

164  R. Fortin,Penser avec Morin , cit . , p.115  

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114

E’ la complessità stessa, in definitiva, delle realtà umane e

antropo-sociali che rende la prospettiva noologica indispensabile. Ciò

perché:

senza occultare o negare le determinazioni e i condizionamenti sociali,

culturali, storici; senza negare o occultare i soggetti conoscenti e credenti o

la realtà fondamentale della psiche umana, il punto di vista noologico

consente di descrivere obiettivamente i fenomeni noosferici, di conoscere

[…] i modi di organizzazione meta-biologici delle idee, delle dottrine e

delle ideologie, di prender coscienza delle relazioni dominatrici e asserventi

che queste entità, nate da menti umane, fanno subire a queste stesse

menti165.

Ogni conoscenza comporta non solo caratteri individuali,

soggettivi ed esistenziali ma anche il fatto di essere, in un certo qual

modo, posseduti dalle idee che si crede di possedere.

Sebbene necessitino di un principio di incertezza (essenziale per

riconoscere l’errore, l’illusione o la verità), le tre istanze qui indagate -

antropologica, socio-culturale e noologica- sono simultaneamente e in

eguale misura necessarie alla conoscenza della conoscenza che, a sua

volta, è imprescindibile per una conoscenza complessa. E’ la

complessità intrinseca al reale stesso ad essere intessuta di incertezza.

Il cammino non è però ancora concluso: l’epistemologia

complessa, unica che può evitare il rischio di strumentalizzazioni,

idealismi, razionalizzazioni e che attua un controllo costante e

reciproco tra le nostre idee e le nostre menti, è necessaria ma non

sufficiente.                                                             165 E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 165 

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Il problema cognitivo infatti è un problema quotidiano di tutti;

esso possiede una valenza storica, sociale e politica sicuramente

decisiva; ciò conferisce un ulteriore senso alla missione moriniana, si

vedrà il perché nel capitolo successivo.

Non possiamo fare a meno di una concezione – di noi e- del mondo

[…] per conoscere, per cogliere il nostro essere-nel mondo. […] I nostri

valori non possono certo essere dimostrati empiricamente e logicamente

ma la nostra logica e la nostra conoscenza empirica possono dialogare con

essi166,

aggiungo, ispirati da un paradigma di complessità.

167

Ciò che in tale schema viene sintetizzato è quanto fin’ ora si è,

almeno, tentato di esporre e troverà continuum naturale in ambito

etico ed educativo (nel prossimo capitolo).

                                                            166  E. Morin, Il Metodo IV, cit., p. 263  

167 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 133 

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116

 

“The whole purpose of education is to turn mirrors into windows”. Scopo dell’educazione è trasformare gli specchi in finestre.

Sydney J. Harris

“Il destino dell’umanità dipende anche dal modo di pensare la realtà umana”. Edgar Morin

 

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                           Capitolo II

Etica ed educazione

 

 

 

 

 

Paragrafo II.1: L’etica dell’identità umana

 

  “L’ossessione principale della mia opera – scrive Morin-

concerne la condizione umana”168. Conoscere l’umano non deve e non

può significare astrarlo dall’universo ma anzi situarvelo; soprattutto in

quest’epoca, in cui possiamo dare per dimostrato il nostro doppio

radicamento nel cosmo fisico e nella sfera vivente dai quali siamo

contemporaneamente dentro e fuori. Rivalutando concetti espressi nel

primo tomo de Il Metodo si può asserire che l’essere umano non è

fisico solamente perché composto da particelle, atomi e molecole; è

piuttosto la sua auto-organizzazione ad essere nata da un’

organizzazione fisico-chimica. Non solo, il radicamento dell’essere

umano, per quanto si cerca di allontanarlo e di rigettarlo in un ambito

di sola competenza filosofica, è anche biologico:

                                                            168 E. Morin, Il Metodo V, L’identità umana, Raffaello Cortina, Milano, 2002, p. XIX  

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dalla Terra è effettivamente nata la vita e dallo sviluppo multiforme

della vita policellulare è nata l’animalità e, in seguito, il più recente

sviluppo di un ramo del mondo animale è divenuto umano169.

L’ominizzazione, avventura assoluta nell’evoluzione della vita

che prende avvio milioni di anni fa, conduce all’individuo la cui

caratteristica prima è quella di non avere specializzazione anatomica:

quella che può apparire una mancanza e un’insufficienza in realtà si

rivela essere una virtù e permette all’individuo di diventare un

factotum.

In secondo luogo, cosa che sostenne anche Mointagne, ogni

essere umano, porta in sé l’intera forma della condizione umana.

Torna in auge qui il principio ologrammatico, già descritto170, poiché

unico capace di mostrare quanto l’individuo, nodo gordiano della

trinità umana,

contiene il tutto (della specie, della società) pur essendo parte del

tutto; contiene in sé non solo le complementareità della trinità

individuo/società/specie ma anche i suoi antagonismi e le sue

contraddizioni. […] Non come microcosmo, puro riflesso del tutto ma alla

maniera di un singolo punto di ologramma che contiene la maggior parte

dei caratteri del tutto nella sua stessa singolarità171.

Idea centrale e colma d’implicazione quella di individuo, di cui

anche Fortin parla in questi termini :

                                                            169 E. Morin, Il Metodo V, cit.,  p.7  

170 Cfr. Paragrafo I.3 

171  E. Morin, Il Metodo V, cit.,  p. 51 

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l’individu n’est rien à l’èchelle de l’univers […] mais c’est que press

rien, cette partie insignifiante du tout le contient en retour […]. C’est la

notion d’individu qui fonde l’idée de sujet. L’occupation du site

égocentrique qui place tout individu vivant au centre de l’univers ( de son

universe), site qu’aucun autre individu ne peut occuper à sa place, definit sa

qualité de sujet172.

Contrariamente alla tradizione filosofica imperante in

Occidente, che si è basata e costruita su una nozione di soggetto

immateriale/incorporeo e sradicato da ciò che più in verità lo rende

fondamentale, uno degli intenti moriniani, va ribadito, è di innalzare

la nozione di soggetto a partire dal mondo della vita, immergendovelo.

Morin infatti denuncia tutte le visioni oggettiviste e positiviste che non

vedono nell’essere umano null’altro che una macchina determinista e

chiusa in sé e che sono incapaci di penetrare dentro la vita del

soggetto173.

Come esempio si può addurre (argomento tra l’altro indagato

da Morin anche in altri testi quali Il paradigma perduto e L’Uomo e la

morte) il concetto di morte poiché questo è al contempo l’evento più

oggettivo possibile ma anche il più soggettivo: “la mort objective à

toujours été traitée subjectivament, depuis les débuts de

l’humanitè”174; essa è un fatto, una realtà, un destino biologico

evidente ma che al medesimo tempo viene vissuto interiormente

come paura e angoscia. In virtù di questo, la morte, o meglio la

                                                            172  R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p.140  

173 Paradossalmente l’oggettività non può che venire da un soggetto. 

174  R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p.143  

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coscienza della morte, consacra la rottura tra mondo biologico e

umano dimostrandone altresì la situazione di vicendevole dipendenza.

Tutto ciò comporta conseguenzialmente l’esigenza di concepire

l’essere umano, pur nella sua individualità, reinserito anche in una

fitta rete di relazioni, in primis con gli altri individui; in questo caso,

il Noi che viene a crearsi, non elimina l’Io ma anzi lo contempla in

una relazione complessa. Idea questa che può essere espressa anche

sostenendo che i soggetti si auto-organizzano in interazione con altri

soggetti. “Il soggetto -scrive Morin- emerge al mondo integrandosi

nell’intersoggettività”175.

Viene a delinearsi dunque un nuovo complesso che connette, in

modo retroattivo e circolare, cervello, mano, linguaggio, mente,

cultura e società e nel quale l’ominide diviene umano a pieno titolo

poiché si ha, per il concetto di uomo così delineato, una doppia via

d’ingresso:

‐  biofisica

‐  psico-sociale-culturale.

L’umano, inteso in senso moriniano, convoglia su di sé l’essere

nel contempo individuale, sociale e biologico; è come se, date le sue

mancanze peculiari di cui poche righe sopra si è parlato, l’umanità

fosse dotata di una seconda natura: la cultura. L’umanità di Homo

sapiens infatti, scrive Morin, si realizza pienamente solo attraverso la

cultura.

                                                            175 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 57 

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Ci sono delle pre-culture nel mondo animale, ma la cultura che

comporta il linguaggio a doppia articolazione – nel quale cioè la frasi sono

analizzabili in elementi sonori (fonemi) privi di significato, che sono

associati in unità provviste di un senso (parole)176-, la presenza del mito, lo

sviluppo di tecniche, è propriamente umana177.

La cultura è, capitale cognitivo/tecnico e mitologico/rituale di

memoria e organizzazione –come può esserlo il DNA per l’individuo

preso singolarmente-, la maggior emergenza distintiva della società

umana.

L’umanità allora emerge nell’intersecazione di una pluralità di

triadi formata da:

• individuo-società-specie,

• cervello-cultura-mente,

• ragione-affettività-pulsione (espressione quest’ultima della

triunicità del cervello umano “Io, Es, Super io”)

Una triade di trinità che ci permette di non ridurre l’umanità

all’individualità sebbene questa costituisca un “nodo di interferenze

tra l’ordine biologico della pulsione e l’ordine sociale della

cultura”178. Questo nodo ci permette altresì di ammettere una saldatura

epistemologica e di concepire un anello ricorsivo in primo luogo tra

biologico e culturale; cosa che solitamente invece non avviene poiché

                                                            176  E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 285 

177  E. Morin, Il Metodo V, cit., p.15 

178  E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 33  

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non c’è comunicazione possibile tra una biologia - riduzionista-

priva di concetti di auto-organizzazione, di esistenza individuale, di

intelligenza e un’antropologia senza vita nella quale la nozione di uomo si è

disintegrata in nozioni disgiunte 179.

Si tratta, in altre parole, di porre fine ad una razionalizzazione

sfrenata e separatista posta in essere da una logica chiusa in sé stessa e

che altro non vede se non quello che vuol vedere: la razionalità

umana. Ciò anche in virtù del fatto che, oltre Homo sapiens, vi è

quella controparte che Morin definisce demens, non un surplus ma

una parte irrazionale e speculare a quella raziocinante. Lo stesso

lavoro posto in essere da Morin tende a dimostrare che la conoscenza

razionale dell’umano implica il riconoscimento di ciò che è in lui

eccede homo sapiens180.

Quella di sapiens è una denominazione insufficiente poiché

l’umano non è affatto privo di vita affettiva, istintuale, come neanche

di violenza e rabbia, sentimento estetico, religioso, vita ludica,

fantasiosa. E’ “irrazionale, folle, delirante nascondere la componente

irrazionale, folle, delirante dell’umano”181. E l’essere umano è proprio

vittima di questo modo di pensare che troppo spesso oppone e quindi

banalizza.

                                                            179 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 35 

180 “E’ sapiens che ha sterminato i neandertalensi che vivevano in Europa” scrive Morin, per il quale etica significa anche e soprattutto resistenza alla barbarie umana – che in homo sapiens si riscontra- e alla crudeltà del mondo che sa essere impietosa e distruttiva nella sua naturalità. 

181 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 100 

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Tra le due componenti si crea un rapporto circolare così che non

si è mai né l’una né l’altra separatamente ma una concatenazione

dell’una e dell’altra; così come anche l’universo, che crediamo

regolare, prosaico e razionale, ha la sua controparte, che sappiamo

essere vitale dalle prime pagine del presente lavoro, caotica,

disordinata e (in senso eracliteo) indistinta.

Si ha dunque un Homo sapiens-faber-consumans-œconomicus

ma anche ludens-demens che, presi unitamente, come è giusto che

vengano considerati e interpretati, costituiscono l’Homo complexus:

poetico, sognatore, istintuale e tuttavia capace di oggettività e calcolo

razionale. La razionalità deve comprendere e può includere in sé i

bisogni umani, le emozioni, le passioni insite in ogni essere

razionale. Come spiega Fortin:

la dialogique sapiens/demens s’inscrit dans la dialogique de l’ordre

et du désordre […]: c’est bien à cela que nous enjoint la complexité: non

pas au dépassement des contradiction comme dans la logique hégélienne,

mais un maintien de l’opposition et de la contradiction182.

Questa visione inclusiva dell’essere umano ci restituisce l’uomo

nella sua pienezza vivente, mentre le scienze hanno cercato di privarlo

della vita affettiva, mentale e immaginaria pur di analizzarlo.

Detto ciò, Morin passa in rassegna quelle che definisce le grandi

identità e va a scandagliare un percorso composto da cinque momenti

diversi:

1. identità sociale, nucleo arcaico

                                                            182 R. Fortin, Penser avec Morin , cit . , p. 153 

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2. identità sociale, il leviatano

3. identità storica

4. identità planetaria

5. identità futura

unendo così storia e avvenire.

L’auto-organizzazione, (punto1) come si deduce dal discorso

moriniano, produce l’autonomia della società nel suo ambiente, da cui

trae sì energie fisiche, biologiche, informazione e organizzazione ma

si costituisce anche in e grazie a questa dipendenza divenendo dunque

auto-eco-organizzazione. “Come l’essere individuale, l’essere sociale

è auto-eco-organizzatore”183. Una società ha bisogno in prima istanza

di individui evoluti che la compongano poiché

ciò che differenzia le società dagli organismi non è né la divisione

del lavoro, né la specializzazione, né la gerarchia, né la comunicazione

delle informazioni, che sono presenti in entrambi, ma la complessità degli

individui184.

