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ECONOMIA POLITICA Begg Fischer Dornbusch, 2002 Università degli Studi di Milano Facoltà di Scienze Politiche Corso di Scienze dell’Amministrazione

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ECONOMIA POLITICA Begg Fischer Dornbusch, 2002 Università degli Studi di Milano Facoltà di Scienze Politiche Corso di Scienze dell’Amministrazione

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1. Scienza economica ed economia Obiettivi di apprendimento:

• comprendere che la scienza economica (o economia) studia il modo in cui le società umane contemporanee risolvono il problema della scarsità delle risorse;

• illustrare i diversi meccanismi istituzionali attraverso i quali una società umana decide cosa, come e per chi produrre beni e servizi;

• discutere i punti di forza e di debolezza del mercato in quanto meccanismo istituzionale di allocazione e distribuzione di risorse scarse;

• sviluppare il concetto di costo e opportunità; • distinguere tra scienza economica positiva e normativa; • presentare le differenti ipotesi semplificatrici utilizzate nello studio dei problemi microeconomici e

macroeconomici; Ogni collettività di persone deve risolvere tre problemi fondamentali della vita quotidiana: quali beni e servizi produrre, come produrli e per chi produrli.

• La SCIENZA ECONOMICA o ECONOMIA studia i processi attraverso i quali le società contemporanee decidono che cosa, come e per chi produrre beni e servizi;

Enfatizzando il ruolo della società, la definizione proposta colloca la scienza economica tra le scienze che studiano e spiegano il comportamento umano in un contesto sociale, ovvero tra le scienze sociali. Il problema economico di base di una società umana è come risolvere il conflitto tra bisogni sostanzialmente illimitati di beni e servizi degli individui che la compongono e risorse scarse disponibili per la loro produzione. Pur avendo per oggetto di studio il comportamento umano, l’economia è una scienza e non un’arte o una filosofia umanistica. La classificazione dell’economia tra le scienze sociali è giustificata dal metodo con cui gli economisti analizzano i problemi e non dall’oggetto dei loro studi.

1.1. Due problemi economici

GLI SHOCK DEL PREZZO DEL PETROLIO. Il petrolio fornisce il combustibile per la produzione e il trasporto. Fino al 1973 il consumo mondiale di petrolio – disponibile in abbondanza e a prezzi contenuti – crebbe in modo continuo e rilevante. Nel biennio 1973-74 vi fu un cambiamento improvviso. Alcuni tra i principali paesi produttori (OPEC), attraverso la fissazione di quote produttive, restrinse l’offerta mondiale di petrolio in modo da triplicarne il prezzo. Nello stesso periodo si verificò la crisi di Suez tra Egitto e Israele. L’andamento del prezzo reale – ovvero corretto in base all’inflazione – del petrolio nel periodo 1973-2004 è segnato da 4 fasi sostanziali, infatti: il prezzo aumentò del 300% tra il 1973 e il 1974, poi ancora del 200% tra il 1979 e il 1980 per poi tornare alla quotazione del 1973 nel 1997 e poi nuovamente, tra il 2001 e il 2004 tornare oltre la quotazione più elevata del periodo 1979-80 in conseguenza della guerra al terrorismo. Nel lungo periodo l’alto prezzo del petrolio induce gli utilizzatori a ridurre l’impiego attraverso il ricorso ad altre fonti di energia o materie prime e i paesi non aderenti all’OPEC ad accrescere l’offerta. Come l’organizzazione economica di una società umana produce beni e servizi? Allorché il prezzo del petrolio aumenta in modo rilevante le imprese tendono a ridurre l’utilizzo di prodotti derivati dal petrolio, le compagnie aeree acquistano aeromobili che consumano meno, le centrali elettriche sono convertite a gas o a carbone. Insomma un aumento del prezzo del petrolio stimola l’organizzazione economica a produrre beni e servizi con un minor utilizzo di petrolio. Qual è l’influenza del prezzo del petrolio sul che cosa debba essere prodotto? Imprese e famiglie riducono l’uso di prodotti basati sul petrolio, che sono diventati più dispendiosi. Le famiglie privilegiano impianti di riscaldamento a gas e automobili di piccola cilindrata. I pendolari privilegiano i mezzi collettivi o riducono il raggio di spostamento. L’accresciuta domanda di sostituti dei beni e servizi basati sul petrolio fa aumentare i prezzi di questi ultimi e stimola la loro produzione.

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Anche il problema per chi produrre ha una chiara risposta. Il ricavo dell’OPEC derivante dalla vendita di petrolio salì da 35 mld di dollari all’anno del 1973 a circa 300 mld di dollari all’anno nel 1980. Gran parte del maggior ricavo fu spesa nell’acquisto di beni prodotti dall’Occidente industrializzato. In contrasto i paesi importatori di petrolio furono costretti a cedere una quota maggiore della propria produzione in cambio del petrolio importato. In termini reali questo comportò un aumento del potere d’acquisto dell’OPEC e una riduzione di quello dei paesi importatori. Gli shock del prezzo del petrolio provocati dall’OPEC sono un buon esempio del modo in cui le società umane allocano le loro risorse scarse tra usi alternativi. Il prezzo del petrolio riflette la scarsità relativa di questa fondamentale risorsa, scaristà in gran parte provocata dalle decisioni dell’OPEC.

• una RISORSA SCARSA è caratterizzata dal fatto che la sua domanda a un prezzo nullo eccede la sua offerta disponibile;

• la DISTRIBUZIONE DEL REDDITO (di una nazione o del mondo) è la ripartizione del reddito totale

tra differenti gruppi o individui;

1.2. Scarsità e usi alternativi delle risorse

Supponiamo che un’economia (ovvero il sistema economico di una società) disponga di 4 lavoratori in grado di produrre cibo o spettacoli cinematografici.

CIBO SPETTACOLI CINEMATOGRAFICI LAVORATORI PRODUZIONE LAVORATORI PRODUZIONE

4 25 0 0 3 22 1 9 2 17 2 17 1 10 3 24 0 0 4 30

Questa tabella mostra le quantità massime producibili di ognuno dei due prodotti con l’impiego totale ed efficiente dei lavoratori disponibili.

• La produzione in ciascuna delle due attività è condizionata dalla LEGGE DEI RENDIMENTI DECRESCENTI: ogni lavoratore addizionale fa aumentare la produzione totale di un ammontare minore di quello prodotto dai precedenti lavoratori addizionali;

Trasferendo lavoratori da un’attività produttiva all’altra, l’economia può accrescere la produzione di un bene, ma solo attraverso il sacrificio della produzione dell’altro. Vi è un rapporto o tasso di scambio (trade-off) tra produzione di cibo e produzione di spettacoli cinematografici. La curva che unisce i punti della tabella precedente disposti in un grafico dove le due produzioni si dispongono l’una sulle ascisse e l’altra sulle ordinate, è la frontiera delle possibilità produttive dell’economia:

• la FRONTIERA DELLE POSSIBILITA’ PRODUTTIVE è una curva che rappresenta – per ogni livello di produzione di un bene – la massima quantità di un altro bene che un sistema economico è in grado di produrre;

• il COSTO OPPORTUNITA’ MARGINALE di un bene o servizio è la quantità di altri beni o servizi a cui si deve rinunciare per produrre un’unità addizionale del primo;

La frontiera delle possibilità produttive rappresenta le combinazioni efficienti che un sistema economico può realizzare:

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• l’EFFICIENZA PRODUTTIVA implica che l’aumento della produzione di un bene (o servizio) può essere realizzato solo con il sacrificio della produzione di altri beni (o servizi);

Poiché i consumatori desiderano cibo e film, la società dovrebbe mirare a produrli efficientemente e quindi scegliere una tra le combinazioni produttive che si trovano sulla frontiera delle possibilità produttive. Così facendo decide che cosa produrre, ma anche come produrre; ovvero quanti lavoratori – risorse scarse – debbano essere impiegati nelle due attività produttive. Come dovrebbe scegliere una società umana la combinazione produttiva tra quelle della sua frontiera delle possibilità produttive? Nella maggior parte delle società economicamente progredite è il funzionamento dei mercati che determina che cosa, come e per chi produrre i beni e i servizi, e quindi l’allocazione delle scarse risorse disponibili.

1.3. Il ruolo del mercato

Tralasciando i dettagli si può proporre una definizione generale del concetto di mercato:

• un MERCATO è un processo attraverso il quale le decisioni delle famiglie circa il consumo di beni e servizi diversi, delle imprese circa che cosa e come produrre e vendere e dei lavoratori circa quanto e per chi lavorare sono rese compatibili attraverso aggiustamenti di prezzi;

Gran parte della scienza economica è dedicata allo studio del modo in cui i mercati e i prezzi consentono alle società umane di risolvere i fondamentali problemi del che cosa, come e per chi produrre. L’ECONOMIA DIRIGISTICA. Per illustrare il ruolo dei mercati e dei prezzi, ci si può chiedere in quale modo potrebbe essere realizzata l’allocazione delle scarse risorse di una società umana in assenza di mercati. Un esempio di tale organizzazione economica è la cosiddetta economia dirigistica:

• in un’ECONOMIA DIRIGISTICA, la decisione circa che cosa, come e per chi produrre è presa da un’autorità che impone dettagliati criteri di comportamento a famiglie, imprese e lavoratori;

La pianificazione è un’attività molto complessa e non si conoscono esempi di società umane nelle quali l’allocazione delle risorse venga realizzata attraverso un’organizzazione completamente dirigistica. In molte nazioni – socialiste o ex-socialiste – si è fatto ampio ricorso a misure di organizzazione economica dirigistica basata su di un’autorità pubblica di pianificazione centralizzata. In questa forma lo Stato detiene la proprietà degli stabilimenti produttivi e delle risorse naturali e assume, attraverso la pianificazione, le più importanti decisioni in merito ai consumi e al lavoro. Nel biennio 1989-1991, i paesi dell’Unione Sovietica abbandonarono la pianificazione pubblica centralizzata di ispirazione marxista e iniziarono la difficile transizione verso l’economia di mercato. L’Unione Sovietica aveva registrato rilevanti tassi di crescita fino agli anni Sessanta, ma dopo di allora la sua economia ristagnò. Le principali difficoltà che le economie dirigistiche dovettero affrontare furono:

• ingorgo informativo (il centro non poteva controllare completamente la periferia); • inefficienza degli incentivi (mancanza di feed-back); • insufficiente competizione (mancanza di pluralità e ricambio);

I mercati invece sono meccanismi istituzionali che ottimizzano le informazioni, forniscono incentivi e stimolano la competizione. LA MANO INVISIBILE. In un mercato libero, gli individui perseguono i propri interessi, senza direttive o interferenze imposte da qualche autorità:

• i mercati nei quali non vi è intervento del Governo o di altre autorità sono detti MERCATI LIBERI; Adam Smith, nel “La ricchezza delle Nazioni” (1776) considerato un classico della scienza economica, intuì che individui orientati al perseguimento dell’interesse personale sarebbero stati guidati da una sorta di “mano invisibile” a prendere decisioni altresì nell’interesse della società nel suo complesso:

• la MANO INVISIBILE è l’azione del libero mercato che, attraverso i prezzi spinge gli individui orientati al perseguimento di interessi privati a compiere scelte economiche efficienti per la società;

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Non sempre però la logica della “mano invisibile” si rivela efficiente, così da giustificare un intervento autoritativo correttivo. L’ECONOMIA MISTA. Tra i due sistemi già discussi se ne colloca un terzo:

• in un’ECONOMIA MISTA, il Governo e il settore privato interagiscono nella soluzione dei problemi economici fondamentali. Il Governo controlla una quota significativa della produzione nazionale attraverso il prelievo fiscale, la politica dei trasferimenti alle imprese e alle famiglie e la fornitura di servizi coma la difesa nazionale e la polizia. Esso condiziona altresì gli individui nel perseguimento dell’interesse privato;

1.4. Scienza economica positiva e normativa

Nello studio della scienza economica, è importante distinguere tra aspetti positivi e normativi:

• la SCIENZA ECONOMICA POSITIVA offre spiegazioni oggettive e scientifiche in merito al funzionamento di un sistema economico;

L’economia positiva tratta l’argomento dei processi attraverso i quali la società umana assume decisioni circa il consumo, la produzione e lo scambio dei beni e dei servizi. L’analisi normativa ha finalità differenti:

• la SCIENZA ECONOMICA NORMATIVA propone criteri basati su giudizi di valore personali; Benchè un approccio di ricerca serio e approfondito possa – in linea di principio – dare una risposta ai più importanti problemi che si pongono all’economica positiva, nessuna analoga aspettativa si può avanzare in merito alla soluzione di punti di disaccordo in tema di economica normativa. Quest’ultima è basata su giudizi di valore personali e non sulla ricerca di leggi oggettive. La proposizione seguente combina aspetti di economica positiva e normativa: gli anziani sostengono spese mediche molto elevate e il Governo deve sussidiare la loro spesa sanitaria. La prima parte della proposizione è un principio di economia positiva. La seconda parte non può essere verificata o falsificata attraverso una ricerca empirica, essa rappresenta semplicemente un’affermazione basata su un giudizio di valore soggettivo.

1.5. Micro e macroeconomia

La divisione tra approccio microeconomico e macroeconomico è trasversale a tutti i campi di indagine dell’economia:

• la MICROECONOMIA propone una trattazione dettagliata delle decisioni individuali in merito a beni particolari;

Il compito interessante della scienza economica è quello di inventare giudiziose semplificazioni che rendano l’analisi gestibile senza distorcerne troppo la realtà. E’ sotto questo aspetto che micro e macroeconomisti procedono lungo strade differenti. I microeconomisti tendono a proporre un’analisi particolareggiata di un aspetto del comportamento economico ma, per garantire semplicità nell’analisi, ignorano le interazioni con il resto del sistema. Un’analisi microeconomica dei salari dei minatori porrebbe l’accento sulle caratteristiche dei minatori e sulle possibilità di pagamento dei proprietari delle miniere. Essa trascurerebbe in larga misura la catena di effetti indiretti che un aumento dei salari dei minatori potrebbe provocare nel resto del sistema economico. In taluni casi, gli effetti indiretti di un evento economico in un particolare settore o mercato possono essere poco rilevanti, così che si giustifica lo svolgimento di un’analisi dettagliata limitata a quel particolare segmento del sistema economico. In altre circostanze, gli effetti indiretti sono talmente importanti da non poter essere trascurati e l’analisi deve essere fondata su una diversa ipotesi semplificatrice:

• la MACROECONOMIA pone l’accento sulle interazioni di eventi particolari con il sistema economico nel suo complesso. Essa volutamente semplifica gli aspetti dell’analisi che riguardano i comportamenti individuali al fine di consentire un’analisi gestibile delle interazioni a livello di intero sistema economico;

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Per dare un’idea dei fondamenti dell’analisi macroeconomica, è opportuno definire tre concetti spesso utilizzati:

• il PRODOTTO INTERNO LORDO (PIL) è il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti in un sistema economico in un dato periodo di tempo, per esempio in un anno;

• il LIVELLO GENERALE DEI PREZZI è un indicatore del livello medio dei prezzi dei beni e dei servizi in un sistema economico;

• il TASSO DI DISOCCUPAZIONE è la percentuale di forza lavoro senza occupazione;

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2. Gli strumenti dell’analisi economica Obiettivi di apprendimento:

• comprendere perché le teorie sono semplificazioni deliberate della realtà; • distinguere tra serie temporali di dati e serie sezionali di dati; • costruire un numero indice; • distinguere tra variabili nominali e variabili reali; • elaborare un semplice modello teorico; • rappresentare graficamente un diagramma di dispersione e interpretare una curva di interpolazione; • spiegare come l’ipotesi “a parità di altre condizioni” consenta di neutralizzare temporaneamente

l’influenza di variabili importanti senza escluderle dall’analisi; L’oggetto di questo capitolo riguarda gli strumenti necessari per l’analisi economica: ossia, i modelli e i dati:

• un MODELLO è una semplificazione consapevole della realtà. Attraverso il ricorso a ipotesi semplificatrici, esso consente di prevedere il comportamento degli agenti economici;

I modelli o le teorie economiche sono quadri concettuali che rappresentano in modo sistematico e semplificato la visione di un problema o fenomeno.

• i DATI sono evidenze circa il comportamento degli agenti e/o dei fenomeni economici; I dati interagiscono con i modelli in 2 modi. In primo luogo, contribuiscono a dare una dimensione quantitativa alle relazioni sulle quali i modelli teorici concentrano l’attenzione. In secondo luogo, i dati aiutano a sottoporre a verifica i modelli. Come tutti gli scienziati, anche gli economisti devono confrontare le loro teorie con le evidenze empiriche rilevanti.

• una LEGGE COMPORTAMENTALE è una relazione logica non falsificata da dati empirici per un periodo di tempo sufficientemente lungo;

2.1. I dati economici

Come è possibile presentare dati ed evidenze empiriche relativi a un fenomeno economico in modo utile e corretto per la sua comprensione?

• una SERIE TEMPORALE è una sequenza di valori assunti da una stessa variabile in differenti istanti o periodi di tempo;

Essa indica quindi il modo in cui una variabile cambia nel tempo. Questa informazione può essere rappresentata mediante un diagramma, detto anche diagramma di dispersione. Le serie temporali riportano dati di una particolare variabile in diversi istanti o periodi di tempo. Ma l’indagine economica richiede altresì l’impiego di dati sezionali:

• una SERIE SEZIONALE di dati rappresenta – a una determinata epoca o a un determinato periodi di tempo – i valori di una variabile riferiti a individui o gruppi di individui diversi;

Un esempio di serie sezionale è quella che mette a confronto il tasso di disoccupazione in differenti paesi nello stesso periodo di tempo.

2.2. I numeri indice

Per confrontare dati quantitativi espressi in unità di misura diverse, si può ricorrere ai numeri indice:

• un NUMERO INDICE esprime un dato relativamente a un suo valore base o valore di riferimento; La tabella sottostante rappresenta i prezzi medi annui dell’alluminio e del rame in alcuni anni. Si supponga di scegliere il 2001 come anno base e di assegnare il valore 100 al prezzo sia dell’alluminio sia del rame in quell’anno per costruire un indice dei prezzi dei due metalli.

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Si consideri ora l’anno 2004: posto uguale a 100 il prezzo monetario di 1500 dollari dell’alluminio nel 2001, il prezzo di 1700 dollari dell’anno 2004 risulta essere pari a 1,13 volte il prezzo dell’anno base. Quindi il numero indice del prezzo del rame dell’alluminio nel 2004 è 113. 1998 2001 2004

Prezzo monetario: Alluminio 1400 1500 1700 Rame 1810 1700 3000

Numero indice del prezzo (2001=100): Alluminio 93 100 113 Rame 106 100 176 Metalli 104 100 164 Si supponga ora di voler calcolare un numero indice del prezzo dei due metalli in generale, per valutare il cambiamento nel tempo. A questo scopo occorre ricavare un’unica serie storica relativa al prezzo dei due metalli considerati congiuntamente. Il procedimento richiede l’attribuzione di un peso a ciascuno dei due metalli. Il peso dovrebbe riflettere lo scopo per cui l’indice viene costruito. Sulla base di questo sistema, in molti paesi vi sono enti pubblici che registrano l’andamento dei prezzi per i consumatori attraverso la definizione e il calcolo di indici dei prezzi al consumo.

• il TASSO DI INFLAZIONE è misurato attraverso il tasso annuo di crescita dell’indice dei prezzi al consumo;

2.3. Variabili nominali e reali

La prima riga della tabella sottostante mostra il prezzo medio di un alloggio nuovo nel Regno Unito, che è aumentato da 3100 sterline nel 1963 a 18000 sterline nel 2003. Il prezzo degli alloggi nuovi nel Regno Unito è realmente aumentato di 50 volte tra il 1963 e il 2003?

1963 1983 2003 Prezzo nominale (k di sterline) 3,10 32,90 180,00

Indice dei prezzi (2003 = 100)

7,69 47,60 100,00

Prezzo reale (k di sterline del 2003)

40,30 69,10 180,00

La risposta è negativa, se si tiene conto dell’inflazione che nello stesso periodo ha accresciuto i redditi e la capacità di acquisto:

• i VALORI NOMINALI sono misurati ai prezzi correnti; • i VALORI REALI risultano dalla correzione dei valori nominali in base al tasso di inflazione misurato

attraverso l’indice dei prezzi; La distinzione tra variabili nominali e reali è applicabile a tutte le variabili espresse in moneta. Non è invece applicabile a variabili espresse in unità fisiche o reali. I prezzi reali sono indicatori di scarsità economica. Essi mostrano se e in che misura il prezzo di un bene è aumentato rispetto al livello dei prezzi in generale. Per questa ragione i prezzi reali sono talvolta chiamati prezzi relativi. Quando i prezzi dei beni e dei servizi aumentano, il potere di acquisto della moneta si riduce:

• il POTERE D’ACQUISTO DELLA MONETA è un indice della quantità di beni e servizi acquistabili con un’unità di moneta;

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2.4. La misurazione dei cambiamenti delle variabili economiche

• il CAMBIAMENTO PERCENTUALE di una variabile è il rapporto tra cambiamento assoluto e valore

iniziale della variabile, moltiplicato per 100; Mentre il cambiamento assoluto di una variabile è riferito a una specifica unità di misura, il cambiamento percentuale è svincolato dall’unità di misura della variabile. Quando si analizzano serie temporali di dati relativi a lunghi periodi di tempo, può non essere sufficiente calcolare il cambiamento assoluto o percentuale fra la data iniziale e finale del prodotto.

• il TASSO DI CRESCITA è il cambiamento percentuale di una variabile per periodo (normalmente per anno);

Gli economisti sono soliti chiamare crescita economica il tasso annuo di crescita del reddito nazionale di un Paese o gruppo di Paesi.

2.5. I modelli economici

Se a un economista fosse conferito l’incarico di stimare il livello del prezzo della corsa che consentirebbe all’ATM di ottenere il massimo ricavo, questi dovrebbe costruire un modello in grado di rappresentare gli elementi fondamentali del problema. Egli per esempio dovrebbe cominciare con la definizione e la stima di questa semplice equazione:

ricavo totale delle corse in metropolitana = prezzo della corsa x numero di passeggeri

L’equazione identifica due fattori determinanti dei ricavi di ATM: il prezzo della corsa e il numero dei passeggeri. L’azienda controlla direttamente il prezzo della corsa, ma può influire sul numero dei passeggeri solo indirettamente. L’economista parte dalla considerazione che il viaggiatore urbano può scegliere tra diversi mezzi di trasporto e ipotizza che la decisione del viaggiatore circa il mezzo di trasporto da utilizzare dipenda dal costo relativo delle alternative possibili. Ne consegue che nell’equazione il numero dei passeggeri non possa essere considerato come un dato. Occorre una teoria o un modello che spieghi quali siano le determinanti del numero dei passeggeri nella metropolitana. In termini più precisi, occorre disporre di un modello della domanda di corse in metropolitana. Sulla base di queste ipotesi, si può definire un accettabile modello della domanda di corse in metropolitana:

quantità domandata = funzione di (prezzo della corsa in metropolitana, prezzo della corsa in taxi, prezzo della corsa in autobus,

prezzo della benzina, reddito dei passeggeri…) Questa equazione afferma che la quantità domandata di corse in metropolitana dipenda da o è funzione di più variabili, come il prezzo della corsa in questione, il prezzo di una corsa in taxi o in autobus, il prezzo dei carburanti utilizzati dalle automobili e molte altre. Il modello relativo ai ricavi totali ottenibili da ATM attraverso la vendita di corse in metropolitana può essere così sintetizzato:

ricavi totali delle corse = prezzo della corsa in metropolitana x funzione di (prezzo della corsa in metropolitana, prezzo della corsa in taxi, prezzo della corsa in autobus,

prezzo dei carburanti, reddito dei passeggeri…)

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Ci si potrebbe chiedere se valga veramente la pena di costruire una tale schematizzazione formale. Un modello è semplicemente uno strumento logico che aiuta lo studioso a organizzare l’analisi di un particolare problema o fenomeno. L’analisi sistematica richiede talune semplificazioni.

2.6. Modelli e dati

L’equazione rappresenta un modello dei più importanti fattori che determinano i ricavi derivanti dalla vendita di corse in metropolitana. Tuttavia il solo ragionamento logico-teorico non è sufficiente per definire collegamenti di questo tipo. La questione del collegamento (inverso e negativo) tra prezzo della corsa e ricavi di ATM può essere risolta esclusivamente in base all’evidenza empirica, ossia alla stima fattuale di quanti passeggeri siano scoraggiati a usare la metropolitana da un aumento del prezzo della corsa. Gran parte della ricerca empirica economica riguarda dati raccolti in periodi nei quali molti fattori rilevanti si modificano simultaneamente. Si pone quindi il problema di identificare gli effetti di questi fattori sul comportamento osservato.

2.7. Diagrammi, curve ed equazioni

A questo scopo è opportuno rappresentare i dati attraverso diagrammi di dispersione perché consente di valutare visivamente se e in che modo 2 variabili siano collegate funzionalmente:

• un DIAGRAMMA DI DISPERSIONE rappresenta simultaneamente i valori osservati di 2 variabili; E’ possibile interpolare una curva tra i punti di un diagramma di dispersione: questa suggerisce – ma non dimostra – la possibile esistenza di una relazione tra le due variabili. Il tipo di curva permette di dare una dimensione quantitativa alla relazione tra le 2 variabili:

• l’ECONOMETRIA è la branca della scienza economica finalizzata alla definizione quantitativa delle relazioni economiche attraverso l’uso di dati empirici;

L’econometria fornisce quindi criteri e metodi per decidere quale tipo di curva interpolante rappresentati meglio i punti di un diagramma di dispersione.

2.8. L’ipotesi a parità di altre condizioni

I diagrammi sono particolarmente utili nell’analisi di relazioni tra due variabili allorché è legittimo ipotizzare che le altre variabili rilevanti rimangano costanti.

• L’IPOTESI A PARITA’ DI ALTRE CONDIZIONI è un artificio analitico per definire la relazione tra due variabili, ma ricordando al contempo che le altre variabili possono influire sulla relazione spostando la curva che la rappresenta;

A parità di altre condizioni, prezzi più alti comportano ricavi totali più alti: ci si sposta dunque lungo la curva inclinata positivamente. Quando uno degli altri fattori cambia si verifica uno spostamento della curva stessa, anche mantenendo la stessa pendenza.

2.9. Teorie ed evidenza empirica

E’ ora possibile sintetizzare il metodo con cui gli economisti affrontano l’analisi di un particolare problema o fenomeno. Il metodo è articolato a 3 stadi distinti. Il primo stadio è quello dell’osservazione empirica e della formulazione generale del problema. Attraverso l’analisi dei dati empirici e il ragionamento teorico, l’economista arriva a formulare l’ipotesi che i ricavi di un’azienda di trasporti metropolitani siano collegati al prezzo della corsa.

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Il secondo stadio è la formulazione di una teoria o modello teorico che esprima l’essenza del problema. Ragionando sulla scelta dei passeggeri in merito al mezzo di trasporto da utilizzare, l’economista identifica i fattori che determinano la scelta della metropolitana e quindi i ricavi dell’azienda che la gestisce. Il terzo stadio è la verifica empirica, ossia il confronto tra le predizioni della teoria e i dati economici. L’elaborazione econometrica dei dati consente di quantificare il peso dei fattori che il modello teorico ha individuato. L’analisi econometrica consente di andare oltre. Includendo nelle stime econometriche qualche fattore deliberatamente trascurato dal modello per motivi di semplificazione analitica, è possibile verificare se questi fattori siano sufficientemente irrilevanti da giustificarne l’esclusione dall’analisi. Una teoria (o modello economico) non falsificata e confermata nel tempo dai dati empirici può essere considerata una legge economica.

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3. Domanda, offerta e mercato Obiettivi di apprendimento:

• mostrare come un mercato renda compatibili domanda e offerta, attraverso la variazione del prezzo; • spiegare che cosa significhino prezzo e quantità di equilibrio di un mercato; • definire le cause principali degli spostamenti delle curve di domanda e di offerta; • distinguere i mercati liberi e i mercati con prezzi regolamentati; • comprendere il modo in cui il funzionamento dei mercati risolve il fondamentale problema di “che

cosa, come e per chi produrre”; Ogni società umana deve decidere di risolvere in qualche modo i problemi relativi al che cosa, come e per chi produrre. Le società progredite si affidano principalmente ai mercati e ai prezzi per allocare le risorse scarse tra usi alternativi. L’analisi del funzionamento dei mercati è molto generale. Può essere applicata al mercato delle automobili, del taglio di capelli e dei calciatori. In ogni caso, la quantità prodotta e scambiata e il prezzo di vendita sono determinati dall’interazione fra domanda degli acquirenti e offerta dei venditori.

3.1. Il mercato

• un MERCATO è un sistema di strumenti istituzionali (mezzi di pagamento, contratti, organismi di

risoluzione delle controversie) e di infrastrutture (mezzi di comunicazione, rete logistica e distributiva) che consentono ad acquirenti e venditori di entrare in contatto al fine di realizzare scambi regolari e ricorrenti di beni e servizi;

Benchè apparentemente assai diversi, tutti i mercati svolgono un’identica funzione economica: determinano i prezzi in corrispondenza dei quali la disponibilità all’acquisto dei compratori uguaglia la disponibilità alla vendita degli offerenti. Prezzo e volume degli scambi non possono essere considerati separatamente. Per approfondire la comprensione di questo processo allocativo è necessario disporre di un modello di funzionamento di un tipico mercato. I caratteri essenziali di questo modello di mercato sono il comportamento degli acquirenti (la domanda) e quello dei venditori (l’offerta).

3.2. Domanda, offerta ed equilibrio del mercato

• la DOMANDA è una relazione tra la quantità di un bene o servizio che gli acquirenti sono disposti ad

acquistare e il prezzo al quale l’acquisto è realizzabile; La domanda non indica una particolare quantità richiesta dagli acquirenti di un bene ma una relazione che definisce la quantità di un bene (nell’esempio cioccolato in barrette) che gli acquirenti sono disposti a comprare ad ogni possibile prezzo. La prima colonna rappresenta un insieme di possibili prezzi di una barretta di cioccolato. La seconda colonna mostra le quantità di barrette domandate in corrispondenza di ciascun prezzo. A parità di altre condizioni, quando il prezzo del cioccolato aumenta, la quantità domandata diminuisce.

(1) prezzo (2) quantità domandata (3) quantità offerta (euro per barretta) (migliaia di barrette) (migliaia di barrette)

0,00 200 0 0,10 160 0 0,20 120 40 0,30 80 80 0,40 40 120 0,50 0 160

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• l’OFFERTA è una relazione tra la quantità di un bene o servizio che i venditori sono disposti a

vendere e il prezzo ricavabile dalla vendita; L’offerta non indica quindi una data quantità, ma una relazione che definisce – a ogni ipotetico valore del prezzo – la quantità di un bene o servizio che i suoi venditori sono disposti a vendere. La terza colonna rappresenta i valori della quantità offerta dai venditori in corrispondenza di vari livelli del prezzo delle barrette di cioccolato. E’ importante rilevare la distinzione tra domanda e quantità domandata. La domanda descrive il comportamento intenzionale o effettivo degli acquirenti a ogni valore del prezzo. L’espressione quantità domandata ha significato solo in riferimento a un particolare prezzo. Analoga distinzione deve essere compiuta tra offerta e quantità offerta. IL PREZZO DI EQUILIBRIO DEL MERCATO. Si ipotizzi che valga l’ipotesi “a parità di altre condizioni” sia per la domanda che per l’offerta. A un prezzo particolarmente basso, la quantità domandata eccede la quantità offerta, mentre a un prezzo significativamente elevato si verifica esattamente il contrario. A un certo prezzo intermedio è possibile che la quantità domandata e la quantità offerta siano uguali: questo prezzo – se esiste – è detto prezzo di equilibrio del mercato:

• il PREZZO DI EQUILIBRIO DEL MERCATO è quel prezzo in corrispondenza del quale la quantità domandata dagli acquirenti eguaglia la quantità offerta dai venditori;

La tabella di cui sopra indica che il prezzo di equilibrio del mercato è 0,30 euro, in corrispondenza del quale sia la quantità domandata sia la quantità offerta sono a pari 80 mila barrette.

• si ha dunque un ECCESSO DI OFFERTA quando la quantità offerta supera la quantità domandata al prezzo corrente di mercato. Si ha, al contrario, un ECCESSO DI DOMANDA quando la quantità domandata eccede la quantità offerta al prezzo corrente di mercato;

3.3. Curve di domanda e di offerta

La tabella presenta le funzioni di domanda e di offerta delle barrette di cioccolato in forma tabellare e consente di determinare il prezzo e la quantità di equilibrio del mercato del bene in questione. Lo stesso problema può essere convenientemente affrontato e risolto in forma grafica.

• la CURVA DI DOMANDA rappresenta graficamente la relazione tra prezzo e quantità di mercato di un bene o servizio, nell’ipotesi in cui le altre determinanti della quantità domandata siano costanti;

• la CURVA DI OFFERTA rappresenta la relazione tra prezzo e quantità offerta di un bene o servizio, a parità di condizioni;

3.4. Uno sguardo dietro la curva di domanda

La curva di domanda rappresenta la relazione tra prezzo e quantità domandata di un bene o servizio, a parità di altre condizioni. Le altre condizioni rilevanti, rispetto alla domanda, possono essere raggruppate in 3 categorie: il prezzo di beni o servizi correlati, il reddito degli acquirenti e i gusti o le preferenze di questi ultimi. IL PREZZO DEI BENI CORRELATI. Quale sia il prezzo della corsa in autobus o del prezzo del petrolio provoca un aumento della domanda di trasporto in metropolitana. Un percorso urbano può essere realizzato con mezzi di trasporto diversi: autobus e automobili private sono sostituiti dalla metropolitana. D’altro canto,

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petrolio e automobile sono beni complementari o complementi, poiché non è possibile usare la seconda senza il primo. Un aumento del prezzo del petrolio tende a ridurre la domanda di automobili.

• un aumento del prezzo di un bene o servizio aumenta la domanda di SOSTITUTI, ma riduce la domanda di COMPLEMENTI del bene o servizio in questione;

IL REDDITO DEGLI ACQUIRENTI. Il reddito degli acquirenti è la seconda categoria di “altre condizioni rilevanti” che influenzano la domanda di un bene o servizio. Quando aumenta il reddito dei consumatori, aumenta la domanda di molti beni e servizi destinati al consumo. Normalmente i consumatori reagiscono a un aumento del loro reddito aumentando il consumo di beni e servizi. Vi sono tuttavia delle eccezioni a questa regola:

• i BENI NORMALI sono caratterizzati da aumenti di domanda dovuti ad aumenti del reddito degli acquirenti. I BENI INFERIORI sono caratterizzati da una domanda che diminuisce al crescere del reddito degli acquirenti;

Come indica il nome, i beni normali costituiscono la grande maggioranza di beni e servizi. I beni inferiori sono tipicamente beni o servizi poco dispendiosi e/o bassa qualità che i consumatori tendono a sostituire con beni e servizi più cari e/o di qualità più elevata allorché il loro reddito aumenta. LE PREFERENZE. La terza categoria di condizioni ipotizzate costanti nel definire una relazione tra prezzo e quantità domandata di un bene o servizio è costituita dai gusti o dalle preferenze degli acquirenti. Tali fattori sono in parte determinati da abitudini e atteggiamenti sociali, ma soprattutto dalla pubblicità manifesta o occulta.

3.5. Spostamenti della curva di domanda

E’ ora possibile distinguere tra movimento lungo una data curva di domanda e spostamenti della curva di domanda. La tabella seguente illustra l’effetto di un aumento del prezzo di un sostituto del cioccolato in barre che induce i consumatori a richiedere più cioccolato e meno gelato. A ogni dato prezzo delle barrette di cioccolato, un aumento del prezzo del gelato confezionato induce i consumatori a sostituire quest’ultimo con il cioccolato, la cui quantità domandata aumenta.

Quantità domandata di barrette di cioccolato (migliaia di barrette)

Prezzo delle barrette di cioccolato (euro per barretta)

Prezzo basso del gelato confezionato

Prezzo alto del gelato confezionato

0,00 200 280 0,10 160 240 0,20 120 200 0,30 80 160 0,40 40 120 0,50 0 80

Il cambiamento del prezzo del gelato confezionato non ha effetti sull’offerta di barrette di cioccolato: a ogni ipotetico prezzo di queste ultime, i venditori sono disposti a offrire la stessa quantità di prima. Lo spostamento verso destra della curva di domanda modifica il prezzo e la quantità di equilibrio nel mercato di cioccolato in barre. Il nuovo prezzo di equilibrio è 0,40 euro e la nuova quantità di equilibrio è pari a 120 mila unità di prodotto. Quando aumenta il prezzo dei gelati confezionati, la curva di domanda del cioccolato in barrette si sposta. Fintanto che il prezzo delle barrette di cioccolato rimane al livello di 0,30 euro, nel mercato vi è un eccesso di domanda di 80 mila unità. Questo eccesso di domanda spinge verso l’alto il prezzo delle barrette di cioccolato, che raggiunge il nuovo livello di equilibrio a 0,40 euro: questo progressivo aumento del prezzo riduce la quantità domandata da 160 a 120 mila unità e incentiva l’aumento dell’offerta da 80 a 120 mila unità.

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Da quest’esempio si deducono due considerazioni generali:

• che la quantitià domandata di un bene o servizio dipende da quattro variabili fondamentali, il suo prezzo, il prezzo di beni o servizi correlati, il reddito e i gusti degli acquirenti;

• che il metodo utilizzato è detto di statica comparata. Nell’ANALISI DI STATICA COMPARATA si ipotizza il cambiamento di una delle variabili assunte come date e se ne esaminano gli effetti sull’equilibrio del mercato;

L’analisi è comparativa perché confronta il vecchio e il nuovo equilibrio ed è statica perché confronta solo le due successive posizioni di equilibrio.

3.6. Uno sguardo dietro la curva di offerta

Quando il prezzo delle barrette di cioccolato è basso, solo i produttori più efficienti e con costi più bassi sono in grado di realizzare profitti. Al crescere del prezzo, anche i produttori meno efficienti e quindi con costi più elevati sono in grado di realizzare profitti e diventano perciò disponibili a vendere. Inoltre le imprese esistenti possono espandere la produzione attraverso il lavoro straordinario o l’acquisto di impianti specializzati che non sarebbero convenienti in presenza di un basso prezzo di vendita del prodotto. A parità di altre condizioni, le curve di offerta mostrano normalmente un andamento crescente rispetto al prezzo del prodotto offerto. Le variabili che incidono sull’offerta sono: la tecnologia di cui possono disporre i produttori, i prezzi dei fattori di produzione e la regolamentazione pubblica. Un cambiamento di ognuna di queste variabili sposta la curva di offerta di un bene o servizio, modificando la disponibilità dei venditori a venderlo quale che sia il prezzo corrente sul mercato. LA TECNOLOGIA. Una funzione e una curva si riferiscono a una data tecnologia. Il progresso tecnologico consente alle imprese di offrire una maggior quantità di prodotto a ogni livello del prezzo corrente sul mercato. In quanto determinante dell’offerta, la tecnologia deve essere intesa in senso molto ampio, includendo non solo la qualità degli impianti, ma in generale la conoscenza disponibile in merito ai metodi di produzione. Utilizzando i concetti a la terminologia introdotta all’inizio della trattazione, il progresso tecnologico può essere indicato come l’insieme delle cause che determinano uno spostamento verso l’alto della frontiera delle possibilità produttive. I PREZZI DEI FATTORI PRODUTTIVI. Una funzione di offerta presuppone altresì un dato livello dei prezzi delle risorse utilizzate come fattori produttivi. Una riduzione dei prezzi dei fattori produttivi incentiva le imprese a offrire una maggior quantità di prodotto a ogni livello di prezzo corrente sul mercato e ovviamente viceversa. LA REGOLAMENTAZIONE PUBBLICA. Una volta scoperta, una tecnologia più efficiente diviene patrimonio disponibile per i produttori. Tuttavia la regolamentazione pubblica dell’attività produttiva può talvolta essere causa di abbandono di una tecnologia efficiente e quindi di contrazione della curva di offerta di un prodotto. Ogni qualvolta la regolamentazione pubblica impedisce ai produttori l’uso di metodi di produzione più efficienti e meno costosi, il suo effetto è una contrazione dell’offerta dei prodotti interessati.

3.7. Mercati liberi e controlli sui prezzi

• in un MERCATO LIBERO E CONCORRENZIALE, il prezzo è determinato esclusivamente dalla

domanda e dall’offerta; L’intervento pubblico può influire sulla domanda e/o sull’offerta di un bene o servizio in un mercato. Se vi è un controllo del prezzo da parte di un’autorità, il mercato non è libero:

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• i CONTROLLI SUI PREZZI sono regolamenti o leggi imposti dalla pubblica amministrazione o da altre autorità che impediscono l’aggiustamento dei prezzi che spinge i mercati verso l’equilibrio;

I controlli sui prezzi possono essere riconditti a due categorie: la fissazione dei prezzi minimi e la fissazione dei prezzi massimi. La fissazione di un prezzo massimo rende illegale la vendita da parte degli offerenti di un bene o servizio a un prezzo superiore al massimo fissato per legge o regolamento. Questo tipo di controllo sui prezzi viene di solito introdotto per impedire che la scarsità di un bene o servizio provochi un eccessivo aumento del suo prezzo. Benché l’alto livello del prezzo costituisca una possibile soluzione del problema allocativo di una risorsa scarsa, esso può rappresentare una soluzione iniqua, secondo i giudizi di valore prevalenti nella società. Se il Governo è in grado di controllare efficaciemente il rispetto del prezzo massimo legale (inferiore al prezzo di equilibrio), vi è un eccesso di domanda. Infatti la fissazione e il rispetto del prezzo calmierato consentono ad alcuni consumatori di acquistare il bene, altrimenti non raggiungibile. La scarsità conseguente del prodotto richiede l’adozione di qualche forma di razionamento del prodotto in grado di stabilire quali consumatori debbano avere la priorità nell’assegnazione. In molte nazioni, i governi impongono prezzi minimi per i prodotti agricoli. L’imposizione di un prezzo minimo superiore a quello di equilibrio del mercato provoca un eccesso di offerta. Il Governo per rendere efficace l’imposizione del prezzo minimo, deve acquistare l’eccesso di offerta che ha provocato, in modo da consentire sia ai consumatori sia ai produttori di realizzare i propri progetti di acquisto e vendita.

3.8. Come il mercato risolve i problemi “che cosa, come e per chi” produrre

Il modo in cui il mercato risolve i problemi economici fondamentali può non essere socialmente accettabile. Il libero mercato non garantisce cibo sufficiente per gli affamati e cure adeguate per tutti gli ammalati. Esso assicura cibo e cure per tutti coloro che sono disposti o in grado di pagare almeno il prezzo di equilibrio di questi beni e servizi. Poche società contemporanee si affidano completamente al libero mercato per decidere che cosa e per chi produrre.

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4. Elasticità della domanda e dell’offerta Obiettivi di apprendimento:

• definire i concetti e le misure della reattività della domanda e dell’offerta; • definire e utilizzare le misure dell’elasticità della domanda rispetto a prezzo per prevedere l’effetto di

una variazione del prezzo sui ricavi di un’impresa; • dimostrare perché un cattivo raccolto sia – per gli agricoltori – preferibile a un raccolto abbondante; • spiegare il cosiddetto “errore di composizione”; • collegare l’elasticità incrociata della domanda alla misurazione della complementarietà e sostituibilità

tra i beni; • utilizzare l’elasticità della domanda al reddito per definire i beni inferiori, normali e di lusso; • definire le misure dell’elasticità; • spiegare l’influenza dell’elasticità della domanda e dell’offerta sull’incidenza delle imposte;

Allo scopo di analizzare con maggior precisione l’influenza del prezzo nelle dinamiche del mercato, la teoria economica fa ricorso al concetto di elasticità della domanda rispetto al prezzo per misurare la reattività della quantità domandata di un bene o servizio alle variazioni del suo prezzo. La conoscenza dell’elasticità della domanda rispetto al prezzo è un’informazione determinante per la soluzione di molti problemi economici.

4.1. L’elasticità della domanda rispetto al prezzo

La pendenza negativa della curva di domanda esprime una relazione inversa tra quantità domandata di un bene o servizio e prezzo di quest’ultimo. Una misura adeguata sembra essere il rapporto tra la variazione della quantità domandata ( Q∆ ) e la variazione del prezzo che l’ha provocata ( P∆ ), ossia un coefficiente numerico che rappresenta l’inverso della pendenza della curva di domanda. Però per poter fare confronti tra beni diversi e per evitare i problemi derivanti dalla diversità delle unità di misura e dall’arbitrarietà delle variazioni da considerare, è necessario ricorrere a una misura della reattività della quantità domandata al prezzo di un bene basata su variazioni percentuali:

• l’ELASTICITA’ DELLA DOMANDA DI UN BENE O SERVIZIO RISPETTO AL PREZZO si misura attraverso un coefficiente numerico calcolato come rapporto tra la variazione percentuale della quantità domandata e la corrispondente (piccola) variazione percentuale del prezzo che l’ha provocata;

Q

P

P

Q

PP

QQ

diP

diQ⋅

∆=

⋅∆

⋅∆=

100/

100/

%var

%var

Se, per esempio, si verifica che un aumento dell’1% nel prezzo di un bene provoca una riduzione del 2% nella sua quantità domandata, il coefficiente di elasticità della domanda risulta essere -2. Il segno negativo del coefficiente esprime semplicemente l’operare della legge della domanda, secondo la quale – a parità di condizioni – un aumento del prezzo di un bene provoca una riduzione della sua quantità domandata e viceversa. Invece è il valore assoluto del coefficiente a qualificare come elastica o inelastica la domanda di un bene.

Prezzo del biglietto (euro)

Quantità domandata di biglietti (migliaia)

Elasticità della domanda rispetto al prezzo (valore assoluto)

12,50 0 ∞ 10,00 20 4,00 7,50 40 1,50 5,00 60 0,67 2,50 80 0,25 0,00 100 0,00

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E’ possibile a questo punto calcolare il coefficiente di elasticità della domanda dei biglietti per le partite di calcio rispetto al prezzo di questi ultimi, partendo dai dati di questa tabella. Quanto più elevato è il valore (assoluto) del coefficiente di elasticità della domanda al prezzo, tanto più elastica o reattiva al prezzo è la domanda e viceversa. Se il coefficiente è uguale a zero, la domanda è anelastica o assolutamente rigida al prezzo. E’ importante rilevare dall’esempio proposto che, benché la curva di domanda dei biglietti per le partite di calcio sia una retta con pendenza costante e negativa, il valore del coefficiente di elasticità della domanda al prezzo varia da punto a punto. Più precisamente è pari a infinito in corrispondenza del punto di riserva degli acquirenti e diminuisce continuamente di valore (assoluto) fino ad annullarsi in corrispondenza del prezzo nullo. Vi sono casi molto particolari nei quali le curve di domanda hanno un valore costante del coefficiente di elasticità della domanda al prezzo. Queste curve sono dette isoelastiche. DOMANDA ELASTICA E INELASTICA:

• la domanda di un bene o servizio viene definita ELASTICA quando il coefficiente di elasticità domanda-prezzo è in valore assoluto maggiore di 1. E’ invece definita INELASTICA o RIGIDA se il valore assoluto del coefficiente di elasticità domanda-prezzo è minore di uno, ma maggiore di zero. Una domanda è ANELASTICA o ASSOLUTAMENTE RIGIDA se il coefficiente di elasticità domanda-prezzo è pari a 0;

LE DETERMINANTI DELL’ELASTICITA’ DELLA DOMANA AL PREZZO. In definitiva la determinante di fondo dell’elasticità o inelasticità della domanda è costituita dai gusti e dalle preferenze degli acquirenti. Tuttavia l’indagine economica indica che una fondamentale determinante dell’elasticità della domanda al prezzo di un bene o servizio è la possibilità dei consumatori di sostituire quest’ultimo con altri che svolgano sostanzialmente le medesime funzioni. GLI EFFETTI DELL’ELASTICITA’ DELLA DOMANDA AL PREZZO. L’elasticità della domanda al prezzo determina la dimensione dell’incremento di prezzo necessario per eliminare un eccesso di domanda o della riduzione di prezzo necessaria per eliminare un eccesso di offerta. Quando la domanda è inelastica al prezzo, fluttuazioni dell’offerta causano ampie oscillazioni del prezzo e modeste variazioni della quantità scambiata.

