E la cultura pop sposò il reaganismo

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E la cultura pop sposò il reaganismo

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135Mentre Ronald Reagan era allaCasa Bianca, nel mondo milioni emilioni di giovani vivevano dareaganiani, molto spesso senza sa-perlo nemmeno. E forse nemme-no lui, il vecchio Ronnie, sapevadi aver innescato un fenomenoculturale a livello globale, cheavrebbe permeato di se ogni partedella società degli anni Ottanta.I critici del reaganismo, quelliche già allora parlavano di esage-rata tendenza ai beni materiali eal disimpegno, avevano coniato ilnoto “edonismo reaganiano”, in-teso come estensione moderna delvecchio concetto filosofico “chepone il fine della vita nel piacereinteso come assenza di sofferenzafisica e di turbamento morale” (ladefinizione è del Sabatini-Colet-ti). Per chi, invece, ha vissutoquegli anni come vera (e forseprima) rivoluzione borghese e li-berale, il giudizio è molto menonegativo. Per loro, infatti, la de-

clinazione culturale (e sottocultu-rale) del reaganismo si concretiz-zò in un accrescimento delle li-bertà dell’individuo dopo i lun-ghi anni dell’impegno politico edel comunitarismo a tutti i costi,in una visione della vita che nonera egoistica o strafottente ma so-lo più attenta ai sogni e ai bisognidi ognuno, convinti come si erache solo realizzando ogni singoloobiettivo si poteva raggiungere ilbenessere della “società”.Per questo, gli anni Ottanta rap-presentano ancora oggi un mo-dello di rigoglio culturale e crea-tivo, criticabile e “emendabile”quanto si vuole ma centrale percomprendere il mondo così comelo conosciamo oggi. In fondo, itempi che stiamo vivendo sonofigli legittimi e riconosciuti diquegli anni: dalla moda alla mu-sica, dal boom tecnologico e infor-matico alla televisione, viene tut-to da lì, da quell’embrione di vi-

Gli anni Ottanta rappresentano ancora oggi un modello di rigoglio culturale e creativo, criticabilequanto si vuole ma centrale per comprendere la società come la conosciamo oggi. Siamo tutti figli di Reagan, volenti o nolenti.

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Rivoluzione di costume

DI DOMENICO NASO

QUEL CHE RESTA DI REAGANDomenico Naso

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talità sanamente e fieramente in-dividuale che ha contribuito, enon è un’esagerazione, a far pre-valere il modello occidentale suquello comunista e sovietico.In meno di dieci anni (dal 1980al 1989) esplosero miriadi di ten-denze, mode, nuovi stili di vita.L’uomo occidentale smetteva ipanni del ribelle a tutti i costi,del rivoluzionario antisistema, epuntava, al contrario, a entrare inquel sistema, a cambiarlo secondoi propri bisogni, a mandare via lapolvere accumulata negli ultimidue decenni e innescare un nuovocircolo virtuoso diintrapresa e inizia-tiva.I profeti del primoreaganismo socio-culturale erano gliyuppies, i giovanirampanti che al-l’inizio degli Ot-tanta furono i protagonisti asso-luti del boom economico (o sareb-be meglio definirla bolla?). Gliyoung urban professionals (questo ilsignificato del nomignolo) aveva-no più o meno le stesse caratteri-stiche: età compresa tra 25 e 39anni, laurea, conto in banca cor-poso, indole egocentrica, iperatti-vità, ossessione per la cura delproprio aspetto, fissazione per lemode del momento. Il settimana-le Newsweek aveva dedicato loro lacopertina del 31 dicembre 1984,decretandoli i protagonisti asso-luti di quell’anno. New York erail loro regno, Wall Street il loroinespugnabile castello. Eppure,in pochi anni, gli yuppies hannovisto crollare il loro mondo. Nel

1987, con il crollo della borsa diNew York, si chiudono gli anniOttanta finanziari, quelli dellaspeculazione, del profitto, deitorbidi giochi di potere all’ombradella Statua della Libertà. Manemmeno la degenerazione borsi-stica, né una cattiva pubblicitàche li voleva arroganti, ignorantie materialisti, potranno cancella-re un fenomeno come quello yup-pie, che voleva essere simbolo de-gli Ottanta così come gli antite-tici hippies lo erano stati dei duedecenni precedenti. In parte cisono riusciti, ma il rinnegamento

degli anni del di-simpegno nei de-cenni successivi liha trasformati inesempi negativi, insquali spietati asse-tati di sangue.Nella cultura po-polare, due film

hanno raccontato in manieraesaustiva quell’universo: WallStreet (1987) e Una donna in car-riera (1988). Nel primo, MichaelDouglas incarna tutti gli stravizidello yuppie newyorkese avido didenaro, senza remore morali néscrupoli. Nel secondo, invece, lagioventù carrierista di quegli an-ni ha lo sguardo dolce e l’orgogliofiero di Melanie Griffith, anoni-ma segretaria che riesce a scalare ivertici della finanza usando am-bizione e talento, insieme a unpaio di trucchetti poco ortodossi.Tra le due rappresentazioni diquell’universo, è forse quest’ulti-ma che ci permette di analizzarecon obiettività il substrato popdel fenomeno yuppie. Nel film di