La società umana, complessa e retroagente attraverso la cultura

prodotta dalle proprie parti, si organizza a partire da scambi di

comunicazioni tra le stesse menti individuali che la compongono.

Storicamente poi, questa auto-organizzazione-bio-socio-culturale,

benché integrata e corretta o comunque trasformatasi nel corso del

                                                            183 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 145 

184  E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 145 cfr. E. Morin, il Metodo II, cit., Sociologia della sociologia 

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tempo, è presente nella società odierna tanto quanto lo fu nelle società

arcaiche.

Ciò che viene a modificarsi col tempo, (punto 2) nel passaggio

dalle società appunto arcaiche a quelle che Morin definisce come “il

leviatano”, consiste in un aumento di complessità; in virtù di un

insieme di nuove presenze quali quelle dello Stato, delle città,

dell’agricoltura, delle classi sociali, dell’istituzione religiosa. Queste

nuove entità organizzative non cancellano le precedenti tipologie di

organizzazione ma le inglobano superandole.

Morin parla successivamente di identità storica (punto 3)

asserendo che

il destino storico non era inerente all’umanità. […] La storia –

fenomeno umano tardivo- introduce il primato del tempo irreversibile sul

tempo circolare, del tempo evenemenziale sul tempo ripetitivo, del tempo

agitato sul tempo rotativo […] assicurando la supremazia della mobilità 185.

La storia e lo Stato sono coevi, la storia nasce

contemporaneamente allo Stato; ciò perché essa non è un fenomeno

che sta a fondamento dell’umanità ma ne è rivelatore e sintomatico.

Da quando, all’inizio del XVI secolo, le nazioni europee si

lanciarono all’impetuosa conquista del globo dando così avvio all’era

planetaria, ad oggi assistiamo (punto 4) a ciò che si può definire una

seconda mondializzazione, dopo quella avvenuta nella preistoria.

Conquista ma anche mondializzazione dell’umanesimo, dei

diritti umani, della democrazia sono i motori di codesta era planetaria.                                                             185 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 187 

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Essa si concretizza, similmente a quanto accade nel concetto di

individuo,

nell’essere ciascuna parte del mondo sempre più parte del mondo

stesso, e nel fatto che tutto il mondo è sempre più presente in ciascuna delle

sue parti. […] Come ciascun punto di un ologramma contiene

l’informazione del tutto di cui è parte, così ormai il mondo è sempre più

presente in ogni individuo186.

Destino storico e destino planetario, integrandosi

vicendevolmente, formano ormai un tutt’uno inseparabile poiché è la

planetarizzazione stessa, già in atto, a significare unità di destino per

l’umanità. Scrive Morin, “economicamente e tecnicamente tutto si sta

mettendo in moto per una società-mondo. Il problema non è tecnico. Il

problema è che non è solo tecnico”187.

Il principio di incertezza, inteso come modus operandi e che

governa tutto il sistema moriniano, si palesa ancor di più nel momento

in cui egli si rivolge al futuro (punto 5).

I destini locali sono sempre più legati al destino globale del pianeta,

a sua volta dipendente anche da eventi, innovazioni, accidenti, disfunzioni

locali che possono innescare azioni e reazioni a catena e biforcazioni

decisive che influenzano questo destino globale188.

E’ altresì vero che il destino dell’umanità dipende fortemente

dagli sviluppi locali, sempre imprevedibili e incerti nelle loro

                                                            186 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 215 

187 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 233 

188 E. Morin, Il Metodo V, cit., p. 231 

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conseguenze ad ampio raggio; come dipende altresì da ciò che spinge

lo sviluppo globale, ovvero il quadrimotore costituito da scienza-

tecnica-industria-capitalismo.

Non bisogna mai dimenticare che ciò da cui l’umanità d’altro

canto dipende è anche ciò che costituisce le sue condizioni di

autonomia: la Natura, da sempre sfruttata e manipolata ai fini

scientifici, oggi, anche a causa del quadrimotore, si sta trasformando

catastroficamente. Lo sviluppo tecnico infatti ha permesso e conferito

al genere umano un’autonomia considerevole in relazione a questo

ambiente naturale fino ad arrivare ad un suo reale dominio e ad una

sua addomesticazione. In realtà ogni essere vivente ha una

dipendenza interna ineluttabile, sia a livello

biologico/fisico/costitutivo che sociale/culturale.

Scrive Fortin : “les principes de la connaissance complexe qui

nous ont permis de repenser la complexité humaine vont nous

permettre de repenser l’éthique”189. Infatti, il lavoro fin qui condotto

da Morin, ripercorso nella presente trattazione, porta a dover attuare

un ripensamento anche dell’etica (termine usato con la stessa valenza

di morale) stessa, non scevra da riduzionismi e disgregazioni in seno

alla relazione individuo/società/specie. “Ogni atto morale è un atto

individuale di relianza: relianza con un altro, con una comunità, con

una società e, al limite, di relianza con la specie umana”190.

Comprendere ciò è il primo compito di colui che indaga la

questione etica. Innanzitutto allora vi è una fonte individuale                                                             189  R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 165

190 E. Morin, Il Metodo V, cit., p.6

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dell’etica, come ve ne è una di origine sociale (norme e regole

comuni) e naturale (inscritte cioè nell’auto-socio-organizzazione

biologica dell’individuo memorizzate nel DNA).

L’auto-éthique est le résultat d’un long processus d’individualisation

et de démoctratisation qui a entraîné l’erosion du pouvoir religieux, la

dissolution des éthiques communitaires et l’affaiblissement du sormoi

social qui pouvaient encore servir de normes pour réguler les

comportements. L’auto-éthique reléve d’une exigence intérieure, qui est

ressentie par l’individu comme un devoir; son fondement n’est ni religieux

ni social, mais il ne les exclut pas191.

“La crisi etica della nostra epoca è nello stesso tempo crisi

della relianza individuo/società/specie”192. L’etica, per questo va

ricollocata, radicata nell’anello individuo/società/ specie, nella sua

primordialità e originalità, in prima istanza a livello cosmico,

rivalutando le molteplici dipendenze umane nei confronti della

biosfera. “Nous sommes […] faits de la même matière que l’univers,

[…] notre humanitè est le produit du dévoloppement de notre

cerveu”193.

Un atto morale non va mai considerato come isolato ma anzi

sempre in connessione con la conoscenza e con il suo inserimento nel

mondo, causa di conseguenze. Si verifica molto frequentemente negli

atti morali ciò che si può definire come uno iato tra l’intenzione e

l’azione: le divide l’incertezza degli effetti che, per essere compresa, o

                                                            191 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 173 

192 E. Morin, Il Metodo VI. L’Etica, Raffaello Cortina, Milano, 2007, p. 14 

193 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 165 

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quanto meno presa in considerazione, ha bisogno di un’ecologia

dell’azione. Quest’ultima “ci indica che ogni azione sfugge sempre

più alla volontà del suo autore nella misura in cui entra nel gioco di

inter-retro-azioni dell’ambiente (compreso quello storico-sociale) nel

quale interviene”194 introducendo così nell’etica, oltre che l’incertezza,

anche una potenziale contraddizione. Per questo non si può

prescindere dal riconoscere i limiti cognitivi dell’essere umano che

contemplano la relazione complessa tra rischio e precauzione.

Se l’incertezza è il primo principio dell’ecologia dell’azione,

quello di imprevedibilità a lungo termine, da cui di certo non è

possibile prescindere, è il secondo.

Nel caso della scienza moderna ad esempio si ha una notevole

disgiunzione tra conoscenza ed etica, in virtù dell’imperativo secondo

cui “sapere è potere”. “E’ il formidabile sviluppo, nel XX secolo, dei

poteri di distruzione e di manipolazione -che dall’idea baconiana

derivano- da parte della scienza che ci obbliga a una

riconsiderazione”195.

Niente può andare nel senso della verità, o alla ricerca di essa

senza una comunicazione tra etica e scienza.

Con tali presupposti, un’etica complessa non si fa solo ed

esclusivamente necessaria ma anche urgente; un’etica che sia in grado

di concepire bene e male non in modo assolutistico e nettamente

disgiunto ma che anzi riesca a sopportare l’idea che il giusto può

                                                            194  E. Morin, Il Metodo VI, cit., p.29 

195  E. Morin, Il Metodo VI, cit., p.39 

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contenere l’ingiusto, o il male il bene; una morale precaria,

incompleta, problematica, contestualizzante e sempre in lotta, come

anche è, costitutivamente, l’essere umano.

Infatti, scrive Morin,

la morale è verità soggettiva e il sapere pretende la verità oggettiva.

Ma la condotta morale deve avere conoscenza delle condizioni oggettive

nelle quali si esercita. […] L’etica della conoscenza comporta la lotta

contro l’accecamento e l’illusione, ivi compresi quelli etici, e il

riconoscimento delle incertezze e delle contraddizioni, comprese quelle

etiche196.

Ricostruendo il percorso moriniano diviene ora chiaro come

l’epistemologia complessa, in precedenza invocata e ricercata,

permette di concepire un antropologia complessa che è a sua volta

condizione primaria dell’etica complessa. Ora, quest’etica complessa

è in grado di integrarsi nell’anello che con gli altri termini suddetti

compone, e in cui ciascun’entità è necessaria alle altre.

In Etica, dopo un ampio excursus su i rapporti tra etica, scienza

e politica in cui Morin mette in luce anche aspetti della propria

esperienza personale, deplorando altresì ove questi rapporti vengono a

mancare, egli indaga la questione dell’individualismo etico. Si dà per

acquisito che nessun dovere può essere dedotto da un sapere ma

anche che, tradizionalmente l’etica è soprattutto un dettame, un

insieme di imperativi.

                                                            196 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p.49

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L’etica, costruzione e convenzione umana è, al pari di molte

altre nozioni, un’idea e in quanto tale, scrive Fortin “n’est pas là pour

nous asservir mais pour nous servir”197.

Diversamente dai precetti morali

l’etica individualizzata, o autoetica –di cui parla Morin-, è

un’emergenza, cioè una qualità che può manifestarsi solo in condizioni

storiche e culturali di individualizzazione che comportano l’erosione e

spesso la dissoluzione delle etiche tradizionali, cioè il degrado del primato

della consuetudine (primitiva regola del dovere), l’indebolimento della

potenza della religione, la diminuzione ( del resto molto discontinua) della

presenza intima in sé del Super Io civico. Quella dell’auto-etica o etica

individualizzata costituisce una vera cultura psichica –esigenza

antropologica e storica al contempo- contro la barbarie interiore198

che ha altresì la specificità di sfociare in un’etica per l’altro,

radicandosi così nel principio altruista incluso nella soggettività

umana (e nel conseguente principio di solidarietà che implica una

comunità). “L’auto- etica ha infatti bisogni di rigenerarsi in

permanenza nell’anello -che la vede legata a solidarietà e

responsabilità e- che la produce e che essa stessa coproduce”199.

L’ auto-éthique, à travers la socio-éthique, doit se prolonger en une

anthropo-éthique. L’impossibilité d’isoler et de disjoindre la trinité

                                                            197 R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p.181 

198  E. Morin, Il Metodo VI, cit., pp.81, 83 

199  E. Morin, Il Metodo VI, cit., p. 93

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individu/société/espèce est inséparable de l’impossibilité d’isoler et de

disjoindre notre destin individuel du destin de la société et de l’espèce200.

L’idea di un’etica per la specie umana era, in effetti, astratta finché

questa specie non si è trovata concretamente riunita, in connessione e

interdipendenza, con lo sviluppo dell’era planetaria. L’antropo- etica issa al

livello etico la coscienza antropologica che riconosce l’unità di tutto ciò che

è umano nella sua diversità e la diversità in tutto ciò che è unità; da qui la

missione di salvaguardare ovunque l’unità e la diversità umane. Essa non

può essere dedotta dall’antropologia ma può essere chiarita

dall’antropologia complessa e può essere definita come il modo etico di

assumere il destino umano201.

Il destino globale del pianeta sovradetermina il destino delle

nazioni, e dunque quello dei cittadini ad esse appartenenti, così come

i destini singolari delle nazioni modificano quello globale. Ciò che i

tempi moderni allora chiedono non è più la disgiunzione tra etica e

politica ma anzi la loro unione, appunto in un’antropo-politica (com’è

quella proposta da Morin) la sola che è capace di integrare in sé gli

imperativi dettati da un’etica planetaria e di mostrare chiaramente

l’appartenenza dell’umanità a quella che l’autore chiama Terra-Patria.

Scienza, tecnica, economia e profitto (ovvero il quadrimotore) devono

necessariamente trovare oggi una guida regolamentatrice poiché tutti

e quattro, presi di per sé, sono carenti di una qual si voglia valenza

etica.

                                                            200  R. Fortin, Penser avec Morin, cit., p. 190 

201 E. Morin, Il Metodo VI, cit., pp. 157, 158 

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Presupporre che:

Antropologia Epistemologia Etica

permette di legare

Processo cognitivo progresso morale

(in cui il progresso morale può effettuarsi solo nel radicamento, nello

sviluppo, nella sinergia della coscienza morale e intellettuale202)

si tratta di promuovere una politica di civiltà che militi contro

l’atomizzazione e la compartimentazione degli individui, restauri

responsabilità e solidarietà, riduca l’egemonia del calcolo e del quantitativo

a vantaggio della qualità della vita203.