4.2. Elasticità della domanda al prezzo, variazioni del prezzo e variazioni della spesa totale dei consumatori

A parità di altre condizioni, la funzione e la curva di domanda consentono di calcolare – a ogni prezzo – la spesa che i consumatori sono disposti a sostenere per l’acquisto di un bene o servizio. La spesa dei consumatori di un bene o servizio è semplicemente il prezzo che devono pagare moltiplicato per la quantità che – a quel prezzo – sono disposti ad acquistare. Si mostra ora la rilevanza dell’elasticità della domanda al prezzo rispetto alla relazione tra prezzo di un bene e spesa che gli acquirenti devono sostenere per acquistarlo. Considerando le aree individuate da 2 punti posti sulla curva della domanda e sapendo che l’area individuata da ciascun punto rispetto agli assi individua l’importo della spesa totale per l’acquisto della quantità corrispondente a quel prezzo, possiamo comprendere come variazioni di prezzo nel tratto elastico della curva comportino una piccola riduzione percentuale del prezzo rispetto alla percentuale molto più grande della variazione di spesa degli acquirenti e viceversa.

Elasticità domanda-prezzo/domanda Variazione del prezzo: Elastica (coeff. > 1) Elasticità unitaria Inelastica (coeff. < 1) Aumento del prezzo Riduzione della spesa Spesa invariata Aumento della spesa Riduzione del prezzo Aumento della spesa Spesa invariata Riduzione della spesa

A questo punto torniamo all’esempio della società che gestisce un club calcistico e che si trova a dover stabilire il livello del prezzo del biglietto al quale può ottenere il ricavo massimo in relazione agli spettatori

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presenti allo stadio. Aggiungendo una quarta colonna dove sono stati calcolati – in corrispondenza di ogni ipotetico prezzo del biglietto – i valori della spesa totale sostenuta dagli spettatori è assolutamento intuitivo.

Prezzo del biglietto (euro)

Quantità domandata (migliaia di biglietti)

Coefficiente di elasticità domanda-prezzo

Spesa totale (migliaia di euro)

12,50 0 ∞ 0 10,00 20 4,00 200 7,50 40 1,50 300 6,25 50 1,00 312,5 5,00 60 0,67 300 2,50 80 0,25 200 0,00 100 0 0

Quando il prezzo è pari a 6,25 euro, la domanda di biglietti per assistere alla partita di calcio ha un’elasticità pari a 1 e la spesa è massima. Questa constatazione consente di giungere a una conclusione di validità generale. La spesa degli acquirenti e quindi il ricavo totale dei venditori di un bene o servizio hanno il massimo valore in corrispondenza del prezzo della curva di domanda con elasticità unitaria al prezzo.

4.3. Applicazione dell’elasticità della domanda al prezzo

Quando la domanda di un prodotto, per esempio agricolo, è inelastica, i produttori ottengono ricavi maggiori da un cattivo raccolto piuttosto che da un raccolto abbondante. Non è certo sorprendente la constatazione empirica che beni agricoli come il caffè, il grano o il latte abbiano una domanda inelastica. Questi prodotti costituiscono la componente essenziale della dieta alimentare di gran parte delle famiglie e le abitudini alimentari cambiano molto lentamente, anche se i prezzi sui cui si basano variano in continuazione. In presenza di una domanda inelastica, i venditori nel loro insieme traggono vantaggio da una riduzione dell’offerta. Tuttavia se un solo agricoltore fosse colpito da un cattivo raccolto mentre tutti gli altri realizzassero raccolti abbondanti, si avrebbe un effetto irrilevante sull’offerta complessiva al mercato. Quell’agricoltore si troverebbe così a vendere meno prodotto a un prezzo comunque basso stabilito dal mercato dove il suo prodotto è disponibile in quantità. Questa considerazione evidenza un importante principio della teoria economica:

• l”ERRORE DI COMPOSIZIONE” consiste nel pensare che ciò che vale per un individuo valga per tutti gli individui considerati come insieme e viceversa;

4.4. L’elasticità della domanda al prezzo nel breve e lungo periodo

L’elasticità della domanda al prezzo si modifica allorché gli acquirenti hanno la possibilità di modificare degli elementi (abitudini, informazioni, dotazioni di beni complementari, ecc.) che vincolano la loro capacità di reagire a variazioni dei prezzi dei beni. L’inelasticità al prezzo è normalmente minore nel breve periodo che nel lungo periodo, allorché gli acquirenti sono in grado di reagire all’aumento del prezzo di un bene o di un servizio sostituendolo con altri. Il lungo periodo è “lungo” il tempo necessario per consentire agli agenti economici il completo aggiustamento a un cambiamento dei prezzi.

4.5. L’elasticità incrociata della domanda al prezzo

L’elasticità diretta della domanda rispetto al prezzo misura la reattività degli acquirenti di un bene a variazioni del suo prezzo, a parità di altre determinanti della disponibilità all’acquisto. Occorre ora affrontare il problema della misurazione della reattività della quantità domandata di un bene rispetto a variabili diverse dal suo prezzo. Per esempio: il prezzo dei beni correlati e il reddito degli acquirenti.

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Per misurare la reattività della domanda di un bene o servizio i a variazioni del prezzo di un altro bene o servizio j – a parità di altre determinanti della quantità domandata – si ricorre al calcolo di un coefficiente detto coefficiente di elasticità incrociata domanda-prezzo:

• il coefficiente di ELASTICITA’ INCROCIATA DELLA DOMANDA del bene i rispetto al prezzo del bene j si calcola attraverso il rapporto tra la variazione percentuale della quantità domandata di i e una piccola variazione percentuale del prezzo di j;

Il coefficiente di elasticità incrociata domanda-prezzo può avere segno positivo o negativo. È positivo se una variazione positiva (o negativa) del prezzo del bene j provoca una variazione positiva (o negativa) della quantità domandata del bene i. La concordanza dei segni delle due variazioni determina un segno positivo del coefficiente, che si verifica quando i due beni sono sostituti. Il coefficiente ha segno negativo quando i due beni sono complementari.

4.6. L’elasticità della domanda rispetto al reddito dei consumatori

Ipotizzando che il prezzo di un bene e i prezzi dei beni correlati siano costanti, si può misurare anche la reattività della quantità domandata di un bene a cambiamenti nel reddito degli acquirenti. Normalmente un aumento del reddito degli acquirenti tende a far aumentare la quantità domandata dei beni e dei servizi che compongono i panieri d’acquisto. Tuttavia gli incrementi di quantità domandata – dovuti a incremento di reddito – non sono identici per tutti i beni e servizi. La composizione dei panieri di consumo cambia al crescere del reddito e questo cambiamento può essere rilevato attraverso le modificazioni delle quote di bilancio di specifici tipi di categorie di beni e servizi nella spesa dei consumatori:

• la QUOTA DI BILANCIO di un bene (o di una categoria di beni) è il peso percentuale di questo bene (o categoria di beni) nella spesa totale dei consumatori;

L’influenza delle variazioni di reddito sulla domanda di beni può essere misurata attraverso il coefficiente di elasticità della domanda rispetto al reddito:

• il coefficiente di ELASTICITA’ DELLA DOMANDA di un bene o servizio RISPETTO AL REDDITO degli acquirenti si calcola attraverso il rapporto tra la variazione percentuale della quantità domandata del bene o servizio e la corrispondente variazione percentuale del reddito che l’ha provocata;

Il calcolo di questo coefficiente si basa ovviamente sull’ipotesi che le altre variabili siano costanti. Esso serve a distinguere i beni normali, la cui domanda aumenta al crescere del reddito, dai beni inferiori, la cui domanda diminuisce al crescere del reddito. BENI NECESSARI, DI LUSSO E INFERIORI. Quando il reddito degli acquirenti di un bene aumenta, la curva della domanda del bene si sposta. Si distinguono 3 casi:

• un BENE NECESSARIO ha un’elasticità domanda-reddito positiva, ma inferiore a 1; • un BENE DI LUSSO (o SUPERIORE) ha un’elasticità domanda-reddito positiva e superiore a 1; • un BENE INFERIORE (o POVERO) ha un’elasticità domanda-reddito negativa;

I beni necessari e i beni di lusso rientrano nella più ampia categoria dei beni normali.

4.7. Domanda e inflazione

I coefficienti di elasticità della domanda misurano la reattività di quest’ultima a variazioni di 3 fattori: il prezzo di un bene o servizio, i prezzi di altri beni correlati e il reddito degli acquirenti. Le variabili e grandezze sono distinte in nominali, misurate ai prezzi correnti, e reali, misurate a prezzi costanti e quindi depurate dall’inflazione. Si ipotizzi che – per effetto dell’inflazione – tutte le variabili nominali raddoppino: aumentano quindi del 100% tutti i prezzi dei beni e servizi, ma altresì i salari, le rendite, gli interessi e i dividendi pagati ai proprietari dei fattori di produzione. I panieri di beni e servizi acquistati prima dell’inizio del processo inflazionistico possono essere ancora acquistati. I prezzi sono raddoppiati, ma anche i redditi sono raddoppiati. In termini reali non è cambiato nulla.

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Come si concilia questa conclusione con il concetto di reattività (o elasticità) della domanda a variazioni dei prezzi? Quando cambiano simultaneamente tutti i prezzi e i redditi, la definizione e la corretta misurazione di coefficienti di elasticità implicano l’impossibilità di analizzare separatamente l’effetto di ogni variabile incidente sulla quantità domandata. Occorre infatti decomporre l’effetto complessivo sulla quantità domandata di un bene in tre componenti: l’effetto attribuibile alle variazioni del suo prezzo, l’effetto attribuibile a cambiamenti di prezzi su altri beni e l’effetto riconducibile alle variazioni del reddito degli acquirenti. Quando tutte le variabili cambiano simultaneamente della stessa percentuale, la somma dei 3 effetti è nulla.

4.8. L’elasticità dell’offerta

La misurazione della reattività dell’offerta di un bene o un servizio alle variazioni del suo prezzo può essere effettuata attraverso il calcolo di un coefficiente di elasticità simile a quello utilizzato per misurare la reattività della domanda:

• l’ELASTICITA’ DELL’OFFERTA di un bene o un servizio rispetto al suo prezzo si misura attraverso un coefficiente calcolato come rapporto tra la variazione percentuale della quantità offerta e la (piccola) variazione percentuale del prezzo che l’ha provocata;

Poiché la relazione tra quantità offerta e prezzo di un bene o servizio è diretta o positiva, il coefficiente di elasticità dell’offerta al prezzo è normalmente di segno positivo. L’elasticità dell’offerta determina gli effetti sul prezzo e sulla quantità di equilibrio di un mercato concorrenziale provocati da un cambiamento della domanda. Quanto più è rigida l’offerta, tanto più rilevante è l’aumento di prezzo provocato da un dato aumento di domanda. Nel caso di un’offerta anelastica, il cambiamento della domanda provoca solo una variazione nel prezzo e non nella quantità. Nel caso di un’offerta infitamente elastica, l’aumento della domanda provoca solo un aumento di quantità scambiata. In genere si può affermare l’offerta di lungo periodo è più elastica dell’offerta di breve periodo.

4.9. Chi paga realmente le imposte?

I Governi intervengono nell’allocazione delle risorse di una collettività attraverso il prelievo fiscale e la spesa pubblica. Il sistema fiscale incide profondamente sul funzionamento di un’economia mista e ha profondi effetti sul modo in cui una società umana impiega le proprie risorse scarse. Inizialmente analizzeremo l’effetto delle imposte specifiche, che prevedono un dato prelievo per unità di prodotto. L’effetto di questa imposta dipende dalla pendenza della curva di domanda e di offerta. Successivamente, estenderemo l’analisi agli effetti delle imposte ad valorem, che sono commisurate in percentuale al valore di un bene o servizio. L’effetto di questa imposta dipende dall’elasticità di domanda e offerta che sono calcolate attraverso variazioni percentuali. In entrambi i casi, l’aspetto rilevante dell’analisi è l’identificazione di chi paga realmente l’imposta. Si ipotizzi che il costo medio di un pacchetto di sigarette sia di 1 euro e che il governo imponga ai produttori di pagare un’imposta di 0,50 euro per pacchetto.

• l’INDICIDENZA DI UN’IMPOSTA definisce chi e in che misura la paga effettivamente; Essendo la domanda di pacchetti di sigarette tendenzialmente inelastica al prezzo, l’introduzione dell’imposta di cui sopra porterebbe a una piccola riduzione della quantità domandata e a un sostanziale aumento del prezzo del prodotto per la grandissima parte a carico del consumatore. Nel caso la domanda fosse state elastica al prezzo, l’introduzione dell’imposta di cui sopra avrebbe portato a una sostanziale riduzione della quantità di prodotto offerto ma non a una grande variazione nel prezzo, gravando così i costi dell’imposta sui produttori e non sui consumatori. Analogamente, in termini percentuali, per quanto riguarda le imposte ad valorem.

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5. La teoria della scelta del consumatore e della domanda

Obiettivi di apprendimento: • spiegare come il vincolo di bilancio di un consumatore derivi dal suo reddito e dai prezzi che trova

sul mercato; • definire – attraverso le curve di indifferenza – le preferenze del consumatore e dedurre da queste

l’utilità marginale dei beni e il loro tasso marginale di sostituzione; • utilizzare le curve di indifferenza e il vincolo di bilancio per individuare la scelta che massimizza

l’utilità del consumatore; • analizzare gli effetti di un aumento del reddito del consumatore; • analizzare gli effetti di un cambiamento dei prezzi dei beni di consumo, distinguendo tra effetto-

reddito ed effetto-sostituzione; • collegare la domanda di mercato alle domande individuali dei consumatori;

5.1. Un modello di scelta del consumatore

La struttura del modello è basata su quattro aspetti che caratterizzano il consumatore e il mercato in cui compie le sue scelte:

• il reddito disponibile del consumatore; • i prezzi ai quali i beni possono essere acquistati; • le preferenze del consumatore in merito a panieri diversi di beni consumabili; • l’obiettivo del consumatore, identificato nell’ottenimento della massima soddisfazione o utilità;

IL VINCOLO DI BILANCIO. Considerati congiuntamente, il reddito disponibile e i prezzi di mercato dei beni definiscono il vincolo di bilancio del consumatore:

• il VINCOLO DI BILANCIO di un consumatore è l’insieme dei panieri di beni e servizi che quest’ultimo è in grado di acquistare;

Si consideri – per esempio – uno studente con un reddito settimanale di 50 euro spendibili solo per acquistare pasti o andare al cinema. Il prezzo di un pasto è 5 euro, mentre quello di uno spettacolo cinematografico è 10 euro. Se spende tutto il reddito disponibile per pasti, può acquistare 10 pasti; se spende tutto per andare al cinema, può acquistare 5 biglietti. Tra questi ultimi due panieri estremi (o d’angolo) vi sono numerosi panieri intermedi il cui acquisto richiede una spesa inferiore o uguale a 50 euro. L’insieme di questi panieri è il vincolo di bilancio del consumatore.

( )50105

,

≤+=

=⋅+⋅=

FP

FFPPFP

QQ

QPQPQQST

dove ST è la spesa totale per acquistare un paniere di Qp e Qf, mentre Pf e Pp sono rispettivamente il prezzo dei film e quello dei pasti.

Qp Pp x Qp Qf Pf x Pp ST 0 0 5 50 50 2 10 4 40 50 4 20 3 30 50 6 30 2 20 50 8 40 1 10 50 10 50 0 0 50

I panieri definiti in tabella presuppongono che lo studente non risparmi alcuna parte del proprio reddito settimanale. La tabella consente anche di ricavare il tasso di scambio tra pasti e film, che in questo caso è 2

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a 1. E’ evidente che il tasso di scambio di 2 pasti per 1 film è determinato dal prezzo relativo dei 2 beni: il prezzo di un film è doppio del prezzo di un pasto. LA LINEA DI BILANCIO. Il vincolo di bilancio di un consumatore può essere rappresentato graficamente attraverso una curva detta linea di bilancio. La pendenza della linea rappresenta il tasso di scambio o prezzo relativo tra i due beni. Ogni punto sopra la linea di bilancio rappresenta un paniere non acquistabile. Punti che si trovano al di sotto della linea di bilancio rappresentano panieri acquistabili con una spesa inferiore al reddito disponibile. Solo spostamenti da un paniere all’altro lungo la linea di bilancio implicano un tasso di scambio tra i due beni. LE PREFERENZE DEL CONSUMATORE SECONDO LA TEORIA DELL’INDIFFERENZA. Il vincolo e la linea di bilancio sintetizzano il potere di acquisto del consumatore, in gran parte determinato dall’ambiente di mercato in cui opera le sue scelte. Occorre ora analizzare le sue preferenze. A questo riguardo si possono avanzare 3 ipotesi che paiono sufficientemente plausibili:

• il consumatore sia capace di ordinare qualunque paniere di beni gli venga proposto in funzione dell’utilità che gli attribuisce o comunque di dichiarare se sia preferibile, indifferente o non preferibile;

• l’ordine di preferibilità dichiarato dal consumatore sia coerente. Ovvero se A è preferibile a B e B a C, l’ordine di preferibilità è coerente se A viene preferito a C;

• il consumatore sia insaziabile, ossia abbia bisogni non soggetti a saturazione e quindi preferisca il più al meno;

In un grafico che descriva un paniere composto da due beni, fissato un paniere di riferimento H, si individuano 4 aree:

• la regione preferita o dominante, individuata per x >= Hx e y >= Hy; • la regione non preferita o dominata, individuata per x <= Hx e y <=

Hy; • la regione individuata per x >= Hx e y <= Hy; • la regione individuata per x <= Hx e y >= Hy;

Ogni consumatore, poiché insaziabile, preferirà ogni paniere che si trova nella regione dominante perché propone un consumo maggiore per ciascun bene. Viceversa per ogni paniere che si trova nella regione dominata da H. In merito ai panieri che si trovano in aree diverse dalle prime due, si può stabilire un ordine di preferenza solo in base alle dichiarazioni del consumatore. Per definire più rigorosamente le preferenze di un consumatore, è necessario ricorrere al concetto di tasso marginale di sostituzione tra due beni:

• il TASSO MARGINALE DI SOSTITUZIONE tra due beni è il rapporto nel quale un consumatore è disposto a rinunciare a una certa quantità di un bene in cambio di un’unità addizionale dell’altro, senza che questa sostituzione modifichi la sua utilità;

• le preferenze di un consumatore mostrano un TASSO MARGINALE DI SOSTITUZIONE DECRESCENTE se – in condizioni di utilità totale costante – il consumatore è disposto a sacrificare quantità via via minori di un bene in cambio di un’unità addizionale di un altro bene;

Le ipotesi avanzate – che il consumatore sia in grado di ordinare qualunque paniere, sia insaziabile rispetto ai propri bisogni, coerente nei propri gusti e mostri un tasso marginale di sostituzione decrescente – consentono di rappresentare le preferenze attraverso una mappa di curve di indifferenza o mappa di indifferenza. LA RAPPRESENTAZIONE DELLE PREFERENZA ATTRAVERSO LE CURVE DI INDIFFERENZA:

• una CURVA DI INDIFFERENZA rappresenta i panieri di beni e servizi che un consumatore considera indifferenti e ai quali attribuisce una identica utilità;

Una curva di indifferenza è normalmente inclinata negativamente e concava verso l’alto. La pendenza negativa delle curve è dovuta alla non sazietà dei bisogni del consumatore. La concavità verso l’alto delle curve di indifferenza dipende dall’andamento decrescente del tasso marginale di sostituzione tra i due beni.

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Quindi il tasso marginale di sostituzione tra pasti e film è la pendenza (in valore assoluto) della curva di indifferenza nel punto che rappresenta il paniere inizialmente considerato. Le preferenze di un consumatore sono rappresentate da una mappa di curve di indifferenza il cui livello via via più lontano dall’origine degli assi cartesiani indica l’aumento dell’utilità del consumatore. Date l’ipotesi di partenza circa le preferenze dei consumatori e soprattutto circa l’insaziabilità dei bisogni, non è logicamente possibile che le curve di indifferenza si intersechino. SCELTA DEL CONSUMATORE E MASSIMIZZAZIONE DELL’UTILITA’. La linea di bilancio definisce il potere di acquisto o reddito reale – ovvero i panieri acquistabili – del consumatore. La mappa di indifferenza ne rappresenta le preferenze. Il modello ipotizza che il consumatore abbia come obiettivo la massimizzazione della sua utilità, compatibilmente con il suo vincolo di bilancio. Questo implica che il consumatore sceglierà uno dei panieri che si trova sulla sua linea di bilancio. I panieri al di sopra della linea di bilancio non sono acquistabili, mentre quelli al di sotto sono acquistabili ma non massimizzano le possibilità di acquisto. Nell’ipotesi di curve di indifferenza concave e continue, il paniere ottimo per il consumatore è il punto di tangenza tra la linea di bilancio e una curva di indifferenza che rappresenta la più alta raggiungibile:

• il PANIERE OTTIMO PER IL CONSUMATORE – ossia quello che massimizza la sua utilità compatibilmente con il vincolo di bilancio – è il punto in cui la pendenza della linea di bilancio e della curva di indifferenza a essa tangente coincidono, ovvero, è il paniere in corrispondenza del quale il tasso di scambio (o prezzo relativo) dei due beni è uguale al loro tasso marginale di sostituzione per il consumatore;

5.2. Le reazioni del consumatore a cambiamenti reali del suo reddito

IL SENTIERO DI ESPANSIONE REDDITO-DOMANDA. Finora si è analizzata la reazione della quantità domandata da un consumatore a un particolare cambiamento del suo reddito, a parità di altre condizioni. Estendendo l’analisi a ogni possibile livello di reddito disponibile, si può definire il sentiero di espansione reddito-domanda del consumatore:

• il SENTIERO DI ESPANSIONE REDDITO-DOMANDA è una curva i cui punti rappresentano i panieri ottimi per il consumatore a ogni possibile livello di reddito;

E’ interessante rilevare come l’andamento del sentiero risulti crescente solo se il consumatore considera normali i due beni. Se invece uno dei due beni è considerato inferiore, il sentiero ha inclinazione negativa.

5.3. La reazione del consumatore a cambiamenti del prezzo relativo dei beni

CAMBIAMENTO DEI PREZZI E LINEA DI BILANCIO DEL CONSUMATORE. Immaginiamo uno studente che disponga di un reddito di 50 euro spendibile nell’acquisto di pasti e film i cui prezzi sono Pp = 5 e Pf = 10. Se il prezzo dei film diventa P1f = 5 mentre il prezzo dei pasti rimane inalterato, la linea di bilancio del consumatore compie una rotazione verso destra intorno al punto che rappresenta il paniere d’angolo composto solo da pasti e che non dipende in alcun modo dal prezzo dei film. In questo caso il reddito reale o potere d’acquisto dello studente è aumentato anche se il suo reddito monetario o nominale è rimasto invariato. L’EFFETTO DI SOSTITUZIONE E L’EFFETTO DI REDDITO. La diminuzione del prezzo dei film ha 2 effetti distinti sulla linea di bilancio del consumatore:

• l’EFFETTO DI SOSTITUZIONE è il cambiamento nella quantità domandata di un bene attribuibile esclusivamente al cambiamento del suo prezzo relativo. L’EFFETTO DI REDDITO è il cambiamento

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nella quantità domandata di un bene attribuibile alla variazione di reddito reale provocata dal cambiamento del prezzo relativo del bene;

Per isolare l’effetto di sostituzione dovuto al solo cambiamento del prezzo relativo, è sufficiente rappresentare la linea teorica di bilancio parallela alla nuova linea di bilancio e tangente in D alla curva di indifferenza precedentemente raggiunta dal consumatore. La linea teorica rappresenta il potere d’acquisto o reddito reale che consentiva al consumatore – prima del cambiamento di prezzo – di conseguire il livello di utilità corrispondente alla precedente curva di indifferenza. Allora il passaggio dal paniere precedente O al paniere teorico D rappresenta la reazione del consumatore al solo cambiamento del prezzo relativo dei due beni in

presenza di un reddito reale che è rimasto inalterato. L’aumento della quantità consumata di film QfO a QfD rappresenta l’effetto di sostituzione. In maniera analoga il passaggio dal paniere teorico D al nuovo paniere O1 individua l’effetto di reddito. Quando entrambi i beni considerati sono normali, entrambi gli effetti hanno segno positivo. Nel caso invece diminuisca il prezzo relativo di un bene inferiore, l’effetto di sostituzione induce il consumatore ad accrescerne la domanda ma l’effetto di reddito lo incentiva invece a ridurla.

5.4. Dalle curve di domanda individuali alla curva di domanda di mercato

Occorre ora affrontare il problema dell’aggregazione delle domande individuali dei consumatori per definire il mercato:

• la DOMANDA DI MERCATO è la somma delle domande individuali di tutti gli acquirenti che operano nel mercato di un bene o servizio;

La domanda di mercato si ottiene sommando la quantità che ogni singolo acquirente è disposto ad acquistare a quel prezzo. Graficamente, la curva di domanda di mercato di un bene è ottenibile sommando orizzontalmente le curve di domanda individuali degli acquirenti.

5.5. Trasferimenti di reddito e trasferimenti di beni e servizi

Un trasferimento di reddito è un pagamento in moneta che integra il reddito monetario del beneficiario senza che quest’ultimo fornisca una contropartita. L’indennità di disoccupazione o la pensione di invalidità sono esempi di trasferimenti di reddito. Non costituisce trasferimento di reddito il salario percepito da un lavoratore dipendente da un ente pubblico in quanto il salario è il corrispettivo della prestazione di servizi lavorativi. Un trasferimento di beni o servizi è invece l’erogazione gratuita a un beneficiario di beni o servizi reali o di titoli spendibili esclusivamente per l’acquisto di specifici beni o servizi. Per esempio, rappresentano una forma di trasferimento di beni i buoni pasto che un ente pubblico eroga gratuitamente alle famiglie povere e che possono essere spesi esclusivamente per l’acquisto di prodotti alimentari, non per film o benzina. Il modello di scelta del consumatore può essere utilizzato per analizzare gli effetti sul benessere dei beneficiari di un trasferimento di reddito e di un trasferimento di beni o servizi di pari valore monetario.

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5. APPENDICE

LA TEORIA DELLA SCELTA DEL CONSUMATORE NELL’IPOTESI DI UTILITA’ MISURABILE. In questo capitolo è stata presentata una teoria della scelta del consumatore basata sull’ipotesi che il consumatore sia in grado di ordinare ogni possibile paniere di beni e servizi in base all’utilità che pensa di trarne. Secondo questo approccio teorico, la preferenza del paniere A rispetto al paniere B implica solo che il consumatore attribuisce ad A un’utilità maggiore di B, ma non che il consumatore sappia valutare di quanto l’utilità di A è maggiore di quella di B. Nel XIX secolo alcuni economisti consideravano l’utilità una grandezza misurabile cardinalmente, ossia definibile quantitativamente attraverso un’unità di misura – convenzionalmente chiamata utile – in grado di esprimerne il valore per il consumatore. La teoria contemporanea considera ancora analiticamente interessante proporre modelli di scelta e comportamento del consumatore basati sull’ipotesi che l’utilità sia misurabile, se non cardinalmente, almeno ordinalmente.

• l’UTILITA’ MARGINALE di un bene è la variazione dell’utilità totale conseguente al consumo di un’unità addizionale del bene, a parità di consumo di altri beni;

• l’UTILITA’ MARGINALE DI UN BENE O SERVIZIO E’ NORMALMENTE DECRESCENTE al crescere della quantità consumata di quest’ultimo: ovvero, ogni unità addizionale consumata incrementa sempre meno l’utilità totale del consumatore;

Infatti l’utilità totale del consumatore aumenta fino al consumo di una quantità pari al livello di saturazione del bisogno del consumatore. Oltre questa soglia l’utilità marginale del prodotto è negativa, quindi ogni unità in più del prodotto fa diminuire l’utilità totale del consumatore, ovvero produce disutilità. La conoscenza della funzione di utilità di un consumatore consente di ricavare la sua mappa di indifferenza, attribuendo a ogni curva di indifferenza un definito e misurabile valore dell’utilità del consumatore. Se – per esempio – la funzione di utilità del consumatore di hamburger e concerti rock è data dalla semplice equazione:

( ),H C H CU f q q q q= = ⋅

dove: U identifica l’utilità e ,H Cq q individuano la quantità, rispettivamente, di hamburger e concerti rock.

A ogni valore attribuito arbitrariamente a U corrisponde quindi una definita curva di indifferenza del consumatore che può essere altresì chiamata curva di isoutilità. E’ interessante rilevare che la misurabilità dell’utilità totale e marginale consente di definire un criterio generale di scelta e identificazione del paniere ottimo di un consumatore che miri alla massima utilità, compatibilmente con il suo vincolo di bilancio. Se l’utilità è misurabile, è agevole concludere che lungo una curva di indifferenza valga la seguente uguaglianza:

H H C CUM q UM q⋅ ∆ = ⋅∆

dove: ,H CUM UM identificano l’utilità massima, rispettivamente, per gli hamburger e i concerti rock e ,H Cq q∆ ∆ la

differenza di quantità di prodotto che si ha confrontando due ipotetici panieri lungo la curva di indifferenza. Quindi il consumatore, nel passaggio da un paniere all’altro, “perde utili” in hamburger ma ne guadagna la stessa quantità in concerti rock. Ne consegue un’altra relazione che individua la pendenza della curva:

CH

C H

UMq

q UM

∆=

Poiché in corrispondenza del paniere ottimo O la pendenza della curva di indifferenza è uguale alla pendenza della linea di bilancio, si può concludere che l’utilità totoale del consumatore è massima quando spende tutto il suo reddito disponibile in modo da soddisfare la seguente condizione:

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C C H HUM P UM P=

dove: ,C H

P P sono i prezzi per unità, rispettivamente, dei concerti rock e degli hamburger.

Il consumatore massimizza la sua utilità totale quando sceglie il paniere di consumo che si trova sulla sua linea di bilancio e uguaglia il rapporto tra utilità marginale e prezzo per tutti i beni e servizi che lo compongono.

6. Introduzione alla teoria dell’offerta Obiettivi di apprendimento:

• comprendere le differenti forme giuridiche che consentono di acquisire la proprietà e/o il controllo di un’impresa;

• distinguere tra le variabili stock e le variabili di flusso; • definire i concetti di ricavo, costo, profitto e flusso di liquidità di un’impresa; • interpretare il bilancio di un’impresa attraverso i flussi monetari relativi a un anno o gli stock riferiti a

una data definita; • individuare i criteri economici e contabili di calcolo dei costi e del profitto; • discutere l’ipotesi che identifica nella massimizzazione del profitto economico l’obiettivo dell’impresa; • spiegare il collegamento tra scelta del prezzo e/o livello di produzione e costi e ricavi marginali;

Per ogni realizzabile livello di produzione, un’impresa deve essere in grado di valutare il costo e il ricavo ottenibile dalle vendite. Il costo di produzione di un definito volume di output dipende dalla tecnologia e dai prezzi ai quali i fattori produttivi possono essere acquistati. Il ricavo derivante dalla vendita di un definito volume di produzione dipende dalla domanda che l’impresa fronteggia. La domanda determina il prezzo al quale è possibile vendere un dato volume di prodotto e quindi il ricavo ottenibile dall’impresa. Il profitto è la differenza tra ricavo e costo totale. L’ipotesi-base della teoria dell’offerta è che l’impresa abbia come obiettivo l’ottenimento del massimo profitto.

6.1. La forma giuridica e organizzativa dell’impresa

La forma giuridico-organizzativa delle imprese può essere ricondotta a 3 tipologie fondamentali:

• l’impresa individuale; • la società di persone; • la società di capitali;

IMPRESA INDIVIDUALE. È un’impresa le cui proprietà e gestione fanno capo a un’unica persona fisica. Se una persona fisica costituisce un’impresa in forma di impresa individuale ha diritto ad acquisire l’eventuale profitto dell’iniziativa. Se tuttavia l’impresa realizza una perdita, il titolare dell’impresa individuale deve dichiarare giudizialmente fallimento. SOCIETA’ DI PERSONE. È un’impresa la cui proprietà fa capo a due o più persone fisiche che hanno diritto alla spartizione del profitto e sono solidalmente responsabili di eventuali perdite. SOCIETA’ DI CAPITALI. È un’organizzazione la cui proprietà è distribuita tra soci apportatori di capitale e che hanno diritto alla ripartizione del profitto in proporzione alla quota di capitale apportata. In molti casi la proprietà del capitale di una società è concentrata in pochi azionisti. Se, invece, la proprietà è distribuita tra molti azionisti che possono vendere o acquistare quote azionarie nel mercato finanziario e nessun azionista ha una quota dominante, l’impresa ha la forma della società di capitale a proprietà diffusa (public company).

• gli azionisti-proprietari di una società di capitali hanno una RESPONSABILITA’ LIMITATA, ossia essi possono – al più – subire una perdita pari al reddito speso per acquistare le azioni della società;

6.2. Le rilevazioni contabili dell’impresa

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Le imprese registrano 2 insiemi di rilevazioni contabili relative alla gestione: il primo insieme è costituito dalle variabili di flusso, il secondo dalle variabili di stock (o fondo):

• i FLUSSI sono variabili la cui dimensione è necessariamente riferita a un definito periodo di tempo. Gli STOCK o fondi sono variabili misurabili in riferimento a un istante o a una data;

Il volume di produzione e i ricavi derivanti dalle vendite sono variabili di flusso. La loro misurazione richiede la precisazione del periodo temporale di riferimento. Il numero di dipendenti e il valore del capitale immobiliare di un’impresa sono invece tipici esempi di variabili stock o fondo. La loro dimensione può essere riferita a un preciso istante. Le imprese registrano le fondamentali variabili flusso relative alla loro attività in un prospetto contabile denominato conto profitti e perdite e le fondamentali variabili stock in un prospetto contabile denominato stato patrimoniale. I due prospetti contabili sono evidentemente collegati. Un aumento dei ricavi e dei profitti registrati nel conto profitti e perdite determina infatti un aumento delle attività registrate nello stato patrimoniale relativo alla data finale del periodo di riferimento del primo. LE VARIABILI FLUSSO, IL CONTO PROFITTI E PERDITE:

• il RICAVO TOTALE (RT) di un’impresa è il valore monetario totale delle entrate derivanti dalla vendita di beni e servizi in un dato periodo di tempo, per esempio in un anno. Il COSTO TOTALE (CT) di un’impresa è il valore monetario delle spese che essa sostiene per produrre e vendere i beni e servizi in un dato periodo di tempo. Il PROFITTO TOTALE (Π ) è la differenza tra il ricavo e il costo totale dell’impresa in un dato periodo di tempo.

RT CTΠ = −

La società Rent-a-Person è un’impresa che offre servizi di lavoro temporaneo. Rent-a-Person fattura 10 euro per ogni ora di lavoro prestata dai suoi collaboratori e paga questi ultimi con un salario di 7 euro. Nell’anno 2004 ha fatturato 100 mila ore di lavoro temporaneo e ha speso 200 mila euro per l’affitto della sede, la pubblciità e le spese di segreteria.

CONTO PROFITTI E PERDITE dal 1° gennaio al 31 dicembre 2004 Ricavi (100.000 unità ora a 10 euro ora) 1.000.000 Costi Salari (100.000 unità ora a 7 euro ora) 700.000 Pubblciità 50.000 Affitto sede 50.000 Altre spese di gestione 100.000 -900.000 Profitti al loro delle imposte 100.000 Imposta sui profitti (25%) 25.000 Profitti al netto delle imposte 75.000 Secondo il conto profitti e perdite il profitto totale della società Rent-a-Person è pari a 75 mila euro, al netto delle imposte sul reddito della società. I RICAVI E I COSTI FIGURATIVI. Le persone fisiche e giuridiche non sempre pagano i debiti al momento delle transazioni o alla scadenza stabilita. Al 31 dicembre la Rent-a-Person non ha incassato per intero il milione di euro che ha fatturato e che rappresenta il corrispettivo delle 100.000 ore di lavoro prestate effettivamente nel corso dell’anno dai suoi collaboratori. D’altra parte, la società non ha ancora pagato la bolletta telefonica relativa al mese di dicembre 2004. Dal punto di vista economico, ricavi e costi devono essere calcolati in base al periodo di competenza e non a quello di effettiva realizzazione. La distinzione tra ricavi e costi economici riferiti al periodo di competenza e incassi e pagamenti effettuati è alla base dell’importante distinzione tra profitto economico e flusso di cassa:

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• il FLUSSO DI CASSA o CASH FLOW di un’impresa è l’ammontare netto di liquidità effettivamente incassata in un periodo di tempo, ossia la differenza tra incassi e pagamenti effettuati nel periodo;

Nel conto profitti e perdite non sono di norma inclusi i costi figurativi delle risorse apportati dai proprietari delle imprese. Il profitto economico è quindi dato dal profitto contabile al netto dei costi figurativi calcolati con il criterio del costo-opportunità. IL DEPREZZAMENTO DEL CAPITALE. Molte imprese acquistano capitale fisico che può essere utilizzato a scopi produttivi per più periodi di tempo:

• il CAPITALE FISICO di un’impresa è costituito dagli impianti, dalle macchine e dagli immobili utilizzati per la produzione e la vendita;

Gli economisti usano dire che il capitale fisico è costituito da beni durevoli o attività fisiche di proprietà dell’impresa. L’energia elettrica, per esempio, acquistata nell’anno 2003 non è capitale fisico perché non può essere utilizzata nell’anno 2004. Nel calcolare il profitto di un’impresa relativo a un periodo di tempo occorre imputare come costo del capitale fisico il costo d’uso di quest’ultimo e non il costo di acquisto. Se la società Rent-a-Person avesse acquistato a gennaio del 2004 otto PC per un costo totale di 8.000 euro, il costo del capitale fisico da imputare all’anno sarebbe la riduzione del valore degli 8 PC nel corso dell’anno. Se per esempio il valore dei PC si fosse ridotto nel corso dell’anno da 8.000 a 5.600 euro per effetto dell’obsolescenza tecnica e del deterioramento fisico, il costo d’uso del capitale sarebbe stato di 2.400 euro per l’anno 2004. Il costo d’uso del capitale fisico in un determinato periodo è detto deprezzamento del capitale:

• il DEPREZZAMENTO DEL CAPITALE FISICO è la perdita di valore di quest’ultimo derivante dal suo uso produttivo in un dato periodo;

Anche il deprezzamento del capitale fisico è causa di divergenza tra profitto economico e flusso di cassa di un’impresa, relativi a uno stesso periodo di tempo. Il fatto di considerare il deprezzamento anziché la spesa di acquisto come costo economico del capitale fisico in un anno, consente di ripartire il costo totale di acquisizione del capitale tra gli anni di vita produttiva di quest’ultimo. LE SCORTE. Se il processo produttivo potesse compiersi istantaneamente, le imprese potrebbero realizzare la produzione nel momento in cui acquisiscono l’ordine dai clienti. Di fatto, il processo produttivo dei beni richiede tempo e, quindi, le imprese sono spesso costrette a costituire scorte di prodotti per soddisfare le richieste senza imporre agli acquirenti lunghi tempi di attesa:

• le SCORTE sono stock di beni che l’impresa costituisce per far fronte a vendite future; La produzione destinata allo stock non viene contabilizzata ai fini del calcolo del profitto economico nell’anno di esercizio di riferimento anche se il flusso di cassa risente delle spese effettuatte per quella produzione. Il COSTO DEL CAPITALE FINANZIARIO. Le imprese solitamente ricorrono al prestito di capitale finanziario da parte di istituzioni creditizie per far fronte alle spese di start-up o di espansione. Gli interessi passivi pagati per la disponibilità di capitale finanziario sono una componente del costo di gestione dell’impresaa. LE VARIABILI STOCK: LO STATO PATRIMONIALE. Mentre il conto profitti e perdite sintetizza i flussi monetari di ricavi e costi dell’impresa in un determinato periodo di tempo, lo stato patrimoniale è un prospetto contabile che registra gli stock di attività e passività realizzati dall’impresa a una certa data, come risultato di tutta la sua gestione passata.

• le ATTIVITA’ sono costituite dal patrimonio della società, mentre le PASSIVITA’ sono, in senso generale, i suoi debiti. Il CAPITALE NETTO è il saldo tra attività e passività;

Attività (euro) Passività (euro)

Liquidità di cassa 40.000 Debiti verso i fornitori 90.000

Crediti 70.000 Debiti verso i dipendenti 50.000

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Scorte 100.000 Debiti ipotecari 150.000

Immobili (valore originario 260.000) 200.000 Debiti verso le banche 40.000

Impianti e attrezzature (valore originario 300.000) 180.000 Totale passività 330.000

Capitale netto 260.000

Totale attività 590.000 590.000

La società cui fa riferimento lo stato patrimoniale riportato sopra, Car International, dispone di liquidità presso le banche, di crediti nei confronti dei clienti e di scorte di automobili disponibili per la futura vendita. Dispone di un patrimonio immobiliare e di impianti e attrezzature. Le passività di Car International sono costituite dai debiti verso i fornitori e i dipendenti, dai debiti ipotecari sugli immobili e dai debiti verso le banche per il reperimento della liquidità ordinaria. I debiti totali ammontano a 330.000 euro, il capitale netto – ovvero la differenza tra attività e passività – di Car International è quindi di 260.000 euro. Il capitale netto è posto nella colonna delle passività poiché, essendo Car International una società di capitali, il suo capitale netto è di fatto un debito della società nei confronti degli azionisti-proprietari. IL PROFITTO REINVESTITO. Il profitto economico di un’impresa – al netto dell’imposta sul reddito delle società – può essere destinato al pagamento di dividendi o reinvestito nell’impresa:

• il PROFITTO REINVESTITO (autofinanziamento proprio) è la parte di profitto di un’impresa, al netto delle imposte, che viene reinvestito nell’impresa anziché distribuito ai proprietari-azionisti sotto forma di dividendi;

COSTO OPPORTUNITA’ O COSTO CONTABILE. Il conto profitti e perdite e lo stato patrimoniale di una società di capitali rappresentano due utili indicatori delle attività e dei risultati economici di un’impresa. Economisti e contabili utilizzano talvolta criteri diversi per misurare i costi e i profitti delle imprese. Gli economisti definiscono il costo d’uso di una risorsa non come il pagamento effettivamento sostenuto per la sua acquisizione, ma attraverso il suo costo opportunità:

• il COSTO OPPORTUNITA’ dell’uso di una risorsa è la rinuncia derivante dalla sua mancata utilizzazione nel miglior impiego alternativo;

Per esempio, ogni individuo impegnato a lavorare in un’impresa di sua proprietà dovrebbe valutare il costo delle prestazioni lavorative svolte nella sua impresa. L’imprenditore proprietario e amministratore di una società individuale potrebbe disporre di un profitto di 20 mila euro risultante dal conto profitti e perdite e concludere che la sua attività è conveniente. Questa valutazione trascura però il costo opportunità del lavoro che l’imprenditore svolge come amministratore nella sua impresa, ossia il massimo salario che avrebbe potuto percepire lavorando in un’altra impresa. Se questo salario fosse di 25 mila euro, il profitto economico che l’imprenditore trae dalla sua impresa sarebbe negativo di 5 mila euro. Il profitto economico eventualmente risultante dopo la deduzione dai ricavi d’impresa di tutti i costi opportunità delle risorse impiegate è detto extra-profitto:

• l’EXTRA-PROFITTO di un’impresa è il profitto economico che il proprietario e/o i proprietari ricavano in eccedenza dal rendimento che avrebbero potuto ottenere con un impiego alternativo delle proprie risorse;

6.3. L’impresa e la massimizzazione del profitto

La teoria economica ipotizza che le decisioni delle imprese circa la produzione e l’offerta siano finalizzate all’ottenimento del massimo profitto. Taluni economisti e manager contestano l’ipotesi che la massimizzazione del profitto sia l’unico obiettivo delle imprese.

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PROPRIETA’ E CONTROLLO DELL’IMPRESA. Una fondata ragione per contestare l’ìpotesi secondo la quale le imprese perseguono la massimizzazione del profitto è la separazione tra proprietà e gestione (controllo) che caratterizza soprattutto le grandi società di capitali. Una grande società di capitali è gestita da un consiglio di amministrazione e da un team di manager stipendiati che ne attua le decisioni. Amministratori e manager sono, in genere, persone esperte di gestione e informate circa i mercati e l’impresa: è difficile per gli azionisti trovare altri amministratori e/o manager in grado di migliorare la profittabilità dell’impresa. Questa situazione è chiamata dagli economisti separazione tra la proprietà e il controllo dell’impresa. Considerando che le remunerazioni di amministratori e manager sono di solito collegate alla dimensione e alla crescita dell’impresa, si capisce che essi perseguano quest’ultimi obiettivi piuttosto che il profitto. Vi sono tuttavia buone ragioni per ritenere che l’ipotesi di perseguimento del massimo profitto costituisca un utile punto di partenza per l’elaborazione di una teoria dell’offerta. Infatti anche se gli azionisti non sono in grado di valutare se i profitti realizzajti da un’impresa siano i massimi conseguibili, l’esistenza di altre imprese di successo nello stesso settore rappresenta un importante parametro di riferimento. Alternativamente gli azionisti possono incentivare il managment a perseguire gli interessi della proprietà conferendo loro una quota azionaria piccola rispetto al totale delle azioni, ma rilevante rispetto alla remunerazione dei manager.

6.4. Finanziamento e controllo dell’impresa

• la FINANZA AZIENDALE si occupa del reperimento di capitale finanziario da parte delle imprese

attraverso fonti o canali diversi, come il profitto non distribuito a proprietari e azionisti, l’emissione di nuove azioni e/o obbligazioni, l’accensione di prestiti;

L’importanza e il costo delle fonti di finanziamento delle imprese differiscono da paese a paese. Negli USA e UK il finanziamento delle imprese è prevalentemente esterno, ovvero è basato sull’emissione e vendita di azioni e obbligazioni sul mercato finanziario nel quale si realizzano quotidianamente rilevanti transazioni di titoli finanziari già collocati. In Giappone e nell’Unione Europea il principale canale di finanziamento delle imprese è interno, ovvero è rappresentato da apporti di azionisti e soci e, soprattutto, da finanziamenti a lungo termine da parte di intermediari finanziari che nominano propri rappresentanti nei cda delle imprese finanziate.

