Economia dei Sistemi Produttivi 04 dispensa 2 2014

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L'IMPRESA COME SISTEMA ORGANIZZATIVO Antonio Lerro e Giovanni Schiuma LIEG – Center for Value Managment Università della Basilicata

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L'IMPRESA COME SISTEMA ORGANIZZATIVO

Antonio Lerro e Giovanni Schiuma

LIEG – Center for Value Managment Università della Basilicata

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1. Premessa Le organizzazioni sono dei fenomeni complessi, ambigui e talvolta anche paradossali. Ne consegue che assai difficile risultata effettuarne un’analisi. A riprova di tale osservazione è l’enorme quantità di schematizzazioni che sono state proposte nella letteratura per analizzare e schematizzare i sistemi organizzativi. Si tratta per lo più di differenti approcci teorici volti a definire degli schemi di “lettura”, ovvero delle interpretazioni del sistema impresa, in particolare, e dell’organizzazione in generale. L’organizzazione è legata al comportamento dell’essere umano. Infatti, la storia degli uomini si fonda sulla loro capacità di organizzarsi al fine di raggiungere degli obiettivi che la singola individualità non potrebbe realizzare. L’organizzazione coinvolge numerosi aspetti che sono stati evidenziati ed analizzati dagli studiosi di organizzazione con il coinvolgimento di differenti e complementari discipline scientifiche. Ad ogni modo alla base dell’organizzazione risiede la suddivisione del lavoro in compiti elementari e/o ambiti di specializzazione di modo che diversi individui o gruppi di individui possano dedicarsi alla loro realizzazione. Quindi l’organizzazione presuppone un’aggregazione di sforzi individuali. Tuttavia affinché questi sforzi siano finalizzati al raggiungimento di un obiettivo necessitano di essere integrati e coordinati. Ecco quindi che l’organizzazione coinvolge da un lato la disaggregazione e dall’altro l’integrazione coordinata delle azioni. Il coordinamento è una condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per garantire efficacia ed efficienza all’azione organizzata. Si ricorda che l’efficacia rappresenta la capacità di raggiungere l’obiettivo preposto; mentre l’efficienza rappresenta la capacità di raggiungere l’obiettivo massimizzando le risorse disponibili. Il concetto di coordinamento coinvolge poi diverse dimensioni legate alle dinamiche relazionali quali il comando, la comunicazione, il monitoraggio e controllo. Sembra quindi possibile affermare che l’organizzazione è una proprietà caratteristica degli esseri viventi per mezzo della quale ciascuna soggettività, pur non cessando di esistere come autonoma unità, esplica la propria esistenza in funzione di un organismo superiore che lo comprende e che, nella sintesi, riesce ad esprimere una diversa e più ampia individualità, punto di partenza, a sua volta, per nuove riproposizioni verso sistemi più complessi. L'organizzazione, quindi, prima ancora che come un’entità fisica o logica, può essere definita come una modalità del comportamento umano connaturata all’agire di fronte alla complessità. Le organizzazioni non esistono in natura ma vengono progettate e costruite dall’uomo allo scopo di conseguire determinati risultati, i quali non sarebbero il più delle volte raggiungibili senza l’apporto congiunto, coordinato e protratto nel tempo di più partecipanti e l’impiego di risorse adeguate. Pertanto l’organizzazione costituisce l’espressione della necessità di aggregare, integrare e coordinare un insieme di risorse al fine di raggiungere un obiettivo. Tutti i rapporti che si possono sviluppare tra l’unità particolare e l’organismo generale e fra questi e l’ambiente esterno costituiscono l’oggetto degli studi organizzativi. Questi appaiono caratterizzati da una perenne mutevolezza che viene a determinarsi a causa delle diversificazioni che le singole unità organizzative assumono nel tempo e nello spazio, a seconda del grado di sviluppo raggiunto dall’ambiente in cui operano.

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Tuttavia, in tali unità si possono riscontrare alcune caratteristiche ripetitive e comuni, la cui individuazione conduce ad un insieme di principi e di norme universali, potenzialmente validi per molteplici organizzazioni, dalle tribù agli eserciti, dalla Chiesa ai team sportivi. L'organizzazione tout court, quindi, nasce con l'uomo e si evolve con la sua storia, ma soltanto recentemente, con l'avvento dell'era industriale, su di essa si è sviluppata una teoria dell’organizzazione. E’ importante evidenziare che la teoria dell’organizzazione, sebbene annoveri ormai una molteplicità ed una pluralità di contributi, non pochi dei quali sorgono per contaminazione di approcci scientifici differenti, sociologico, psicologico, economico-generale, aziendale, ingegneristico-gestionale, non si presenti ancora oggi, come un corpo unitario di ipotesi verificate da ragionamenti scientifici ma, piuttosto, sembra configurarsi come concettualizzazioni messe a confronto con diverso successo con la realtà. Ciò è la più rilevante conseguenza del confronto, non ancora composto da sintesi convincenti, tra due concezioni fondamentali, non confondibili nella molteplicità delle correnti di pensiero. Da un lato si situano coloro che associano ad organizzazione l’idea dell’insieme ordinato ma dinamico di individui, dove l’uomo è l’elemento di base dell’analisi nel gruppo e nel sistema nel quale opera (concezione soggettivistica o volontaristica). Dall’altro si annoverano coloro che nell’organizzazione individuano l’elemento focale della struttura e, perciò, studiano preferibilmente le caratteristiche formali del sistema e dei sotto-sistemi in cui gli individui esplicano la loro azione, ordinata al conseguimento di un preciso fine. Da questo punto di vista emergono come fattori principali di organizzazione sia i vincoli che tengono uniti gli uomini in strutture, sia gli obiettivi che ne determinano l’azione (concezione reificata e deterministica). L’analisi organizzativa può addentrarsi in ciascuno dei citati aspetti o ricomprenderli tutti, dall’individuo al sistema passando per il gruppo: non è pertanto senza spiegazione il fatto che gli studi organizzativi abbiano assunto uno straordinario sviluppo, seguendo approcci anche notevolmente divergenti. In relazione ai due approcci di analisi dell’organizzazione, nel tempo nell’ambito degli studi organizzativi si sono sviluppate diverse interpretazioni di organizzazione. Queste sono di solito raggruppate in quattro aggregati principali. Si tratta di alternativi concetti e/o approcci all’organizzazione e sono il risultato di differenti, seppure complementari e talvolta sovrapposti, filoni di studio. Il primo interpreta l’organizzazione come subsistema di un più vasto sistema sociale. Di tale microsistema si considerano congiuntamente l’unità e le parti: ad esempio, nell’impresa industriale si studiano non solo la totalità sistemica, ma anche la diversità delle funzioni aziendali, considerate sia nella loro autonomia che nella loro reciproca dipendenza. Il secondo aggregato analizza l’organizzazione in termini di struttura. Con essa si intende lo schema ordinato delle gerarchie delle posizioni d lavoro, dei ruoli, delle mansioni, delle relazioni organizzative, dei processi decisionali ed informativi entro il sistema, basate su precise regole definite il più delle volte ex-ante ma anche ex-post. Organizzazione è intesa anche come specifica attività del più generale governo di un sistema. In questo senso ad essa si fa spesso riferimento nelle imprese come sinonimo di

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management e quindi come aspetto del processo ancor più vasto e complesso dell’amministrazione aziendale. Infine, l’organizzazione è intesa come un organismo personale, biologico, dove l’uomo è assunto a variabile critica del sistema e l’attenzione si focalizza principalmente sul lavoro umano, cioè sui gruppi e sugli individui dei quali il sistema si compone e da cui riceve forza vitale per agire nell’ambiente competitivo. Nel seguito del capitolo si forniscono dei lineamenti di analisi organizzativa che sintetizzano tali diversi approcci. In particolare, l’analisi avrà come focus una particolare organizzazione: l’impresa, il sistema aziendale, ossia quel sistema di forze economiche, ordinate e strutturate che, attraverso processi di produzione di beni e servizi in condizioni di equilibrio economico, finanziario ed organizzativo, crea valore per gli stakeholders, ossia per l’insieme dei soggetti portatori di interesse, interni ed esterni all’impresa, che entrano in rapporto con essa e che ne influenzano il raggiungimento degli obiettivi. Infatti, le imprese, sebbene possano perseguire diverse strategie per il raggiungimento degli obiettivi, non possono prescindere dall’importanza del sistema organizzativo quale strumento e risorsa necessaria per la creazione e la gestione del valore. 2. Lineamenti di teoria dell’organizzazione Gli studi di organizzazione aziendale possono farsi risalire alla fine dell’Ottocento allorquando la diffusione dell’industria in Gran Bretagna determinò lo sviluppo di numerosi studi volti ad analizzare la divisione del lavoro. In particolare Adam Smith nel suo celebre volume ‘Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni’ (1776) pone l’accento sulla divisione e specializzazione del lavoro evidenziando come questo garantisca un aumento delle capacità produttive in ogni mestiere. Già Smith pone in evidenza i vantaggi della suddivisione del lavoro: maggior destrezza dell’operaio, dovuta alla specializzazione, che fa crescere la sua capacità di lavoro; la riduzione dei tempi di lavorazione; e la possibilità di adottare le macchine nelle attività specializzate. Successivamente, nella prima metà dell’Ottocento un altro studioso, Charles Babbage sviluppa i primi studi sulla direzione e la gestione aziendale. Nel suo volume ‘On the Economy of the Machinery and Manifactures (1832) evidenzia ulteriormente i vantaggi della divisione del lavoro: riduzione del tempo necessario per imparare un nuovo mestiere e minor spreco di materiali per l’apprendimento; abolizione del tempo necessario per passare da una mansione all’altra; maggiore abilità, acquisita nel ripetere sempre le stesse operazioni, utilizzando al meglio gli strumenti e migliorando i metodi di lavoro. Nello stesso periodo, Andrew Ure medico studioso di chimica e fisica nel suo trattato ‘The philosophy of Manufactures’ (1835), analizza i problemi delle fabbriche e pone l’attenzione su due principali questioni: la meccanizzazione del sistema produttivo ed il comportamento dei singoli operai e della forza-lavoro nel suo insieme. Propone un’interpretazione del “ sistema di fabbrica” come la combinazione di due sottoinsiemi: le macchine e gli operai che lavorano integrati fra loro e con il sistema meccanico. Pone quindi in evidenza la necessità di addestrare gli uomini ad un lavoro continuo e regolare, così che questi si integrino con il sistema tecnologico. A tale scopo propone la definizione di un “codice di fabbrica” che definisca le regole standard di

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comportamento degli individui. L’idea di fondo è che l’essere umano è imperfetto e compie facilmente degli errori, ne consegue che grandi benefici possono essere ottenuti dalla sua sostituzione con le macchine. Tuttavia essendo il processo produttivo l’integrazione degli uomini con le macchine, si rende necessario addestrare gli operai così che questi operino in sintonia con le macchine. All’inizio del XX secolo, in concomitanza con lo sviluppo dell’industria orientata alla produzione di massa, l’organizzazione del lavoro diviene un aspetto centrale nella gestione dell’impresa. In tale periodo, la società neoindustriale dell’epoca si trovava di fronte ad organizzazioni aziendali costituite per raggiungere un preciso fine – quello del profitto dei capitani d’industria che le avevano create- ma la loro struttura non era programmata per massimizzare i benefici della combinazione dei fattori a fini di lucro, né era in grado di porsi come strumento di controllo. Il limite da superare era costituito dalla confusione con la quale le masse operaie si agglomeravano entro i confini della fabbrica – simili ad indistinte folle piuttosto che a squadre ordinate – ed era altresì costituito dal modo assolutamente improvvisato con cui gli operai si orientavano nei loro compiti di lavoro e si rapportavano alle macchine. Sulla scia dei paradigmi culturali e filosofici del Positivismo, secondo il quale le scienze esatte erano o sarebbero state presto in grado di risolvere in modo esaustivo qualsiasi problema dell’uomo, si afferma l’idea che l’organizzazione del lavoro, con l’avvento di impianti produttivi sempre più avanzati, non debba più essere lasciata al caso, all’arbitrio ed all’improvvisazione di persone qualsiasi, ma possa essere, al contrario, studiata e progettata da esperti con metodo scientifico e assoggettata, come una macchina, a rigorose norme di funzionamento. Nell’Ottocento non esisteva una progettazione articolata delle mansioni e del contributo di ciascun lavoratore all’organizzazione produttiva, la cui supervisione era demandata al coordinamento diretto del caporeparto, in una logica derivata dalla produzione artigianale e dal ruolo del “capo mastro”. Con l’aumento dei lavoratori impiegati nelle imprese e con le esigenze di standardizzazione delle mansioni conseguenti alla produzione di massa sorse la necessità di una razionalizzazione accurata dell’organizzazione del lavoro e dell’utilizzo della manodopera. E’ in questo contesto storico-economico che nasce il cosiddetto approccio oggettivo all’organizzazione del lavoro, all’interno del quale si colloca il fondamentale contributo di Frederick Taylor e degli altri studiosi che sono stati raccolti nel filone dello scientific management. Prima di Taylor, “fare il lavoro” era ritenuta la cosa più importante, mentre la scelta del modo in cui lavorare era vista come un aspetto secondario, incluso nei compiti esecutivi e quasi confinato in una sorta di scatola nera. Imprenditori e manager sapevano ciò che entrava e ciò che usciva dalla scatola, ma ignoravano i processi al suo interno. Taylor propone, invece, che le imprese aprano quella scatola e ne analizzino scientificamente il contenuto in ogni dettaglio, nella convinzione che la trasparenza di ciò che realmente avviene nel processo produttivo è la premessa essenziale per qualsiasi programmazione della produzione e riorganizzazione delle strutture secondo criteri efficientistici. Ipotizzato che il massimo della prosperità, in una organizzazione, sia generato dal massimo di produttività del lavoro, l’obiettivo di Taylor è quello di permettere il conseguimento di un aumento di produttività rispetto agli standard precedenti; per ottenere tali risultati risulta necessaria una trasformazione radicale non solo del modo di produrre, ma dell’intera struttura organizzativa. Taylor, pertanto, propone la cosiddetta