Chi deve civilizzare? E come? Questo è dunque il problema.

Ciò di cui si ha necessità è una civilizzazione che sia soprattutto in

grado di integrare il mercato, la grande economia mondiale, da cui

sembriamo tutti soggiogati, e che non ne sia invece prigioniera.

                                                            202 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p. 200  

203 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p. 171 

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Oltre che una riforma della società e della vita Morin ne

suggerisce una, a mio parere ancor più fondamentale delle altre, che è

quella della mente. Riforma necessaria in modo assoluto, a riguardo

della quale egli scrive:

che dovrebbe permettere agli uomini di affrontare i problemi

fondamentali e globali della loro vita privata e della loro vita sociale.

Questa riforma può essere guidata dall’educazione ma sfortunatamente il

nostro sistema di educazione dovrebbe prima essere riformato poiché è

fondato sulla separazione - separazione dei saperi e delle discipline, delle

scienze- e produce delle menti incapaci di legare le conoscenze, di

riconoscere i problemi globali e fondamentali di raccogliere le sfide della

complessità. Un nuovo sistema di educazione va fondato sullo spirito di

relianza. Riforma dell’educazione e riforma del pensiero si stimolerebbero

l’un l’altra in un circolo virtuoso204.

Proprio perché “il ruolo della coscienza umana è ormai

fondamentale per la salvezza del pianeta”205 si entra nel vivo

dell’argomentazione seguente, proposta in questa sede, riguardante

l’importanza dell’educazione; quest’ultima è di certo strettamente

connessa con il sapere e con la coscienza.

“La mia convinzione - sostiene Morin – è che la società non

esiste ancora. Da mille anni, essa cerca a tentoni una formula senza

però averla trovata”206. Una società che, del resto, deve fare i conti con

la ristrettezza del Pianeta. A questo aspetto tratteggiato dall’autore è                                                             204 E. Morin, Il Metodo VI, cit., pp. 171, 172

205 E. Morin, Il Metodo VI, cit., p. 172 

206 E. Morin, L’anno I dell’era ecologica. La Terra dipende dall'uomo che dipende dalla Terra, L'imperativo ecologico, Dialogo tra Edgar Morin e Nicolas Hulot (a cura di Nicolas Truong) Armando, Roma, 2007, p. 102

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possibile avvicinare le splendide parole di Nicolas Hulton quando

sostiene che la traiettoria della Natura e dell’Umanità sono

indissolubili e che la nostra comunanza di origine è altresì una

comunanza di destino. Tali i motivi per cui, con la sua Fondazione, ha

deciso di sostenere Morin nel suo lavoro; ovvero un intellettuale che

non ha aspettato che la realtà si imponesse per riflettere sull’origine

dei problemi ecologici.

In conclusione, è necessario asserire che il discorso condotto da

Morin per quanto riguarda la questione etica, e i modi di rivedere e di

ripensare il problema etico dell’epoca contemporanea, forma un

tutt’uno, indissolubilmente unito ed interdipendente, con la

questione/problema dell’educazione. Ciò trova giustificazione nel

fatto che l’educazione (per di più intesa in rapporto ad un pensiero

ecologizzato) non può essere tale se non contemplando e inglobando

in sé un’etica di civilizzazione, basata su responsabilizzazione e

“relianza” quale è quella teorizzata da Morin.Va precisato dunque che

in questa sede, per scelta metodologica, si è preferito dare più spazio

(come si vedrà nel prossimo paragrafo) al secondo momento di tale

argomentazione, pur mantenendo intatta l’idea della sua

intersecazione con la questione morale.

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Paragrafo II.2

Pensare ecologicamente:

l’educazione nell’era planetaria

L’ecologia di cui abbiamo bisogno -come scrive ad esempio

Edward Goldsmith- non è l’ecologia che implica l’osservazione

dell’ecosfera dalla quale dipende la nostra sopravvivenza a una certa

distanza e con distacco scientifico. Non salveremo il nostro pianeta

mediante una decisione cosciente, razionale e non emotiva, una specie di

contratto ecologico basato su un’analisi dei costi e dei benefici. E’

necessario un impegno morale ed emotivo207.

E’ facile riscontrare in queste parole il bisogno di annullare

dicotomie e separazioni proprie della logica meccanicistica

occidentale. Infatti iniziamo oramai ad essere consapevoli, dai capitoli                                                             

207 Goldsmith E., Ecologia della salute, della disoccupazione e della guerra, ovvero: la grande inversione dell'economia e dello stile di vita, Muzzio, Padova, 1994, p. 87

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precedenti della trattazione, che l’esistenza di una discontinuità

ontologica tra il mondo umano e quello naturale è dovuta all’idea

platonica e ancor più cartesiana e di stampo moderno secondo cui il

proprium dell’essere umano sarebbe condensato nella sua vita

mentale, caratteristica che lo porrebbe al di fuori della Natura

accordandogli anche il primato su di essa e la possibilità di

manipolarla illimitatamente. Ma, come sostiene Morin, “ogni vita

umana comporta l’inserimento nell’ecologia e una determinazione da

parte dell’ecologia”208. E, per questo, si fa necessario muovere alla

ricerca di una nuova filosofia di vita ( costruita su paradigmi diversi

da quelli propri della cultura dominante del passato – la quale può, a

ragione, essere vista come un vero e proprio imprinting alla maniera di

Konrad Lorenz -) e di una filosofia biocentrica, che sappia dar

supporto alla formazione di una coscienza ecologica.

Hegel aveva a suo tempo individuato un principio di negazione

in grado di concepire e trasformare ogni entità nel suo contrario ma

questo stesso principio veniva posto, coerentemente al sistema

hegeliano, all’interno dello (auto) sviluppo dello spirito mentre esso

deve necessariamente essere reso e inteso in senso ecologico.

La dialettica sembra non bastare e pare poter essere sostituita, o

meglio superata contenendola, con una dialogica più radicale, più

complessa. E’ necessario sbarazzarsi della pseudoetica manichea e,

come suggerisce Hannah Arendt bisogna affrontare i rischi dell’azione

                                                            208 E. Morin, Il pensiero ecologico, Hopefulmonster, Firenze, 1988, p. 113 

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pur sapendo che “qualunque cosa facciamo accade dentro relazioni e

attraverso relazioni”209.

Anche qui dunque ritroviamo tutta l’importanza dei principi, già

esposti, dell’ecologia dell’azione e di un punto di vista ecologico

consistente nel percepire ogni fenomeno autonomo nella sua

relazione/dipendenza con l’ambiente. Solamente un pensiero

ecologizzato può opporsi al contempo all’isolamento dell’oggetto e

alla sua riduzione alle causalità esterne essendo in grado di connettere

in maniera “complementare, concorrente e antagonista, da una parte,

le logiche autonome e interne specifiche del fenomeno e, dall’altra, le

eco-logiche dell’ambiente”210 e di mettere altresì in rilievo il ruolo

attivo dell’osservatore /concettualizzatore.

Ciò a cui si deve oggi tendere è appunto un pensiero sistemico,

ed ecologizzato, termine, quest’ultimo, con cui Morin esprime

un’intenzionalità sempre viva nel suo pensiero. Oltre a tale valenza,

l’espressione “pensiero ecologizzato” indica (una volta presupposto

che la nostra cultura è l’eco-sistema dell’idea umana di natura) la

tendenza e la disponibilità a considerare la Natura nella sua

complessità il che, ricorsivamente, consente di sviluppare il pensiero

complesso per la comprensione della cultura stessa.                                                             209 Intervento di S. Manghi al Circolo Bateson - Roma, 21-22 gennaio 2006 sede: Legambiente “I presupposti della relazione educativa” relazione di Sergio Manghi: “Pescatori nel vortice. La responsabilità educativa nel tempo della globalizzazione”. http://www.circolobateson.it/archiviobat/2006/seminario%20gennaio/programma%2021.22%20per%20cartellina.doc

 

210 E. Morin, Il pensiero ecologico, cit., pp. 119, 120 

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Scrive Morin:

nella nostra strada a spirale questo principio- ecologico- è diventato

un paradigma (di portata universale). […] Se rendiamo ecologico il nostro

pensiero della vita, dell’uomo, della società, della mente ripudieremo per

sempre ogni definizione autosufficiente, ogni causalità monodirezionale,

ogni semplificazione di principio. Di conseguenza il paradigma ecologico

appare nella sua natura fondamentalmente antidisgiuntiva, antiriduttiva,

antisemplificatrice. […] Esso installa non un principio solistico vuoto, ma

un principio di congiungimento, di multidimensionalità, di complessità211.

Inoltre, per quanto riguarda strettamente la scienza ecologica

(scienza nuova che, a differenza di molti altri settori scientifici, non

produce una prassi manipolatrice/mutilatrice/sfruttatrice) va detto che

essa è intrinsecamente inseparabile da una coscienza ecologica, la

quale è un’importante presa di coscienza del carattere della nostra

relazione di esseri umani con la natura vivente (in quanto si viene ad

elidere la dicotomia tra fatto e valore in quest’ambito).

L’ostacolo che deve essere rimosso per aprire la strada

all’evoluzione di un pensiero ecologizzato è sostanzialmente quanto

espresso da Aldo Leopold, ovvero:

smettere di pensare che un uso conveniente della Terra sia un

problema esclusivamente economico; -smettere di- esaminare ogni

circostanza nei termini di che cosa sia eticamente ed esteticamente giusto,

come pure economicamente opportuno. È giusto ciò che tende a mantenere

                                                            211 E. Morin, Il pensiero ecologico, cit., p. 125 

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l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica; è sbagliato ciò

che ha una tendenza diversa212.

Quanto invece avviene è che “l’etica dell’uso della Terra è

tuttora totalmente governata dall’ interesse economico”213 e questo

produce purtroppo un sistema ambientale debole poiché “la maggior

parte della comunità terrestre non ha valore economico”214 per

l’Uomo ma ha estrema importanza per l’integrità e l’equilibrio

dell’ecosistema. L’Uomo non si rende ancora conto dei meccanismi

con cui opera la Natura, delle sue complesse interdipendenze e del

fatto che lui stesso è inserito in questa trama perfetta in cui le diverse

comunità biotiche devono poter vivere in armonia e rispetto.

Inoltre, vi è da tenere in considerazione che, come sostiene

Heidegger, ciò che caratterizza l’essere umano è la cura, la dedizione

intensa e affettuosa per chi e ciò che ha intorno al di là di motivazioni

puramente utilitaristiche.

Di fronte agli odierni pericoli siamo sempre più consapevoli che

il destino della biosfera e quello umano sono inscindibilmente legati;

che la Natura è la condizione della nostra sopravvivenza per cui

dobbiamo rivedere il nostro attuale rapporto con essa.

I deep-ecologists (o Ecologisti profondi), per apportare un

esempio concreto, adducono una proposta interessante e, a mio

parere in linea con il sistema portato a dimostrazione nel presente

                                                            212 A. Leopold, Almanacco di un mondo semplice, RED, Milano, 1997, p. 184 213 A. Leopold, Almanacco di un mondo semplice, cit., p.169 

214 A.Leopold, Almanacco di un mondo semplice, cit., p. 170 

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lavoro, proponendo un mutamento di Gestalt nel rapporto Uomo-

Natura: una ridefinizione cioè dei modi di percepire il mondo e il

posto dell’umanità in esso. Secondo tale punto di vista non si ha più

bisogno di separare l’Uomo dalla Natura e ogni violenza nei confronti

della seconda viene percepita come una violazione di se stessi e

pertanto viene evitata o almeno maggiormente meditata. Una

caratteristica peculiare della Deep-Ecology è poi il principio dell’

autorealizzazione, inteso come la crescita spirituale di ogni uomo, la

progettazione della sua esistenza nella forma di un allargamento dei

confini del proprio Io a quelli dell’Altro da Sé, umano e non-umano.

Per i deep ecologists sarebbe la percezione della realtà come un tutto

unificato a causare il superamento della visione di Sé come realtà

isolata e la sua estensione ad altri esseri.

La realizzazione del singolo, in tale prospettiva, può diventare

un’auto-eco-realizzazione, grazie alla consapevolezza del fatto che il

senso dell’esistenza si pone a livello sistemico e non individuale e che

l’atteggiamento verso ogni altra forma di vita deve risolversi in un

comportamento etico, di cura. Infatti, come scrive Luigina Mortari,

l’etica biocentrica presuppone che il pensare al resto della Natura

come parte del proprio spazio vitale, farebbe percepire le varie forme di

violazione delle condizioni di vita esercitate nei confronti degli altri esseri

viventi, come una violazione a sé. Da questa percezione di continuità col

mondo scaturirebbe spontaneamente l’impegno etico nella salvaguardia

dell’Ambiente, poiché la protezione della Natura verrebbe percepita come

protezione di se stessi215.

                                                            215  Mortari L., Per una pedagogia ecologica. Prospettive teoriche e ricerche empiriche sull'educazione ambientale, La Nuova Italia, Firenze, 2001, p. 83

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E’ indubbio allora che quello che “ci manca è la coscienza del

destino planetario, della nostra cittadinanza globale della Terra”216.