• il CONTROLLO D’IMPRESA è esercitato dal soggetto individuale o collettivo che assume le decisioni strategiche in differenti situazioni ambientali;

LE SCALATE SOCIETARIE: UN BENE O UN MALE? In Italia e in Germania le scalate societarie – ovvero l’acquisizione ostile del controllo di un’impresa – sono tradizionalmente rare. Al contrario negli USA e UK la maggior parte delle scalate societarie sono offerte ostili di acquisto di azioni non incentivate dal managment. Nelle grandi società di capitali con azionariato diffuso (public companies), la separazione tra proprietà e controllo dell’impresa solleva un problema di relazione tra un principale (la proprietà) e un agente (il managment).

• un PRINCIPALE (la proprietà dell’impresa) può delegare le decisioni a un AGENTE (il managment). Se per il principalke è costoso controllare l’attività dell’agente, quest’ultimo possiede un vantaggio informativo sulla propria condotta gestionale e sulle performance aziendali che può indurre comportamenti opportunistici. Si configura quindi un PROBLEMA PRINCIPALE-AGENTE;

Il timore di una scalata ostile può costituire un deterrente per quei manager che possono tendere ad allontanarsi dall’obiettivo della massimizzazione del profitto, come invece richiesto dagli azionisti. Tuttavia il timore di scalate ostili alla proprietà dell’impresa può minare l’autonomia e l’autorità gestionale del managment. Questi sono quindi molto cauti nel perseguire cambiamenti nell’organizzazione dell’impresa.

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6.5. La scelta del volume di produzione di un’impresa: una panoramica

Il problema dell’impresa è la scelta della quantità di prodotto che le prospetta il massimo profitto. La variazione del volume di produzione incide sia sui costi di produzione sia sui ricavi derivanti dalla sua vendita. Costi di produzione e ricavi di vendita interagiscono nel determinare il volume di produzione e di offerta che garantisce all’impresa il massimo prodotto. IL COSTO TOTALE MINIMO PER OGNI VOLUME DI PRODUZIONE REALIZZABILE. Se un’impresa ha come obiettivo la massimizzazione del profitto, deve produrre la quantità di output che ha deciso di offrire sul mercato al minimo costo totale. Perciò, un’impresa che mira a massimizzare il profitto deve conoscere il costo totale minimo al quale può produrre ogni possibile volume di produzione e di offerta: questa informazione dipende dalle tecniche produttive disponibili e dai prezzi dei fattori produttivi. Anche in caso la produzione sia pari a 0, cioè ferma, vi è un costo fisso – ossia indipendente dal volume di produzione effettivamente realizzato – a cui l’impresa deve comunque far fronte per essere sul mercato. In aggiunta questo costo fisso, l’impresa sostiene costi che variano al variare del volume di produzione. L’andamento della curva del costo totale di produzione di un bene o servizio è sempre crescente. La sua pendenza positiva è tuttavia variabile. IL RICAVO TOTALE. Le informazioni relative ai costi non sono tuttavia sufficienti per valutare i profitti realizzabili. L’impresa deve conoscere anche i ricavi ottenibili dalla vendita: le informazioni sui ricavi di vendita si deducono dalla funzione di domanda del bene che l’impresa offre sul mercato. Quantità prodotta (unità settimana)

Prezzo (euro)

Ricavo totale (euro)

Costo totale (euro)

Profitto totale (euro)

0 0 10 -10 1 21 21 25 -4 2 20 40 36 4 3 19 57 44 13 4 18 72 51 21 5 17 85 59 26 6 16 96 69 27 7 15 105 81 24 8 14 112 95 17 9 13 117 111 6 10 12 120 129 -9

IL PROFITTO TOTALE. L’ultima colonna rappresenta il profitto totale ottenibile dall’impresa in corrispondenza di ogni volume di produzione e vendita. In corrispondenza di bassi livelli di produzione e vendita, il profitto totale ottenibile dall’impresa è negativo. Anche in corrispondenza di livelli di produzione troppo elevati il profitto totale è negativo. Il volume di produzione corrispondente al massimo profitto totale è quello che l’impresa decide di realizzare e vendere.

6.6. Costo marginale e ricavo e marginale

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Il problema della determinazione del volume di produzione e vendita che prospetta all’impresa il massimo profitto può essere risolto con un approccio diverso.

• il COSTO MARGINALE è la variazione del costo totale conseguente alla produzione di una unità addizionale di prodotto. Il RICAVO MARGINALE è la variazione del ricavo totale conseguente alla produzione e alla vendita di una unità addizionale di prodotto;

IL COSTO MARGINALE. L’andamento del costo marginale al variare della quantità prodotta è rappresentato nel grafico secondo i dati della tabella. Il costo marginale di produzione – nell’ipotesi presentata – è elevato per le prime unità prodotte, diminuisce fino a 7 euro in corrispondenza della quarta unità prodotta e aumenta per le unità successive. Il suo andamento dipende da quello del costo totale e quindi dalle condizioni tecniche in cui si realizza la produzione e dai prezzi delle risorse necessarie alla produzione. Quando la produzione raggiunge un livello corrispondente alla piena ed efficiente utilizzazione delle risorse fisse disponibili, ogni unità addizionale di produzione richiede un’acquisizione di quantità crescenti di risorse variabili la cui produttività è via via minore. L’andamento del costo marginale di produzione dipende strettamente dall’andamento del costo totale di produzione e quest’ultimo dalla tecnica di produzione. Il RICAVO MARGINALE. Come espresso nella tabella, un incremento della produzione e delle vendite da 7 a 8 unità fa aumentare il ricavo totale dell’impresa da 105 a 112 euro. Quindi il ricavo marginale dell’ottava unità prodotta e venduta è 7 euro. Il ricavo totale e marginale dell’impresa dipendono dalla funzione di domanda del prodotto. Quantità prodotta

(unità per settimana)

Costo totale (euro)

Costo marginale (euro)

Ricavo totale (euro)

Ricavo marginale (euro)

0 10 4 0 0 1 25 15 21 21 2 36 11 40 19 3 44 8 57 17 4 51 7 72 15 5 59 8 85 13 6 69 10 96 11 7 81 12 105 9 8 95 14 112 7 9 111 16 117 5 10 129 18 120 3

Il ricavo marginale è continuamente decrescente e può persino diventare negativo in corrispondenza di elevati livelli di vendite. Infatti quando la curva di domanda dei prodotti dell’impresa è inclinata negativamente, il ricavo marginale ottenibile da ogni unità addizionale venduta ha due caratteristiche:

a) tende a diminuire al crescere della quantità venduta; b) è inferiore al prezzo di vendita dell’ultima unità a causa della perdita di ricavo sulle altre unità;

Se l’andamento del ricavo marginale dipende dalla domanda dell’impresa, per una piccola impresa che vende il proprio prodotto in un grande mercato ci possono essere le condizioni per aumentare la produzione senza ridurre il prezzo di vendita ma vendendo al prezzo di equilibrio del mercato. LA DETERMINAZIONE DEL VOLUME DI PRODUZIONE CHE MASSIMIZZA IL PROFITTO DELL’IMPRESA

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ATTRAVERSO IL CONFRONTO TRA COSTO E RICAVO. La determinazione del volume ottimale di produzione e offerta dell’impresa può quindi essere risolto con due approcci diversi che danno lo stesso risultato. Gli aziendalisti e i contabili privilegiano in genere il calcolo basato sul confronto tra ricavi e perdite nel conto profitti e perdite. Gli economisti utilizzano più frequentemente il calcolo marginalistico perché costituisce un utile quadro di riferimento teorico per analizzare le scelte ottimali di imprese e consumatori. Infatti se il costo marginale supera il ricavo marginale, l’impresa ha convenienza a ridurre la produzione perché così facendo incrementa il suo profitto complessivo. La quantità ottima da produrre e vendere è quindi determinata dall’uguaglianza tra costo marginale e ricavo marginale (X). Se il volume è inferiore a X l’impresa tenderà ad aumentare la produzione, se invece è superiore a X allora tenderà a ridurre la produzione.

7.0 La teoria dell’offerta: tecnologia di produzione e costi Obiettivi di apprendimento:

• definire il concetto di funzione di produzione e il suo collegamento con l’efficienza produttiva; • distinguere tra tecnologia e tecnica di produzione; • mostrare che la scelta della tecnica di produzione da parte di un’impresa è influenzata dal prezzo dei

fattori produttivi; • individuare il costo totale, medio e marginale di produzione in condizioni tecniche di breve e lungo

periodo; • collegare i rendimenti di scala all’andamento dei costi medi di produzione; • distinguere tra fattori fissi e fattori variabili e spiegare la legge dei rendimenti decrescenti; • spiegare i criteri di scelta del livello ottimale di produzione da parte di un’impresa;

7.1. La funzione di produzione

• un FATTORE DI PRODUZIONE (o input) è un bene o un servizio utilizzato per l’ottenimento di un

prodotto (o output); I fattori di di produzione possono essere costituiti da servizi lavorativi, informazioni, impianti, edifici, materie prime ed energia. I fattori produttivi necessari per l’ottenimento di un prodotto dipendono dalla tecnologia. L’economista considera come un dato esogeno il mix di fattori produttivi tecnicamente necessari per ottenere un prodotto, anche se si preoccupa di concentrare l’attenzione sull’assenza di sprechi, ovvero sui mix di fattori che soddisfano il criterio dell’efficienza produttiva. Lo strumento analitico utilizzato a questo riguardo dalla teoria economica è la funzione di produzione:

• la FUNZIONE DI PRODUZIONE è una relazione che definisce la massima quantità di prodotto tecnicamente ottenibile con ogni dato mix o combinazione di fattori produttivi;

La funzione di produzione sintetizza le possibilità tecnicamente efficienti di combinare fattori produttivi per l’ottenimento di un determinato prodotto. Le prime due righe della tabella seguente rappresentano due differenti combinazioni efficienti di capitale e lavoro che la tecnologia mette a disposizione per produrre 100 unità di prodotto. La terza riga mostra l’effetto mostra l’effetto dell’aggiunta di un lavoratore alla seconda combinazione di fattori. La quarta riga mostra un’importante caratteristica della particolare funzione di produzione rappresentata in tabella: il raddoppio della quantità di entrambi i fattori produttivi consente di raddoppiare la produzione. E’ possibile che in altri casi questa particolarità della funzione di produzione non si verifichi.

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La FUNZIONE DI PRODUZIONE è l’insieme di tutte le combinazioni tecnicamente efficienti per realizzare un determinato prodotto. Essa rappresenta quindi una TECNOLOGIA produttiva. Le

combinazioni tecnicamente efficienti caratterizzate da uno stesso rapporto di utilizzo dei fattori identificano una TECNICA di produzione. Per gli economisti il progresso tecnico è un’invenzione o una forma di organizzazione produttiva che consente di ottenere uno stesso volume di produzione con un minor impiego di uno o più fattori produttivi, a parità di impiego di altri.

7.2. I costi e la scelta della tecnica di produzione

Nel capitolo precedente si è mostrato come il volume di produzione che garantisce all’impresa il massimo profitto possa essere definito attraverso il confronto tra costo e ricavo marginale di produzione. Ora è necessario analizzare più in dettaglio le determinanti del costo totale e del costo marginale di produzione di un bene o servizio. LA SCELTA DELLA TECNICA CHE MINIMIZZA I COSTI. La funzione di produzione collega quantità di fattori produttivi a volumi massimi di produzione. Per passare da valutazioni di efficienza tecnica a valutazioni di efficienza economica, occorre considerare i prezzi dei fattori di produzione. Si supponga di voler identificare quale tra le prime due tecniche indicate nella tabella precedente risulta essere economicamente più efficiente. Attribuito il prezzo a ciascuno dei due fattori produttivi, si procede al calcolo dei costi in base alla funzione di produzione scelta e quindi si opta per quella più economica.

K (macchine)

L (lavoratori)

Pk (prezzo di K)

Pl (prezzo di L)

TCk (costo totale di K)

TCl (costo totale di L)

TC (costo totale di produzione)

a 4 4 320 300 1280 1200 2480 b 2 6 320 300 640 1800 2440 L’INTENSITA’ DEI FATTORI DI PRODUZIONE. Una tecnica di produzione caratterizzata da un’elevato rapporto tra capitale e lavoro utilizzato è detta ad alta intensità di capitale. Per contro, una tecnica di produzione caratterizzata da un elevato rapporto tra lavoro e capitale è detta ad altà intensità di lavoro. La tecnica B appartiene alla seconda categoria. PREZZO RELATIVO DEI FATTORI E SCELTA TECNICA. Dati i prezzi dei due fattori di produzione, la tecnica economicamente più efficiente è quella ad alta intensità di lavoro (B). Si supponga ora che il prezzo del lavoro aumenti e che il prezzo del capitale resti inalterato. Poiché entrambe le tecniche impiegano lavoro, in entrambi i causi questo sicuramente comportarà un aumento del costo totale della produzione per lo stesso volume di prodotto. Inoltre nel caso della funzione di produzione in esame, renderà economicamente non efficiente la tecnica di produzione B.

7.3. Costi totali, medi e marginali di lungo periodo

Di fronte a un aumento della domanda e quindi del ricavo marginale ottenibile dalla vendita del prodotto, l’impresa ha convenienza a espandere la produzione:

• il LUNGO PERIODO è il tempo necessario per consentire all’impresa di modificare tutti gli input in reazione a cambiamenti esogeni;

• nel BREVE PERIODO l’impresa può modificare solo alcuni fattori di produzione in reazione a cambiamenti esogeni;

Q quantità di prodotto (unità/settimana)

K capitale (n. macchine)

L lavoro (n. lavoratori)

100 4 4 100 2 6 106 2 7 200 4 12

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Q (unità per settimana)

LTC (costi totali: euro/settimana)

LMC (costi marginali: euro/settimana)

LAC (costi medi: euro/settimana)

0 0 1 30 30 30 2 54 24 27 3 74 20 24,67 4 91 17 22,75 5 107 16 21,40 6 126 19 21 7 149 23 21,29 8 176 27 22 9 207 31 23 10 243 36 24,30

COSTI TOTALI E MARGINALI DI LUNGO PERIODO. I costi di lungo periodo di un’impresa sono i costi di produzione relativi a una situazione tecnico-produttiva e a un orizzonte temporale nei quali l’impresa è in grado di realizzare cambiamenti di tutti i fattori utilizzati nella tecnica di produzione:

• il COSTO TOTALE DI LUNGO PERIODO (LTC) è il costo minimo di produzione corrispondente a ogni ipotetica quantità di prodotto nell’ipotesi in cui l’imrpesa possa modificare tutti i fattori e scelga – per ogni volume di produzione – la tecnica e la combinazione di fattori economicamente efficienti;

Poiché nel lungo periodo è possibile uscire dal mercato, in corrispondenza di una produzione nulla il costo totale è pari a zero.

• il COSTO MARGINALE DI LUNGO PERIODO (LMC) è la variazione del costo totale di lungo periodo (LTC) conseguente a un incremento permanente della produzione di un’unità;

Al crescere della quantità prodotta LTC cresce necessariamente. Tuttavia, al crescere della produzione, i costi totali possono aumentare in modo più o meno rilevante a seconda che la tecnologia favorisca la grande o la piccola dimensione dell’impresa.

I COSTI MEDI DI LUNGO PERIODO. Per analizzare il problema dei vantaggi o svantaggi della grande e della piccola dimensione dell’impresa, è opportuno consderare l’andamento del costo medio o costo unitario di produzione in condizioni di lungo periodo (LAC):

• il COSTO MEDIO DI LUNGO PERIODO (LAC) di produzione di un bene o servizio è il rapporto tra costo totale e quantità prodotta in condizioni di lungo periodo;

Come si deduce dalla tabella e dai grafici, l’andamento del LAC e del LMC dipende da quello del LTC. Per spiegare le cause e il

significato della forma della curva del costo medio di lungo periodo, occorre analizzare il fenomeno delle economia e diseconomia di scala.

7.4. Economia e diseconomie di scala

• la produzione in condizioni di lungo periodo di un bene o

servizio è caratterizzata da ECONOMIE DI SCALA quando – al crescere della quantità prodotta – il costo medio di lungo periodo aumenta; viceversa la produzione del bene o servizio è contraddistinta da DISECONOMIE DI SCALA. Se al variare della produzione il costo medio di lungo periodo rimane costante, la produzione si può definire caratterizzata da RENDIMENTI COSTANTI.

In tutte queste definizioni, la parola “scala” è sinonimo di dimensione della capacità produttiva o dimensione del processo produttivo espressa in termini di quantità prodotta.

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LE ECONOMIE DI SCALA. Vi sono tre possibili cause di economie di scala. La prima è rappresentata dalla indivisibilità di alcuni fattori del processo produttivo. Per operare sul mercato, quindi per produrre, un’impresa deve disporre di una quantità minima di fattori indivisibili, indipendentemente dal suo volume di produzione e di offerta: ad esempio un impianto, un manager, un abbonamento telefonico, etc etc… Quando tuttavia l’impresa si espande oltre la capacità produttiva dei fattori indivisibili disponibili, ha la necessità di acquisire nuove risorse indivisibili, così che i costi medi aumentano e le economie di scala si esauriscono. La seconda causa delle economie di scala è la specializzazione o la divisione del lavoro all’interno dell’impresa. Le economie di scala derivanti dalla specializzazione sono molto rilevanti. Una moderna applicazione dei vantaggi di costo derivanti dalla specializzazione e divisione del lavoro è l’organizzazione del lavoro per linee di montaggio o isole di lavorazione tipiche dell’industria automobilistica. La terza causa di economie di scala è collegata ai vantaggi derivanti dall’impiego di particolari impianti. Anche gli impianti tecnicamente sofisticati e costosi hanno spesso caratteri di indivisibilità. Non è quindi conveniente utilizzarli per la produzione di poche unità di prodotto. LE DISECONOMIE DI SCALA. La principale causa di diseconomie di scala è costituita dai crescenti costi di controllo e coordinamento che accompagnano la crescita della dimensione e della complessità organizzativa dell’impresa. La principale causa di aumento dei costi medi nelle grandi imprese è rappresentata dalle diseconomie manageriali di scala. Una seconda fonte di diseconomie di scala è rappresentata dalla dimensione territoriale o geografica dell’attività dell’impresa. Al crescere della dimensione dell’impresa aumenta la dimensione geografica del suo mercato e quindi l’incidenza dei costi di trasporto dei prodotti. Per limitare questi costi, l’impresa può articolarsi in più stabilimenti ma così facendo aggrava il problema e il costo del coordinamento manageriale. L’operare delle forze di economia e diseconomia di scala varia grandemente da un settore produttivo a un altro e quindi la forma della curva di costo medio di produzione di lungo periodo è una questione di rilevanza più empirica che teorica. L’EVIDENZA EMPIRICA CIRCA ECONOMIE E DISECONOMIE DI SCALA. Gli economisti hanno cercato di misurare la scala minima efficiente di produzione (MES) di diversi beni, ovvero la dimensione della capacità produttiva a partire dalla quale le economie di scala divengono irrilevanti e il costo medio di produzione è minimo. Nella tabella successiva sono riportate alcune stime delle economie di scala e della scala minima efficiente (MES) di produzione in differenti settori degli UK e USA. La prima colonna misura in percentuale lo svantaggio – in termini di maggior costo medio – di un’impresa con una scala produttiva pari a 1/3 della scala minima efficiente di produzione. Nell’industria del cemento ad esempio, un’impresa con una scala produttiva sottodimensionata del 30% rispetto a quella minima efficiente produce con un costo medio superiore del 26%. Nel settore delle calzatura, un’impresa ugualmente sottodimensionata produce con un costo medio maggiore di solo l’1,5%. Queste indicazioni forniscono un parametro di riferimento per valutare l’importanza delle economie di scala nei diversi settori.

Scala minima efficiente SETTORI Indice delle economie di scala UK USA

Cemento 26 6 1 Acciaio 11 15 2

Bottiglie di vetro 11 9 1 Strumenti di misurazione 8 4 1

Tessuti 7 1 0 Refrigeratori 6 83 14

Raffinazione del petrolio 4 11 1 Vernici 4 10 1 Sigarette 2 30 6

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Scarpe 1 0 0 La seconda e la terza colonna presentano stime della scala minima efficiente di produzione in diversi settori. La MES è espressa come percentuale della produzione totale del settore. Nel settore dei frigoriferi un’impresa con una capacità produttiva pari alla scala minima efficiente è in grado di produrre più dell’83% dell’output complessivo del settore negli UK e del 14% negli USA. Questa differenza rispecchia la differenza di volume tra la produzione industriale tra i due paesi, essendo medesime sia la tecnologia che le altre condizioni esogene. Nel settore delle calzature, un’impresa efficientemente dimensionata produce meno dell’1% del prodotto totale del settore in entrambi i paesi. Questo dato indica come le industrie delle scarpa producano su volumi, quindi su economie di scala, decisamente inferiori rispetto ad altri settori pur assicurandosi l’efficienza minima. Le stime riportate in tabella riguardavano settori e tecnologie tradizionali, antecedenti l’innovazione introdotta dalle tecnologie dell’informazione e dalla globalizzazione.

• la GLOBALIZZAZIONE è la crescente integrazione di mercati locali e nazionali tradizionalmente separati da barriere strutturali;

La globalizzazione non è solo politica, anzi è soprattutto l’effetto delle riduzioni di costo causate dal progresso tecnico. La nuova tecnologia dell’informazione e i cambiamenti tecnico-organizzativi nei trasporti ampliano la dimensione dei mercati e riducono le diseconomie manageriali di scala. La scala efficiente di produzione di molti servizi né quindi aumentata sensibilmente negli ultimi anni. Le stime sono inoltre obsolete perché la scala efficiente di produzione è riferita alla dimensione nazionale del settore o del mercato. Questo riferimento è corretto se le imprese producono solo o prevalentemente per i mercati nazionali, ma sovrastima il peso della scala efficiente se le imprese operano su scala internazionale.

7.5. Costo medio e costo marginale

Confrontando le curve di costo medio e di costo marginale emergono 2 caratteristiche rilevanti:

• quando il costo marginale (LMC) è inferiore al costo medio (LAC), il costo medio è decrescente; • quando il costo marginale (LMC) è uguale al costo medio, quest’ultimo è al suo valore minimo;

Questi due collegamenti tra costo medio e costo marginale hanno validità generale.

7.6. La scelta del volume ottimo di produzione dell’impresa nel lungo periodo

E’ ora possibile analizzare la scelta del volume ottimo di produzione da parte di un’impresa che opera con un orizzonte di lungo periodo. E’ necessario tracciare un grafico indicante le curve di costo medio (LAC) e marginale (LMC) di lungo periodo, oltre all’andamento del ricavo marginale (MR) e del ricavo medio (AR). Il volume che garantisce all’impresa il massimo profitto è quello che corrisponde all’uguaglianza tra costo e ricavo marginale, in presenza di una pendenza del costo marginale superiore a quella del ricavo marginale. Individuato il volume Q occorre verificare se l’impresa producendo e vendendo quella quantità sia in grado di ottenere un profitto economico positivo. Il profitto totale dell’impresa è dato dal profitto per unità prodotta moltplicato per il numero totale di unità prodotte. Quindi il profitto totale dell’impresa è positivo solo se il profitto per unità prodotta è positivo. Il profitto per unità prodotta è semplicemente dato dalla differenza tra il ricavo medio o prezzo unitario che l’impresa ottiene dalla vendita e il costo medio.

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Quindi bisogna verificare che il prezzo P, in corrispondenza di Q, sia superiore al costo medio LAC. Se la condizione si verifica, l’impresa realizza un profitto unitario pari P – LAC.

7.7. I costi di breve periodo e i rendimenti decrescenti dei fattori variabili

In condizioni di breve periodo un’impresa non è in grado di adattarsi completamente a cambiamenti esogeni. Nel breve periodo, l’impresa è vincolata da uno o più fattori fissi di produzione:

• un FATTORE FISSO DI PRODUZIONE è una risorsa tecnicamente necessaria per l’ottenimento di un prodotto e la cui quantità disponibile è data. Un FATTORE VARIABILE DI PRODUZIONE è una risorsa disponibile in quantità adattabile al volume di produzione da realizzare;

La dimensione temporale del breve periodo dipende dalla tecnologia e varia da settore a settore. Il vincolo dei fattori fissi di produzione – che caratterizza il breve periodo – ha due rilevanti implicazioni. Oltre a non consentire un rapido adattamento ai cambiamenti esogeni, comporta la necessità di sostenere costi fissi:

• i COSTI FISSI sono costi che non dipendono dal volume di produzione che l’impresa decide di realizzare, ma dalla quantità di fattori fissi di cui l’impresa dispone.

• i COSTI VARIABILI sono invece costi che dipendono dal volume di produzione; COSTI FISSI E COSTI VARIABILI. La tabella seguente presenta un esempio di possibile configurazione dei costi a brave periodo di un’impresa. La colonna 2 e 3 rappresentano, rispettivamente i valori dei costi fissi (SFC) e dei costi variabili (SVC) totali dell’impresa nel breve periodo. La loro somma dà i costo totali di breve periodo (STC) riportati nella colonna 4. La variazione del costo totale di breve periodo (STC) – ovvero del solo costo variabile (SVC) – in seguito all’incremento di un’unità di prodotto dà il costo marginale di breve periodo (SMC).

Q (quantità prodotta)

SFC (costo fisso)

SVC (costo variabile)

STC (costo totale)

SMC (costo marginale)

0 30 0 30 1 30 22 52 22 2 30 38 68 16 3 30 48 78 10 4 30 61 91 13 5 30 79 109 18 6 30 102 132 23 7 30 131 161 29 8 30 166 196 35 9 30 207 237 41 10 30 255 285 48

Si possono quindi definire le seguenti relazioni:

STC SFC SVC

dSTC STCSMC

dQ Q

= +

∆= ≥

dove STC è il costo totale di produzione di breve periodo, SFC il costo fisso e SVC il costo variabile. Mentre SMC è il costo marginale di produzione di breve periodo. LA PRODUTTIVITA’ MARGINALE DECRESCENTE DI UN FATTORE VARIABILE (IL LAVORO). La prossima tabella mostra la variazioni di produzione realizzabile attraverso incrementi successivi di un fattore variabile (il lavoro) impiegato con una quantità fissa di un altro fattore tecnicamente necessario (il capitale).

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• il PRODOTTO MARGINALE (MP), ovvero la PRODUTTIVITA’ MARGINALE DI UN FATTORE VARIABILE, è la variazione di prodotto totale ottenuta in seguito all’utilizzo di un’unità addizionale del fattore variabile, a parità di utilizzo di tutti gli altri fattori tecnicamente necessari;

Una volta raggiunta la quantità di fattore variabile (lavoratori) che consente di utilizzare pienamente ed efficientemente il fattore fisso (mezzi di produzione), la produttività marginale del fattore variabile decresce continuamente al crescere della quantità utilizzata di quest’ultimo. In questa situazione – tipica delle produzioni che si svolgono in condizioni tecniche di breve periodo – gli economisti affermano che operi la legge dei rendimenti decrescenti dei fattori variabili:

• la LEGGE DEI RENDIMENTI DECRESCENTI afferma che la produttività marginale di un fattore variabile – utilizzato in quantità crescente in combinazione con uno o più fattori fissi – tende a diminuire continuamente allorché si superi la piena ed efficiente utilizzazione dei fattori fissi disponibili;

Le legge dei rendimenti decrescenti dei fattori variabili è di natura tecnologica e procede secondo l’esempio in tabella. I COSTI MARGINALI DI BREVE PERIODO. I costi marginali prima decrescono e poi crescono continuamente. Ogni lavoratore addizionale riceve lo stesso salario dei lavoratori occupati in precedenza. Se la produttività m,arginale del lavoro è crescente, ogni lavoratore addizionale contribuisce a incrementare la produzione in misura più rilevante dei lavoratori precedentemente impiegati. Quindi il costo addizionale di una unità in più di prodotto – ovvero il costo marginale di breve periodo (SMC) – è decrescente fintantoché la produttività marginale del lavoro è crescente.

• il COSTO MARGINALE DI BREVE PERIODO (SMC) è

l’incremento di costo totale conseguente alla produzione di un’unità addizionale di un prodotto in condizioni tecniche di breve periodo, ovvero in presenza di uno o più fattori produttivi fissi;

Quando nella produzione di un bene comincia ad operare la legge dei rendimenti decrescenti dei fattori variabili, il costo marginale di breve periodo comincia a crescere. La forma delle curve del costo totale e marginale di breve periodo è determinata dall’andamento delle curve di prodotto totale e marginale dei fattori variabili. I COSTI MEDI DI BREVE PERIODO.

• il COSTO MEDIO FISSO DI BREVE PERIODO (SAFC) esprime il costo totale per unità di prodotto dei

fattori fissi ed è calcolato dividendo il costo fisso totale (SFC) per la quantità prodotta. Il COSTO MEDIO VARIABILE DI BREVE PERIODO (SAVC) rappresenta il costo per unità di prodotto dei fattori variabili ed è calcolato dividendo il costo variabile totale SVC per la quantità prodotta. Il COSTO MEDIO TOTALE DI BREVE PERIODO (SATC) indica il costo per unità di prodotto dei fattori fissi e variabili: quindi, è ottenuto dividendo il costo totale di breve periodo (STC) per la quantità prodotta;

Q

(unità/settimana) SAFC

(costo medio fisso) SAVC

(costo medio var) SATC

(costo medio tot) SMC

(costo marginale) 0 1 30,00 22,00 52,00 22 2 15,00 19,00 34,00 16 3 10,00 16,00 26,00 10

L (lavoratori/ settimana)

Q (unità/

settimana)

MPL (unità

addizionali/ settimana)

1 0,8 0,8 2 1,8 1,0 3 3,1 1,3 4 4,3 1,2 5 5,4 1,1 6 6,3 0,9 7 7,0 0,7 8 7,5 0,5 9 7,8 0,3

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4 7,50 15,25 22,75 13 5 6,00 15,80 21,80 18 6 5,00 17,00 22,00 23 7 4,29 18,71 23,00 29 8 3,75 20,75 24,50 35 9 3,33 23,00 26,33 41 10 3,00 25,50 28,50 48

7.8. La scelta del volume ottimo di produzione dell’impresa nel breve periodo

Per ottenere il massimo profitto, l’impresa deve in primo luogo scegliere il volume di produzione Q in corrispondenza del quale il costo marginale di breve periodo (SMC) uguaglia il ricavo marginale (MR) e in presenza di una curva del costo marginale con pendenza maggiore di quella del ricavo marginale. In secondo luogo l’impresa deve valutare la convenienza a produrre o a sospendere la produzione. Se il

prezzo di vendita P, corrispondente al punto dove l’ascissa di Q incrocia il ricavo medio (AR), fosse minore del costo medio variabile (SAVC), l’impresa avrebbe convenienza a sospendere la produzione. Perciò l’impresa produce Q se i ricavi di vendita superano o uguagliano i costi variabili, anche se così facendo avesse delle perdite, ovvero quando P è maggiore di SAVC.

• la DECISIONE PRODUTTIVA OTTIMALE DI UN’IMPRESA CHE OPERA IN CONDIZIONI DI BREVE PERIODO è quella di produrre la quantità in cui il costo marginale di breve periodo (SMC) uguaglia il ricavo marginale (MR) e in corrispondenza della quale la curva SMC ha pendenza maggiore della curva MR, purché il prezzo di vendita sia almeno pari al costo medio variabile (SAVC). Se il prezzo di vendita è invece minore di SAVC, l’impresa ha convenienza a non produrre;

7.9. La relazione tra costi di breve e lungo periodo

Un’impresa che operi con costi fissi e costi variabili ha convenienza a produrre e a restare sul mercato anche se sostiene delle perdite, purché il prezzo di vendita del suo prodotto le consenta di coprire i costi variabili. In corrispondenza di ogni punto della curva LAC, l’impresa produce un determinato volume di produzione al minimo costo medio e totale. Per passare da un punto a un altro lungo la curva LAC, l’impresa deve potere variare tutti i fattori produttivi tecnicamente necessari, inclusi quelli che sono fissi in condizioni tecniche di breve periodo. Si ipotizzi – per convenienza analitica – che in condizioni di breve periodo il fattore fisso sia rappresentato dalla dimensione dell’impianto di cui l’impresa dispone. Quindi ogni punto della curva LAC corrisponde a una data dimensione dell’impianti tecnicamente necessario per produrre. Data la dimensione dell’impianto è possibile definire l’andamento del costo medio totale di breve periodo (SATC) corrispondente a quell’impianto. In questa ipotesi, la curva LAC rappresenta i costi minimi di produzione di un bene o servizio corrispondenti a ogni possibile dimensione dell’impianto e quindi in condizioni di variabilità di tutti i fattori produttivi.

8. Concorrenza perfetta e monopolio perfetto: i casi estremi di struttura del mercato

Alla fine del capitolo li studente dovrebbe essere in grado di:

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• definire i mercati di concorrenza perfetta e monopolio perfetto; • spiegare la ragione per cui un’impresa perfettamente concorrenziale sceglie di produrre e vendere la

quantità di prodotto in corrispondenza della quale il prezzo uguaglia il costo marginale; • collegare l’uscita e l’entrata nel mercato ai profitti conseguiti e attesi dalle imprese; • derivare la curva di offerta di un settore perfettamente concorrenziale dalla curva di costo marginale

delle imprese che lo compongono; • analizzare le conseguenze sul mercato di cambiamenti di domanda e costi; • spiegare la ragione per cui un monopolista fissa un prezzo maggiore del costo marginale; • confrontare il rpezzo e la quantità scambiata in condizioni di concorrenza perfetta e di monopolio

perfetto; • comprendere come la possibilità di discriminare il prezzo influisca sulle vendite e sui profitti di un

monopolista; Un settore è l’insieme delle imprese che producono uno stesso prodotto e che quindi operano come offerenti in uno stesso mercato. La produzione di un settore è la somma delle produzioni delle imprese che lo compongono. Questi problemi riguardano la più generale questione della struttura dei mercati e dei settori produttivi:

• la STRUTTURA DI UN MERCATO è l’insieme dei caratteri della domanda e dell’offerta del mercato che determina il comportamento e la performance di acquirenti e venditori;

8.1. Le strutture di mercato

La moderna teoria dei mercati e dei settori propone una classificazione delle strutture del mercato basata sui caratteri strutturali – ovvero esogeni e condizionanti le scelte di acquirenti e venditori – della domanda e dell’offerta. I caratteri strutturali rilevanti di un mercato possono essere identificati nelle condizioni di entrata e uscita, nel grado di concentrazione della domanda e dell’offerta, nella differenziazione o differenziabilità del prodotto e nel grado di trasparenza. Le strutture di mercato sono riconducibili a tipologie comprese tra la concorrenza perfetta e il monopolio perfetto, che rappresentano le due forme estreme. Le tipologie intermedie – dalla concorrenza monopolistica al monopolio imperfetto – sono genericamente definiti di concorrenza imperfetta:

• il MERCATO DI CONCORRENZA PERFETTA è caratterizzato da assoluta libertà di entrata e uscita, frammentrazione della domanda e dell’offerta tra molti piccoli acquirenti e venditori, omogeneità (assenza di differenziazione) del bene o servizio scambiato e perfetta trasparenza;

• il MERCATO DI MONOPOLIO PERFETTO è caratterizzato da insormontabili barriere all’entrata di nuovi concorrenti e assoluta libertà di uscita, concentrazione dell’offerta in un’unica impresa e frammentazione della domanda, assenza di sostituti del bene o servizio offerta e perfetta trasparenza;

Quindi ogni agente economico operante in un mercato di concorrenza perfetta è quindi consapevole dell’irrilevanza delle sue decisioni di acquisto e vendita rispetto al prezzo e alla quantità scambiata e considera il prezzo corrente nel mercato come un dato indipendente dalle sue scelte. In un mercato di perfetta concorrenza, le imprese non competono attraverso il prezzo, ma subiscono il prezzo che si forma sul mercato attraverso l’interazione di domanda e offerta e competono quindi attraverso la quantità.

8.2. Il mercato di perfetta concorrenza

In una situazione come appena descritta, la singola impresa fronteggia una domanda orizzontale in corrispondenza del prezzo corrente del mercato. Quale che sia il volume di offerta scelto dall’impresa, questa decisione non influisce sul prezzo corrente. La particolare configurazione della domanda – orizzontale e infinitamente elastica al prezzo – è un aspetto fondamentale della teoria della concorrenza perfetta. Affinché questa configurazione sia plausibile, si devono verificare 4 caratteristiche del mercato:

1. è necessario che il settore sia frammentato in un numero di imprese così ampio che nessuna rappresenti una quota significativa dell’offerta;

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2. occorre che il prodotto offerto sia assolutamente indifferenziato (omogeneo) o comunque che la sua differenziazione appaia irrilevante agli acquirenti, così che i venditori non possano praticare prezzi diversi;

3. occorre che gli acquirenti dispongano di una perfetta informazione circa i prodotti offerti; 4. è necessaria l’assoluta libertà di entrata e uscita per le singole imprese nel mercato. Infatti anche se

le imprese insediate nel mercato fossero in grado di accordarsi per restringere l’offerta e aumentare il prezzo, il conseguente aumento dei ricavi attirerebbe nuove imprese nel settore e l’offerta totale tornerebbe ad aumentare fino a riportare il prezzo al livello iniziale. Al contrario se le imprese di un settore perfettamente concorrenziale registrassero perdite, alcune uscirebbero dal mercato riducendo l’offerta e aumentando il prezzo corrente fino a un livello tale da permettere la sopravvivenza delle altre;

8.3. La scelta dellq quantità ottima di produzione e offerta da parte di un’impresa perfettamente concorrenziale

La teoria generale dell’offerta da parte di un’impresa individuale dice che innazitutto l’impresa identifica il volume che soddisfa le condizioni marginalistiche di massimizzazione del profitto e successivamente verifica se la produzione possa essere venduta ad almeno il costo medio della stessa produzione. La teoria generale dell’offerta individuale vale anche per l’impresa perfettamente concorrenziale. La caratteristica peculiare della perfetta concorrenza è che le imprese vendono il prodotto a un prezzo dato dalle condizioni strutturali del mercato che rappresenta al tempo stesso il ricavo marginale. Quindi per l’impresa perfettamente concorrenziale vale la seguente relazione:

P MR AR≡ ≡ dove P è il prezzo, MR è il ricavo marginale e AR è il ricavo medio. LA CURVA DI OFFERTA DI BREVE PERIODO DELL’IMPRESA CONCORRENZIALE. Dalla relazione di cui sopra discende che la condizione marginalistica necessaria per l’ottenimento del massimo profitto si presenta nella particolare versione:

SMC MR P= ≡ Nel breve periodo l’impresa perfettamente concorrenziale ha convenienza a produrre e offrire quantità positive purché il prezzo che trova sul mercato sia maggiore o almeno uguale a P, che corrisponde al costo medio variabile minimo di produzione ovvero che identifica il prezzo in cui si incrociano le curve SMC e SAVC:

• il prezzo P – corrispondente al valore minimo del costo medio variabile (SAVC) – è detto PREZZO DI CHIUSURA dell’impresa in quanto rappresenta il prezzo-soglia al di sotto del quale l’impresa ha convenienza a non produrre o a chiudere la produzione;

Per ogni prezzo uguale o superiore al prezzo di chiusura che l’impresa trova sul mercato, la curva del costo marginale di breve periodo (SMC) determina la quantità di prodotto che l’impresa perfettamente concorrenziale ha convenienza a realizzare e a offrire sul mercato:

• la CURVA DI OFFERTA DELL’IMPRESA CONCORRENZIALE NEL BREVE PERIODO è quindi il tratto di curva del costo margionale di breve periodo (SMC) che parte dal PUNTO DI CHIUSURA, ovvero dal punto in cui la curva SMC interseca la curva SAVC;

Ovviamente nello spazio compreso tra la curva SAVC e la curva SATC, l’impresa pareggia o realizza profitto rispetto ai costi variabili di produzione ma non rispetto ai costi totali di produzione. Solo nello spazio superiore la curva SATC l’impresa realizza profitto in senso assoluto oltre i costi variabili e fissi. LA CURVA DI OFFERTA DI LUNGO PERIODO DELL’IMPRESA CONCORRENZIALE. I principi generali della teoria dell’offerta esposti consentono di derivare anche la curva di offerta di lungo periodo dell’impresa perfettamente concorrenziale:

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• quando il profitto economico di un’impresa è nullo, gli economisti dicono che l’impresa beneficia comunque di un PROFITTO NORMALE. Il suo profitto contabile è esattamente sufficiente a compensare il costo opportunità delle risorse approntate dalla proprietà dell’impresa;

• la CURVA DI OFFERTA DELL’IMPRESA CONCORRENZIALE NEL LUNGO PERIODO è il tratto della curva di costo marginale di lungo periodo (LMC) che parte dal punto di uscita U ovvero dal punto di minimo della curva di costo medio (LAC);

• viceversa il profitto contabile – corrispondente al costo opportunità delle risorse apportate dalla proprietà dell’impresa che opera con profitto economico nullo – è chiamato PROFITTO NORMALE;

ENTRATA E USCITA DELLE IMPRESE CONCORRENZIALI DAL MERCATO. Al prezzo di uscita o entrata nel mercato, le imprese realizzano solo profitti normali. Non vi è quindi incentivo a uscire o entrare nel mercato. Le risorse utilizzate dalle imrpese del settore ricevono una remunerazione pari al loro costo opportunità, uguale alla remunerazione che otterrebbero nel miglior impiego alternativo possibile:

• l’ENTRATA in un mercato consiste nell’ingresso di nuove imprese che si aggiungono a quelle che compongono il settore. L’USCITA da un mercato si verifica allorché una o più imprese offerenti cessa la sua attività disinvestendo completamente dal settore;

Al prezzo di entrata e uscita il settore è composto un numero stabile di imprese, al di sopra da un numero crescente di imprese tese a realizzare degli extra-profitti e viceversa al di sotto da un numero decrescente di imprese al fine di evitare delle perdite. LE CURVE DI OFFERTA DELL’IMPRESA PERFETTAMENTE CONCORRENZIALE NEL BREVE E LUNGO PERIODO. A ogni dimensione dei fattori fissi corrisponde una determinata curva del costo marginale di breve periodo (SMC) e quindi una determinata curva di offerta di breve periodo (SS) dell’impresa, coincidente con il tratto crescente di SMC a partire dal punto di chiusura A. La curva di offerta di lungo periodo (LS) coincide invece con il tratto crescente della curva di costo marginale di lungo periodo (LMC) a partire dal punto di uscita e entrata (U). La curva di offerta di lungo periodo (LS) dell’impresa concorrenziale è più elastica al prezzo della curva di offerta di breve periodo (SS) perché l’impresa è in grado di modificare i fattori fissi ed è quindi più flessibile di quanto non sia nel breve periodo. Il prezzo di chiusura o di riserva di breve periodo è inferiore al prezzo di uscita dal mercato di lungo periodo perché nel breve periodo l’impresa si preoccupa solo di coprire i costi variabili. Nel lungo periodo, l’impresa deve invece coprire tutti i costi.

8.4. Le curve di offerta di un settore perfettamente concorrenziale

Un settore perfettamente concorrenziale è composto da numerose imprese non cooperative. Nel breve periodo, il settore ha due vincoli: la quantità di fattori fissi disponibili presso ogni impresa e il numero di imprese che lo compongono. Nel lungo periodo, le imprese del settore possono modificare tutti i fattori produttivi e il numero delle imprese che compongono il settore può cambiare per effetto dell’entrata nel/uscita dal mercato. LA CURVA DI OFFERTA DEL SETTORE NEL BREVE PERIODO. Così come la curva di domanda di mercato di un bene o servizio è derivabile dall’aggregazione per somma orizzontale delle domande individuali degli acquirenti, la curva di offerta di un settore perfettamente concorrenziale è derivabile dall’aggregazione per somma orizzontale delle offerte individuali delle imprese che lo compongono. A ogni ipotetico prezzo di mercato si somma la quantità offerta da ogni impresa del settore e si determina la quantità complessivamente offerta dal settore. Nel breve periodo il numero di imprese che compongono il settore è dato. Se il settore fosse composto da due imprese (A e B), l’offerta del settore (SS) sarebbe semplicemente la somma orizzontale di SSa e SSb. Poiché ogni impresa individuale è irrilevante rispetto all’intero settore concorrenziale, si può considerare la curva di offerta settoriale come crescente in modo continuo al crescere del prezzo di mercato.

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UN CONFRONTO TRA LE CURVE DI OFFERTA DI BREVE E LUNGO PERIODO DI UN SETTORE PERFETTAMENTE CONCORRENZIALE. Allo stesso modo si può derivare la curva di offerta del settore nel lungo periodo. In questa situazione, le curve di offerta individuali sono i tratti crescenti delle curve di costo marginale di lungo periodo (LMC) a partire dal punto di uscita e entrata. Tuttavia nel lungo periodo vi sono due sostanziali differenze:

a) le curve individuali di offerta (LS) tendono a essere tutte uguali e partono dallo stesso punto di uscita e entrata;

b) il numero delle imprese che compongono il settore non è dato; L’aggregazione per somma orizzontale deve quindi riguardare sia le curve individuali delle imprese componenti il settore, sia le curve individuali di offerta delle imprese potenzialmente entranti. L’IMPRESA MARGINALE. Un settore perfettamente concorrenziale può essere composto da numerose piccole imprese che offrono lo stesso prodotto al prezzo corrente nel mercato, ma che hanno modesti differenziali di costo. Ipotizziamo due imprese concorrenziali che operano nello stesso settore. L’impresa A è rappresentativa delle imprese efficienti che producono ai costi medi e marginali minimi del settore. L’impresa B è invece rappresentativa delle imprese che operano con costi medi e marginali leggermente superiori. In equilibrio di lungo periodo, il settore è composto da uno stabile numero di imprese la cui capacità produttiva è pari o vicina alla scala efficiente di produzione. Il mercato è in equilibrio al prezzo P, che rappresenta l’unico possibile e conveniente prezzo di vendita per tutte le imprese del settore. Al prezzo P l’impresa A produce e vende una quantità a realizzando un profitto economico positivo. L’impresa B, allo stesso prezzo, produce e vende una quantità b realizzando un profitto economico nullo, pur potendo registrare un profitto contabile positivo. L’impresa B è rappresentativa delle imprese marginali del settore, ovvero delle imprese inefficienti che possono solo sopravvivere nel settore:

• l’IMPRESA MARGINALE di un settore perfettamente concorrenziale è quell’impresa che – in equilibrio di lungo periodo – realizza un profitto economico nullo;

Le imprese insediate o potenzialmente entranti nel settore con costi medi e marginali superiori a quelli dell’impresa marginale non possono competere nel settore e quindi escono o rinunciano ad entrare. Se nel settore entrano altre imprese con costi medi e marginali pari ai costi minimi dell’impresa efficiente A, il prezzo di equilibrio di lungo periodo scende e le imprese marginali escono dal settore. LA CURVA DI OFFERTA ORIZZONTALE DI UN SETTORE PERFETTAMENTE CONCORRENZIALE NEL LUNGO PERIODO. In un settore perfettamente concorrenziale, ogni impresa ha una curva di costo marginale (LMC) con un tratto crescente e quindi una cruva di offerta di lungo periodo (LS) anch’essa crescente rispetto al prezzo. La curva di offerta del settore è comunque più piatta di quella della singola impresa. In situazioni particolari, la curva di lungo periodo di un settore perfettamente concorrenziale è orizzontale. Questa particolare configurazione si verifica quando le imprese insediate e potenzialmente entranti sono molto numerose e hanno identiche curve di costo di lungo periodo. In queste condizioni se a un prezzo P il settore è in equilibrio di lungo periodo e a un prezzo superiore a P le imprese esistenti producono maggiormente e realizzano extra-profitti. Questi extra-profitti incentivano l’ingresso di nuove imprese con le stesse caratteristiche di quelle già presenti fino a che il prezzo per la maggior offerta disponibile non ritorna a P, ovvero in equilibrio. Così nella situazione ipotizzata la curva di offerta di lungo periodo del settore è orizzontale al prezzo P e l’offerta del settore può essere variata attraverso la variazione del numero delle imprese che lo compongono, a un prezzo di lungo periodo stabile.