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organizzazione scientifica del lavoro, basata essenzialmente su pochi, importanti principi: Distinzione dei compiti e distribuzione delle responsabilità: le mansioni e le responsabilità dei lavoratori, dei quadri, dei managers devono essere certe e chiaramente definite. Data la difficoltà di reperire persone dotate di conoscenze ed esperienze in tutti i campi e per evitare che i capi siano oberati da numerose ed eterogenee mansioni e si lasci spazio all’iniziativa personale, l’impresa deve essere organizzata in modo da restringere l’arco delle responsabilità affidate ai singoli soggetti, attraverso una rigorosa pianificazione dei compiti. Ciò comporta l’aumento numerico dei quadri intermedi, l’individuazione degli specifici campi di competenza e l’ancoraggio delle prestazioni a norme e procedure prestabilite dalla direzione. Si passa quindi da una direzione di tipo gerarchico puro ad una di management funzionale, in cui i sottoposti non fanno più riferimento ad un solo capo, ma ad una pluralità di superiori, ciascuno dei quali si occupa di un aspetto particolare del lavoro. Taylor, in particolare, prevede una fitta burocrazia interna, concepita come strumento di efficienza e di conformità alle direttive del vertice. Studio scientifico dei metodi di lavoro: comporta una rigida separazione tra progettazione ed esecuzione del lavoro. Si devono analizzare le singole operazioni di lavoro, per farle eseguire secondo regole precise e razionali, anziché secondo le indicazioni approssimative della tradizione. Trova attuazione attraverso due “strumenti”. Il primo è la misurazione di tempi e metodi, vale a dire l’osservazione e la scomposizione del lavoro umano nelle singole operazioni di base e la sua ricostruzione secondo criteri oggettivi di efficienza in compiti elementari, oggetto di dettagliate prescrizioni della direzione e destinati a ripetersi per lunghi periodi, in modo da abbreviare i tempi di apprendimento, accrescere l’abilità nell’esecuzione e permettere l’impiego di attrezzature finalizzate. Il secondo “strumento” è il task management, che prevede una determinazione a priori del carico giornaliero di lavoro tale da consentire prestazioni standardizzate e con una produttività molto più elevata di quella ottenuta con i vecchi sistemi. Selezione e addestramento scientifico della manodopera: gli uomini devono essere scientificamente selezionati e formati a compiere il lavoro cui sono più adatti. L’assegnazione delle mansioni ai singoli dipendenti non può avvenire seguendo la tradizione, la simpatia o il caso, ma deve rispettare anch’essa criteri rigorosamente scientifici che consentano la collocazione dell’uomo giusto al posto giusto. Il compito dei tecnici dell’organizzazione scientifica del lavoro è quindi quello di pervenire, attraverso colloqui, test psicofisici ed altro, ad una selezione delle risorse umane e ad una allocazione razionale dei ruoli lavorativi, tale da ottimizzare il rapporto biunivoco tra doti soggettive del lavoratore e caratteristiche oggettive della prestazione di lavoro. Anche l’addestramento e la formazione devono avvenire in modo preciso e commisurato ai compiti, invece di attendere che siano gli stessi lavoratori ad apprendere empiricamente ed a migliorarsi in maniera fortuita. Incentivazione pecuniaria: si deve ricorrere all’uso di incentivi monetari per motivare i lavoratori a produrre di più. La minore gratificazione derivante dalla relativa banalità e ripetitività dei compiti è compensata da aumenti salariali proporzionali all’aumento

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della produttività dell’azienda. Coerentemente, quindi, al mancato raggiungimento degli obiettivi da parte del lavoratore consegue di regola una diminuzione proporzionale del salario.

Con Taylor ed il filone dello “scientific management” si afferma quindi il paradigma della razionalità: l’idea di fondo è che esista sempre e possa essere definita la “one best way”, vale a dire il modo migliore di fare le cose; si tratta soltanto di individuarlo e applicarlo, secondo il metodo scientifico deduttivo. Anche se in termini non sempre espliciti, il riferimento teorico più remoto di questo orientamento è una concezione dell’organizzazione come puro mezzo che viene plasmato dai fini di chi detiene il comando. Questi opera secondo un principio di razionalità che risponde a forti criteri efficientistici e trascura ogni altra considerazione di tipo culturale, sociale, psicologico che possa interferire con l’obiettivo della massimizzazione del risultato. Il pensiero tayloristico trova importanti applicazioni in quasi tutti i più importanti settori dell’industria manifatturiera statunitense e successivamente europea degli inizi del XX secolo. Tuttavia il taylorismo ha storicamente trovato la sua perfezione nell’allora nascente settore automobilistico, in particolare nelle aziende del capitano d’industria Henry Ford. Si sostiene, infatti, che Ford perfezionò il taylorismo “incorporandolo nella tecnologia della catena di montaggio”: di qui il virtuoso connubio tra taylorismo – come metodo di organizzazione – e fordismo – come metodo di industrializzazione. Da un punto di vista più operativo, il taylorismo si adatta bene alle grandi dimensioni aziendali, al trionfo della meccanica ed alla produzione di massa di beni standardizzati su cui sono facilmente conseguibili delle economie di scala, ma si indebolisce progressivamente a partire da quando, nella seconda metà del secolo, le grandi imprese devono fronteggiare l’emergere di un cambiamento delle abitudini, bisogni e desideri dei consumatori finali. Questi dalla richiesta di prodotti standardizzati e massificati si muovono verso la domanda di prodotti innovativi e più personalizzati. A fronte di un mutamento della domanda dei mercati e dell’emergere di innovazioni le grandi imprese vanno incontro ad un processo di ristrutturazione con una graduale deverticalizzazione. Si affermano nuove configurazioni organizzative non più basate sul modello della grande impresa verticale fortemente standardizzata sia nei processi produttivi che nella natura dei prodotti offerti, ma ispirate alla creazione di reti di relazioni tra imprese raccordate da meccanismi di coordinamento ed integrazione inter-organizzativi. A Taylor e all’organizzazione scientifica del lavoro, nel tempo, sono state mosse molte critiche: le carenze motivazionali, l’utilizzo del solo incentivo monetario, la mancata considerazione della dimensione sociale del lavoro, l’autoritarismo, l’orientamento marcatamente pro manageriale, la parcellizzazione del lavoro, l’identificazione uomo-macchina, lo sfruttamento dei lavoratori misurato dallo scarto tra aumento di produttività e aumento retributivo, ecc.. Si tratta certamente di osservazioni importanti che tuttavia meritano di essere rivisitate, anche alla luce del fatto che molto spesso le critiche riguardano le applicazioni e non le idee, e che anche le tanto criticate applicazioni del taylorismo sembrano rappresentare una risposta coerente con le caratteristiche economiche, sociali e tecnologiche del tempo, negli Stati Uniti e successivamente negli altri Paesi. Inoltre è bene non confondere, attualmente, il superamento delle applicazioni di stampo fordista con l’esaurimento della carica vitale del taylorismo, dal momento che le esigenze di creare sistemi produttivi di cui l’uomo

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sia soltanto un mero strumento, di standardizzare i gusti dei consumatori, di offrire al mercato beni e servizi prodotti con operazioni iperspecializzate sono ancora in alcune forme ed in alcuni contesti produttivi presenti e perseguite. Una delle critiche più forti rivolte agli studiosi dell’organizzazione scientifica del lavoro era la mancata considerazione delle variabili psicologiche e sociali che interessano individui e gruppi nelle strutture organizzative. A queste problematiche si deve l’origine dell’approccio soggettivista all’analisi dei sistemi organizzativi. In particolare, della cosiddetta scuola delle “human relations”. Fu proprio l’interesse per queste variabili psico-sociali, in precedenza del tutto ignorate, che portò a scoprire l’esistenza, accanto all’organizzazione formale, di una organizzazione “informale”, ed accanto ad obiettivi di carattere oggettivo delle organizzazioni, quali l’efficienza, la produttività, la redditività, la legalità, l’imparzialità, anche obiettivi di carattere “soggettivo” di soddisfazione e di sviluppo individuale dei singoli partecipanti all’organizzazione. La scuola delle “human relations” assume grande rilevanza negli studi del pensiero organizzativo in seguito ad alcune ricerche condotte presso gli stabilimenti Hawthorne della Western Electric, tra il 1927 e il 1932, dagli psicanalisti Elton Mayo e Fritz Roethlisberger. Le ricerche, avviate con l’obiettivo di trovare delle connessioni tra le condizioni fisiche degli ambienti di lavoro, in particolare l’intensità dell’illuminazione dei locali, ed il rendimento dei dipendenti, condussero a risultati particolarmente sorprendenti. I dipendenti vennero suddivisi in due gruppi: il primo gruppo – gruppo d’esperimento - avrebbe lavorato nel reparto con illuminazione aumentata, il secondo gruppo – gruppo di controllo - avrebbe continuato a lavorare nel reparto con le condizioni di illuminazione normale. Tuttavia, a dispetto delle aspettative, si osservò che la produttività aumentava sia nel reparto in cui si era attuato l’aumento di illuminazione, sia nel reparto di controllo, dove l’illuminazione era rimasta immutata. Inoltre, anche provando a ridurre l’illuminazione, e quindi in condizioni ambientali peggiorate, nel primo gruppo la produttività, anziché diminuire, tendeva ad aumentare. Se ne dedusse che la produttività del sistema organizzativo non poteva essere imputata solo all’ambiente di lavoro e alla struttura del processo produttivo, ma esisteva un’altra variabile che prescindeva dai fattori analizzati dallo scientific management. Si concluse che la determinante delle prestazione produttive era costituita dal fattore umano da intendersi non solo come componente ‘meccanica’ del sistema produttivo, ma come individuo portatore di interessi, valori, stili comportamentali ed attitudini che influenzano le prestazioni organizzative. L’esperimento rivelò che era il grado di coesione e di affiatamento tra i componenti del gruppo, derivante dalla qualità dei rapporti interpersonali al suo interno, a determinare in massima parte l’elevato livello di performance, ancor più delle stesse condizioni fisiche dell’ambiente di lavoro, dal momento che i componenti del primo gruppo, quello d’esperimento, si auto-selezionavano, erano dei volontari che si conoscevano, si sentivano “amici”, avevano già delle buone relazioni sociali tra loro. Si scoprì, altresì, l’esistenza e l’importanza, nell’ambito delle organizzazioni, dei gruppi informali, vale a dire di aggregazioni spontanee tra lavoratori derivanti da dinamiche di tipo relazionale e socio-affettivo non necessariamente coincidenti con i gruppi formali stabiliti dalla direzione aziendale.

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Al contempo emerse la grande importanza rivestita dai fattori motivazionali personali e di gruppo all’interno delle organizzazioni: l’esperienza dimostrava infatti che l’aumento di produttività era fortemente connesso al fatto che i componenti del gruppo d’esperimento si sentivano più motivati perché avvertivano più attenzione nei loro confronti, qualcuno mostrava interesse al loro lavoro, per la prima volta erano “orgogliosi” di quello che stavano facendo. Inoltre si evidenziava per la prima volta la questione degli stili di leadership: ad Hawthorne anche il capo del gruppo d’esperimento, a sua volta, si sentiva notato e quindi attuava, anche in maniera inconsapevole, uno stile di direzione più orientato alle persone e non meramente alla produzione e ciò si ripercuoteva in maniera positiva sulla produttività. Si concluse pertanto che appropriati interventi del management sul piano della progettazione organizzativa e delle interazioni microsociali, dirette a costruire e motivare adeguatamente i gruppi, possono aumentare sensibilmente il rendimento lavorativo. Mentre lo “scientific management” considerava i dipendenti come meri erogatori di forza lavoro, autori come Mayo, Roethlisberger ed altri delle “human relations” evidenziano la necessità di una visione più completa del rapporto uomo-organizzazione, che recuperi il complesso dei fattori psicologici latenti che condizionano il comportamento lavorativo dei soggetti. Ne consegue che una maggiore attenzione dell’organizzazione alle esigenze di natura psicologica dei soggetti, in particolare all’armonia ed alla qualità dell’ambiente microsociale in cui si lavora, può essere più efficace per il rendimento lavorativo che non un semplice aumento della remunerazione. E’ importante tuttavia sottolineare che – sebbene con una focalizzazione diversa - anche le istanza soggettiviste della scuola “human relations” si collocano in impostazioni teoriche “one best way” dove l’obiettivo rimane comunque la funzionalizzazione delle forze produttive ai fini del profitto. Le tesi di Mayo sono state in seguito riprese, sul finire degli anni Trenta, dalle analisi di Chester Barnard circa le istanze cooperative all’interno delle organizzazioni e il ruolo centrale del dirigente nel superamento dell’utilitarismo verso la cooperazione. Per Barnard, infatti, il manager professionale è leale agli scopi della proprietà, ma nel contempo attento alle esigenze delle persone che lavorano. Per rendere compatibili istanze diverse il manager, quindi, comunica e media, avendo come fine principale il consenso e l’identificazione di tutti agli scopi dell’organizzazione. In questa ottica, Barnard supera la concezione solo emozionale del consenso, presente nella linea delle relazioni umane, e apre il discorso sulla motivazione all’adesione ed all’impegno del lavoro per obiettivi. Il lavoro di Barnard sarà ripreso da numerosi studi sullo stile di direzione. Dopo la seconda guerra mondiale, sulla scia di Barnard, si assiste infatti al proliferare di numerosi contributi sul tema dello stile di direzione. Rilevanti sono, solo per citarne qualcuno, i contributi di MacGregor, Likert, Katz, Blake e Mouton. L’altro tema, di derivazione soggettivista, molto trattato negli studi organizzativi a partire dagli anni Cinquanta è senza dubbio la motivazione, in particolare con i contributi ascrivibili a Maslow, Hertzberg e MacGregor. Successivamente, a partire dagli anni Sessanta, nel mondo anglosassone si sviluppavano programmi di ricerca il cui comune punto di partenza era quello di dimostrare l’infondatezza delle soluzioni “one best way” sia di matrice oggettiva che soggettiva. L’attenzione degli studiosi si spostava quindi dalla ricerca dell’ottimalità universale del disegno e del comportamento organizzativo al tentativo di spiegare la diversità