Ciò è provato anche da un altro grande ostacolo per lo sviluppo di

un’autentica consapevolezza della Terra; tale impedimento è

rappresentato dagli odierni sistemi educativi, i quali sembrano andare

proprio nella direzione opposta ad una tale consapevolezza, quasi al

pari di un sistema economico.

Il ruolo dell’educazione, principalmente quella scolastica, è

fondamentale nella situazione descritta in queste pagine; essa infatti

viene chiamata a promuovere conoscenze e a sviluppare nuove

formae mentis, cioè nuovi atteggiamenti esistenziali, nuovi modi di

considerare la condizione umana anche in rapporto con la Natura;

essa può altresì ridurre l’attuale senso di estraneità dal Mondo e farne

riscoprire il senso di appartenenza217, almeno alle generazioni future.

Nell’incertezza del vivere, l’educazione non è una mansione

come le altre; l’educazione è una vera e propria missione e “la

missione dell’educazione per l’era planetaria è quella di rafforzare le

                                                            216 E. Morin, Convegno di Formia, 27 Giugno 2003

217 Tale senso di appartenenza ha avuto eminenti sostenitori. Ad esempio la filosofia per M.Heidegger, come si è già accennato, ha il compito peculiare di indagare il Dasein, cioè l’Esserci, il quale, in quanto umano è in grado di dare voce alle qualità intrinseche dell’Essere. La ricerca ontologica che ne consegue pone l’Uomo al centro della disamina sull’essere-nel-mondo. La proprietà che contraddistingue l’essere-nel-mondo sta nel suo racchiudere in sé sia la consapevolezza del proprio agire tra gli enti intramondani riducibili a cose, sia la progettualità. Il Dasein è nel mondo in uno spazio e soprattutto in un tempo preciso, in cui abita muovendosi tra le cose e progettando il suo futuro, nella consapevolezza di essere-per-la-morte. Inoltre il Dasein è l’unico in grado di sperimentare ed esprimere, attraverso il linguaggio, le modalità proprie dell’Essere.

 

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condizioni che renderanno possibile l’emergenza di una società-

mondo composta da cittadini protagonisti”218.

Quella umana, si sa, è una condizione sui generis sempre in

bilico tra l’incertezza e la speranza; troppo frequentemente però la

volontà di instaurare un paradiso in terra finisce per instaurare un

inferno. Allora il compito dell’umanità, come sostiene anche Morin,

non è tanto quello di cercare la salvezza quanto piuttosto l’evoluzione

dell’ominazione in umanizzazione; di cercare altresì non il migliore

dei mondi possibili ma almeno un mondo migliore.

Per far ciò occorre innanzitutto concepire, idea che si ispira al

terzo asse strategico/direttivo individuato da Morin, lo sviluppo

(tecno-economico) in modo antropologico poiché il vero sviluppo è lo

sviluppo umano. In questo ambito l’educazione può fare molto,

liberando l’idea di sviluppo dalla semplificazione generata dal

riduzionismo economista. Troppo spesso lo sviluppo tecnico-materiale

non trova un’evoluzione corrispettiva in senso morale, psichico e

intellettuale. Prendere coscienza di questo stesso sottosviluppo

mentale, reale o futuro, è di certo il primo passo per poterlo superare.

In secondo luogo poi, sempre a causa della loro natura

frammentaria, le stesse azioni e gli stessi provvedimenti politici attuali

che continuiamo a produrre sembrano ignorare completamente il

complesso antropologico e il contesto planetario. Scrive a tale

proposito Morin,

                                                            218  E. Morin; Ciurana E. M.; Motta R. D., Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento, Armando, Roma, 2004, p. 113

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l’incorporazione del pensiero complesso all’educazione favorirà la

nascita di una politica della complessità che non si limiterà a pensare i

problemi mondiali in termini planetari, ma cercherà anche di percepire e

scoprire le relazioni di inseparabilità e di inter-retroazione che esistono in

ogni fenomeno e il suo contesto, tra ogni contesto e il contesto

planetario219.

L’epistemologia e la conoscenza della conoscenza devono

servire per vivere, per affrontare la vita; ed in questo ambito,

riprendendo una posizione che era già quella marxista, Morin

propone il problema di educare gli educatori. Come anticipato nella

conclusione del paragrafo precedente, in seno ad una politica

dell’umanizzazione che deve essere estesa a livello mondiale,

rimangono da compiere riforme, intrinsecamente legate tra loro

ovvero quella della vita, della società, delle menti, dell’educazione.

Quattro riforme, paradigmatiche -poiché concernono l’attitudine

umana a organizzare la conoscenza- ma di certo non programmatiche,

che sono assolutamente tanto dipendenti una dall’altra, quanto

necessarie una all’altra. Legate perché il nostro modo di pensare è

inseparabile dai nostri metodi di insegnamento.

Sostiene Morin, a tal riguardo, che ciò che serve è

un nouveau système d'éducation, fondé sur la reliance, radicalement

différent donc de celui qui existe actuellement, devrait s'y substituer. Ce

système permettrait de favoriser les capacités de l'esprit à penser les

problèmes globaux et fondamentaux de l'humanité dans leur complexité. Il

mettrait à sa racine l'éducation à la compréhension d'autrui, entre personnes,                                                             219 E. Morin; Ciurana E. M.; Motta R. D., Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento, Armando, Roma, 2004, p. 124 

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entre peuples, entre ethnies. Un tel système d'éducation pourrait et devrait

jouer un très grand rôle. Mais malheureusement il faudrait réformer le

système d'éducation actuel pour qu'il puisse lui-même reformer les

esprits 220.

Considerate dal punto di vista logico nessuna di queste quattro

riforme è anteriore all’altra, o meglio ognuna lo è all’altra, poiché

appunto si pongono in un circolo, virtuoso e non vizioso, di

interdipendenza: dovremmo cambiare le menti per cambiare le

istituzioni ma dovremmo altresì cambiare le istituzioni per cambiare le

menti. “Le società addomesticano gli individui attraverso i miti e le

idee, che a loro volta addomesticano le società, ma gli individui

potrebbero a loro volta addomesticare le loro idee e nello stesso

tempo controllare la società che li controlla”221. Ci si trova di fronte a

un impasse logico ma, ciò nonostante, quello che possiamo fare è

“camminare e cominciare”222.

D’altronde, è il problema ecologico stesso, in atto a livello

globale, che ci obbliga a prendere in considerazione la ristrutturazione

delle vita e della società umana; soprattutto attraverso una bio-

antropologia. Paradossalmente l’insegnamento tralascia problemi

fondamentali: non insegna la condizione umana e dimentica di

sottolineare il fatto che l’umanità non può prescindere dall’habitat che

la ospita.

                                                            220 Article résulte d'un entretien donné par Edgar Morin à Laurence Baranski, 2003 221 E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 29 222  Convengo di Sperlonga, 27 Giugno 2003, Sviluppo locale e formazione, Intervento di Edgar Morin

 

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Nella fondamentale distinzione evidenziata da Morin tra

cultura e civilizzazione, ben si scorge l’importanza del suo sistema di

pensiero: la civilizzazione è ciò che può essere trasmesso da una

comunità all’altra, ovvero tecniche, saperi, scienze mentre la cultura,

sebbene anch’essa sia certamente tramandabile ma in modo più statico

rispetto alla prima, è l’insieme dei valori e delle credenze caratteristici

di una determinata comunità. Il problema si pone quando questa

cultura è, come è ben visibile oggi, non solo frammentata ma anche

spaccata in due blocchi:

- quello umanistico da un lato

- quello scientifico dall’altro

così da influire ricorsivamente su un qualunque tipo di civilizzazione;

l’ indebolimento, infatti, di una percezione globale conduce

all’indebolimento del senso della responsabilità, poiché ciascuno

tende inevitabilmente a essere responsabile solo del proprio campo

specializzato così come si verifica anche un indebolimento della

solidarietà poiché tutti sono nessuno per gli altri che pensano al Sé.

Si dimentica così che “per pensare localmente e padroneggiare

discipline particolari è necessario pensare globalmente”223 e che è

impossibile risolvere problemi sempre più multidimensionali, globali

e trasversali senza quella che Morin chiama una conoscenza

pertinente; una conoscenza non frazionata e disgiunta ma che anzi

renda evidenti il contesto, il complesso, il globale.

                                                            223 Intervista di Renato Minore ad Edgar Morin, il Messaggero 7 marzo 2002 

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Vincitore del premio Nonino come “Maestro del nostro

tempo”, Edgar Morin ha enunciato le sue idee a proposito

dell’educazione in una trilogia pedagogica composta dal volume

Relier les connaissances224, oltre che dai due volumi più conosciuti: I

sette saperi e La testa ben fatta. La sua posizione di base è che la più

grande difficoltà della comunicazione è il passaggio da una struttura

mentale ad un’altra struttura mentale. Ciò è oggi evidente in quanto,

nonostante un enorme sviluppo delle tecnologie comunicative, resta

uno spazio infinito dell’incomprensione e dell’individualismo. Come

è possibile sperare in un progresso della comunicazione umana tra

persone se non cambiando il nostro metodo conoscitivo e

progredendo, quindi, nella comprensione? In questa conoscenza non

può venir meno una parte soggettiva/emotiva di chi impara come

anche di chi insegna; tanto è che Morin sostiene: “la comprensione ha

bisogno di un minimo di simpatia. La ragione ha bisogno di

passione”225.

Educare al pensiero complesso –ad esempio- significa sovvertire la

prassi cognitiva che imperversa nelle scuole, combattere il paradigma

semplificatore che, trasferito nel pensiero politico adulto genera i mostri che

                                                            224  Questo testo è il resoconto di alcune giornate a tema, organizzate grazie al sostegno di Didier Dacunha-Castelle, che consentirono a Morin di mostrare la praticabilità delle sue idee dopo che il Ministro Claude Allègre gli chiese di presiedere un “Consiglio scientifico” formato per riflettere sulla riforma dei saperi nei Licei. 225 Intervista di Luciano Minerva ad Edgar Morin  

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conosciamo: politiche mondiali miopi di cui l’umanità intera e il pianeta

soffrono”226.

Per il tempo a venire si può, e forse si deve, allora iniziare a

parlare di pluriverso dell’educazione; un’educazione che sia anche

intraculturale, poiché in grado di inglobare le differenze.

I due testi, a cui prima si faceva riferimento, sono quanto ora

verrà preso in esame.

Nel primo volume, commissionato dall’Unesco227 e dal titolo:

I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Morin enuclea ed

esplicita sette argomenti228 che a suo parere devono diventare

fondamentali nell’insegnamento e che l’educazione dovrebbe trattare

in ogni società e in ogni cultura. Sono questi “temi che permetteranno

di integrare le discipline esistenti e di stimolare gli sviluppi di una

conoscenza atta a raccogliere le sfide della nostra vita individuale,

culturale e sociale”229.

Non è, a mio parere, importante indagare distintamente queste

sette argomentazioni ma trarne il nucleo vedendole nella loro

omogeneità, sebben diversa.

                                                            226 Tratto da “Clio ’92: associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica” di Francesca Bellafronte  

227 In particolare grazie alla figura di Gustavo Lòpez Ospina, direttore del progetto transdisciplinare “Educare per un futuro vivibile” 

228 1) Limiti della conoscenza, 2) Educare ad un sapere pertinente, 3) Insegnare la condizione umana, 4) Educare all’identità terrestre, 5) Educare ad affrontare l’imprevisto, 6) Educare alla comprensione, 7) L’etica del genere umano.

229 E. Morin, I sette saperi, cit. p. 7 

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Morin ribadisce, anche in quest’ambito, l’importanza della

conoscenza della conoscenza; l’importanza di conoscerne i processi e

le modalità di formazione affinché la conoscenza che ne deriva venga

assunta come necessità prioritaria per educare i giovani ad affrontare i

rischi di errore e di illusione che insidiano costantemente la mente

umana230.

Occorre, altrettanto essenzialmente, insegnare metodi che

permettono di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra

le parti; aspetto questo che di certo non poteva essere assente, se si

guarda nel complesso l’opera moriniana. Ancora, occorre apprendere

il senso dell’essere uomini e l’unica via per farlo è ricomporre l’unità

dell’essere umano stesso, al contempo biologica, fisica, culturale,

sociale. Quegli stessi uomini che non possono sentirsi

completamente mai certi di nulla, nonostante la tendenza scientifica

imperante cerchi di rassicurarli in ogni dove, ma che anzi, grazie

all’insegnamento, devono riuscire a convivere con l’imprevisto e con

l’incertezza propri della loro stessa condizione. Condurli alla

comprensione – “nel contempo, mezzo e fine della comunicazione

umana”231- e alla consapevolezza: questi devono essere i veri

obiettivi dell’educazione. Da ciò deriva il dover riconoscere un

principio d’incertezza, non dettato da scetticismo ma anzi da una

razionalità conscia di sé che nel rimanere aperta nel confronto col

reale riesce a non subire una pericolosa metamorfosi, riesce a non

                                                            230 Può illuminare, in questo ambito, un esempio che Morin stesso riporta nelle pagine de I sette saperi ovvero: “nessun dispotivo cerebrale permette di distinguere l’allucinazione dalla percezione, l’immaginario dal reale, il sogno dalla veglia, il soggettivo dall’oggettivo” E . Morin, I sette saperi, cit. p. 19  231 E. Morin, I sette saperi, cit. p. 14  

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divenire razionalizzazione (vera nemesi della razionalità il cui

contrario infatti non è l’irrazionalità). In conclusione allora “non si

deve abbandonare la conoscenza delle parti per la conoscenza della

totalità né l’analisi per la sintesi: si deve coniugarle”232; si deve essere

consapevoli dello sradicamento propriamente umano, il quale è però

all’unisono un doppio radicamento nel cosmo fisico e nella sfera

vivente, così come si deve tenere in considerazione la reliance -gioco

di parole fra relier (legare) e alliance (alleanza)- quale fondamento

del tutto.