8.5. Analisi di statica comparata di un settore perfettamente concorrenziale

Dopo aver analizzato l’offerta del settore concorrenziale, è possibile esaminare come domanda e offerta interagiscano nel determinare il prezzo di equilibrio nel breve e lungo periodo:

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• in EQUILIBRIO DI BREVE PERIODO, il prezzo di un mercato perfettamente concorrenziale è determinato dalla domanda degli acquirenti e dall’offerta di un dato numero di imprese che costituiscono il settore, ognuna delle quali produce in corrispondenza dell’uguaglianza tra prezzo e costo marginale di breve periodo;

• in EQUILIBRIO DI LUNGO PERIODO, il prezzo di un mercato perfettamente concorrenziale è determinato dalla domanda degli acquirenti e dall’offerta di un settore composto da un numero variabile di imprese. Poiché nel lungo periodo le imprese possono entrare e uscire dal settore, il mercato è in equilibrio se le imprese realizzano solo profitti normali – ovvero profitti economici nulli – così che non vi è incentivo alla variazione del numero delle imprese;

L’EFFETTO DI UN INCREMENTO DEI COSTI. Esaminiamo gli effetti di un aumento nei costi che colpisca tutte le imprese di un settore concorrenziale, per esempio in seguito a un aumento del prezzo delle materie prime utilizzate dal settore. Per semplicità analitica si ipotizza che tutte le imprese abbiano gli stessi costi e che di conseguenza la curva di offerta di lungo periodo del settore sia orizzontale. La domanda di mercato è DD e le curve di offerta di breve e lungo periodo del settore sono LS e SS entrambe in equilibrio al prezzo P. Un aumento dei prezzi dei fattori produttivi sposta la curva dei costi medi di lungo periodo anche se nel breve periodo l’impresa ha costi fissi corrispondenti alla produzione di equilibrio precedente. Dati questi costi fissi, cambiano anche curve dei costi medi e marginali di breve periodo che determinano una nuova curva di offerta nel breve periodo e un nuovo prezzo di equilibrio di breve periodo per cui ogni impresa produce meno e con perdite. Nel lungo periodo si verificano due cambiamenti: i fattori fissi possono essere variati e alcune imprese per via delle perdite escono. La curva di offerta del settore di breve periodo allora si restringe nuovamente e l’equilibrio di lungo periodo si ricostituisce ad un nuovo prezzo superiore ai precedenti due, definendo così una nuova curva di offerta di lungo periodo. Al nuovo prezzo di equilibrio di lungo periodo le imprese coprono esattamente i costi medi realizzando un profitto economico nullo e producendo una quantità inferiore a un prezzo superiore. L’aumento dei costi medi e marginali delle imprese di un settore viene trasferito sugli acquirenti sotto forma di aumento del prezzo. Inoltre l’aumento dei costi – trasferendosi sul prezzo – riduce la quantità prodotta e la dimensione del settore. L’EFFETTO DI AUMENTO DELLA DOMANDA. L’aumento della domanda di mercato sposta la curva che lo rappresenta verso l’alto. L’equilibrio iniziale di lungo periodo è rappresentato dal punto di incontro tra la domanda iniziale e l’offerta di lungo periodo. L’aumento della domanda sposta quindi l’equilibrio al punto di incontro tra la curva dell’aumentata domanda e la curva di offerta di breve periodo che risente dei costi di produzione fissi non variabili. Questo si traduce in un consistente aumento del prezzo a cui non corrisponde un altrettanto consistente aumento della quantità prodotta. Pertanto, generandosi degli extra-profitti, nuove imprese sono incentivate nel lungo periodo ad accedere al mercato del settore che così trova il suo equilibrio di lungo periodo nel punto di incontro della curva dell’aumentata domanda e dell’offerta di lungo periodo. Nel lungo periodo il prezzo di equilibrio sarà inferiore al prezzo di equilibrio nel breve periodo e superiore al prezzo di equilibrio iniziale, e la quantità prodotta maggiore di quella prodotta nel punto di equilibrio di breve periodo.

8.6. La concorrenza nei mercati mondiali

I cambiamenti nelle condizioni dei mercati nazionali sono spesso il risultato di eventi accaduti in altri Paesi. In particolare, cambiamenti nei mercati internazionali hanno effetto sui mercati nazionali. Quando un bene è scambiato su scala mondiale, il prezzo in un mercato nazionale dipende dal prezzo negli altri Paesi. In una situazione estrema, questi mercati sono soggetti alla legge del prezzo unico:

• la LEGGE DEL PREZZO UNICO afferma che – in assenza di barriere al libero commercio e di costi di trasporto – il prezzo di un bene tende a essere identico in tutti i mercati mondiali;

L’EQUILIBRIO DEL MERCATO NAZIONALE. Se il mercato in questione è chiuso al commercio internazionale a causa di elevate barriere doganali, il prezzo di equilibrio Pc e la corrispondente quantità di equilibrio Qc sono determinati dalla domanda e dall’offerta nazionali (DD e SS). Si supponga ora che le barriere doganali vengano abolite, che il mercato nazionale in questione sia piccolo rispetto al mercato mondiale e che il prezzo mondiale sia un dato per acquirenti e venditori.

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Si possono verificare tre situazioni: • la prima è che il prezzo di equilibrio sul mercato

mondiale sia lo stesso del mercato nazionale chiuso; • la seconda è che il prezzo mondiale sia inferiore al

prezzo Pc. In questo caso il mercato è caratterizzato da un eccesso di domanda che viene soddisfatta da un pari volume di importazione;

• la terza è che il prezzo mondiale sia superiore al prezzo Pc e che l’equilibrio di mercato venga assicurato solo tramite un volume di esportazione pari all’eccesso di offerta sulla domanda;

8.7. Il monopolio perfetto:l’altra struttura-limite di mercato

L’impresa perfettamente concorrenziale è troppo piccola – rispetto al settore e al mercato – per doversi preoccupare degli effetti delle sue decisioni sull’offerta complessiva del settore.

• Il MONOPOLIO PERFETTO è una struttura di mercato caratterizzata da un unico venditore (monopolista) di un prodotto senza sostituti, protetto da barriere insormontabili all’ingresso di concorrenti potenziali e con una domanda frammentata;

In questa struttura di mercato, l’impresa (monopolistica) e il settore coincidono. L’unico produttore nazionale di un bene o servizio non è un monopolista se il mercato nazionale è aperto al commercio internazionale.

8.8. La scelta del volume di produzione che massimizza il profitto di un monopolista

Per l’impresa che opera in un mercato di perfetta concorrenza il ricavo marginale (MR) coincide con il prezzo (P) di vendita che l’impresa trova sul mercato. Per contro, la domanda di un’impresa monopolistica è la domanda del settore e, quindi, dell’intero mercato in cui il monopolista opera come unico venditore. Questo implica che il ricavo marginale del monopolista sia minore del prezzo al quale vende un’unità addizionale. L’impresa monopolistica sa che ogni unità addizionale venduta riduce il ricavo ottenuto dalle altre unità, perché per vendere unità addizionali deve spostarsi lungo una curva di domanda inclinata negativamente. Quanto più in elastica o rigida è la domanda rispetto al prezzo, tanto più la vendita di un’unità addizionale costringe il venditore ad abbassare il

prezzo di vendita di tutte le unità e a rinunciare a ricavi sulle unità inframarginali. A ogni livello di vendite, il ricavo maggiore è inferiore al prezzo e il divario è tanto maggiore quanto più inelastica è la domanda; la distanza verticale tra le due curve tende ad aumentare al crescere della quantità venduta. LA PRODUZIONE CHE GARANTISCE AL MONOPOLISTA IL MASSIMO PROFITTO. I criteri marginalistici che garantiscono la massimizzazione del profitto già definiti valgono anche per il monopolista. Benché si sia analizzato l’equilibrio di lungo periodo, appare evidente che il monopolista rimane nel mercato solo se realizza un extra-profitto, ovvero un profitto monopolistico:

• l’EXTRA-PROFITTO è un profitto economico, ovvero la differenza tra i ricavi e tutti i costi, inclusi i costi opportunità delle risorse apportate dalla proprietà;

A differenza di quanto accade in un settore e/o mercato perfettamente concorrenziale, in un mercato di monopolio perfetto l’extra-profitto non tende ad annullarsi nel lungo periodo. In una struttura di mercato di questo tipo non vi è possibilità di entrata di nuove imprese e quindi viene meno il meccanismo che tende a far scomparire gli extra-profitti del settore nel lungo periodo.

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IL MONOPOLISTA PUO’ FISSARE IL PREZZO. Mentre l’impresa perfettamente concorrenziale subisce il prezzo che si forma nel mercato, l’impresa monopolistica può fissare il prezzo al quale vendere il suo prodotto. In effetti, l’impresa monopolistica sceglie la combinazione prezzo-quantità, ma non può scegliere la quantità e il prezzo. ELASTICITA’ DELLA DOMANDA E RICAVO MARGINALE DEL MONOPOLISTA. Si è già visto che quando la domanda è in elastica o rigida al prezzo, un aumento della quantità venduta – ovvero, una riduzione del prezzo di vendita – fa diminuire il ricavo totale. Per ottenere il massimo profitto, l’impresa monopolistica deve uguagliare MR a LMC. Poiché il costo marginale LMC è necessariamente positivo, anche il ricavo marginale è positivo. Ne consegue che il monopolista – se tende al massimo profitto – produce e vende in corrispondenza del tratto elastico della domanda. IL POTERE MONOPOLISTICO. Il divario tra il prezzo e il costo marginale di equilibrio di un’impresa monopolistica rappresenta il mark-up che quest’ultima è in grado di praticare che, rapportato al prezzo, costituisce una misura del grado di POTERE MONOPOLISTICO dell’impresa. In termini formali, il potere monopolistico di un’impresa monopolistica di un’impresa è misurabile attraverso un indice (IPM) – detto anche indice di Lerner – che si calcola attraverso la relazione:

* *

*

P MCIPM

P

−=

Un’impresa perfettamente concorrenziale pratica necessariamente un P=MC e quindi ha un potere monopolistico pari a zero. UN’ANALISI DI STATICA COMPARATA DELL’EQUILIBRIO DI MONOPOLIO. L’aumento dei costi provoca una restrizione dell’output prodotto e venduto in condizioni di monopolio e un aumento del prezzo. Analogamente un aumento di domanda e di conseguenza di ricavo marginale provoca un aumento della quantità da parte dell’impresa monopolistica.

8.9 Un confronto tra il prezzo e la quantità di equilibrio in condizioni di monopolio perfetto e di concorrenza perfetta

E’ ora possibile confrontare le performance di un settore e di un mercato operanti in condizioni di perfetta concorrenza con quelle di un settore e di un mercato operanti in condizioni di monopolio perfetto. IL CONFRONTO TRA UN SETTORE PERFETTAMENTE CONCORRENZIALE E UN’IMPRESA MONOPOLISTICA CON IMPIANTI MULTIPLI. Si consideri un settore perfettamente concorrenziale nel quale tutte le imprese insediate e i potenziali entranti abbiano le stesse condizioni tecnico-produttive e quindi le stesse curve di costo. In questa situazione, la curva di offerta di lungo periodo (LS) è

orizzontale in corrispondenza del costo medio minimo di produzione tecnicamente ed economicamente realizzabile. Data la domanda di mercato DD, il settore concorrenziale si trova – nel lungo periodo – in equilibrio a un prezzo corrispondente all’ordinata del punto A e ad una quantità corrispondente all’ascissa del punto stesso. Poiché la curva di offerta di breve periodo SS interseca la curva di domanda DD in corrispondenza del punto A, il mercato e il settore concorrenziale sono in equilibrio sia di lungo che di breve periodo. Ogni impresa produce al costo medio minimo che corrisponde al prezzo e per tanto tutte le imprese e l’intero settore sono in pareggio.

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Si ipotizzi che il settore venga monopolizzato. Dopo questa riorganizzazione, impresa e settore coincidono e la curva di offerta di breve periodo SS rappresenta la curva di costo marginale di breve periodo SMC dell’impresa monopolistica. Tuttavia l’impresa monopolistica decide centralmente la quantità da produrre e il prezzo a cui vendere. Quindi rispetto alla precedente situazione perfettamente concorrenziale, la monopolizzazione del settore e del mercato implicano quindi – a parità di condizioni – una restrizione della quantità offerta e un aumento del prezzo. IL COSTO SOCIALE DEL MONOPOLIO. Dal punto di vista sociale, il criterio di valutazione dell’efficienza allocativa – ossia dell’efficiente quantità di risorse destinate alla produzione di un bene o servizio – è l’uguaglianza tra costo marginale sociale del bene o servizio e utilità marginale dello stesso. Mentre in un mercato perfettamente concorrenziale quest’uguaglianza – salvo casi particolari – si realizza in seguito alla convenienza delle imprese a uguagliare il prezzo, espressivo dell’utilità marginale che gli acquirenti attribuiscono al bene, al costo marginale, in un mercato di monopolio questa uguaglianza non si realizza. Il monopolista – scegliendo di produrre in corrispondenza dell’uguaglianza tra ricavo marginale e costo marginale – produce e vende una quantità minore di quella che sarebbe socialmente conveniente.

IL CONFRONTO TRA UN’IMPRESA MONOPOLISTICA CON UN UNICO IMPIANTO E UN SETTORE PERFETTAMENTE CONCORRENZIALE. Strutture settoriali e di mercato caratterizzate da elevate economie di scala ed elevata scala minima efficiente di produzione relativamente alla domanda di mercato sono chiamate monopoli naturali. Nel lungo periodo un’impresa monopolista che gestisce il settore produce secondo le quantità e prezzo individuati da punto A. Data la struttura dei costi è conveniente che nel settore vi sia un’unica impresa con un unico grande impianto di dimensioni pari

alla scala efficiente. Se quest’impresa si comportasse come un’impresa concorrenziale, produrrebbe e venderebbe come individuato dal punto B realizzando una perdita pari a

( )b b bQ LAC P⋅ − .

Se invece il settore fosse frammentato tra più piccole imprese, ognuna di queste produrrebbe a costi medi molto più alti dell’unica grande impresa in quanto non potrebbero beneficiare delle economie di scala. Una grande impresa – efficientemente dimensionata – potrebbe comunque entrare nel mercato e soppiantare le piccole imprese esistenti. Il settore può convenientemente operare solo in condizioni di monopolio.

8.10. L’inesistenza di una curva di offerta del monopolista

Un’impresa perfettamente concorrenziale determina la quantità da offrire sul mercato uguagliando il prezzo al costo marginale. Sommando orizzontalmente le curve di costo marginale delle singole imprese, si ottiene la curva di offerta del settore. Quest’ultima è definibile senza considerare la domanda di mercato. L’interazione tra domanda e offerta determina il prezzo di equilibrio del mercato perfettamente concorrenziale e la corrispondente quantità di equilibrio. L’impresa monopolistica è consapevole che la scelta della quantità da produrre e vendere influisce sia sul costo marginale sia sul ricavo marginale. In condizioni di monopolio, non è possibile determinare una relazione tra prezzo e quantità offerta indipendentemente dalla funzione di domanda. Il monopolista definisce la quantità da produrre e il prezzo al quale vendere considerando congiuntamente la domanda (il ricavo marginale) e i costi (il costo marginale).

8.11. La discriminazione del prezzo

Finora si è ipotizzato che l’impresa monopolistica venda la produzione a un prezzo unico. Tuttavia, l’impresa monopolistica può vendere il prodotto a prezzi diversi:

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• la DISCRIMINAZIONE DEL PREZZO è la vendita di uno stesso prodotto a prezzi diversi a seconda di chi acquista o di quanto acquista;

L’impresa monopolistica può discriminare il prezzo se è in grado di identificare acquirenti disposti a pagare prezzi diversi per lo stesso prodotto e se può impedire la rivendita del suo prodotto tra gli acquirenti, ovvero l’arbitraggio. Si consideri per esempio una compagnia aerea che detenga il monopolio dei voli Milano-Londra. Gli acquirenti della compagnia sono di due tipi: gli uomini d’affari e i turisti. I primi hanno una domanda in elastica al prezzo, i secondi no. Se la compagnia fissa lo stesso prezzo del volo per uomini d’affari e turisti, il ricavo marginale ottenuto dall’ultimo uomo d’affari che acquista il volo è minore del ricavo marginale dell’ultimo turista che acquista lo stesso volo. La compagnia aerea ha quindi convenienza a riallocare i posti a favore del gruppo di passeggeri con il più elevato ricavo marginale fino a uguagliare il ricavo marginale ottenuto dall’ultimo posto venduto alle due categorie di viaggiatori. Per ottenere questo risultato e massimizzare quindi il profitto la compagnia aerea deve praticare prezzi diversi per i due tipi di clienti (vedi grafico pagina 158 del manuale). Quando un’impresa pratica prezzi diversi di uno stesso prodotto ad acquirenti diversi, attua una discriminazione del prezzo di terz’ordine. Vi è un collegamento tra discriminazione del prezzo e inesistenza di una curva di offerta del monopolista? Questo collegamento è illustrato in riferimento al caso di praticabilità di una discriminazione perfetta del prezzo (o discriminazione di primo ordine). Questo tipo di discriminazione si realizza praticando un prezzo diverso per ogni unità venduta di uno stesso prodotto o un prezzo diverso da acquirente ad acquirente di ogni unità di prodotto.

Se l’impresa monopolistica pratica un prezzo unico, la quantità e il prezzo sono individuati dal punto A. Se invece l’impresa monopolistica può praticare una discriminazione perfetta del prezzo, è in grado di vendere la prima unità di prodotto a un prezzo di poco inferiore al prezzo di riserva degli acquirenti (individuato in x=0 e y=10). Discendendo lungo la curva di domanda DD, è possibile determinare via via i prezzi massimi ai quali l’impresa può vendere le unità addizionali o marginali che decidesse di offrire sul mercato. Quindi se l’impresa monopolistica può discriminare perfettamente il prezzo, la sua curva di domanda è anche la curva del ricavo marginale.

In questa ipotetica situazione, l’impresa monopolistica ottiene il massimo profitto producendo e offrendo sul mercato la quantità individuata dal punto C, che soddisfa le condizioni marginalistiche di massimizzazione del profitto. La prima conseguenza è che, se la discriminazione del prezzo è praticabile, l’impresa ha convenienza ad attuarla. La seconda conseguenza è che la possibilità di discriminare il prezzo spinge l’impresa monopolistica a variare la produzione e l’offerta anche se le condizioni di domanda e di costo rimangono inalterate. Quindi per determinare l’offerta non è sufficiente conoscere la domanda ma è necessario conoscere le possibilità di discriminazione del prezzo.

8.12. Il monopolio e il progresso tecnologico

Il confronto già proposto tra un mercato perfettamente concorrenziale e uno di monopolio perfetto evidenzia due conclusioni: 1) il monopolio restringe l’offerta e aumenta il prezzo; 2) il monopolio perfetto consente all’impresa di mantenere anche nel lungo periodo un extra-profitto; L’economista austriaco Joseph Schumpeter obietterebbe che il confronto proposto trascura la possibilità che il settore monopolistico disponga di una tecnologia più avanzata e meno costosa di quella disponibile per un mercato perfettamente concorrenziale. La grande impresa monopolistica può beneficiare di elevati e stabili extra-profitti destinabili ad attività di ricerca e sviluppo che consentano di realizzare progressi tecnologici risparmiatori di costi. Inoltre, in un settore perfettamente concorrenziale,un’impresa che disponga di un

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vantaggio tecnologico può sfruttarlo – per ottenere extra-profitti – solo nel breve periodo. Schumpeter sostiene che queste due forze tendono a rendere le imprese monopolistiche più innovative delle imprese e dei settori concorrenziali, soprattutto in un’ottica di lungo periodo.

9. Struttura di mercato e concorrenza imperfetta Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di:

• spiegare le differenti condizioni di costo e di domanda che caratterizzano i mercati di concorrenza imperfetta;

• analizzare il mercato di concorrenza monopolistica; • comprendere che l’oligopolio è caratterizzato dall’interdipendenza consapevole tra i venditori; • definire un gioco competitivo e i concetti di impegno irrevocabile e credibilità; • definire ed esaminare le funzioni di reazione e l’equilibrio di Nash di oligopolisti che competono nelle

condizioni ipotizzate da Cournot, Bertrand e von Stackelberg; • individuare perché in un mercato contendibile il potere monopolistico è molto ridotto; • valutare il ruolo delle barriere all’entrata in un mercato, distinguendo tra barriere strutturali e

barriere strategiche; La concorrenza perfetta e il monopolio perfetto sono due utili parametri di riferimento per analizzare e valutare le performance di due casi limite della struttura di mercato. Tuttavia, nella realtà la maggior parte dei mercati si colloca in posizioni intermedie rispetto ai due casi analizzati.

• L’IMPRESA CHE OPERA IN MERCATI PERFETTAMENTE CONCORRENZIALI può scegliere il prezzo al quale vendere il suo prodotto. Deve però valutare che – al crescere della quantità prodotta e venduta – il prezzo di vendita deve diminuire. La domanda dell’impresa imperfettamente concorrenziale è inversamente collegata al prezzo.

Le due strutture intermedie di mercato imperfettamente concorrenziale più analizzate della teoria economica sono l’oligopolio e la concorrenza monopolistica.

• L’OLIGOPOLIO è una struttura di mercato caratterizzata da un significativo grado di concentrazione dell’offerta e nel quale ogni impresa è consapevole di operare in condizioni di interdipendenza con i concorrenti. Per esempio, si rende conto che la scelta del prezzo di vendita non dipende solo dal volume di produzione che intende offrire sul mercato, ma anche dalle reazioni dei concorrenti;

• La CONCORRENZA MONOPOLISTICA è una struttura di mercato caratterizzata da un’elevata frammentazione dell’offerta e da una significativa differenziazione del prodotto. Il prodotto differenziato offerto da un’impresa è tuttavia considerato, dagli acquirenti, sostituibile con molti altri offerti nel mercato. L’impresa – in un mercato di concorrenza monopolistica – ha quindi un limitato grado di potere decisionale sul prezzo di vendita;

Come accade per molte altre classificazioni, la linea di distinzione tra queste tipologie di strutture di mercato è sfumata.

9.1. Perché esistono differenti strutture di mercato?

Questo paragrafo propone una teoria generale delle strutture di mercato. Secondo tale approccio teorico, la struttura di un mercato è determinata dall’interazione tra domanda e costi. Se la tecnologia relativa alla produzione del prodotto determina una curva di costi medi di lungo periodo tale per cui la quantità efficiente di produzione della singola impresa (q1) è una minima parte della quantità di prodotto dell’intero settore (Q2), allora si dice che la scala efficiente di produzione (ovvero q1) è piccola rispetto alla domanda di mercato DD (ovvero Q2) e quindi il settore può essere composto da molte ed efficienti piccole imprese. Ogni impresa esercita – con le sue decisioni – un’influenza irrilevante sull’offerta e sul prezzo di mercato. In questa situazione, il mercato tende quindi ad avere una struttura perfettamente concorrenziale o, in caso di differenziazione del prodotto, di concorrenza monopolistica.

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Il numero delle imprese efficienti del settore è determinato dalla funzione:

1 1 1NP Q q=

Se invece la struttura dei costi di lungo periodo è rappresentata da un’altra curva la cui scala efficiente corrisponde a una produzione q2 significativamente ampia rispetto alla domanda di mercato tale per cui:

2 21 2q Q= ⋅

il prezzo di equilibrio del mercato potrebbe attestarsi al livello P2 in corrispondenza del quale le uniche due imprese efficienti per cui vi è spazio nel mercato realizzano un profitto positivo. In questa situazione il settore e il mercato hanno la tipica configurazione di un oligopolio. L’espansione della dimensione di una delle due imprese oltre la scala efficiente implica un aumento dei costi medi tale per cui questa non riesce a espellere l’altra dal mercato. Se infine la struttura dei costi individua una scala di produzione efficiente q3 tale per cui q3>Q3, allora una sola impresa efficientemente dimensionata è in grado di esaurire la domanda di mercato. Il settore opera quindi in condizioni di monopolio naturale:

• un MONOPOLIO NATURALE è una struttura di mercato caratterizzata da rilevanti economie di scala e da una scala efficiente di produzione così ampia rispetto alla domanda di mercato da consentire a un’unica impresa di soddisfarla a costi medi e marginali minori di quelli realizzabili da due o più imprese;

La fondamentale determinante della struttura di mercato è la dimensione della scala minima efficiente di produzione – a sua volta determinata dalla tecnologia – relativamente alla dimensione del mercato nel suo complesso rappresentata dalla domanda:

• la SCALA MINIMA EFFICIENTE di produzione di un bene o servizio è la dimensione minima del processo produttivo che consente di produrre al minimo costo medio. La SCALA MASSIMA EFFICIENTE è la dimensione del processo produttivo oltre la quale un’impresa sopporta diseconomie di scala. La forma a U del costo medio di lungo periodo implica che scala minima e scala massima efficiente sia caratterizzata da un’unica SCALA EFFICIENTE di produzione;

L’EVIDENZA EMPIRICA SULLA STRUTTURA DEI MERCATI. L’evidenza empirica conferma l’ipotesi che quanto più ampia è la scala (minima) efficiente di produzione relativamente alla dimensione del mercato, tanto minore è il numero degli impianti che compongono un settore produttivo. Se – per semplicità – si ipotizza che ogni impresa realizzi la produzione in un solo impianto, il numero teorico delle imprese efficienti (NP) che un settore è in grado di accogliere è dato dal rapporto tra volume totale di produzione che il mercato richiede e scala efficiente. È quindi possibile stimare NP per ogni settore produttivo. Vi sono tuttavia settori composti da poche grandi imprese leader e numerose piccole imprese marginali. Il numero complessivo di imprese può essere un indicatore fuorviante delle strutture di un settore. Un indicatore più adeguato è il grado di concentrazione dell’offerta che può essere misurato attraverso il rapporto di concentrazione riferito al numero n delle imprese operanti in un settore:

• il RAPPORTO DI CONCENTRAZIONE relativo a n imprese (CRn) è la quota complessiva di vendite delle n più grandi imprese di un settore;

UK FRANCIA GERMANIA

SETTORI 3CR NP 3

CR NP 3CR NP

Refrigeratori 65 1 100 2 72 3

Sigarette 94 3 100 2 94 3

Raffinerie di petrolio 79 8 60 7 47 9

Birra 47 11 63 5 17 16

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Tessuti 28 57 23 57 16 52

Calzature 17 165 13 128 20 197

GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI E MULTINAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE. I dati della tabella riguardano un periodo antecedente alla crescita accelerata della globalizzazione dei mercati e dell’internazionalizzazione delle imprese:

• la GLOBALIZZAZIONE è l’integrazione internazionale dei mercati locali e nazionali. Le IMPRESE MULTINAZIONALI sono imprese che operano contemporaneamente nei mercati di più nazioni;

9.2. La concorrenza monopolistica

La teoria della concorrenza monopolistica riguarda un mercato nel quale operano numerose e piccole imprese che non considerano la possibilità di poter provocare – con le proprie decisioni – reazioni da parte dei concorrenti. Il mercato è altresì accessibile, ossia privo di insormontabili barriere all’entrata e all’uscita. Ciò che distingue il regime di concorrenza monopolistica e quello di concorrenza perfetta è la differenziazione del prodotto, ossia il fatto che le imprese abbiano acquisito un significativo grado di fedeltà da parte di una nicchia o segmento di acquirenti. Grazie alla differenziazione del loro prodotto rispetto a quello dei concorrenti, la domanda delle imprese operanti in un mercato di concorrenza monopolistica non è infinitamente elastica al prezzo. La differenziazione del suo prodotto e la fedeltà della sua nicchia di clienti consentono all’impresa di scegliere il prezzo e praticare un prezzo diverso da quello dei concorrenti senza per questo provocare l’annullamento delle sue vendite. Nel mercato di concorrenza monopolistica, a differenza dell’oligopolio dove si riscontrano meccanismi come quelli di cui sopra, il numero delle imprese efficienti è così alto e la loro dimensione così piccola che queste sono per nulla interdipendenti tra loro. La domanda di un settore operante in condizioni di concorrenza monopolistica rappresenta la quantità complessiva di prodotto del settore che gli acquirenti sono disposti ad acquistare se tutte le imprese del settore praticano lo stesso prezzo. L’elasticità rispetto al prezzo di DD dipende soprattutto dalla disponibilità di riconosciuti sostituti della pasta dentifricia. La domanda dd dell’impresa rappresentativa del settore dipende dalla quota o nicchia di mercato che l’impresa è riuscita a ricavarsi. Questa a sua volta dipende dal numero di imprese e prodotti concorrenti esistenti nel mercato e dal grado di differenziazione che l’impresa è riuscita a realizzare. Un aumento del numero di concorrenti esistenti nel mercato e/o diminuzione della fedeltà alla marca sposta verso il basso la curva di domanda dd dell’impresa e la rende più elastica al prezzo. Quanto più efficace è la differenziazione del prodotto realizzato dall’impresa, tanto maggiore è il suo potere monopolistico, ovvero la possibilità di praticare un prezzo più elevato del costo marginale. Ipotizzando che un’impresa realizzi, con un dato prodotto differenziato in una data nicchia di mercato, un extra-profitto nel breve periodo, questo extra-profitto nel lungo periodo attrae nuove imprese, riducendo la quota di mercato, e aumenta il numero di marche, accrescendo la reattività al prezzo. I nuovi ingressi quindi modificherebbero la curva della domanda fino al punto da far coincidere il prezzo di vendita con il costo medio di breve e lungo periodo e bloccare altri ulteriori ingressi.

• In un mercato di concorrenza monopolistica, l’EQUILIBRIO DI LUNGO PERIODO si verifica quando la curva di domanda dell’impresa è tangente alla curva di costo medio (LAC) in corrispondenza di un volume di produzione q1 che soddisfa le condizioni marginalistiche di massimo profitto. In questa situazione, ogni impresa è in pareggio e non vi è incentivo all’entrata e all’uscita dal mercato;

In queste condizioni l’impresa non produce al minimo costo medio di lungo periodo. Per restare nel mercato – coprendo almeno i costi – l’impresa è costretta a sottodimensionarsi rispetto sia alla scala efficiente di produzione sia minimo costo medio di breve periodo. L’impresa inoltre – pur realizzando solo un profitto normale ovvero un profitto economico nullo – pratica un prezzo maggiore del costo marginale:

1 1 1P SMC LMC> =

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Quindi grazie alla differenziazione del suo prodotto e alla fedeltà alla sua marca, l’impresa dispone di potere monopolistico.

9.3. Oligopolio e interdipendenza

Il carattere fondamentale dell’oligopolio è l’interdipendenza consapevole tra le imprese. Ognuna sa che le conseguenze di ogni decisione competitiva dipendono dalla reazione imprevedibile e incerta dei concorrenti. Questo stato di cose porta al dilemma tra cooperazione e competizione che caratterizza tutte le situazioni monopolistiche:

• la COOPERAZIONE è un accordo, implicito (collusione) o esplicito (cartello), tra imprese per ridurre o eliminare la competizione;

Per semplicità il dilemma tra competizione e cooperazione può essere analizzato escludendo inizialmente la possibilità di ingresso nel mercato di nuove imprese. I PROFITTI DA COOPERAZIONE. Le imprese insediate in un settore massimizzano il loro profitto congiunto se si comportano come un’unica grande impresa monopolistica operante con più impianti che tende a realizzare il massimo profitto. Quindi se le imprese di un settore oligopolistico vogliono realizzare il massimo profitto complessivo per poi spartirselo tra loro, devono comportarsi come se fossero un monopolista.

In un settore come quello rappresentato in figura, se le imprese del settore decidono di operare come un monopolista il profitto da nullo diventerà uguale a:

( )m m cQ P P⋅ −

Dopo aver deciso questo comportamento da monopolista, le imprese aderenti all’accordo devono realizzare una negoziazione per la definizione delle quote di produzione e di profitto totale da assegnare a ciascuna. È tuttavia difficile disincentivare o impedire alle imprese la violazione nascosta dell’accordo in funzione della differenza tra il prezzo di vendita e il

costo di produzione. Così può succedere che la produzione del settore sia più elevata di Qm e il prezzo di vendita di conseguenza inferiore a Pm. I CARTELLI. La cooperazione tra imprese è più facile da realizzare se gli accordi espliciti e formali sono consentiti dalla legge e quindi dichiarati pubblicamente. Accordi cooperativi di questo tipo sono chiamati cartelli. Il più famoso cartello attualmente esistente è l’OPE, ovvero l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, attiva dal 1973 e i cui aderenti si incontrano regolarmente e comunicano ai mezzi di informazione di tutto il mondo le loro decisioni congiunte in merito alla produzione e all’offerta di petrolio sul mercato mondiale, nonché il prezzo obiettivo che mirano a determinare.

Il funzionamento del cartello OPEC è il seguente: la curva DDm rappresenta la domanda mondiale. La curva MCnonopec rappresenta il costo marginale dei paesi non OPEC che – dovendo subire il prezzo fissato dal cartello – si trovano a operare nel mercato in condizioni di price-taker, come un settore perfettamente concorrenziale. Quindi la curva di costo marginale del settore non OPEC è anche la sua curva di offerta sul mercato mondiale:

nonOPEC nonOPECMC SS= .

La curva MCopec rappresenta il costo marginale – sensibilmente inferiore – del settore dei paesi aderenti al cartello. La domanda del cartello OPEC (DDopec) è la differenza tra la domanda mondiale(DDm) e l’offerta

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concorrenziale del settore non OPEC (SSnonopec). L’OPEC fissa quindi il prezzo del petrolio al livello Popec che le garantisce il massimo profitto e questo prezzo viene accettato dai Paesi non aderenti che vendono una quantità pari a:

m opecQ Q− .

In assenza del cartello OPEC, il mercato mondiale del petrolio opererebbe in condizioni perfettamente concorrenziali, con un prezzo Pc e una quantità prodotta e venduta Qc. LA CURVA DI DOMANDA AD ANGOLO DELL’IMPRESA OLIGOPOLISTICA. La cooperazione tra imprese di un settore oligopolistico è tanto più difficile da realizzare quanto più numerose e diverse sono le imprese, quanto più il loro prodotto è differenziato e quanto più mutevoli sono le condizioni di costo e domanda. In assenza di cooperazione, la domanda di un’impresa oligopolistica dipende dalla reazione dei concorrenti.

L’impresa deve avanzare ipotesi congetturali circa la reazione dei concorrenti. Si supponga che ogni impresa – in un mercato oligopolistico con prodotti differenziati – ritenga che ogni riduzione del prezzo venga imitata dai suoi concorrenti e che questi ultimi non reagiscano a un aumento del prezzo. Il fondamento di questa congettura è la preoccupazione delle imprese oligopolistiche di salvaguardare la propria quota di mercato.

La figura rappresenta la particolare configurazione della domanda dell’impresa oligopolistica in questa ipotetica situazione. Il prezzo corrente che l’impresa pratica è P0 e la quantità venduta è q0. A causa della differente reazione attesa dei concorrenti, la curva di domanda dell’impresa è molto elastica al prezzo nel tratto superiore al punto A che rappresenta la combinazione attuale. È invece rigida al prezzo nel tratto inferiore ad A che riguarda prezzi inferiori di quello corrente. La conseguenza importante di questa forma ad angolo della domanda dell’impresa è che la curva del ricavo marginale (mr) dell’impresa presenta una discontinuità in corrispondenza della produzione attuale q0. In questa situazione, se la curva del costo marginale oscilla verso l’alto o verso il basso entro l’intervallo H,K l’impresa non ha informazioni sufficienti sul ricavo marginale per decidere variazioni della quantità prodotta e venduta, che rimane quindi al livello q0. Per contrasto un’impresa con una curva continua del ricavo marginale reagisce a ogni variazione del costo marginale variando la quantità prodotta e venduta in senso opposto. L’ipotesi della domanda ad angolo delle imprese oligopolistiche non spiega come facciano le imprese a determinare il prezzo corrente P0. Una possibile spiegazione è che P0 sia il prezzo fissato collusivamente tra le imprese.

9.4. Teoria dei giochi e scelte interdipendenti

Come i giocatori di poker, le imprese in oligopolio possono scegliere comportamenti o azioni che modificano a loro vantaggio le aspettative dei concorrenti. L’analisi di scelte razionali in condizioni di interdipendenza consapevole può essere svolta con l’aiuto della teoria dei giochi:

• un GIOCO è una situazione nella quale agenti interdipendenti – i giocatori – devono compiere scelte razionali;

I giocatori hanno – per ipotesi – come obiettivo la massimizzazione del risultato positivo ottenibile. In un mercato oligopolistico, i giocatori sono le imprese e il risultato positivo che mirano a massimizzare è il profitto economico. Ogni giocatore deve scegliere la strategia più conveniente:

• una STRATEGIA è una linea di comportamento che definisce le scelte o mosse che un giocatore deve compiere in ogni situazione prevedibile;

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Il perseguimento di un’elevata fedeltà di marca da parte dei clienti di un’impresa è una strategia. La realizzazione di una definita campagna pubblicitaria è una mossa. In molti giochi la miglior strategia di un giocatore dipende dalle strategie scelte dagli altri giocatori. Il gioco e i giocatori sono in equilibrio allorché tutti i giocatori hanno scelto la miglior strategia, date le strategie scelte dagli altri giocatori. Questo tipo di equilibrio è noto come equilibrio di Nash, dal nome dell’economista americano John Nash:

• l’EQUILIBRIO DI NASH è una situazione di gioco nel quale nessun giocatore ha motivo di cambiare la strategia prescelta in quanto le strategie scelte dagli altri giocatori sono date e incluse nel calcolo di convenienza di ognuno;

In taluni giochi la strategia ottimale di uno o più giocatori è indipendente da quelle scelte dagli altri giocatori. In questo caso, la strategia è chiamata strategia dominante:

• una STRATEGIA DOMINANTE è la scelta ottimale di un giocatore indipendentemente dalle strategie adottate dagli altri giocatori;

COOPERARE O COMPETERE? La tabella riportata a fianco presenta un gioco famoso – noto come dilemma del prigioniero – che può essere riferito a due imprese (A e B) che abbiano aderito a un cartello. Ogni impresa può scegliere due strategie: aumentare o ridurre la produzione da offrire sul mercato. I risultati conseguibili dalle due imprese in corrispondenza di ogni coppia di strategie sono profitti.

Impresa B DILEMMA DEL PRIGIONIERO Aumentare la produzione Ridurre la produzione

1 1 Aumentare la produzione 3 0 0 3

Impresa A Ridurre la produzione

2 2 Qual è l’equilibrio del gioco? L’impresa A ha una strategia dominante: la scelta di aumentare la produzione le prospetta infatti un risultato migliore (1 o 3), quale che sia la strategia dell’impresa B. Anche l’impresa B ha come strategia dominante la decisione di aumentare la produzione. Poiché entrambe le imprese hanno come strategia dominante la decisione di aumentare la produzione, l’equilibrio di Nash è rappresentato dalla scelta di entrambe di accrescere la produzione realizzando ciascuna un profitto di 1. Tuttavia le due imprese potrebbero realizzare un profitto maggiore – di 2 a testa – se stipulassero un accordo cooperativo per lo sfruttamento monopolistico del mercato riducendo la produzione. Nessuna delle due vuole – razionalmente – correre il rischio connesso a un accordo informale. Se infatti l’impresa A restringesse unilateralmente la produzione, l’impresa B avrebbe convenienza ad ampliarla conseguendo un profitto di 3 anziché 2. Questa situazione fornisce una chiara dimostrazione del dilemma tra cooperazione e competizione che caratterizza l’oligopolio. Quando è realizzabile e sostenibile un accordo cooperativo tra due concorrenti? Per esempio quando vi è la possibilità di assumersi impegni irrevocabili (commitment):

• un IMPEGNO IRREVOCABILE (COMMITMENT) è un’azione volontaria attuata da un agente che ne restringe le decisioni future;

L’idea della razionalità – in situazioni di interdipendenza strategica – di azioni irrevocabili è di grande importanza nella teoria economica ed è utilizzabile in molte situazioni. Se il gioco non si svolge una tantum, ma si ripete più volte nel tempo, i giocatori possono incentivarsi reciprocamente al rispetto di un accordo attraverso l’annuncio di una strategia di punizione. In riferimento all’esempio precedente, tale strategia consiste nella promessa dell’impresa A e dell’impresa B di accrescere comunque la produzione ove risultasse che l’altra ha violato l’accordo. Infatti in presenza di una reciproca strategia di punizione, l’impresa A non ha convenienza a violare l’accordo per ottenere un beneficio temporaneo. Se violasse l’accordo il suo profitto aumenterebbe da 2 a 3. Tuttavia così facendo provocherebbe la reazione di B che per ritorsione eleverebbe a sua volta la produzione, riducendo il profitto di A a 1 per un periodo futuro indeterminato. Se invece A continua a rispettare l’accordo, può continuare a realizzare il profitto di 2 per il futuro prevedibile. Perciò la strategia di punizione può rendere stabile un cartello esplicito o una collusione implicita anche quando non vi è possibilità di

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attuare azioni di impegno irrevocabile. Ovviamente la strategia di punizione è un efficace deterrente della violazione degli accordi solo se costituisce una minaccia credibile:

• una MINACCIA CREDIBILE rappresenta – per l’agente che la dichiara – una scelta ottimale od obbligata dopo il verificarsi di un dato evento;

9.5. Le funzioni di reazione delle imprese oligopolistiche

La scelta della strategia dominante – razionale in una situazione di interdipendenza consapevole e impossibilità di cooperazione – porta a un equilibrio di Nash che rappresenta una soluzione inefficiente per entrambi i giocatori. Attraverso una soluzione cooperativa i due concorrenti potrebbero infatti realizzare un maggior profitto. Più frequentemente la strategia più conveniente di ogni giocatore dipende dalla strategia attuata o prevedibile degli altri giocatori. La scelta di ognuno dipende dalle aspettative circa le scelte dei rivali. Per semplificare l’analisi di questa situazione di interdipendenza oligopolistica è opportuno ipotizzare che il gioco competitivo si svolga tra due soli concorrenti, ovvero che il mercato sia un duopolio.

IL MODELLO DI COURNOT. L’economista francese Augustin Cournot elaborò e pubblicò nel 1838 un semplice ma innovativo modello di duopolio. Nel modello di Cournot ogni impresa compete attraverso la scelta del volume di produzione, nell’ipotesi che l’impresa concorrente non cambi il suo prescelto livello di offerta. Quindi ognuna delle due imprese considera come dato il volume di produzione dell’altra e sceglie, in base a questa ipotesi, il suo livello di produzione che prospetta il massimo profitto. Si consideri un mercato di duopolio nel quale le due imprese concorrenti A e B producono lo stesso bene con costi medi e

marginali costanti. Se l’impresa A congettura che l’impresa B produca una quantità Qb=0, la domanda di mercato DD0 del prodotto è di fatto la domanda dell’impresa A. Dato l’andamento del costo marginale MCa, nella congettura che la sua domanda sia DD0, l’impresa A ha convenienza a produrre e offrire la quantità Q0a che le prospetta il massimo profitto. Se invece A congettura che B produca e offra Qb=50, la domanda di A è rappresentata da DD1. La curva DD1 si ottiene attraverso la traslazione verso sinistra della curva di mercato DD0 domandata pari a 50 per ogni possibile livello di prezzo. In corrispondenza di questa seconda congettura, la quantità di produzione che prospetta all’impresa A il massimo profitto è Q1a. Il punto H rappresenta la combinazione:

( )1, 50

A BQ Q =

Al crescere della quantità attesa o congetturale di produzione di B, diminuisce la quantità che A ha convenienza a produrre in funzione dell’obiettivo del massimo profitto. La curva Ra definisce i livelli ottimali di produzione di A in funzione di ogni congetturale o atteso livello di produzione di B, ed è quindi la funzione di reazione dell’impresa A:

( )A BQ f Q=

• la FUNZIONE DI REAZIONE di un’impresa definisce la scelta ottima di un’impresa in corrispondenza di ogni possibile scelta da parte dei suoi concorrenti;

Poiché le due imprese oligopolistiche producono e offrono lo stesso prodotto, il livello di produzione che massimizza il profitto di un duopolista è una funzione inversa o decrescente del livello di produzione ipotetico dell’altro.

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In un mercato di duopolio è ipotizzabile che i due concorrenti si comportino in un modo simile. L’impresa B può quindi operare scelte congetturali simili a quelle dell’impresa A. Con un processo analogo è possibile definire la funzione di reazione Rb dell’impresa B che propone una relazione inversa e decrescente tra Qa e Qb.

La curva di reazione di ogni impresa indica il volume ottimale di produzione corrispondente a ogni dato volume di produzione dell’altra. L’unica possibile situazione di equilibrio – ossia di non convenienza al cambiamento del volume di produzione – è rappresentata dal punto E di intersezione delle due curve di reazione. La situazione rappresentata da E è un equilibrio di Nash. Se le due imprese operano con identici costi medi e marginali e le due funzioni di reazione sono simmetriche, l’equilibrio E è caratterizzato da uguali volumi di produzione Qa=Qb. Se le due imprese fronteggiano la stessa domanda di mercato ma hanno

diversi costi di produzione, l’equilibrio è contraddistinto da differenti volumi di produzione ottimali per le due imprese. IL MODELLO DI BERTRAND. L’analisi del comportamento oligopolistico attraverso le funzioni di reazione e l’equilibrio di Nash, e in particolare del ruolo fondamentale delle aspettative circa il comportamento dei rivali, può essere approfondita attraverso il ricorso a un diverso modello di oligopolio proposto dall’economista francese Joseph Bertrand:

• nel MODELLO DI OLIGOPOLIO DI BERTRAND le imprese competono attraverso la scelta del prezzo sulla base della congettura che il prezzo dei concorrenti sia dato;

Ogni impresa sceglie il prezzo (e di conseguenza la quantità vendibile a quel prezzo) sulla base delle sue aspettative od osservazioni sul prezzo praticato dal concorrente. Se le due imprese producono e offrono un prodotto che appare agli acquirenti perfettamente omogeneo, è evidente che la domanda di un’impresa sia positivamente o direttamente collegata al prezzo praticato dall’altra impresa. Nel modello di Bertrand la funzione di reazione dell’impresa A è inclinata positivamente. Date le ipotesi del modello, l’unica possibile situazione di equilibrio del mercato è rappresentata dal punto E di intersezione delle due funzioni di reazione e quindi dalla fissazione da parte delle due imprese di un prezzo uguale Pa=Pb. Se infatti le due imprese fissano prezzi diversi, l’intera domanda di mercato si rivolgerà all’impresa che fissa il prezzo più bassa e l’altra non venderà nulla. Se le due imprese fissano lo stesso prezzo, per gli acquirenti è indifferente acquistare da una o dall’altra ed è verosimile che ciascuna impresa tenda ad avere una quota di mercato pari alla metà della quantità domandata. Come nel modello di Cournot, anche nel modello di Bertrand l’equilibrio di mercato rappresenta altresì un equilibrio di Nash del gioco competitivo tra i due concorrenti. Inoltre è facile verificare che l’equilibrio di Nash nel modello di Bertrand coincide con l’equilibrio perfettamente concorrenziale del mercato, ovvero che ciascuna impresa è in equilibrio quando fissa il prezzo uguale al costo marginale. UN CONFRONTO TRA IL MODELLO DI COURNOT E IL MODELLO DI BERTRAND. La struttura logico-formale dei due modelli è simile: in entrambi i modelli, le imprese affrontano un gioco competitivo di scelte simultanee basate sulla congettura che il comportamento del rivale per effetto delle scelte compiute non cambi. L’equilibrio di Nash dipende dalle specifiche congetture che le imprese fanno in merito al comportamento dei concorrenti. In generale gli economisti ritengono più verosimile la competizione ipotizzata dal modello di Cournot. Nella realtà è difficile riscontrare imprese e settori oligopolistici che operano in modo simile a imprese e settori perfettamente concorrenziali. Per contro l’ipotesi di Cournot può essere interpretata nel senso che le imprese scelgano prima la capacità produttiva e quindi fissino il prezzo. Poiché il cambiamento delle capacità (scala) produttiva richiede tempo e risorse, è sensato ipotizzare che le imprese considerino – nella scelta del volume di produzione – come data la capacità dei concorrenti.