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organizzativa: perché imprese dotate di forme organizzative molto diverse riuscivano ad essere ugualmente efficaci ed efficienti? Quali dimensioni concorrono a spiegare tali diversità? Questo filone di studi che si proponeva quindi di spiegare la varietà delle caratteristiche di struttura, meccanismi operativi e stili di direzione sulla base della situazione in cui imprese e individui operano si concretizzò negli anni Settanta nella formazione di un insieme sistematico di conoscenze noto come “contingency theory”. Il successo di questo approccio è stato tale che ancora oggi la progettazione organizzativa si basa in gran parte sulle conoscenze sviluppate dagli studiosi “contingency”, quali la Woodward, Burns e Stalker, Seiler, Lawrence e Lorsch, solo per citarne alcuni. Una delle sintesi più compiute della scuola contingente è stata realizzata da Henry Mintzberg (1979; 1983), uno dei massimi studiosi di organizzazione e progettazione organizzativa di sempre. Parallelamente alle teorie “contingency”, si registrano anche altri contributi al pensiero organizzativo da parte di altre scuole: pensiamo a tutto l’approccio delle teorie fenomenologiche di matrice husserliana; alle teorie cognitiviste di Simon, March e Weick; alle teorie dell’azione organizzativa di Thompson. Negli ultimi due decenni, infine, si è assistito ad un notevole sviluppo di approcci teorici che, superando tradizionali compartimentazioni tra economia industriale ed organizzazione, hanno messo in evidenza l’aumento delle capacità esplicative e normative ottenibili attraverso un’integrazione tra paradigmi economici e paradigmi organizzativi. Il più rilevante di tali tentativi è certamente quello compiuto dalla cosiddetta “economia organizzativa” di Barney e Ouchi (1986) e in particolare dalla teoria dei costi di transazione, sviluppatasi a partire dai lavori di Williamson (1975; 1985; 1994), che ha ripreso e ampliato a sua volta alcune idee di fondo di Coase (1937). 3. Le Componenti dei Sistemi Organizzativi In qualsiasi sistema organizzativo, si possono fondamentalmente individuare due principali componenti: la prima è di solito definita organizzazione formale e raggruppa gli studi e le applicazioni empiriche che si interessano dell'insieme dei ruoli, delle norme e delle procedure che nel loro complesso costituiscono la struttura organizzativa e che, nel suo ambito, possono trovare una esplicita e formalmente ben definita descrizione, alla quale ciascun componente dovrebbe attenersi. L’organizzazione formale si traduce con la definizione dell’insieme delle relazioni che legano tra loro le diverse componenti del sistema impresa e coinvolge non solo il disegno sia verticale che orizzontale dei rapporti tra individui e/o gruppi di individui, ma si occupa anche della definizione delle norme e procedure di comportamento che regolamentano il funzionamento del sistema impresa. Costruire una struttura significa, in altri termini, pervenire alla sintesi di un lavoro teorico e gestionale che prende avvio dalla progettazione di regole e norme di comportamento e si conclude inserendo le variabili tecnologiche, personali e sociali in una precisa configurazione organigrammatica, avendo allo stesso tempo riguardo alla strategia ed all’ambiente in cui si colloca l’impresa. Questa definizione strutturale appare indispensabile nella costruzione di qualsiasi sistema organizzativo, anche se deve essere riguardata alla stregua di una premessa

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necessaria, ma non per questo sufficiente al complesso funzionamento della organizzazione intesa nella sua globalità. Quindi in sintesi l’organizzazione formale definisce la morfologia interna del sistema organizzativo, ossia la sua architettura e la relativa fisiologia di funzionamento. Corrisponde all’insieme delle relazioni ufficiali e documentate definite all’interno dell’organizzazione. La seconda componente, generalmente definita organizzazione informale, è connessa invece al fattore umano, ossia alle persone ed ai gruppi che fanno vivere i sistemi organizzativi, alle manifestazioni del comportamento individuale e collettivo, alle dinamiche motivazionali e decisionali, agli stili di leadership dei manager, e a tutte quelle componenti intangibili legate alle dinamiche relazionali interpersonali, sociali e psicologiche che influenzano l’efficacia ed efficienza organizzativa. In effetti difficilmente si potrà riscontrare una completa coincidenza fra quanto stabilito dalle regole dell'organizzazione formale e la realtà pratica, sempre influenzata dalla personalità di coloro che la dovranno realizzare. Ciò nonostante appare indispensabile il preliminare chiarimento degli elementi e degli strumenti della componente formale dell’organizzazione, la quale, sebbene influenzata dagli aspetti più informali, svolge in ogni caso una rilevante funzione di guida e di coordinamento generale. In conclusione l’organizzazione informale è volta ad analizzare e comprendere le dinamiche relazionali tra gli individui e come i loro comportamenti influenzano l’efficienza del sistema organizzativo. 4. Organizzazione Formale Il raggiungimento di qualunque obiettivo sia a livello individuale che di sistema richiede l’esecuzione di attività operative. L’insieme di tali attività, che nel loro complesso costituiscono il processo produttivo o lavoro da eseguire, necessitano per essere realizzate di risorse sia di trasformazione che per la trasformazione. Le prime si configurano come input al processo produttivo, mentre le seconde sono alla base del funzionamento dei processi di trasformazione realizzati nelle attività lavorative. Affinché le attività lavorative e l’insieme delle risorse siano integrate per il raggiungimento degli obiettivi preposti è necessario dotarsi di un’organizzazione. Questa, come già evidenziato nel paragrafo precedente, è caratterizzata da due componenti fondamentali. Nel seguito si analizzano le proprietà alla base della definizione di una struttura organizzativa formale. Suddivisione e specializzazione del lavoro Le azioni da svolgere nell’ambito del sistema organizzativo per conseguire gli obiettivi ad esso assegnati, pur avendo un carattere complesso, possono essere analiticamente scomposte in gruppi di attività più semplici, quindi più facilmente attuabili e controllabili. Ciò si fonda sull’analisi dei processi alla base del funzionamento del sistema impresa e all’individuazione delle attività alla base del funzionamento di ciascun processo. L’individuazione di gruppi di attività da eseguire consente la definizione dei compiti organizzativi, ossia delle funzioni operative che devono essere necessariamente svolte al fine di conseguire gli obiettivi prefissati. Questi possono essere raggruppati definendo così le mansioni organizzative, ossia i compiti e/o le attività che devono essere svolti da un ruolo organizzativo. Il criterio seguito per il

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raggruppamento dei compiti in mansioni organizzative è quello dell’omogeneità delle singole attività, ossia vengono aggregate in una mansione organizzativa quelle attività che ricadono nel medesimo ambito di specializzazione e competenze, o presentano delle affinità in relazione agli output di pertinenza. L’analisi e la suddivisione del lavoro in gruppi di attività e compiti operativi costituisce la premessa fondamentale di qualsiasi analisi organizzativa, sia per imprese di piccola dimensione, sia per imprese di media e grande dimensione. Per la piccola unità, tuttavia, essendo più mansioni accentrate su pochi operatori, la scomposizione del lavoro in compiti specializzati si svilupperà quasi esclusivamente come regola logica di ordine mentale. Mentre nelle imprese di media e grande dimensione essa si riproporrà come vera e propria diversificazione delle mansioni da attribuire a specifici ruoli organizzativi. La suddivisione del lavoro in compiti consente di realizzare una specializzazione funzionale all’interno del sistema organizzativo. Infatti, gli individui e/o gruppi di individui impegnati nello svolgimento continuato nel tempo della stessa tipologia di attività maturano un livello di competenze ed abilità che garantisce non solo l’efficacia delle attività organizzative, ma soprattutto l’efficienza. Attraverso un graduale e continuo processo di specializzazione le varie componenti del sistema organizzativo aumentano le proprie prestazioni riuscendo ad ottenere risultati qualitativamente e quantitativamente migliori. Definizione del ruolo Per facilitare il processo di specializzazione del lavoro, il criterio generalmente seguito per il raggruppamento delle attività è quello dell'omogeneità delle singole azioni che si concretizza nella definizione del ruolo. Nella struttura organizzativa e sul piano formale, il ruolo è determinato da una posizione alla quale sono attribuiti determinati compiti o funzioni, da svolgere nell'ambito di precisi rapporti che si devono intrattenere nelle interazioni con gli altri ruoli del sistema. Al ruolo è necessario associare un ben definito grado di autorità e di responsabilità. L'autorità formale è costituita dal potere legittimo a svolgere le mansioni previste nel quadro di una libertà guidata, che consenta di esplicare processi decisionali, di operare quindi nell'azione pratica, e, infine, di controllare i risultati prodotti. All'autorità è strettamente connesso il concetto di responsabilità, cosciente capacità, cioè, di saper assumere, insieme con i vantaggi, anche le obbligazioni rivenienti dall'autorità. Responsabilità, quindi, significa conoscenza dei problemi insiti nei compiti che si assumono, volontà di risolverli, necessità di dover dar conto del proprio operato. Ed è proprio questa limitazione che spiega perché, in generale, l'individuo è portato a ricercare l'autorità, la gestione cioè del potere, fuggendo invece il momento della responsabilità, del controllo e del rendiconto sui risultati che tale gestione ha prodotto. Parlando di autorità vi è da sottolineare una fondamentale differenza fra quella così detta formale, ufficialmente imposta e delegabile, e quella invece derivante da innate qualità insite nella personalità dell'individuo. L'autorità formale, per potersi meglio esprimere, deve essere attribuita a personalità corredate di determinate qualità, quali intelligenza, forza morale, cultura, esperienza, ecc., che inneschino un naturale fenomeno di leadership, di guida cioè pienamente accettata dai subordinati verso cui si manifesta. L'autorità informale, spesso chiamata anche carismatica, mutuando il significato letterale di "dono della grazia" proprio della parola "carisma", non può ritenersi una componente normale dell'organizzazione, anche se sovente proprio ad essa deve essere ascritto il merito del successo di una iniziativa. In termini organizzativi, invece, l'autorità va intesa come

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potere attribuito agli individui, non in quanto capi carismatici, ma come esecutori di prefissate funzioni connesse a specifici ruoli. In questo senso, l'autorità formale risulta essere essa stessa una facoltà delegabile, proprio attraverso la differenziazione che la struttura organizzativa subisce con la differenziazione dei ruoli. Processo di delega Il processo di delega è quella relazione che si instaura tra due ruoli organizzativi allorquando un ruolo – il delegante – delega, ossia trasferisce e/o attribuisce autorità e responsabilità dell’esecuzione di un compito, ad un altro ruolo organizzativo – delegato – che si incarica della realizzazione delle attività delegate. Attraverso il processo di delega si trasferisce il diritto di operare liberamente entro prefissati limiti, imposti dalla necessità di coordinamento delle diverse attività delegate, riservandosi, comunque, sempre il controllo dei risultati. Il processo di delega deve essere accompagnato da una responsabilizzazione del ruolo delegato e implica, quindi, allo stesso tempo il concetto di controllo. Controllo da sviluppare in sede esecutiva, da parte dell'operatore delegato, sui risultati connessi alla propria azione, per essere trasferito poi all'organo delegante soltanto quando sia stata eventualmente accertata la difformità fra gli obiettivi effettivamente raggiunti e quelli invece sperati (controllo per eccezioni). Il ragionamento può rientrare nell'ambito più ampio del concetto di responsabilizzazione dell'organo periferico da attuarsi attraverso una preliminare individuazione degli obiettivi da raggiungere, lasciando che sia lo stesso incaricato a scegliere e a imporsi la migliore via per il loro conseguimento e operando, quindi, il controllo sugli scostamenti tra realtà effettiva e programmata (management by objectives). Importante ai fini della responsabilizzazione è proprio il momento dell'autodeterminazione decisionale, perchè, per il suo tramite, l'azione da compiere risulta liberamente scelta dallo stesso operatore e non appare brutalmente imposta dall'esterno. In questo ultimo caso, infatti, l'interesse del subordinato generalmente sarà maggiormente teso a ricercare le possibili giustificazioni per non aver agito secondo le previsioni imposte, piuttosto che a realizzare nel migliore dei modi tali previsioni. Il concetto di controllo non va inteso in senso puramente statico e repressivo, ma deve costituire una informazione di ritorno (feedback) da recepirsi mentre l'azione è ancora in atto, per consentire l'immediato inserimento di eventuali operazioni di aggiustaggio, non appena sia stata avvertita la tendenza a fuoriuscire dai limiti imposti dai programmi inizialmente accettati. L’attività di controllo è demandata al delegante che deve raccogliere le informazioni necessarie alla comprensione dello stato di avanzamento delle attività e del livello di raggiungimento degli obiettivi preposti. Dal momento che l’attività di controllo richiede un impegno di risorse da parte del delegante, ne consegue che benché un delegante possa definire molteplici relazioni di delega con diversi deleganti, queste non possono eccedere un determinato valore di soglia oltre il quale il delegante non sarebbe nelle condizioni operative di coordinare e monitorare i propri delegati. Tale valore di soglia è definito come ‘ampiezza di controllo’ e rappresenta il numero massimo di rapporti subordinati controllabili da ciascun superiore diretto. Nel passato, grazie in particolare agli studi di V.A. Graicunas, si tentarono approcci teorici al problema cercando di determinare, attraverso il calcolo combinatorio, l'estensione ottimale della supervisione, partendo dalla osservazione, in verità esatta,

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che il numero dei rapporti tra un capo ed i suoi dipendenti è molto più ampio del numero dei dipendenti stessi, a causa delle interazioni laterali tra i dipendenti che sempre si determinano. L'approccio al problema, effettuato in termini puramente quantitativi, sebbene possa presentare un qualche interesse in sede teorica, si scontra con la mutevole realtà pratica, nella quale non appare mai trascurabile il fattore qualitativo, per cui risulta estremamente difficile poter stabilire a priori il numero di persone che un controllore può agevolmente controllare. Tale numero dipende da moltissimi fattori, fra i quali, importantissimo, il rapporto fra le reciproche personalità del controllore e dei controllati, per cui la regola informale più valida, suggeribile al proposito, è quella che il numero ottimale dei rapporti controllabili da un capo debba essere tale da consentirgli, in condizione di normalità, una efficace azione direttiva. Integrazione e coordinamento E’ da considerare, allo stesso tempo, che la specializzazione pone un altro importante problema organizzativo, quello dell’integrazione, ovvero come riuscire ad orientare unità e ruoli aziendali disomogenei, se non addirittura in conflitto, verso obiettivi comuni, senza, però, rinunciare ai vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro. Il fabbisogno di integrazione può quindi essere definito come la qualità del coordinamento richiesto tra unità organizzative al fine di raggiungere in modo unitario le finalità d’azienda, senza rinunciare alla differenziazione di orientamenti e di modalità di funzionamento organizzativi coerenti con i caratteri dei singoli task e tali da consentire la massimizzazione delle economie di specializzazione. La progettazione dei sistemi di integrazione, argomento che esula da questa trattazione, si pone proprio l’obiettivo di riportare verso l’unità comportamenti ed atteggiamenti differenziati in quanto derivanti da assetti organizzativi sviluppati nel tempo da settori aziendali impegnati a svolgere attività specialistiche. 4.1 Strutture formali delle relazioni organizzative I ruoli presenti nel sistema organizzativo e le reciproche relazioni di dipendenze ed interdipendenza che esplicitamente si evidenziano per consentirne il coordinamento ufficiale, costituiscono nel loro insieme la struttura formale della organizzazione. Questa può essere descritta facendo riferimento essenzialmente a due modelli relazionali di base, quello gerarchico-lineare, o di line, e quello funzionale, o di staff, le cui combinazioni possono poi spiegare i diversi tipi di strutture organizzative rilevabili in pratica. Il sistema delle relazioni organizzative di tipo gerarchico-lineare si basa su una concezione piramidale del sistema delle relazioni di comando. Secondo tale modello ogni dipendente può ricevere ordini solo dal suo diretto superiore. Ne consegue che se un ruolo organizzativo ‘X’ deve trasmettere un’informativa ad un altro ruolo ‘Y’, posto al medesimo livello gerarchico, non può farlo direttamente, ma tramite il ruolo organizzativo immediatamente più elevato nella scale gerarchica delle relazioni; questi deve rivolgersi al suo diretto ruolo superiore, e così via, fino a che l’informativa non raggiunga un ruolo comune ad entrambi. Da questi inizierà il percorso inverso, in direzione discendente, fino a raggiungere il reparto, l’ufficio o la persona destinataria dell’informativa. La figura che segue espone graficamente tale percorso burocratico (Figura 1).