Il titolo stesso del secondo testo che qui viene preso in

considerazione, ovvero La Testa ben fatta, è già di per sé significativo

in quanto si ispira ad un’idea espressa da Montaigne quando sostiene

che è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena.

E’ indubbio infatti che oggi l’istituzione scolastica tenta di

“riempire” la testa di programmi, concentrandosi soprattutto sulla

quantità di nozioni a discapito della qualità e della loro utilità

allontanando così dalla vita chi invece ha più bisogno di immergervi,

data l’età della scolarizzazione. L’insegnamento è, sostiene Morin,

una missione di trasmissione che richiede ciò che nessun manuale

spiega.

Al fine di esprimersi a riguardo di un insegnamento veramente

educativo, nel testo sopra citato, Morin fa uno slalom, come egli

stesso sottolinea, tra due termini che si possono definire

complementari nella loro specificità: da un lato il termine formazione,

che ha il difetto di ignorare che la missione della didattica è di

                                                            232  E. Morin, I sette saperi, cit. p. 46  

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incoraggiare l’autodidattica, destando, suscitando, favorendo

l’autonomia dello spirito; dall’altro, la parola insegnamento, arte o

azione di trasmettere conoscenze a un allievo in modo che egli le

comprenda e le assimili, il quale ha un senso più restrittivo perché è

solamente cognitivo.

Si delinea prepotentemente, sempre nel suddetto volume, che la

riforma dell’insegnamento auspicata da Morin significa riforma del

soggetto che insegna e del soggetto che apprende; così come quella

del pensiero sta a significare riforma del soggetto che pensa e del

pensiero rivolto ad un oggetto pensato.

L’apprendimento ha preteso di spazzare, nella sua versione

contemporanea, il conflitto sotto il tappeto, metaforicamente

parlando. Questo tentativo di sbarazzarsi del conflitto si è riflettuto in

primo luogo sull’approccio riduzionista alla conoscenza.

L’attribuzione dei fenomeni a circoscritte serie di fattori con la pretesa

dell’esaustività costituisce uno dei problemi di fondo del pensiero. La

specializzazione delle discipline nasconde inoltre le facce di un

problema che non riesce a trattare, creando segmenti di realtà troppo

parziali.

Ciò concorre anche al deperimento democratico, che è suscitato

in tutti i campi della politica dall’espansione dell’autorità degli esperti,

degli specialisti di ogni genere, che limita progressivamente la

competenza dei cittadini; quest’ultimi infatti sono condannati

all’accettazione ignorante delle decisioni di coloro che si ritiene che

sappiano, ma la cui intelligenza è invece miope, perché parcellizzata e

astratta.

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L’eccessivo specialismo è in fin dei conti un abbandono della

realtà a favore di un mondo, solo in teoria, coerente e inattacabile;

che rifiuta la pericolosità del pensiero divergente, ed il sistema

educativo pone l’accento su caratteristiche che riflettono questo tipo di

pensiero. L’epistemologia cartesiana va abbandonata in favore di

un’epistemologia complessa, di ispirazione pascaliana: questo sembra

suggerire Morin.

Nel recuperare la complessità dell’unità della cultura –

concependo i saperi nella loro interdipendenza senza la quale sono

incomprensibili- le sfide che il nostro tempo deve raccogliere,

sostiene Morin, sono dunque rimediare a questa separazione dei

saperi, alla loro inadeguatezza rispetto alla vita quotidiana di ciascuno

e alla loro potenzialmente infinita espansione (se si verifica essere

soprattutto di livello quantitativo).

Chi può provare a vincere tale sfida è però un unico soggetto:

l’essere umano. Egli è il solo che, nel mondo vivente, può fungere da

catalizzatore della complessità dei saperi. A causa di tale presupposto,

tutto il discorso moriniano sulla questione delle riforme è infatti

organizzato in modo antropocentrico ed altresì giustificato dal

principio, già esposto in questo lavoro, del “Io sono me”; principio

che permette sì di stabilire la differenza tra l’io soggettivo e il me,

oggettivo, ma che nello stesso tempo stabilisce anche la loro

indissolubile identità. Deduttivamente, ciò permette un trattamento

oggettivo dell’essere Uomo e della sua complessità biologico-

culturale ma, reciprocamente, permette all’Uomo di essere

l’elemento centrale, aggregante e centripeto per le scienze e le

discipline, poiché nell’essere umano può rispecchiarsi la loro

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complessità biologico-culturale. In altre parole, la conoscenza

dell’uomo si fa viatico attraverso cui è possibile giungere alla

conoscenza dei saperi.

Solo così intesa233, la conoscenza può divenire sapienza;

sapienza per la vita, una volta fatta propria e incorporata; allora può

                                                            233 Ovvero una conoscenza dettagliatamente basata su determinati principi:

a - insegnare, fin dalle elementari, "che ogni percezione è una traduzione ricostruttiva, operata dal cervello a partire dai terminali sensoriali, e che nessuna conoscenza può fare a meno dell’interpretazione" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, Cortina Raffaello, Milano, 1994, p. 50);

b - mettere in luce, nell’insegnamento secondario: da un lato "l’opposizione tra razionalizzazione, sistema logico di spiegazione ma privo di fondamento empirico, e la razionalità, che si sforza di unire la coerenza all’esperienza; [...] dall'altro i limiti della logica e si argomenterà la necessità di una razionalità non solo critica ma autocritica" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 51).

Inoltre Morin delinea le finalità rispetto ai tre gradi dell’insegnamento:

A - La Primaria dovrebbe esaltare la curiosità e, partendo dall'avventura dell'ominizzazione, dovrebbe realizzare "un processo che legherebbe le domande sulla condizione umana alle domande sul mondo" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 78). Sul piano gnoseologico, poi, si dovrebbe far comprendere la ricorsività complessa della cosa ("bisogna insegnare che le cose non sono solamente cose, ma anche sistemi costituenti un’unità che assimila parti diverse" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p.79) e della causalità ("Bisogna apprendere ad andare oltre la causalità lineare causa --> effetto. Apprendere la mutua causalità, la causalità circolare - retroattiva, ricorsiva". (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 79).

B - La Secondaria "sarebbe il luogo dell'apprendistato a ciò che deve essere la vera cultura, quella cioè che stabilisce il dialogo fra cultura umanistica e cultura scientifica" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 80). La storia dovrà giocare un ruolo chiave per apprendere a essere cittadino dell'Europa e della Terra. A tal fine "i programmi dovrebbero essere sostituiti da guide d'orientamento che permettono agli insegnanti di situare le discipline nei nuovi contesti: l'universo, la Terra, la vita, l'umano" (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 81). Un posto chiave oltre la storia è riservato da Morin alla filosofia che dovrebbe avere una portata trans-disciplinare.

C - All’Università Morin affida una missione transnazionale. Perché ci sia una riforma dell’insegnamento è indispensabile che ci sia una riforma del luogo dove si formano gli insegnanti. Accanto alla conservazione della conoscenza,

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veramente costituirsi come quell’educazione alla mondialità di cui il

genere umano ha urgentemente bisogno.

                                                                                                                                                                   l’università dovrà rigenerare le conoscenze, fondandosi sullo statuto epistemico della complessità. "Questa riforma dovrebbe comportare una riorganizzazione generale, con la creazione di facoltà, dipartimenti e istituti consacrati alle scienze che abbiano già operato un riaccorpamento polidisciplinare intorno a un nucleo organizzatore sistemico” (E. Morin; Kern A. B., Terra-patria, cit., p. 86).

 

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Conclusioni

Edgar Morin, trasformando un’esperienza di vita234 in un’opera

riformatrice del sapere senza precedenti, non ha mai cercato né la

conoscenza generale né la teoria unitaria. Al contrario, come egli

stesso afferma, per principio, si deve rifiutare una conoscenza

generale: ciò che occorre trovare è un metodo che possa articolare ciò

che è collegato e collegare ciò che è disgiunto.

In più di quarant’anni di studi, egli, il più eterodosso e

multidisciplinare intellettuale francese del ‘900, ha messo in dialogo

la galassia parcellizzata dei saperi naturalistici e di quelli socio-

antropologici, alla ricerca di un modo unitario di raccontare la nostra

storia di specie, le nostre vicende sociali, e insieme la nostra esistenza

quotidiana di individui; invocando in ciò una metamorfosi del

                                                            234 Come si legge nel volume di Morin E., K. D. Tager, Mon Chemin, cit.  

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rapporto uomo-natura tale da poter affrontare l’attuale emergenza

ecologica.

L’enciclopedismo de Il Metodo, come si è potuto scorgere

nelle pagine del presente lavoro, si propone di mettere in movimento

la premessa immobile, di stampo moderno, dei discorsi separatisti che

vigilano sui confini tra saperi. Un metodo, quello moriniano, che è in

grado di mettere in circolo i saperi unendo storia e ambiente, natura e

umanità

Scrive Morin:

siamo contemporaneamente dentro e fuori la natura. Siamo nello

stesso tempo cosmici, fisici, biologici, culturali, cerebrali, spirituali. Siamo

figli del cosmo, ma a causa della stessa umanità, della nostra cultura, della

nostra mente, della nostra coscienza siamo divenuti stranieri a questo cosmo

dal quale siamo nati e che, nello stesso tempo resta per noi segretamente

intimo235.

Per questo Morin non può e non vuole esulare il suo lavoro dal

prendere

in considerazione il nodo gordiano che l’antropologia ufficiale era

convinta di aver orgogliosamente reciso. Come è noto- infatti- la teoria

antropologica dominante si fonda non soltanto sulla separazione, ma

sull’opposizione delle nozioni di uomo e di animale, di cultura e di natura; e

                                                            235 E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina, Milano, 2000, p.

34-35

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157

tutto ciò che esula da questo schema viene condannato come biologismo,

naturalismo, evoluzionismo236.

Giunge così ad affermare che “tutto ciò che parla della natura

parla della società e per la società”237.

Sempre per tali ragioni Morin indica che

abbiamo bisogno più che mai di ritrovare la natura, cioè di mettere in

relazione con essa ed a relativizzare ad essa tutti i nostri problemi umani,

compresi i nostri problemi esistenziali, e di superare la natura, cioè di

sviluppare la civiltà, la società. […] Dobbiamo anche oltrepassare

l’alternativa: seguire o guidare la natura per accogliere invece l’idea di

seguire/guidare la natura; il che è un’affermazione complessa. Dobbiamo

scorgere una coevoluzione simbiotica […] tra biosfera incosciente e

spontanea e un’umanità che sta diventando sempre più cosciente del suo

divenire238.

Il pensiero complesso, da Morin teorizzato e applicato ai

problemi costitutivi del nostro tempo, si costituisce allora come

un’alternativa, come una possibilità risolutiva anche se mai definitiva.

Sua caratteristica peculiare è infatti quella di essere sempre transeunte

e temporaneo perché il cammino non esiste ma si costruisce solo

                                                            236 E. Morin, Il paradigma perduto, cit., p 9. Morin al contrario attribuisce la qualifica di soggetto a qualunque essere vivente (tanto è che parla del batterio Eschericchia Coli) perché ciò che egli invoca non è solo la comprensione dell’essere vivente non umano attraverso quello che sappiamo dell’uomo, ma anche viceversa in virtù di un rispecchiamento reciproco.  237 E. Morin, Educare per l’era planetaria, cit. p 130 

238 E. Morin, Il pensiero ecologico, cit., p 134

 

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camminando; perché è il metodo stesso, intrinseco al pensiero

complesso e alle sue peculiarità, che apprende. Esso è strategico,

poliscopico, autoriflessivo, dialogico, aperto rimanendo sempre

incerto ed è “il solo pensiero che vive: quello che si conserva alla

temperatura della sua distruzione”239. Conoscere è un’esperienza

tragica, inquietante ma al contempo un’esigenza intrinseca all’essere

umano; così come la complessità, parola-problema e non affatto

parola-risoluzione, è una sfida: “la complexité est un défi a la

connaissance, non une solution”240.

Il metodo proposto da Morin è altresì funzionale ad un pensiero

che vuole farsi complesso per porre rimedio a quell’impoverimento

dell’intelligenza umana dato “dalla confusione cartesiana tra la

semplicità formale, o sintassi, e la chiarezza, o intelligibilità,

semantica”241.

Il pensiero complesso invece è in grado di tradurre l’incertezza

all’interno della scientificità, piuttosto che cercare di eliminarla o

annientarla, ma senza per questo assumere posizioni nichilistiche.

Infatti questo pensiero aspira ad una conoscenza

multidimensionale, responsabile, poietica e il suo imperativo cardine è

ottenere una scienza con coscienza; esso non annulla la linearità, la

monocausalità, la soggettività, la semplicità ma anzi le include in sé.