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IL MODELLO DI VON STACKELBERG: IL VANTAGGIO DELLA PRIMA MOSSA. I modelli di Cournot e Bertrand si basano sull’ipotesi che i duopolisti decidano simultaneamente il volume di produzione e il prezzo nell’aspettativa, peraltro ingenua, che i concorrenti non modifichino per reazione le loro decisioni attuali. Come cambia il gioco competitivo tra le due imprese se si ipotizza che un’impresa possa decidere il volume di produzione e il prezzo prima dell’altra e conosca la funzione di reazione del concorrente? Questo problema è stato analizzato dall’economista tedesco von Stackelberg:

• nel MODELLO DI VON STACKELBERG, un’impresa duopolistica (B) agisce come nel modello di Cournot, scegliendo il volume di produzione o il prezzo in funzione della scelta adottata dall’altra (A). Quest’ultima tuttavia conosce la regola di comportamento del concorrente e ne anticipa la conseguente reazione. Quindi l’impresa A decide la quantità da offrire sul mercato o il prezzo, tenendo conto dell’effetto che la sua decisione ha sulla scelta del concorrente B;

Nell’ipotesi di von Stackelberg, la funzione di reazione dell’impresa A relativamente alla scelta del volume di produzione non è la curva Ra che considera Qb come scelto indipendentemente da Qa. Conoscendo la funzione di reazione Rb del concorrente, l’impresa A è consapevole che un eventuale aumento del suo volume di produzione indurrà B a diminuire il suo volume di offerta. Dunque A è in grado di valutare che l’espansione della sua offerta produce una riduzione del prezzo inferiore a quella che si attende nei casi di comportamento secondo l’ipotesi di Cournot. Graficamente la curva di domanda e di ricavo marginale dell’impresa A sono quindi – per ogni possibile volume di Qa – più alte e spostate verso destra. Dato l’andamento del costo marginale, l’aumento del ricavo marginale che l’impresa A si attende di poter realizzare a ogni suo possibile volume di offerta induce A a offrire una quantità maggiore di quella che offrirebbe nell’ipotesi di Cournot. L’impresa B produce invece una quantità minore perché accetta come dato il maggior volume di offerta di A. L’equilibrio del modello di von Stackelberg si caratterizza quindi per il fatto che un’impresa A produce e vende una quantità maggiore con un profitto più elevato di quello che realizzerebbe nell’ipotesi di scelta contemporanea incorporata nel modello di Cournot. L’impresa B realizza, per contro, una produzione e un profitto minori. L’impresa A beneficia quindi del vantaggio della prima mossa:

• il VANTAGGIO DELLA PRIMA MOSSA consiste nella possibilità del giocatore che decide in anticipo rispetto al concorrente di realizzare un profitto maggiore di quello che potrebbe realizzare in condizione di scelte simultanee;

9.6. Libertà di entrata in un mercato e concorrenza potenziale

Finora si è analizzata la concorrenza imperfetta tra le imprese insediate in un mercato. Per completare l’analisi del funzionamento delle strutture di mercato caratterizzate da concorrenza imperfetta, è necessario considerare gli effetti – sul comportamento delle imprese e sulle performance di un settore – della concorrenza potenziale derivante dall’ingresso di nuove imprese. A questo scopo occorre distinguere tre situazioni di accessibilità di un settore o mercato: la perfetta accessibilità, l’esistenza di barriere strutturali all’accesso e l’esistenza di barriere create dalle imprese insediate. I MERCATI CONTENDIBILI. In precedenza si è affermato che la perfetta accessibilità – ossia l’assoluta libertà di entrata e di uscita – è una caratteristica fondamentale della perfetta concorrenza. Se tuttavia si deve analizzare un settore composto da poche o persino da una sola impresa, occorre essere cauti prima di ricondurlo a una struttura tipicamente di oligopolio o monopolio. E’ infatti possibile che il settore operi in un mercato cosiddetto contedibile o di concorrenza potenziale:

• un MERCATO CONTENDIBILE o di CONCORRENZA POTENZIALE è caratterizzato da libera entrata e libera uscita, ossia da perfetta accessibilità;

Libera entrata significa che le imprese – sia insediate nel mercato che potenzialmente entranti – hanno accesso alla stessa tecnologia, agli stessi fattori di produzione e quindi operano con identiche condizioni di costo. Libera uscita implica che le imprese – una volta insediate nel mercato – non siano frenate o impedite nell’uscita da costi irrecuperabili o da altri ostacoli. Un mercato contendibile o di concorrenza potenziale consente scorrerie competitive.

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Se quindi le imprese insediate in tale mercato non praticano nel lungo periodo un prezzo identico a quello di un mercato perfettamente concorrenziale:

mincP LMC LAC= =

una o più imprese entrano nel mercato e praticano un prezzo inferiore a quello praticato dalle imprese insediate realizzando profitti temporanei prima di uscire dal mercato. Sotto questo aspetto la globalizzazione promuove la contendibilità dei mercati e la rilevanza della teoria dei mercati contendibili in quanto modello analitico della struttura dei mercati. La globalizzazione è quindi un fenomeno a due facce. Da un lato accresce la dimensione dei mercati e il loro grado di apertura concorrenziale potenziale. Dall’altro aumenta il potere monopolistico delle grandi imprese favorendo la loro espansione internazionale e consentendo loro di operare su scala mondiale. La posizione competitiva delle imprese locali o nazionali diventa quindi sempre più debole. Il pregio della teoria è quello di evidenziare efficacemente che la struttura di un mercato e il comportamento delle imprese che vi operano dipendono solo dal numero e dalla dimensione di queste ultime, ma anche dalla concorrenza potenziale dei nuovi entranti. Anche la performance e il comportamento di un monopolista cambiano – rispetto al modello classico – se si ammette la possibilità di ingresso nel mercato di potenziali concorrenti. LE BARRIERE STRUTTURALI ALL’INGRESSO IN UN MERCATO. Occorre innanzitutto distinguere tra barriere strutturali all’ingresso in un mercato e barriere deliberatamente create dalle imprese insediate nel mercato:

• le BARRIERE STRUTTURALI ALL’INGRESSO IN UN MERCATO sono ostacoli indipendenti dal comportamento delle imprese insediate;

L’economista statunitense Joe Bain propose tre fondamentali cause di barriere all’ingresso in un mercato: la differenziazione del prodotto, l’esistenza di vantaggi assoluti nei costi da parte delle imprese insediate e le economie di scala. A queste tre possibili cause di natura economica occorre aggiungere anche una quarta causa di natura giuridica: la legislazione pubblica. Quanto più sono rilevanti le barriere strutturali all’ingresso, tanto più la struttura di un mercato e il comportamento delle imprese insediate sono indipendenti dalla concorrenza potenziale. Quando invece le barriere strutturali sono irrilevanti, occorre distinguere due situazioni:

1. le imprese insediate nel mercato accettano il pericolo di ingresso di nuovi concorrenti e per effetto della concorrenza potenziale che limita il potere monopolistico sono indotte a praticare prezzi vicini a quelli di perfetta concorrenza;

2. tipica dei mercati oligopolistici o di monopolio perfetto, le imprese insediate tentano a creare barriere all’ingresso dei concorrenti;

9.7. La prevenzione strategica dell’ingresso in un mercato

Nel linguaggio corrente l’aggettivo strategico è utilizzato per indicare genericamente l’importanza di un problema o di un comportamento. Nella teoria economica, strategia e strategico hanno invece significati

precisi. Nella teoria dei giochi una strategia è un piano completo d’azione di un giocatore in corrispondenza di ogni possibile nodo decisionale e comportamento degli altri giocatori:

• un’AZIONE STRATEGICA è una decisione che influenza la scelta di altri agenti, attraverso la modificazione delle aspettative di questi ultimi in merito al comportamento di chi la compie;

ENTRANTE

INGRESSO

NON INGRESSO

DIVISIONE DEL MERCATO

GUERRA DEI PREZZI

NO PREVENZIONE: (1,1) PREVENZIONE: (-2,-1)

NO PREVENZIONE: (-1,-1) PREVENZIONE: (-1,-1)

NO PREVENZIONE: (5,0) PREVENZIONE: (2,0)

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Si consideri – per esempio – il gioco competitivo proposto in figura tra un’impresa insediata in un mercato (un monopolista imperfetto) e un’impresa potenzialmente entrante, a causa dell’assenza di significative barriere strutturali. L’impresa entrante ha due strategie possibili: entrare o non entrare. In caso di ingresso, l’impresa insediata può scegliere a sua volta tra due strategie: accettare la spartizione del mercato o attuare una guerra dei prezzi (detta anche politica dei prezzi predatori) attraverso il mantenimento dell’offerta preingresso o addirittura aumentando l’offerta così da deprimere il prezzo di mercato. Se l’impresa insediata non fa nulla per prevenire l’ingresso del concorrente, la soluzione del gioco è ovvia: l’impresa entrante ha come strategia dominante l’ingresso nel mercato e quindi decide di entrare. Una volta realizzato l’ingresso, l’impresa insediata ha convenienza a essere accomodante e ad accettare una divisione del mercato, perché così facendo consegue un profitto di 1 contro una perdita di -1 in caso di guerra dei prezzi. In questo caso,l’equilibrio del gioco da un profitto di 1 a entrambi i giocatori. Che cosa può fare l’impresa insediata –ovvero il monopolista imperfetto – per prevenire l’ingresso? Può attuare una mossa strategica, ovvero un’azione o impegno irrevocabile tale da rappresentare una minaccia credibile in caso di ingresso del concorrente. Tale mossa può essere un investimento in capacità produttiva in eccesso – rispetto alla produzione attuale – di costo 3. Questo costo è recuperabile solo in caso di guerra dei prezzi che impegni l’impresa insediata ad accrescere la produzione per deprimere il prezzo del mercato. In questa situazione, la strategia dominante perl’impresa entrante è il non ingresso nel mercato con un profitto nullo. In caso di ingresso, l’impresa insediata ha infatti come strategia dominante la guerra dei prezzi, con profitti negativi di -1 per entrambi. La soluzione del gioco è quindi il non ingresso dell’entrante e l’ottenimento di un profitto pari a 2 dell’impresa insediata.

• La PREVENZIONE STRATEGICA DELL’INGRESSO IN UN MERCATO è un comportamento delle imprese insediate in un mercato, finalizzato a scoraggiare l’ingresso di nuovi concorrenti;

Le imprese insediate in un mercato hanno sempre convenienza ad attuare una costosa prevenzione strategica dell’ingresso di concorrenti? La risposta è no. La convenienza dipende dal costo della prevenzione, rispetto al costo dell’ingresso in assenza di prevenzione. Al di là del modello teorico, nel mondo reale non vi è perfetta informazione e quindi azione e reazione possono non essere direttamente conseguenti. Inoltre l’esito del gioco dipende anche dalla capacità finanziaria dei due giocatori.

9.8. Per concludere

L’analisi svolta in precedenza propone tre importanti conclusioni. La prima è che la struttura dei mercati e dei settori e il comportamento delle imprese interagiscono e si determinano simultaneamente. La seconda conclusione sottolinea l’importanza della concorrenza potenzialeche può originare dal possibile ingresso in un mercato di imprese nazionali neonate od operanti in altri mercati o dalle importazioni dall’estero. Infine, l’analisi dei mercati imperfettamente concorrenziali evidenzia che molti comportamenti competitivi osservabili nei mercati reali possono essere interpretati come forme di competizione strategica la cui efficacia dipende dalla credibilità nei confronti dei rivali.

Appendice

Modelli di oligopolio

IL MODELLO DI COURNOT. Nel modello di oligopolio – di duopolio – proposto da Cournot, le imprese producono e offrono un bene omogeneo (acqua minerale) in un mercato di cui conoscono la domanda. La competizione tra due imprese riguarda la scelta del volume di produzione da offrire sul mercato, nella consapevolezza che il prezzo dipenda – data la domanda – dalla quantità totale offerta da entrambe da entrambe.

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Pur con una forma molto debole e ingenua di interdipendenza consapevole, il modello di Cournot propone un caso, non privo di interesse, di significativa influenza reciproca nel comportamento di imprese oligopolistiche. Si ipotizzi che la domanda di mercato sia espressa dalla relazione:

( )A BP a b Q Q= − +

Ove a e b sono due parametri positivi, Qa e Qb sono i volumi di produzione e di offerta delle due imprese oligopolistiche che operano sul mercato. Poiché l’impresa A considera data la quantità offerta di B (Qb), la funzione di domanda di A può essere definita dalla relazione:

( )B AP a bQ bQ= − −

La funzione del ricavo marginale dell’impresa A è data dalla relazione:

( ) 2A B AMR a bQ bQ= − −

Ipotizzando che le due imprese vendano un prodotto omogeneo con costi variabili nulli, il costo marginale per entrambe è nullo. Ne consegue che il livello di produzione che prospetta – per ogni dato valore di Qb – il massimo profitto conseguibile dall’impresa A è definibile risolvendo l’equazione:

0A

MR =

ovvero:

( ) 2 0B Aa bQ bQ− − =

La soluzione dell’equazione è:

2

BA a bQ

Qb

−=

Quest’equazione rappresenta la funzione di reazione dell’impresa A, ossia la relazione che definisce il volume di produzione che prospetta il massimo profitto all’impresa A. L’unica situazione di equilibrio è rappresentata dall’intersezione delle due funzioni di reazione. Solo quando A e B producono:

3A B aQ Q

b= = ,

nessuna delle due imprese ha convenienza a cambiare la propria scelta. Questa è la scelta dominante e un tipico esempio dell’equilibrio di Nash. IL MODELLO DI BERTRAND. Nel modello di Bertrand, le imprese scelgono simultaneamente il prezzo che prospetta il massimo profitto individuale, sulla base della congettura che il prezzo praticato dal concorrente non cambi. Nell’ipotesi – analoga a quella di Cournot – che le due imprese producano un prodotto omogeneo, la competizione attraverso il prezzo induce entrambe le imprese a fissare in equilibrio un prezzo uguale al costo marginale. In questa situazione, la scelta situazione per le due imprese – ovvero la strategia dominante – è la fissazione di un prezzo uguale al costo marginale che è, per ipotesi, identico per entrambe. Né si può pensare a un equilibrio non cooperativo nel quale le due imprese pratichino un identico prezzo inferiore al costo marginale. Ognuna sa che – in questa situazione – riducendo il prezzo acquisterebbe l’intera domanda di mercato e accrescerebbe i suoi profitti. L’unico possibile equilibrio di Nash nel duopolio di Bertrand è quindi quello tipico di un mercato perfettamente concorrenziale. Poiché la scelta (strategia) dominante per entrambe le imprese è la fissazione di un prezzo uguale a quello del costo marginale, la quantità ottimale di offerta per un duopolista à la Bertrand è definita dall’equazione:

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0P =

ovvero

( ) 0B Aa bQ bQ− − =

che risolta in Qa, dà

A aQ

b=

La competizione à la Bertrand in presenza di prodotti differenziati rappresenta un’ipotesi meno improbabile e più interessante. Si ipotizzi che due imprese oligopolistiche A e B producano due prodotti differenziati in senso orizzontale con costi variabili:

vC c Q= ⋅

e domanda espressa dalle equazioni

A A B

B B A

Q a bP P

Q a bP P

= − +

= − +

Le equazioni indicano che la quantità domandata e vendibile dalle due imprese decresce – ma non si annulla – all’aumentare del prezzo praticato dal concorrente. Secondo l’ipotesi di Bertrand, ognuna delle imprese fissa il prezzo che le prospetta il massimo profitto considerando come dato il prezzo praticato dalla rivale. Per esempio, l’impresa A sa che il suo profitto è dato dalla relazione:

( )

A A A

A A B A

A P Q CT

P a bP P c Q

= ⋅ − =

= ⋅ − + − ⋅

Il prezzo che le garantisce il massimo profitto è determinato dalla condizione:

2 0A B

A

d Aa bP P

dP= − + =

che risolta in Pa dà

1

2 2

A BaP P

b b= + ⋅

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10. Il mercato del lavoro Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di:

• analizzare la domanda di fattori produttivi da parte dell’impresa, nel breve e nellungo periodo; • definire i concetti di valore marginale del prodotto, ricavo marginale del prodotto e costo marginale

di un fattore produttivo; • derivare la domanda di un fattore produttivo da parte di un settore; • esaminare l’offerta di prestazioni lavorative da parte di un individuo sia in termini di partecipazione

alla forza lavoro, sia in termini di ore di lavoro; • distinguere il guadagno di trasferimento dalla rendita economica; • individuare l’equilibrio del mercato del lavoro e gli ostacoli che ne impediscono il raggiungimento; • spiegare l’influenza della fissazione di un salario minimo sull’occupazione; • indicare l’effetto di un aumento di salario sulla scelta della tecnica di produzione; • definire il concetto di capitale umano; • classificare i diversi tipi di discriminazioni del lavoro; • valutare il ruolo dei sindacati nel mercato del lavoro;

Anche le più progredite società contemporanee non garantiscono adeguate opportunità di lavoro a tutti i cittadini disposti a lavorare. Come si spiegano questi fenomeni del mondo reale? La risposta a ognuno dei problemi prima elencati dipende dalla domanda e dall’offerta di lavoro e dalla loro interazione nel mercato del lavoro. Il mercato del lavoro – così come quello del capitale e delle risorse naturali – è un tipico mercato di un fattore produttivo. Gran parte dei concetti e degli schemi analitici relativi al mercato del lavoro si applica altresì ai mercati degli altri fattori di produzione. La teoria e l’analisi dei mercati dei fattori produttivi non sono sostanzialmente diverse da quelle dei mercati dei prodotti. Un importante problema sottende l’analisi dei mercati dei fattori di produzione. Che cosa determina la scelta della tecnica dei fattori di produzione utilizzata dalle imprese per produrre beni e servizi? Un’importante differenza tra l’analisi dei mercati dei fattori produttivi e l’analisi dei prodotti riguarda la natura e le determinanti della domanda. La domanda di un fattore di produzione – come il lavoro – è una domanda derivata:

• la domanda di un fattore produttivo è una DOMANDA DERIVATA perché dipende dalla domanda del prodotto per la cui realizzazione il fattore è tecnicamente necessario;

Dal lato dell’offerta, è necessario distinguere l’offerta di fattori produttivi a livello di un intero sistema macroeconomico (ad esempio l’intera economia italiana) dall’offerta di fattori produttivi a livello di un’impresa individuale o di un singolo settore. Per esempio, nel breve periodo l’offerta di personale specialistico è – a livello macroeconomico – sostanzialmente anelastica, in virtù dei tempi e dei costi necessari per la formazione. Tuttavia, a livello di singole imprese o settori l’offerta di queste prestazioni lavorative è sostanzialmente elastica al salario. Infatti il personale specialistico può scegliere tra molte offerte di lavoro. In condizioni di breve periodo, l’offerta di fattori produttivi è sostanzialmente in elastica al prezzo. Tuttavia, nel lungo periodo, l’offerta di fattori tende a diventare elastica. Attraverso l’analisi dell’interazione tra domanda e offerta è possibile determinare prezzo e quantità di equilibrio in differenti mercati dei fattori produttivi. Nel mercato del lavoro, il prezzo del lavoro è il saggio salariale, ovvero il salario per unità di lavoro (ora o giornata lavorativa). Il saggio salariale è sufficientemente flessibile da assicurare l’equilibrio nel mercato del lavoro, anche in presenza di rilevanti cambiamenti della domanda dei prodotti e quindi dei fattori di produzione. Questo capitolo analizza le tipologie delle differenze – per sesso, età, istruzione, esperienza, abilità e sindacalizzazione – tra i lavoratori e i loro effetti sulla remunerazione delle loro prestazioni lavorative. Se i saggi salariali sono commisurati alla produttività marginale del lavoro, le differenze di produttività giustificano l’esistenza di differenziali salariali e questi ultimi possono essere considerati come effetti di discriminazioni tra i lavoratori.

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10.1 La domanda di fattori produttivi da parte di un’impresa nel lungo periodo

La scelta del volume di produzione da parte di un’impresa si riflette sulla domanda di fattori produttivi. Un importante anello di collegamento tra volume di produzione e domanda di fattori produttivi è la scelta – da parte dell’impresa – della tecnica produttiva più efficiente tra quelle offerte dalla tecnologia disponibile. La curva dei costi medi e totali di lungo periodo di produzione di un bene o servizio rappresenta il costo minimo al quale è possibile produrre ogni realizzabile volume di produzione. Il costo medio o totale minimo di produzione di un determinato bene o servizio dipende dalla funzione di produzione, ovvero dalla tecnologia disponibile, e dai prezzi dei fattori produttivi tecnicamente necessari.

Q=quantità di prodotto

K=capitale L=lavoro Pk=prezzo del capitale

Pl=prezzo del lavoro

CT=costo totale

Tecnica A 100 4 4 320 300 2480 Tecnica B 100 2 6 320 300 2440 Tecnica A 100 4 4 320 340 2640 Tecnica B 100 2 6 320 340 2680

La tecnica A è caratterizzata da un rapporto tra capitale (K) e lavoro (L) pari a 1. La tecnica B ha un rapporto tra capitale (K) e lavoro (L) pari a 1/3. A parità di quantità prodotta (Q=100, la tecnica A è quindi più capitalistica della tecnica B, ossia è caratterizzata da un più elevato rapporto K/L. Questo semplice esempio illustra un principio generale. Se un dato volume di produzione può essere realizzato con tecniche caratterizzate da diversi rapporti K/L, un aumento del prezzo relativo del lavoro rispetto al capitale induce le imprese a passare da una tecnica con un basso rapporto K/L a una con un più alto rapporto K/L. In altri termini, le imprese hanno convenienza a ridurre la domanda del fattore produttivo il cui prezzo relativo è aumentato. Nel lungo periodo, un aumento del saggio salariale riduce la quantità domandata di lavoro da parte dell’impresa per due ragioni: in primo luogo, l’operare del principio di sostituzione incentiva l’impresa ad adottare tecniche con un più elevato rapporto capitale/lavoro. In secondo luogo, il conseguente aumento del costo marginale induce l’impresa a ridurre la produzione e l’offerta e quindi la quantità domandata di tutti i fattori produttivi. La figura rappresenta lo spostamento verso l’alto della curva del costo marginale di lungo periodo (LMC) di un’impresa, in seguito all’aumento del saggio salariale. L’aumento del costo marginale induce l’impresa a restringere la produzione da A a B. Se l’impresa fronteggiasse una curva di domanda meno elastica di quella infinitamente elastica DD, lo stesso aumento del costo marginale indurrebbe una minor riduzione della produzione da A a C.

10.2. La domanda di lavoro da parte di un’impresa nel breve periodo

Nel breve periodo, l’impresa ha uno o più fattori fissi di produzione. Ci si propone ora di analizzare la domanda di un fattore di produzione variabile (il lavoro) da parte di un’impresa che disponga di una data quantità di un altro fattore (il capitale), il cui costo è quindi fisso. La tabella presenta le informazioni necessarie per determinare il comportamento razionale di un’impresa che – nelle condizioni ipotizzate – debba scegliere la quantità di lavoro da acquisire a scopo produttivo. Dalle colonne (1) e (2) si calcola il prodotto marginale del lavoro, ossia l’incremento di produzione che l’impresa può realizzare con l’impiego di una unità addizionale di lavoro. Poiché l’impresa dispone di una quantità fissa di capitale (per esempio, K=3 macchine), il prodotto marginale del lavoro aumenta fino al terzo lavoratore. Oltre questa quantità di lavoro opera la legge dei rendimenti decrescenti dei fattori variabili. Si supponga che – per scegliere – la quantità di lavoratori da assumere – l’impresa applichi il calcolo marginalistico di convenienza, ossia valuti il costo e il ricavo marginalistico di ogni lavoratore addizionale.

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L numero di lavoratori

Q quantità prodotta

MPl prodotto

marginale del lavoro

MVPl valore

marginale del MPl

W saggio salariale

Variazione del profitto

0 0 1 0,8 0,8 400 300 100 2 1,8 1,0 500 300 200 3 3,1 1,3 650 300 350 4 4,3 1,2 600 300 300 5 5,4 1,1 550 300 250 6 6,3 0,9 450 300 150 7 7,0 0,7 350 300 50 8 7,5 0,5 250 300 -50

La tabella ipotizza che l’impresa operi in condizioni perfettamente concorrenziali sia nel mercato di vendita del prodotto sia nel mercato di approvvigionamento della forza-lavoro. Quindi il saggio salariale è W=300 e il prezzo di vendita è P=500.

• Il VALORE MARGINALE DEL PRODOTTO DEL LAVORO è la variazione di ricavo totale che l’impresa può realizzare dalla vendita del prodotto ottenuto grazie all’impiego di un lavoratore addizionale.

Poiché l’impresa vende il prodotto in condizioni di mercato perfettamente concorrenziale, il valore marginale del prodotto del lavoro è semplicemente dato dal prodotto marginale del lavoro moltiplicato per il prezzo di vendita del prodotto corrente sul mercato. Quindi:

L LMVP MP P= ⋅

Sottraendo dal valore marginale del prodotto del lavoro di ogni addetto addizionale il saggio salariale, si ottiene il profitto marginale che l’impresa può ottenere da ogni lavoratore addizionale. Il criterio di comportamento razionale dell’impresa perfettamente concorrenziale nello scegliere la quantità di lavoro da domandare è quindi quello di aumentare la quantità fintanto che

LMVP W>

e viceversa. La figura rappresenta il risultato di questo criterio allorché il prodotto marginale del lavoro impiegato dall’impresa sia continuamente decrescente. Poiché l’impresa perfettamente concorrenziale può acquisire lavoro addizionale a un saggio salariale costante, la quantità ottimale di lavoro per l’impresa è determinata dall’intersezione tra la retta orizzontale corrispondente a W e la curva discendente del valore marginale del prodotto del lavoro. Poiché la quantità ottimale di lavoro domandata dall’impresa perfettamente concorrenziale è determinata dalla condizione

LMVP W=

la curva del valore marginale del prodotto del lavoro è altresì la curva di domanda del lavoro da parte dell’impresa. POTERE MONOPOLISTICO E MONOPSONISTICO. La teoria precedentemente esposta riguarda il comportamento di un’impresa che opera in condizioni di mercato perfettamente concorrenziali sia quando vende il prodotto sia quando acquista il fattore produttivo. Le sue conclusioni e i criteri di comportamento possono essere facilmente adattati a un’impresa che abbia potere monopolistico nel mercato di vendita del prodotto e/o potere monopsonistico nel mercato di acquisto di un fattore produttivo.

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• Un’impresa con POTERE MONOPOLISTICO fronteggia una curva di domanda del suo prodotto negativamente inclinata rispetto al prezzo. L’impresa è quindi in grado di scegliere il prezzo al quale vendere (ovvero è un price-maker), ma se vuole vendere un’unità in più deve ridurre il prezzo. D’altro canto, un’impresa con POTERE MONOPSONISTICO fronteggia una curva di offerta dei fattori produttivi (per esempio, del lavoro) positivamente inclinata rispetto al loro prezzo (per esempio, il saggio salariale). Per acquisire più fattori produttivi (lavor), l’impresa deve quindi pagare una remunerazione (saggio salariale) maggiore. In questa situazione, il costo marginale dei fattori (del lavoro) eccede il prezzo degli stessi (il salario);

Per un’impresa che ha potere monopolistico nel mercato di vendita del prodotto è, invece, più corretto definire ricavo marginale del prodotto del lavoro la variazione del ricavo totale realizzata attraversao la vendita del prodotto marginale di un’unità addizionale di lavoro.

• Il RICAVO MARGINALE DEL PRODOTTO DEL LAVORO è il ricavo addizionale che un’impresa (con potere monopolistico) ottiene vendendo il prodotto addizionale realizzato con l’impiego di un lavoratore in più;

RICAVO MARGINALE DEL PRODOTTO DEL LAVORO =

LMRP

Quindi il ricavo marginale del prodotto del lavoro si calcola moltiplicando il prodotto marginale del lavoro per il ricavo marginale ottenibile dalla vendita della produzione addizionale realizzata. Poiché – per un’impresa con potere monopolistico – il ricavo marginale è inferiore al prezzo, la curva del ricavo marginale del prodotto del lavoro ha un andamento decrescente e inferiore a quello della curva del valore marginale del prodotto del lavoro. Analogamente, se un’impresa ha potere monopsonistico in quanto acquirente di un fattore produttivo, occorre considerare che – fronteggiando una curva di offerta crescente del fattore – il prezzo che paga per acquisire il fattore non è il costo marginale di ogni unità addizionale di quest’ultimo. Il costo marginale di un’unità addizionale del fattore lavoro è – per un’impresa con potere monopsistico sul mercato del fattore – superiore al saggio salariale o prezzo medio che l’impresa paga per ogni unità di lavoro. Infatti l’impresa – per acquisire un’unità addizionale di lavoro – deve pagare un saggio salariale maggiore anche a quei lavoratori già occupati (inframarginali). Quindi, la curva di offerta del lavoro rappresenta il saggio salariale o il costo medio di ogni unità di lavoro. Se l’impresa con potere monopsistico sul mercato del lavoro non può discriminare perfettamenteil saggio salariale, la curva del costo marginale del lavoro eccede la curva di offerta del lavoro e cresce al crescere della quantità di lavoro utilizzata:

L LMC SS≥

dove L

MC è il costo marginale del lavoro e L

SS è la curva

dell’offerta di lavoro. Il criterio generale di comportamento di un’impresa – mirante alla massimizzazione del profitto – che debba scegliere la quantità di lavoro da acquistare e utilizzare nella produzione è del tutto simmetrico a quello relativo alla scelta della quantità di prodotto da offrire sul mercato. L’impresa deve scegliere la quantità di lavoro che soddisfa la condizione:

L LMC MRP=

Se l’impresa non ha potere monopolistico e/o monopsistico – ovvero, subisce il prezzo del prodotto che vende e il saggio salariale del lavoro che acquista – la condizione di cui sopra equivalealla seguente:

LW MVP=

Nella figura sono individuati i 4 casi:

• L1, un’impresa senza potere monopolistico e monopsonistico; • L3, un’impresa con potere monopolistico;

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• L2, un’impresa con potere monopsonistico; • L4, un’impresa con potere monopolistico e monopsonistico.

CAMBIAMENTI NELLA DOMANDA DI LAVORO DA PARTE DELL’IMPRESA. Per un’impresa perfettamente concorrenziale, la condizione che individua la quantità di lavoro L ottimale:

LMVP W=

può essere riscritta nella formula equivalente:

L

WMP

P= .

La relazione indica che un’impresa, perfettamente concorrenziale, mirante al massimo profitto debba scegliere la quantità di lavoro da impiegare nel processo produttivo che garantisce l’uguaglianza tra il saggio salariale reale e il prodotto marginale fisico del lavoro. Il prodotto marginale fisico o reale dipende dalla tecnologia e dalla quantità disponibile dei fattori fissi. Il saggio salariale reale dipende dal saggio salariale nominale e dal prezzo del prodotto che l’impresa offre sul mercato. Quindi cambiamenti percentualmente identici di questi ultimi non modificano il saggio salariale reale e non hanno effetto sull’occupazione di lavoro da parte dell’impresa. RIPRENDERE DA 10.3

13. Introduzione all’economia del benessere Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di:

• comprendere il ruolo dei giudizi di valore nell’economia di benessere; • distinguere tra equità orizzontale ed equità verticale; • definire il concetto di efficienza paretiana e dimostrare come la Mano Invisibile possa rendere

efficienti i mercati di concorrenza perfetta; • analizzare le cause di distorsioni allocative che portano allo spreco di risorse; • sviluppare il concetto di efficienza di second best, ossia di allocazione efficiente in presenza di

distorsioni non eliminabili; • spiegare perché le esternalità portano a inefficienze allocative ed esaminare come la distribuzione

dei diritti di proprietà possa risolvere le distorsioni; • discutere i fallimenti del mercato che producono inquinamento e congestione; • considerare le inefficienze derivanti dalla presenza di rischio, mancanza di sicurezza, assenza di

qualità e spiegare come questi aspetti rappresentino ulteriori cause di fallimento del mercato; L’ECONOMIA DEL BENESSERE è la branca dell’economia che si occupa di problemi normativi. Il suo fine non è descrivere come l’economia funziona,bensì come possa funzionare meglio. Due sono i temi ricorrenti:

1. il primo è quello dell’efficienza allocativa. L’economia trae il massimo dalle sue risorse scarse o le sperpera?

2. il secondo è quello dell’equità. Quanto è giusta o equa la distribuzione delle risorse tra i differenti individui o gruppi sociali di una società?

13.1. Equità ed efficienza

EQUITA’. Gli economisti usano differenti concetti di equità o giustizia.

• L’EQUITA’ ORIZZONTALE è il pari trattamento di persone che si trovano nelle stesse condizioni. L’EQUITA’ VERTICALE consiste nel trattamento diverso di persone diverse al fine di ridurre le conseguenze di differenze innate.

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Quale dei due criteri di equità sia migliore o più desiderabile dipende dai giudizi di valore. ALLOCAZIONE EFFICIENTE DELLE RISORSE. Per allocazione delle risorse economiche si intende la precisa descrizione di chi fa che cosa e di chi ne riceve i frutti. Le allocazioni realizzabili dipendono dalla tecnologia e dalle risorse disponibili. Il valore finale di ogni allocazione dipende dai gusti dei consumatori che determinano il valore che le persone attribuiscono alle risorse. Nel tentativo di separare equità da efficienza, la moderna economia del benessere utilizza il concetto di efficienza paretiana:

• dati i gusti dei consumatori, le risorse e la tecnologia, un’allocazione è EFFICIENTE IN SENSO PARETIANO se non vi è altra allocazione realizzabile che migliori la condizione di qualcuno senza peggiorare la condizione di qualcun altro.

Si supponga che, riorganizzando la produzione, il dittatore possa realizzare una qualunque delle combinazioni produttive che si trovano al di sotto della o sulla frontiera MN. Da una posizione al di sotto della frontiera è sempre possibile migliorare paretianamente l’efficienza, spostandosi verso nord-est, verso la frontiera. Quindi ogni punto al di sotto della frontiera è Pareto-inefficiente. Invece tutti i punti sulla frontiera sono Pareto-efficienti. Iniziando da un punto come C, è possibile migliorare la condizione di una persona soltando peggiorando quella di un’altra. Siccome non è possibile un miglioramento paretiano, tutte le combinazioni come C che si trovano sulla frontiera sono Pareto-efficienti. Quale tra i punti Pareto-efficienti sia più desiderabile dipende dai giudizi di valore del dittatore sull’importanza relativa dell’utilità.

13.2. Concorrenza perfetta ed efficienza paretiana

Un libero mercato si muove in autonomia verso l’inefficienza paretiana o deve essere guidato con interventi governativi? Si può provare che, se ogni mercato è perfettamente competitivo, l’equilibrio risultante sia Pareto-efficiente. Questa affermazione evoca l’operare della Mano Invisibile di Adam Smith, il fondamento della moderna economia del benessere. L’EQUILIBRIO COMPETITIVO NEL LIBERO MERCATO. Si supponga che esistano molti produttori e molti consumatori, ma solo due categorie di beni: pasti e film. Ogni mercato è libero, non regolamentato e perfettamente competitivo. Si supponga che, in equilibrio, il prezzo dei pasti sia 5 euro e il prezzo dei film 10. Infine, si ipotizzi che il lavoro sia il fattore variabile e che i lavoratori possano spostarsi liberamente dall’occupazione nell’industria cinematografica a quello dell’industria della ristorazione e viceversa. La dimostrazione che l’equilibrio concorrenziale è efficiente in senso paretiano è articolata in sette passaggi:

1. per i consumatori, l’utilità marginale dell’ultimo film è pari a 10 euro. Se i consumatori traggono dai film un’utilità marginale minore (maggiore) del prezzo di 10 euro, hanno convenienza ad acquistare meno (più) film. Analogamente, l’utilità marginale dell’ultimo pasto è pari a 5 euro. Quindi i consumatori possono scambiare 2 pasti (10 euro di utilità) con 1 film (5 euro di utilità) senza variare l’utilità complessiva;

2. poiché ogni impresa, in un mercato perfettamente concorrenziale, fissa un prezzo uguale al costo marginale, il costo marginale dell’ultimo pasto prodotto è 5 euro e dell’ultimo film prodotto è 10 euro;

3. in equilibrio, il fattore variabile (il lavoro) riceve lo stesso saggio salariale in entrambi i settori. Altrimenti vi è un incentivo per i lavoratori a trasferirsi all’occupazione che propone una maggiore remunerazione;

4. il costo marginale di produzione dell’output in entrambi i settori è pari al rapporto tra salario e produttività marginale fisica del lavoro. Salari più elevati aumentano il costo marginale, ma una più elevata produttività marginale del lavoro implica che un minor numero di lavoratori sia necessario per incrementare la produzione, con ciò riducendo il costo marginale;

5. poiché i salari sono uguali nei due settori e il costo marginale dei pasti è pari a 5 euro, metà del costo marginale dei film, la produttività marginale fisica del lavoro, nel settore della ristorazione, deve essere due volte maggiore di quella del settore cinematografico;

6. quindi, riducendo la produzione nel settore cinematografico di un’unità e trasferendo lavoro al settore della ristorazione, l’output di quest’ultimo settore aumenta di due unità. La produttività marginale fisica del lavoro è due volte maggiore in questo settore che in quello cinematografico. Una

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riallocazione delle risorse tra i due settori rende possibile alla società di scambiare due pasti per un film;

7. il punto 1 prevede che i consumatori possano scambiare due pasti per un film senza variazioni nella loro utilità totale. Il punto 6 afferma che, riallocando il lavoro, i produttori scambiano un output di due pasti per un film. Quindi, non c’è riallocazione che consenta al sistema economico in generale di migliorare la sua situazione. Poiché non è possibile nessun miglioramento paretiano, la situazione iniziale – di equilibrio competitivo in entrambi i mercati – è Pareto-efficiente.

Si noti il ruolo cruciale che giocano i prezzi nella considerazione finale. I prezzi hanno un doppio ruolo. Prima di tutto assicurano che l’iniziale equilibrio competitivo sia effettivamente un equilibrio. Quindi i prezzi garantiscono quindi che l’equilibrio competitivo sia un’allocazione realizzabile. Tuttavia, nell’equilibrio i prezzi svolgono un secondo ruolo. Consumatori e produttori sono price-taker e non possono in alcun modo influenzare il prezzo. Attraverso le loro azioni individuali di fronte a prezzi determinati esogenamente, i consumatori automaticamente stabiliscono che un film possa essere scambiato con due pasti senza nessuna variazione dell’utilità totale. Così, ogni produttore ponendo semplicemente il suo costo marginale pari al prezzo dell’output, assicura che il costo marginale dei film sia due volte quello dei pasti. Al sistema economico nel suo complesso è necessario il doppio delle risorse per produrre un film in più. Riallocando le risorse tra le due produzioni, cioè trasferendo lavoro, il sistema può scambiare due pasti con un film, esattamente il trade-off che lascia immutata l’utilità complessiva del consumatore. Perciò, come se fossero governati da una Mano Invisibile, i prezzi guidano i consumatori e i produttori, che agiscono egoisticamente, a un’allocazione delle risorse efficiente in senso paretiano. Non è possibile migliorare la condizioni di qualcuno, senza che la condizione di qualcun altro peggiori. EQUITA’ ED EFFICIENZA. Si è visto come vi possano essere un’infinità di allocazioni Pareto-efficienti, ognuna con una diversa distribuzione di utilità tra differenti individui della collettività. La teoria economica ha scoperto che un equilibrio concorrenziale in tutti i mercati genera una definita allocazione delle risorse Pareto-efficiente. Che cosa la determina? Gli individui hanno differenti abilità innate, differente capitale umano e finanziario. Queste differenze consentono agli individui di percepire diversi livelli di reddito e influiscono anche sui modelli di consumo. Il Brasile, con una distribuzione molto diseguale di reddito e ricchezza, ha un’alta domanda di beni di lusso come i collaboratori domestici. In Danimarca, con una distribuzione più omogenea di reddito e ricchezza, quasi nessuno può permettersi un collaboratore domestico. La distribuzione iniziale di abilità, capitale umano e ricchezza, influenzando i redditi potenziali, influenza anche i comportamenti di consumo. Differenti comportamenti implicano differenti curve di domanda di beni e servizi e determinano differenti quantità e prezzi di equilibrio. Per principio, variando la distribuzione iniziale dei redditi potenziali, si potrebbe indurre l’economia a preferire una delle allocazioni Pareto-efficienti possibili in equilibrio concorrenziale. Prima di concludere che il libero mercato è un meccanismo perfettamente funzionante, bisogna ricordare che il sistema dei mercati perfettamente concorrenziali porta – in condizioni ben definite – a un’allocazione efficiente delle risorse. È proprio la definizione di quali siano le condizioni nelle quali un sistema di mercati opra efficientemente a differenziare i punti di vista politici.

13.3. Distorsioni e second best

L’equilibrio concorrenziale è Pareto-efficiente poiché le azioni dei produttori (che uguagliano il prezzo al costo marginale) e dei consumatori (che eguagliano l’utilità marginale al prezzo) garantiscono che il costo marginale della produzione di un bene eguagli il beneficio marginale che ne traggono i suoi consumatori. Vi è una DISTORSIONE ALLOCATIVA quando il costo marginale sociale della produzione di un bene non equivale al beneficio (utilità) marginale sociale derivante dal suo consumo; Si può ipotizzare che il Governo possa usare imposte e trasferimenti di reddito per ridistribuire redditi potenziali e quindi realizzare gli obiettivi prefissati, lasciando al mercato il compito di allocare in maniera efficiente le risorse. Questa soluzione potrebbe essere irrealizzabile.

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LA TASSAZIONE COME DISTORSIONE. Si supponga che il Governo desideri finanziare sussidi per i poveri. A questo scopo il Governo deve tassare il reddito o la proprietà dei ricchi. Si ipotizzi che vi siano solo due beni, i film e i pasti. Si ipotizzi che tutti comprino pasti, ma che solo i ricchi si possano permettere di andare al cinema. Se il Governo desidera raccogliere entrate per sovvenzionare i poveri, deve tassare i film.

L’introduzione di una imposta fa sì che i consumatori paghino un prezzo al lordo della stessa superiore a quello, al netto della stessa, incassato dai produttori di spettacoli cinematografici. La differenza tra i due prezzi è esattamente pari all’ammontare dell’imposta per ogni unità di film venduta. Quindi i consumatori eguagliano il prezzo al lordo dell’imposta al beneficio marginale che ricevono dalla visione del film, ma i produttori eguagliano il costo marginale del film al prezzo al netto dell’imposta. Così in un equilibrio concorrenziale, il sistema dei prezzi non riesce a eguagliare il costo marginale sociale della produzione di spettacoli cinematografici al beneficio

marginale sociale del loro consumo. Si ipotizzi che il Governo introduca un’imposta sul reddito. Le imprese eguagliano il valore marginale del prodotto del lavoroal saggio salariale lordo, ma i lavoratori eguagliano il salario al netto dell’imposta al valore marginale del tempo libero sacrificato per lavorare un’ora addizionale. L’imposta sul reddito fa sì che il valore marginale del prodotto del lavoro – ossia il beneficio sociale di un’ora di lavoro addizionale – ecceda il valore marginale del tempo libero sacrificato al fine di lavorare. Ciò significa inefficienza. Se per un giudizio di valore, il Governo reputa iniqua l’attuale distribuzione del reddito, introduce imposte in capo a taluni per sovvenzionare altri. Introdurre un’imposta comporta una distorsione. Il sistema dei prezzi, operando attraverso il libero mercato, non eguaglia più i benefici marginali dei beni tassati ai loro costi marginali. L’equilibrio risultante è allocutivamente inefficiente. La società sta sprecando risorse producendo livelli sbagliati di output di diversi beni. Quanto più iniqua è considerata la distribuzione del reddito stabilita dal libero mercato tanto piùè probabile che il Governo giudichi l’effetto discorsivo delle impostecome un inevitabile prezzo da pagare per assicurare una più equa distribuzione di reddito e ricchezza. IL SECOND BEST. Si supponga invece che venga introdotta un’imposta sui pasti. Che cosa accade nel settore dei film? Se si potesse abolire l’imposta sui pasti, si potrebbe tornare a un equilibrio competitivo Pareto-efficiente in entrambi i mercati. Un’allocazione di questotipo è detta di first best, per sottolineare che è pienamente efficiente. Se invece non è possibile fare a meno dell’imposta sui pasti, vi è un modo per allocarele risorse in maniera efficiente, assicurando che almeno non ci sia distorsione nel mercato dei film? In un famoso articolo, Lipsey e Lancaster dimostrano che non è possibile. Poiché i consumatori di pasti eguagliano l’utilità marginale dei pasti al prezzo comprensivo dell’imposta che pagano, la valutazione sociale dell’ultimo pasto eccede il prezzo netto dell’imposta al quale i produttori di pasti eguagliano il loro costo marginale. Così la curva del costo marginale privato dei film riflette il valore delle risorse impiegate, ma non riflette più il costo opportunità o l’utilità sociale dei pasti non prodotti. Essa sottovaluta il valore sociale dei pasti non prodotti. Posto che DD è la curva di domanda per i film e riflette l’utilità marginale dei film per i consumatori. Che MPC è il costo marginale privato per i produttori di film che rappresenta la remunerazione dei fattori produttivi impiegati nella produzione dei pasti e il prezzo al netto dell’imposta fatta pagare ai produttori. Che MSC è il costo marginale sociale dell’utilizzo di queste risorse per produrre film invece che pasti, il quale eccede il costo marginale privato dei produttori poiché i benefici per i consumatori di un pasto addizionale eccedono il costo di un pasto addizionale per i produttori. In assenza di imposte sui film, l’equilibrio concorrenziale si ha in E1 per un output Q1. Questo significa che il costo marginale sociale eccede i benefici marginali sociali. Per eguagliare il costo marginale sociale dei film al beneficio marginale sociale è necessario impore una

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tassa FE anche sui film. In questo caso, i produttori concorrenziali di film produrrebbero Q ricevendo un prezzo netto di P uguale al costo marginale. I consumatori pagherebbero P1 e quindi in E il costo marginale sociale e il beneficio marginale sociale sarebbero uguali. Al contrario dell’allocazione first best, dove si rimuovono tutte le cause di distorsione e si raggiunge la piena efficienza, si è ora applicato il principio del second best:

• un’ALLOCAZIONE DI FIRST BEST presuppone l’assenza di distorsioni. Un’ALLOCAZIONE DI SECOND BEST è il risultato più efficiente che è possibile raggiungere compatibilmente con le distorsioni ineliminabili presenti nel mercato;

13.4. I fallimenti del mercato

In assenza di distorsioni, l’equilibrio perfettamente concorrenziale assicura l’efficienza allocativa. L’espressione fallimenti del mercato indica tutte le circostanze nelle quali l’equilibrio di mercato non corrisponde a un’efficiente allocazione delle risorse. Il fallimento del mercato sta a indicare che le distorsioni impediscono alla Mano Invisibile di allocare efficientemente le risorse. Di seguito elenchiamo le possibili cause di distorsioni che portano a un fallimento del mercato:

• IMPERFEZIONI CONCORRENZIALI. È nella concorrenza perfetta che le imprese uguagliano il prezzo al costo marginale e il prezzo rappresenta l’utilità marginale del consumatore. In mercati di concorrenza imperfetta, i produttori uguagliano il costo marginale al ricavo marginale, che è minore del prezzo a cui l’ultima unità prodotta viene venduta. Poiché i consumatori uguagliano il prezzo al beneficio marginale che traggono dall’ultima unità, in generale nei mercati concorrenziali imperfetti, il beneficio marginale eccede il costo marginale. In questi mercati le imprese tendono a produrre meno rispetto a un mercato perfettamente concorrenziale. Un aumento dell’output comporterebbe un aumento del surplus dei consumatori e dei produttori;

• PRIORITA’ SOCIALI COME L’EQUITA’; • ESTERNALITA’. Le esternalità sono, per esempio, il rumore o l’inquinamento. L’azione di una

persona ha costi e benefici diretti su un’altra persona; costi e benefici dei quali il mercato non tiene conto. Cioè non esiste, per esempio, un mercato che assicuri che i benefici marginali dell’inquinamento siano pari ai costi marginali di quest’ultimo;

• BENI PUBBLICI, BENI FUTURI E INFORMAZIONE. Vi sono beni – beni pubblici, beni futuri e l’informazione – le cui caratteristiche non consentono ai mercati di esistere o di funzionare efficacemente;

13.5. Le esternalità

• vi è un’ESTERNALITA’ ogni qual volta la produzione o il consumo di un bene incide sulla produzione

o sul consumo di un altro bene e questo effetto non è valutato dal prezzo; Si supponga che un’impresa chimica scarichi rifiuti in un lago, inquinando l’acqua e imponendo costi addizionali ai pescatori o ai bagnanti. In assenza di un mercato dei diritti di inquinamento, l’impresa può inquinare senza sostenere il costo. Non contabilizzando il costo marginale dell’inquinamento imposto a pescatori e bagnanti, il prezzo che l’impresa pratica non considera il costo dell’esternalità che produce. Al contrario se un proprietario ristruttura la facciata della sua casa, abbellisce la via a beneficio dei vicini. Egli spende in opera di ristrutturazione fino al punto in cui il proprio beneficio marginale è pari al costo marginale dei materiali e del tempo impiegato. I costi marginali sono anche quelli sociali, ma i benefici marginali sociali eccedono quello privato del proprietario. In entrambi i casi vi è una divergenza tra costi e benefici privati e sociali. Un libero mercato non tiene conto – se non esiste nessuna forma di contrattazione relativa agli stessi – degli effetti indiretti su altre persone. DIVERGENZA TRA COSTI E BENEFICI PRIVATI E SOCIALI. Si supponga che un’industria chimica scarichi resti di lavorazuibe in un fiume e che il quantitativo di inquinante sia proporzionale al volume di produzione. A valle del fiume opera una serie di imprese agricole e imprese alimentari che utilizzano l’acqua come fattore produttivo nella produzione di salse.