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2° livello di comando

1° livello di comando

0 Unità di comando principale

0.1 Unità di comando

0.2 Unità di comando

0.1.1 0.1.2 0.1.3 0.2.1 0.2.2 0.2.3

2° livello di comando

1° livello di comando

0 Unità di comando principale

0.1 Unità di comando

0.2 Unità di comando

0.1.1 0.1.2 0.1.3 0.2.1 0.2.2 0.2.3

Figura 1. Sistema delle relazioni organizzative gerarchico o di line. Alla struttura delle relazioni lineare garantisce senza dubbio una certa unità nell’indirizzo gestionale ed un elevato grado di disciplina, che dovrebbero assicurare una sicura convergenza delle scelte aziendali verso le finalità prestabilite. Di contro, tale modello sconta un’eccessiva lentezza del processo decisionale anche quando gli eventi richiederebbero rapidità e tempestività negli interventi; un artificioso aumento di lavoro amministrativo; un’esasperazione della gerarchia e della burocratizzazione. Tutto ciò, ovviamente, si traduce rapidamente in modesti livelli di efficienza. La struttura delle relazioni organizzative di tipo funzionale, invece, si basa sul principio della divisione del lavoro. In contrapposizione ai principi del sistema delle relazioni di tipo gerarchico, imperniata sul ruolo gerarchico quale componente fondamentale per il coordinamento delle attività svolte ad un livello inferiore della struttura organizzativa, la struttura relazionale funzionale fa leva sulla specializzazione delle funzioni che si ottiene attraverso una spinta suddivisione del lavoro, sia di quello intellettuale, sia di quello manuale. Secondo tale approccio un dipendente può ricevere ordini da chiunque altro, sempre se più elevato in grado e nell’ambito delle specifiche competenze. La figura seguente riproduce uno schema di ordinamento funzionale (Figura 2).

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Unità direzionale

Specialista funzione 0

Specialista funzione 1

0.1.1 0.1.2 0.1.3 0.1.4 0.1.5

livello specialistico

Unità direzionale

Specialista funzione 0

Specialista funzione 1

0.1.1 0.1.2 0.1.3 0.1.4 0.1.5

livello specialistico

Figura 2. Sistema delle relazioni organizzative funzionale o di staff. Il sistema delle relazioni di tipo funzionale risponde ad una logica organizzativa più moderna rispetto a quella di tipo gerarchico, tuttavia anch’essa non è immune da critiche. Si osserva, infatti, che organi diversi possono contemporaneamente emanare direttive destinate ad un medesimo ruolo organizzativo e di conseguenza si possono creare gravi conflitti di competenza. Inoltre, la struttura delle relazioni funzionali corre il rischio di non conservare l’unidirezionalità di indirizzo nelle decisioni aziendali. Alla struttura delle relazioni lineare ed a quello funzionale si sono aggiunti nel tempo altri sistemi di relazioni organizzative, sulla spinta di una realtà operativa caratterizzata da nuove esigenze. Attraverso una sintesi dei due modelli di base in precedenza analizzati, si è pervenuti alla cosiddetta struttura di tipo "line-staff", o gerarchico-funzionale. L’organizzazione per line e staff si basa su una combinazione delle due strutture di relazioni. L’organizzazione è impostata dal punto di vista operativo per livelli gerarchici – unità di line –, ma le decisioni degli organi superiori sono supportate da servizi specializzati compiuti da uffici o gruppi di persone –unità di staff– dotati di competenze specifiche, ma non aventi rapporti con la struttura operativa. Gli staff, infatti, sono organi di assistenza formati da esperti altamente qualificati che si affiancano alla struttura gerarchica di line per fornire ausilio e consulenza. Agli staff non sono attribuiti poteri di comando e pertanto, nella rappresentazione grafica non sono posizionati sulle linee gerarchiche che segnano i livelli decisionali e di responsabilità (Figura 3).

Figura 3. Sistema delle relazioni organizzative gerarchico-funzionale o di line-staff.

livello specialistico

0 Unità di comando principale

0.1 Unità di comando

0.2 Unità di comando

0.1.1 0.1.2 0.1.3 0.2.1 0.2.2 0.2.3

Specialista funzione A Specialista funzione B

livello specialistico

0 Unità di comando principale

0.1 Unità di comando

0.2 Unità di comando

0.1.1 0.1.2 0.1.3 0.2.1 0.2.2 0.2.3

Specialista funzione A Specialista funzione B

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Nella realtà pratica, tuttavia, lo specialista, pur privato di autonomia formale, spesso assume un'autorità informale motivata proprio dalla sua preparazione e competenza; autorità che può prevalere su quella degli uomini destinati alla linea, creando motivi di conflitto informale. Una particolare posizione di staff che vale la pena segnalare è quella che, nell'ambito dell'organizzazione, dovrebbero svolgere i comitati. In essi i responsabili di varie posizioni di linea si riuniscono insieme con gli specialisti di staff per discutere problemi comuni a più settori, per pervenire così, attraverso la fusione di una coralità di opinioni e di diverse esperienze, a suggerimenti che costituiscano una sintesi ottimale di quanto esprimibile da ciascun partecipante. La funzione consultiva di staff dei comitati va attribuita anche a quelli così detti esecutivi, le cui decisioni sono di tipo eminentemente operativo. I suggerimenti che i comitati sono in grado di manifestare devono essere recepiti poi dalla linea operativa, alla quale spetta in ultima analisi la competenza di deciderne la attuazione, imponendola quindi gerarchicamente agli organi esecutivi. Nella realtà operativa, al momento della definizione e/o re-ingegnerizzazione di una struttura organizzativa, i diversi ruoli e funzioni possono trovare una prima, assai generale classificazione facendo riferimento alle già descritte posizioni di line e staff. Questa suddivisione deve considerarsi in termini molto flessibili in quanto il ruolo, ma ancor più la stessa funzione, nel momento operativo potranno assumere caratteristiche ambivalenti, ora di line, ora di staff, a seconda delle finalità che si vogliono perseguire. Nella definizione del sistema delle relazioni oltre alla tipologia delle relazioni occorre prestare attenzione anche allo sviluppo dimensionale del sistema delle relazioni. In tal senso si possono distinguere due principali tipologie di strutture relazionali, a seconda che queste tendano a svilupparsi lungo una direzione verticale, piuttosto che orizzontale. Nel primo caso -sistemi di relazioni con sviluppo verticale-, la struttura delle relazioni si caratterizza per la presenza di differenti livello gerarchici. La struttura organizzativa e di tipo verticale e si riscontra un insieme di ruoli e funzioni strutturate secondo un sistema a strati. Muovendoci dallo strato di livello superiore a quello inferiore ci si sposta dagli organi di comando e direzione a quelli operativi. Pertanto in questo modello organizzativo esiste fondamentalmente una separazione tra comando ed esecuzione. Invece, nei sistemi di relazioni con sviluppo orizzontale, si è in presenza di sistemi organizzativi con struttura piatta. Ciò significa che si riscontrano pochi livelli gerarchici di separazione tra la direzione ed i livelli operativi e per contro si rileva un numero cospicuo di ruoli sul medesimo livello organizzativo. Questo tipo di modello organizzativo si caratterizza fondamentalmente per il grado di autonomia dei ruoli organizzativi operativi ai quali è demandato non solo lo svolgimento delle attività, ma anche una capacità decisionale. Pertanto questo tipo di modello organizzativo è particolarmente indicato in quei sistemi organizzativi nei quali si richiede capacità decisionali ed autonomia ai ruoli periferici; è questo ad esempio il caso delle imprese di consulenza o di vendita mediante una rete di agenti. Occorre evidenziare uno dei principali problemi delle strutture organizzative piatte è quello del coordinamento dei ruoli organizzativi. Tuttavia negli ultimi decenni, anche grazie sia allo sviluppo di sistemi di comunicazione ICT (Information and Communication Technology) che

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facilitano i processi di coordinamento, questo tipo di struttura si è fortemente affermato e diffuso come modello organizzativo di riferimento che garantisce efficienza e snellezza con un contenimento dei costi operativi e di gestione. Organigramma Una volta individuata la struttura formale nelle componenti, in termini di ruoli e mansioni organizzative, che la suddivisione prescelta avrà suggerito come maggiormente confacenti, e nei rapporti, in termini di sistema delle relazioni, esistenti fra tali componenti, se ne potrà dare un’immagine grafica, mediante un apposito diagramma che prende il nome di organigramma. L’organigramma è una rappresentazione sintetica, storica e statica dell’organizzazione. Esso costituisce una rappresentazione grafica di una struttura organizzativa ed è in grado di dare una visione immediata delle suddivisioni e delle articolazioni a cui corrispondono i diversi organi e le varie posizioni gerarchiche. La finalità dell’organigramma è quella di fornire un’immagine disaggregata e funzionale del sistema organizzativo in esame. È uno strumento di sintesi che consente di rappresentare le principali componenti formali dell’organizzazione e permette di comprendere attraverso un’immagine unitaria aggregata, dove risiedono le competenze e qual è il livello di strutturazione dell’autorità e della responsabilità dei ruoli organizzativi. Adottando una metafora fisiologica, l’organigramma può essere assimilato ad una radiografia del corpo umano. Esso consente di analizzare le componenti strutturali del sistema organizzativo, di analizzare le relazioni tra queste componenti, di valutare il loro ruolo e di individuare le componenti critiche per lo svolgimento di specifiche funzioni. Ovviamente l’organigramma tenderà ad essere tanto più esteso quanto più grande sarà il sistema organizzativo indagato e la sua utilità tende ad essere tanto più rilevante al crescere dell’organizzazione in quanto strumento di sintesi della comprensione dell’estensione e della struttura dell’organizzazione. L’organigramma costituisce un’immagine storica dal momento che esso rappresenta sempre una foto istantanea di un dato momento dello sviluppo dell’organizzazione. Inoltre è un’immagine statica. Ciò pone in evidenza la necessità di adottare un approccio dinamico alla gestione dell’organigramma che prevede sue frequenti revisioni ed aggiornamenti, così da garantire che esso fornisca sempre un’immagine reale e veritiera della struttura dell’organizzazione. Dal punto di vista grafico l’organigramma si presenta come un grafo, con due componenti fondamentali: le linee, che denotano le relazioni di comando ed i flussi informativi, ed i blocchi che definiscono i ruoli organizzativi. Esistono diverse rappresentazioni dell’organigramma. La rappresentazione maggiormente adoperata è certamente quella cosiddetta lineare-verticale, in cui i vari ruoli organizzativi sono fra loro collegati per l'appunto in verticale, ponendo in evidenza la linea gerarchica diretta e gli organi consultivi di staff. In essi, il grafico assume la classica rappresentazione piramidale, sviluppandosi dal vertice direzionale fino alla base operativa. Tali organigrammi potranno essere più o meno estesi a seconda dell'ampiezza delle informazioni che si vogliono trasmettere per ciascuna posizione. Nella loro redazione e stesura va comunque tenuto sempre presente il concetto di omogeneità, così da creare ben definite aree dove inserire ruoli omogenei. Esistono anche organigrammi a sviluppo orizzontale, a sviluppo di lettura da sinistra verso destra, con uno svolgimento che si distende via via dagli organi di massimo livello fino a quelli con minori poteri e più modeste responsabilità. Tali organigrammi

