E-book campione Liber Liber · non meno meraviglioso della creazione artistica, se oggi non fosse...

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Arte e scienza : saggiAUTORE: Pirandello, LuigiTRADUTTORE: CURATORE: NOTE: CODICE ISBN E-BOOK:n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Arte e scienza : saggi / Luigi Pirandel-lo. - Roma : W. Modes, 1908. - 270 p. ; 20 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 29 marzo 2018

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard

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COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Arte e scienza : saggi / Luigi Pirandel-lo. - Roma : W. Modes, 1908. - 270 p. ; 20 cm.

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INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard

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2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:LIT000000 CRITICA LETTERARIA / Generale

DIGITALIZZAZIONE:Alyssa Violle, [email protected]

REVISIONE:Dania Formigoni, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Alyssa Violle, [email protected] Righi, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:LIT000000 CRITICA LETTERARIA / Generale

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Liber Liber

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Errata-Corrige.................................................................7I.Arte e Scienza.................................................................9II.Un critico fantastico......................................................35

I.................................................................................36II................................................................................43III..............................................................................52IV..............................................................................63

III.Illustratori, Attori e Traduttori......................................71IV.Per uno studio sul verso di Dante...............................102V.Poscritta......................................................................128VI.Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa.......137VII.Per l’ordinanza d’un Sindaco.....................................173VIII.Sonetti di Cecco Angiolieri........................................180

I...............................................................................181II..............................................................................186III............................................................................190

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Errata-Corrige.................................................................7I.Arte e Scienza.................................................................9II.Un critico fantastico......................................................35

I.................................................................................36II................................................................................43III..............................................................................52IV..............................................................................63

III.Illustratori, Attori e Traduttori......................................71IV.Per uno studio sul verso di Dante...............................102V.Poscritta......................................................................128VI.Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa.......137VII.Per l’ordinanza d’un Sindaco.....................................173VIII.Sonetti di Cecco Angiolieri........................................180

I...............................................................................181II..............................................................................186III............................................................................190

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IV............................................................................203V..............................................................................212

Appendice(Per le ragioni estetiche della parola).........................243

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IV............................................................................203V..............................................................................212

Appendice(Per le ragioni estetiche della parola).........................243

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ERRATA-CORRIGE1

qualititativa p. 27 rig. 3 – qualitativanobile p. 82 rig. 12 – mobileaggrappa p. 92 rig. 29 – aggruppaun altra p. 93 rig. 27 – un’altra apparecciato p. 117 rig. 20 – apparecchiatoleggre p. 127 rig. 8 – leggerefilogia p. 130 rig. 16 – filologiaparechie p. 208 rig. 4 – parecchieinferiore p. 216 rig. 26 – interiore

1 Le correzioni indicate fanno riferimento alle pagine dell’edizione carta-cea del testo originale. In questa edizione elettronica gli errori sono già staticorretti.

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ERRATA-CORRIGE1

qualititativa p. 27 rig. 3 – qualitativanobile p. 82 rig. 12 – mobileaggrappa p. 92 rig. 29 – aggruppaun altra p. 93 rig. 27 – un’altra apparecciato p. 117 rig. 20 – apparecchiatoleggre p. 127 rig. 8 – leggerefilogia p. 130 rig. 16 – filologiaparechie p. 208 rig. 4 – parecchieinferiore p. 216 rig. 26 – interiore

1 Le correzioni indicate fanno riferimento alle pagine dell’edizione carta-cea del testo originale. In questa edizione elettronica gli errori sono già staticorretti.

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LUIGI PIRANDELLO

Arte e scienzaSAGGI

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LUIGI PIRANDELLO

Arte e scienzaSAGGI

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I.Arte e Scienza

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I.Arte e Scienza

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Rileggendo nel libro di Alfredo Binet Les altérationsde la personnalité quella rassegna di meravigliosi espe-rimenti psico-fisiologici, dai quali, com’è noto, si argo-menta che la presunta unità del nostro io non è altro infondo che un aggregamento temporaneo scindibile emodificabile di varii stati di coscienza più o meno chia-ri, pensavo qual partito potrebbe trarre da questi esperi-menti la critica estetica per la intelligenza del fenomenonon meno meraviglioso della creazione artistica, se ogginon fosse venuto in uso e in vezzo ostentare un sover-chio disdegno per la intromissione (altri dice intrusione)della scienza nel campo dell’arte.

Certo, questo disdegno è suscitato in noi giustamente,almeno in gran parte, dagli eccessi di alcuni, diciamocosì, troppo fantastici professori di critica antropologica,i quali, pur protestando qualche volta di non volere en-trar giudici in materia d’arte e di letteratura, seguitanoimperturbabili ad applicare a questo e a quell’artista leloro elucubrazioni patologiche fondate quasi sempre sul’ignoranza della materia artistica e letteraria, e perciòsconclusionate. Del resto, anche quando non si abbia lacrassa ignoranza, è ben naturale che uno studioso, ilquale passi da un laboratorio di fisiologia o da una clini-ca psichiatrica allo studio dei fenomeni estetici, non rie-sca per quanto faccia, a spogliarsi dell’abitudine di dare,

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Rileggendo nel libro di Alfredo Binet Les altérationsde la personnalité quella rassegna di meravigliosi espe-rimenti psico-fisiologici, dai quali, com’è noto, si argo-menta che la presunta unità del nostro io non è altro infondo che un aggregamento temporaneo scindibile emodificabile di varii stati di coscienza più o meno chia-ri, pensavo qual partito potrebbe trarre da questi esperi-menti la critica estetica per la intelligenza del fenomenonon meno meraviglioso della creazione artistica, se ogginon fosse venuto in uso e in vezzo ostentare un sover-chio disdegno per la intromissione (altri dice intrusione)della scienza nel campo dell’arte.

Certo, questo disdegno è suscitato in noi giustamente,almeno in gran parte, dagli eccessi di alcuni, diciamocosì, troppo fantastici professori di critica antropologica,i quali, pur protestando qualche volta di non volere en-trar giudici in materia d’arte e di letteratura, seguitanoimperturbabili ad applicare a questo e a quell’artista leloro elucubrazioni patologiche fondate quasi sempre sul’ignoranza della materia artistica e letteraria, e perciòsconclusionate. Del resto, anche quando non si abbia lacrassa ignoranza, è ben naturale che uno studioso, ilquale passi da un laboratorio di fisiologia o da una clini-ca psichiatrica allo studio dei fenomeni estetici, non rie-sca per quanto faccia, a spogliarsi dell’abitudine di dare,

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nell’esame di questi fenomeni, una parte preponderanteall’importanza che può avere il caso patologico nelle va-rie espressioni artistiche.

Ricordo che nella ricorrenza del centenario della na-scita di Giacomo Leopardi un psichiatra e un antropolo-go, in alcune conferenze ch’erano nel programma dellefeste commemorative romane, si scialarono – tra l’indi-gnazione di tutto l’uditorio – a dirne d’ogni conio sul’infelice poeta, e che uno dei due, l’antropologo, com-mentando a suo modo il Canto notturno di un pastoreerrante dell’Asia, ebbe il coraggio di notare non so chepovertà di colore in quel canto sublime, da attribuire anon so qual difetto o malattia della vista del Leopardi.

Ebbene, se quell’antropologo avesse letto nel primovolume dei Pensieri di varia filosofia e di bella lettera-tura ciò che il Leopardi stesso diceva intorno alla de-scrizione presso gli antichi e presso i moderni, rispon-dendo alle osservazioni di Lodovico di Breme sopra lapoesia moderna o romantica, si sarebbe accorto che nonper difetto o malattia della vista, bensì di proposito, perintenzione d’arte, il poeta descriveva e coloriva a quelmodo, e non avrebbe detto una così marchiana bestiali-tà. Rileggendo col lume di quella risposta al di Breme lepoesie, si sarebbe accorto che, nel descrivere, il Leopar-di pone – per così dire – innanzi a gli occhi del lettoregli oggetti della natura, senz’altro:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

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nell’esame di questi fenomeni, una parte preponderanteall’importanza che può avere il caso patologico nelle va-rie espressioni artistiche.

Ricordo che nella ricorrenza del centenario della na-scita di Giacomo Leopardi un psichiatra e un antropolo-go, in alcune conferenze ch’erano nel programma dellefeste commemorative romane, si scialarono – tra l’indi-gnazione di tutto l’uditorio – a dirne d’ogni conio sul’infelice poeta, e che uno dei due, l’antropologo, com-mentando a suo modo il Canto notturno di un pastoreerrante dell’Asia, ebbe il coraggio di notare non so chepovertà di colore in quel canto sublime, da attribuire anon so qual difetto o malattia della vista del Leopardi.

Ebbene, se quell’antropologo avesse letto nel primovolume dei Pensieri di varia filosofia e di bella lettera-tura ciò che il Leopardi stesso diceva intorno alla de-scrizione presso gli antichi e presso i moderni, rispon-dendo alle osservazioni di Lodovico di Breme sopra lapoesia moderna o romantica, si sarebbe accorto che nonper difetto o malattia della vista, bensì di proposito, perintenzione d’arte, il poeta descriveva e coloriva a quelmodo, e non avrebbe detto una così marchiana bestiali-tà. Rileggendo col lume di quella risposta al di Breme lepoesie, si sarebbe accorto che, nel descrivere, il Leopar-di pone – per così dire – innanzi a gli occhi del lettoregli oggetti della natura, senz’altro:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

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Posa la luna, e di lontan rivelaSerena ogni montagna…

Vuole che i sentimenti, mesti o lieti che siano, spirinoda quegli oggetti naturalmente, da sè. «La natura, puris-sima, – dice, – tal qual è, tal quale la vedevano gli anti-chi; le circostanze naturali, non procurate mica a bellaposta, ma venute spontaneamente; quell’albero,quell’uccello, quel canto, quell’edificio, quella selva,quel monte, tutto da per sè, senz’artifizio, e senza chequesto monte sappia in nessunissimo modo di dovei ec-citare questi sentimenti, nè che altri ci aggiunga, perchèli possa eccitare, nessun’arte». L’arte deve consister tut-ta nella scelta degli oggetti, nel porli nel loro vero lume,nel prepararci a riceverne quella data impressione, «do-vechè, in natura, e gli oggetti di qualunque specie sonofusi insieme e in vederli spessissimo non ci si bada».

Difficile veramente tenere a freno l’indignazione oanche, alle volte, una risata, nel vedere con quanta faci-lità e per quali ragioni questi tali professori di critica an-tropologica dan patente di pazzia o di degenerazione adartisti che, anche per poco, non stiano nella linea d’unaastratta normalità. Tante volte, a tal proposito, ho fatto ame stesso la domanda: – Ma ci vuol proprio molto a in-tendere che la genialità non è, fondamentalmente, nèpuò essere una specie di malattia mentale? Il pazzo è oprigioniero entro un’idea fissa e angusta o abbandonatoa tutti gli eventi miserevoli d’uno spirito che si disgregae si frantuma e si perde nelle proprie idee; senza varietà

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Posa la luna, e di lontan rivelaSerena ogni montagna…

Vuole che i sentimenti, mesti o lieti che siano, spirinoda quegli oggetti naturalmente, da sè. «La natura, puris-sima, – dice, – tal qual è, tal quale la vedevano gli anti-chi; le circostanze naturali, non procurate mica a bellaposta, ma venute spontaneamente; quell’albero,quell’uccello, quel canto, quell’edificio, quella selva,quel monte, tutto da per sè, senz’artifizio, e senza chequesto monte sappia in nessunissimo modo di dovei ec-citare questi sentimenti, nè che altri ci aggiunga, perchèli possa eccitare, nessun’arte». L’arte deve consister tut-ta nella scelta degli oggetti, nel porli nel loro vero lume,nel prepararci a riceverne quella data impressione, «do-vechè, in natura, e gli oggetti di qualunque specie sonofusi insieme e in vederli spessissimo non ci si bada».

Difficile veramente tenere a freno l’indignazione oanche, alle volte, una risata, nel vedere con quanta faci-lità e per quali ragioni questi tali professori di critica an-tropologica dan patente di pazzia o di degenerazione adartisti che, anche per poco, non stiano nella linea d’unaastratta normalità. Tante volte, a tal proposito, ho fatto ame stesso la domanda: – Ma ci vuol proprio molto a in-tendere che la genialità non è, fondamentalmente, nèpuò essere una specie di malattia mentale? Il pazzo è oprigioniero entro un’idea fissa e angusta o abbandonatoa tutti gli eventi miserevoli d’uno spirito che si disgregae si frantuma e si perde nelle proprie idee; senza varietà

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cioè e senza unità: il genio, invece, è lo spirito che pro-duce l’unità organatrice dalla diversità delle idee che vi-vono in lui, mediante la divinazione dei loro rapporti; lospirito che non si lega ad alcuna idea, la quale non di-venti tosto principio d’un movimento vitale: unità cioè evarietà2.

Parimenti è difficile tenere a freno una risata nel ve-dere come questi professori di critica antropologica o fi-siologica non riescano a comprendere che se l’artista, inquel suo libero movimento vitale, talvolta crea leggich’egli stesso ignora, può tal’altra anche sacrificare lacosì detta logica comune a un superiore effetto d’arte,perchè il vero dell’arte, il vero della fantasia non è ilvero comune. E non citerò il vecchio esempio di quelmedico che discuteva sul serio e con molta gravità se laVenere di Milo non avesse per avventura una lussazioneall’anca destra, e quell’altro di Gustavo Teodoro Fech-ner, ch’era anche medico e nel suo libro Vorschule derAesthetik osservava che la Madonna di S. Sisto ha gliocchi troppo grandi e troppo distanti l’uno dall’altro escorgeva non so che sintomo patologico ne la pupillalargamente dilatata del Bambino ch’ella tiene tra lebraccia.