                                                            239 E. Morin, Educare per l’era planetaria, cit., p 50

240 E. Morin, K. D. Tager, Mon chemin, cit. p. 181

241 E. Morin, Educare per l’era planetaria, cit., p 61 

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“Dai concetti di strutture dissipative di Prigogine, fino a quelli

di caso organizzatore di Atlan, passando per il principio di incertezza-

indeterminazione di Heisemberg e per l’opera di Von Forster” 242

nascono problematiche diverse che esigono una nuova modalità di

pensiero. Non solo, una delle conseguenze delle scoperte del pensiero

contemporaneo è che i principi della spiegazione non sono spiegabili

razionalmente, nelle scienze come nella filosofia, e dà luogo alla crisi

del fondamento, alla scoperta, in altri termini, dell’assenza di un

fondamento ultimo della certezza. L’unico pensiero possibile è allora

uno in grado di sostenere il peso di una imprevedibilità a livello

globale e che può dare una speranza (perché no, a partire dalle nuove

generazioni) invece che accumulare nella testa degli uomini certezze

mistificatorie.

Interpretare e conoscere la realtà in modo complesso significa

innanzitutto ammettere tale mancanza e permette di trovare una

strada, pur nell’incertezza. E questa si configura come un’esigenza

fattuale perché il mondo in cui oggi viviamo è un nodo gordiano di

innumerevoli interazioni e reazioni, come sostiene Morin durante la

sua intervista riportata nel volume Mon Chemin:

la politique de civilisation doit bien sûr développer et utiliser tous

les aspects positifs des sciences, des techniques, de l’ État, du capitalisme,

de l’individualisme, investir sur la recherche, miser sur un nouvel âge de la

                                                            242 E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p. 71

 

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technique intelligente, et en même temps développer l’ économie solidaire,

le commerce équitable, les mutuelles et coopératives243.

Come scrive Bateson, “alcuni degli sforzi confusi dei

nostri giovani contengono più saggezza delle convenzioni dell’

establishment”244.

Infatti, la questione della formazione dei formatori, così come

l'urgenza di una riforma del pensiero e della conoscenza,

interconnesse alla riforma dell'insegnamento, è strettamente legata

agli intenti epistemologici del nuovo paradigma coniato da Morin.

Ad egli va riconosciuta la capacità di aver colto la chiave di

accesso alla roccaforte dei saperi, a quella che lo stesso Morin

definisce La Scuola del Lutto245, ossia le istituzioni formative che,

spesso, si presentano ripiegate su se stesse, impegnate a ragionare per

riduzionismi e iper-specializzazioni, piuttosto che per connessioni.

Una caratteristica delle innovazioni in campo cognitivo è costituita

dall’idea che l’intelligenza e i suoi processi riguardino prevalentemente non

un’attività di scomposizione ma di contestualizzazione continua che il

bambino, l’adolescente, l’adulto operano costantemente nello spazio

culturale in cui vivono. L’insegnamento deve contribuire alla

problematizzazione, all’interrogazione e alla riflessione costante sui

problemi del nostro tempo. Nel momento in cui

l’insegnamento/apprendimento si definisce quale sapere accumulato,

                                                            243 E. Morin, Kareh Tager D., Mon Chemin, cit., p. 50  

244 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, cit., p. 52 

245  Definizione tratta da Babel: Si to bibl iograf ico sul l ’opera di Edgar Morin, Università di Bergamo 

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ammucchiato, senza un principio organizzatore che restituisca alle nozioni

il loro senso complessivo, diviene fallimentare, lettera morta affidata alla

memoria d’archivio. In questo senso l’epistemologia di Morin riscopre dei

precursori privilegiati. Heidegger concepiva l’insegnamento come una

missione teoretica, ricerca delle postazioni avanzate del pericolo, dialogo

permanente con l’incertezza. Torna utile ricordare la differenza posta dai

filosofi ermeneutici tra la spiegazione e la comprensione. Un oggetto

spiegato (in Chimica come in Storia) è obiettivo nelle sue qualità che lo

caratterizzano, ma rimane pur sempre un oggetto che non soddisfa la

comprensione umana. La conoscenza comprensiva, invece si fonda sulla

comunicazione, sull’empatia e persino, come ricorda Morin, sulla simpatia

inter-soggettiva246.

Personalmente credo che l’unica vera conclusione possibile sia

iniziare; muovere, eliotianamente, il primo passo.

                                                            246 Baiamonte Carlo, Una riflessione sulla proposta educativa di Edgar

Morin da La Testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, rivista: PROMETHEUS, Quindicinale di informazioneculturale, Anno I. Numero 10 - 15 ottobre 2001

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“L’ecologia non è una scienza fra le altre: è un atteggiamento della mente e un modo di fare esperienza”.

John B. Callicott

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Appendice

Concretizzazioni della complessità:

Tra le molteplici attuazioni del pensiero di Edgar Morin, la più

interessante e importante, affinché la civilizzazione sia globale e

tangibile, è senza dubbio quella in ambito scolastico/educativo. Egli

scrive:

je partais d’un constat : dans nos écoles, dans nos universités, on

nous apprend certes a connaître des choeses, mais celles-ci sont séparées,

isolées. On ne nous apprend pas à les relier, donc à affronter nos problèmes

fondamentaux, globaux. Je devais donc élaborer une pensée complexe,

c’est-à-dire une façon de penser non seulement les sciences, non seulement

la philosophie, non seulement la politique, mais aussi la vie quotidienne,

celle de chacun d’entre nous247.

Secondo uno studio condotto a cura della rivista .eco, ponendo

a confronto visione meccanicistica e visione ecologica, due paradigmi                                                             247  E. Morin, K. D. Tager, Mon Chemin, cit. p. 206

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tra loro dicotomici, molti sono i dati utili per approdare ad un nuovo

sistema educativo248. È inoltre possibile, almeno a mio parere, notare

quanto la conoscenza della nostra stessa conoscenza influisce nei

comportamenti, nelle azioni e nelle mansioni che ognuno svolge.

   

PRIMO LIVELLO: IL PARADIGMA EDUCATIVO

VISIONE MECCANICISTICA VISIONE ECOLOGICA I valori centrali

Preparazione alla vita economica. Partecipazione in tutte le dimensioni della transizione verso la sostenibilità, sociale, economica, ambientale.

Selezione o esclusione. Inclusione di tutte le persone in tutti gli aspetti e in tutte le età della loro vita e apprezzamento per tutti.

Educazione solo formale. Apprendimento durante tutta la vita. Conoscenza come valore strumentale (orientata a un fine pratico, a uno scopo, a un prodotto). Nel mondo occidentale porta all’educazione come merce e alla privatizzazione.

Essere/divenire (valori oltre che strumentali – lavorare per il cambiamento – anche intrinseci: l’educazione è un bene in sé, con un valore e un significato immanente).

Competizione. Cooperazione, collaborazione. Specializzazione. Comprensione integrata. Socializzazione, integrazione per l’adattamento. Autonomia-in-relazione con l’altro. Sviluppo di profili istituzionali. Sviluppo di comunità di apprendimento. Apprendimento efficace. Apprendimento trasformativo. Standardizzazione. Diversità congiunta a coesione. Misurabilità. Responsabilità. Fiducia nel Sistema. Fiducia nelle persone. Modernità. Sostenibilità ecologica. SECONDO LIVELLO: ORGANIZZAZIONE E GESTIONE DELL’AMBIENTE DI APPRENDIMENTO

VISIONE MECCANICISTICA VISIONE ECOLOGICA Curriculum

Prescrizione. Negoziazione e consenso. Dettagliato e ampiamente predefinito. Indicativo, aperto, reattivo. Conoscenza analitica. Valutata anche la conoscenza non analitica. Conoscenza decontestualizzata e astratta. Maggiore enfasi sulla conoscenza locale,

personale, applicata e di prima mano. Conoscenza predittiva che dà peso all’incertezza e all’approssimazione.

                                                            248 Studio tratto da S. Sterling, Sustainable education. Re-visioning Learning and Change, Green Books, 2001

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Conoscenza fissa e verità. Estremo interesse per la saggezza. Confusione tra “dati”, “informazione” e “conoscenza”.

Maggiore interdisciplinarietà, maggiori campi di interesse.

Organizzazione per discipline e difesa dei confini disciplinari. Specialismo.

Visione più generale e maggiore flessibilità.

Valutazione e giudizio

Ispezioni esterne. Autovalutazione, integrata da un supporto critico.

Indicatori esterni, fissati in modo molto puntuale.

Indicatori generati autonomamente, definiti in generale.

Misurazioni quantitative. Misurazioni tanto qualitative quanto quantitative.

Gestione Non sono considerate le sinergie e l’”emergenza”, vale a dire, secondo lo studio dei sistemi complessi, le proprietà qualitative che emergono dall’interazione di parti o di individui in sistemi complessi e che non sono riconducibili alle singole parti

Sono ricercate sinergie positive.

L’architettura, l’energia e l’uso delle risorse, nonché gli spazi dell’istituzione, non sono né gestiti ecologicamente né visti come parte dell’esperienza educativa.

Gestione ecologica legata al curriculum educativo e all’esperienza diretta

La scala di un’organizzazione o istituzione educativa non è considerata

Strutture e situazioni di apprendimento impostate a scala umana

Controllo e imposizione del curriculum. Potenziamento e determinazione del curriculum. Controllo dall’alto in basso. Gestione democratica e partecipativa.

Comunità Legami scarsi o nominali con la comunità. Confini si stemperano: la comunità locale è

sempre più parte della comunità di apprendimento

TERZO LIVELLO:

APPRENDIMENTO E PEDAGOGIA VISIONE MECCANICISTICA VISIONE ECOLOGICA

Visione dell’insegnamento e dell’apprendimento Trasmissione. Trasformazione. Orientato al prodotto. Orientato al processo, allo sviluppo e all’azione.

Enfasi sull’insegnamento. Visione integrata: anche gli insegnanti apprendono, gli

studenti sono anche insegnanti.

Competenza funzionale. Sono valutate sia le competenze funzionali, sia le competenze critiche e le creative.

Visione del discente

Come un essere cognitivo. Come persona intera, con un ampio arco di bisogni e di capacità.

Il modello sottolinea le carenze. Sono valutate la conoscenza esistente, le opinioni e le emozioni

I discenti sono concepiti come largamente indifferenziati.

Sono riconosciuti bisogni differenziati.

Valutazione dell’intelletto. Sono valutati l’intelletto, l’intuizione e le abilità.

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Intelligenza logica e linguistica. Intelligenze multiple.

Insegnanti come tecnici. Gli insegnanti sono professionisti riflessivi e agenti di cambiamento

Discenti come individui. Apprendono i gruppi, le organizzazioni e le comunità.

Stili di insegnamento e apprendimento

Esperienza cognitiva. L’esperienza è affettiva, spirituale, manuale e fisica.

Istruzione passiva. Stili di apprendimento attivo. Ricerca non critica. Ricerca critica e creativa. La ricerca è analitica e individuale. La ricerca apprezza l’unicità e le potenzialità di

ognuno ed Arco ristretto di metodi. Ampio arco di metodi e strumenti.

Visione dell’apprendimento Apprendimento semplice (di primo ordine: mette l’accento sull’informazione, accettando i valori e le convinzioni esistenti)

Tanto critico quanto epistemico (di secondo e di terzo ordine: sottopone ad esame gli assunti dell’apprendimento di primo ordine e ci consente di vedere le cose diversamente, portando l’apprendimento ad un livello trasformativo

Non riflessivo, causale. Riflessivo, iterativo. Il significato è dato. Il significato è costruito e negoziato.

I bisogni devono essere effettivi. I bisogni devono essere prima di tutto significativi.

 

La visione ecologica qui descritta, seppur in modo schematico,

è ciò che forse più si avvicina ad una messa in atto

(nell’insegnamento) dell’idea moriniana di complessità.

Si può parlare oggi di una sensibilità diffusa alle tematiche da

Morin indagate e trattate che ben si può scorgere in molti ambiti della

realtà quotidiana: non solo nella scuola dell’obbligo ma anche

dall’università alla politica, dalle associazioni e dagli enti di

protezione ambientale ai laboratori scientifici, dai media alle tavole

rotonde e congressuali.

Il pensiero di Morin trova, oltra a innumerevoli riconoscimenti,

onoreficienze e Premi internazionali, terreno fertile e approvazione in

molte realtà dei giorni nostri. Tra questi, apportando qualche esempio

senza avere la pretesa di essere esaustivi, è possibile annoverare:

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l’insegnamento, da parte del professor Emilio-Roger Ciurana,

dell’Epistemologia della Complessità all’Università di Valladolid, in

Spagna; la creazione dell’ Instituto Internacional para el Pensiamento

Complejo dell’Università di Buenos Aires il cui direttore, Raul

Domingo Motta, è anche responsabile della “Cattedra Itinerante

UNESCO Edgar Morin per il Pensiero Complesso”; altri casi

comprovanti che la riforma è già iniziata sono individuabili in

Portogallo, Perù, Brasile, Cuba, Colombia e Messico (esattamente ad

Hermosillo dove è stata fondata la “Multidiversidad Mundo Real

Edgar Morin”: un’Università dedicata alla Filosofia della

complessità); ancora -per quanto riguarda l’Italia- all’Università di

Bergamo è attivo il CE.R.CO: “Centro ricerca antropologia ed

epistemologia della complessità”, nato con l'intento di promuovere

forme di pensiero e di ricerca interdisciplinari che permettano di

rispondere ai problemi della complessità che la natura, il mondo, la

società, l'essere umano pongono in tutti gli ambiti della conoscenza, a

livello scientifico, filosofico e politico; a Messina vi è “Il Centro

Studi di Filosofia della Complessità Edgar Morin” (fondato nel marzo

2002 da un gruppo di studiosi del Dipartimento di Filosofia

dell’Università, da tempo impegnati a indagare le relazioni fra

filosofia e scienze, e a esplicare i differenti paradigmi epistemologici

che si sono succeduti e contrastati negli ultimi due secoli). Per quanto

riguarda tale ambito, la bibliografia di riferimento è vasta e di facile

reperibilità.