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sono particolarmente adatti alle unità produttive in cui, per diverse ragioni, appare inopportuno porre in risalto i rapporti gerarchici interni all’azienda. Esistono poi anche organigrammi radiali, nel qual caso la direzione è posta al centro di un cerchio e lungo le direzioni radiali si sviluppano i diversi livelli gerarchici. Questo tipo di rappresentazione meglio si presta a comprendere quali ruoli sono posti sul medesimo livello gerarchico, sebbene afferenti a differenti linee di comando e responsabilità. Benché l’organigramma sia uno strumento fortemente esplicativo e rappresentativo dei livelli di autorità e responsabilità, nonché dei flussi informativi, esso da solo non è sufficiente a rappresentare la complessità di un sistema organizzativo. È per queto motivo che tale strumento è affiancato da altri strumenti, quali in particolare un mansionario. Si tratta di un manuale corredato da dettagliate descrizioni delle mansioni, delle norme e delle procedure che caratterizzano il sistema organizzativo indagato. Ciò al fine di definire senza possibilità di equivoci i rapporti gerarchici, i compiti devoluti a ciascun organo, i poteri decisionali assegnati a ogni ufficio, le responsabilità e le mansioni spettanti al singolo dipendente, la natura e l’ampiezza delle funzioni di controllo, e così via. 4.2 Le Principali Strutture Organizzative I principi dell’organizzazione formale nonché, come si vedrà, dell’organizzazione informale convergono all’interno delle cosiddette funzioni aziendali le quali possono essere raggruppate essenzialmente in tre macroaggregati, le funzioni operative, le funzioni di indirizzo e coordinamento e la funzione imprenditoriale. Le funzioni operative possono essere, a loro volta, distinte in tipiche e integrative. Le tipiche attengono alla realizzazione delle attività produttive fondamentali dell’impresa, e si identificano nella funzione Ricerca & Sviluppo, Approvvigionamenti, Produzione, Marketing e Commerciale, mentre le funzioni operative integrative possono essere ricondotte alle funzioni Finanza e Gestione del Personale. Le aree funzionali operative fungono da naturale interfaccia dei vari mercati che caratterizzano l’ambiente specifico in cui l’impresa opera. L’unica eccezione è rappresentata dalla funzione di produzione che interagisce con l’esterno per il tramite delle altre. Tali funzioni, oltre a realizzare l’attività operativa loro demandata, controllano l’efficacia e l’efficienza con cui essa viene attuata e svolgono attività di supporto alla funzione imprenditoriale, fornendole le informazioni necessarie ad orientarne l’operato. Le funzioni di indirizzo e coordinamento coadiuvano lo svolgimento sia dell’attività imprenditoriale che di quella operativa e possono essere ricondotte alle funzioni Organizzazione, Programmazione & Controllo, Sistemi Informativi. La funzione imprenditoriale, infine, definisce le caratteristiche fondamentali dell’impresa, la tipologia dei rapporti che essa deve avere con l’ambiente in cui vive ed opera, gli obiettivi globali che deve perseguire ed i soggetti cui affidare la realizzazione dell’attività necessaria a tal fine. Essa si identifica con la direzione strategica dell’impresa. Nell’ambito delle funzioni aziendale sopra delineate, la funzione Organizzazione, in particolare, ha lo specifico obiettivo di delineare le modalità attraverso le quali

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l’impresa mette a sistema le risorse, materiali ed immateriali, per svolgere, in condizioni di efficienza oltre che di efficacia, le proprie combinazioni produttive. Nel definire il proprio sistema decisionale ed operativo, in relazione al tipo di attività svolta ed alle caratteristiche dell’ambiente in cui opera o intende operare, l’impresa può far riferimento ad alcune strutture organizzative di base, variamente combinabili:

struttura organizzativa semplice; struttura organizzativa plurifunzionale; struttura organizzativa multidivisionale; struttura organizzativa per l’innovazione; struttura organizzativa a matrice.

La struttura organizzativa semplice Nella struttura organizzativa semplice, tipica delle imprese di piccole dimensioni, le diverse funzioni sono indistinte ed accentrate nelle mani dell’imprenditore-capitalista, coadiuvato, a volte, da collaboratori che svolgono mansioni prevalentemente esecutive. Al crescere della dimensione aziendale si rende necessaria, però, una progressiva differenziazione delle funzioni e la loro attribuzione ad organi diversi. La necessità di decentramento decisionale genera spesso timori e diffidenze nell’imprenditore individuale, la cui cultura è di solito lontana dal concepire la collaborazione con altre persone: questo fattore costituisce una delle cause più rilevanti del mancato sviluppo e talvolta addirittura dell’elevata mortalità delle imprese di piccole dimensioni. La struttura organizzativa plurifunzionale Nella struttura organizzativa plurifunzionale (Figura 4) le principali funzioni sono differenziate ed attribuite a singoli direttori che hanno la responsabilità non solo dell’efficacia, ma soprattutto dell’efficienza realizzata nel perseguire gli obiettivi loro assegnati. L’adozione di questa struttura porta alla creazione di due livelli di decisioni strategiche, rappresentati dalla direzione generale e dai dirigenti delle diverse aree funzionali. La direzione generale, di concerto con il management di direzione, quale ad esempio il Consiglio di Amministrazione, e la proprietà, definisce le strategie aziendali, ne controlla l’attuazione e si preoccupa di dirimere gli eventuali conflitti che dovessero sorgere tra le varie funzioni. L’attività delle diverse aree è generalmente destinata a supportare il vertice centrale nella formulazione delle strategie aziendali, definire le linee di applicazione di tali strategie nell’ambito funzionale e realizzare l’attività operativa di loro competenza, controllandone l’efficienza con cui essa viene svolta. Questa struttura sembra rispondere alle esigenze delle imprese monobusiness e di quelle che operano in aree d’affari molto omogenee tra di loro, per tipologie di prodotti, tecnologie utilizzate e situazioni di mercato. Obiettivo principale di tale struttura è garantire la massima efficienza nella gestione delle risorse affidate, realizzabile in virtù dell’elevata specializzazione tecnica di coloro che operano all’interno di ciascuna funzione, che consente di migliorare continuamente i rendimenti delle risorse impiegate attraverso l’utilizzo delle conoscenze possedute e delle esperienze progressivamente maturate.

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Il principale limite, invece, sembra insito nella sua eccessiva rigidità, dovuta proprio all’elevata specializzazione dei compiti ed alla difficoltà di coordinamento delle funzioni che si manifesta soprattutto quando l’impresa si trova ad operare in ambienti turbolenti.

Unità operative

Unità funzionali

DirezioneDirezione Generale

DirezionePersonale

Direzione Produzione

Dir. Acquisti Direz. Vendite

Unità operativa

1

Unità operativa

2Unità operativeUnità operative

Unità funzionaliUnità funzionali

DirezioneDirezione Generale

DirezionePersonale

Direzione Produzione

Dir. Acquisti Direz. Vendite

Unità operativa

1

Unità operativa

2

Direzione Generale

DirezionePersonale

Direzione Produzione

Dir. Acquisti Direz. Vendite

Unità operativa

1

Unità operativa

2

Figura 4. Struttura organizzativa polifunzionale o dipartimentale. La struttura organizzativa multidivisionale Nella struttura multidivisionale si realizza una differenziazione delle attività in base ai prodotti, alle aree geografiche oppure, più generalmente, alle aree d’affari, che determina il formarsi di un vertice centrale, assistito da vari organi di staff, e differenti divisioni. Il vertice centrale ha il compito di definire l’orientamento strategico dell’impresa, di gestire i processi comuni a più divisioni, di coordinare e controllare l’attività svolta dalle singole divisioni. A ciascuna di queste viene demandato, invece, lo svolgimento dei processi e delle combinazioni di processi relativi alla realizzazione di specifici prodotti, alla gestione di una determinata area di mercato o d’affari. In linea generale la struttura multidivisionale può assumere due diverse configurazioni, a seconda che i processi decisionali strategici siano accentrati presso il vertice centrale oppure vengano, almeno parzialmente, demandati anche ai vertici divisionali. In questa ultima ipotesi i direttori delle varie divisioni possono detenere notevoli responsabilità in merito alla gestione delle risorse finanziarie, tecniche ed umane loro assegnate. Pur potendosi presentare perfettamente autonome, più generalmente le attività svolte dalle singole divisioni presentano varie interrelazioni al fine di realizzare rilevanti sinergie e acquisire importanti vantaggi competitivi sulla concorrenza. Le divisione di una struttura organizzativa multidivisionale possono essere definite in funzione di tre principali criteri di riferimento: prodotti, aree geografiche e processi produttivi. I primi due rappresentano i criteri principali di riferimento. In Figura 5, si riporta uno schema tipo di una struttura organizzativa multidivisionale su base prodotto.

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Figura 5. Struttura organizzativa multidivisionale per prodotto.

Direzione Generale

Divisione Prodotto A

Marketing

Progettazione

Vendite

Marketing

Progettazione

Vendite

DivisioneProdotto B

Vendite

Promozione

Vendite

Promozione

Alta direzione

Direzione divis.

Direzioni funzionali

Unità operative

Direzione Generale

Divisione Prodotto A

Marketing

Progettazione

Vendite

Marketing

Progettazione

Vendite

DivisioneProdotto B

Vendite

Promozione

Vendite

Promozione

Alta direzioneAlta direzione

Direzione divis.Direzione divis.

Direzioni funzionali

Unità operative

In struttura organizzativa multidivisionale, ogni divisione tende ad assumere i connotati di una "quasi impresa", nel senso che tende a strutturarsi e ad essere gestita come una vera e propria impresa indipendente anche se in ultimo integrata all’interno di un sistema unitario. I vantaggi di una struttura organizzativa multidivisionale risiedono in primis nella possibilità di gestire in modo ottimale produzioni diversificate. Occorre però sottolineare che tale struttura ha senso solo allorquando si è di fronte ad aree di business di elevate dimensioni. In tali condizioni, tale struttura organizzativa garantisce una profonda conoscenza dell’area di business, nonché consente di sviluppare dirigenti con capacità globali. Poiché le strutture organizzative multidivisionali determinano la definizione di un’impresa corporate, cioè di un’impresa con diverse unità di business coincidenti proprio con le divisioni, si rende necessario al fine di garantire un’integrazione strategica delle diverse unità l’adozione di un sistema di monitoraggio, valutazione e gestione delle prestazioni basato su un sistema informativo aziendale. La struttura multidivisionale presenta il rischio di realizzare diversi livelli di efficienza nell’espletamento delle stesse attività funzionali svolte all’interno delle divisioni. Per evitare che ciò avvenga, nelle imprese diversificate focalizzate su diverse aree di business, che operano in ambienti particolarmente complessi, si preferisce ricorrere a strutture a matrice, caratterizzate dal fatto che i centri operativi ricevono un duplice orientamento: dalle divisioni o aree di business e dalle funzioni, a loro volta coordinati dal vertice centrale. È importante osservare che all’ampliarsi delle dimensioni e della complessità dell’attività svolta da un‘impresa con una struttura organizzativa multidivisionale, si assiste spesso alla formazione di gruppi aziendali, al cui interno è possibile individuare un’impresa capogruppo (holding) che controlla le altre, giuridicamente autonome, che li compongono. La holding è preposta alla definizione delle strategie di portafoglio delle aree d’affari, al coordinamento e al controllo delle attività delle altre imprese del gruppo e a tal fine gestisce in modo accentrato alcuni principali funzioni/processi. Oltre al decentramento decisionale, la formazione di un gruppo consente di frazionare il rischio che grava sull’attività svolta complessivamente, agevola l’attuazione di strategie di portafoglio (cessioni/acquisizioni di imprese), moltiplica la dimensione delle attività controllate dal soggetto economico e realizza sistemi di controllo più sensibili ed efficaci.

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La struttura organizzativa per l’innovazione La necessità da parte dei sistemi organizzativi di fronteggiare un contesto ambientale sempre più dinamico e turbolento porta alla definizione di strutture organizzative in grado di sostenere le dinamiche innovative. Si tratta di strutture snelle orientate alla definizione di nuove soluzioni tecnico-produttive e/o organizzativo-gestionali. Tra le strutture organizzative rivolte alla gestione dei processi innovativi si possono in particolare annoverare la task-force e l'organizzazione per progetto. La task-force rappresenta una struttura organizzativa temporanea costituita da specialisti con differenti competenze che è attivata in presenza di un problema/obiettivo ben determinato. Si tratta di una struttura fortemente focalizzata sul raggiungimento di uno specifico risultato. La task-force è smobilitata con il conseguimento dell'obiettivo. In presenza di problemi che richiedono un frequente ricorso a strutture del tipo task-force, l'organizzazione può modificarsi tendendo a soluzioni strutturali con carattere di maggiore continuità quali l'organizzazione per progetto. La struttura organizzativa per progetto si basa sulla formazione di un gruppo di progetto preposto alla gestione del lancio di un nuovo prodotto, all’ingresso in una nuova aree d’affari o più in generale per l’analisi e definizione di una nuova soluzione di business. La responsabilità della realizzazione dei singoli progetti viene attribuita ad un direttore (project manager), di elevato livello gerarchico, il quale, nella sua attività si avvale di persone reperite presso le diverse funzioni che possiedono le competenze differenti necessarie per il progetto. I gruppi hanno generalmente durata limitata poiché esauriscono il loro compito nello sviluppo del progetto. Dopo tale fase, infatti, lo svolgimento delle attività relative all’esecuzione del progetto viene ripartita tra le aree funzionali a ciò preposte oppure confluiscono in una divisione appositamente costituita. Questa struttura si adatta molto bene anche ad imprese che operano su commessa ed in ambienti in cui i prodotti ed i processi produttivi sono soggetti a rapida obsolescenza e conseguentemente a rapida sostituzione. La struttura organizzativa a matrice La struttura organizzativa a matrice caratterizza quei sistemi organizzativi che operano per progetti, cioè basati su una produzione che è volta a realizzare uno specifico obiettivo e che presenta elementi di complessità tali da rendere il processo produttivo fondamentalmente unico e non ripetitivo e quindi non standardizzabile. È questo ad esempio il caso di tutte quelle imprese che operano per commessa per la realizzazione di un prodotto di tipo non standard. Un tipico esempio di imprese di questa natura sono le imprese di costruzione le quali sono sempre impegnate nella realizzazione di progetti, che benché possano presentare similarità nella loro natura, ad esempio opere stradali piuttosto che edilizia residenziale, si trovano ad operare in condizioni operative ogni volta differenti. La struttura organizzativa a matrice può essere interpretata come un’integrazione della struttura organizzativa multifunzionale con quella multidivisionale. Infatti, tale struttura organizzativa si presenta così struttura: le colonne della matrice corrispondono con le diverse funzioni organizzative, si tratta delle funzioni specialistiche nelle quali sono collocate le competenze necessarie allo svolgimento di una specifica funzione; mentre lungo le righe sono poste le ‘divisioni’ (Figura 6). In realtà, non si tratta di vere e proprie divisioni, quanto piuttosto di aree di business e/o di progetto. Questo tipo di