Passando da queste elucubrazioni patologiche sul’arte a quelle de la metafisica positivistica ed evoluzio-nistica, alle naturalistiche, alle psicologiche, alle socio-logiche, ecc. ecc., è difficile non rivoltarsi quando, per

2 Vedi a questo proposito G. SÉAILLES Le genie dans l’art – Paris, Alcan.

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cioè e senza unità: il genio, invece, è lo spirito che pro-duce l’unità organatrice dalla diversità delle idee che vi-vono in lui, mediante la divinazione dei loro rapporti; lospirito che non si lega ad alcuna idea, la quale non di-venti tosto principio d’un movimento vitale: unità cioè evarietà2.

Parimenti è difficile tenere a freno una risata nel ve-dere come questi professori di critica antropologica o fi-siologica non riescano a comprendere che se l’artista, inquel suo libero movimento vitale, talvolta crea leggich’egli stesso ignora, può tal’altra anche sacrificare lacosì detta logica comune a un superiore effetto d’arte,perchè il vero dell’arte, il vero della fantasia non è ilvero comune. E non citerò il vecchio esempio di quelmedico che discuteva sul serio e con molta gravità se laVenere di Milo non avesse per avventura una lussazioneall’anca destra, e quell’altro di Gustavo Teodoro Fech-ner, ch’era anche medico e nel suo libro Vorschule derAesthetik osservava che la Madonna di S. Sisto ha gliocchi troppo grandi e troppo distanti l’uno dall’altro escorgeva non so che sintomo patologico ne la pupillalargamente dilatata del Bambino ch’ella tiene tra lebraccia.

Passando da queste elucubrazioni patologiche sul’arte a quelle de la metafisica positivistica ed evoluzio-nistica, alle naturalistiche, alle psicologiche, alle socio-logiche, ecc. ecc., è difficile non rivoltarsi quando, per

2 Vedi a questo proposito G. SÉAILLES Le genie dans l’art – Paris, Alcan.

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esempio, lo Spencer nei suoi Principles of Psycology,dando ai sentimenti estetici una causa fisiologica, la sca-rica dell’energia esuberante nell’organismo, e distin-guendone poi i varii gradi, dalla sensazione semplice auno stato di coscienza oltre le sensazioni e le percezioni,e concludendo che la forma più perfetta del sentimentoestetico si ha dall’accordo e dalla simultaneità di questivarii ordini mediante la piena azione delle facoltà rispet-tive, con la minima deduzione cagionata da ciò che vi èdi doloroso nell’attività eccessiva, mena la coda di Mi-nosse e giudica e manda l’arte dei Greci e la medievalee la moderna, che gli pajono ben lungi dalle formedell’arte com’egli la intende, accomodata cioè ai suoiprincipii fisiologici e morali; o quando il Taine, cercan-do di dare una forma dimostrativa presa dalle scienzenaturali al concetto dell’evoluzione sorto, secondo lui,dapprima in Germania, e consistente – com’egli stessodice – nel rappresentare tutte le parti di un gruppo comesolidali tra loro e complementari, in modo che a ciascu-na di esse necessita il resto, e tutte unite insieme mani-festano per via della successione loro e dei loro contrastila qualità interiore che le raccoglie e le produce, procla-ma il principio che non vi ha alcuna differenza di naturatra il mondo fisico e il morale; che i fenomeni moralisono anch’essi soggetti al determinismo, proprio come ifenomeni fisici; che la storia umana rientra nella storianaturale e deve perciò praticarne il metodo; che sel’uomo è un animale che fa poesie allo stesso modocome l’ape l’alveare o l’uccello il nido, l’opera d’arte

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esempio, lo Spencer nei suoi Principles of Psycology,dando ai sentimenti estetici una causa fisiologica, la sca-rica dell’energia esuberante nell’organismo, e distin-guendone poi i varii gradi, dalla sensazione semplice auno stato di coscienza oltre le sensazioni e le percezioni,e concludendo che la forma più perfetta del sentimentoestetico si ha dall’accordo e dalla simultaneità di questivarii ordini mediante la piena azione delle facoltà rispet-tive, con la minima deduzione cagionata da ciò che vi èdi doloroso nell’attività eccessiva, mena la coda di Mi-nosse e giudica e manda l’arte dei Greci e la medievalee la moderna, che gli pajono ben lungi dalle formedell’arte com’egli la intende, accomodata cioè ai suoiprincipii fisiologici e morali; o quando il Taine, cercan-do di dare una forma dimostrativa presa dalle scienzenaturali al concetto dell’evoluzione sorto, secondo lui,dapprima in Germania, e consistente – com’egli stessodice – nel rappresentare tutte le parti di un gruppo comesolidali tra loro e complementari, in modo che a ciascu-na di esse necessita il resto, e tutte unite insieme mani-festano per via della successione loro e dei loro contrastila qualità interiore che le raccoglie e le produce, procla-ma il principio che non vi ha alcuna differenza di naturatra il mondo fisico e il morale; che i fenomeni moralisono anch’essi soggetti al determinismo, proprio come ifenomeni fisici; che la storia umana rientra nella storianaturale e deve perciò praticarne il metodo; che sel’uomo è un animale che fa poesie allo stesso modocome l’ape l’alveare o l’uccello il nido, l’opera d’arte

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non deve più sembrarci quale un giuoco fortuitodell’immaginazione, bensì come il prodotto di determi-nati fattori e di determinate leggi, e cioè di quella delledipendenze e di quella delle condizioni, con le teorie chene derivano: del carattere essenziale o della facoltà do-minante, dalla prima; delle forze primordiali, razza, am-biente, momento, dalla seconda; e non s’accorge maiche, applicando con un rigore quasi geometrico questisuoi principii e queste sue teorie e considerando esclusi-vamente le opere d’arte come effetti necessarii di forzenaturali e sociali, come documenti umani e segni d’unostato dello spirito, non penetra mai veramente nell’inti-mità dell’arte.

Tuttavia, se da un canto son deplorabili questi ecces-si, queste soggezioni che si vogliono imporre all’arte,queste deficienze d’estimativa estetica; dall’altro è inne-gabile che la scienza potrebbe non poco ajutare e corro-borare la critica letteraria, la quale da noi è spesso o ari-da e nuda cronaca o retorica superficiale, pedantesca ocervellotica; ajutare, corroborare, illuminare anche lacritica estetica che, prima metafisicamente macchinosa,ora, a furia d’escludere e di scartare come estranee oestrinseche tante questioni e tante vedute, che sono in-vece inerenti all’arte ed essenziali, si è ristretta special-mente per opera di Benedetto Croce a un’unica questio-ne, a un’unica veduta, la quale, non riuscendo ad ab-bracciare tutto il complesso fenomeno artistico, quandonon si sformi allargandosi arbitrariamente, incespica incontinue contraddizioni.

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non deve più sembrarci quale un giuoco fortuitodell’immaginazione, bensì come il prodotto di determi-nati fattori e di determinate leggi, e cioè di quella delledipendenze e di quella delle condizioni, con le teorie chene derivano: del carattere essenziale o della facoltà do-minante, dalla prima; delle forze primordiali, razza, am-biente, momento, dalla seconda; e non s’accorge maiche, applicando con un rigore quasi geometrico questisuoi principii e queste sue teorie e considerando esclusi-vamente le opere d’arte come effetti necessarii di forzenaturali e sociali, come documenti umani e segni d’unostato dello spirito, non penetra mai veramente nell’inti-mità dell’arte.

Tuttavia, se da un canto son deplorabili questi ecces-si, queste soggezioni che si vogliono imporre all’arte,queste deficienze d’estimativa estetica; dall’altro è inne-gabile che la scienza potrebbe non poco ajutare e corro-borare la critica letteraria, la quale da noi è spesso o ari-da e nuda cronaca o retorica superficiale, pedantesca ocervellotica; ajutare, corroborare, illuminare anche lacritica estetica che, prima metafisicamente macchinosa,ora, a furia d’escludere e di scartare come estranee oestrinseche tante questioni e tante vedute, che sono in-vece inerenti all’arte ed essenziali, si è ristretta special-mente per opera di Benedetto Croce a un’unica questio-ne, a un’unica veduta, la quale, non riuscendo ad ab-bracciare tutto il complesso fenomeno artistico, quandonon si sformi allargandosi arbitrariamente, incespica incontinue contraddizioni.

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*Il Croce, com’è noto, stacca nettamente nella sua

Estetica l’arte dalla scienza, non però la scienzadall’arte; relega l’arte in un primo gradino, la scienza inun secondo, che presuppone il primo; dice così: «Il rap-porto di conoscenza intuitiva o espressione, e di cono-scenza intellettuale o concetto, di arte e di scienza, dipoesia e di prosa, non si può significare altrimenti senon dicendo ch’è quello di doppio grado. Il primo gradoè l’espressione, il secondo il concetto: il primo gradopuò star senza il secondo, il secondo non può star senzail primo».

Tutto il rapporto è assolutamente arbitrario, e l’arbi-trio consiste appunto nell’avere fin da principio staccatocon un taglio netto le varie attività e funzioni dello spiri-to, che sono in intimo inscindibile legame e in continuaazione reciproca; nell’avere scisso la compagine dellacoscienza, considerandone solo una parte, che soltantoper astrazione può immaginarsi disgiunta dalle altre, enell’aver fondato l’arte su questa.

Naturalmente da questo arbitrio non poteva venir fuo-ri che un’Estetica astratta, monca e rudimentale.

Il Croce, com’è noto, pone due forme o attività dellospirito, una teoretica, distinta in intuitiva e in intelletti-va, e una pratica. Con la forma teoretica, egli dice,l’uomo comprende le cose: con la forma pratica le vamutando: con la prima si appropria l’universo, conl’altra lo crea.

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*Il Croce, com’è noto, stacca nettamente nella sua

Estetica l’arte dalla scienza, non però la scienzadall’arte; relega l’arte in un primo gradino, la scienza inun secondo, che presuppone il primo; dice così: «Il rap-porto di conoscenza intuitiva o espressione, e di cono-scenza intellettuale o concetto, di arte e di scienza, dipoesia e di prosa, non si può significare altrimenti senon dicendo ch’è quello di doppio grado. Il primo gradoè l’espressione, il secondo il concetto: il primo gradopuò star senza il secondo, il secondo non può star senzail primo».

Tutto il rapporto è assolutamente arbitrario, e l’arbi-trio consiste appunto nell’avere fin da principio staccatocon un taglio netto le varie attività e funzioni dello spiri-to, che sono in intimo inscindibile legame e in continuaazione reciproca; nell’avere scisso la compagine dellacoscienza, considerandone solo una parte, che soltantoper astrazione può immaginarsi disgiunta dalle altre, enell’aver fondato l’arte su questa.

Naturalmente da questo arbitrio non poteva venir fuo-ri che un’Estetica astratta, monca e rudimentale.

Il Croce, com’è noto, pone due forme o attività dellospirito, una teoretica, distinta in intuitiva e in intelletti-va, e una pratica. Con la forma teoretica, egli dice,l’uomo comprende le cose: con la forma pratica le vamutando: con la prima si appropria l’universo, conl’altra lo crea.

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Dato che una separazione possa farsi, parrebbe a tuttiche l’arte dovesse piuttosto consistere nella seconda for-ma o attività, che implica la mutazione delle cose e lacreazione, non la semplice comprensione di esse.

Ebbene, no: il Croce considera l’arte come attivitàteoretica, come conoscenza nel primo momento della in-tuizione, e dà fuori quindi un’Estetica intellettualisticasenza intelletto, fondata tutta su le sole rappresentazioni,naturalmente soltanto in base a un procedimento logico,e dunque astratta, come dicevo, monca e rudimentale.

L’arte, egli dice esplicitamente, è conoscenza, è for-ma: non appartiene al sentimento o alla materia psichi-ca.

È noto che il Kant faceva delle sensazioni la «mate-ria» della coscienza e della «sintesi» (che corrispondealla «riflessione» del Locke) la «forma» di essa.

Tanto il Locke quanto il Kant non consideravano senon un lato solo della vita psichica, quello cioè dellerappresentazioni, della conoscenza. La forma del Kantconsisteva dunque in un processo intellettuale. Il Croce,appigliandosi a un passo della Critica della ragion pura,dove lo stesso Kant, parlando della dottrina trascenden-tale degli elementi, distingue una forma, che non è lamateria bruta della sensazione e non è neanche ciò chevi aggiunge l’intelletto (il concetto), e parla di una tra-scendentale Aesthetik, il Croce, dicevo, chiama forma,invece, l’insieme dei principii a priori della sensibilità,cioè l’intuizione pura: attività, teoretica bensì, ma nonintellettuale; e su questa edifica la sua Estetica, ch’io

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Dato che una separazione possa farsi, parrebbe a tuttiche l’arte dovesse piuttosto consistere nella seconda for-ma o attività, che implica la mutazione delle cose e lacreazione, non la semplice comprensione di esse.

Ebbene, no: il Croce considera l’arte come attivitàteoretica, come conoscenza nel primo momento della in-tuizione, e dà fuori quindi un’Estetica intellettualisticasenza intelletto, fondata tutta su le sole rappresentazioni,naturalmente soltanto in base a un procedimento logico,e dunque astratta, come dicevo, monca e rudimentale.

L’arte, egli dice esplicitamente, è conoscenza, è for-ma: non appartiene al sentimento o alla materia psichi-ca.

È noto che il Kant faceva delle sensazioni la «mate-ria» della coscienza e della «sintesi» (che corrispondealla «riflessione» del Locke) la «forma» di essa.