Oltre ad accenni di tal genere, nel comporre questa parte

supplementare della trattazione, prendo spunto da tre esperienze

personali grazie alle quali sono venuta a conoscenza di realtà davvero

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significative nell’ambito di ciò che può essere classificato come

educazione ambientale (ispirata ad un pensiero ecologico).

“La cultura della sostenibilità richiede uno sforzo congiunto e

coerente di tutte le sedi della società per promuovere nuovi stili di

vita”. Questa è la raccomandazione dell’UNESCO pronunciata in

occasione del DESS, acronimo che sta per “Decennio dell’educazione

allo sviluppo sostenibile”249 e promosso dalle Nazioni Unite per il

periodo 2005/2014.

                                                            249  Riporto lo Schema Internazionale d’Implementazione per il Decennio ONU dell’Educazione allo Sviluppo Sostenibile. Questo documento, approvato dal Comitato Esecutivo dell’UNESCO 13 settembre 2005, è stato elaborato su mandato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che nella Risoluzione 59/237 ha richiesto all’UNESCO di predisporre uno Schema Internazionale d’Implementazione per il Decennio delle Nazioni Unite dell’Educazione per lo Sviluppo Sostenibile (DESS). Lo Schema d’Implementazione costituisce un quadro di riferimento utile per tutti gli attori che intendono contribuire al Decennio. Non ha natura vincolante; contiene piuttosto degli orientamenti di massima per indirizzare l’ampia gamma dei partner, pur nel rispetto delle peculiarità di ciascuno, indicando le ragioni e le modalità del loro possibile supporto al Decennio e il contesto temporale e locale in cui possono agire. Presenta brevemente le sfide che l’ESS dovrà affrontare e delinea le caratteristiche che l’educazione dovrebbe avere per facilitare il perseguimento dello sviluppo sostenibile. Obiettivo dello Schema Internazionale d'Implementazione: nel dicembre del 2002 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 57/254, che proclama il Decennio delle Nazioni Unite dell’Educazione per lo Sviluppo Sostenibile (DESS) per il periodo 2005 - 2014. All’UNESCO è stato chiesto di assumere la leadership del Decennio e di predisporre una bozza di “Schema Internazionale d’Implementazione” (SII). Questo documento risponde a tale richiesta ed è il risultato di ampie consultazioni che hanno coinvolto Agenzie delle Nazioni Unite, governi, organizzazioni della società civile, ONG, esperti e specialisti. Il processo ha preso avvio nel 2003 con le consultazioni iniziali all’interno delle Nazioni Unite. L’UNESCO ha poi ampiamente diffuso la prima bozza di Schema Internazionale d’Implementazione - SII, ed ha ricevuto più di 2000 contributi, rappresentativi di opinioni consolidate di centinaia di soggetti interessati. Il SII è

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In altri termini, si può affermare che l’interdisciplinarietà e la

complementarietà dei saperi di cui Morin parla, invitandoci ad andare

oltre lo stato attuale delle cose, deve concretamente trovare

applicazione per un cambiamento di paradigma che s’ispira ad una

visione ecologica.

E’ ciò che, tra gli altri, tenta anche in campo scientifico, ad

esempio un ente come “Arpa” (Agenzia regionale per la protezione

ambientale), da cui prendo a prestito le parole per esprimere l’urgenza

della metamorfosi paradigmatica:

la complessità va intercettata e utilizzata (con intelligenza) e non

soppressa o negata. Il problema è quindi quello di ricercare un diverso

rapporto con tale dimensione, oramai fortemente costitutiva dei nostri

sistemi sociali; di capire in che modo è possibile far funzionare il nostro

                                                                                                                                                                   un documento strategico che si focalizza in primo luogo su quello che le nazioni si sono impegnate a perseguire attraverso il DESS e sotto la leadership dell’UNESCO. Riassume finalità e obiettivi del Decennio, e illustra il suo legame con altri importanti movimenti in corso nel campo educativo. Sottolinea l’importanza dei partenariati ai fini del successo del Decennio e evidenzia come questi possano fornire un contributo notevole a tutti i livelli (locale, nazionale, regionale e internazionale). Descrive le funzioni d’indirizzo assegnate all’UNESCO. Elenca inoltre i passi principali che sono stati compiuti per giungere al DESS. Il SII dovrebbe suscitare un senso di appartenenza collettiva nei confronti del DESS. Indica delle prospettive future nella speranza di stimolare l’immaginazione, la creatività, l’energia per fare del DESS un successo. L’aspettativa è che Stati e regioni (in senso sovra-nazionale) elaborino piani, approcci strategici e scadenzari sulla base del quadro di riferimento fornito da questo Schema. 

 

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vivere associato, recuperando, appunto nella diversità, gli elementi che ci

possono unire e sui quali basare prospettive di sviluppo250.

Il problema fondamentale è che l’indeterminazione cognitiva è

sovrana nella nostra epoca, e lo è soprattutto perché vi è la difficoltà a

“mettere in relazione una varietà di istanze e di punti di vista, molto

maggiore che in altre fasi storiche”251.

Non possiamo permetterci di dimenticare l’eco-appartenenza

consegnataci dal darwinismo. Teoria, quella di Darwin, che può

aiutarci a capire i problemi odierni perché “se si è parte di una realtà,

se a questa realtà si appartiene, risulta assai difficile pensare di

metterne a rischio il destino”252. Detto in altri termini: la

comprensione del legame non semplicemente “filiativo” ma

“affiliativo”, che tiene insieme l’Uomo alla Natura, è indispensabile.

Sulla stessa linea di pensiero si dirigono le parole pronunciate in

occasione di un convegno promosso dall’Arpa:

un rapporto verticale tra dominatore e dominato è destinato al

fallimento, soprattutto nel nostro caso in cui il dominato è l’ambiente stesso

che dà vita e da cui siamo fortemente dipendenti, e deve trasformarsi in un

rapporto orizzontale253.

                                                            250  A. Raus, articolo: “Una società instabile: complessità, partecipazione, e conflitto come opportunità”, in Micron, Rivista di Informazione Arpa Umbria, dicembre 2008, numero 10, p. 32 

251  A. Raus, art. cit., p. 36

252 A. Raus, art. cit., p. 39

253 Fabio Mariottini, Arpa Umbria: Intervento al Convegno “Cittadini nella società della conoscenza”, Perugia, 22/23 Gennaio 2009 

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Come sottolinea la giornalista Silvia Zamboni è importante

altresì postulare una comunicazione educativa, che si interponga tra

quella politica e quella istituzionale. Oltre a ciò, non vanno messe in

secondo piano due categorie di grande rilevanza ai fini di un cambio

di paradigma: quella relazionale, e di una sua lettura “ecologizzata”,

e l’idea per cui la separatezza è sinonimo di impoverimento, nei

rapporti umani come nei nostri sistemi di pensiero. Questi i

presupposti dell’intervento della Dott.ssa Rossella De Leonibus254 la

quale, in conclusione al medesimo, elenca le cinque parole chiave (in

cui possiamo trovare analogie con i concetti moriniani), o

gardnerianamente definibili intelligenze, essenziali ad un’ecologia

delle relazioni: globalità, limite, diversità, estetica ed etica.

Per quanto riguarda in modo più dettagliato la scuola,

nell’ambito della “Settimana dell’educazione allo sviluppo

sostenibile”255 è stato presentato il progetto dal titolo Georisorse tra

uso e abuso (patrocinato da “Università degli Studi di Perugia”,

“Ufficio Scolastico Regionale” e “Regione Umbria”) le cui curatrici,

Doretta Canosci, Antonietta Cosimetti e Laura Marchese, sostengono

che se le risorse, soprattutto degli adolescenti, venissero indirizzate

                                                            254 Intervento dal titolo “ E’ possibile un’ecologia delle relazioni umane? Cinque parole per cominciare” all’interno del ciclo di Conferenze su “Consumo responsabile: Come e Perché?” tenutosi a Perugia tra il 17 Febbraio e il 10 Marzo 2009 In collaborazione con CIFORMAPER, Centro Italiano di Formazione Psico-Eco-Relazionale, secondo la metodologia della Gestalt Ecology, che nasce tra professionisti della psicologia e delle scienze umane e ricerca principi, atteggiamenti e strumenti in grado di ricreare lo spazio per una visione integrata dell'essere umano, ricollocato in relazione al suo ambiente e all'ecosistema.

 

255 Svoltasi nel periodo 11-14 Novembre 2008 

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con maggiore determinazione allo studio delle problematiche

ambientali e a valutare quanto ogni singolo individuo possa

rappresentare elemento decisivo e portante per la loro risoluzione,

potremmo pensare di aver gettato le basi per lo sviluppo di cittadini

consapevoli

Molti i progetti in quest’ambito che puntano ad integrare la

questione ambientale con quella sociale ed economica; tra i tanti si

può annoverare “Agenda 21”, ovvero quel piano di lavoro contenente

intenti e obiettivi programmatici (sottoscritto da 178 paesi di tutto il

mondo nel 1992 e che da allora sancisce le priorità di politica

ambientale) tendenti ad una visione globale (ci si può permettere di

dire complessa) dello sviluppo.

Splendida e significativa è la letteratura a disposizione, sia

giuridico/normativa che d’approfondimento, per quanto riguarda

l’evoluzione e i progressi fatti in materia di sensibilità ambientale; ma

ciò che credo sia più rilevante, seguendo anche gli inviti riformatori

moriniani in più occasioni pronunciati, è indagare come la scuola, ad

ogni grado e in ogni indirizzo, possa (debba) apportare novità

indiscutibili ed utili all’intera società. Rivalutandosi nel suo ruolo di

formatore, capace di dar senso alla vita e cessando di essere il luogo

che troppo spesso si sente definire come noioso e inadeguato, la

scuola può venirsi a configurare come l’epicentro ri-formatore poiché

ha senza dubbio un’importanza strategica per il futuro di ogni paese.

Scrive Luigina Mortari: “l’ipertrofia razionalistica -semplificante e

riduttiva- ha contagiato anche il pensiero pedagogico”256 e troppo

                                                            256 L. Mortari, Per una pedagogia ecologica, cit., p. 70 

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spesso l’educazione ambientale, per questo, si riduce ad essere

applicata in modo tecnicistico e scientista. Ciò che è essenziale invece

è il recupero di un rapporto diretto con la natura, come già

sostenevano i protoecologisti, così da far emergere “un’idea

complessa di educazione ambientale, che implica un’alfabetizzazione

ecologica fortemente interrelata con l’educazione etica e quella

estetica”257. Un’educazione così intesa conduce ad un’identificazione,

soprattutto corporea, col mondo circostante. Permette così anche di

rivalutare il corpo, quel corpo che la tradizione cartesiana ci ha fatto

dimenticare.

Da tali presupposti nasce il desiderio di un’osservazione diretta

(di ispirazione montessoriana), che ho avuto la fortuna di poter

svolgere, in tre contesti diversi:

- Campo scuola258 di tre giorni in Valnerina con bambini di

classe elementare presso la struttura CEA, uno dei molti Centri

                                                            257  L. Mortari, Per una pedagogia ecologica, cit., p. 29 

258  Progetto di educazione ambientale; a.s.2008-2009 e a.s.2009-2010 Direzione Didattica Statale 1 °Circolo di Perugia. Progetto dal titolo “Come un pizzico di sale, insieme noi possiamo….” Descrizione sintetica del progetto e suoi punti di forza: Il progetto è stato elaborato, per il biennio 2008-2010, dal gruppo docente in coprogettazione con i C.E.A. Esso dà continuità al lavoro svolto nei precedenti anni scolastici riguardo alle complesse tematiche dell’educazione ambientale e dello sviluppo sostenibile. Coinvolge tutti gli alunni delle diverse classi, tutti gli insegnanti, i collaboratori scolastici, gli operatori-educatori dei C.E.A, le famiglie e il territorio. E’ inserito nel P.O.F di Circolo ed è il progetto-portante delle scuole elementari interessate. Nei suoi percorsi educativo-didattici affronta le seguenti aree tematiche: l’acqua, l’aria, l’educazione al paesaggio, i rifiuti (intesi come risorsa), lo sviluppo e l’energia sostenibile, sia attraverso un “cammino comune” che vede gli alunni

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                                                                                                                                                                   coinvolti da protagonisti nella progettazione e trasformazione degli ambienti comuni interni ed esterni alle due scuole; sia con visite e soggiorni presso i C.E.A. Ha come finalità prioritaria la costruzione, secondo i principi di Agenda 21, di una scuola di qualità che educhi bambini ed adulti ad appropriarsi di comportamenti corretti nei confronti di sé stessi, degli altri, del proprio territorio, del pianeta Terra e della sua sostenibilità. Una scuola-laboratorio “piena di tempo” che “passa dalle parole ai fatti”, che si rende costantemente “visibile”, una scuola “flessibile”, a cui sta a cuore riflettere sul proprio “agire”, una scuola “aperta” a nuove proposte e soprattutto capace di mettere in atto cambiamenti “dentro e fuori”. Il progetto nasce dal lavoro svolto negli anni passati, in continuità dal 2002 ad oggi, con il coinvolgimento progressivo da 1 classe alle attuali 11, da soli 20 alunni agli attuali 233 .Continuità che si avvale della ormai raggiunta solidità di intenti e d’azione con gli operatori dei CEA coinvolti nella coprogettazzione. Un’esperienza che spinge i ragazzi a non essere solamente degli utenti , ma dei protagonisti e dei divulgatori immediati della medesima, sia verso i genitori che verso compagni ed amici. E’ un progetto multidisciplinare che tra l’altro aumenta e consolida il senso di appartenenza al gruppo- classe e al gruppo-scuola e fa sì che ognuno percepisca le proprie “diversità” come risorse da mettere a disposizione per gli altri. L’ambiente sarà visto non solo come macrosistema, ma come microsistema, e quindi come punto di partenza per modificare il macrosistema. Per documentare il processo educativo messo in atto dal progetto e raccontare i momenti e le esperienze ritenuti più significativi, verrà costruito un diario, come strumento personale e del gruppo in cui annotare, registrare, raccogliere dati e impressioni utili per costruire progressivamente la “memoria” del percorso educativo compiuto.