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La scelta della struttura organizzativa più adatta per il sistema organizzativo indagato è funzione di una serie di variabili. In particolare sembra possibile individuare quattro principali discriminanti per a scelta della struttura organizzativa, queste sono: la dimensione aziendale, la tipologia di produzione, il mercato ed il settore industriale di riferimento e il comportamento direzionale. La dimensione aziendale influenza fortemente sia la tipologia che l’ampiezza della struttura organizzativa. Generalmente tanto più piccola è l’impresa tanto più semplice sarà il modello organizzativo adattato. È importante precisare però che al crescere della dimensione di impresa è importante mantenere snello il sistema organizzativo ed evitare la creazione di sovrastrutture che possano inficiare l’efficienza, se non addirittura l’efficacia del sistema organizzativo. Quindi la scelta del sistema organizzativo più adatto deve sempre rispondere a dei criteri di efficienza e snellezza. Anche la natura del processo produttivo influenza la tipologia di struttura organizzativa. Quelle imprese che operano per processi in condizioni quasi standard possono adottare strutture funzionali; mentre organizzazioni che operano per progetti tendenzialmente devono adottare strutture a matrice o per progetti. Oltre al processo produttivo anche il comparto industriale di riferimento ed il mercato sono un’altra discriminante importante da tener in conto nella definizione della struttura organizzativa. Ambiti particolarmente dinamici richiedono strutture assai flessibili e snelle. Infine la struttura organizzativa caratteristica di un sistema organizzativo è influenzata dal comportamento direzionale, che generalmente è definito dalla proprietà. Così a comportamento autoritari corrisponderanno tendenzialmente strutture verticali con una basso livello di autonomia e partecipazione al processo decisionale dei diversi ruoli organizzativi, e viceversa. 5. Organizzazione informale La sola definizione dell’organizzazione formale e quindi della struttura morfologica e funzionale dell’impresa, anche se perfettamente progettata, non fornisce alcuna garanzia sul raggiungimento efficiente degli obiettivi aziendali, in quanto i ruoli, che in essa si definiscono, saranno ricoperti da individui o gruppi di individui. Quindi l’efficacia, ma soprattutto l’efficienza della struttura organizzativa finirà con il dipendere dalla componente umana. Si rende quindi indispensabile ai fini organizzativi focalizzare l’attenzione anche su tale componente. Il primo studioso a focalizzare l’attenzione sull’importanza rivestita dagli individui nel buon funzionamento dell’imprese, fu Elton Mayo (1933). A questi va il merito di aver gettato le basi dell’organizzazione informale intesa come l’insieme dei rapporti che, per moventi non prestabiliti nell’ambito delle regole formali, si vengono ad instaurare fra i componenti del sistema organizzativo in funzione delle loro diverse personalità. In tale panorama il compito dell’organizzazione informale è proprio quello di analizzare la componente umana, riguardata nell’ambito aziendale, definendo e classificando le diverse manifestazioni della personalità umana e cercando di coglierne le motivazioni. Sotto questo aspetto lo studio si avvale in larga parte degli strumenti di analisi propri della psicologia e sociologia applicate e tende ad inquadrarsi come una autonoma disciplina, la psico-sociologia industriale. Quindi l’organizzazione informale è volta fondamentalmente a comprendere, interpretare e valutare il comportamento e gli stili di azione degli individui e dei gruppi di invidi all’interno del sistema organizzativo. L’analisi di queste dimensioni è alquanto

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complessa dal momento che le manifestazioni esteriori del comportamento umano sono difficilmente classificabili, sia per la loro natura prettamente qualitativa, sia per il gran numero di parametri in gioco. Ne consegue, che nella letteratura organizzativo-manageriale sono state proposte numerose classificazioni. Si tratta di modelli di tipo descrittivo che focalizzano l’attenzione sull’individuo cercando qualitativamente di definirne il carattere comportamentale e gli aspetti motivazionali. Complessivamente sembra possibile classificare i modelli proposti nella letteratura secondo due classi di riferimento; quella dei modelli che focalizzano l’attenzione sulla personalità del singolo individuo al fine di valutarne la sua rispondenza alle mansioni e al contesto organizzativo a cui deve far riferimento, e la classe dei modelli che analizzano le dinamiche di gruppo e le relazione tra i relativi componenti. Il processo di valutazione è in generale impostato cercando di individuare alcuni parametri sui quali sviluppare una scala di valori che, partendo da una posizione minima, pervengano ad un limite massimo. Il primo problema che si pone, quindi, è costituito dal sezionare con riferimento ad una realtà complessa, qual è il comportamento e/o gli stili di azione di un individuo o gruppi di individui, alcuni parametri giudicati rappresentativi su cui costruire una scala quantitativa di valori per la valutazione. Tra i modelli di valutazione proposti, un primo strumento di valutazione è cosiddetto ‘modello comportamentale’. Esso schematizza il comportamento individuale attraverso l'individuazione dei fenomeni più tipici connessi con l'evoluzione della vita umana. In particolare, il modello si basa su una scala di valutazione che pone ai due estremi della scala due valutazioni estreme ed opposte. Da un lato è posto il comportamento ‘infantile’. Dall’altro lato della scala di valutazione è posto invece il comportamento ‘maturo’. Al primo stadio si associa un’attitudine comportamentale caratterizzata da una forte dipendenza dagli altri, in cui predomina una ricerca di subordinazione, giustificata anche dalla esigenza di soddisfare una necessità di sicurezza. Dipendenza e subordinazione che, sul piano psicologico, tendono a creare miti o altre forme irrazionali che possono anche sconfinare nella vera e propria superstizione. In questo caso, la personalità dell’individuo appare poco sviluppata, quindi tendenzialmente soggiogabile, così come la capacità decisionale di autodeterminazione, e ciò provoca una tendenza repulsiva alla assunzione di autonome responsabilità. Invece, al secondo stadio corrisponde il comportamento tipico di un individuo autonomo e determinato. Esso manifesta un’attitudine alla completa indipendenza, si caratterizza per la ricerca di posizioni di potere, capaci di porre in stato di subordinazione le personalità con le quali entra in rapporto. In tal caso prevale un approccio razionale all’analisi delle situazioni ed un elevato livello di sicurezza in sé stessi; sensazioni che tendono generalmente ad essere trasferite agli altri individui operanti nel medesimo contesto organizzativo. Un'altra classificazione di tipo assai generale volta ancora a valutare gli stili comportamentali è quella che considera, ai due estremi, il comportamento autocratico dittatoriale, in contrapposizione a quello democratico partecipativo. Tale modello di valutazione noto anche come modello di Douglas Mac Gregor ha portato alla definizione di due alternative concezioni organizzative note come teoria x e teoria y. Queste appaiono utili non solo per valutare gli individui, ma anche per comprendere le tecniche di gestione operativa adottate nell'ambito del sistema organizzativo. La teoria x, riferita a posizioni maggiormente autocratiche dittatoriali, ipotizza l'individuo come soggetto passivo da costringere all'azione con l'autorità e la minaccia di punizioni. In

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essa, quindi, prevale un'organizzazione di tipo formale, nell'ambito della quale tutto sia preliminarmente stabilito e predisposto al fine di un controllo di tipo autocratico direzionale. La teoria y, invece, considera soggetti per loro natura aperti agli interessi del sistema organizzativo, dove tendono a svolgere ruoli di attiva partecipazione. In tale teoria quindi viene a essere maggiormente evidenziata la natura dei rapporti informali, cercando di innescare un allargato processo di autodeterminazione periferica. Infine, uno dei tentativi più riusciti di schematizzazione dello stile di azione comportamentale nell'ambito organizzativo, è quello costituito dalla cosiddetta Managerial Grid di Robert R. Blake e Jane S. Mouton (Figura 7).

Interesse per la produzione

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stile puro

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Figura 7. Modello della Managrial Grid. Lo scopo, le persone e la gerarchia vengono assunti come parametri universali caratterizzanti le organizzazioni. Per tentare una correlazione, si cerca di individuare le modalità seguite dai capi, la gerarchia, per raggiungere gli obiettivi organizzativi, gli scopi, mediante i partecipanti all’organizzazione, le persone. L'interesse soggettivo del capo viene influenzato da due parametri assunti come fondamentali, l'interesse per gli obiettivi organizzativi, cioè per la produzione, e l'interesse per le persone. Tali parametri vengono rappresentati su di un diagramma car-tesiano, preordinando una scala di valori che va dal valore minimo di ‘1’, che corrisponde al minimo interesse, al valore ‘9’, che invece denota il massimo interesse. Dalla combinazione di tali elementi è possibile definire differenti stili di comportamento a cui corrispondono alternativi effetti sia sugli obiettivo del sistema organizzativo che sull’impatto del sistema organizzativo sugli individui. Complessivamente il modello consente di definire 81 possibili stili comportamentali, tuttavia quelli di riferimento afferiscono ai vertici della matrice. In particolare, si individuano 5 stili comportamentali puri corrispondenti ai quattro vertici della matrice ed al nodo centrale. Fra gli stili puri, quello relativo alla posizione (1:1) della matrice corrisponde a quello di un individuo che presenta indecisione e scarso interesse sia per la produzione che per le persone. In tal caso l’individuo tende a non criticare le azioni ed attività organizzative al fine di evitare critiche, cercando di scaricare sempre sugli

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altri le responsabilità. In tale stile, quindi, l'obiettivo principale è quello di essere coinvolti il meno possibile negli scopi dell’organizzazione e delle persone. Con un inciso si potrebbe affermare che in tale posizione prevale il motto "essere presenti, mantenendosi assenti". Lo stile caratterizzante la posizione (1:9) della matrice, è identificativo di coloro che prediligono un contesto fortemente orientato alle persone, in cui grande rilevanza è attribuita all'organizzazione informale. Generalmente in corrispondenza di tale stile si tende a vedere il diretto superiore come ad una figura di ‘fratello maggiore’. Invece, l'orientamento verso la produzione e verso le persone si equivalgono nello stile (5:5). L'azione, in questo caso, dovrà essere motivata da informazioni che si sviluppino sia in senso informale sia in senso formale. Si eseguono riunioni per inserire le persone nel gruppo, per ascoltare suggerimenti, per dare la sensazione di una loro attiva partecipazione al processo decisorio. A tale livello si può affermare che l'autorità tende ad essere esercitata con il metodo della ‘carota e del bastone’; mentre il sistema organizzativo formale e quello informale, più che integrarsi, si controbilanciano. Nello stile comportamentale (9:1), le persone sono riguardate alla stregua di strumenti di produzione; le relazioni umane, quindi, vengono ridotte al mini-mo, mentre il controllo si sviluppa sulla base del potere gerarchico nel senso del rapporto autorità-obbedienza. I conflitti fra subordinati vengono soppressi dai superiori, mentre fra pari o nei confronti del capo sovrastante si tende esclusivamente a competere. Infine, lo stile (9:9), è caratterizzato dall'elemento partecipativo. In esso perciò gli individui operano attraverso la responsabilizzazione per obiettivi, cercando di far coincidere traguardi individuali con quelli generali propri dell'intero sistema organizzativo. La Finestra di Johari Alla base degli stili comportamentali degli individui si riscontra sempre la natura della personalità del soggetto e le condizioni di contesto nelle quali il soggetto si trova immerso, ed in particolare le interazioni con le altre personalità presenti e l’insieme delle cause motivazionali che possono essere note o incognite al soggetto. Al fine di analizzare comprendere tali dimensioni, il modello di valutazione della Finestra di Johari (Figura 8) propone una rappresentazione grafica che distingue lungo un rettangolo due ambiti di riferimento: nel primo costituito da quattro aree poste in orizzontale lungo un rettangolo sono evidenziate le motivazioni conosciute o sconosciute all'individuo; mentre nel secondo costituito da componenti verticali sono evidenziati gli stati d’animi espressi o tenuti nascosti dall'individuo nei confronti dell'ambiente circostante.

motivazioni conosciute motivazioni sconosciute

individuo

caratteristiche percepite dall’individuo e dagli altri

caratteristiche non percepite dall’individuo

ma dagli altri

caratteristiche percepite dall’individuo ma tenute

nascoste agli altri

caratteristiche ignote all’individuo e agli altri

motivazioni conosciute motivazioni sconosciute

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Figura 8. La Finestra di Johari. Ne consegue che è possibile individuare quattro posizioni tipiche, metodologicamente importanti per l'analisi e la classificazione delle motivazioni effettivamente rilevabili nella realtà pratica. Due posizioni estreme sono quelle che prevedono caratteristiche motivazionali totalmente note o del tutto ignote sia all'individuo che alle persone con le quali si trova in interazione. Sono queste rispettivamente le posizioni più facili e più difficili da guidare mediante azioni determinate o volute dall'individuo o attraverso possibili convincimenti operati dall'esterno. Posizioni intermedie rispetto alle precedenti si determinano dove le caratteristiche motivazionali non siano note al soggetto, ma siano invece recepite dal mondo esterno o, in alternativa le caratteristiche siano conosciute all'individuo che però tende volontariamente a mascherarle nei confronti degli altri. Anche in tali situazioni, si potrà operare con azioni che, nel primo caso, potranno svilupparsi all'esterno dell'individuo, mentre, nel secondo, nasceranno e si evolveranno soltanto quando sia l'individuo stesso a decidere in tal senso. Strumenti di gestione dell’organizzazione informale: il meccanismo degli incentivi Gli incentivi rappresentano uno strumento assai rilevante nella gestione delle dinamiche organizzative informali. In particolare essi rappresentano degli strumenti volti a fornire dei vantaggi capaci di stimolare l'efficienza e il rendimento individuale e/o di gruppo. La necessità di adottare tale meccanismo è dovuta fondamentalmente dalla non immediata coincidenza fra bisogni personali e le necessità aziendali. Difficilmente le finalità e gli interessi di vita degli individui coincidono con gli obiettivi organizzativi. Ciò può sfociare in una conflittualità che determina una diminuzione dell’efficienza e del rendimento organizzativo. Ecco allora che si rende necessario trovare dei meccanismi che consentano e/o facilitino l’integrazione tra aspirazioni individuali ed obiettivi organizzativi. Generalmente gli incentivi sono associati a fattori fisici o quanto meno quantificabili in termini di remunerazione economica. Sebbene ciò sia fondamentalmente vero. Occorre non commettere l’errore di identificare univocamente l’incentivo ad un compenso economico. Infatti questo sebbene possa motivare gli individui non sempre garantisce una reale integrazione tra le aspirazioni individuali ed i risultati organizzativi. Così soprattutto negli ultimi anni sempre più importanza è attribuita ad altre forme di incentivazione legate a componenti immateriali quali ad esempio riconoscimenti morali pubblicizzati attraverso strumenti di comunicazione sia interni che esterni all’organizzazione, l'assegnazione di più ampie disponibilità di tempo libero, il miglioramento delle condizioni lavorative, e più in generale un maggior coinvolgimento nella vita e nella visione di sviluppo dell’organizzazione. Un aspetto limitativo nell'uso di incentivi, in particolare di quelli fisici, è costituito dalla naturale tendenza ad acquisirli, dopo breve tempo, non più nella loro funzione incentivante, ma come forme abitudinarie oramai entrate nell'uso e, quindi, da recepirsi in termini di obbligazioni preliminari alla vera e propria incentivazione. È questo ad esempio ciò che si è verificato in relazione ai premi di produzione e/o risultato del management di molte grandi società, che si sono poi tradotti nei casi estremi in scandali finanziari come il caso Enron. Un approccio al problema della ricerca di nuove forme di incentivi è quello di guardare alla scala dei bisogni umani, all'appagamento dei quali, in definitiva, l'incentivazione deve sempre tendere. In tal senso Maslow propone una classificazione dei bisogni