Tanto il Locke quanto il Kant non consideravano senon un lato solo della vita psichica, quello cioè dellerappresentazioni, della conoscenza. La forma del Kantconsisteva dunque in un processo intellettuale. Il Croce,appigliandosi a un passo della Critica della ragion pura,dove lo stesso Kant, parlando della dottrina trascenden-tale degli elementi, distingue una forma, che non è lamateria bruta della sensazione e non è neanche ciò chevi aggiunge l’intelletto (il concetto), e parla di una tra-scendentale Aesthetik, il Croce, dicevo, chiama forma,invece, l’insieme dei principii a priori della sensibilità,cioè l’intuizione pura: attività, teoretica bensì, ma nonintellettuale; e su questa edifica la sua Estetica, ch’io

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perciò ho definito più su intellettualistica senza intellet-to: intellettualistica perchè, anche ammesso che si possadare davvero una conoscenza intuitiva libera d’ogni ri-ferimento intellettuale, risulta sempre fondata su la co-noscenza, cioè su un fattore solo della coscienza, la rap-presentazione, astrazion fatta non solo dai sentimenti edagli impulsi che l’accompagnano, ma anche dalle rap-presentazioni della memoria che possono mescolarsi adessa.

E la teoria del Croce, come vedremo, raggiunge gliestremi di quella teoria intellettualistica del Herbart, peril quale la coscienza era costituita da un meccanismodelle rappresentazioni, ritenute da lui come l’unico ele-mento psichico primitivo e nel loro continuo andare evenire non soggette a trasformazione.

Escludendo il sentimento e la volontà, cioè gli ele-menti soggettivi dello spirito, e fondando l’arte sola-mente su la conoscenza intuitiva, dicendo cioè che l’arteè conoscenza, il Croce non riesce a vedere il lato vera-mente caratteristico di essa, per cui essa si distingue dalmeccanismo.

Il modo dell’essere e la qualità son dati dalla volontàe dai sentimenti: prima, abbiamo l’oggetto senza unmodo d’essere determinato e senza valore. E come pos-siamo concepir davvero quest’oggetto, se non per astra-zione?

La conoscenza teoretica del Croce non ci può daredunque che un’astrazione, la obiettivazione delle cose,come può farla una qualunque scienza naturale.

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perciò ho definito più su intellettualistica senza intellet-to: intellettualistica perchè, anche ammesso che si possadare davvero una conoscenza intuitiva libera d’ogni ri-ferimento intellettuale, risulta sempre fondata su la co-noscenza, cioè su un fattore solo della coscienza, la rap-presentazione, astrazion fatta non solo dai sentimenti edagli impulsi che l’accompagnano, ma anche dalle rap-presentazioni della memoria che possono mescolarsi adessa.

E la teoria del Croce, come vedremo, raggiunge gliestremi di quella teoria intellettualistica del Herbart, peril quale la coscienza era costituita da un meccanismodelle rappresentazioni, ritenute da lui come l’unico ele-mento psichico primitivo e nel loro continuo andare evenire non soggette a trasformazione.

Escludendo il sentimento e la volontà, cioè gli ele-menti soggettivi dello spirito, e fondando l’arte sola-mente su la conoscenza intuitiva, dicendo cioè che l’arteè conoscenza, il Croce non riesce a vedere il lato vera-mente caratteristico di essa, per cui essa si distingue dalmeccanismo.

Il modo dell’essere e la qualità son dati dalla volontàe dai sentimenti: prima, abbiamo l’oggetto senza unmodo d’essere determinato e senza valore. E come pos-siamo concepir davvero quest’oggetto, se non per astra-zione?

La conoscenza teoretica del Croce non ci può daredunque che un’astrazione, la obiettivazione delle cose,come può farla una qualunque scienza naturale.

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Come nel mondo fisico regna l’equivalenza di causaed effetto, così nel mondo estetico del Croce regnal’equazione: intuizione-espressione. Come la causalitàfisica forma un tutto chiuso in sè, limitato da questa fer-rea legge dell’equivalenza di causa ed effetto, così l’atti-vità estetica è considerata dal Croce come affatto indi-pendente.

E come tutto il mondo fisico forma un meccanismorigido, nel quale si possono prevedere con sicurezza glieffetti che da certe determinate cause derivano, così ilmondo estetico del Croce forma un meccanismo altret-tanto rigido. Nè potrebbe essere altrimenti, dato il suomodo di concepir l’Estetica.

Il fatto estetico, com’egli lo intende, ha inevitabil-mente tutti i caratteri del fatto fisico isolato per astrazio-ne, cioè i caratteri di necessità, di fissità, assenza di finie valore soltanto quantitativo.

Che cos’è l’intuizione per il Croce? L’atto dello spiri-to che forma, nè più nè meno – così, in astratto. Nonquesta o quella forma, modo d’essere, qualità: no: sola-mente l’atto dello spirito che forma, in astratto. Tutta lasua Estetica è qui. Egli non può vedere necessariamente,nè ammettere altro; o almeno, se potesse star fermo nel-la sua teoria, non dovrebbe vedere e ammetter altro. So-stiene infatti in principio che non vi è alcuna differenza,se non quantitativa, tra l’intuizione in genere e l’intui-zione artistica; «ciò che comunemente si chiama, perantonomasia, l’arte, coglie intuizioni più vaste e com-plesse di quelle comuni» – nient’altro – «i limiti delle

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Come nel mondo fisico regna l’equivalenza di causaed effetto, così nel mondo estetico del Croce regnal’equazione: intuizione-espressione. Come la causalitàfisica forma un tutto chiuso in sè, limitato da questa fer-rea legge dell’equivalenza di causa ed effetto, così l’atti-vità estetica è considerata dal Croce come affatto indi-pendente.

E come tutto il mondo fisico forma un meccanismorigido, nel quale si possono prevedere con sicurezza glieffetti che da certe determinate cause derivano, così ilmondo estetico del Croce forma un meccanismo altret-tanto rigido. Nè potrebbe essere altrimenti, dato il suomodo di concepir l’Estetica.

Il fatto estetico, com’egli lo intende, ha inevitabil-mente tutti i caratteri del fatto fisico isolato per astrazio-ne, cioè i caratteri di necessità, di fissità, assenza di finie valore soltanto quantitativo.

Che cos’è l’intuizione per il Croce? L’atto dello spiri-to che forma, nè più nè meno – così, in astratto. Nonquesta o quella forma, modo d’essere, qualità: no: sola-mente l’atto dello spirito che forma, in astratto. Tutta lasua Estetica è qui. Egli non può vedere necessariamente,nè ammettere altro; o almeno, se potesse star fermo nel-la sua teoria, non dovrebbe vedere e ammetter altro. So-stiene infatti in principio che non vi è alcuna differenza,se non quantitativa, tra l’intuizione in genere e l’intui-zione artistica; «ciò che comunemente si chiama, perantonomasia, l’arte, coglie intuizioni più vaste e com-plesse di quelle comuni» – nient’altro – «i limiti delle

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impressioni e intuizioni che si dicono arte verso quelleche volgarmente si dicono non–arte, sono empirici: èimpossibile definirli. Un epigramma appartiene all’arte;perchè no una semplice parola?» Limiti empirici, que-stione di più o di meno. Naturalmente: perchè per lui sitratta soltanto di oggettivare un’impressione della realtà,non di dare della realtà un’interpretazione soggettiva3.Sembra paradossale? Sì, risponde il Croce, sembra para-dossale per l’illusione o pregiudizio che noi intuiamodella realtà più di quanto effettivamente ne intuiamo,che è poca cosa «e consiste in piccole espressioni; che sifanno via via maggiori e più ampie solo con la crescenteconcentrazione spirituale in dati momenti». Ecco: cre-scente concentrazione spirituale in dati momenti: non sitratta d’altro. Perchè «non si può ammettere, – soggiun-ge il Croce poco dopo, – che la intuizione, che si dice di

3 Giustamente il Cesareo, il quale riconosce che l’arte non è nè può esseresemplice conoscenza, si domanda: «Che divario c’è egli fra l’intuizione comu-ne e l’opera d’arte? Cento, mille, diecimila persone si levano di buon’ora eguardano un’alba in Lombardia. Tutti gli altri si contentano d’esclamare:Bell’alba: Alessandro Manzoni scrive: «Il cielo prometteva una bella giornata»col rimanente della mirabile descrizione che si ritrova nel cap. XVII dei Pro-messi Sposi. In che differiscono le due espressioni? Ecco: i primi hanno perce-pito quell’alba come uno spettacolo estraneo alla loro coscienza, come qualco-sa che venisse di fuori, e dicendo: – Bell’alba! – hanno creduto di non far altroche esprimere una realtà oggettiva la quale sembra la stessa per tutti. Il Manzo-ni invece diede dell’alba un’espressione nuova, perchè tutta impregnata dellasua coscienza individuale; le sue sensazioni, le sue immagini, le sue determina-zioni egli sa bene che non esistevan già nel fenomeno, ma sono un prodottodella sua attività fantastica: tanto vero che niun altro le avrebbe trovate; egli insomma non ha rappresentato la realtà oggettiva, ma ne ha dato una sua inter-pretazione soggettiva e caratteristica. V. La critica estetica nel vol. Critica mi-litante, Messina, Trimarchi ed. 1907.

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impressioni e intuizioni che si dicono arte verso quelleche volgarmente si dicono non–arte, sono empirici: èimpossibile definirli. Un epigramma appartiene all’arte;perchè no una semplice parola?» Limiti empirici, que-stione di più o di meno. Naturalmente: perchè per lui sitratta soltanto di oggettivare un’impressione della realtà,non di dare della realtà un’interpretazione soggettiva3.Sembra paradossale? Sì, risponde il Croce, sembra para-dossale per l’illusione o pregiudizio che noi intuiamodella realtà più di quanto effettivamente ne intuiamo,che è poca cosa «e consiste in piccole espressioni; che sifanno via via maggiori e più ampie solo con la crescenteconcentrazione spirituale in dati momenti». Ecco: cre-scente concentrazione spirituale in dati momenti: non sitratta d’altro. Perchè «non si può ammettere, – soggiun-ge il Croce poco dopo, – che la intuizione, che si dice di

3 Giustamente il Cesareo, il quale riconosce che l’arte non è nè può esseresemplice conoscenza, si domanda: «Che divario c’è egli fra l’intuizione comu-ne e l’opera d’arte? Cento, mille, diecimila persone si levano di buon’ora eguardano un’alba in Lombardia. Tutti gli altri si contentano d’esclamare:Bell’alba: Alessandro Manzoni scrive: «Il cielo prometteva una bella giornata»col rimanente della mirabile descrizione che si ritrova nel cap. XVII dei Pro-messi Sposi. In che differiscono le due espressioni? Ecco: i primi hanno perce-pito quell’alba come uno spettacolo estraneo alla loro coscienza, come qualco-sa che venisse di fuori, e dicendo: – Bell’alba! – hanno creduto di non far altroche esprimere una realtà oggettiva la quale sembra la stessa per tutti. Il Manzo-ni invece diede dell’alba un’espressione nuova, perchè tutta impregnata dellasua coscienza individuale; le sue sensazioni, le sue immagini, le sue determina-zioni egli sa bene che non esistevan già nel fenomeno, ma sono un prodottodella sua attività fantastica: tanto vero che niun altro le avrebbe trovate; egli insomma non ha rappresentato la realtà oggettiva, ma ne ha dato una sua inter-pretazione soggettiva e caratteristica. V. La critica estetica nel vol. Critica mi-litante, Messina, Trimarchi ed. 1907.

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solito artistica, si diversifichi dalla comune come intui-zione intensiva. La funzione artistica spazia più larga-mente, in campi diversi, ma con metodo non diverso daquello dell’intuizione comune, la differenza tra l’una el’altra è perciò non intensiva ma anzi estensiva». Curio-sa, una concentrazione non intensiva, anzi estensiva!

Ma lasciamo andare!Il Croce vorrebbe sfuggire alle strette del meccani-

smo e dimostrare la natura ideale della sua conoscenzaintuitiva. Ora, certo, le rappresentazioni non coincidonocon gli oggetti del così detto mondo esterno: sonoanch’esse fatti soggettivi della coscienza e oggettivisono solamente in quanto si riferiscono agli oggetti este-riori e costituiscono il materiale su cui si edifica il cosìdetto mondo esterno. Nessuna cosa penetra nel nostrospirito, che subito non divenga simile ad esso. Ma per-chè questo? Perchè se noi ristabiliamo l’unità della co-scienza, considerandola non più dal solo lato rappresen-tativo, ma nel suo duplice aspetto, oggettivo e soggetti-vo, troviamo subito mutate del tutto le condizioni: muta-te le rappresentazioni per gli elementi soggettivi del sen-timento e dell’impulso, perduto quel carattere di fissitàche esse avevano per sè sole, isolate per astrazione.L’intuizione, dunque, non può essere semplice cono-scenza, se non per una astrazione, che se può avere unvalore logico, non ne ha però alcuno nella realtà. Tantoè vero questo che il Croce, volendo discenderedall’astrazione alla realtà, offende la logica prima conuna petizione di principio, poi con un sofisma e in fine

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solito artistica, si diversifichi dalla comune come intui-zione intensiva. La funzione artistica spazia più larga-mente, in campi diversi, ma con metodo non diverso daquello dell’intuizione comune, la differenza tra l’una el’altra è perciò non intensiva ma anzi estensiva». Curio-sa, una concentrazione non intensiva, anzi estensiva!