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Per quantitativi limitati di sostanze chimiche prodotte, l’inquinamento risulta irrilevante. Ma se gli scarichi aumentano, il costo dell’inquinamento inevitabilmente sale. Le imprese agricole e alimentari devono preoccuparsi della qualità delle acque e adottare impianti di purificazione delle stesse. Si ipotizza, per semplicità, che il costo marginale privati (MPC) di produzione sia costante. Il divario tra costo marginale privato e costo marginale sociale (MSC) riflette il costo marginale imposti agli altri produttori da un’unità in più di esternalità da inquinamento che il produttore chimico trascura. La curva DD indica quanto i consumatori sono disposti a pagare per i prodotti chimici. Se il settore è price-taker, l’equilibrio è in E e la quantità di equilibrio è pari a Q. Tuttavia, per un output Q, il costo marginale sociale (MSC) eccede il beneficio marginale sociale misurabile sulla curva di domanda DD. Quindi solo riducendo la quantità prodotta si consentirebbe alla società di risparmiare costi sociali in misura maggiore rispetto ai benefici sociali cui dovrebbe rinunciare. L’output socialmente efficiente è Q1 ed E1 è un equilibrio efficiente. La distanza verticale EF mostra la perdita marginale sociale imposta dalla produzione Q. Producendo fino a Q la società perde un surplus pari al triangolo E1EF, che misura il costo sociale del fallimento del mercato causato dalla produzione di un’esternalità negativa comel’inquinamento.

Simmetricamente, un’esternalità nel consumo comporta un divario tra beneficio marginale privato e beneficio marginale sociale. Per esempio dipingere la propria casa o realizzare un roseto in giardino, arrecano beneficio visivo anche ai vicini. In quest’esempio non esistono esternalità di produzione e perciò il costo marginale privato (MPC) coincide con il costo marginale sociale (MSC). DD rappresenta invece il beneficio marginale privato (MPB) degli abbellimenti, che incrociato ai costi privati e sociali, determina una quantità Q di materiale necessario all’abbellimento.

Con ciò i consumatori non tengono conto del valore degli abbellimenti per i vicini. Poiché esistono anche questi benefici, il beneficio marginale sociale (MSB) è maggiore del beneficio marginale privato. La quantità di prodotti socialmente efficiente è Q1 e i E1 si raggiunge l’equilibrio sociale. Quindi il libero mercato porta ad un’insufficiente quantità di equilibrio sottraendo alla società un surplus di cui potrebbe beneficiare. Anche questo triangolo sociale misura il costo sociale del fallimento del mercato che porta a un equlibrio non socialmente efficiente. DIRITTI DI PROPRIETA’ ED ESTERNALITA’.

• I DIRITTI DI PROPRIETA’ corrispondono al potere di controllo su un bene, incluso il diritto a essere ricompensati per le esternalità che quest’ultimo provoca;

I diritti di proprietà stabiliscono chi debba compensare chi, e hanno dunque un’implicazione distributiva. Non solo però sanciscono una regola distributiva, ma permettono anche di realizzare un’allocazione efficiente. Risolvono implicitamente la questione della mancanza di un mercato delle esternalità. Se una persona deve pagare oer gli effetti negativi delle sue azioni, non si verificherà più un fallimento del mercato. Due ovvie ragioni sottendono la difficoltà nel creare mercati che trattino la questione delle esternalità. La prima è attribuibile al costo dell’organizzazione di simili mercati. La seconda ragione ha a che fare con un problema di opportunismo (free-riding):

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• un OPPORTUNISTA (FREE-RIDER) è colui che, sapendo di non poter essere escluso dal consumo di un bene, non ha incentivo a pagare per l’acquisto di quel bene;

13.6. La questione ambientale

Se, per le più diverse ragioni, non c’è un mercato dei diritti di inquinamento, ci sarà sovrapproduzione degli stessi rispetto all’equilibrio sociale. Se il settore privato non riesce a imporre una modalità di internalizzazione delle esternalità negative che produce, può farlo il Governo? Introducendo un’imposta, pari alla differenza tra il costo marginale sociale e il costo marginale privato, il Governo può indurre i produttori a internalizzare il costo esterno che producono. Talvolta invece si ricorre a un intervento diverso, ovvero all’imposizione di standard che stabiliscono un limiti massimo agli inquinanti. L’INQUINAMENTO ATMOSFERICO. A seguito dell’emanazione del Clean Air Act (1956), il Governo del Regno Unito ha individuato alcune aree nelle quali è vietata l’emissione di anidride carbonica, tipico residuo della produzione di carbone. Il numero delle zone protette da tale legge è aumentato con gli anni e l’inquinamento atmosferico è diminuito in misura rilevante. Aggiungere piombo alla benzina migliora l’efficienza delle automobili. Tuttavia, l’emissione di piombo dai tubi di scarico delle autovetture è un inquinante molto pericolo per la salute. Il Governo britannico sin dal 1972 ha costantemente ridotto la quantità di piobo addizionabile alla benzina registrando una drastica diminuzione delle emissioni di piombo malgrado il consumo di benzina sia aumentato. PREZZI CONTRO QUANTITA’. Se il libero mercato inquina, si può valutare se sia meglio imporre limiti alla quantità di inquinamento o introdurre imposte per gli inquinanti con ripercussioni sul livello del prezzo di equilibrio del mercato. E’ più efficace l’intervento tramite imposte? Se ogni impresa è tassata dello stesso importo per unità marginale di inquinante, allora ciascuna eguaglia il costo marginale della riduzione dell’inquinamento al prezzo dello stesso. Un’allocazione nella quale imprese diverse abbiano diversi costi marginali di riduzione dell’inquinamento, è socialmente inefficiente. Se si potesse consentire alle imprese con minori costi marginali di riduzione dell’inquinamento di poter sopravvivere nel mercato a discapito di imprese che hanno maggiori costi, un medesimo livello di riduzione dell’inquinamento potrebbe essere raggiunto con minori oneri per la società nel suo complesso. LEZIONI DAGLI STATI UNITI. Gli Stati Uniti hanno compiuto molti passi in avanti nella definizione dei diritti di proprietà e meccanismi di prezzo in grado di ridurre l’inquinamento in maniera efficiente. Le leggi sull’aria pulita varate negli anni 1955, 1970 e 1977 impongono uno standard minimo alla qualità dell’aria e controlli sulle emissioni di particolari imprese. Un inquinatore che riesca a mantenersi al di sotto del limite riceve un credito di emissione che può rivendere all’impresa che intenda superare o inevitabilmente superi quel limite. Con ciò, l’ammontare totale di inquinamento deve permanere ento il livello massimo stabilito dal Governo federale, ma le singole imprese hanno un incentivo monetario a non inquinare, visto e considerato che esiste un vero e proprio mercato dei crediti di emissione. Gli Stati Uniti riescono dunque a controllare la quantità di inquinanti, lasciando da parte politiche di tassazione spesso indefinibili. IL CASO ITALIA. Coerentemente al modello ispiratore di tutta la normazione dell’UE basata sul principio “che inquina paga”, l’italia non è ultima nella tutela dell’ambiente. Tuttavia, la tradizione italiana è quella di una legislazione settoriale che, dalla legislazione sui beni di interesse storico artistico a quella sulle acque, ha continuato sulla strada di una legge specifica per ogni specifica forma di inquinamento. Il controllo si basa essenzialmente su livelli di inquinamento prefissati dalla legislazione centrale: superati tali limiti, scatta la sanzione di carattere civile e/o penale oltre all’obbligo di reintegrazione della salubrità dei luoghi. Esistono anche forme di tassazione – come la carbon tax – in caso di superamento di determinati livelli di emissioni di fumi da ciminiere.

13.7. Altri casi di assenza del mercato: tempo e rischio

Il presente e il futuro sono legati. I consumatori spesso limitano il consumo attuale per accrescere il consumo futuro. Le imprese spesso limitano la produzione attuale per dedicare risorse alla formazione o alla

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ricerca in previsione di futuri traguardi quantitativi e qualitativi di output. Secondo quali criteri la collettività dovrebbe pianificare la produzione odierna e quella futura? Idealmente, si dovrebbe pianificare in modo che il costo marginale sociale dei beni futuri sia pari al loro beneficio marginale sociale. Una soluzione è il mercato a termine, nel quale acquirenti e venditori firmano oggi il contratto di compravendita di una merce che verrà consegnata in data futura con pagamento contestuale del prezzo. Si ipotizzi l’esistenza di un mercato a termine relativo al rame, da consegnarsi nel 2007. In un tale mercato, gli acquirenti dovrebbero uguagliare il beneficio marginale atteso dal rame nel 2007 al prezzo concordato in pagamento nel 2007. I produttori di rame dovrebbero eguagliare il costo marginale di produzione del rame nel 2007 a questo prezzo definito oggi. Oggi esistono mercati a termine solo per alcuni beni. Vi è un mercato a termine per l’oro, ma non per le auto o le lavatrici, poiché nessuno conosce le caratteristiche del modello di auto o lavatrice che potrebbe uscire l’anno prossimo. Anche i mercati assicurativi sono mercati limitati. Il rischio è costoso perché riduce l’utilità. Le moderne società intraprendono un ammontare efficiente di attività rischiose? Mercati assicurativi completi ed efficienti consentirebbero il trasferimento del rischio dalle persone che sono avverse al rischio a persone che sono propense al rischio. Il prezzo di equilibrio o premio assicurativo di equilibrio eguaglierebbero il costo marginale e il beneficio marginale di sopportazione del rischio. Il sistema dei prezzi eguaglierebbe costi e benefici marginali delle attività rischiose. In verità, problemi di selezione avversa e azzardo morale inibiscono il perfetto funzionamento dei mercati assicurativi. Beni futuri e attività rischiose sono esempi di mercati mancanti. Come nel caso delle esternalità, creano possibili fallimenti del mercato. Un problema che limita l’esistenza di questi mercati è sicuramente l’imperfezione informativa.

13.8. Informazione imperfetta, qualità, salute e sicurezza

Il corredo informativo necessario a una qualsiasi attività può essere incompleto e imperfetto poiché è costoso raccogliere informazioni. Ciò può portare ad allocazioni inefficienti. In molti Paesi, ad esempio, sono state introdotte normative severe a tutela della salute, della sicurezza e della qualità dei posti di lavoro. Gli scopi di queste legislazioni sono duplici: incoraggiare la diffusione di informazioni che consentano ai privati di valutare costi e benefici e imporre standard atti a ridurre i rischi di lesione o morte nell’ambiente di lavoro. LA DIFFUSIONE DELLE INFORMAZIONI. Se l’informazione fosse acquisibile senza costi, ci sarebbe perfetta consapevolezza e si eviterebbe la distorsione dell’equilibrio. In effetti dal guadagno derivante dall’eliminazione del costo sociale dell’imperfetta informazione bisogna sottrarre il costo delle risorse che la società utilizza per scoprire e diffondere le informazioni utili. L’attività di certificazione della salubrità e della qualità non deve essere necessariamente svolta dal Governo, bensì da autorità indipendenti e dotate degli idonei strumenti di valutazione. Un certificatore dovrebbe poi operare in base a standard. Questi standard implicano esternalità e problemi distributivi. Sebbene una società possa delegare a un certificatore la fissazione di uno standard, è forse preferibile fissarelo standardex ante, prima di abilitarlo alla certificazione. STANDARD VINCOLANTI. È di interesse pubblico conoscere le qualità e i pericoli associati al consumo di determinati beni, soprattutto quando le conseguenze di questo consumo potrebbero rivelarsi irrimediabili. Imponendo standard, un Governo impedisce alle imprese di minimizzare i costi con l’utilizzo di tecniche di produzione non sicure e che potrebbero rivelarsi dannose per la collettività. Anzi, imponendo standard, il Governo richiede costi addizionali alle imprese. Più spesso, l’imposizione di standard riflette puri giudizi di valore basati su intenti distributivi. Basti pensare a tutte le tesi che sottendono il rispetto della vita umana. Molti politici sostengono che la vita umana abbia un valore superiore ai calcoli economici e che le debba essere data assoluta priorità in qualsiasi decisione. Un economista potrebbe sollevare due eccezioni. In primo luogo, è quasi del tutto irrealizzabile una tutela completa della vita umana. È semplicemente troppo costoso tentare di eliminare tutti i rischi di una morte prematura e/o accidentale. In ogni caso, una società dovrebbe valutare la tutela della vita umana adottando un’efficiente allocazione di norme sulla salute e sicurezza fino al punto in cui il costo marginale sociale dell’ultia vita salvata è pari al beneficio marginale sociale di questa vita.

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16. Introduzione alla macroeconomia Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di:

• riconoscere che la macroeconomia consiste nello studio dell’intero sistema economico; • comprendere che cos’è un sistema di contabilità nazionale; • analizzare il flusso circolare del reddito tra famiglie e imprese; • spiegare perché, in equilibrio, i prelievi sono sempre uguali alle immissioni; • individuare i limiti dell’uso del PIL e PNL per valutare la dimensione di un sistema economico;

Cominceremo ora a trattare problematiche importanti come la disoccupazione, l’inflazione e la crescita economica. La macroeconomia rinuncia allo studio dei particolari per occuparsi, invece, del quadro generale.

• La MACROECONOMIA è lo studio dell’economia osservata come un sistema; Lo scopo dell’analisi differenzia la macro dalla microeconomia. Un modello costituisce una semplificazione volontaria che ci consente di estrarre gli elementi chiave di un problema e di ragionare su questi in modo più chiaro. Si potrebbe anche studiare l’intera economia mettendo assieme tutte le analisi micro di ogni singolo mercato, ma il risultato sarebbe così complesso da rendere incomprensibile l’analisi delle interrelazioni tra le forze in gioco. La microeconomia e la macroeconomia seguono approcci differenti per rendere le proprie analisi più maneggevoli. La microeconomia enfatizza la conoscenza particolareggiata di un singolo mercato. Per scendere nei dettagli del singolo mercato, trascura però le interazioni di un mercato con gli altri mercati. Se diciamo che una tassa sulle automobili riduce la quantità di equilibrio di quel mercato, tralasciamociò che il Governo potrebbe fare successivamente con quella tassa. Se, grazie alla tassa, il Governo potesse richiedere in prestito meno moneta al mercato, allora i tassi di interesse scenderebbero aumentando sia la competività sia l’output del settore automobilistico. Poiché la macroeconomia studia l’interazione tra le differenti parti dell’economia, essa si basa su alcune semplificazioni per rendere gestibile l’analisi. La macroeconomia semplifica il sistema economico in alcuni fenomeni economici fondamentali (macrovariabili), per potersi concentrare successivamente su come questi fenomeni possano coesistere e analizzare quali interazioni si instaurino tra di loro. Esempi di microvariabili possono essere la domanda di beni delle famiglie o la spesa per acquistare beni strumentali da parte delle imprese.

16.1. Gli argomenti principali

• la FORZA LAVORO comprende le persone che lavorano o che sono in cerca di lavoro. Esclude,

invece, coloro che non lavorano e che non desiderano lavorare. Il TASSO DI DISOCCUPAZIONE indica quella frazione della forza lavoro senza un lavoro;

• il PRODOTTO NAZIONALE LORDO (PNL) misura il reddito complessivo di un sistema economico ed è associato al valore dei beni e servizi che quel sistema economico può acquistare. La CRESCITA ECONOMICA misura variazioni percentuali del PIL reale;

Il livello dei prezzi è una media ponderata dei prezzi che le famiglie pagano per acquistare beni e servizi.

• Il TASSO DI INFLAZIONE indica l’aumento percentuale, nell’arco temporale di un anno, del prezzo medio dei beni e dei servizi;

16.2. I dati

Cominceremo col mettere in luce alcuni dati concernenti l’inflazione, la crescita economica e la disoccupazione. La tabella mostra in prospettiva storica, alcuni dati macroeconomici di Italia, Stati Uniti e Germania, a partire dal 1960. La figura invece si concentra sull’andamento del tasso d’inflazione in Italia.

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Italia USA Germania Inflazione 1960-1973 5 3 3 1974-1981 18 9 5 1982-1990 10 5 3 1991-2003 3 3 2 Disoccupazione 1960-1973 5 5 1 1974-1981 7 7 3 1982-1990 11 7 7 1991-2003 10 5 8 Crescita reale PIL 1960-1973 5 4 5 1974-1981 3 2 2 1982-1990 2 3 2 1991-2003 1 3 2

I due decenni precedenti al 1970 sono stati un periodo molto positivo per le economie mondiali, caratterizzato da bassa disocuppazione, alta crescita e bassa inflazione. Negli anni Settanta, con la rapida espansione di tutti i sistemi economici, l’OPEC ha quadriplicato il prezzo del petrolio. A partire da quegli anni abbiamo assistito a un aumento dell’inflazione e della disoccupazione a una diminuzione della crescita. Dopo un altro picco del prezzo del petrolio nel 1979-80, anche gli anni Ottanta sono stati particolarmente difficili. Solo a partire dagli anni Novanta l’inflazione e la disoccupazione hanno cominciato a diminuire. Fin dal 1980, l’Europa ha dovuto fronteggiare una forte

disoccupazione. La tabella evidenzia come il tasso di disoccupazione sia più alto in Europa rispetto al Giappone o agli Stati Uniti.

1980 1989 2004 USA 7,25 5,30 5,70 Giappone 2,00 2,30 5,00 Francia 5,80 9,40 9,50 Italia 5,60 9,80 8,50 Regno Unito 6,20 7,30 4,70 Belgio 9,30 7,50 8,50 Olanda 6,00 6,90 4,70 Svezia 1,50 1,50 6,40 Negli anni Ottanta le economia occidentali non sono riuscite a ridurre la disoccupazione nonostante i continui aumenti della spesa pubblica. In quei tempi, ha cominciato a consolidarsi l’opinione che le vecchi politiche economiche di sostegno non fossero più utilizzabili.

16.3. Introduzione

Un sistema economico comprende molti milioni di unità di decisione economica: famiglie, imprese ed enti pubblici. Insieme, le singole decisioni individuali determinano la spesa complessiva del sistema economico, il reddito e il livello della produzione di beni e servizi. IL FLUSSO CIRCOLARE DEL REDDITO. Cominceremo tralasciando l’attività del settore pubblico e del settore estero. La tabella presenta una semplice classificazione delle differenti transazioni tra famiglie e imprese, all’interno di un sistema economico chiuso (cioè, senza il settore estero) e nel quale non esiste alcuna

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attività economica dello Stato. Le famiglie possiedono i fattori della produzione o input dei processi produttivi. Possono così affittare il servizio lavoro alle imprese in cambio di un salario. La prima riga mostra che le famiglie offrono i propri fattori della produzione (lavoro, terra e capitale) alle imprese, che li usano per produrre beni e servizi. Nella seconda riga sono indicati i flussi monetari (pagamenti) corrispondenti. Le famiglie ottengono una remunerazione (salari, rendite e profitti) come corrispettivo dei fattori offerti. Nella terza riga osserviamo che le famiglie utilizzano le proprie entrate per acquistare beni e servizi dalle imprese, restituendo così ciò che avevano ottenuto dall’offerta dei fattori di produzione.

• il FLUSSO CIRCOLARE DEL REDDITO mostra i flussi reali e monetari di scambio tra famiglie e imprese;

Famiglie Imprese

Sono proprietarie dei fattori della produzione (terra, lavoro, capitale) che offrono alle imprese

Utilizzano i fattori della produzione forniti dalle famiglie per produrre beni e servizi

Ricevono un reddito dalle imprese in cambio della fornitura dei fattori della produzione

Pagano le famiglie per l’uso dei fattori di produzione

Spendono per i beni e servizi prodotti dalle imprese Vendono beni e servizi alle famiglie In un’economia di mercato, il flusso interno rappresenta i trasferimenti reali tra famiglie e imprese, mentre il flusso esterno indica i corrispondenti flussi monetari. Un’economia pianificata, al contrario, potrebbe organizzare i trasferimenti di risorse senza l’uso del flusso esterno (monetario). Esistono tre modi di misurare l’ammontare dell’attività produttiva di un sistema economico. Potremmo utilizzare:

1. il valore dei beni e dei servizi prodotti; 2. la remunerazione totale ottenuta dalle famiglie per la cessione dei servizi dei fattori; 3. il valore della spesa per beni e servizi;

L’insieme dei pagamenti è il corrispettivo del trasferimento di risorse reali. Se supponiamoche tutti i pagamenti vengano spesi per acquistare risorse o beni e servizi reali, ecco che le tre misure possibili coincidono. Il reddito derivante dall’offerta dei fattori deve essere uguale alla spesa delle famiglie, poiché assumiamo che tutto il reddito debba venire speso. Il valore della produzione (od output) deve essere uguale alla spesa per beni e servizi poiché ipotizziamo che tutti i beni siano venduti. Il valore dell’output deve essere uguale al valore dei redditi delle famiglie: poiché i profitti sono definiti come la differenza tra il valore dell’output meno i pagamenti diretti per i servizi della terra, del lavoro e del capitale, e poiché i profitti, alla fine, finiscono anch’essi alle famiglie che possiedono le imprese, ne consegue che la somma dei redditi delle famiglie – sia che provengono dall’aver offerto i servizi dei fattori sia che provengano dai profitti delle imprese – debba essere esattamente uguale al valore della produzione. Il diagramma del flusso circolare del reddito ci consente di osservare alcune interazioni chiave nello studio della macroeconomia come un insieme unico. Tuttavia, tale diagramma si rivela troppo semplificato. Esso tralascia, infatti, molte caratteristiche importanti del mondo reale: risparmio, investimenti, spesa pubblica, tasse e transizioni fra imprese e con mercati esteri. Per procedere, abbiamo quindi bisogno di un sistema di contabilità nazionale che innanzitutto definisca queste ultima macrovariabili per poi poterle inserire nel modello del flusso circolare del reddito.

16.4. Contabilità nazionale

MISURARE IL PIL.

• il PRODOTTO INTERNO LORDO (PIL) misura il valore dei beni e servizi (output) prodotti dai fattori della produzione localizzati in un sistema economico, indipendentemente dalla nazionalità dei proprietari dei fattori;

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Il PIL misura il valore dell’output prodotto dall’interno di un sistema economico. Inizialmente, tratteremo di un’economia chiusa, ovvero di un’economia che non effettua transazioni con il resto del mondo e in cui il valore della produzione coincide con il valore del reddito. In primo luogo, allarghiamo il modello del flusso circolare del reddito riconoscendo che nella realtà si verificano anche degli scambi tra imprese e imprese e non solo tra imprese e famiglie. Le imprese acquistano servizi lavorativi dalle famiglie, ma anche materie prime e macchinari da altre imprese. Per evitare doppi conteggi, introduciamo allora il concetto di valore aggiunto:

• il VALORE AGGIUNTO è l’incremento del valore ottenuto da una merce quando questa è uscita da un processo produttivo. Si ottiene sottraendo al valore del bene finito il costo dei beni intermedi che sono serviti per produrlo;

Questa distinzione è simile a quella tra beni finali e beni intermedi:

• BENI FINALI sono quelli acquistati dall’utilizzatore finale, come i beni di consumo acquistati dalle famiglie o i beni capitali (come i macchinari) acquistati dalle imprese. BENI INTERMEDI sono i beni parzialmente finiti che costituiscono gli input per altre imprese che li utilizzeranno nei propri processi produttivi;

L’esempio seguente dovrebbe chiarire questo concetto, che occorre ben comprendere prima di passare ad argomenti successivi. Supponiamo che un sistema economico sia costituito da solo quattro imprese: un produttore di acciaio, un produttore di macchinari per l’industria automobilistica, un produttore di pneumatici e un produttore di automobili che vende direttamente ai consumatori finali, le famiglie. La tabella mostra come possiamo calcolare il PIL di questo semplice sistema economico:

(1) (2) (3) (4) (5) (6) (7)

Bene Venditore Compratore Valore della

transazione

Valore aggiunto

Spesa per beni finali

Reddito

Acciaio Produttore di Acciaio

Produttore di Macchinari 1.000 1.000 1.000

Acciaio Produttore di Acciaio

Produttore di Automobili

3.000 3.000 3.000

Macchinario Produttore di Macchinari

Produttore di Automobili

2.000 1.000 2.000 1.000

Pneumatici Produttore di Pneumatici

Produttore di Automobili

500 500 500

Automobili Produttore di Automobili

Consumatori 5.000 1.500 5.000 1.500

Valore complessivo delle transazioni: 11.500 Prodotto Interno Lordo (PIL) 7.000 7.000 7.000

Questa tabella mostra che il valore complessivo di tutte le transazioni è di 11.500 euro, ma questa cifra sovrastima il valore effettivo del prodotto del sistema economico. Per esempio, i 3000 euro ottenuti dal produttore di acciaio dall’impresa automobilistica sono compresi anche nel valore dei 5000 euro delle automobili stesse. In questo caso stiamo contando due volte il valore della produzione dell’acciaio. La colonna (5) mostra il valore aggiunto in ogni processo produttivo. La misura corretta del valore dell’output economico è di 7000 euro. Si osservi che questo valore corrisponde ai pagamenti effettuati direttamente (per la remunerazione dei servizi dei fattori di produzione) o indirettamente (sotto forma di profitti) alle famiglie. Ecco perché esso costiuisce anche la somma dei redditi percepiti dalle famiglie del sistema economico. Anche sommando redditi e profitti saremmo giunti allora alla stessa misura del PIL del sistema economico. INVESTIMENTI E RISPARMIO. L’esempio precedente non solo ci ha consentito di spiegare il concetto di valore aggiunto, quello di bene finale e quello di bene intermedio, ma ci permette ora di introdurre una seconda complicazione. Il valore dei beni e servizi finali (PIL) e del reddito nazionale del precedente sistema era 7000 euro, ma le famiglie hanno speso solo 5000 euro per acquistare le automobili. Cosa’altro stanno facendo le famiglie con il resto del reddito? E chi altro sta spendendo in questo sistema economico? Per risolvere questi due problemi, dovremo introdurre i concetti di investimento e di risparmio.

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• l’INVESTIMENTO è la spesa per l’acquisto di beni capitali (beni strumentali), effettuata dalle imprese. Il RISPARMIO è quella parte del reddito delle famiglie che non viene spesa per acquistare beni e servizi di consumo;

Le famiglie stanno spendendo 5000 euro per acquistare beni di consumo: automobili. Esse stanno allora risparmiando 2000 euro. Il produttore di auto ha speso 2000 euro per l’investimento che ha fatto acquistando un macchinario. Il diagramma mostra come dobbiamo modificare il diagramma del flusso circolare del reddito. La metà inferiore della figura mostra che i redditi e il valore dei servizi dei fattori sono pari a 7000 euro ciascuno. Ma 2000 euro escono dal circuito quando le famiglie risparmiano. Solo 5000 euro ritornano alle imprese dall’acquisto delle automobili. La metà superiore della figura rivela che il valore dell’output destinato alle famiglie è 5000 euro. Poiché il PIL è di 7000 euro, da dove derivano allora i rimanenti 2000 euro? Se non dalla spesa delle famiglie, devono provenire dalla spesa delle imprese stesse. I numeri della tabella si riferiscono ai flussi di output e di spesa in un determinato arco temporale che di solito è un anno. Durante questo periodo, l’economia percorre una volta sua il circuito interno sia quello esterno del diagramma di flusso circolare del reddito.

• un PRELIEVO è costituito da un flusso monetario che fuoriesce dal circuito e dunque riduce la spesa per beni nazionali. Un’IMMISSIONE è invece un flusso monetario che entra nel circuito e fa aumentare la spesa per beni nazionali;

E’ un caso che il risparmio delle famiglie sia esattamente uguale agli investimenti delle imprese? Definiamo con la lettera Y il reddito delle famiglie, che equivale al PIL. Se C è la spesa per i beni di consumo e S il risparmio, precedentemente definita come la parte di reddito non spesa per l’acquisto di beni di consumo, allora, per definizione come la parte di reddito non spesa per l’acquisto di beni di consumo, allora, per definizione

Y C S≡ + dove il simbolo significa che stiamo mostrando un’identità. Poiché èanche vero che, per definizione, il PIL (Y) è identico a C + I (dove I sono gli investimenti), ne deduciamo che:

S I≡ poiché entrambi sono uguali a Y – C. Non è dunque un caso che investimenti e risparmi siano entrambi pari a 2000 euro nell’esempio. L’ultima equazione ci dice che gli investimenti e risparmi saranno uguali in ogni esempio da noi costruito. Abbiamo mostrato che il risparmio in un periodo deve essere uguale all’investimento nello stesso periodo. Non abbiamo detto nulla sulla determinazione reale del risparmio o dell’investimento in un sistema economico; e nemmeno abbiamo ipotizzato che ci debba sempre essere un equilibrio anche tra questi ultimi due. Gli investimenti ci consentono di trattare un altro problema che ci era sfuggito nel nostro semplice diagramma del flusso circolare del reddito. Che cosa succede se le imprese non riescono a vendere tutto l’output che hanno prodotto? E come misureremo allora il valore del PIL: con la misura dell’output o con quella della spesa? I beni finali sono beni che non si consumano in un processo produttivo. Supponete che le vendite del produttore di automobili siano solo 4000 euro e non 5000 euro. Il produttore si ritrova automobili per un valore di 1000 euro che dovrà conservare nei propri magazzini:

• le SCORTE sono costituite dal valore dei beni o fattori della produzione che saranno venduti o utilizzati in successivi cicli produttivi;

Allora, il produttore di automobili potrebbe conservare come scorte (nei propri magazzini) l’acciaio che costituirà un input nel prossimo processo produttivo di auto. Oppure potrebbe tenere come scorte alcune automobili finite per venderle ai consumatori l’anno successivo. Nel capitolo 6 abbiamo descritto le scorte come parte del capitale d’esercizio. Poiché i beni in magazzino non sono stati utilizzati nel processo produttivo e nemmeno venduti durante l’anno corrente, questi stock di beni

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sono classificati come beni capitali. Un aumento delle scorte è considerato come un investimento nel capitale d’esercizio, viceversa una diminuzione. Se, a fronte di una produzione di automobili per 5000 euro, il produttore vende automobili solo per 4000 euro, l’aumento delle scorte di 1000 euro sarà trattato come una spesa per beni finali. Come precedentemente, le misure dell’output e della spesa sono entrambe pari a 7000 euro e includono, nell’output e nella spesa, il macchinario necessario per la costruzione di automobili. Ma la spesa per beni finali ora comprende: il produttore di automobili (2000 per i macchinari, 1000 euro in scorte) e le famiglie (4000 euro per automobili). IL GOVERNO. Le entrate del Governo provengono sia dalle imposte dirette Td che colpiscono i redditi (salari, rendite, interessi e profitti) sia dalle imposte indirette Ti (IVA, imposte sui carburanti, imposte sulle sigarette). Le tasse costituiscono le entrate che servono a far fronte a due tipi di spese: in primo luogo, la spesa pubblica per beni e servizi G. Questa spesa comprende la spesa per i salari dei dipendenti pubblici e dei militari, l’acquisto di computer, carri armati, aere militari, la fabbricazione di strade e ospedali. Ma i Governi spendono anche denaro per trasferimenti (B) o altre forme di benefici verso i soggetti del sistema economico. Questi comprendono pensioni, sussidi di disoccupazione, sussidi a imprese private e la copertura delle perdite di imprese pubbliche. I trasferimenti sono pagamenti ai quali non è associato lo scambio di alcun bene o servizio. I trasferimenti non si aggiungono al reddito nazionale e nemmeno al prodotto nazionale. Non sono compresi nel PIL. Non vi è un corrispondente valore aggiunto e nemmeno un incremento nella produzione. Le tasse e i trasferimenti ridistribuiscono semplicemente il reddito esistente e il potere di acquisto, da alcuni individui ad altri individui. Al contrario, la spesa pubblica per beni e servizi genera un incremento nel prodotto, attiva fattori della produzione e quindi aggiunge nuova capacità di spesa per le famiglie che ricevono un reddito per aver fornito i fattori della produzione. Quindi una spesa pubblica G per beni e servizi deve essere invece inclusa nel PIL, poiché si tratta di una spesa per beni e servizi finali, effettuata da un particolare consumatore: lo Stato. Alcune imposte, come per esempio, l’IVA portano un divario tra il prezzo che il consumatore paga e il prezzo che il produttore riceve:

• il PIL AI PREZZI DI MERCATO misura il prodotto interno comprendendo le imposte indirette sui beni e sui servizi. Il PIL AL COSTO DEI FATTORI misura la produzione interna escludendo le imposte indirette sui beni e servizi. Il PIL ai prezzi di mercato è allora maggiore rispetto al PIL al costo dei fattori di una misura pari all’ammontare delle imposte riscosse sotto forma di imposte indirette;

Misurando la spesa per beni di consumo C, per beni di investimento I e la spesa pubblica per beni e servizi G ai prezzi di mercato, includendo cioè le imposte indirette, il valore aggiunto o la produzione netta dell’economia è data da:

PILprezzimercato spesabenifinali C I G≡ ≡ + + . Un aumento delle imposte indirette fa aumentare il prezzo dei beni e dei servizi. Sebbene il valore dell’output aumenti ai prezzi di mercato, la quantità fisica di prodotto rimane però immutata. Sembra allora più ragionevole misurare il PIL al costo dei fattori, sottraendo le spese indirette Ti:

Y PILfattori C I G Ti≡ ≡ + + − . Questa misura è indipendente dall’ammontare delle imposte dirette e i trasferimenti influenzano il diagramma del flusso circolare del reddito, che ora allarghiamo per introdurre anche il settore pubblico. I redditi delle famiglie (al costo dei fattori) beneficiano anche dei trasferimenti B, ma sono però ridotti dalle imposte indirette Td. Questo ci consente di introdurre il concetto di reddito disponibile:

Y B Td+ − .

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• Il REDDITO DISPONIBILE è il reddito delle famiglie al netto delle imposte dirette e dei trasferimenti. Esso dimostra la disponibilità effettiva delle famiglie per la spesa in beni di consumo e per il risparmio;

Dobbiamo ora riconsiderare la nostra precedente definizione di risparmio S tenendo presente anche il settore pubblico. Il risparmio è quella parte del reddito disponibile che non viene spesa per beni di consumo:

( )S Y B Td C

Y S C Td B

≡ + − −

≡ + + −

Lungo il cerchio esterno della figura, sottraiamo ora dal PIL (= C + I + G) le imposte indirette Ti e ritorniamo a Y, ossia al PIL al costo dei fattori:

Y C I G Ti

S Td Ti B I G

≡ + + −

+ + − = +

L’equazione finale è coerente con il nostro sistema di contabilità nazionale. Nel caso particolare in cui:

0Td Ti G B≡ ≡ ≡ ≡ non vi è un settore pubblico. Si noti come la penultima equazione può essere riscritta:

Td Ti B G I S+ − − ≡ − Il lato sinistro indica il surplus finanziario dello Stato, cioè le entrate totali meno le uscite. Il lato destro indica il deficit del settore privato, cioè l’eccesso di investimenti rispetto al risparmio privato. Da queste definizioni deduciamo che il settore privato può essere in deficit solo se quello pubblico ottiene un surplus e viceversa. IL SETTORE ESTERO. Finora abbiamo considerato un’economia chiusa che non compie alcuno scambio con il resto del mondo. Consideriamo ora un’economia aperta che effettua transazioni con altri paesi:

• le ESPORTAZIONI (X) misurano il valore delle merci prodotte all’interno del sistam economico ma vendute all’estero. Le IMPORTAZIONI (Z) misurano il valore delle merci prodotto all’estero, ma acquistate per essere impiegate nell’economia nazionale;

Le famiglie, le imprese e lo Stato possono acquistare beni stranieri Z che non fanno parte del prodotto nazionale e che, in questo modo, non danno origine a redditi per i fattori nazionali. Questi beni (importazioni) non appariranno nella misura del prodotto PIL, che si riferisce al valore aggiunto dai produttori nazionali. Tuttavia le importazioni dovranno apparire dal lato della spesa finale. Perciò, in un’economia aperta, riconosciamo il ruolo del commercio estero ridefinendo il PIL al costo dei fattori come:

Y C I G X Z Ti

C I G NX Ti

≡ + + + − −

≡ + + + −

dove NX denota le esportazioni nette (X-Z). Le importazioni rappresentano un prelievo, ma le esportazioni sono un’immissione.

( )

( )

S Td Ti B Z I G X

S I G B Td Ti NX

+ + − + ≡ + +

− ≡ + − − +

L’equazione evidenzia la solita considerazione che i prelievi totali debbano essere uguali alle immissioni totali. Le importazioni sono una fonte ulteriore di prelievo e le esportazioni sono un’ulteriore immissione di moneta all’interno del flusso circolare. Inoltre il surplus del settore privato (S - I) è un prelievo dal flusso circolare. A questo deve corrispondere un’immissione di pari valore. Questa immissione può provenire sia dal

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deficit del Governo sia dalle esportazioni nette NX, che rappresentano l’eccesso delle esportazioni rispetto alle importazioni. Poiché il nostro surplus commerciale corrisponde a un deficit commerciale dei Paesi esteri, possiamo riassumere l’equazione affermando che il surplus del settore privato deve corrispondere alla somma del deficit del Governo più il deficit commerciale dei paesi esteri. DAL PIL AL PNL O RNL. Per completare il nostro sistema di contabilità nazionale, dobbiamo considerare due problemi. Finora abbiamo ipotizzato che tutti i fattori della produzione siano nazionali: tutto il valore della produzione nazionale accresce allora il reddito delle famiglie nazionali che sono proprietarie dei fattori. Tuttavia non è sempre così. Quando Nissan possiede uno stabilimento produttivo in Italia, parte dei profitti vengono inviati in Giappone per essere spesi o risparmiati dalle famiglie giapponesi. Oppure i proprietari stranieri di imprese italiane o di azioni in imprese italiane inviano nei rispettivi Paesi parte del reddito societario o dei dividendi azionari si crea una discrepanza tra reddito dei fattori ottenuto in Italia e reddito dei fattori ottenuto dalle famiglie italiane. Ma è anche vero che le famiglie e le imprese italiane possono ottenere un reddito anche da attività e servizi dei fattori che forniscono in Paesi stranieri. Questo reddito, proveniente da interessi, dividendi, profitti e rendite, verrà mostrato nel sistema di contabilità nazionale come flusso di reddito dall’estero. Il reddito netto dall’estero (in Italia) è la differenza tra i redditi ottenuti dai fattori italiani all’estero meno i reddit ottenuti da fattori stranieri in Italia. Quando vi è un reddito netto dall’estero positivo o negativo tra l’Italia e il resto del mondo, la misura del PIL non coincide più con i redditi ottenuti dai cittadini italiani. Useremo i termini Prodotto Nazionale Lordo (PNL) o Reddito Nazionale Lordo (RNL) per indicare il PIL corretto in base ai redditi netti dall’estero:

• il PNL o RNL misura il reddito complessivo ottenuto dai fattori nazionali indipendentemente dal Paese nel quale questi fattori sono stati utilizzati. Il PNL (o RNL) è uguale al PIL più i redditi netti all’estero;

DAL PNL AL REDDITO NAZIONALE. Un ultima complicazione riguarda l’ammortamento:

• l’AMMORTAMENTO è una misura della perdita di valore dei beni capitali nel periodo di una anno, quando questi sono impiegati all’interno di un processo produttivo;

La nozione di ammortamento è collegata a un concetto di flusso, e ci dice quanta parte dello stock di capitale si è consumata, usurata in un determinato intervallo di tempo. L’ammortamento rappresenta un costo economico, poiché misura delle risorse che si sono consumate nell’ambito di un processo produttivo. Quindi sottraiamo l’ammortamento dal PNL per arrivare al prodotto nazionale netto (PNN) o reddito nazionale:

• il REDDITO NAZIONALE è il prodotto nazionale netto di un’economia. È calcolato sottraendo l’ammortamento dal PNL al costo dei fattori;

Il reddito nazionale misura l’ammontare monetario che un’economia ha a disposizione per l’acquisto di beni e servizi, dopo aver messo da parte la liquidità necessaria per mantenere invariata la propria capacità produttiva.

16.5. Che cosa misura il PNL

La contabilità di un’impresa mostra un quadro di ciò che l’impresa sta facendo. Il nostro sistema di contabilità nazionale ci consente di osservare i risultati di un’economia nel suo complesso. Concentriamoci sul PNL come misura della performance di un’economia nazionale. Poiché l’ammortamento è abbastanza difficile da misurare e può essere valutato in modo differente in Paesi diversi o durante differenti periodi di tempo, in pratica la maggior parte degli economisti fa paragoni fra sistemi economici usando il PNL, che non comprende l’ammortamento. PNL NOMINALE E REALE.

• il PNL NOMINALE misura il PNL ai prezzi correnti in un determinato periodo di tempo; • il PNL REALE, o PNL a prezzi costanti, considera anche l’inflazione misurando il PNL in differenti anni

ai prezzi di uno stesso anno che chiameremo anno base;

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IL DEFLATORE DEL PNL. Nel capitolo 2 abbiamo introdotto l’Indice dei Prezzi al Consumo (IPC), un indice del prezzo medio delle merci acquistate dai consumatori. La più comune misura del tasso di inflazione in Italia è l’aumento percentuale dell’IPC rispetto al valore corrispondente nello stesso mese dell’anno precedente. Tuttavia, la spesa per beni di consumo è solo una componente del PNL. Il PNL comprende anche l’investimento, la spesa pubblica e le esportazioni nette. Per convertire il PNL nominale in un PNL reale, dovremo usare un indice che mostri ciò che è successo al prezzo di tutte le merci: questo indice è chiamato delatore di PNL. Naturalmente è possibile fare un discorso analogo per il PIL.