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umani secondo una scala gerarchica composta da 5 livelli. Al livello più basso vi sono i bisogni fisiologici, essenziali alla sopravvivenza, quindi quelli che esprimono necessità di sicurezza, di appartenenza (affezione, vicinanza, identificazione), di stima (rispetto di sé, prestigio, successo) e, infine, quel bisogno di autorealizzazione che va dalla necessità di esprimere in pieno il proprio potenziale fino al desiderio di padroneggiare l'ambiente. Man mano che l'incentivazione si rivolge al soddisfacimento di queste ultime esigenze, si rende necessario adottare un criterio di gestione del sistema organizzativo fondato sul coinvolgimento nei processi decisionali. Tale processo deve preliminarmente essere reso possibile per mezzo di un efficiente sistema informativo da impiegarsi sia come strumento di comunicazione che di monitoraggio. Inoltre, il comando deve cedere il passo a un'azione motivante di convincimento, capace cioè di sollecitare il consenso in tutti gli interessati. La mancanza di un intimo consenso, generalmente associata a uno stadio di insoddisfazione, insieme con altre motivazioni di base, sviluppa la naturale tendenza degli individui a riunirsi in gruppi diversi da quelli formalmente precostituiti inficiando l’efficienza del sistema organizzativo. Nell'ambito organizzativo, infatti, accanto ai gruppi individuati e prestabiliti sul piano formale, vengono a formarsi altri gruppi a carattere prettamente informale, nei quali ciascun membro si aggrega alla ricerca di un appagamento di specifiche aspirazioni, a cui il gruppo formale non riesce a dare una risposta.

6. Nuovi modelli organizzativi per l'impresa A partire dagli anni Settanta-Ottanta l’affermarsi di nuovi modelli di produzione, insieme ad altri fattori venutisi nel tempo a determinare, quali l’incertezza e la mutevolezza della domanda, la complessità e la dinamicità dei mercati e la conseguente crescita dei livelli di competitività richiesti, la riduzione del ciclo di vita dei prodotti, la disponibilità di nuove tecnologie di produzione e di supporto alla produzione, hanno innescato l’esigenza di definire nuove strutture e nuovi modelli organizzativi più efficienti e snelli. A fronte di un cambiamento dello scenario competitivo le strutture organizzative tradizionali non risultavano più adeguate nei nuovi scenari di business: esse postulavano, per il loro buon funzionamento, un ambiente esterno stabile e prevedibile, sul quale poter fondare una strategia di efficienza e crescita quantitativa (economie di scala). Esse tendevano a fornire una interpretazione semplificata e riduttiva dell’ambiente esterno, per ricondurlo alla portata delle funzioni/attività routinarie e standardizzate. Crollavano così alcuni pilastri dei modelli organizzativi tradizionali quali le strutture gerarchico/piramidali, i molteplici livelli di responsabilità crescente, la specializzazione funzionale, i processi decisionali di tipo top-down. Le imprese sono state chiamate, quindi, a gestire situazioni sempre più caratterizzate dalla complessità. Galbraith definisce la complessità come gap tra le informazioni teoricamente necessarie per svolgere un’attività in modo ottimale rispetto alle informazioni effettivamente disponibili, tutto al fine di poter organizzare ex-ante le proprie attività. La complessità è funzione di cinque dimensioni: la numerosità degli elementi rilevanti a livello strategico in termini di prodotti, clienti, aree geografiche, canali di distribuzione; la disomogeneità di tali elementi; la prevedibilità di tali

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elementi; l’interdipendenza sempre dei medesimi; infine la pressione sui risultati, espressa sia in termini di pressione esterna imposta dal contesto economico in cui si opera sia di pressione interna imposta dal soggetto economico attraverso i livelli di performance attese e richieste. Di fronte alla necessità di fronteggiare la complessità, sorge l’esigenza per le imprese di definire nuove soluzioni organizzative. A livello gestionale, le soluzioni organizzative implementate negli ultimi decenni dalle imprese di successo per far fronte alla crescente complessità possono essere distinte in due macroaggregati. Da un lato si hanno i cosiddetti strumenti “costruttivi” o “positivi” o di “attacco”, cioè l’impresa affronta la complessità e cerca di gestirla in primo luogo attraverso la pianificazione e la realizzazione di migliori performance interne: il focus, in altri termini, è sul recupero di efficienza. Dall’altro si hanno i cosiddetti strumenti di “difesa”, ossia l’impresa cerca di ridurre e gestire la pressione sui risultati, in particolar modo quella esogena, attraverso la creazione di alleanze, più o meno esplicite, con altre imprese. Al primo approccio è riconducibile sia la filosofia gestionale del Total Qualità Management (TQM) sia il Business Process Reengineering. Invece, al secondo approccio sono riconducibili tutte quelle soluzioni ispirate alla creazione di sistemi relazionali inter-impresa quali gli accordi tra imprese e le reti di imprese. Il Total Quality Management A partire dagli anni Cinquanta, lo scenario economico-produttivo e socio-organizzativo risulta sempre più caratterizzato da paradigmi e modelli gestionali innovativi, sintetizzati nell’acronimo TQM (Total Quality Management). Le sue origini si possono far risalire al Giappone della fine degli anni Quaranta, un Paese completamente devastato dagli effetti della disfatta nel secondo conflitto mondiale, dove anche le poche imprese rimaste, tra cui la Toyota, erano afflitte da gravissimi problemi di sopravvivenza. In particolare, ciò di cui la Toyota poteva disporre a quell’epoca erano capitali esigui, macchinari obsoleti e inadeguati, stabilimenti danneggiati e con spazi utilizzabili assai ristretti, vale a dire ben poco se posto a confronto con le immense risorse a disposizione dei giganti del capitalismo statunitense, forti delle applicazioni dei modelli tayloristici ed allora più che mai leader assoluti nella produzione di massa nel settore automobilistico. Tajihi Ohno, direttore generale della Toyota, sapeva di poter contare su una sola grande risorsa, la straordinaria perizia e la totale dedizione delle sue maestranze. Facendo leva su questo unico, ma decisivo, punto di forza, elaborò una strategia assolutamente originale. Intuì innanzitutto che occorreva trasformare i vincoli in risorse e decise pertanto di abbassare il punto di profitto – break even point – delle economie di scala tipiche delle produzioni di grande serie al livello di un’economia di flessibilità basata su produzioni di breve serie. La produzione di massa si basava sulla realizzazione dei medesimi prodotti per diversi mesi, se non per anni, e quindi si valeva di allestimenti – set up – relativamente fissi. La strategia di Ohno comportò, invece, l’introduzione della pratica di cambiare frequentemente gli allestimenti, in modo da poter produrre piccoli lotti, cogliendo così anche le più piccole opportunità di mercato. Grazie al coinvolgimento di tutto il personale in incessanti sperimentazioni ed alla pratica del kaizen – pseudofilosofia diretta al miglioramento continuo delle prestazioni collettive – i tempi di allestimento furono abbreviati di diverse ore rispetto agli standard delle imprese statunitensi ed europee. Inoltre, gli operai addetti agli allestimenti ed addetti alla produzione furono stimolati a lavorare insieme. In tal modo, grazie al reciproco arricchimento delle mansioni ed al graduale apprendimento di nuove

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competenze, si giunse ad una figura di lavoratore polifunzionale, capace sia di produrre con la massima flessibilità operativa sia di allestire le macchine in tempi straordinariamente brevi. Il frequente cambio di produzione faceva altresì venir meno il bisogno di accumulare grandi riserve di materie prime, imponendo invece un magazzino minimo ed un sistema di forniture e trasporti talmente efficiente da garantire consegne limitate e puntuali, giusto in tempo per essere lavorate, il cosiddetto sistema just in time. La produzione in lotti piccoli e diversificati permise alla Toyota di rispondere alle variazioni di mercato ed alle richieste sempre più personalizzate dei clienti con un tempismo ed una flessibilità ignote ai giganti americani, che producevano unicamente in grande serie. La produzione a piccoli lotti permetteva inoltre un controllo della qualità estremamente più efficace di quello praticato nella produzione di massa. Si constatò, in particolare, la convenienza di fermare il flusso produttivo per eliminare immediatamente i difetti scoperti, piuttosto che lasciare scorrere il flusso per intervenire a fine linea, come prescriveva il modello taylorista-fordista, cosa che comportava sprechi assai più consistenti di materiali e semilavorati. Tra gli anni Cinquanta e Settanta, la Toyota, insieme ad altre imprese giapponesi che ne seguirono l’esempio, ottennero successi così rilevanti da imporsi come alcune tra le più importanti, innovative e redditive imprese del mondo. Negli anni Ottanta, un gruppo di ricercatori del MIT concettualizzò il nuovo modello di produzione giapponese come “lean production” o “produzione snella”, indicando con tale espressione ciò che era apparso loro come tratto essenziale. Alla fine degli anni Ottanta, in pieno periodo di ristrutturazioni industriali, decentramento produttivo e contestuale sviluppo dell’economia post-industriale, con il boom dell’elettronica, dell’informatica e del terzo settore, gli fu attribuita una denominazione che dava maggiore risalto all’aspetto allora indubbiamente più sentito, e cioè quello della continua ricerca di un più elevato livello di qualità. Il modello sarebbe quindi divenuto universalmente noto come Total Quality Management e ciò anche grazie all’opera di consulenti aziendali di fama mondiale come il giapponese Ishikawa e gli statunitensi Deming e Juran che ne promossero ovunque la diffusione e l’applicazione, mettendone in particolare evidenza la portata innovativa delle tecniche e dei metodi di valorizzazione dell’organizzazione e delle risorse umane. Le componenti essenziali del Total Quality Management possono essere così sintetizzate: Sistema Just in Time (JIT), Lean production o produzione snella, Kaizen o miglioramento continuo, Tecnologia semplice, Polifunzionalità degli operatori e Ricerca della Qualità Totale. Per la valenza che queste componenti oggi rivestono nei sistemi organizzativi se ne delineano nel seguito i caratteri fondamentali. Sistema Just in Time (JIT): è un sistema produttivo volto a garantire una continua e perfetta simmetria tra l’offerta di beni prodotti e la domanda di mercato basata su complessi sincronismi tra i vari sub-sistemi che intervengono nel flusso produttivo. Le conseguenze di questo modo di produrre sono opposte a quelle della produzione di massa di matrice tayloristca: quest’ultima puntava su economie di scala attraverso la realizzazione prolungata ed uniforme di un dato prodotto e la standardizzazione di routines e procedure. Il Just in Time rende, invece, possibile realizzare prodotti e servizi in serie brevi e differenziate, senza produrre nulla che non sia effettivamente necessario e con aggiustamenti continui alle variazioni dell’ambiente competitivo ed alle reali esigenze dei clienti. Al fine di garantire rapide e frequenti consegne di materiali e prodotti finiti, i fornitori non sono più scelti solo in base ai costi delle singole commesse, ma selezionati accuratamente in base alla loro capacità di collaborazione

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con l’organizzazione nel lungo periodo. Ai fornitori vengono formulate richieste e fornite indicazioni e dai fornitori vengono spesso recepiti suggerimenti e proposte di innovazione, in un’ottica di reciproco beneficio. Lean production o produzione snella: è un approccio di gestione della produzione volto all’eliminazione degli sprechi, dei tempi morti e delle risorse ridondanti: meno scorte di magazzino, meno spazi impegnati, meno movimenti di persone e materiali, meno apparati, meno addetti, meno passaggi procedurali. L’eliminazione delle risorse ridondanti non obbedisce soltanto ad imperativi di economicità, ma si ispira ad una filosofia di essenzialità, che fa apparire qualsiasi elemento superfluo come uno spreco, in giapponese ‘muda’. Ohno individua diverse forme di muda , alcune più immediate e visibili, come gli scarti ed i prodotti scadenti, ed altri meno visibili, come i tempi morti di attesa, le immobilizzazioni di capitali, i trasporti e le manutenzioni inutili, il personale distolto da attività più produttive o addetto a compiti burocratici e di controllo che potrebbero essere eliminati senza compromettere la produzione. Kaizen o miglioramento continuo: è quella particolare filosofia gestionale orientata ad ottenere un sempre maggiore coinvolgimento partecipativo degli operatori nelle vicende dell’impresa attraverso la valorizzazione delle esperienze specifiche e delle capacità innovative di ognuno. Essa dovrebbe essere praticata in ogni unità dell’organizzazione e si fonda su una intensa e costruttiva cooperazione tra tutti i componenti dei team di lavoro ovunque definiti nel sistema organizzativo. Ciascun partecipante ai team, indipendentemente dalla sua qualifica e dal suo ruolo, è chiamato a dare il proprio contributo, mettendo a disposizione dell’organizzazione-impresa e del gruppo la propria intuizione, creatività ed esperienza. All’interno dei team i lavoratori si confrontano sui problemi più frequenti, analizzano esigenze nuove, discutono le pratiche esistenti, cercano insieme delle soluzioni, propongono e sperimentano cambiamenti ed innovazioni, esplorano i possibili margini di miglioramento delle prestazioni ma anche del sistema relazionale e della qualità dell’ambiente di lavoro. Il kaizen è esattamente l’opposto della ‘one best way’ dell’approccio tradizionale dello scientific management. Infatti, mentre, la ‘one best way’ impone per via gerarchica soluzioni dettate dal vertice che si ritengono definitive ed universalmente valide, il kaizen coinvolge, tutto il personale dell’organizzazione alla ricerca continua di soluzioni che per definizione non sono mai definitive, ma sempre ulteriormente migliorabili ed adattabili al variare delle tecnologie e delle risorse disponibili, delle esigenze dei clienti e delle condizioni dello scenario economico generale. Tecnologia semplice: non significa arretratezza tecnologica, piuttosto impianti e dotazioni il più possibile conoscibili e utilizzabili dal personale, che può quindi meglio di chiunque altro suggerire piccoli e continui miglioramenti nelle loro modalità di impiego. Polifunzionalità degli operatori: si contrappone ai modelli e le applicazioni organizzative fondate su una rigida divisione e parcellizzazione del lavoro, con confini precisi tra le mansioni. La critica mossa a tale impostazione è che la divisione dei compiti ed il loro carattere ripetitivo spinge gli individui a sviluppare ed adeguarsi a delle routines e scoraggiava sia l’apprendimento di nuove abilità e competenze, sia l’assunzione di iniziative e responsabilità formalmente non previste. Secondo la logica