Ma lasciamo andare!Il Croce vorrebbe sfuggire alle strette del meccani-

smo e dimostrare la natura ideale della sua conoscenzaintuitiva. Ora, certo, le rappresentazioni non coincidonocon gli oggetti del così detto mondo esterno: sonoanch’esse fatti soggettivi della coscienza e oggettivisono solamente in quanto si riferiscono agli oggetti este-riori e costituiscono il materiale su cui si edifica il cosìdetto mondo esterno. Nessuna cosa penetra nel nostrospirito, che subito non divenga simile ad esso. Ma per-chè questo? Perchè se noi ristabiliamo l’unità della co-scienza, considerandola non più dal solo lato rappresen-tativo, ma nel suo duplice aspetto, oggettivo e soggetti-vo, troviamo subito mutate del tutto le condizioni: muta-te le rappresentazioni per gli elementi soggettivi del sen-timento e dell’impulso, perduto quel carattere di fissitàche esse avevano per sè sole, isolate per astrazione.L’intuizione, dunque, non può essere semplice cono-scenza, se non per una astrazione, che se può avere unvalore logico, non ne ha però alcuno nella realtà. Tantoè vero questo che il Croce, volendo discenderedall’astrazione alla realtà, offende la logica prima conuna petizione di principio, poi con un sofisma e in fine

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con una contraddizione. Non vorrebbe distinguere affat-to tra percezione e intuizione, cioè secondo che noi co-gliamo l’oggetto nella sua composizione reale o impie-ghiamo un’attività cosciente nel coglierlo, o meglio, se-condo l’importanza che attribuiamo nel primo casoall’obbiettività dell’atto della rappresentazione e, nel se-condo, alla subbiettività di quest’atto: nè vorrebbe poidistinguere tra intuizione e rappresentazione dell’imma-ginazione, quando cioè l’oggetto non sia più reale, mapuramente fittizio. Non vorrebbe distinguere, perchè –egli dice – «le percezioni della stanza nella quale scrivo,del calamaio o della carta che ho innanzi, della pennache ho tra mano, di questi oggetti che tocco e adoprocome istrumenti dalla mia persona, la quale, se scrive,dunque esiste; sono intuizioni. Ma è egualmente intui-zione l’immagine che ora mi passa pel capo di un meche scrive in un’altra stanza, in un’altra città, con carta,penna e calamaio diversi. Il che vuol dire che la distin-zione di realtà e di non realtà è secondaria ed estraneaall’indole dell’intuizione».

Ecco la petizione di principio: egli afferma ciò chedovrebbe dimostrare, che cioè non vi sia alcuna diffe-renza tra i varii atti dello spirito, secondo che esso per-cepisce o intuisce o si foggia una rappresentazione im-maginaria, o meglio, tra l’importanza obiettiva o subiet-tiva che attribuiamo a quest’atto. «Supponendo, – eglisoggiunge, – uno spirito umano che per la prima voltaintuisce, sembra ch’egli non possa intuire se non realtàeffettiva, ossia non aver se non percezioni del reale. Ma,

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con una contraddizione. Non vorrebbe distinguere affat-to tra percezione e intuizione, cioè secondo che noi co-gliamo l’oggetto nella sua composizione reale o impie-ghiamo un’attività cosciente nel coglierlo, o meglio, se-condo l’importanza che attribuiamo nel primo casoall’obbiettività dell’atto della rappresentazione e, nel se-condo, alla subbiettività di quest’atto: nè vorrebbe poidistinguere tra intuizione e rappresentazione dell’imma-ginazione, quando cioè l’oggetto non sia più reale, mapuramente fittizio. Non vorrebbe distinguere, perchè –egli dice – «le percezioni della stanza nella quale scrivo,del calamaio o della carta che ho innanzi, della pennache ho tra mano, di questi oggetti che tocco e adoprocome istrumenti dalla mia persona, la quale, se scrive,dunque esiste; sono intuizioni. Ma è egualmente intui-zione l’immagine che ora mi passa pel capo di un meche scrive in un’altra stanza, in un’altra città, con carta,penna e calamaio diversi. Il che vuol dire che la distin-zione di realtà e di non realtà è secondaria ed estraneaall’indole dell’intuizione».

Ecco la petizione di principio: egli afferma ciò chedovrebbe dimostrare, che cioè non vi sia alcuna diffe-renza tra i varii atti dello spirito, secondo che esso per-cepisce o intuisce o si foggia una rappresentazione im-maginaria, o meglio, tra l’importanza obiettiva o subiet-tiva che attribuiamo a quest’atto. «Supponendo, – eglisoggiunge, – uno spirito umano che per la prima voltaintuisce, sembra ch’egli non possa intuire se non realtàeffettiva, ossia non aver se non percezioni del reale. Ma,

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giacchè la coscienza della realtà si basa sulla distinzioned’immagini reali e d’immagini irreali, e questa distin-zione nel primo momento non esiste, quelle percezioninon saranno, in verità, nè del reale nè dell’irreale; masemplici intuizioni. Dove tutto è reale, niente è reale».

Ed ecco il sofisma. Implica l’intuizione un’attività co-sciente dello spirito? Sì, se non si vuole scambiarla conla sensazione bruta. Ora, se uno spirito umano che per laprima volta intuisce è cosciente, e la coscienza dellarealtà si basa sulla distinzione d’immagini reali ed’immagini irreali, esso non può non distinguere traquelle; e dunque l’intuizione non è – come il Croce so-stiene – l’unità indifferenziata della percezione del realee della semplice immagine del possibile. Tanto non è,che egli stesso, il Croce, più là, è costretto a negarequest’unità indifferenziata e a distinguere – contraddi-cendosi – reale ed irreale, l’intuizione storica, che pre-senta il mondo o la realtà qual’essa è empiricamente, el’intuizione fantastica, che lo prolunga entro i confinidel possibile, ossia dell’immaginabile.

Ma anche questa distinzione, egli dice, è empirica.Certo: tutte le distinzioni per lui debbono esser per forzaempiriche se, tenendosi ostinatamente fermo, nel suo ra-gionamento astratto che ha formulato la teoriadell’intuizione: atto dello spirito che forma, non vuol di-scendere al fatto, al concreto, che è il vero regnodell’arte.

Esiste il concetto come concetto? È sempre questo oquel concetto. Così la forma come forma non esiste: è

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giacchè la coscienza della realtà si basa sulla distinzioned’immagini reali e d’immagini irreali, e questa distin-zione nel primo momento non esiste, quelle percezioninon saranno, in verità, nè del reale nè dell’irreale; masemplici intuizioni. Dove tutto è reale, niente è reale».

Ed ecco il sofisma. Implica l’intuizione un’attività co-sciente dello spirito? Sì, se non si vuole scambiarla conla sensazione bruta. Ora, se uno spirito umano che per laprima volta intuisce è cosciente, e la coscienza dellarealtà si basa sulla distinzione d’immagini reali ed’immagini irreali, esso non può non distinguere traquelle; e dunque l’intuizione non è – come il Croce so-stiene – l’unità indifferenziata della percezione del realee della semplice immagine del possibile. Tanto non è,che egli stesso, il Croce, più là, è costretto a negarequest’unità indifferenziata e a distinguere – contraddi-cendosi – reale ed irreale, l’intuizione storica, che pre-senta il mondo o la realtà qual’essa è empiricamente, el’intuizione fantastica, che lo prolunga entro i confinidel possibile, ossia dell’immaginabile.

Ma anche questa distinzione, egli dice, è empirica.Certo: tutte le distinzioni per lui debbono esser per forzaempiriche se, tenendosi ostinatamente fermo, nel suo ra-gionamento astratto che ha formulato la teoriadell’intuizione: atto dello spirito che forma, non vuol di-scendere al fatto, al concreto, che è il vero regnodell’arte.

Esiste il concetto come concetto? È sempre questo oquel concetto. Così la forma come forma non esiste: è

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sempre questa o quella forma. La costanza del concetto,come la costanza della forma non possono esistere senon teoreticamente. Costante, ma non uguale, e soloastrattamente può esser l’atto dello spirito nell’assurgerealla forma o al concetto; ma se dall’astratto passiamo alconcreto, non sono più costanti nè la forma nè il concet-to. Il Croce non vede e non vuol vedere altro che l’atto.E come lo vede? Meccanico, per necessità. Vorrebbe ne-gare questo meccanismo, ma ogni negazione implica perforza una contraddizione alla sua teoria.

Pone l’equazione: intuizione = espressione. Ogni veraintuizione e rappresentazione è, insieme, espressione.Ciò che non si oggettiva in un’espressione non è intui-zione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità.L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime... Comepossiamo intuir davvero una figura geometrica se nonne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado ditracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna?Come possiamo intuir davvero il contorno di un paese,per esempio dell’isola di Sicilia, se non siamo in gradodi disegnarlo così come lo vediamo in tutti i suoi mean-dri?» Ebbene, non è meccanismo questo? La rappresen-tazione e la conseguente espressione come qualcosa difisso, d’immutabile. «Il pittore è pittore perchè vede ciòche altri sente solo o intravede, ma non vede. Un sorrisocrediamo di vederlo, ma in realtà ne abbiamo solo lavaga impressione, non ne scorgiamo i tratti caratteristicida cui risulta, come, dopo averci lavorato intorno, liscorge il pittore che perciò può fermarlo sulla tela». Non

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sempre questa o quella forma. La costanza del concetto,come la costanza della forma non possono esistere senon teoreticamente. Costante, ma non uguale, e soloastrattamente può esser l’atto dello spirito nell’assurgerealla forma o al concetto; ma se dall’astratto passiamo alconcreto, non sono più costanti nè la forma nè il concet-to. Il Croce non vede e non vuol vedere altro che l’atto.E come lo vede? Meccanico, per necessità. Vorrebbe ne-gare questo meccanismo, ma ogni negazione implica perforza una contraddizione alla sua teoria.

Pone l’equazione: intuizione = espressione. Ogni veraintuizione e rappresentazione è, insieme, espressione.Ciò che non si oggettiva in un’espressione non è intui-zione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità.L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime... Comepossiamo intuir davvero una figura geometrica se nonne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado ditracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna?Come possiamo intuir davvero il contorno di un paese,per esempio dell’isola di Sicilia, se non siamo in gradodi disegnarlo così come lo vediamo in tutti i suoi mean-dri?» Ebbene, non è meccanismo questo? La rappresen-tazione e la conseguente espressione come qualcosa difisso, d’immutabile. «Il pittore è pittore perchè vede ciòche altri sente solo o intravede, ma non vede. Un sorrisocrediamo di vederlo, ma in realtà ne abbiamo solo lavaga impressione, non ne scorgiamo i tratti caratteristicida cui risulta, come, dopo averci lavorato intorno, liscorge il pittore che perciò può fermarlo sulla tela». Non

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è meccanismo questo? Questione di più e meno: se noiintuissimo nella misura con cui intuisce il pittore, scor-geremmo i tratti caratteristici del sorriso, e li esprime-remmo così tali e quali, come se fossero davvero nelsorriso quei tratti caratteristici! E per questo appunto ilCroce può dire che dalle qualità del contenuto alle qua-lità della forma non vi è passaggio e che ogni espressio-ne esclude le altre.

Meccanismo, dunque, fissità, necessità, differenzaquantitativa: tutti i caratteri del fatto fisico, ch’egli tra-sporta al fatto spirituale, teorico, cioè astratto.

Se da questo fatto teorico, astratto, scendiamo al con-creto, e poniamo otto pittori ugualmente bravi a ritrarresu la tela qualcuno che sorrida, tutti e otto esprimerannodiversamente quel sorriso. Sì, si proverà a rispondere ilCroce, perchè ciascuno esprimerà la propria impressio-ne, il proprio contenuto: in questo senso ho detto chedalle qualità del contenuto alle qualità della forma nonvi è passaggio e che ogni espressione esclude le altre,cioè relativamente alla impressione.

– Oh bravo! Ma che cosa ha dato un modo d’essere,una qualità al contenuto? che cosa ha reso diverse le sin-gole impressioni? Proprio quegli elementi soggettividella coscienza, ch’egli ha esclusi, dicendo che l’arte èconoscenza e non appartiene al sentimento e alla mate-ria psichica.

E non si può dire veramente che il problema non glisi sia nemmeno affacciato: egli lo discute, e dice propriocosì: «Si è pensato talvolta che il contenuto, per essere

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è meccanismo questo? Questione di più e meno: se noiintuissimo nella misura con cui intuisce il pittore, scor-geremmo i tratti caratteristici del sorriso, e li esprime-remmo così tali e quali, come se fossero davvero nelsorriso quei tratti caratteristici! E per questo appunto ilCroce può dire che dalle qualità del contenuto alle qua-lità della forma non vi è passaggio e che ogni espressio-ne esclude le altre.

Meccanismo, dunque, fissità, necessità, differenzaquantitativa: tutti i caratteri del fatto fisico, ch’egli tra-sporta al fatto spirituale, teorico, cioè astratto.

Se da questo fatto teorico, astratto, scendiamo al con-creto, e poniamo otto pittori ugualmente bravi a ritrarresu la tela qualcuno che sorrida, tutti e otto esprimerannodiversamente quel sorriso. Sì, si proverà a rispondere ilCroce, perchè ciascuno esprimerà la propria impressio-ne, il proprio contenuto: in questo senso ho detto chedalle qualità del contenuto alle qualità della forma nonvi è passaggio e che ogni espressione esclude le altre,cioè relativamente alla impressione.

– Oh bravo! Ma che cosa ha dato un modo d’essere,una qualità al contenuto? che cosa ha reso diverse le sin-gole impressioni? Proprio quegli elementi soggettividella coscienza, ch’egli ha esclusi, dicendo che l’arte èconoscenza e non appartiene al sentimento e alla mate-ria psichica.

E non si può dire veramente che il problema non glisi sia nemmeno affacciato: egli lo discute, e dice propriocosì: «Si è pensato talvolta che il contenuto, per essere

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contenuto estetico, ossia trasformabile in forma, doves-se avere alcune qualità determinate o determinabili. Ma,se ciò fosse, la forma sarebbe un fatto medesimo colcontenuto, l’espressione con l’impressione. Il contenutoè, sì, il trasformabile in forma, ma finchè non si sia tra-sformato, non ha qualità determinabile: noi non ne sap-piamo nulla. Esso diventa contenuto estetico non prima,ma solo quando si è effettivamente trasformato».