I profeti del primo reaganismo erano gli yuppies, giovanirampanti protagonistidel boom economico

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Mike Nichols, forse un po’ trop-po zuccheroso e buonista, c’è co-munque l’essenza migliore diquel periodo: il giusto mix traambizione e talento, i desideri diuna generazione che vuole arriva-re al top, anche partendo daglistrati più bassi della società. Èl’American way of life che incontral’American dream. È Doris Day chesmette i panni di casalinga e vuo-le sfondare a Wall Street. È il rea-ganismo puro, senza deviazionidi sorta. È l’individuo che credenelle proprie capacità e vuole far-le fruttare. Senza chiedere aiuto anessuno, tantome-no allo Stato. Solicontro il Moloch.Soli contro le ren-dite di posizione.E ogni tanto va afinire bene, conMelanie Griffithche si gode, incre-dula, il suo ufficio ai piani alti,mentre le sue ex colleghe segreta-rie, nell’angusto open space che leaccoglie tutte come api operaie,esultano e un po’ la invidiano,perché in fondo quello è il sognodi tutte.Ma la pop culture di stampo reaga-niano non è solo affarismo e car-rierismo. Anzi, spesso è tutt’al-tro. Spesso è proprio qualcosa chenasce contro ciò che Reagan rap-presentava, per finire poi a incar-narne appieno il senso profondo,il sottotesto. È il caso di Madon-na, giusto per citare il più clamo-roso fenomeno di cultura popola-re degli anni Ottanta. Se qualcu-no andasse oggi da Madonna e lechiedesse: «Lei è stata il simbolo

dell’America reaganiana?», lasuddetta popstar reagirebbe malis-simo. E invece, volente o nolente,la material girl italoamericana èstata davvero l’icona di quegli an-ni. Una ragazza indipendente,controversa, trasgressiva, ma an-che simbolo di un individualismospinto che puntava al soddisfaci-mento dei piaceri personali. Traseni puntuti e aneliti libertari,quella ragazza era, ed è, un sim-bolo di un periodo irripetibile eincancellabile della storia dellacultura popolare. Così come lo èstato, forse addirittura di più,

que l Michae lJackson che piùvolte ha incontra-to Reagan, che conil presidente haintrattenuto addi-rittura un carteg-gio. Ronnie, adesempio, aveva

scritto al Re del pop dopo il biz-zarro incidente con il fuoco du-rante la registrazione di uno spotper la Pepsi, ricordando come“milioni di americani” vedesseroin lui un simbolo anche perché,rimarcava con enfasi il presidenteamericano, la sua «profonda fedein Dio e l’adesione ai valori tradi-zionali sono un’ispirazione pernoi tutti, specialmente per i gio-vani che cercano qualcosa di realein cui credere». L’uomo più po-tente del mondo, in buona so-stanza, scrive all’uomo più famo-so del mondo, e lo esalta comemodello tradizionale. Jackson, infondo, era davvero l’uomo piùreaganiano del globo, in quantoself made man, ma veramente però,

Al cinema, la Griffithincarna il volto miglioredell’American dream. È l’individuo che credenelle proprie capacità

QUEL CHE RESTA DI REAGANDomenico Naso

non solo in senso figurato. Perappagare i propri bisogni indivi-duali, la popstar non aveva esitatoa modificare radicalmente il suocorpo, perché nell’epoca dell’edo-nismo reaganiano, se non facciomale a nessuno io sono libero diperseguire la mia felicità. Sempree comunque.E nell’Italia craxiana di queglianni, il reaganismo è arrivato? Sìe no, perché quando ciò è succes-so, gli effetti sono stati annacqua-ti, modificati, adeguati alle no-stre esigenze provinciali. La ver-sione milanese degli yuppies, adesempio, era greve, volgare, cafo-na, arricchita. Si ostentava unaricchezza effimera come statussymbol e, peggio ancora, chiaveper aprire le porte del paradisopolitico. Erano gli anni della Mi-lano da bere, dominata da nani eballerine e ragazzotti su autosportive, con Rolex costosissimirigorosamente sul polsino (Avvo-cato docet). Non c’era slancio idea-lista ma voglia di accumulare,possedere e spendere. Il “lavoro,guadagno, pago, pretendo” (dettocon forte inflessione meneghina)nasce in quegli anni e presenta almondo la versione riveduta e cor-retta del “cummenda” dei decen-ni precedenti. E, per quanto ri-guarda i riferimenti cinematogra-fici, noi dobbiamo accontentarcidi Yuppies, film del 1986 di CarloVanzina, con il solito cast da cine-panettone: Massimo Boldi, Chri-stian De Sica, Jerry Calà, EzioGreggio e Sergio Vastano. E trauna battutaccia e uno sketch vol-gare, veniva rappresentata quel-l’Italia stracafonal che solo sei an-