Gli insegnanti utilizzando il diario potranno inoltre -interpretare, anche a distanza di tempo, l’esperienza progettuale -riflettere sull’azione educativa svolta e sui processi attivati -modificare, aggiustare il progetto stesso in itinere qualora emergano bisogni nuovi o altri fattori non ipotizzati e previsti nel progetto iniziale. Indicatori di efficacia relativi all’acquisizione di comportamenti responsabili e consapevoli: a) coinvolgimento di tutti gli alunni e tutti gli insegnanti risultati attesi: -consapevolezza del proprio ruolo all’interno della collettività scolastica -miglioramento e/o rafforzamento dei rapporti interpersonali -superamento di disagi e difficoltà -disponibilità ad aiutare e farsi aiutare -uso di competenze e diversità come risorse per il gruppo -capacità di gestione autonoma di se stessi, degli oggetti personali, delle azioni quotidiane, degli impegni presi b) costruzione di una affettività nei confronti del proprio ambiente di vita e

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di Educazione Ambientale di Legambiente presenti nel

territorio umbro. Le finalità dei tre giorni si ispirano

innanzitutto al protagonismo degli studenti che vi partecipano e

alla co-progettazione, per una vera educazione ambientale.

Come sottolinea Gianfranco Bottaccioli (U.S.R.), il binomio di

questi due aspetti, quindi ciò che si può definire una

progettazione partecipata, permette quello che viene definito un

decentramento cognitivo favorendo l’arricchimento delle mappe

concettuali ed esistenziali di ciascuno. Oggi siamo in una

nuova fase dell’azione ambientalista che va ben oltre il bisogno

di sensibilizzare ed è piuttosto incline ad approdare alla

necessità del fare. Ispirati da tale principio, l’intento principale

                                                                                                                                                                   dell’ambiente in genere risultati attesi: -capacità di emozionarsi di fronte ad un paesaggio -desiderio di “avere a cuore” l’ambiente vissuto nelle esperienze del progetto -assunzione di responsabilità per la gestione comune del patrimonio ambiente (es: giardino della scuola) -nascita di un senso di appartenenza al proprio ambiente di vita (relazioni interpersonali e con il territorio) c)acquisizione dei concetti basilari di ambiente naturale, ecosistema, paesaggio, energia, sostenibilità con l’uso di un linguaggio specifico risultati attesi: -acquisizione di competenze trasversali a tutte le discipline del curricolo utilizzando metodologie laboratoriali e di indagine sul campo d).1 uso di strumenti di misura come questionari ed osservazioni per analizzare gli atteggiamenti e i comportamenti dei ragazzi prima e dopo le varie fasi di realizzazione del progetto (es: prima e dopo il campo-scuola) d).2 uso dì questionari per sondare le opinioni dei genitori rispetto alle esperienze di educazione ambientale risultati attesi: -raccolta di dati utili a riflettere sui processi educativi messi in atto dal progetto e sugli eventuali “cambiamenti reali” avvenuti nei ragazzi sia all’interno (scuola e casa) che all’esterno (per esempio nei C.E.A) del contesto formativo.

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dei CEA259 è quello di educare al paesaggio: avviare cioè “un

approccio attivo in cui gli aspetti sensoriali ed emotivi siano

strettamente collegati a quelli cognitivi, facendo mettere in

evidenza agli alunni l’invisibile al di là dell’invisibile anche per

riuscire a comprendere le relazioni tra gli elementi”260.

- Coinvolgimento in alcuni progetti, promossi e portati avanti

dall’ U.S.R. (Ufficio Scolastico Regionale -Provveditorato

degli Studi di Perugia-), quali: organizzazione Perugia Science

Fest (Festival della Scienza che rende altamente partecipativi

gli studenti in ambiti tradizionalmente visti come ostici quali la

fisica, la chimica, la biologia coniugandole con dimostrazioni e

spettacoli); partecipazione alla “tavola della Pace”261 tenutasi ad

Assisi (che ha coinvolto in modo particolare le scuole, non solo

italiane, e che ha posto al centro del dibattito un’ “economia di

giustizia”); analisi dei motivi della premiazione per il concorso

“Percorsi d’Acqua” (che ha visto la partecipazione di 35 scuole)

il cui scopo principale era quello di elaborare messaggi

promozionali per incoraggiare nei cittadini stili di vita e

comportamenti congruei al risparmio idrico; presa visione

                                                            259  il CRIDEA (Centro Regionale per l’Informazione, la Documentazione e l’Educazione Ambientale) è in stretta collaborazione con tali centri e sulla stessa linea di pensiero elabora progetti e iniziative in ambito scolastico (cfr. Versos. Verso una società sostenibile; Guida sperimentale per gli insegnanti delle scuole medie superiori, Giunti, Firenze, 2003 che propone un modello metodologico integrato e complesso ispirandosi a “pensare globalmente, agire localmente”). 

260 Rivista Green, Ottobre/dicembre 2008, p.13 

261 “Costruire la pace è opera dell’educazione; la politica può solo evitare la guerra” M. Montessori  

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dell’Osservatorio permanente regionale per “Cittadinanza,

legalità e costituzione” finalizzato ad una cittadinanza

consapevole e alla promozione dell’insegnamento

dell’educazione civica nelle scuole.

Le iniziative qui brevemente elencate stanno a dimostrare

quanto l’istruzione sia molto più recepibile se ha un’applicazione,

un fine pratico e svelano che i soggetti motivati

nell’apprendimento sono coloro i quali vedono nella cultura un

investimento a lungo termine. In ultimo, la terza esperienza si è

configurata come

- indagine conoscitiva, nella sua pratica quotidiana (75 ore di

presenza in aula), del metodo Montessori applicato nelle

classi di scuola elementare. Nel descrivere tale esperienza

tornano in mente le parole di Edgar Morin quando sostiene che

l’ educazione deve favorire la capacità naturale della

mente di porre e risolvere i problemi essenziali e, correlativamente,

deve stimolare il pieno uso dell’intelligenza generale. Questo pieno

uso richiede il libero esercizio della facoltà più diffusa e più viva

nell’infanzia e nell’adolescenza, ossia la curiosità, che troppo spesso

la scuola spegne e che si tratta, al contrario, di stimolare o di

risvegliare, se dorme262.

Nella scuola Maria Montessori di Perugia è semplice

scoprire quell’attenzione al contesto che anche Morin invoca,

anche se in termini diversi; l’importanza di prestare attenzione

all’ambiente (che se è organizzato è educatore e autoriformatore

                                                            262 Morin E., I sette saperi, cit. p. 39

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di per sé) in cui bambini svolgono quello che per loro è un vero

e proprio lavoro, responsabilizzandosi e collaborando tra loro.

L’utilizzo non solo delle facoltà intellettive ma anche sensoriali

è uno degli aspetti che più colpisce durante le ore di scuola: “la

vita intellettuale non è affatto puramente mentale ma passa

innanzitutto per la mano e i sensi […] ed è questo uno dei punti

di svolta del percorso storico che ha portato nel Novecento allo

svecchiamento delle pratiche educative […]”263. Anche

l’ambiente ha subito, sulla scia di questa innovazione, una

significativa rivalutazione poiché fu posto in “relazione viva

con le esigenze dello sviluppo psichico”264. Ed è questa una

lezione che mai si dovrebbe dimenticare, cosa che invece oggi

ancora accade.

Siccome insegnare è un mestiere difficilissimo la premessa è

conoscere quello che si insegna ma anche conoscere l’anima di chi ci

ascolta. Va invertito il processo di apprendimento in tutte le sedi

scolastiche. Non si nega il valore della sintassi, dell’astrazione, senza le

quali non c’è cultura: si nega il fatto che esse vengano per prime, che siano

tutto. Solo pochi solo contemplativi, fra i ragazzi265.

Il rapporto di reciproco sostegno tra fare e sapere costituisce

elemento essenziale all’interno della scuola, così come il poter mettere

in comunicazione i saperi.

                                                            263 F. Pesci, Educazione senza vittime, Cedam, Roma, 2008, p. 222 .

264 F. Pesci, Educazione senza vittime, cit. p. 222

265 L. Berlinguer, “Atti della conferenza Regionale sul sistema educativo di istruzione e formazione” 9, 10 Maggio 2008 p. 9 in Rivista Tutto scuola

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Vediamo che esiste uno stretto legame tra il lavoro manuale che si

compie nella vita comune e la profonda concentrazione dello spirito. Per

quanto a prima vista sembri che queste due cose siano opposte, in realtà

esse sono profondamente unite, poiché l’una è la sorgente dell’altra266.

E’ necessario acquisire la consapevolezza della complessità

dell’essere umano e del contesto in cui si trova costantemente

inserito. Rivalutando il sapere nella sua qualità di flusso, piuttosto che

continuare a parcellizzarlo –cosa che viene applicata anche ai

movimenti e agli elementi della vita psichica-, significa spingersi

verso la direzione di una ecologia pedagogica

intendendo con ciò non soltanto il posto che ha lo studio

dell’ambiente nell’ambito della cultura oggi necessaria per lo sviluppo di

personalità integrate nel loro ambiente sociale, ma anche una

considerazione della formazione come ambito di tematiche analogo a quella

che negli anni Ottanta si era cominciato a chiamare ecologia della mente267.

Serve dunque una rivoluzione didattica, che sia anche

epistemologica, poiché troppo spesso le tradizionali funzioni dei

sistemi educativi (riproduzione sociale, trasmissione della cultura,

promozione di cittadinanza, formazione professionale) rinchiudono gli

studenti in saperi parcellizzati, diffondono conformismo, avvallano

acriticamente pratiche insostenibili e non tengono sufficientemente

conto della ricchezza di capacità e bisogni che è racchiusa in ogni

discente. Un’educazione è “sostenibile” 268se incorpora altre funzioni,

                                                            266 M. Montessori, Il bambino in famiglia, Garzanti, Milano, 2008, p. 62

267 F. Pesci, Educazione senza vittime, Cedam, Roma, 2008, p. 194

268 Cfr. www.educazionesostenibile.it

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se, rivedendo i suoi paradigmi, permette un pieno sviluppo delle

persone, le attrezza ad affrontare le difficoltà e le sfide della vita e

sostiene cambiamenti che portino ad una società migliore e ad un

mondo più pacifico.

Ciò che in definitiva serve, a partire dagli inizi dell’età scolare,

è una didattica interdisciplinare, o meglio transdisciplinare:

non si tratta di inventare nuove materie scolastiche ma di ripensare la

funzione delle varie discipline utilizzando l’educazione ambientale

(attraverso quella scienza nuova che è l’ecologia, la quale affronta il

problema delle relazioni tra vita e morte, scienza e coscienza, umanità e

natura) come risorsa […] per stimolare le discipline a confrontarsi e a

interagire tra di loro[…] e creando così anche cittadini più consapevoli269

del loro ruolo nell’era globale.

Un’ottimo esempio di questa pratica, che non solo è auspicabile

ma altamente realizzabile, è il centro di “Ecolfabetizzazione” fondato

da Fritjof Capra il cui intento, come egli stesso sostiene

non è insegnare la «teoria» dell’ecologia; vogliamo che i bambini,

una volta finita la scuola, siano responsabili per la Terra, e che non sentano

tale responsabilità unicamente in base ad una conoscenza teorica. Perciò

vogliamo che facciano esperienza dell’ecologia e che abbiano una relazione

emotiva con la natura, secondo un approccio partecipatorio.  Intervista di

Andrea Markos, Rivista Ecole, settembre 2004

                                                                                                                                                                    

269  Arpa, Anche nel mio giradino, Supplemento alla Rivista Micron n° 8/ Dicembre 2007 p. 62 

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