Ora, ragioniamo un po’. Se il contenuto prima di di-ventar forma non ha qualità determinate o determinabili,vuol dire che le qualità di esso si possono determinaredalla forma, non già che non abbia qualità: la forma anzi– viene a dire il Croce – è determinata dalla qualità delcontenuto; date espressioni, date impressioni: da unaqualità all’altra non vi è passaggio. Orbene, ammettendoquesto e anche restringendo l’arte, come fa il Croce, aquesta forma ch’è oggettivazione meccanica delle quali-tà del contenuto, essa non sarà più semplice conoscenza,in quanto che la forma implica inevitabilmente già ilmodo d’essere e la qualità del contenuto, se non vuol es-sere un’astrazione. Ma questa qualità del contenuto nonha per sè, in arte, alcun valore e non ne ha dunque nean-che la forma che la determina con la ferrea leggedell’equivalenza di causa ed effetto, perchè l’arte nonconsiste in questa oggettivazione meccanica della quali-tà del contenuto, ma nella interpretazione soggettiva diqueste qualità determinate dalla forma, come il Croce laintende, cioè oggettivate dall’intuizione.

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contenuto estetico, ossia trasformabile in forma, doves-se avere alcune qualità determinate o determinabili. Ma,se ciò fosse, la forma sarebbe un fatto medesimo colcontenuto, l’espressione con l’impressione. Il contenutoè, sì, il trasformabile in forma, ma finchè non si sia tra-sformato, non ha qualità determinabile: noi non ne sap-piamo nulla. Esso diventa contenuto estetico non prima,ma solo quando si è effettivamente trasformato».

Ora, ragioniamo un po’. Se il contenuto prima di di-ventar forma non ha qualità determinate o determinabili,vuol dire che le qualità di esso si possono determinaredalla forma, non già che non abbia qualità: la forma anzi– viene a dire il Croce – è determinata dalla qualità delcontenuto; date espressioni, date impressioni: da unaqualità all’altra non vi è passaggio. Orbene, ammettendoquesto e anche restringendo l’arte, come fa il Croce, aquesta forma ch’è oggettivazione meccanica delle quali-tà del contenuto, essa non sarà più semplice conoscenza,in quanto che la forma implica inevitabilmente già ilmodo d’essere e la qualità del contenuto, se non vuol es-sere un’astrazione. Ma questa qualità del contenuto nonha per sè, in arte, alcun valore e non ne ha dunque nean-che la forma che la determina con la ferrea leggedell’equivalenza di causa ed effetto, perchè l’arte nonconsiste in questa oggettivazione meccanica della quali-tà del contenuto, ma nella interpretazione soggettiva diqueste qualità determinate dalla forma, come il Croce laintende, cioè oggettivate dall’intuizione.

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L’arte dunque non è semplice conoscenza. La formadi cui egli parla è oggettivazione meccanica, fissa, im-mutabile, proprio quella che in arte non ha alcun valore;l’intuizione che non è ridivenuta sentimento e impulso.E tutta la teoria estetica del Croce crolla.

Stimo perciò inutile rilevare le conseguenze inauditea cui egli è trascinato dal procedimento logico della suaastrazione.

Il fatto estetico non può consistere nel meccanismodell’equazione posta da lui a fondamento della sua Este-tica. Molti hanno accolto questa equazione, perchè nonhan compreso veramente che cosa il Croce intendesseper intuizione e che per espressione. Quando noi abbia-mo considerato nella nostra coscienza le percezioni e lerappresentazioni della memoria, le idee, i concetti, in-somma le forme varie della conoscenza, e dall’altro can-to i sentimenti, gli impulsi, desiderii, risoluzioni, insom-ma le forme varie della parte soggettiva della coscienza,senz’alcuna priorità dell’una forma su l’altra, ma questie quegli elementi in intima connessione e in continuaazione reciproca, non avremo neanche allora il fattoestetico, ma solamente e semplicemente il fatto psichi-co, comune.

Perchè il fatto estetico avvenga, bisogna che si abbianon la espressione, la forma astratta, meccanica, oggetti-va della intuizione, ma la soggettivazione di essa; per-chè il fatto estetico avvenga, bisogna, in altri termini,che l’intuizione non sia l’impressione formata astratta-

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L’arte dunque non è semplice conoscenza. La formadi cui egli parla è oggettivazione meccanica, fissa, im-mutabile, proprio quella che in arte non ha alcun valore;l’intuizione che non è ridivenuta sentimento e impulso.E tutta la teoria estetica del Croce crolla.

Stimo perciò inutile rilevare le conseguenze inauditea cui egli è trascinato dal procedimento logico della suaastrazione.

Il fatto estetico non può consistere nel meccanismodell’equazione posta da lui a fondamento della sua Este-tica. Molti hanno accolto questa equazione, perchè nonhan compreso veramente che cosa il Croce intendesseper intuizione e che per espressione. Quando noi abbia-mo considerato nella nostra coscienza le percezioni e lerappresentazioni della memoria, le idee, i concetti, in-somma le forme varie della conoscenza, e dall’altro can-to i sentimenti, gli impulsi, desiderii, risoluzioni, insom-ma le forme varie della parte soggettiva della coscienza,senz’alcuna priorità dell’una forma su l’altra, ma questie quegli elementi in intima connessione e in continuaazione reciproca, non avremo neanche allora il fattoestetico, ma solamente e semplicemente il fatto psichi-co, comune.

Perchè il fatto estetico avvenga, bisogna che si abbianon la espressione, la forma astratta, meccanica, oggetti-va della intuizione, ma la soggettivazione di essa; per-chè il fatto estetico avvenga, bisogna, in altri termini,che l’intuizione non sia l’impressione formata astratta-

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mente, meccanicamente, oggettivamente, ma la formaconcreta, libera e soggettiva d’una impressione.

Questa concretezza, questa libertà, questa soggettività– può domandarci il Croce – non sono già nella intuizio-ne, conoscenza dell’individuale? No, gli rispondiamonoi, perchè, finchè c’è semplice: conoscenza, non ci puòesser altro che astrazione: cioè la forma astratta, oggetti-va, meccanica dell’individuale. Perchè sia concreta, li-bera, soggettiva, questa forma dell’individuale bisognache cessi d’esser semplice conoscenza e ridiventi senti-mento e impulso: non la forma d’una impressione indi-viduale, ma la forma individuale d’una impressione; nonquella Bell’alba, di cui parla il Cesareo nella nota a pag.17 e seg, ma la bell’alba descritta dal Manzoni nel cap.XVII dei Promessi Sposi.

Questione di più o meno, quantitativa? No! Perchèquella è una forma astratta, oggettiva, meccanica, e que-sta una forma concreta, libera, soggettiva. La differenzaè qui, ed è qualitativa, non quantitativa, giacchè nondobbiamo misurar la quantità della qualità oggettiva, mala qualità della quantità espressiva; non la qualità astrat-ta di quell’alba, ma la qualità concreta nella forma delManzoni: la qualità, insomma, non del contenuto ogget-tivato, che non importa nulla, ma della forma soggetti-va, che è tutto. L’arte, insomma, è creazione della for-ma, non intuizione del contenuto: e dunque è proprio, sevogliamo usare i termini del Croce, l’intuizione d’unaintuizione. Essa non è tutta in materia – forma, come ilCroce la vede, ma in materia – forma – materia. Tant’è

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mente, meccanicamente, oggettivamente, ma la formaconcreta, libera e soggettiva d’una impressione.

Questa concretezza, questa libertà, questa soggettività– può domandarci il Croce – non sono già nella intuizio-ne, conoscenza dell’individuale? No, gli rispondiamonoi, perchè, finchè c’è semplice: conoscenza, non ci puòesser altro che astrazione: cioè la forma astratta, oggetti-va, meccanica dell’individuale. Perchè sia concreta, li-bera, soggettiva, questa forma dell’individuale bisognache cessi d’esser semplice conoscenza e ridiventi senti-mento e impulso: non la forma d’una impressione indi-viduale, ma la forma individuale d’una impressione; nonquella Bell’alba, di cui parla il Cesareo nella nota a pag.17 e seg, ma la bell’alba descritta dal Manzoni nel cap.XVII dei Promessi Sposi.

Questione di più o meno, quantitativa? No! Perchèquella è una forma astratta, oggettiva, meccanica, e que-sta una forma concreta, libera, soggettiva. La differenzaè qui, ed è qualitativa, non quantitativa, giacchè nondobbiamo misurar la quantità della qualità oggettiva, mala qualità della quantità espressiva; non la qualità astrat-ta di quell’alba, ma la qualità concreta nella forma delManzoni: la qualità, insomma, non del contenuto ogget-tivato, che non importa nulla, ma della forma soggetti-va, che è tutto. L’arte, insomma, è creazione della for-ma, non intuizione del contenuto: e dunque è proprio, sevogliamo usare i termini del Croce, l’intuizione d’unaintuizione. Essa non è tutta in materia – forma, come ilCroce la vede, ma in materia – forma – materia. Tant’è

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vero che ridiventa impressione, in base a cui primal’autore la prova e poi il critico la giudica. L’impressio-ne, divenuta espressione (interna), bisogna che ridiventiimpressione, materia elaborata.

Il Croce crede che l’elaborazione avvenga nell’attodell’intuizione: ma noi abbiamo veduto che questa nonpuò darci che una oggettivazione meccanica della mate-ria. L’elaborazione artistica avviene quand’essa, dopoessere stata intuita, man mano ridiviene impressione.

Dopo che il corpo si è fatto spirito, bisogna che lospirito si faccia corpo. L’immagine, materia nell’origine,spirito nella sua vita interiore, bisogna che ridiventi ma-teria, cioè lei stessa, ma divenuta sensibile, materiale espirituale a un tempo.

Il Croce è rimasto prigioniero entro l’idea fissa e an-gusta dell’intuizione. Questa mania gli ha impedito divedere tutta la varietà del fenomeno estetico, non solo,ma di coglier poi l’idea complessa, organatrice di questavarietà. Egli la nega, perchè l’idea per lui è semplicissi-ma, astratta, rudimentale, quella appunto in cui s’è fissa-to. Ora diceva bene Claudio Bernard, meglio non sapernulla che avere idee fisse.

*Il rapporto tra arte e scienza, come il Croce lo pone,

non esiste, perchè l’arte non sta in quel primo gradino,non è un’attività sola dello spirito, ma tutto lo spirito,che, così nella scienza come nell’arte, si esplica non indue modi soltanto distintamente separati, bensì tuttoquanto in questo e in quel modo, liberamente, cioè solo

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vero che ridiventa impressione, in base a cui primal’autore la prova e poi il critico la giudica. L’impressio-ne, divenuta espressione (interna), bisogna che ridiventiimpressione, materia elaborata.

Il Croce crede che l’elaborazione avvenga nell’attodell’intuizione: ma noi abbiamo veduto che questa nonpuò darci che una oggettivazione meccanica della mate-ria. L’elaborazione artistica avviene quand’essa, dopoessere stata intuita, man mano ridiviene impressione.

Dopo che il corpo si è fatto spirito, bisogna che lospirito si faccia corpo. L’immagine, materia nell’origine,spirito nella sua vita interiore, bisogna che ridiventi ma-teria, cioè lei stessa, ma divenuta sensibile, materiale espirituale a un tempo.

Il Croce è rimasto prigioniero entro l’idea fissa e an-gusta dell’intuizione. Questa mania gli ha impedito divedere tutta la varietà del fenomeno estetico, non solo,ma di coglier poi l’idea complessa, organatrice di questavarietà. Egli la nega, perchè l’idea per lui è semplicissi-ma, astratta, rudimentale, quella appunto in cui s’è fissa-to. Ora diceva bene Claudio Bernard, meglio non sapernulla che avere idee fisse.

*Il rapporto tra arte e scienza, come il Croce lo pone,

non esiste, perchè l’arte non sta in quel primo gradino,non è un’attività sola dello spirito, ma tutto lo spirito,che, così nella scienza come nell’arte, si esplica non indue modi soltanto distintamente separati, bensì tuttoquanto in questo e in quel modo, liberamente, cioè solo

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a seconda della materia su cui si esercita e del fine a cuitende. Nè il fine e la materia limitano o determinanol’arte: dicono soltanto che la concezione non è a caso:essa tuttavia è libera, perchè voluta per se stessa, ecom’essa si vuole.

Non entrerò nella questione psicologica, se possa dar-si veramente una conoscenza intuitiva, libera d’ogni ri-ferimento intellettuale. L’arte per me non è semplice co-noscenza. Che questa possa essere intuitiva senz’essereintellettuale, il Croce del resto lo afferma, ma non lo di-mostra. Dice soltanto questo: «L’impressione di unchiaro di luna, ritratta da un pittore; il contorno di unapaese delineato da un cartografo; un motivo musicale,tenero o energico; le parole di una lirica sospirosa, equelle con le quali noi chiediamo, comandiamo e ci la-mentiamo nella vita ordinaria, possono bene esser tuttifatti intuitivi senza ombra di riferimenti intellettuali».Ora, lasciamo andare che questo è, prima di tutto, unguazzabuglio, perchè son messi insieme, accozzati, ilchiaro di luna del pittore col contorno d’un paese deli-neato da un cartografo, un motivo musicale, le paroled’una lirica con quelle d’una preghiera, d’un comando,d’un lamento come si rivolgono nella vita ordinaria (taleaccozzo si spiega benissimo nel Croce, come abbiamoveduto, per la rudimentalità della sua Estetica); ma la-sciamo andare, dicevo, il guazzabuglio: questa è ancorauna petizione di principio: bisognava dimostrare chel’impressione d’un chiaro di luna ritratto da un pittore, ilcontorno d’un paese delineato da un cartografo, un mo-

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a seconda della materia su cui si esercita e del fine a cuitende. Nè il fine e la materia limitano o determinanol’arte: dicono soltanto che la concezione non è a caso:essa tuttavia è libera, perchè voluta per se stessa, ecom’essa si vuole.