• il DEFLATORE DEL PNL è il rapporto tra il PNL nominale e il PNL reale e si esprime in forma di numero indice;

PIL PRO CAPITE. Il PNL o il PIL reale ci danno una semplice misura del reddito reale di un’economia, mentre il tasso di crescita reale ci mostra la velocità alla quale un’economia sta crescendo. Questi numeri si riferiscono all’intera economia, e potrebbe essere più interessante osservare ciò che è successo al tenore di vita di una persona “media”. La risposta a questa domanda è ottenibile osservando la crescita del PIL pro capite:

• il PIL PRO CAPITE è il PIL reale diviso per la popolazione. Esso mostra la quota di PIL per ogni individuo;

Tanto più cambia la distribuzione del reddito, all’interno di un sistema economico, tanto meno affidabile è la crescita del PNL o del PIL pro capite per mostrare ciò che accede all’individuo medio. UNA MISURA OMNICOMPRENSIVA DEL PNL. Poiché abbiamo utilizzato il PNL come misura del valore della produzione di beni e servizi finali di un sistema economico, sarebbe opportuno che il PNL comprendesse alcune attività particolari che potrebbero sfuggire a una stima dell’attività produttiva nel suo complesso. In pratica esistono due tipi di problemi:

1. è legato al fatto che i processi produttivi generano anche altri output quali il rumore, l’inquinamento e il traffico. Questi sono dei “mali”, delle esternalità negative legate al processo produttivo, che riducono il valore del PNL. Questa ragionevole constatazione è però molto difficile da tradurre nella pratica contabile. Le esternalità negative precedentemente menzionate non passano attraverso il mercato;

2. esistono altri beni e servizi che, pur venendo prodotti nel sistema economico, non sono contabilizzati nel PNL. Anche questi derivano da attività che non passano attraverso il mercato quale, per esempio, il lavoro domestico delle casalinghe, i lavori fai-da-te, il volontariato e i lavori non dichiarati;

17. Il prodotto nazionale e la domanda aggregata Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in gradi di:

• distinguere tra prodotto corrente e prodotto potenziale; • comprendere la formazione del prodotto nazionale nel breve periodo; • definire il concetto di spesa per consumo e quello di spesa per investimento; • illustrare il modo in cui la domanda aggregata influenza la formazione del reddito nazionale nel

breve periodo; • definire il concetto di propensione marginale al consumo (PMgC); • comprendere in che modo la PMgC influenza il moltiplicatore; • discutere il paradosso della parsimonia;

Dal 1960, il PIL in italia è cresciuto a una medi del 3% all’anno. Vi sono stati tuttavia cicli lungo questo sentiero di espansione. Uno degli scopi della macroeconomia è quello di spegare perché il PIL fluttua. Per costruire un modello semplice, ignoreremo le differenze fra reddito nazionale, PNL reale e PIL reale. Quindi, da questo punto in avanti useremo i termini reddito e prodotto come sinonimi. Cominciamo ora col distinguere il prodotto corrente (o attuale) da prodotto potenziale:

• il PRODOTTO POTENZIALE è il massimo prodotto che un’economia potrebbe produrre se tutti i fattori della produzione fossero pienamente occupati;

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Il prodotto potenziale tende a crescere lentamente nel tempo quando crescono le quantità di fattori della produzione disponibili. La crescita della popolazione aggiunge forza lavoro. Investimenti in istruzione, formazione e nuovi beni capitali aumentano progressivamente lo stock di capitale umano e fisico. Il progresso tecnico consente a uno stesso stock di fattori di produrre una quantità maggiore di output. Insieme, tutti questi elementi spiegano la crescita del PIL reale nel corso del tempo. Poiché il prodotto potenziale cambia solo lentamente nel tempo, cominciamo con un’analisi del breve periodo di un sistema economico che abbia un livello fisso di prodotto potenziale. Con il termini “prodotto potenziale” viene indicato l’output che si può produrre se ogni mercato dell’economia si trovasse in un equilibrio di lungo periodo. In questo caso, ogni lavoratore che volesse lavorare a un salario di equilibrio riuscirebbe a trovare un lavoro e ogni altro fattore che desiderasse essere impiegato troverebbe un impiego nel sistema economico al suo prezzo di scambio. In tal senso, il prodotto potenziale comprende anche una “disoccupazione naturale”. Se il prodotto corrente di un sistema economico dovesse essere inferiore al prodotto potenziale, alcuni lavoratori risulterebbero disoccupati e le imprese avrebbero macchinari inutilizzati e capacità produttiva in eccesso. Un problema cruciale della macroeconomia è quello di valutare in quanto tempo la produzione corrente riesca a ritornare a livello del prodotto potenziale e alla piena occupazione. A livello macroeconomico notiamo come alcune perturbazioni in una sola parte dell’economia possano causare cambiamenti in altre parti del sistema economico le quali, a loro volta, possono accentuare la perturbazione iniziale. Dobbiamo costruire un modello nel quale un eventuale allontamento rispetto al prodotto potenziale sia logicamente possibile ed esaminare se le forze del mercato possano agire ed eventualmente riportare il sistema a un livello del prodotto pari al prodotto potenziale. Cominceremo studiando un modello che presenta due importanti proprietà. La prima è che tutti i prezzi e i salari sono fissati a un certo livello. La seconda è che, ai livelli di prezzi e dei salari fissati, esistono lavoratori senza un lavoro che vorrebbero lavorare e imprese che hanno eccesso di capacità che potrebbero assumere tali lavoratori. Dunque, con un livello di prodotto inferiore a quello potenziale, le imprese volentieri aumentano la propria produzione se vi è una maggior domanda. Possiamo allora affermare che il livello della produzione è determinato dalla domanda:

• poiché ogni mercato scambia la quantità minore tra quella domandata e quella offerta, IL PRODOTTO E’ DETERMINATO DAL LATO DELLA DOMANDA anche quando c’è un eccesso di offerta. In questo caso, i salari e i prezzi devono modificarsi (ridursi) perché si possa ritornare al prodotto di piena occupazione;

E’ stato John Maynard Keynes, nella sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel 1936, a proporre per la prima volta questo modello. Keynes lo ha usato perspiegare comepotessero persistere nel tempo alti livelli di disoccupazione e bassi livelli del prodotto. Negli anni Trenta, infatti, quasi tutti i paesi industrializzati soffrirono di quella che oggi chiamiamo la Grande Depressione. In quel periodo, il tasso di disoccupazione si trovava costantemente sopra al 10%. A seguito della pubblicazione della Teoria generale nel 1936, molti giovani economisti diventarono keynesiani, insistendo nei confronti dei governi per intervenire a spingere il prodotto del sistema verso quello che abbiamo definito il prodotto potenziale. Negli anni Cinquanta e Sessanta, questo approccio venne contrastato dai monetaristi, il cui leader intellettuale era Milton Friedman. Questi argomentavano, correttamente, che anche se l’analisi di Keynes aveva aiutato nel combattere la recessione economica, non era valida per capire l’inflazione, che i monetaristi spiegano invece con un incremento dello stock di moneta in circolazione nel sistema economico. Noi cercheremo di sviluppare un solo approccio che tenga in considerazione le fondamenta del pensiero dei keynesiani e di quello dei monetaristi. Il capitolo precedente ha introdotto il flusso circolare del reddito tra famiglie e imprese. Le famiglie comprano i prodotti delle imprese. I ricavi delle imprese, alla fine, tornano alle famiglie come salari, rendite e profitti. In questo capitolo costruiremo un modello semplificato dell’interazione tra famiglie e imprese. Nel prossimo capitolo introdurremo il ruolo dello Stato e del settore estero.

17.1. Le componenti della spesa aggregata

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In assenza del settore pubblico e del settore estero, le componenti della domanda aggregata per beni e servizi sono: la spesa per beni di consumo delle famiglie e la spesa per beni di investimento (macchinari e immobili) delle imprese. Useremo AD per definire la domanda aggregata, misurata attraverso la spesa aggregata, C, per definire la spesa per beni di consumo e I per definire la spesa per investimenti:

AD C I= + La spesa per beni di consumo e la spesa per beni di investimento sono determinate da differenti gruppi di soggetti e quindi dipendono da fattori diversi. IL CONSUMO. Le acquistano beni e servizi: automobili, beni alimentari, mazze da golf, biglietti di spettacoli teatrali ed elettricità. Questa spesa ammonta circa l’80% del reddito disponibile:

• il REDDITO DISPONIBILE è il reddito che le famiglie ricevono dalle imprese. A questo bisogna sommare ciò che le famiglie ricevono dallo Stato, e sottrarre le imposte dirette pagate dallo Stato. In pratica, è il reddito netto che le famiglie hanno a disposizione per il consumo o per il risparmio;

Dato un reddito disponibile, ogni famiglie deve decidere come suddividere questo reddito tra consumo e risparmio. La decisione di una determinata famiglia non è necessariamente la decisione di tutte le altre famiglie. Per cominciare faremo una semplificazione, ipotizzando che la spesa aggregata per beni di consumo delle famiglie aumenti all’aumentare del reddito disponibile delle famiglie.

LA FUNZIONE DEL CONSUMO. La figura mostra un ipotetico esempio della relazione tra spesa per beni di consumo programmata da un sistema economico e reddito disponibile. Questa funzione è chiamata funzione del consumo:

• la FUNZIONE DEL CONSUMO mostra il livello della spesa per beni di consumo a seconda del livello di reddito disponibile;

La funzione di consumo ci dice come arrivare alla domanda (spesa) per beni di consumo partendo dal reddito disponibile.

A è una costante positiva, e c è una frazione positiva compresa tra 0 e 1:

C A cY= + dove Y è il reddito Il nostro semplice modello non contempla il settore pubblico, i trasferimenti e le tasse. La funzione del consumo è una linea retta e ogni linea retta può essere descritta da un valore dell’intercetta (A), visualizzabile dalla distanza tra l’origine e il punto in cui la funzione taglia l’asse verticale, e da una pendenza c che indica l’incremento verticale associato a un incremento orizzontale di una unità. Nella figura, il valore dell’intercetta A è uguale a 8. Definiamo questo valore consumo autonomo. Per “autonomo” intendiamo che non dipende dal livello del reddito. Infatti, le famiglie desiderano consumare 8 anche quando il loro reddito è zero. La pendenza della funzione del consumo è la propensione marginale del consumo:

• la PROPENSIONE MARGINALE AL CONSUMO (PMgC) indica la funzione di 1 euro aggiuntivo di reddito disponibile che le famiglie spendono per acquistare beni di consumo;

Nella figura e nell’equazione, la propensione marginale al consumo è c. Il risparmio costituisce quella parte del reddito che non viene spesa per beni di consumo. La figura e l’equazione indicano che, quando il reddito è zero, il risparmio è –A. Le famiglie hanno un risparmio negativo (stanno indebitandosi) oppure hanno venduto alcune loro proprietà. Inoltre poiché per ogni eruo aggiuntivo di reddito le famiglie desiderano spendere c euro per beni di consumo, ne consegue che (1 – c) euro verranno risparmiati. La propensione marginale al risparmio (PMgS) è (1 – c). Poiché ogni euro aggiuntivo di reddito genera o un consumo aggiuntivo o un risparmio aggiuntivo, la somma di PMgC e PMgS deve essere sempre uguale a 1. La figura mostra la funzione del risparmio corrispondente alla funzione del consumo:

• la FUNZIONE DEL RISPARMIO mostra il risparmio programmato per ogni livello di reddito;

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Si noti che usando l’equazione e la definizione di risparmio per cui

Y C S≡ + ,

è possibile ricavare matematicamente la funzione del risparmio che deve essere:

( )1S A c Y= − + − .

Se sommiamo le due ultime equazioni, il lato sinistro è pari a C + S e quello destro a Y. Il risparmio programmato è quella parte del reddito che non viene spesa per beni di consumo. GLI INVESTIMENTI. Come abbiamo visto nella funzione del consumo, il reddito è la variabile macroeconomica che determina la spesa per beni di consumo delle famiglie. Da

che cosa dipendono, invece, gli investimenti delle imprese? • gli INVESTIMENTI sono costituiti dalle spese delle imprese per l’acquisto di beni capitali (stabilimenti

e macchinari) e dall’incremento delle scorte; Le scorte sono costituite da quelle merci (prodotti o fattori della produzione) destinate a essere vendute o impiegate in futuri processi produttivi. Gli investimenti delle imprese dipendono principalmente dalle previsioni circa il livello della domanda futura. Non è detto, però, che vi sia una correlazione tra il livello corrente della produzione e il livello atteso della domanda. Poiché dunque non vi è una stretta relazione tra il livello attuale del reddito e del prodotto e le previsioni delle imprese circa il futuro della domanda, cominceremo la nostra analisi della spesa aggregata supponendo che l’investimento sia autonomo. Ipotizziamo che la spesa per beni di investimento I sia una costante, indipendente dal livello attuale del prodotto e del reddito.

17.2. La spesa aggregata

• La SPESA AGGREGATA indica l’ammontare complessivo della spesa che le imprese e le famiglie

intendono sostenere per acquistare beni e servizi, a seconda del livello del reddito;

Nel nostro semplice modello, la spesa aggregata è ugualeallaspesaper beni di consumo delle famiglie C + la spesa per investimenti I delle imprese. Rispetto alla funzione del consumo, quella della spesa è più alta esattamente di un ammontare pari all’investimento programmato. Ogni unità aggiuntiva di reddito genera c unità in più di consumo, ma nulla in più di quanto riguarda l’investimento, e dunque la spesa aggregata aumenterà solo di c. La funzione della spesa aggregata è parallela alla funzione del consumo e la pendenza di entrambe è data dalla propensione marginale al consumo.

17.3. Il prodotto di equilibrio

In questo modello semplificato, i salari e i prezzi sono fissi e l’output è determinato dal lato della domanda (spesa aggregata). Se la spesa aggregata domandasse di meno rispetto al prodotto di piena occupazione, le imprese non riuscirebbero a vendere tutta la propria produzione. In questo caso, vi sarebbe una “involontaria” capacità in eccesso. I lavoratori non riuscirebbero a essere tutti occupati. Vi sarebbe una disoccupazione “involontaria”.

• quando i prezzi e i salari sono fissi, il PRODOTTO SI TROVA IN UN EQUILIBRIO DI BREVE PERIODO quando il livello della spesa aggregata eguaglia il livello della produzione corrente;

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In questo caso, i progetti di spesa delle famiglie non sono frustrati da un’indisponibilità di beni. E le imprese non stanno nemmeno producendo di più rispetto a ciò che riescono effettivamente a vendere. In un equilibrio di breve periodo, i beni e i servizi prodotti sono esattamente uguali ai beni e servizi domandati dalle famiglie per beni di consumo e dalle imprese per beni di investimento.

La figura mostra il reddito sull’asse orizzontale e la spesa sull’asse verticale. Essa include anche la retta a 45° che mostra un insieme di combinazioni reddito-spesa che indicano tutti potenziali equilibri, cioè punti per i quali i valori del reddito sono sempre uguali ai valori della spesa, cioè punti per i quali i valori del reddito sono sempre uguali ai valori della spesa. Aggiungiamo a questo grafico la funzione della spesa aggregata. Questa incrocia la retta a 45° nel punto E. Poiché E si trova sulla retta a 45°, il valore del reddito sull’asse orizzontale eguaglia il valore della spesa corrispondente sull’asse verticale.

GLI AGGIUSTAMENTI VERSO L’EQUILIBRIO. Supponiamo che il sistema economico si trovi con un livello di produzione e di reddito inferiore a E, quindi al punto di equilibrio. La spesa aggregata è superiore alla produzione. Se le imprese avessero delle scorte, potrebbero vendere queste scorte riducendo il contenuto dei propri magazzini. Notiamo che questa riduzione risulterebbe non programmata, infatti i cambiamenti nelle scorte programmati dalle imprese sono già inclusi nell’investimento I. Se le imprese non riescono a soddisfare la spesa aggregata riducendo le scorte a loro disposizione, dovranno lasciare insoddisfatti alcuni clienti. Entrambe le reazioni sono un segnale che dovrebbe spingere le imprese ad aumentare il livello della produzione al di sopra di quello attuale. Al contrario, se la produzione fosse inizialmente superiore al livello di equilibrio, le imprese non riuscirebbero a vendere tutto ciò che hanno prodotto, e aumenterebbero in modo non programmato le proprie scorte. Conseguentemente dovrebbero pianificare di ridurre per il futuro la loro produzione. L’EQUILIBRIO DEL PRODOTTO E L’OCCUPAZIONE. In condizioni di equilibrio del prodotto, le imprese vendono tutto ciò che hanno prodotto e le famiglie e le imprese comprano tutto ciò che desiderano. Tuttavia, nulla garantisce che E sia anche il livello della piena occupazione e del prodotto potenziale. Il punto critico che deriva dalla nostra analisi è che l’economia potrebbe trovarsi con un livello del prodotto E inferiore al prodotto potenziale senza che vi sia alcuna forza di mercato che spinge l’output verso il prodotto potenziale. Per un dato livello di prezzi e salari, una mancanza di spesa aggregata non consentirà all’output di espandersi fino a raggiungere il prodotto potenziale e dunque la piena occupazione.

17.4. Un altro approccio: il risparmio programmato eguaglia l’investimento programmato

Il reddito di equilibrio è uguale all’investimento programmato più il consumo programmato. Allo stesso modo, l’investimento programmato è uguale al reddito di equilibrio meno il consumo programmato (I= Y – C). Questa non è una definizione, ma una relazione valida solo quando il reddito e il prodotto si trovano in equilibrio. Il risparmio programmato S, quindi, è quella parte del reddito che non è dedicata al consumo C. E’ quindi evidente che il prodotto di equilibrio si raggiunge quando l’investimento programmato eguaglia il risparmio programmato. Nelle economie contemporanee, le imprese effettuano decisioni di investimento e i manager delle imprese non sono le stesse unità di decisione economica delle famiglie che programmano risparmi e consumi. I programmi delle famiglie dipendono dal reddito. Il reddito di equilibrio garantisce che i programmi delle famiglie coincidano con i programmi di investimento delle imprese.

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L’investimento programmato I è una spesa autonoma e dunque è rappresentato come una retta orizzontale. Il risparmio programmato è –A + (1 – c)Y e ha la pendenza positiva poiché la propensione al risparmio è positiva. Quando il reddito è in equilibrio, il risparmio programmato è uguale all’investimento programmato. In quel punto:

( )

( ) ( )

*

*

1

1 / 1

I A c Y

Y A c

= − + −

= + −

FLUSSI PROGRAMMATI E FLUSSI CORRENTI.

Abbiamo visto che, al livello di equilibrio della produzione e del reddito, due condizioni equivalenti verranno soddisfatte. La spesa aggregata sarà uguale al reddito e alla produzione. In modo analogo l’investimento programmato dovrà essere uguale al risparmio programmato. Nel precedente capitolo, abbiamo mostrato che l’investimento corrente è sempre uguale al risparmio corrente. Quando l’economia non è in equilibrio, il risparmio programmato e l’investimento non sono uguali. Tuttavia variazioni involontarie nelle scorte o un risparmio non programmato assicurano sempre che l’investimento corrente, programmato e non, sia uguale al risparmio corrente, programmato e non programmato.

17.5. Una riduzione della spesa aggregata

La pendenza della funzione AD dipende solo dalla propensione marginale al consumo (PMgC). Per una data PMgC, è il livello della spesa autonoma (A + I) che determina l’altezza della funzione AD. La spesa autonoma è la spesa che non dipende dal reddito. Cambiamenti nella spesa autonoma provocano spostamenti paralleli della funzione AD. Poiché non vi è modo di sapere con certezza quale sarà la domanda futura, la spesa per investimenti risulta libera di variare in modo significativo, essendo fortemente influenzata dal pessimismo o dall’ottimismo inerente al futuro. Supponiamo che le imprese abbiano una visione pessimistica circa il futuro livello della domanda. Di conseguenza, esse ridurranno gli investimenti attuali. Se il consumo autonomo non varia, la funzione della spesa aggregata AD è ora più bassa per ogni livello di reddito. Prima di scendere in alcuni particolari, pensiamo a ciò che succede al livello del prodotto. Esso si ridurrà certamente, ma di quanto? Quando la spesa per beni di investimento si riduce, le imprese ridurranno la produzione. Le famiglie avranno un reddito inferiore e ridurranno a loro volta la spesa per beni di consumo. Le imprese, di nuovo, ridurranno ancora la produzione riducendo ulteriormente i redditi delle famiglie. Il consumo si ridurrà ulteriormente. Ma che cosa determina l’arresto di questo processo di riduzione? La figura mostra che uno spostamento verso il basso della spesa aggregata riduce il reddito di equilibrio di una misura maggiore rispetto alla riduzione della spesa aggregata. Tuttavia, malgrado l’equilibrio si sposti da E a E1, il reddito non si è ridotto a zero, bensì di un ammontare finito. Ciò è dovuto al fatto che la funzione AD ha una pendenza minore rispetto a quella della retta a 45°. La sua pendenza, che riflette la propensione marginale al consumo, è sempre minore dell’unità. Il tempo che un sistema economico impiega per raggiungere il nuovo equilibrio dipende dalla velocità di reazione delle imprese alla riduzione dell’output. La spesa aggregata si riduce di un ammontare superiore rispetto alla riduzione iniziale dell’investimento, pur non innescando una spirale continua che porterebbe il reddito e la produzione a zero:

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• il MOLTIPLICATORE è il rapporto tra la variazione del reddito (o del prodotto) e la variazione nella componente autonoma della spesa, che ha indotto il cambiamento nel reddito;

17.6. Il moltiplicatore

Il moltiplicatore ci dice quanto il livello del prodotto varierà a seguito di uno spostamento della spesa aggregata. Il moltiplicatore è maggiore di 1 perché, per ogni variazione delle componenti autonome della spesa, le variazioni finali nella spesa aggregata saranno sempre superiori. Questo ci spinge a intuire che la misura del moltiplicatore dovrà essere in qualche modo legata alla propensione marginale al consumo. L’effetto iniziale di un aumento di un’unità nell’investimento è un aumento della produzione e del reddito pari a un’unità. Se la PMgC fosse grande, questo aumento del reddito porterebbe a un moltiplicatore assumerebbe valori elevati. Se la PMgC fosse piccola, lo stesso cambiamento dell’investimento e del reddito di una unità indurrebbea un più piccolo incremento aggiuntivo nel consumo e quindi della spesa aggregata. In questo caso, il moltiplicatore sarebbe più piccolo. La definizione del moltiplicatore è la seguente:

( )1/ 1moltiplicatore c= −

IL MOLTIPLICATORE E LA PMgS. La parte rimanente di un’unità addizionale di reddito che non è spesa per l’acquisto di beni di consumo dovrà essere risparmiata. Quindi (1- c) sarà uguale al PMgS, la propensione marginale al risparmio:

• la PROPENSIONE MARGINALE AL RISPARMIO indica la frazione di unità addizionale di reddito che le famiglie decidono di risparmiare;

17.7. Il paradosso della parsimonia

Osserviamo ora cosa succede nel caso di uno spostamento parallelo della spesa aggregata causato da un cambiamento nella componente autonoma del consumo. Supponiamo che le famiglie decidano di aumentare il consumo autonomo di 10. La spesa aggregata si sposta verso l’alto di 10 unità da AD a AD1 a causa dello spostamento verso l’alto della funzione del consumo. Un aumento del consumo autonomo (A) implica però anche una riduzione della stessa misura del risparmio autonomo, ossia di quella parte del risparmio che non dipende dal reddito, e dunque la funzione del risparmio si sposta parallelamente verso il basso. L’equilibrio si sposta da E a E1 e il reddito di equilibrio aumentano da Y*a Y**. Si noti però che il livello assoluto dell’investimento e del risparmio non sono cambiati poiché il livello degli investimenti è sempre lo stesso.

• una variazione nel risparmio programmato dalle famiglie per ogni livello di reddito conduce a una variazione nel reddito di equilibrio, ma non comporta un cambiamento nel livello assoluto del risparmio programmato, che sarà uguale all’investimento programmato. Questo è il PARADOSSO DELLA PARSIMONIA;

18. Politica fiscale e commercio estero Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di:

• comprendere in che modo la politica fiscale influenzi la spesa aggregata; • ricavare l’equilibrio di breve periodo del prodotto nazionale, indicando il ruolo dello Stato; • conoscere il concetto di moltiplicatore del bilancio in pareggio; • analizzare la funzione degli stabilizzatori automatici; • discutere i concetti di bilancio strutturale e di bilancio corretto in funzione dell’inflazione; • descrivere il modo in cui i deficit di bilancio accrescono il debito pubblico; • spiegare i limiti di una politica fiscale discrezionale; • comprendere come il commercio estero influenzi l’equilibrio del prodotto nazionale;

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Nella maggior parte dei Paesi europei, i Governi acquistano circa un quinto del PIL. Spendono circa lo stesso ammontare per trasferimenti e si servono principalmente della tassazione per finanziare questi due tipi di spese. Qual è l’impatto delle politiche fiscali dello Stato sul sistema macroeconomico?

• le POLITICHE FISCALI sono costituite dalle decisioni del Governo in materia di spesa pubblica e tassazione;

Estenderemo ora il nostro modello reddito-spesa includendo il ruolo dello Stato e la politica fiscale. Successivamente, ci occuperemo di tre aspetti della politica fiscale.

• le POLITICHE DI STABILIZZAZIONE consistono in quelle azioni di politica fiscale del Governo, volte a mantenere il prodotto corrente il più vicino possibile al prodotto di piena occupazione;

Il primo argomento che affronteremo riguarda sia le possibilità sia le difficoltà dell’uso delle politiche fiscali come politiche di stabilizzazione. Il secondo argomento che tratteremo concerne il deficit pubblico:

• il DEFICIT PUBBLICO è costituito dall’eccesso di uscite del Governo rispetto alle entrate; La fonte principale di finanziamento di un Governo, quando questo ha un deficit, è costituita dall’emissione di obbligazioni (i titoli di Stato) che sono titoli con i quali il Ministero dell’economia promette di restituire il capitale finanziato dall’acquirente del titolo, maggiorato degli interessi maturati durante il periodo del prestito. Il risultato di queste continue richieste di finanziamento contribuisce a creare il debito pubblico:

• il DEBITO PUBBLICO è costituito dalla somma dei deficit contratti dallo Stato meno eventuali avanzi di bilancio;

Il terzo argomento di politica fiscale che andremo a esaminare riguarda l’effetto del debito pubblico. Ma la maggior parte del capitolo tratterà del ruolo dello Stato, attraverso il Governo, nell’influenzare la spesa aggregata. Per completare il nostro modello di determinazione del reddito dobbiamo aggiungere non solo lo Stato, ma anche il commercio estero.

18.1 Lo Stato e il flusso circolare del reddito

La spesa pubblica G per beni e servizi contribuisce direttamente alla spesa aggregata. Ma lo Stato sottrae anche reddito dal circuito attraverso le imposte dirette Ti che colpiscono il consumo finale, e attraverso le imposte dirette Td che colpiscono invece il reddito finale dei fattori di produzione. Per quanto riguarda le entrate, le imposte dirette sono costituite dall’imposta sul reddito delle persone fisiche e da quelle pagate dalle imprese. Complessivamente, in italia, le imposte dirette ammontano a oltre 177 miliardi di euro e sono pari al 13,6% del PIL. Vi sono poi le imposte indirette (IVA, accisa sulla benzina) o altre imposte (ICI) che colpiscono le proprietà immobiliari. Le imposte indirette ammontano a oltre 188 miliardi di euro e sono pari al 14,5% del PIL. Infine, la terza delle principali voci delle entrate dello Stato è costituita dai contributi sociali.

18.2. Lo Stato e la spesa aggregata

Allarghiamo ora il modello di determinazione del reddito nazionale, portandolo a includere il settore pubblico. Poiché è poco agevole continuare a distinguere tra PIL ai prezzi di mercato e PIL al costo dei fattori, supporremo che tutte le imposte siano imposte dirette. In assenza di imposte indirette, i valori ai prezzi di mercato e al costo dei fattori coincidono. Fino alla parte finale del capitolo, continueremo invece a ignorare il settore estero. In questo modello semplificato, la spesa aggregata AD eguaglia la spesa per beni di consumo C, più gli investimenti I, più la spesa pubblica G per beni e servizi:

AD C I G= + + Nel breve periodo, la spesa pubblica non varia al variare dell’output e del reddito nazionale. La spesa pubblica è decisa dal Governo. Abbiamo allora tre componenti autonome della spesa aggregata che non

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variano al variare del reddito o del prodotto: il consumo autonomo (l’intercetta nella funzione del consumo), l’investimento I e la spesa pubblica G. Lo Stato impone però anche alcune imposte e paga somme alle famiglie (i trasferimenti):

• le IMPOSTE NETTE sono le imposte meno i trasferimenti; Poiché abbiamo ipotizzato che non vi siano imposte indirette, le imposte nette (NT) sono costituite dalle imposte dirette Td meno i trasferimenti (B). Se YD è il reddito disponibile, Y è il reddito (o prodotto) nazionale e NT sono le imposte nette, definiamo allora il reddito disponibile come:

( )1YD Y NT t Y= − = −

laddove per semplicità assumiamo che le imposte nette siano proporzionali al reddito nazionale. Quindi, se t è l’aliquota fiscale netta, ciò che lo Stato ricava in totale dalle imposte nette è NT = tY. Continuiamo a ipotizzare che il consumo che le famiglie desiderano effettuare sia proporzionale al reddito. In questo esempio, per semplicità, supponiamo che il consumo autonomo sia zero e che la propensione marginale al consumo sia la stessa del capitolo precedente, ovvero 0,9. La funzione del consumo in questo caso sarà C = 0,9YD. Considerando un’aliquota fiscale netta t, l’equazione precedente mostra che il reddito nazionale YD è soltanto (1 – t) volte il reddito nazionale Y. Quindi, mettendo in relazione la domanda di beni di consumo con il reddito nazionale C = 0,9YD = 0,9(1 – t)Y.

Se il reddito nazionale aumenta di 1 euro, la spesa per beni di consumo aumenterà di 0,9 per (1 – t) euro. Se l’aliquota fiscale netta t è 0,2, allora la spesa per beni di consumo aumenterà di 0,9 per 0,8 = 0,72 euro. Ogni euro in più di reddito nazionale accresce il reddito disponibile solo di 80 centesimi. Di questi, le famiglie ne spendono il 90% in consumo e ne risparmiano il 10%. Quindi l’introduzione dell’aliquota fiscale netta t ha l’effetto di ridurre la propensione marginale al consumo. Se abbiamo definito la propensione marginale PMgC in funzione del reddito disponibile, allora possiamo definire una propensione marginale al consumo PMgC1 per indicare

la variazione del consumo dovuta a una variazione del reddito nazionale:

( )11PMgC PMgC t= −

GLI EFFETTI DI UN’ALIQUOTA FISCALE NETTA SULL’OUTPUT. Rispetto alla figura precedente, per rappresentare la funzione della spesa aggregata, dovremo aggiungere la domanda (costante) di beni di investimento I alla funzione di consumo. Quindi, l’incremento dell’aliquota fiscale netta, causa una rotazione della funzione della spesa aggregata da AD a AD1. Il punto in cui la funzione taglia ora la retta a 45° - che mostra tutti i possibili livelli nei quali la spesa programmata è esattamente uguale al reddito – è ora il punto E1 e non più il punto E. Il reddito di equilibrio quindi diminuisce. Allora, un aumento dell’aliquota fiscale netta riduce il reddito di equilibrio. Al contrario, se la spesa aggregata e il reddito di equilibrio fossero al di sotto del livello di piena occupazione, una riduzione delle aliquote fiscali o un aumento dei trasferimenti genererebbe un aumento della spesa aggregata e quindi del reddito di equilibrio.

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GLI EFFETTI DELLA SPESA PUBBLICA SULL’OUTPUT. Tralasciamo ora le imposte e focalizziamoci invece sulla spesa pubblica. Supponiamo che non vi siano tasse. Reddito nazionale e reddito disponibile coincidono. La figura mostra che un aumento della spesa pubblica ha un effetto simile a quello di un aumento della domanda per investimenti. Con una propensione marginale al consumo pari a 0,9, il moltiplicatore è di nuovo pari a 1/(1 – PMgC) = 10. Un aumento della spesa pubblica G avrebbe allora la capacità di aumentare il reddito nazionale di 10 volte.

L’EFFETTO COMBINATO DELLA SPESA PUBBLICA E DELL’IMPOSIZIONE FISCALE. Supponiamo che un’economia abbia un reddito nazionale in equilibrio di 1000, una spesa pubblica nulla e una domanda autonoma di beni di consumo delle famiglie e di beni di investimento delle imprese pari a 100. Con una propensione marginale al consumo pari a 0,9, un reddito disponibile di 1000 implica una domanda di beni di consumo pari a 900. La spesa aggregata è 900 + 100 = 1000, che è anche il reddito attuale. A questo punto, introduciamo una domanda autonoma del Governo di 200, che porta la domanda autonoma totale a 300. Introduciamo anche un’aliquota fiscale netta di 0,2. La

propensione marginale al consumo rispetto al reddito nazionale diminuisce da 0,9 a 0,72 e il moltiplicatore diventa 1 / (1 – 0,72) = 1 / 0,28 = 3,57. Moltiplicando la domanda autonoma di 300 per 3,57 otteniamo un reddito di equilibrio di 1071, maggiore del reddito di equilibrio iniziale. IL MOLTIPLICATORE DEL BILANCIO IN PAREGGIO. Nell’esempio precedente, siamo partiti da un livello di reddito di equilibrio pari a 1000. Con un’aliquota fiscale del 20%, le entrate dello Stato saranno dunque pari a 200, esattamente l’ammontare della spesa pubblica. A seguito della manovra, il bilancio dello Stato è in pareggio poiché le entrate sono esattamente uguali alle uscite. L’aumento di 200 nella spesa pubblica ha determinato un aumento di 200 nella spesa aggregata. L’imposizione fiscale ha però ridotto il reddito disponibile di 200. Ma poiché la propensione marginale al consumo rispetto al reddito disponibile (PMgC) è pari a 0,9, la domanda di beni di consumo si riduce solo di 0,9 per 200 = 180. L’effetto iniziale dell’imposizione fiscale e della spesa pubblica è quello di aumentare la spesa aggregata di 200, ma anche di ridurla di 180. Quindi la spesa aggregata netta cresce di 20. Il prodotto nazionale cresce, causando un’ulteriore crescita della domanda di beni di consumo. Quando il nuovo equilibrio viene raggiunto, il prodotto è cresciuto di un ammontare pari a 71. Questo esempio illustra il famoso moltiplicatore del bilancio in pareggio:

• il MOLTIPLICATORE DEL BILANCIO IN PAREGGIO afferma che un aumento della spesa pubblica, compensato da un uguale aumento dell’imposizione fiscale, conduce a un maggior livello di reddito;

IL NUOVO MOLTIPLICATORE DEL REDDITO. Il moltiplicatore mette in relazione variazioni delle componenti autonome della spesa con variazioni del reddito nazionale di equilibrio e del prodotto. E’ necessario introdurre il PMgC1, ossia la propensione marginale al consumo rispetto al reddito, al posto della PMgC, ossia la propensione marginale al consumo rispetto al reddito disponibile.

( )11/ 1moltiplicatore PMgC= −

Con l’introduzione di un’aliquota fiscale netta t, proporzionale al reddito, sappiamo che PMgC1 = PMgC per (1 - t). Data una qualsiasi PMgC, tanto maggiore è l’aliquota t, tanto minore sarà PMgC1 e, di conseguenza, si ridurrà anche il moltiplicatore. Questa tabella estende semplicemente questa intuizione. Adesso i prelievi sono dovuti sia al risparmio sia alle imposte. Quando la propensione marginale al risparmio e l’aliquota fiscale sono relativamente grandi, il moltiplicatore è piccolo.

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PMgC t PMgC1 Moltiplicatore 0,9 0 0,90 10,00 0,9 0,2 0,72 3,57 0,7 0 0,70 3,33 0,7 0,2 0,56 2,27 0,7 0,4 0,42 1,72

18.3. Il bilancio dello Stato

• un BILANCIO descrive le modalità della spesa e di finanziamento di un individuo, di un’impresa o di

un ente pubblico; Il bilancio dello Stato illustra le tipologie della spesa per beni e servizi che il Governo intende acquistare durante un futuro periodo di tempo (tradizionalmente l’anno solare), l’ammontare dei trasferimenti e le modalità di finanziamento del bilancio stesso. Le imposte costituiscono solitamente la fonte principale delle entrate. Quando le spese eccedono le entrate, si verifica un deficit di bilancio. Al contrario, quando le entrate superano le uscite vi è un surplus o avanzo di bilancio. Continuando a indicare con G la spesa pubblica e con NT le imposte nette, ossia le imposte nette meno i trasferimenti, il deficit di bilancio può allora essere definito come:

deficitdibilancio G NT= −

La figura mostra le spese dello Stato G e le imposte nette tY,mettendole in relazione con il reddito nazionale. Assumiamo che la spesa G sia fissata a 200. Con un’aliquota fiscale netta di 0,2, le imposte nette sono NT=0,2Y. Se il reddito nazionale è pari a zero, le imposte incassate sono zero. Per redditi inferiori a Y = 1000, il Governo ha un deficit (o disavanzo) di bilancio. Con un reddito pari a Y=1000, il bilancio è in pareggio. Per redditi superiori, il bilancio è in avanzo. Dati G e t, l’avanzo o il disavanzo di bilancio dipendono unicamente dal livello del reddito. INVESTIMENTI, RISPARMI E BILANCIO DELLO STATO. In base alle definizioni che abbiamo fornito, nel flusso circolare del reddito i prelievi correnti devono essere uguali alle immissioni correnti. I flussi monetari non possono svanire nel nulla. Il nostro modello contempla ora due prelievi: il risparmio delle famiglie e la tassazione che è pagata al Governo. Vi sono anche due corrispondenti immissioni: la spesa per beni di investimento delle imprese e la spesa pubblica per beni e servizi. Il risparmio corrente sommato alle imposte correnti deve essere uguale alla somma degli investimenti correnti e della spesa pubblica corrente. Possiamo affermare che, in equilibrio, la somma dei risparmi programmati S e delle imposte programmate NT sarà uguale alla somma della spesa pubblica G e dell’investimento programmato I. Le immissioni programmate devono uguagliare i prelievi programmati:

S NT G I+ = + L’equazione implica che il deficit di bilancio programmato debba essere uguale alla differenza tra risparmio e investimento programmato:

S I G NT− = − L’ultima equazione ci mostra che qualsiasi aumento nella spesa pubblica G debba aumentare il deficit di bilancio. Data una certa politica fiscale netta, qualsiasi aumento di G provoca uno spostamento parallelo verso l’alto della funzione della spesa aggregata. Ciò fa aumentare il reddito di equilibrio. Poiché l’aliquota

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fiscale è meno del 100% vi sarà anche un aumento del reddito disponibile. Le famiglie dunque aumenteranno sia il consumo programmato sia il risparmio programmato. Poiché l’investimento I è indipendente dal reddito, l’aumento del risparmio programmato accresce il lato sinistro dell’equazione. Quindi il lato destro dell’equazione deve crescere. Infatti, non potremo mai trovare un incremento delle entrate NT pari all’incremento della spesa pubblica G. L’equazione ci dimostra che il deficit di bilancio di equilibrio cresce se la spesa pubblica cresce, ma l’aliquota fiscale netta non cambia:

• un AUMENTO DELLA SPESA PUBBLICA per beni e servizi fa crescere il reddito di equilibrio. Data una qualsiasi aliquota fiscale, anche il prelievo fiscale aumenterà. Ma il deficit pubblico aumenterà (o il surplus di ridurrà);

Possiamo analizzare in modo simile l’effetto di un aumento dell’aliquota fiscale. In questo caso, il reddito disponibile si riduce sia perché si è ridotto il reddito di equilibrio sia perché vi è una maggiore aliquota. Con un minor reddito disponibile, si riducono anche i risparmi e dunque il lato sinistro dell’equazione. Quindi il deficit di bilancio diminuisce:

• dato un certo livello di spesa pubblica G, un AUMENTO DELL’ALIQUOTA FISCALE riduce sia il reddito di equilibrio sia il deficit pubblico;

18.4. Deficit di bilancio e politica fiscale

L’ammontare del deficit di bilancio di uno Stato fornisce informazioni sul tipo di politica fiscale che il Governo sta adottando? In altre parole, possiamo affermare che un Governo stia perseguendo una politica fiscale espansiva, ossia volta a innalzare il reddito nazionale, quando aumente il proprio deficit di bilancio e, al contrario, una politica fiscale restrittiva, quando cerca di ridurre il disavanzo? Il deficit, o meglio le variazioni del deficit, possono essere una misura poco informativa degli orientamenti del Governo in merito alla politica fiscale. Il deficit può variare per ragioni che non hanno a che fare con la politica fiscale discrezionale del Governo. In generale, per ogni livello di spesa pubblica e di tassazione, i bilanci degli Stati mostrano maggiori deficit in periodi di recessione, quando il reddito nazionale è basso. Al contrario, nei periodi di espansione i deficit si ridurranno, ed eventualmente si verificheranno degli avanzi di bilancio. IL BILANCIO STRUTTURALE. Al fine di utilizzare il deficit di bilancio come un indicatore della politica fiscale, calcoliamo il bilancio strutturale o corretto per ciclo economico:

• il BILANCIO STRUTTURALE mostra quale sarebbe il bilancio dello Stato se il prodotto fosse al suo livello potenziale;

IL BILANCIO CORRETTO IN FUNZIONE DELL’INFLAZIONE. Un0altra ragione per la quale può risultare fuorviante l’osservazione del deficit pubblico come misura degli orientamenti della politica fiscale concerne la distinzione tra tassi di interesse reali e nominali:

• il BILANCIO CORRETTO IN FUNZIONE DELL’INFLAZIONE usa i tassi reali e non quelli nominali nel calcolo della spesa per interessi sul debito;

Supponiamo che l’inflazione sia il 10% e i tassi di interesse nominali siano il 12%. Il tasso di interesse reale è soltanto il 2%. Dal punto di vista dello Stato, gli interessi effettivi da pagare su ogni euro chiesto in prestito sono solo il 2%. Infatti, restituire 1 euro tra un anno sarà del10% meno oneroso, da parte dello Stato, poiché vi è stata inflazione e 1 euro alla fine dell’anno ha un valore diverso di un euro all’inizio dell’anno.

18.5. Gli stabilizzatori automatici e la politica fiscale discrezionale

Tanto è maggiore l’aliquota fiscale netta t, tanto più si riduce il valore del moltiplicatore. Supponete che in un sistema economico la spesa per investimenti si riduca di 100. Tanto maggiore è il valore del moltiplicatore, tanto maggiore sarà la riduzione del reddito di equilibrio. Allo stesso modo, un’alta aliquota fiscale t riduce il moltiplicatore e deprime gli effetti sul reddito degli shock della spesa aggregata. Un’alta aliquota fiscale è dunque uno stabilizzatore economico:

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• uno STABILIZZATORE ECONOMICO è un meccanismo che riduce il moltiplicatore e quindi le variazioni del reddito dovute agli shock della spesa aggregata;

Uno shock cambia le componenti autonome della spesa aggregata, spostando la posizione della funzione tra gli assi cartesiani. Le aliquote sul reddito, l’imposta sul valore aggiunto, i sussidi di disoccupazione sono importanti stabilizzatori automatici. Tutti i prelievi dal flusso circolare del reddito sono stabilizzatori automatici. Un maggiore tasso di risparmio, e una minore propensione marginale al consumo, riducono il moltiplicatore. POLITICHE FISCALI DISCREZIONALI. Sebbene gli stabilizzatori automatici siano sempre all’opera, i Governi usano anche politiche fiscali attive o discrezionali con le quali, variando il livello della spesa pubblica o la pressione fiscale netta, cercano di portare il prodotto nazionale il più vicino possibile al prodotto di piena occupazione. Quando il livello delle altre componenti della domanda aggregata è molto basso, il Governo può decidere di aumentare la spesa pubblica o ridurre la pressione fiscale o effettuare entrambe le manovre contemporaneamente. Per contro, se invece le altre componenti della spesa aggregata presentano valori molto elevati, ecco che il Governo può decidere di aumentare la pressione fiscale o diminuire la spesa pubblica:

• le POLITICHE FISCALI DISCREZIONALI consistono nelle decisioni in merito all’aliquota fiscale e ai livelli di spesa pubblica;

18.6. Il deficit e il debito pubblico

• la somma dei debiti contratti dallo Stato costituisce il DEBITO PUBBLICO;

18.7. Il commercio estero nella determinazione del reddito

Definiremo il valore delle esportazioni X come il valore monetario dei beni prodotti all’interno del Paese e venduti al resto del mondo. Il valore delle importazioni Z è invece associato al valore monetario dei beni prodotti dal resto del mondo e acquistati dai residenti di un Paese. Due osservazioni possono in proposito essere compiute. In primo luogo, esportazioni e importazioni tendono oggi sostanzialmente a eguagliarsi.

• Il SALDO DELLA BILANCIA COMMERCIALE mostra il valore delle esportazioni nette: quando le esportazioni eccedono le importazioni, la bilancia commerciale registra un avanzo. Viceversa, quando le importazioni sono maggiori delle importazioni, la bilancia registra un disavanzo;

Il sistema economico italiano è estremamente aperto. Per aperto si deve intendere che intrattiene scambi commerciali con il resto del mondo. Esportazioni e importazioni costituiscono circa ¼ del PIL. Il commercio estero è molto più importante per la maggior parte dei Paesi europei, rispetto a quanto non lo sia per gli Stati Uniti. Le esportazioni nette X – Z sono un tipo di spesa per beni e servizi nazionali, e quindi devono essere aggiunte alle altre tipologia di spesa e nella misurazione del PIL. La funzione della spesa aggregata diventa allora:

Y AD C I G X Z= = + + + − Le esportazioni vengono trattate come una componente autonoma della spesa. Le importazioni sono costituite dalle materie prime e dai semilavorati che le imprese italiane acquistano all’estero e dai beni e servizi di consumo acquistati dalle famiglie italiane. La domanda di beni stranieri da parte degli italiani dipende dal reddito italiano e aumenta all’aumentare del reddito nazionale. La figuramostra le relazioni che esistono tra i flussi monetari associati allo scambio con l’estero e il reddito nazionale. La funzione delle

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esportazioni è orizzontale perché le esportazioni non dipendono dal reddito nazionale. Le importazioni sono pari a zero quando il reddito nazionaleè zero, ma aumentano all’aumentare del reddito. La pendenza della funzione delle importazioni è la propensione marginale alle importazioni:

• La PROPENSIONE MARGINALE ALLE IMPORTAZIONI (PMgZ) indica quale frazione di una unità aggiuntiva di reddito nazionale individui desiderino spendere per acquistare beni e servizi stranieri;

LE ESPORTAZIONI NETTE E L’EQUILIBRIO DEL REDDITO NAZIONALE. La figura ci mostra l’equilibrio del reddito nazionale, ora che abbiamo incluso anche il commercio estero nel modello reddito-spesa. La spesa aggregata AD è quella descritta nel capitolo precedente, ossia AD = C + I + G. In questa spesa non sono comprese le esportazioni nette. La spesa AD1 comprende invece anche le esportazioni nette, infatti è uguale ad AD1 = C + I + G + X – Z. Per bassi livelli di reddito, AD1 è superiore ad AD. All’aumentare del reddito, la

differenza tra le due spese di riduce perché aumentano le importazioni. Quando il reddito cresce oltre una certa soglia le esportazioni nette diventano negative e dunque la spesa AD1 è minore della spesa AD. Con un reddito pari a zero, la spesa è I + G + X. Ipotizziamo una propensione marginale al consumo PMgC=0,72. La propensione della funzione C + I + G è pari a 0,72, mentre la funzione della spesa aggregata è più piatta. Infatti, per ogni euro aggiuntivo di reddito, i consumatori ne spendono 0,72 parti per il consumo di beni nazionali, ma ora anche 0,2 parti per il consumo di beni stranieri (avendo supposto una propensione marginale alle importazioni pari a PMgZ= 0,2). Quindi ogni unità aggiuntiva di reddito determina ora un incremento della spesa aggregata per beni e servizi nazionali di 0,52 parti (o del 52%). La funzione della spesa aggregata ha dunque una pendenza di 0,52.

IL MOLTIPLICATORE IN UN’ECONOMIA APERTA. Ogni euro aggiuntivo di reddito nazionale determina un aumento del consumo di prodotti nazionali non pari a PMgC1., cioè alla propensione marginale al consumo di beni di qualsiasi nazionalità, ma pari a PMgC1 – PMgZ. Il moltiplicatore è inferiore perché non ci sono soltanto prelievi dovuti al risparmio e all’imposizione fiscale, ma anche prelievi dovuti alle importazioni. Di conseguenza, in un’economia aperta, la formula per il calcolo del moltiplicatore del reddito deve essere modificata e diventa:

( )11/ 1moltiplicatore PMgC PMgZ = − −

Con PMgC1 = 0,72, il moltiplicatore, in assenza di commercio estero, era pari a 3,57. Quando il valore della propensione marginale alle importazione è pari a 0,2, il moltiplicatore si riduce a 2,08. UN AUMENTO DELLE ESPORTAZIONI. Un aumento delle esportazioni provoca uno spostamento parallelo della funzione della spesa aggregata, verso l’alto. Di conseguenza, l’equilibrio del reddito aumenta. Tanto maggiore sarà lo spostamento verso l’alto e tanto più aumenterà il reddito nazionale. Si può intuire che quanto avviene in questo caso è del tutto analogo a quanto avviene nel caso di un aumento della spesa pubblica o degli investimenti. Si osservi che un aumento delle esportazioni X aumenta il reddito di equilibrio. A sua volta, questo aumento del reddito di equilibrio aumenta il risparmio programmato S, il ricavato dall’imposizione fiscale netta NT e le importazioni programmate Z. Poiché allora aumentano sia S sia NT sia Z, ne deduciamo che l’aumento delle importazioni Z deve essere inferiore all’aumento di X. Dunque un aumento delle esportazioni determina anche un aumento delle importazioni, ma complessivamente aumenta il livello programmato delle esportazioni nette. Il saldo della bilancia commerciale del Paese migliorerà.