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IL FILM

New York 1985. A Wall Street l’unicacosa che conta è il potere del denaro.Giovani e rampanti yuppies, laureatinelle business school più prestigiosedel mondo speculano in borsa conl’unico obiettivo di guadagnare molto esubito. Bud Fox (per gli amici Buddy) èun brillante ed anonimo broker prontoa tutto per raggiungere la gloria. «Il suc-cesso si condensa in pochi attimi», èquesto il motto di Buddy e quando l’oc-casione gli si presenta non se la lasciasfuggire. Il suo destino cambierà drasti-camente dopo l’incontro con il cinico espregiudicato finanziere d’assalto Gor-don Gekko, idolo dei “ragazzi” di WallStreet. Molto presto il giovane brokercapirà con chi ha a che fare e, come inborsa ad immense fortune guadagnatein poche ore si susseguono rovinosi fal-limenti, anche nella vita di Buddy almomento di gloria seguirà la rovina.“Gekko il grande”, lo squalo del NewYork Stock Exchange, non si fermeràdavanti a niente e a nessuno per rag-giungere il suo scopo. I sogni di Buddyverranno infranti e si dissolveranno co-me i numeri delle quotazioni che appa-iono sui monitor di Wall Street.

Gli squali di Wall Street

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ni dopo crollerà sotto i colpi delpool di Milano. Ma il vero fenomeno italiano diquegli anni, che da Milano (alloradavvero capitale morale d’Italia)si irradierà in tutto il mondo, èquello dei “paninari”. Figli deldisimpegno e del benessere, i pa-ninari non volevano sentir parlaredi politica, società, impegno etutto ciò che nel decennio prece-dente aveva dominato il panora-ma italiano. Bomber Schott, scar-pe Timberland ai piedi, tutto Naj-Oleari per le ragazze, hamburger apranzo e a cena, Duran Duran co-me miti musicali. È la gioventùdel Drive In di Italia 1, di DeejayTelevision, di Sposerò Simon Le Bon,di Cioè e Il Paninaro come pubbli-cazioni di riferimento. E lo slangdi Enzo Braschi, che rilanciò lasubcultura paninara in Tv, avevaperfettamente riproposto un vo-cabolario buffo, divertente e tre-mendamente milanese che la faràda padrone per tutto il decennio.Ma torniamo in America, e ten-tiamo di volare un po’ più alto.Gli anni Ottanta sono ancheun’esplosione moderna e sfaccia-ta dell’arte contemporanea. NewYork è il centro di un mondo ar-tistico maledetto e disordinato,dominato da Andy Warhol e dal-la sua pop art, e arricchito dallebrevi ma indimenticabili parabo-le di due giovani deviati e de-vianti (secondo i benpensanti),creativi e rivoluzionari (secondochi li ha apprezzati) come KeithHaring e Jean-Michel Basquiat.L’arte si fa in serie, tutto è incommercio. I quadri diventanobrand, gli omini di Haring sono

il simbolo ultrapop di un’epoca.E Keith Haring è anche l’esem-pio migliore del decennio del-l’Aids, la nuova peste che proprionegli anni Ottanta esplode e spa-venta milioni di persone in tuttoil mondo. I Warhol boys sono, ov-viamente, l’antitesi dell’ideolo-gia politica reaganiana. Eppure,anche in questo caso il paradossosta proprio nell’assoluta aderenzaal reaganismo dell’antireagani-smo artistico e culturale. È que-sto che nessuno, né loro né, tan-tomeno, Ronald Reagan, aveva-no capito. Tutti gli anni Ottantasono figli (legittimi o meno) del-l’attore che si fece presidente,dell’uomo dai saldi principi mo-rali e che invece, volente o nolen-te, ha partorito un decennio irre-golare e fuori dagli schemi che,tra soldi, droghe, Aids, arte e di-simpegno, ha costruito la societàdi oggi. Noi seguaci e nostalgicidell’era d’oro della pop culture,siamo tutti figli suoi. Chissà sene sarebbe contento.

domenico naso

Giornalista, si occupa di politica, televisione e

cultura pop. Scrive per il Secolo d’Italia e

Ffwebmagazine, per il quale cura anche la ru-

brica di critica televisiva Television Republic.

Ha lavorato per la rivista Ideazione.

L’Autore

QUEL CHE RESTA DI REAGANDomenico Naso