Non entrerò nella questione psicologica, se possa dar-si veramente una conoscenza intuitiva, libera d’ogni ri-ferimento intellettuale. L’arte per me non è semplice co-noscenza. Che questa possa essere intuitiva senz’essereintellettuale, il Croce del resto lo afferma, ma non lo di-mostra. Dice soltanto questo: «L’impressione di unchiaro di luna, ritratta da un pittore; il contorno di unapaese delineato da un cartografo; un motivo musicale,tenero o energico; le parole di una lirica sospirosa, equelle con le quali noi chiediamo, comandiamo e ci la-mentiamo nella vita ordinaria, possono bene esser tuttifatti intuitivi senza ombra di riferimenti intellettuali».Ora, lasciamo andare che questo è, prima di tutto, unguazzabuglio, perchè son messi insieme, accozzati, ilchiaro di luna del pittore col contorno d’un paese deli-neato da un cartografo, un motivo musicale, le paroled’una lirica con quelle d’una preghiera, d’un comando,d’un lamento come si rivolgono nella vita ordinaria (taleaccozzo si spiega benissimo nel Croce, come abbiamoveduto, per la rudimentalità della sua Estetica); ma la-sciamo andare, dicevo, il guazzabuglio: questa è ancorauna petizione di principio: bisognava dimostrare chel’impressione d’un chiaro di luna ritratto da un pittore, ilcontorno d’un paese delineato da un cartografo, un mo-

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tivo musicale, le parole d’una lirica, ecc. siano o possa-no essere semplici fatti intuitivi, prima, e poisenz’ombra di riferimenti intellettuali. Si può dimostrareil contrario, dimostrare cioè che il chiaro di luna non ènè può essere ritratto dal pittore e un contorno di paesenon è nè può essere delineato da un cartografo finchè re-stano fatti semplicemente intuitivi. Conoscere intuitiva-mente nel modo come il Croce l’intende, fuori cioèd’ogni riferimento intellettuale, è come conoscere sol-tanto di vista qualcuno. Ora il Croce stesso dice che «èstato osservato da coloro che hanno meglio indagato lapsicologia degli artisti che, quando dal vedere consguardo rapido una persona ci si dispone ad intuirla dav-vero per farle, ad esempio, il ritratto, quella visione or-dinaria, che sembrava così vivace e precisa, si rivela perpoco men che nulla: ci si accorge di possedere tutt’alpiù qualche tratto superficiale, non bastevole neppureper un pupazzetto: la persona da ritrarsi si pone innanziall’artista come un mondo da scovrire». Che vuol dirquesto? Il Croce crede di rimanere, dicendo così, nelcampo intuitivo, indipendente da tutto il resto e anchedall’intellezione: non sospetta minimamente che ciò cheegli chiama intuir davvero implica ben altro che la sem-plice intuizione e anche un riferimento intellettuale, per-chè se io debbo fare il ritratto a uno, bisogna che lo pen-si anche e lo veda come un ritratto (non come il ritratto,astrattamente, si noti bene, ma come quel ritratto, il ri-tratto di quel dato individuo), bisogna, in altri termini,ch’io ne abbia l’idea.

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tivo musicale, le parole d’una lirica, ecc. siano o possa-no essere semplici fatti intuitivi, prima, e poisenz’ombra di riferimenti intellettuali. Si può dimostrareil contrario, dimostrare cioè che il chiaro di luna non ènè può essere ritratto dal pittore e un contorno di paesenon è nè può essere delineato da un cartografo finchè re-stano fatti semplicemente intuitivi. Conoscere intuitiva-mente nel modo come il Croce l’intende, fuori cioèd’ogni riferimento intellettuale, è come conoscere sol-tanto di vista qualcuno. Ora il Croce stesso dice che «èstato osservato da coloro che hanno meglio indagato lapsicologia degli artisti che, quando dal vedere consguardo rapido una persona ci si dispone ad intuirla dav-vero per farle, ad esempio, il ritratto, quella visione or-dinaria, che sembrava così vivace e precisa, si rivela perpoco men che nulla: ci si accorge di possedere tutt’alpiù qualche tratto superficiale, non bastevole neppureper un pupazzetto: la persona da ritrarsi si pone innanziall’artista come un mondo da scovrire». Che vuol dirquesto? Il Croce crede di rimanere, dicendo così, nelcampo intuitivo, indipendente da tutto il resto e anchedall’intellezione: non sospetta minimamente che ciò cheegli chiama intuir davvero implica ben altro che la sem-plice intuizione e anche un riferimento intellettuale, per-chè se io debbo fare il ritratto a uno, bisogna che lo pen-si anche e lo veda come un ritratto (non come il ritratto,astrattamente, si noti bene, ma come quel ritratto, il ri-tratto di quel dato individuo), bisogna, in altri termini,ch’io ne abbia l’idea.

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Certo l’idea non ha valore in arte se non quando si fasentimento, se non quando, dominatrice di tutto lo spiri-to, diviene quell’impulso che suscita le immagini capacidi darle espressione vivente. L’arte, non c’è dubbio, nonmuove da un’idea astratta, non deduce mediante il ra-gionamento le immagini che a quest’idea astratta possa-no servir da simbolo. Se talvolta lo fa, e ne abbiamo purtroppo tanti esempii nell’arte così detta simbolista, leopere ch’essa produce sono per questo soltanto condan-nate. Ma si deve dir forse con questo che l’intelletto nonha nulla da far con l’arte? L’idea non può essere assentedall’opera d’arte, ma dev’esser sempre, tutt’intera inquell’emozione feconda, ond’è creata. Erro dunque seper mezzo del ragionamento, cioè logicamente, la rea-lizzo in arte; non erro più però se la realizzo per mezzodella fantasia. Funzioni o potenze antitetiche, insomma,son fantasia e logica, non fantasia e intelletto: antiteti-che, ma non così nettamente separate e distinte da nonaver reciproca azione tra loro. Tanto è vero che ogniopera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d’arteè arte e scienza. Solo, come spontanea è l’arte nellascienza, così spontanea è la scienza nell’arte.

Già l’ispirazione, che è il movente iniziale della fan-tasia, è istintivamente ed essenzialmente logica cosìnell’arte come nella scienza.

Dalle combinazioni sintetiche e simultanee createspontaneamente dall’arte non può forse svolgere la criti-ca, col sussidio dell’analisi scientifica, tutti quei rapportirazionali e tutte quelle leggi che dimostrano come in

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Certo l’idea non ha valore in arte se non quando si fasentimento, se non quando, dominatrice di tutto lo spiri-to, diviene quell’impulso che suscita le immagini capacidi darle espressione vivente. L’arte, non c’è dubbio, nonmuove da un’idea astratta, non deduce mediante il ra-gionamento le immagini che a quest’idea astratta possa-no servir da simbolo. Se talvolta lo fa, e ne abbiamo purtroppo tanti esempii nell’arte così detta simbolista, leopere ch’essa produce sono per questo soltanto condan-nate. Ma si deve dir forse con questo che l’intelletto nonha nulla da far con l’arte? L’idea non può essere assentedall’opera d’arte, ma dev’esser sempre, tutt’intera inquell’emozione feconda, ond’è creata. Erro dunque seper mezzo del ragionamento, cioè logicamente, la rea-lizzo in arte; non erro più però se la realizzo per mezzodella fantasia. Funzioni o potenze antitetiche, insomma,son fantasia e logica, non fantasia e intelletto: antiteti-che, ma non così nettamente separate e distinte da nonaver reciproca azione tra loro. Tanto è vero che ogniopera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d’arteè arte e scienza. Solo, come spontanea è l’arte nellascienza, così spontanea è la scienza nell’arte.

Già l’ispirazione, che è il movente iniziale della fan-tasia, è istintivamente ed essenzialmente logica cosìnell’arte come nella scienza.

Dalle combinazioni sintetiche e simultanee createspontaneamente dall’arte non può forse svolgere la criti-ca, col sussidio dell’analisi scientifica, tutti quei rapportirazionali e tutte quelle leggi che dimostrano come in

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ogni arte sia inclusa una scienza, non riflessa, ma istinti-va; rapporti, leggi che vivono nell’istinto degli artisti, ea cui l’arte obbedisce senza neppure averne il sospetto?

Per quanto libera, per quanto in apparenza indipen-dente da ogni regola, essa ha pur sempre una sua logica,non già immessa e aggiustata da fuori, come un conge-gno apparecchiato innanzi, ma ingenita, mobile, com-plessa.

L’armonia d’ogni opera d’arte può essere scompostadalla critica, per mezzo dell’analisi, in rapporti intelligi-bili; e in quest’armonia la critica può scorgere unascienza, un insieme di leggi complesse, di calcoli senzafine, che l’artista ha concentrato nella sua azione spon-tanea. Tutte le osservazioni di lui si rivelano, appaionopenetrate d’intelligenza; il suo piacere è uno strumentodi precisione che calcola senza saperlo.

Ecco qua un esempio, il primo che mi cade in mente.La metrica italiana non suole tener conto della maggioreo minor lunghezza delle sillabe; eppure è certo che nontutte le sillabe nella lingua nostra si pronunziano in untempo uguale. Lo dimostrò matematicamente il Fracca-roli applicando alla lingua nostra il ragionamento fattodal Westphal per la lingua greca: tanto più lunga è unavocale quante più consonanti le stanno innanzi o indie-tro. La metrica classica teneva conto della lunghezza perposizione; ma, divise le sillabe in lunghe e brevi, nonbadava poi alle ulteriori differenze. Similmente la metri-ca nostra, stabilita per tutte le sillabe una quantità sola,non tien conto nella teoria ritmica delle differenze acci-

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ogni arte sia inclusa una scienza, non riflessa, ma istinti-va; rapporti, leggi che vivono nell’istinto degli artisti, ea cui l’arte obbedisce senza neppure averne il sospetto?

Per quanto libera, per quanto in apparenza indipen-dente da ogni regola, essa ha pur sempre una sua logica,non già immessa e aggiustata da fuori, come un conge-gno apparecchiato innanzi, ma ingenita, mobile, com-plessa.

L’armonia d’ogni opera d’arte può essere scompostadalla critica, per mezzo dell’analisi, in rapporti intelligi-bili; e in quest’armonia la critica può scorgere unascienza, un insieme di leggi complesse, di calcoli senzafine, che l’artista ha concentrato nella sua azione spon-tanea. Tutte le osservazioni di lui si rivelano, appaionopenetrate d’intelligenza; il suo piacere è uno strumentodi precisione che calcola senza saperlo.

Ecco qua un esempio, il primo che mi cade in mente.La metrica italiana non suole tener conto della maggioreo minor lunghezza delle sillabe; eppure è certo che nontutte le sillabe nella lingua nostra si pronunziano in untempo uguale. Lo dimostrò matematicamente il Fracca-roli applicando alla lingua nostra il ragionamento fattodal Westphal per la lingua greca: tanto più lunga è unavocale quante più consonanti le stanno innanzi o indie-tro. La metrica classica teneva conto della lunghezza perposizione; ma, divise le sillabe in lunghe e brevi, nonbadava poi alle ulteriori differenze. Similmente la metri-ca nostra, stabilita per tutte le sillabe una quantità sola,non tien conto nella teoria ritmica delle differenze acci-

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dentali o naturali. Eppure è certo che le consonanti al-lungano le sillabe e che le sillabe lunghe ritardano il rit-mo. Ora il poeta può non sapere questa legge, che la cri-tica scopre per spiegar l’efficacia di certi versi il cui rit-mo evidentemente è ritardato per queste lunghezze acci-dentali; come ad esempio il ritmo anapestico del verso:

aspra stride la ruota del carro

eppure egli, il poeta, istintivamente, volendo renderl’impaccio, lo stento di quella ruota di carro, obbediva aquesta legge.

E quante volte l’arte non precede la scienza che purcontiene in sè naturalmente, non riassume nelle sue ope-re tante e tante leggi svolte poi lentamente, dopo lungo epaziente studio, dall’analisi scientifica!

Come l’azione sintetica del genio spontanea si trovanella scienza, opera del pensiero riflesso, così nell’operad’arte, libera creazione, si trova inclusa una scienza cheignora sè stessa. La logica che qui è istintiva, là è rifles-sa; la fantasia che qua è cosciente è là incosciente.

Chi non s’accontenta più d’un giudizio su le opered’arte fondato soltanto o quasi del tutto su gli effetti cheessa produce su la sensibilità relativa e vuole spiegarsile riposte ragioni della loro efficacia possente, deve purricorrere a questa critica che ci pone in grado di intrave-dere almeno tali ragioni: quella scienza che l’artistaspontaneamente concentrava in quelle espressionid’arte.

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dentali o naturali. Eppure è certo che le consonanti al-lungano le sillabe e che le sillabe lunghe ritardano il rit-mo. Ora il poeta può non sapere questa legge, che la cri-tica scopre per spiegar l’efficacia di certi versi il cui rit-mo evidentemente è ritardato per queste lunghezze acci-dentali; come ad esempio il ritmo anapestico del verso:

aspra stride la ruota del carro

eppure egli, il poeta, istintivamente, volendo renderl’impaccio, lo stento di quella ruota di carro, obbediva aquesta legge.

E quante volte l’arte non precede la scienza che purcontiene in sè naturalmente, non riassume nelle sue ope-re tante e tante leggi svolte poi lentamente, dopo lungo epaziente studio, dall’analisi scientifica!

Come l’azione sintetica del genio spontanea si trovanella scienza, opera del pensiero riflesso, così nell’operad’arte, libera creazione, si trova inclusa una scienza cheignora sè stessa. La logica che qui è istintiva, là è rifles-sa; la fantasia che qua è cosciente è là incosciente.

Chi non s’accontenta più d’un giudizio su le opered’arte fondato soltanto o quasi del tutto su gli effetti cheessa produce su la sensibilità relativa e vuole spiegarsile riposte ragioni della loro efficacia possente, deve purricorrere a questa critica che ci pone in grado di intrave-dere almeno tali ragioni: quella scienza che l’artistaspontaneamente concentrava in quelle espressionid’arte.