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del TQM, invece, le mansioni non hanno confini e gli operatori tendono ad essere polifunzionali. La polivalenza delle capacità professionali, oltre ad arricchire di varietà e di significato la prestazione lavorativa, consente l’interscambio delle posizioni all’interno di ciascun gruppo di lavoro ed evita così le interruzioni dei processi lavorativi ogni qualvolta uno dei lavoratori dovesse essere assente. Ciò è reso possibile non solo attraverso un’adeguata formazione, ma anche dal fatto stesso che le persone, stimolate a socializzare, tendono a vivere con maggiore intensità la propria giornata lavorativa, ad identificarsi fortemente nel piccolo gruppo di cui fanno parte ed a trasmettersi reciprocamente conoscenze e competenze utili a lavorare meglio e con la necessaria continuità ed armonia. Così in una logica TQM non esistono mansioni ridotte o parcellizzate e non esiste nemmeno un controllo burocratico dall’alto. Al contrario, il personale lavora in gruppo, si scambia frequentemente di ruolo e partecipa attivamente alle dinamiche di miglioramento continuo. Inoltre, il contributo richiesto a qualunque dipendente esula dalla esclusiva dimostrazione di capacità nello svolgimento delle operazioni di routine per investire la soluzione di problemi concettualmente nuovi posti dalle contingenze ambientali o dalla tecnologia e addirittura l’adozione di decisioni importanti a livello aziendale e la definizione degli obiettivi strategici. Ricerca della Qualità Totale: coincide con l’obiettivo della qualità, ossia della realizzazione di prodotti e dei servizi in grado di soddisfare effettivamente le esigenze dei clienti, sostituisce il primato della quantità, tipico delle imprese di ispirazione fordista-taylorista. Il TQM assume la qualità come una caratteristica essenziale e necessaria dei prodotti e dei servizi e tutto il processo produttivo è orientato in modo da progredire costantemente verso l’obiettivo ideale dello zero-difetti. L’espressione Qualità Totale significa che la ricerca della qualità deve essere presente lungo tutto il processo lavorativo, dall’ideazione del prodotto o servizio alla scelta dei materiali, alla competenza ed alla cortesia degli addetti, alle modalità di consegna o di fornitura, all’assistenza post-vendita. La qualità è un concetto difficile da formalizzare in termini oggettivi, poiché è legata alla percezione che il cliente ha delle caratteristiche del prodotto-servizio in relazione alle sue esigenze ed aspettative. Non deriva quindi dall’applicazione di formule precostituite piuttosto dal conseguimento di una ottimale combinazione di molteplici fattori, quali impianti, tecnologie, processi, strutture, professionalità, motivazioni e cultura delle risorse umane: se infatti anche uno solo di tali fattori non supera un livello critico minimale, la qualità è inevitabilmente compromessa.

Il Business Process Reengineering Il Business Process Reengineering (BPR) è senza dubbio la soluzione organizzativa maggiormente conosciuta e adottata dalle imprese nell’ultimo decennio quale strumento per il miglioramento dell’efficienza interna. Il contenuto maggiormente innovativo ed originale dell’approccio del BPR, teorizzato negli U.S.A. all’inizio degli anni Novanta da Hammer e Champy e approfondito successivamente da Davenport e Venkatraman, consiste essenzialmente nello spostare l’attenzione dall’analisi delle componenti hard, struttura, dimensioni, tecnologie, e soft dell’organizzazione, leadership, motivazioni, apprendimento, all’analisi dei processi che hanno luogo all’interno delle organizzazioni. Secondo l’approccio BPR non è più la struttura a determinare le modalità di gestione dei processi ed il modo in cui questi sono suddivisi tra le varie unità organizzative, ma

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sono i processi, ricondotti ad unità ed affidati nella loro interezza ad un unico team di operatori polifunzionali, a divenire l’elemento determinante e strutturante l’organizzazione. Lo strumento principale di cambiamento e miglioramento delle prestazioni di impresa, quindi, non è più l’analisi e la progettazione della struttura, ma diventa l’analisi e la reingegnerizzazione dei processi, a cui solo eventualmente seguono modifiche ed adeguamenti della struttura e degli altri elementi hard e soft dell’organizzazione Il BPR può essere definito un nuovo approccio organizzativo-gestionale volto a ripensare a fondo e ridisegnare in modo radicale i processi di business per ottenere miglioramenti drastici in parametri critici di prestazione. La reingegnerizzazione, in altri termini, modifica in profondità il modo con cui l’impresa si rapporta al mercato, con l’obiettivo di meglio soddisfare le aspettative del cliente e di accrescere il valore offerto. Al fine di conseguire cambiamenti aventi impatto significativo sul livello complessivo delle prestazioni dell’impresa deve attuarsi un contemporaneo ripensamento sia degli assetti produttivi e organizzativi, sia dei flussi informativi sia delle modalità di condivisione della conoscenza Dato, quindi, l’obiettivo di garantire una gestione integrata e snella delle attività direttamente rivolte alla realizzazione dei prodotti e dei servizi aziendali, le imprese cercano di costituire unità organizzative a presidio di alcuni processi ritenuti più importanti per il proprio business. Contemporaneamente, anche i processi manageriali e di supporto sono rivisti per assicurare nuove logiche di coordinamento. Le attività che generalmente vengono organizzate per processi sono riconducibili allo sviluppo prodotto, dove la qualità dei nuovi prodotti non è legata unicamente alle valutazioni dei progettisti e alle loro capacità tecniche, ma risulta sempre più influenzata dalla qualità dei legami informativi che si instaurano tra marketing, progettazione, produzione e logistica; alla comunicazione al mercato, ossia si unificano in un’ottica customer-oriented una serie di attività che partendo dalla valutazione del posizionamento competitivo dell’azienda arrivano fino al contatto commerciale con il cliente, permettendo non solo un miglior coordinamento delle modalità di proporsi ai mercati, ma anche maggiori scambi informativi interni e con gli intermediari commerciali; alla gestione dell’ordine, cioè il processo che comprende tutte le attività di interfaccia con il cliente, a partire dal momento in cui il venditore ha raccolto un ordine fino al momento dell’incasso oppure della risoluzione di eventuale contenzioso, passando attraverso controlli commerciali, finanziari, amministrativi e logistici. In un’ottica di reengineering, si integrano tutta una serie di responsabilità che in un’organizzazione funzionale rientrano sotto varie competenze e si cerca di superare conflitti tra funzioni che possono creare disservizi al cliente ed extracosti per l’azienda; alla catena logistica, cioè il processo che rende disponibile il prodotto per la consegna al cliente. Il ridisegno integrato unifica il flusso informativo delle attività logistiche: fabbisogni ipotizzati, ordini acquisiti, programmazione della produzione, politiche di approvvigionamento. Infine alla produzione, la quale, in una logica BPR, viene organizzata su più unità produttive che sviluppano ciascuna un’intera porzione del processo produttivo. È possibili individuare altri approcci volti al miglioramento dell’efficienza interna, si ricorda in particolare l’appiattimento organizzativo, volto alla riduzione dei livelli organizzativi e gerarchici con l’obiettivo di rendere le comunicazioni e le decisioni d’impresa sempre più rapide e tempestive per far meglio fronte ai più elevati livelli

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elasticità di risposta richiesti da uno scenario competitivo via via più dinamico e turbolento. Gli accordi inter-impresa e le reti di imprese Negli scenari competitivi degli ultimi decenni l’impresa non riesce più a basare il proprio sviluppo su logiche esclusivamente autosufficienti, dal momento che le risorse materiali e conoscitive accumulabili all’interno di essa risultano sempre più insufficienti rispetto a quelle richieste dall’ambiente economico generale. Diviene pertanto quasi una necessità per la crescita se non per la stessa sopravvivenza dell’impresa sviluppare nuove e differenti relazioni e modalità di integrazione con altre imprese autonome. L’impresa, in questo modo, uscendo dai suoi confini tradizionali ed aggregandosi dinamicamente con altre forze produttive e non, si pone nelle condizioni di accrescere le potenzialità di apprendimento e di elaborare ed assumere scelte innovative, di realizzare sinergie con la proprie competenze e con le proprie risorse tali da consentirle di potersi misurare con il crescente grado di complessità in un’ottica di maggiore efficienza interna e di più alta efficacia sui mercati. La modalità organizzativa che, a livello sia di categoria concettuale che di applicazione, si è maggiormente affermata in tale nuova logica, prende il nome di rete. La rete può essere definita come una struttura organizzativa sovraziendale capace di svolgere in maniera integrata le differenti fasi necessarie a realizzare produzioni complesse. Essa è caratterizzata essenzialmente dal pluralismo delle unità che ne fanno parte e da linguaggi condivisi, codificati e specialistici che forniscono la possibilità di un accesso simultaneo, efficace ed efficiente di ciascuna impresa al patrimonio di informazioni e di conoscenze presenti nella realtà con cui ciascuna impresa stabilisce rapporti di interazione. Nel tempo, al concetto di rete si sono fatte risalire situazioni economiche, organizzative e gestionali spesso molto differenti. Da situazioni nelle quali è intenso il processo di decentramento di attività da un’impresa centrale verso imprese subfornitrici a situazioni nelle quali le imprese sono collegate fra loro in cicli di produzioni, sotto forma di filiere o costellazioni; da situazioni nelle quali si creano forti legami fra imprese su base territoriale – i distretti industriali – ad accordi fra imprese giuridicamente autonome, ma legate fra loro da forti vincoli anche di tipo non meramente economici, fino alle situazioni nelle quali grandi imprese, sebbene ad unicità di struttura proprietaria ed organizzativa, si articolano al loro interno in strutture che sono “quasi imprese”. Anche da un punto di vista più prettamente giuridico, sono numerose le modalità di accordo, formali o informali, che si riconducono alle reti: pensiamo, infatti, agli accordi di subfornitura e contoterzismo, ai contratti di licensing, ai contratti di franchising, ai consorzi, alle joint venture contrattuali, fino al caso limite vietato dalla legge dei cartelli oligopolistici. Sebbene la modalità organizzativa della rete si manifesta in situazioni piuttosto diverse, costituisce un modello di cooperazione tra imprese particolarmente flessibile, ma dai contorni giuridici e/o operativi spesso sfocati e assume forme difficilmente riconducibili agli schemi tradizionali delle teorie organizzative, le situazioni produttive in cui più frequentemente si manifesta il ricorso a forme a rete possono in generale ricondursi a due principali forme: le reti di unità interne e le reti di unità esterne. Per reti di unità interne si intende quell’insieme di relazioni cooperative, finalizzate all’efficacia ed all’efficienza gestionale, che si pongono in essere all’interno delle

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imprese tra le unità decisionali che le compongono. A fronte di mercati in cui gli spazi di sviluppo sono prevalentemente in aree-prodotto nuove, l’orientamento è verso la creazione di unità distinte dalla casa madre – le cosiddette business units - nella consapevolezza che la possibilità di differenziare tali nuove unità impegnate in nuovi prodotti o mercati dalle regole e dai condizionamenti del resto dell’organizzazione può rivelarsi un importante fattore di successo. Il tratto distintivo dei nuovi rapporti fra unità all’interno di una medesima impresa è quindi quello di ricercare e di stimolare contemporaneamente una forte autonomia ed una forte integrazione delle unità che la compongono. Tale fenomeno appare evidente in quanto la necessità di affrontare incertezza e complessità richiede proprio da un lato l’articolazione e la differenziazione delle competenze e dall’altro la loro integrazione in un’ottica sistemica. Per reti di unità esterne, invece, si intende il complesso delle relazioni cooperative che le imprese pongono in essere con soggetti esterni. In tali reti convergono un numero limitato di imprese che, mentre si dividono il lavoro, operano con sostanziali rapporti di interdipendenza reciproca rispetto all’obiettivo di realizzare uno o più prodotti complessi finali; imprese che generalmente non possiedono singolarmente le conoscenze e le risorse per giungere a tali prodotti complessi ma che possiedono comunque delle core competences – competenze chiave – in alcune fasi produttive: la divisione del lavoro e la valorizzazione delle core competences di ognuna in una logica sistemica permette alla rete di conseguire economie di scala e di scopo e di ottimizzare le specializzazioni, ottenendo così notevoli miglioramenti delle performances anche per ogni singola impresa. La rete esterna è generalmente non gerarchica, trattandosi di organizzazioni distinte, ma presenta di solito degli elementi di potere connessi alla ricerca delle imprese coinvolte di influenzare, a diversi livelli, l’azione degli altri soggetti, si protrae nel tempo e vede il coinvolgimento di imprese distinte da un punto di vista giuridico ed imprenditoriale tra le quali, tuttavia, spicca un’impresa guida, rispetto alla quale si posizionano e si adattano le varie imprese della rete, il cui ruolo è quello di interpretare la divisione organizzativa e di attuare meccanismi di selezione, di influenza, di creazione di condizioni per la generazione di processi di interazioni diffusi.

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