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IMPORTAZIONI E OCCUPAZIONE. E’ frequente pensare che le importazioni di beni e servizi da Paesi stranieri sottraggano lavoro all’economia nazionale. In effetti, la domanda di beni nazionali può essere soddisfatta sia con beni prodotti all’estero sia con beni prodotti all’interno del Paese. Quindi, riducendo le importazioni verrà fatto maggiore uso della produzione nazionale e dunque l’occupazione nazionale aumenterà. Questo ragionamento è corretto. Una riduzione della propensione marginale alle importazioni determina una rotazione verso l’alto della funzione della spesa aggregata aumentandone la pendenza. Il prodotto e il reddito nazionale di equilibrio quindi aumenteranno.

19. La moneta e il sistema bancario Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di:

• comprendere che l’attributo chiave della moneta è quello di essere mezzo di pagamento; • ricordare le altre funzioni della moneta; • analizzare in che modo le banche creano moneta; • definire la base monetaria, il moltiplicatore monetario e la quantità offerta di moneta; • spiegare le diverse misure dello stock di moneta in circolazione; • analizzare il modo in cui le banche competono per ottenere depositi e prestiti; • esaminare i motivi che spingono a trattenere moneta; • individuare la relazione che lega la domanda di moneta al reddito nazionale, ai prezzi e ai tassi

d’interesse; La “moneta” è considerata il simbolo del successo, ciò che crea la criminalità e ciò che muove il mondo:

• per MONETA si deve intendere qualsiasi mezzo di pagamento, generalmente accettato per lo scambio di beni e servizi e per l’estinzione di debiti. La moneta è un MEZZO DI SCAMBIO;

19.1 La moneta e le sue funzioni

Sebbene la principale delle caratteristiche della moneta sia il fatto di venire comunemente accettata da tutti come mezzo di pagamento o mezzo per effettuare le transazioni, essa ha altre tre funzioni. Serve da unità di conto, da riserva di valore e come misura di pagamenti differiti. MEZZO DI SCAMBIO. La moneta come mezzo di scambio è usata in almeno la metà di tutti gli scambi. In un’economia del baratto, sia il venditore sia il compratore devono volere qualche cosa che l’altro ha da offrire. Ognuno è allo stesso tempo venditore e compratore. Ci deve essere una doppia coincidenza tra due desideri dei soggetti. Commerciare diventa allora molto costoso. Poiché il tempo e lo sforzo sono due risorse scarse, un’economia del baratto non è efficiente. ALTRE FUNZIONI DELLA MONETA:

• la moneta è un’UNITA’ DI CONTO, cioè un’unità di misura dei prezzi e della contabilità di alcuni soggetti e istituzioni;

• la moneta funge anche da RISERVA DI VALORE, perché può essere usata per fare acquisti anche in futuro;

Infine la moneta serve come misura di un pagamento differito nel tempo, o unità di conto nel tempo. DIFFERENTI TIPI DI MONETA:

• la MONETA SIMBOLO consiste in quei mezzi di pagamento il cui valore o potere d’acquisto monetario eccede di gran lunga il costo di produzione del mezzo stesso o il valore di quell’oggetto al di fuori del suo uso come moneta;

Nelle economie moderne, le monete simbolo sono spesso anche accompagnate da un altro tipo di moneta:

• la MONETA FIDUCIARIA è un mezzo di scambio basato sul debito di una impresa privato o di un individuo;

Un deposito in banca costituisce moneta fiduciaria poiché è basato su un debito della banca.

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19.2. Le banche moderne

Quando qualcuno deposita il proprio cappotto nel guardaroba di un teatro, non si aspetta che il teatro lo affitti durante la rappresentazione. Le banche, invece, danno in prestito alcuni cappotti del loro guardaroba. Un teatro dovrebbe farsi restituire quel particolare cappotto prima della fine della rappresentazione, e questo potrebbe essere un problema. Per una banca è più semplice, perché tutte le banconote sono identiche.

• le RISERVE DELLE BANCHE sono costituite dalla moneta disponibile in banca necessaria a far fronte alle possibili richieste di prelievo dei clienti. Il RAPPORTO DI RISERVA è il rapporto tra le riserve e i depositi;

Diversamente da altre istituzioni finanziarie, come i fondi pensione, la caratteristica principale delle banche è che alcune delle loro passività sono utilizzate come mezzi di pagamento: gli assegni permettono ai rispettivi depositi di essere utilizzati come moneta.

• l’OFFERTA DI MONETA è il valore della quantità complessiva di moneta, il mezzo di scambio, in circolazione;

La stanza di compensazione costituisce il meccanismo attraverso cui si svolge il processo di pagamento dei saldi netti tra le banche. Quindi la stanza di compensazione è un altro modo attraverso il quale la società riduce i costi di transazione. In Italia, la Banca d’Italia è l’istituzione che gestisce la stanza di compensazione.

• il denaro in DEPOSITI A VISTA può essere ritirato senza alcun preavviso. I DEPOSITI A TEMPO garantiscono un interesse maggiore, ma richiedono che il cliente dia un preavviso prima di ritirare il denaro;

IL SETTORE BANCARIO. L’attività principale di una banca è proprio quella di raccogliere liquidità dal sistema economico da coloro i quali desiderano prestarla o impiegarla e, successivamente, prestare questa liquidità a coloro che ne hanno bisogno. Le banche usano la loro competenza specialistica per acquistare un portafoglio di investimenti diversificati, ma trattengono parte della raccolta in forma di riserva. La banche sono:

• un INTERMEDIATORE FINANZIARIO, ovvero un’istituzione specializzata nel fare incontrare che vuol prestare moneta e chi ha bisogno di moneta. Le BANCHE COMMERCIALI sono intermediari finanziari che hanno un’autorizzazione dello Stato a concedere prestiti a incassare depositi a fronte dei quali si possono emettere assegni;

19.3. Le banche come creatrici di moneta

Supponiamo che un cliente decida di versare 1000 alla banca aprendo un conto corrente. La banca ha così un’attività di 1000 in contanti e una passività di 1000 in depositi. Supponiamo che la stessa banca conceda un fido per 9000. Questo prestito rappresenta un’attività della banca perché dovrà essere restituito. Allo stesso tempo è una passività perché questi potranno essere utilizzati dal beneficiario del fido. Adesso le banche hanno 10000 in totale di depositi – il versamento iniziale di 1000 + 9000 come controparte del fido – e 10000 euro in attività totali, comprendenti 9000 del fido e 1000 di cassa in contante. Il rapporto di riserva in questo caso è del 10%. Il rischio per la banca è rappresentato dalla possibilità di non avere sufficiente contante in cassa. Il profitto ottenuto dalle banche deriva dalla differenza (spread) tra il tasso d’interesse a cui la banca presta e quello che la banca paga per raccogliere liquidità:

• lo SPREAD DEI TASSI è il differenziale che esiste tra il tasso d’interesse che una banca applica sulla liquidità prestata e il minor tasso d’interesse che la banca paga sui depositi dei risparmiatori;

Quando viene depositata nelle banche la moneta cessa di essere mezzo di scambio. Ma i clienti hanno la possibilità di emettere di assegni. Ma l’offerta di moneta è ancora di 1000 euro.

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IL PANICO FINANZIARIO:

• è una profezia auto-verificantesi. La gente crede che la banca non sia in grado di pagare. Nella corsa precipitosa per richiedere indietro i propri depositi, ecco che veramente la banca non riesce a pagare tutti i propri clienti. E fallisce;

19.4. La base monetaria e il moltiplicatore monetario

Nelle economie moderne, l’offerta di moneta è determinata dalla banca centrale, in Europa dalla BCE.

• La BASE MONETARIA o stock di moneta AD ALTO POTENZIALE è la quantità di banconote e monete metalliche in circolazione all’interno del sistema economico, sommata alle riserve detenute dal sistema bancario;

• Il MOLTIPLICATORE MONETARIO indica la variazione di moneta dovuta a una variazione di 1 euro

nella base monetaria; In equazione: offerta di moneta = moltiplicatore monetario x base monetaria Il valore del moltiplicatore monetario dipende da due parametri: (a) il rapporto tra riserve e depositi delle banche (coefficienti di riserva) e (b) il rapporto tra la quantità di circolante che i privati desiderano trattenere rispetto ai loro depositi bancari (coefficiente di liquidità). INSERIRE BOX 19.4

19.5. Le misure della moneta

Per misurare la moneta è opportuno ricordare allora il fatto che la moneta ha varie forme di liquidità e occorre quindi fare riferimento a una classificazione progressiva che cominci a considerare uno stock di moneta estremamente liquido e passi via via fino a includere anche altre forme di moneta sempre meno liquide. La forma più liquida è M1, che comprende solo il circolante e i depositi a vista. Lo stock M2 comprende invece M1 più i depositi rimborsabili con preavviso fino a tre mesi e depositi rimborsabili con preavviso fino a 3 mesi e depositi con scadenza fino a 2 anni. Se allo stock M2 si aggiungono forme monetarie anchea meno liquide, come i pronti a termine bancari e le quote di fondi comuni e i titoli obbligazionari fino a due anni, si ottiene lo stock M3. Questa classificazione deriva dalla normativa della BCE.

M1 circolare + depositi a vista bancari e postali

M2 M1 + depositi rimborsabili con preavviso fino a tre mesi + depositi con scadenza fino a due anni

M3 M2 + pronti contro termine bancari + quote fondi comuni monetari e titoli mercato monetario +

titoli obbligazionari con scadenza fino a 2 anni

19.6. La competizione tra banche

Il settore bancario è un settore competitivo. La competizione del mercato bancario è regolata secondo le consuete regole della domanda-offerta e del ricavo marginale. Tuttavia le banche sono soggette a una certa regolamentazione. Esistono infatti rilevanti economie di scala e il settore non è perfettamente concorrenziale, ma è oligopolistico.

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19.7 La domanda di moneta

Da che cosa dipende la quantità di moneta domandata dai soggetti di un sistema economico? In generale possiamo affermare che le tre principali variabili sono:

1. i tassi d’interesse; 2. il livello dei prezzi dei beni e dei servizi; 3. il reddito reale;

I MOTIVI PER DETENERE MONETA. La moneta è uno stock. E’ la quantità di circolante e di depositi trattenute in un dato momento. Trattenere moneta significa non spenderla. Tratteniamo moneta adesso per spenderla in futuro. La moneta è un mezzo di scambio, ma serve anche da riserva di valore:

• il COSTO OPPORTUNITA’ del trattenere moneta è l’interesse a cui rinunciamo nel trattenere moneta rispetto a ciò che avremmo potuto guadagnare acquistando obbligazioni;

EFFETTUARE TRANSAZIONI:

• la NECESSITA’ DI EFFETTUARE TRANSAZIONI costituisce un motivo per il quale desideriamo detenere moneta, poiché tutti i ricavi e le spese che effettuiamo non sono perfettamente sincronizzati;

Un problema risiede nel determinare quanta liquidità sia opportuno detenere. Questo ammontare sarà proporzionato: (a) al valore delle transazioni che desideriamo effettuare e (b) al grado di sincronizzazione tra incassi e pagamenti.

• La DOMANDA DI MONETA è la domanda di uno stock reale di moneta; IL MOTIVO PRECAUZIONALE. Finora abbiamo supposto che tutti gli individui del sistema economico sappiano esattamente quando incasseranno il proprio reddito e quando effettueranno le spese. In realtà, viviamo in un mondo incerto:

• in un mondo incerto, vi è un MOTIVO PRECAUZIONALE per detenere moneta. Gli individui desiderano poter far fronte ad alcuni imprevisti;

Il vantaggio derivante sarà proporzionato (a) all’ammontare complessivo delle transazioni effettuate e (b) al livello di incertezza. IL MOTIVO DELLA RIDUZIONE DEL RISCHIO DI UN PORTAFOGLIO FINANZIARIO. Tra le attività finanziarie di un portafoglio sarebbe meglio tenere alcune attività sicure, come appunto la moneta anche se questa non genera reddito o lo genera in misura molto bassa (ma più sicura) rispetto al mercato azionario o obbligazionario:

• il motivo della RIDUZIONE DEL RISCHIO DI UN PORTAFOGLIO FINANZIARIO nasce dal fatto che alla gente non piace rischiare. Si è portati a sacrificare un più alto rendimento di un portafoglio con un rendimento più basso, ma più sicuro (meno variabile);

LA DOMANDA DI MONETA: PREZZI, REDDITO REALE, TASSI DI INTERESSE. Detenere moneta comporta un costo. Quello associato al mancato guadagno cui si rinuncia non impiegando la moneta in attività più redditizie. In tabella sulle ascisse poniamo la quantità reale di moneta domandata ricavata dal rapporto tra la quantità di moneta nominale e il livello generale dei prezzi. La linea orizzontale MC definisce il costo del trattenere moneta. L’altezza di MC sulle ordinate dipende dal livello del tasso d’interesse pagato su azioni, obbligazioni ecc… La funzione MB mostra il beneficio marginale che si ottiene dal trattenere moneta. Dato un certo livello di reddito nazionale reale e dunque di transazioni, la quantità di moneta domandata sarà quella corrispondente al punto E. Il livello ottimale di moneta da domandare è allora quello corrispondente alla quantità L. Se il prezzo dei beni e dei servizi, ad esempio, raddoppiasse retando invariati tassi d’interesse e reddito reale, né MC né MB cambierebbero. Il punto di equilibrio resterebbe in E e la quantità di moneta reale

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desiderata resterebbe in L. Ma dato che i prezzi sono raddoppiati, la gente trattiene il doppio di moneta nominale per mantenere la quantità reale di moneta L. Se aumentassero invece i tassi d’interesse delle obbligazioni, il costo opportunità del detenere moneta aumenterebbe spostando l’equilibrio verso le ordinate e riducendo quindi la quantità reale di moneta domandata. Infine consideriamo gli effetti dell’aumento del reddito reale. A qualsiasi livello di moneta domandata il beneficio marginale dell’ultimo euro sarà maggiore di prima. Gli individui otterranno maggiori benefici per una piccola quantità in più di moneta detenuta. I ragionamenti che abbiamo fatto fino a questo punto si applicano a M1.

20. I tassi di interesse e il sistema monetario Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di:

• spiegare come una banca centrale sia in grado di variare l’offerta di moneta; • analizzare il ruolo di una banca centrale come prestatore di ultima istanza; • descrivere come il mercato monetario raggiunga un equilibrio; • considerare quale possa essere un obiettivo intermedio della politica monetaria; • illustrare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria; • comprendere con che criterio la banca centrale decida il livello dei tassi di interesse; • esaminare come i tassi di interesse influenzino la domanda di beni di consumo e di investimento;

Oggi in ogni paese di qualsiasi dimensione esiste una banca centrale:

• una BANCA CENTRALE agisce come banca delle banche commerciali e dello Stato. Essa è anche l’autorità che determina la politica monetaria;

20.1. La Banca d’italia e la Banca Centrale Europea

Fino al 1 gennaio 2002 l’offerta di moneta in italia è stata regolata dalla Banca d’italia, la banca centrale nazionale. Ma a partire da quella data, e cioè con l’introduzione ufficiale dell’euro, la competenza nella regolazione dell’offerta di moneta è passata alla Banca Centrale Europea. Oltre ai metodi più classici e scontati, una banca centrale può aumentare o ridurre la liquidità circolante facendo leva sui buoni del tesoro o le obbligazioni emesse dal governo o dagli enti locali. La banca centrale è anche la banca delle banche commerciali e la banca dello Stato. Con il termine “banca delle banche” intendiamo che le singole banche hanno un deposito presso la banca centrale, ma anche il fatto che lo Stato è un cliente della banca centrale nazionale. I privati non possono essere clienti della banca centrale.

20.2. La banca centrale e l’offerta di moneta

• L’OFFERTA DI MONETA è costituita dal circolante a disposizione del pubblico più i depositi delle

banche commerciali; La banca centrale può influenzare lo stock offerto di moneta cambiando il moltiplicatore o la base monetaria. IL COEFFICIENTE DI RISERVA OBBLIGATORIA:

• il COEFFICIENTE DI RISERVA OBBLIGATORIA è costituito dal rapporto minimo tra riserve di liquidità e depositi che ogni singola banca deve avere;

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Quando la banca centrale impone un coefficiente di riserva obbligatoria superiore rispetto al coefficiente di riserva praticato dalle banche in quel momento, l’effetto è quello di ridurre la creazione di depositi bancari, di ridurre il valore del moltiplicatore monetario e di ridurre lo stock di moneta offerto. IL TASSO UFFICIALE DI SCONTO:

• il TASSO UFFICIALE DI SCONTO è il tasso al quale la banca centrale presta liquidità alle banche ordinarie quando queste richiedono anticipi di liquidità;

Supponiamo che una banca ordinaria desideri mantenere un coefficiente minimo pari al 10%. Non importa se questo coefficiente sia il coefficiente di riserva obbligatoria oppure sia un coefficiente di sicurezza che la banca stessa di è data. Un certo giorno la banca si trova ad avere delle riserve che sono pari al 12% dei depositi ed è quindi vicina alla soglia minima. Fino a quando può spingersi vicino alla soglia? La bance deve bilanciare il guadagno che otterrebbe concedendo credito a un certo tasso di interesse con i rischi e i costi associati a un improvviso flusso di prelievi che potrebbe ridurre ke riserve al di sotto della soglia critica. Se la banca applicasse il tasso di mercato ai prestiti alle altre banche, le banche rimaste a corto di denaro non sarebbero penalizzate a chiederlo in prestito. La conseguenza logica che le banche presterebbero denaro ben al di sotto della soglia minima. Ipotizziamo invece che la banca centrale conceda prestiti alle banche solo a un tasso di interesse superiore a quelli di mercato. Adesso le banche non permetteranno alle loro riserve di scendere al di sotto della soglia minima. Avranno liquidità in eccesso come cuscinetto per evitare di dover prendere a prestito liquidità dalla banca centrale. Quindi fissando il tasso di sconto più alto dei tassi di interesse, la banca centrale induce le banche a trattenere un ammontare maggiore di riserve. Dunque, data una certa base monetaria, i depositi bancari sono pari a un inferiore multipli delle riserve, il moltiplicatore monetario si riduce e l’offerta di moneta è più bassa. Variazioni del tasso di sconto cambiano l’offerta di moneta. LE OPERAZIONI DI MERCATO APERTO:

• un’OPERAZIONE DI MERCATO APERTO consiste nella compravendita di titoli nel mercato finanziario, allo scopo di variare la base monetaria;

Le operazioni di mercato aperto vengono effettuate con le banche e con le principali istituzioni finanziarie. Mentre i due precedenti metodi di controllo dello stock di moneta agiscono attraverso il moltiplicatore monetario, con lo strumento delle operazioni di mercato aperto si agisce direttamente sulla base monetaria. Le operazioni di mercato aperto costituiscono il canale principale utilizzato dalla banca centrale per modificare l’offerta di moneta.

20. La banca centrale come prestatore di ultima istanza

Per evitare una situazione di panico finanziario, è allora necessario rassicurare le persone che potranno tornare in possesso, quando lo desiderano, di tutta la loro liquidità. A tal fine bisogna garantire che le banche ordinarie possano ottenere subito liquidità qualora ne avessero veramente bisogno. Nel sistema economico esiste un’unica istituzione che può stampare moneta in quantità anche illimitata: la banca centrale.

• il PRESTATORE DI ULTIMA ISTANZA è pronto a intervenire prestando liquidità alle banche e alle altre istituzioni finanziarie, quando una situazione di panico finanziario minaccia l’intero sistema economico;

UNA REGOLAMENTAZIONE PRUDENTE. Il prestatore di ultima istanza può correre in aiuto delle banche che affrontano una temporanea crisi di liquidità, ma il cui bilancio è sano. A volte, a causa di eventi imprevedibili o di decisioni poco avvedute, una banca può avere concesso prestiti a qualcuno che poi si rivela essere un insolvente. Ciò fa nascere due problemi: (a) che cosa fare se una banca si trova spesso a fronteggiare

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questo tipo di problemi e (b) come impedire che le difficoltà finanziarie di una banca si trasmettano ad altre banche. Generalmente sono gli azionisti della banca a subire le conseguenze di una scarsa performance. Per assicurarsi che gli azionisti dispongano di sufficienti fondi, le norme di controllo della banca centrale nei confronti delle banche ordinarie prevedono che le banche abbiano un rapporto di adeguatezza del capitale.

• il RAPPORTO DI ADEGUATEZZA DEL CAPITALE è costituito dal rapporto minimo tra il valore del capitale i prestiti concessi più gli investimenti;

Sapere che è altamente improbabile che i clienti paghino le conseguenze di una cattiva gestione della banca contribuisce a prevenire situazioni di panico finanziario. Sapere che è molto probabile che gli azionisti di una specifica banca paghino le conseguenze di una cattiva gestione della stessa fa in modo che il managment lavori per cercare di non conseguire perdite.

20.4. L’equilibrio dei mercati finanziari

Cercheremo di combinare la domanda e offerta di moneta per vedere come si determini un equilibrio nel mercato monetario.

• l’OFFERTA REALE DI MONETA L è data dal rapporto M/P, ove M è lo stock nominale di moneta e P è il livello dei prezzi;

La banca centrale controlla l’offerta nominale di moneta. Semplificando se il livello dei prezzi è fisso controlla anche l’offerta reale di moneta. L’EQUILIBRIO DEL MERCATO MONETARIO.

• il MERCATO MONETARIO raggiunge un EQUILIBRIO quando la quantità domandata di moneta eguaglia la quantità offerta di moneta;

[GRAFICO] La curva di domanda di moneta LL mostra che tanto è maggiore il tasso d’interesse che rappresenta il costo opportunità del trattenere moneta, tanto minore è la quantità di moneta reale domandata. Dato un certo livello dei prezzi, la banca centrale è in grado di determinare la quantità offerta di moneta reale. La curva di offerta della moneta è dunque verticale per la quantità reale di moneta L0. L’equilibrio è raggiunto nel punto E che segna la corrispondenza tra L0 e r0. Supponiamo che attualmente, nel sistema economico, vi sia un tasso d’interesse r1, inferiore rispetto a quello che farebbe il tasso di equilibrio r0. In questo caso si verificherebbe un eccesso di domanda pari alla distanza tra A e B nel grafico. In che modo questo eccesso di domanda spinge il tasso d’interesse fino al livello r0? In realtà non esiste un vero e proprio mercato della moneta. L’altro mercato rilevante, collegato e interdipendente, è il mercato delle obbligazioni. Affermando che il tasso d’interesse è il costo opportunità del trattenere moneta, implichiamo che coloro i quali non detengono moneta acquistano obbligazioni. Lo stock di ricchezza reale W è uguale allo stock di moneta reale L0 e allo stock di obbligazioni B0. Gli individui possono decidere come ripartire la propria ricchezza domandando complessivamente una certa quantità di obbligazioni e di moneta. E’ sempre vero: L0 + B0 = W = Ld + Bd Quindi un eccesso di domanda di moneta deve essere esattamente compensato da un eccesso di offerta di obbligazioni. Questo ci consente di capire in che modo l’eccesso di domanda di moneta AB provocherà un rialzo del tasso di interesse da r1 a r 0.

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UNA RIDUZIONE DELL’OFFERTA DI MONETA. Una riduzione dell’offerta di moneta provocherà un aumento del tasso di interesse. Al contrario un aumento dello stock offerto di moneta provocherà una riduzione del tasso di interesse. UN AUMENTO DEL REDDITO REALE. Un aumento del reddito reale accresce il beneficio marginale del trattenere moneta a parità di tasso di interesse e accresce la quantità domandata di moneta LL a LL’’. A parità di offerta di moneta, il tasso d’interesse aumenterà dal livello iniziale r0 al livello r’’ per rendere la domanda reale di moneta uguale all’offerta reale di moneta L0.

20.5. Il controllo della politica monetaria

Per politica monetaria si deve intendere quella politica attraverso la quale una banca centrale può cercare di controllare l’offerta di moneta presente all’interno del sistema economico. Le banche centrali che fanno parte dell’eurosistema utilizzano un coefficiente di riserva scelto dalla Bance Centrale Europea del 2%. IL CONTROLLO ATTRAVERSO I TASSI D’INTERESSE. La banca centrale, conosciuto il livello dei prezzi, potrebbe offrire un determinato stock di moneta cui corrisponde un determinato tasso d’interesse. In modo alternativo la banca centrale potrebbe invece volere fissare il tasso d’interesse e poi dovrebbe essere disposta a offrire tutto l’ammontare di moneta che si renderà necessario per eguagliare domanda e offerta di moneta. Occorrerebbe che la banca centrale annunciasse che è pronta a trattare qualsiasi quantità di titoli a un certo tasso d’interesse. Alla fine comunque la banca si troverà ad offrire la quantità corrispondente di moneta.

20.6. Obiettivi e strumenti della politica monetaria

Fissare il tasso d’interesse invece dell’offerta di moneta presenta un secondo vantaggio. Quando la posizione della funzione della domanda di moneta è incerta, se si scegliesse la quantità di moneta da offrire, nel mercato si stabilirebbe un certo tasso di interesse frutto dell’incontro fra domanda e offerta di moneta. In questo caso il sistema economico subirebbe il tasso d’interesse. Il tasso d’interesse è molto importante per gli effetti che produce sull’intero sistema economico. Ecco perché spesso le banche centrali possono avere come obiettivo non tanto un determinato stock di moneta da offrire, quanto il livello del tasso d’interesse. La politica monetaria si traduce allora nella scelta del tasso d’interesse più che nella scelta dello stock di moneta da offrire:

• uno STRUMENTO MONETARIO è una variabile sulla quale la banca centrale esercita un controllo quotidiano;

Vi sono altri due concetti da introdurre: il primo è quello degli obiettivi di lungo termine della politica monetaria in macroeconomia. Nel percorso di avvicanemento all’obiettivo la banca centrale utilizza altri strumenti:

• un OBIETTIVO INTERMEDIO della politica monetaria è un indicatore usato come input per le decisioni periodiche in cui una banca centrale stabilisce il livello del tasso di interesse;

20.7. Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria

La banca centrale fissa i tassi d’interesse, ma come questi ultimi influenzano l’economia?

• il MECCANISMO DI TRASMISSIONE della politica monetaria è il processo attraverso il quale la politica monetaria influenza il prodotto nazionale e l’occupazione;

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In un’economia chiusa, la politica monetaria influenza la domanda di beni di consumo e di investimenti modificando i tassi d’interesse. La banca centrale sceglie il tasso d’interesse nominale. Se i prezzi fossero fissi, lo sarebbe anche il tasso d’interesse reale. Ma una volta ammesso che i prezzi possono variare, ecco che la politica monetaria deve anticipare il futuro del tasso d’inflazione. Dato che il tasso di interesse reale non è altro che il tasso di interesse nominale meno il tasso d’inflazione, la politica monetaria allora fisserà il tasso d’interesse nominale per ottenere un dato tasso di interesse reale desiderato. LE NUOVE TEORIE DEL CONSUMO. Supponiamo che il reddito reale delle famiglie cresca grazie a un boom del mercato azionario, che ha aumentato il valore dei titoli posseduti. Per qualsiasi livello di reddito disponibile, la domanda di beni di consumo è maggiore. L’intera funzione trasla verso l’alto all’aumentare della ricchezza delle famiglie.

• l’EFFETTO RICCHEZZA determina lo spostamento della funzione del consumo a causa del cambiamento della ricchezza reale delle famiglie;

Lo stock di moneta e i tassi d’interesse influenzano il reddito reale delle famiglie, e quindi il consumo e la domanda aggregata. Poiché la moneta è una componente della ricchezza delle famiglie, un incremento dell’offerta reale di moneta aumenta in modo diretto il reddito delle famiglie. I tassi di interesse hanno un’influenza indiretta sul reddito delle famiglie. Un minore tasso d’interesse fa crescere il prezzo delle obbligazioni e delle azioni di un’impresa e quindi rende più ricche le famiglie che detengono questi titoli. Quando la spesa delle famiglie supera il reddito disponibile, il reddito reale diminiuisce. La gente è costretta a vendere beni o a ricorrere al credito per poter consumare. La maggior parte dei crediti servirà per l’acquisto di beni di consumo durevoli. Due aspetti del credito al consumo influenzano la spesa in beni di consumo. Un aumento nell’offerta di credito al consumo, fa spostare la funzione del consumo verso l’alto. La gente spenderebbe di più per ogni livello di reddito disponibile. Un altro elemento rilevante è il costo del credito al consumo. Più alto è il tasso d’interesse che il consumatore deve pagare, tanto minore sarà il credito che le famiglie desiderano sfruttare. La moneta e i tassi d’interesse sono quindi in grado di influenzare la spesa complessiva per i beni di consumo. Queste due forze – effetto ricchezza e variazione del credito al consumo – sono responsabili della maggioranza degli spostamenti della funzione del consumo.Esse sono parte del meccanismo di trasmissione attraverso il quale la politica monetaria riesce a influenzare la produzione e l’occupazione dell’economia reale. Ma che cosa determina il consumo medio che ogni individuo può sostenere? Friedman coniò il termine di reddito permanente per descrivere il reddito medio degli individui nel lungo periodo. Egli argomentò che il consumo dipende non dal reddito disponibile attuale, ma dal reddito permanente:

• l’IPOTESI DEL REDDITO PERMANENTE afferma che il consumo è basato sul reddito permanente di lungo periodo;

L’ipotesi del ciclo di vita, sviluppata da Modiglioni e Ando, propone che il cambiamento dei gusti duranti il ciclo della vita impedisca il perfetto appiattimento della funzione del consumo:

• l’IPOTESI DEL CICLO DI VITA argomenta che gli invidi pianifichino il proprio consumo all’interno del loro ciclo di vita, tenendo conto sia di ciò che vogliono lascare ai propri eredi sia della ricchezza o delle eredità ricevute durante la loro vita;

LA DOMANDA DI BENI DI INVESTIMENTO. Nei capitoli precedenti abbiamo considerato la domanda di beni di investimento come una domanda autonoma, ossia slegata dal livello del reddito e del prodotto nazionale. Qui cominceremo ad analizzare le forze che determinano il livello della domanda di beni di investimento. Iniziamo con il ruolo dei tassi d’interesse. La spesa totale per beni di investimento comprende gli investimenti in capitale fisso e gli investimenti in capitale d’esercizio. Il primo include gli immobili, le fabbriche, gli impianti e i macchinari. Il capitale d’esercizio consiste invece nel magazzino, ossia nelle scorte.

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In un’economia chiusa la spesa aggregata è data dalla somma del consumo, degli investimenti e della spesa pubblica. Gli investimenti pubblici sono compresi in G. Continueremo a trattare G come un tipo di spesa determinata dal Governo, per ipotesi fissa a un dato livello e ci focalizzeremo ora sulla domanda di beni di investimento I. Una prima distinzione tra gli investimenti in capitale fisso, nella contabilità italiana, è quella tra investimenti netti e ammortamenti. I primi sono gli investimenti che aumentano la capacità produttiva delle imprese. Gli ammortamenti sono invece gli investimenti che servono a sostituire i macchinari divenuti obsoleti. L’impresa quando opera un investimento netto deve chiedersi se l’investimento è in grado di generare abbastanza profitti da ripagare, includendo gli interessi, il prestito che l’impresa ha contratto per finanziarlo. Allo stesso modo se l’impresa ha finanziato l’nvestimento utilizzando i precedenti profitti, deve chiedersi se il nuovo investimento garantisce un rendimento che sia almeno pari al rendimento che avrebbe ottenuto prestando a tasso d’interesse lo stesso capitale. Tanto maggiore è il tasso di interesse, tanto maggiore deve essere il rendimento sul nuovo investimento perché questo sia in grado di ripagare il costo opportunità dei fondi impiegati. [GRAFICO] La funzione domanda beni di investimento mostra la relazione che esiste tra il tasso d’interesse e la domanda di beni di investimento:

• la FUNZIONE DELLA DOMANDA DI BENI DI INVESTIMENTO mostra il valore degli investimenti che le imprese desiderano effettuare a seconda del tasso d’interesse;

Vi è un’importante differenza tra un macchinario che si logora in circa 3 anni e una casa che dura approssimativamente 50 anni. Quanto maggiore è la vita economica di un bene di investimento, tanto maggiore è la quota del flusso entrante che verrà incassata in un futuro più lontano e tanto maggiore sarà il costo iniziale, comprensivo degli interessi, che dovrà essere accumulato per ripagare questo investimento. La funzione dell’investimento sarà più piatta per gli immobili e per gli impianti produttivi e più ripida per gli investimenti a breve termine, come i macchinari. Il costo di mantenere scorte invece corrisponde al costo opportunità della liquidità impiegata nella produzione. La figura già mostra il comportamento di questa funzione. Un aumento del tasso d’interesse spingerà l’impresa a ridurre le scorte, viceversa una diminuzione.

21. La politica monetaria e la politica fiscale Alla fine del capitolo, lo studente dovrebbe essere in grado di:

• distinguere diversi tipi di politica monetaria; • conoscere la regola di Taylor; • definire un obiettivo monetario; • descrivere il modello di IS e LM; • ricavare l’equilibrio sia nel mercato dei beni e servizi sia nel mercato della moneta; • comprendere quale sia l’effetto di una politica fiscale espansiva; • capire come utilizzare insieme politiche fiscali e monetarie; • spiegare come la domanda corrente di beni sia influenzata dal livello di tasse future attese;

Illustreremo in che modo il mercato dei beni e servizi e il mercato della moneta interagiscano tra di loro. Da una parte i tassi d’interesse influenzano la domanda di beni e servizi, il livello del reddito e del prodotto nazionale, ma dall’altra anche il reddito e il prodotto nazionale influenzano la domanda di moneta e il tasso d’interesse controllato dalla banca centrale.

21.1. Le politiche monetarie

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Per studiare un sistema economico, date certe politiche economiche, dobbiamo specificare cosa intendiamo quando utilizziamo l’espressione “data una certa politica”. Una “data politica fiscale” significa che supponiamo un certo livello di spesa pubblica e di tasse, che siano sufficienti a finanziare la spesa.

• Perseguire un OBIETTIVO MONETARIO significa modificare i tassi d’interesse per mantenere lo stock di moneta nominale a un certo livello;

Una ragione per la quale la domanda di moneta cambia è data dal fatto che il reddito cambia. Un alto reddito fa crescere la domanda reale di moneta. A parità di altre condizioni, perseguire un obiettivo monetario significa che, quando i reddito è alto, i tassi d’interesse sono alti per bloccare la domanda reale di moneta che eccede l’offerta reale di moneta definita come obiettivo. Ovviamente è vero anche il viceversa.

• Perseguire un OBIETTIVO DI INFLAZIONE significa modificare i tassi d’interesse per mantenere l’inflazione in uno stretto intervallo di valori;

LA REGOLA DI TAYLOR. Qualunque sia la politica per il futuro dichiarata dalle banche centrali, possiamo sempre esaminare le politiche in atto. Il professor John Taylor affermò che la maggior parte delle banche centrali cambiano i tassi d’interesse in risposta al cambiamento di due variabili: il reddito nazionale e l’inflazione. Quest’affermazione fu oggetto di discussione. Implicava infatti che gli obiettivi monetari non giocassero alcun ruolo nelle decisioni sui tassi d’interesse. L’inflazione attesa e il reddito atteso sarebbero piuttosto gli obiettivi intermedi cui rispondono le decisioni sui tassi. Se una banca centrale seguisse la regola di Taylor significherebbe che la banca persegue una politica di stabilità del reddito e dei prezzi. I periodi di espansione tendono a produrre inflazione, viceversa i periodi di recessione. Quindi la regola di Taylor è anche compatibile con l’interpretazione che la banca centrale si preoccupi dell’inflazione sia nel presente che nel futuro. Questa regola è largamente verificata però tutte le banche centrali dicono di prestare attenzione agli obiettivi monetari e di preoccuparsi poco della fluttuazione del reddito. L’intuizione di Taylor è così largamente usata che viene chiamata la regola di Taylor:

• secondo la REGOLA DI TAYLOR, una banca centrale alza (abbassa) i tassi d’interesse se si aspetta che l’inflazione e il reddito saranno al di sopra (al di sotto) del livello obiettivo;

21.2. Il modello IS-LM

In questo nuovo modello considereremo dapprima separatamente le combinazioni di reddito e di tassi di interesse che portano all’equilibrio in ognuno dei due mercati: il mercato dei beni e dei servizi e il mercato monetario. Osserveremo poi come si determinerà un’unica combinazione di reddito e tasso di interesse che garantisca l’equilibrio in entrambi i mercati. LA FUNZIONE IS. Il mercato dei beni e dei servizi si trova in equilibrio quando la spesa aggregata e il reddito sono uguali. Nel modello più semplice, senza spesa pubblica e scambi con l’estero, abbiamo osservato che questo succede quando gli investimenti programmati I sono uguali al risparmio programmato S. Per questa ragione, l’insieme delle combinazioni tra reddito e tassi d’interesse compatibili nel breve periodo con l’equilibrio del mercato dei beni è chiamato funzione IS:

• la FUNZIONE IS mostra le differenti combinazioni tra reddito e tasso d’interesse per le quali la domanda aggregata è uguale al prodotto e dunque vi è equilibrio nel mercato dei beni e servizi;

Cambiamenti del tasso d’interesse (causa) fanno spostare l’equilibrio del mercato dei beni e servizi (effetto) lungo la funzione IS. Qualsiasi altro elemento che influenzi la domanda aggregata si riflette in uno spostamento della funzione IS. LA PENDENZA DELLA FUNZIONE IS. La funzione IS ha una pendenza negativa. Nel mercato reale dei beni e servizi, all’aumentare del tasso d’interesse diminuisce il reddito nazionale a causa della riduzione degli investimenti e dek consumo autonomo. La pendenza della funzione IS dipende dalla reattività della spesa aggregata ai tassi d’interesse.

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GLI SPOSTAMENTI DELLA FUNZIONE IS. Movimenti lungo la funzione IS mostrano come il tasso d’interesse influenza la domanda aggregata e il reddito di equilibrio. Altri cambiamenti della domanda aggregata spostano la funzione IS. Per un dato livello del tasso d’interesse, un aumento dell’ottimismo delle imprese sulla domanda futura determinerà un aumento degli investimenti e dunque uno spostamento verso destra della funzione IS. Allo stesso modo, anche la previsione di un aumento del reddito futuro delle famiglie sposterà la funzione della domanda aggregata verso destra e, di conseguenza, anche la IS verso destra. Infine, anche un aumento della spesa pubblica farà aumentare la domanda aggregata. In tutti questi esempi assistiamo a uno spostamento verso destra della funzione IS. LA FUNZIONE LM. Avendo già studiato l’equilibrio di breve periodo nel mercato dei beni e servizi, consideriamo ora l’equilibrio del mercato monetario:

• la FUNZIONE LM mostra le combinazioni tra tasso d’interesse e reddito nazionale che garantiscono un equilibrio nel mercato monetario;

Si tratta della funzione lungo la quale la domanda reale di moneta (L) eguaglia l’offerta reale di moneta (M). LA REGOLA DI TAYLOR. Quando la politica monetaria segue la regola di Taylor, la funzione LM è la regola di Taylor. La banca centrale fissa i tassi d’interesse secondo il livello del reddito, ma raggiunge questo tasso d’interesse fornendo passivamente qualunque quantità di moneta venga domandata per quella combinazione di reddito e tasso d’interesse. La regola di Taylor permette quindi di raggiungere automaticamente l’equilibrio nel mercato della moneta. UN OBIETTIVO MONETARIO. Possiamo anche derivare una funzione LM crescente quando la banca centrale persegue il raggiungimento di un obiettivo monetario invece di seguire la regola di Taylor. Con un dato obiettivo di moneta nominale, ma con prezzi fissi, l’offerta reale di moneta è fissa. La domanda reale di mometa aumenta con il reddito Y, ma diminuisce con il tasso d’interesse r. Ad alti redditi corrispondono alti tassi d’interesse. LA PENDENZA DELLA FUNZIONE LM. La pendenza della funzione LM è positiva. Seguendo la regola di Taylor, la funzione LM è più ripida quando la banca centrale stabilizza il reddito in modo più aggressivo. GLI SPOSTAMENTI DELLA FUNZIONE LM. Una data funzione LM riflette sempre una certa politica monetaria. Movimenti lungo la funzione indicano cambiamenti del tasso d’interesse per adattare la politica esistente al cambiamento del reddito. Spostamenti della funzione LM riflettono un cambiamento della politica monetaria. L’EQUILIBRIO NEL MERCATO DEI BENI E SERVIZI E IN QUELLO MONETARIO. Il modello IS-LM ci consente di studiare entrambi i mercati in uno stesso grafico. Solo nel punto E entrambi i mercati raggiungono contemporaneamente l’equilibrio. Il mercato reale e il mercato monetario interagiscono nel determinare il livello del tasso d’interesse di equilibrio r e del reddito di equilibrio Y. [GRAFICO]

21.3 La politica fiscale: gli spostamenti della funzione IS

Qualsiasi cambiamento, diverso da una variazione del tasso d’interesse, che sia in grado di spostare la funzione della spesa aggregata è anche in grado di spostare la funzione IS. [GRAFICO] Il sistema economico si trova inizialmente con una funzione IS0 e una funzione LM0 e dunque il suo equilibrio è nel punto E. Supponiamo che il Governo decida di aumentare la spesa pubblica finanziandola con un’emissione di obbligazioni. L’offerta di moneta rimane invariata e dunque la curva LM rimane nella posizione LM0. L’aumento della spesa pubblica determina uno spostamento verso destra della funzione IS0 fino a raggiungere la posizione IS1. Con le funzioni IS1 e LM0, il nuovo reddito nazionale di equilibrio si trova in corrispondenza di E1. Il reddito aumenta da Y0 a Y1 e il tasso d’interesse da r0 a r1 impedendo che il maggior reddito determini un aumento della quantità di moneta domandata. Oppure si può dire che il tasso cresce al crescere del reddito.

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• Un aumento della spesa aggregata SPIAZZA una parte della spesa privata poiché un incremento del

reddito causa un aumento dei tassi d’interesse che riduce parzialmente l’aumento della domanda; Verifichiamo ora gli effetti di un’espansione fiscale insieme a un aumento dell’offerta di moneta. L’espansione fiscale fa spostare la funzione IS verso destra, ma l’espansione monetaria fa spostare la funzione LM verso destra. E’ possibile variare la politica monetaria al fine di mantenere i tassi d’interesse al livello di partenza anche quando il reddito aumenta. L’espansione fiscale porta il nuovo reddito in E2, mantenendo i tassi invariati a r0.

21.4. La politica monetaria: gli spostamenti della funzione LM

Supponiamo che la politica fiscale sia mantenuta costante e dunque la funzione IS rimanga nella posizione IS0. Con lo stock iniziale di moneta offerta, la curva LM si trova nella posizione LM0 e l’equilibrio si forma nel punto E. Un aumento dell’offerta di moneta, mantenendo costante il livello dei prezzi, determina uno spostamento della funzione LM verso destra, diciamo fino alla posizione LM1. Il nuovo equilibrio sarà nel punto E3. L’aumento della quantità di moneta offerta richiede una riduzione del tasso d’interesse per indurre la gente a detenere maggiore moneta.

21.5. Gli shock della domanda di moneta

L’analisi fin qui svolta della funzione LM, nell’ipotesi in cui la banca centrale europea persegua un obiettivo legato solo alla quantità di moneta, ci ricorda che la domanda di moneta è correlata alle variazioni del reddito e del tasso d’interesse. Sebbene queste siano le variabili più importanti che influenzano la domanda di moneta, occorre considerare anche altri fattori di notevole interesse. Negli ultimi trent’anni si sono verificati rilevanti cambiamenti nella struttura del settore finanziario. La competizione tra banche è aumentata, facendo crescere i tassi d’interesse pagati ai clienti sui depositi. Dato che il costo opportunità di detenere moneta in un deposito bancario è dato dalla differenza tra il tasso d’interesse sul deposito e il più alto tasso d’interesse ottenibile con altre attività finanziarie, variazioni del livello di competizione tra le banche cambiano il costo opportunità di detenere moneta, per qualsiasi tasso d’interesse r. Se la banca centrale segue la regola di Taylor, questo fenomeno non ha nessun effetto. Se la banca persegue, invece, un obiettivo monetario, in corrispondenza di un certo obiettivo monetario nominale possiamo disegnare una funzione LM. Un incremento della competizione tra le banche fa aumentare la domanda di moneta per ogni combinazione di reddito e tasso d’interesse. Per rendere la domanda di moneta uguale all’offerta di moneta, il reddito deve diminuire o il tasso aumentare. Questo aiuta a spiegare perché le banche centrali gradualmente abbandonarono gli obiettivi monetari.

21.6. Le politiche economiche

Un cambiamento del livello del reddito causa una variazione delle entrate fiscali, data una stessa aliquota fiscale. Questi stabilizzatori automatici non fanno spostare IS. Piuttosto il livello dell’aliquota determina l’inclinazione della funzione IS, in quanto influenza la possibilità che ha il reddito di variare a seguito di variazioni del tasso d’interesse. Un aumento dell’aliquota fiscale frena l’effetto sul reddito di una qualunque variazione dei tassi d’interesse e dunque rende più ripida la curva IS. Esaminiamo adesso le conseguenze di avere diverse funzioni IS e LM. Deficit di bilancio possono essere finanziati stampando moneta o prendendola a prestito. In quest’ultimo caso, non c’è una connessione di

Page 111: Economia Politica 1 - · PDF file1. Scienza economica ed economia Obiettivi di apprendimento: • comprendere che la scienza economica (o economia) studia il modo in cui le società

breve periodo tra politica fiscale e quella monetaria. Uno Stato potrebbe perseguire politiche fiscali e politiche monetarie indipendenti tra loro:

• le POLITICHE DELLA DOMANDA consistono nell’uso della politica fiscale e di quella monetaria per stabilizzare il livello del reddito il più vicino possibile al livello potenziale;

21.7. L’effetto delle tasse attese

Abbiamo già notato che la domanda attuale di beni di consumo riflette sia il reddito corrente sia il reddito futuro atteso dalle famiglie.

• Un GOVERNO è FINANZIARIAMENTE AFFIDABILE se il valore presente delle entrate fisacali correnti e future è uguale al valore presente della spesa pubblica corrente e futura più il debito netto iniziale;

• L’EQUIVALENZA RICARDIANA sostiene che non è importante quando un Governo decida di

finanziare una certa spesa pubblica. Un taglio delle tasse oggi non influenza la spesa privata poiché (in termini di valore attuale) le tasse future aumenteranno della stessa entità;

PERCHE’ L’EQUIVALENZA RICARDIANA E’ TROPPO DRASTICA? Ci sono 3 ragioni che spiegano perché un taglio delle tasse odierne stimoli la spesa anche se le tasse future aumenteranno nella stessa misura. In primo luogo, la gente senza figli beneficia del taglio delle tasse senza pagare pienamente l’onere futuro. In secondo luogo, riducendo l’aliquota fiscale marginale i tagli delle tasse possono far aumentare il prodotto potenziale e il reddito. In terzo luogo i Governi affidabili possono ottenere prestiti a tassi più vantaggiosi rispetto alle famiglie.