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II.Un critico fantastico

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II.Un critico fantastico

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I.

È nota a tutti, forse, l’avventura di quel povero cam-pagnuolo, il quale, avendo sentito dire dal parroco, chenon poteva leggere perchè aveva lasciato a casa gli oc-chiali, alzò l’ingegno e concepi la peregrina idea che ilsaper leggere dipendesse dall’avere un pajo d’occhiali.E il pover’uomo se ne venne in città ed entrò in una bot-tega d’occhialajo, domandando:

– Occhiali per leggere!Ma poichè nessun pajo d’occhiali riusciva a far legge-

re il pover’uomo, l’occhialajo, alla fine spazientito, su-dato e sbuffante, dopo aver buttato giù mezza bottega,gli domandò:

– Ma, insomma, sapete leggere?Al che, meravigliato, il campagnuolo:– Oh bella! E se sapessi leggere, sarei venuto da voi?Orbene: di questa ingenua meraviglia del pover’uomo

di campagna dovrebbero avere il coraggio e la franchez-za tutti coloro che, non avendo nè un proprio pensieronè un proprio sentimento, credono che per comporre unlibro, o di prosa o di versi, basti semplicemente mettersia scrivere a modo d’un altro. Alla domanda: – «Ma, in-somma, avete qualcosa di proprio vostro da dirci?» –dovrebbero avere il coraggio e la franchezza di rispon-

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I.

È nota a tutti, forse, l’avventura di quel povero cam-pagnuolo, il quale, avendo sentito dire dal parroco, chenon poteva leggere perchè aveva lasciato a casa gli oc-chiali, alzò l’ingegno e concepi la peregrina idea che ilsaper leggere dipendesse dall’avere un pajo d’occhiali.E il pover’uomo se ne venne in città ed entrò in una bot-tega d’occhialajo, domandando:

– Occhiali per leggere!Ma poichè nessun pajo d’occhiali riusciva a far legge-

re il pover’uomo, l’occhialajo, alla fine spazientito, su-dato e sbuffante, dopo aver buttato giù mezza bottega,gli domandò:

– Ma, insomma, sapete leggere?Al che, meravigliato, il campagnuolo:– Oh bella! E se sapessi leggere, sarei venuto da voi?Orbene: di questa ingenua meraviglia del pover’uomo

di campagna dovrebbero avere il coraggio e la franchez-za tutti coloro che, non avendo nè un proprio pensieronè un proprio sentimento, credono che per comporre unlibro, o di prosa o di versi, basti semplicemente mettersia scrivere a modo d’un altro. Alla domanda: – «Ma, in-somma, avete qualcosa di proprio vostro da dirci?» –dovrebbero avere il coraggio e la franchezza di rispon-

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dere: – «Oh bella! E se avessimo qualcosa di proprionostro da dire, scriveremmo forse così, a modo d’un al-tro?»

Ma comprendo che questo sarebbe veramente unchieder troppo. Basterebbe forse che, almeno, questi talinon s’indispettissero tanto, allorchè qualcuno fa notarloro, pacatamente, che nessuno vieta, è vero, l’eserciziodi scrivere o di trascrivere in una certa maniera, ma chequesto esercizio significa, che non si hanno occhi pro-prii, bensì un paio d’occhiali tolti in prestito altrui.

È stato detto che la facoltà imitativa nella natura delnostro ingegno è superiore all’inventiva, che tutta quan-ta la storia della nostra letteratura non è altro, in fondo,che un perpetuo avvicendarsi di maniere imitate, e che –insomma – cercando in essa si trovano certo moltissimiocchiali e pochissimi occhi, i quali tuttavia non isdegna-rono spesso, anzi ebbero in pregio di munirsi d’antichelenti classiche per vedere a modo di Virgilio o di Orazioo di Ovidio o di Cicerone, che a lor volta avevano vedu-to a modo dei Greci. Ma questi ausilii visivi erano alme-no fabbricati in casa nostra, da monna Retorica, che ten-ne sempre da noi bottega d’occhiali; e questi passaronoda un naso all’altro per parecchie generazioni di nasi,finchè all’improvviso non sorse il grido: – «Signori,proviamoci un po’ a guardare con gli occhi nostri!» – Sitentò, ma – ahimè – non si riuscì a veder nulla. E comin-ciò allora l’importazione degli occhiali stranieri.

Storia vecchia! E non ne avrei fatto parola, se vera-mente oggi non fossimo arrivati a tal punto che, per en-

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dere: – «Oh bella! E se avessimo qualcosa di proprionostro da dire, scriveremmo forse così, a modo d’un al-tro?»

Ma comprendo che questo sarebbe veramente unchieder troppo. Basterebbe forse che, almeno, questi talinon s’indispettissero tanto, allorchè qualcuno fa notarloro, pacatamente, che nessuno vieta, è vero, l’eserciziodi scrivere o di trascrivere in una certa maniera, ma chequesto esercizio significa, che non si hanno occhi pro-prii, bensì un paio d’occhiali tolti in prestito altrui.

È stato detto che la facoltà imitativa nella natura delnostro ingegno è superiore all’inventiva, che tutta quan-ta la storia della nostra letteratura non è altro, in fondo,che un perpetuo avvicendarsi di maniere imitate, e che –insomma – cercando in essa si trovano certo moltissimiocchiali e pochissimi occhi, i quali tuttavia non isdegna-rono spesso, anzi ebbero in pregio di munirsi d’antichelenti classiche per vedere a modo di Virgilio o di Orazioo di Ovidio o di Cicerone, che a lor volta avevano vedu-to a modo dei Greci. Ma questi ausilii visivi erano alme-no fabbricati in casa nostra, da monna Retorica, che ten-ne sempre da noi bottega d’occhiali; e questi passaronoda un naso all’altro per parecchie generazioni di nasi,finchè all’improvviso non sorse il grido: – «Signori,proviamoci un po’ a guardare con gli occhi nostri!» – Sitentò, ma – ahimè – non si riuscì a veder nulla. E comin-ciò allora l’importazione degli occhiali stranieri.

Storia vecchia! E non ne avrei fatto parola, se vera-mente oggi non fossimo arrivati a tal punto che, per en-

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trare nel favore del pubblico, non giovi tanto avere unpajo d’occhi proprii, quanto esser forniti d’un pajod’occhiali altrui, i quali faccian vedere gli uomini e lavita di una certa maniera e di un dato colore, cioè secon-do la moda. Guai a chi sdegni e ricusi d’inforcarseli, achi si ostini a voler guardare uomini e vita a suo modo,da un suo proprio lato; il suo vedere, se semplice, saràdetto nudo, e se sincero, volgare.

E il bello tuttavia è questo, che appunto coloro chehan gli occhiali e non se n’avvedono (o fingono di nonavvedersene) predicano che in arte bisogna assoluta-mente aver occhi proprii e intanto dànno addosso a chi,bene o male, se ne serve. Perchè – intendiamoci – occhiproprii sì; ma debbono essere e vedere in tutto e per tut-to come gli occhi loro, che invece poi sono occhiali, tan-to che, se cascano, felice notte!

Questi occhiali si comprano, è ovvio dirlo, a Parigi:mercato, per tal genere di merci, soltanto da poco inter-nazionale. Pare che le più rinomate fabbriche francesisiano ora in decadenza, e che anzi più d’una abbia per-duto ogni credito. Degli occhiali o meglio dei monocolidella fabbrica Bourget-Stendhal et Cie., qualcuno, èvero, dei nostri letterati si serve tuttora; ma gli altri chesi servono altrove, non tralasciano alcuna occasione perfargli notare ch’egli ci si sciupa la vista e che sarebbetempo di provvedersi altrove anche lui. Un pajo di lenticritiche fino a poco tempo fa raccomandate per la lorovirtù, diciamo così, idealizzatrice, furono quelle dellaDitta Brunetière. Più voga senza dubbio hanno oggi le

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trare nel favore del pubblico, non giovi tanto avere unpajo d’occhi proprii, quanto esser forniti d’un pajod’occhiali altrui, i quali faccian vedere gli uomini e lavita di una certa maniera e di un dato colore, cioè secon-do la moda. Guai a chi sdegni e ricusi d’inforcarseli, achi si ostini a voler guardare uomini e vita a suo modo,da un suo proprio lato; il suo vedere, se semplice, saràdetto nudo, e se sincero, volgare.

E il bello tuttavia è questo, che appunto coloro chehan gli occhiali e non se n’avvedono (o fingono di nonavvedersene) predicano che in arte bisogna assoluta-mente aver occhi proprii e intanto dànno addosso a chi,bene o male, se ne serve. Perchè – intendiamoci – occhiproprii sì; ma debbono essere e vedere in tutto e per tut-to come gli occhi loro, che invece poi sono occhiali, tan-to che, se cascano, felice notte!

Questi occhiali si comprano, è ovvio dirlo, a Parigi:mercato, per tal genere di merci, soltanto da poco inter-nazionale. Pare che le più rinomate fabbriche francesisiano ora in decadenza, e che anzi più d’una abbia per-duto ogni credito. Degli occhiali o meglio dei monocolidella fabbrica Bourget-Stendhal et Cie., qualcuno, èvero, dei nostri letterati si serve tuttora; ma gli altri chesi servono altrove, non tralasciano alcuna occasione perfargli notare ch’egli ci si sciupa la vista e che sarebbetempo di provvedersi altrove anche lui. Un pajo di lenticritiche fino a poco tempo fa raccomandate per la lorovirtù, diciamo così, idealizzatrice, furono quelle dellaDitta Brunetière. Più voga senza dubbio hanno oggi le

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lenti di vario genere che le fabbriche estere del vicinoBelgio, della Scandinavia, della Russia, della Germaniadepositano nel mercato di Francia: e di queste in piùgran copia si provvedono i nostri letterati, i quali peròhanno cura d’innestar nei cerchietti due vetri diversi:uno russo, poniamo, e uno francese: oppure in un occhioNietzsche biconcavo e Ibsen biconvesso nell’altro.

Il male proviene da questo: che noi, per quanto si vo-glia credere il contrario, siamo ancora dominati dallaRetorica e seguiamo tuttavia, senza avvedercene, le sueregole e i suoi precetti, non in letteratura soltanto, maanche in tutte le espressioni della nostra vita: Retorica eimitazione sono, in fondo, una cosa sola.

E i danni che essa cagionò in ogni tempo non sola-mente alla letteratura nostra, ma prima anche alla latinae quindi, o più o meno, a tutte le letterature romanze,sono incalcolabili. Il retore quasi sempre insegnò da noial poeta secondo quali norme, secondo quali precettiegli dovesse costruire l’opera d’arte, come se l’operad’arte fosse un ragionamento. E appunto alla Retorica sideve se tutte o quasi le opere della nostra letteraturahanno, nella loro paziente diligenza, nella loro rigorosacompostezza, un’aria di famiglia, che sconsola. Non cisono come nella letteratura inglese, ad esempio, tra unautore e l’altro, abissi d’anima, originalità perspicue diforme, di vedute, di concezioni. Quasi tutta la letteraturanostra sta come in un casellario: nel casellario della Re-torica: qua le commedie che – fino al Goldoni – si somi-gliano tutte: commedie d’imitazione classica e comme-

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lenti di vario genere che le fabbriche estere del vicinoBelgio, della Scandinavia, della Russia, della Germaniadepositano nel mercato di Francia: e di queste in piùgran copia si provvedono i nostri letterati, i quali peròhanno cura d’innestar nei cerchietti due vetri diversi:uno russo, poniamo, e uno francese: oppure in un occhioNietzsche biconcavo e Ibsen biconvesso nell’altro.

Il male proviene da questo: che noi, per quanto si vo-glia credere il contrario, siamo ancora dominati dallaRetorica e seguiamo tuttavia, senza avvedercene, le sueregole e i suoi precetti, non in letteratura soltanto, maanche in tutte le espressioni della nostra vita: Retorica eimitazione sono, in fondo, una cosa sola.

E i danni che essa cagionò in ogni tempo non sola-mente alla letteratura nostra, ma prima anche alla latinae quindi, o più o meno, a tutte le letterature romanze,sono incalcolabili. Il retore quasi sempre insegnò da noial poeta secondo quali norme, secondo quali precettiegli dovesse costruire l’opera d’arte, come se l’operad’arte fosse un ragionamento. E appunto alla Retorica sideve se tutte o quasi le opere della nostra letteraturahanno, nella loro paziente diligenza, nella loro rigorosacompostezza, un’aria di famiglia, che sconsola. Non cisono come nella letteratura inglese, ad esempio, tra unautore e l’altro, abissi d’anima, originalità perspicue diforme, di vedute, di concezioni. Quasi tutta la letteraturanostra sta come in un casellario: nel casellario della Re-torica: qua le commedie che – fino al Goldoni – si somi-gliano tutte: commedie d’imitazione classica e comme-

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die dell’arte: qua i poemi cavallereschi, e via dicendo. –È stato sempre un gran tormento pe’ retori la DivinaCommedia. In quale casella determinata allogarla? È li-rica, epica, drammatica, didascalica? Bisognerebbespezzettarla e distribuirla un po’ da per tutto, nelle variecaselle. – E tutte le narrazioni, anche dei fatti più varii ediversi, e tutte le descrizioni, varie anch’esse e di tempoe di luogo, par che si somiglino, perchè la Retorica ap-punto insegnava come si dovesse narrare e come descri-vere, così in genere, e come architettare i periodi, i pe-riodi numerosi ciceroniani. Ma se la Retorica arrivavafinanche a insegnare ai poeti come dovessero esprimereil sentimento d’amore, come dovessero amare in versi...Ma sì! Tutti a modo dei Provenzali, prima, che dettaronle Leggi d’amore, e tutti a modo del Petrarca poi, che nefu il maggiore erede. E per tanti secoli della nostra lette-ratura noi assistiamo alla sfilata d’un innumerevole ar-mento di scimmie innamorate che vanno, sospirose, inpellegrinaggio alle chiare, fresche e dolci acque del can-tore di Laura.

Essa, la Retorica, non solo consentiva, ma consigliaval’imitazione d’ogni modello che fosse per lei divenutoclassico. Ed imitare era pregio ed onore per ogni scritto-re, attestato di buoni studii, di buona educazione lettera-ria, d’obbedienza devota alle norme scolastiche, ai pre-cetti del bello, anzi del bello, del buono, del vero: imita-re, non avere cioè un modo proprio di vedere, di pensa-re, di sentire: pregio ed onore.

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die dell’arte: qua i poemi cavallereschi, e via dicendo. –È stato sempre un gran tormento pe’ retori la DivinaCommedia. In quale casella determinata allogarla? È li-rica, epica, drammatica, didascalica? Bisognerebbespezzettarla e distribuirla un po’ da per tutto, nelle variecaselle. – E tutte le narrazioni, anche dei fatti più varii ediversi, e tutte le descrizioni, varie anch’esse e di tempoe di luogo, par che si somiglino, perchè la Retorica ap-punto insegnava come si dovesse narrare e come descri-vere, così in genere, e come architettare i periodi, i pe-riodi numerosi ciceroniani. Ma se la Retorica arrivavafinanche a insegnare ai poeti come dovessero esprimereil sentimento d’amore, come dovessero amare in versi...Ma sì! Tutti a modo dei Provenzali, prima, che dettaronle Leggi d’amore, e tutti a modo del Petrarca poi, che nefu il maggiore erede. E per tanti secoli della nostra lette-ratura noi assistiamo alla sfilata d’un innumerevole ar-mento di scimmie innamorate che vanno, sospirose, inpellegrinaggio alle chiare, fresche e dolci acque del can-tore di Laura.

Essa, la Retorica, non solo consentiva, ma consigliaval’imitazione d’ogni modello che fosse per lei divenutoclassico. Ed imitare era pregio ed onore per ogni scritto-re, attestato di buoni studii, di buona educazione lettera-ria, d’obbedienza devota alle norme scolastiche, ai pre-cetti del bello, anzi del bello, del buono, del vero: imita-re, non avere cioè un modo proprio di vedere, di pensa-re, di sentire: pregio ed onore.

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Ma perchè scrivere allora? perchè ridire con voce mi-nore ciò che altri ha detto con maggior voce? esser om-bra e non persona? aver dentro un pappagallo invece diun’anima?

Nè si smette ancora, pur troppo! Prima si imitavano iclassici e ora gli stranieri. E ancora, di tanto in tanto,sentiamo levarsi una voce che ci consiglia di ritornareall’antico, come se l’arte e la letteratura si possano rin-novare invecchiandole, riportandole cioè e adattandole agl’ideali e ai bisogni della vita d’una età ormai lontana;come se gli antichi – e lo disse già il Goethe – non fos-sero stati nuovi nel tempo in cui vissero, e noi non cicondannassimo ad esser vecchi imitandoli; come se chiimita non neghi sè stesso e non rimanga per necessità unpasso indietro alla propria guida, e come se infine nonfosse meglio affermare comunque il proprio sentimento,la propria vita. E ancora, oggi, nelle nostre disquisizioni,che vogliono esser critiche, sentiamo parlar di forma edi contenuto, come se la forma fosse un abito, o più omeno elegante, o più o meno tagliato alla moda, o distoffa più o meno fina, da vestirne un manichino; es’accendono dispute, ad esempio, intorno al teatro chenoi non possiamo avere perchè ci manca una linguaviva, ecc. ecc.: disquisizioni, dispute vecchie e vane,che fece in ogni tempo la Retorica, e che si farannosempre, finchè non s’intenderà che non bisogna partireda leggi esterne a cui l’opera d’arte dovrebbe esser sog-getta, ma scoprire la legge che ciascun’opera d’arte hain sè necessariamente; la legge che la determina e le dà

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Ma perchè scrivere allora? perchè ridire con voce mi-nore ciò che altri ha detto con maggior voce? esser om-bra e non persona? aver dentro un pappagallo invece diun’anima?

Nè si smette ancora, pur troppo! Prima si imitavano iclassici e ora gli stranieri. E ancora, di tanto in tanto,sentiamo levarsi una voce che ci consiglia di ritornareall’antico, come se l’arte e la letteratura si possano rin-novare invecchiandole, riportandole cioè e adattandole agl’ideali e ai bisogni della vita d’una età ormai lontana;come se gli antichi – e lo disse già il Goethe – non fos-sero stati nuovi nel tempo in cui vissero, e noi non cicondannassimo ad esser vecchi imitandoli; come se chiimita non neghi sè stesso e non rimanga per necessità unpasso indietro alla propria guida, e come se infine nonfosse meglio affermare comunque il proprio sentimento,la propria vita. E ancora, oggi, nelle nostre disquisizioni,che vogliono esser critiche, sentiamo parlar di forma edi contenuto, come se la forma fosse un abito, o più omeno elegante, o più o meno tagliato alla moda, o distoffa più o meno fina, da vestirne un manichino; es’accendono dispute, ad esempio, intorno al teatro chenoi non possiamo avere perchè ci manca una linguaviva, ecc. ecc.: disquisizioni, dispute vecchie e vane,che fece in ogni tempo la Retorica, e che si farannosempre, finchè non s’intenderà che non bisogna partireda leggi esterne a cui l’opera d’arte dovrebbe esser sog-getta, ma scoprire la legge che ciascun’opera d’arte hain sè necessariamente; la legge che la determina e le dà

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carattere, la legge insomma della propria vita, sequest’opera d’arte è veramente vitale, legge che non puòessere arbitraria, per quanto libera o capricciosa possaapparire; e finchè non si considererà l’opera della fanta-sia come opera di natura, come creazione organica e vi-vente e, come tale, non se ne studieranno la nascita, losviluppo, ed i caratteri; finchè non si vedrà in lei la natu-ra stessa che si serve dello strumento della fantasia uma-na per creare un’opera superiore, più perfetta, perchèscevra di tutte le parti comuni, ovvie, caduche, più de-terminata, semplificata, vivente solo nella sua idealitàessenziale. D’arte astrattamente non si può parlare, inquanto che l’essenza dell’arte è nella particolarità; e lacritica può esercitarvisi a un solo patto, a patto cioè cheessa penetri a volta a volta nell’intimo dell’artista, a pat-to che indovini e scopra in ciascun’opera d’arte il germeda cui essa è nata e si è sviluppata, dati il temperamento,le condizioni, l’educazione, la natura insomma, la coltu-ra e il temperamento dell’artista, che rappresentano qua-si il terreno in cui quel germe è caduto e il clima el’ambiente in cui si è sviluppato.

Mancano due cose, segnatamente, e capitalissime allanostra letteratura contemporanea: la Critica ed il Carat-tere.

Doppia ragione, dunque, di rimpianto abbiamo noiper la immatura morte di uno scrittore, che queste duedoti – critica e carattere – ebbe in sommo grado: AlbertoCantoni.

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carattere, la legge insomma della propria vita, sequest’opera d’arte è veramente vitale, legge che non puòessere arbitraria, per quanto libera o capricciosa possaapparire; e finchè non si considererà l’opera della fanta-sia come opera di natura, come creazione organica e vi-vente e, come tale, non se ne studieranno la nascita, losviluppo, ed i caratteri; finchè non si vedrà in lei la natu-ra stessa che si serve dello strumento della fantasia uma-na per creare un’opera superiore, più perfetta, perchèscevra di tutte le parti comuni, ovvie, caduche, più de-terminata, semplificata, vivente solo nella sua idealitàessenziale. D’arte astrattamente non si può parlare, inquanto che l’essenza dell’arte è nella particolarità; e lacritica può esercitarvisi a un solo patto, a patto cioè cheessa penetri a volta a volta nell’intimo dell’artista, a pat-to che indovini e scopra in ciascun’opera d’arte il germeda cui essa è nata e si è sviluppata, dati il temperamento,le condizioni, l’educazione, la natura insomma, la coltu-ra e il temperamento dell’artista, che rappresentano qua-si il terreno in cui quel germe è caduto e il clima el’ambiente in cui si è sviluppato.

Mancano due cose, segnatamente, e capitalissime allanostra letteratura contemporanea: la Critica ed il Carat-tere.

Doppia ragione, dunque, di rimpianto abbiamo noiper la immatura morte di uno scrittore, che queste duedoti – critica e carattere – ebbe in sommo grado: AlbertoCantoni.

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II.

Eppure ben pochi della nostra stampa, anche lettera-ria, rilevarono ciò che più importava rilevare in questaperdita dolorosa: la scomparsa cioè di una individualitàveramente caratteristica. Di tali individualità noi non ab-biamo oggi, pur troppo, abbondanza; ma Alberto Canto-ni fu d’indole schiva; visse sempre appartato; non vollemai partecipare apertamente alle così dette battaglie let-terarie; ebbe il pudore dell’arte sua intima e schietta, e –per quanto fra sè e con gli amici si lamentassedell’indifferenza dei lettori – proibì sempre a chi glistampava i libri che facesse anche il più lieve scampanioattorno ad essi.

Come poteva dunque esser notata secondo la sua veraimportanza tale scomparsa, quand’egli stesso, finchèvisse, se ne volle dar sempre così poca agli occhi altrui?Ed egli sapeva pur bene che la letteratura contempora-nea è divenuta come una fiera, ove ciascuno si sforza dimetter su, quanto più stranamente gli riesca, la propriabaracca, innanzi alla quale chiama i compiacenti amici,perchè invitino, gridando, il pubblico a fermarsi e adammirare. Dignitoso ed austero, egli, che senza stranez-ze esteriori, senza bizzarrie volute, senza capricci appa-riscenti, avrebbe pure avuto da esporre cose veramentenuove ed originali, non volle crescere a questa fieraun’altra baracca. Non sapeva nè berciare nè improvvisa-re. I suoi libri sono composti di materiali lentamente

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II.

Eppure ben pochi della nostra stampa, anche lettera-ria, rilevarono ciò che più importava rilevare in questaperdita dolorosa: la scomparsa cioè di una individualitàveramente caratteristica. Di tali individualità noi non ab-biamo oggi, pur troppo, abbondanza; ma Alberto Canto-ni fu d’indole schiva; visse sempre appartato; non vollemai partecipare apertamente alle così dette battaglie let-terarie; ebbe il pudore dell’arte sua intima e schietta, e –per quanto fra sè e con gli amici si lamentassedell’indifferenza dei lettori – proibì sempre a chi glistampava i libri che facesse anche il più lieve scampanioattorno ad essi.

Come poteva dunque esser notata secondo la sua veraimportanza tale scomparsa, quand’egli stesso, finchèvisse, se ne volle dar sempre così poca agli occhi altrui?Ed egli sapeva pur bene che la letteratura contempora-nea è divenuta come una fiera, ove ciascuno si sforza dimetter su, quanto più stranamente gli riesca, la propriabaracca, innanzi alla quale chiama i compiacenti amici,perchè invitino, gridando, il pubblico a fermarsi e adammirare. Dignitoso ed austero, egli, che senza stranez-ze esteriori, senza bizzarrie volute, senza capricci appa-riscenti, avrebbe pure avuto da esporre cose veramentenuove ed originali, non volle crescere a questa fieraun’altra baracca. Non sapeva nè berciare nè improvvisa-re. I suoi libri sono composti di materiali lentamente

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raccolti, lungamente meditati, amorosamente studiati daogni lato. E non volle entrar mai a far parte di cricche odi conventicole. Geloso della sua libertà, che sapeva di-fendere, egli aveva scoperto presto che col suo nome sipoteva comporre l’anagramma: Nato con libertà. E vis-se quasi sempre in campagna o nella sua Mantova, don-de spesso si recava a piedi nei paesi vicini; vi cercava,per riposarsi, i più modesti caffè, nei quali trovava sem-pre conoscenti, anzi amici che si confidavano in lui;amava l’ingenuità e la schiettezza, amava di bere allefresche sorgive della vita e aveva una speciale predile-zione per le bambine; nè era raro il caso che partisse dicasa munito d’un libro di lettura per ragazzi o d’unabambola da regalare alle sue piccole amiche, che nonavevano paura delle sue lenti e del suo barbone, e loamavano; perchè egli, pure in mezzo alla penetrazioneed all’acutezza con le quali leggeva chiaro nell’animoaltrui, conservava un’ingenuità ed una freschezza disentimenti quasi infantile. E nelle conversazioni fatte inquei rustici ritrovi raccoglieva, senza parere, i materialipiù vivi pe’ suoi lavori futuri. In qualcuno di questi caf-feucci egli dovette senza dubbio trovare, per esempio,quella sua indimenticabile Domenichina, di Scaricalasi-no: Domenichina:

«– Nome allegro! – le dice Pio Paletti, l’eroe di que-sto racconto. – E mi parete bonaccia. O sbaglio?

«– Se sbaglia! Domandi anche ai bimbi innocenti etutti le diranno che io sono la più perfida persona dellaParrocchia. Non ho mai ammazzato nessuno, questo no;

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raccolti, lungamente meditati, amorosamente studiati daogni lato. E non volle entrar mai a far parte di cricche odi conventicole. Geloso della sua libertà, che sapeva di-fendere, egli aveva scoperto presto che col suo nome sipoteva comporre l’anagramma: Nato con libertà. E vis-se quasi sempre in campagna o nella sua Mantova, don-de spesso si recava a piedi nei paesi vicini; vi cercava,per riposarsi, i più modesti caffè, nei quali trovava sem-pre conoscenti, anzi amici che si confidavano in lui;amava l’ingenuità e la schiettezza, amava di bere allefresche sorgive della vita e aveva una speciale predile-zione per le bambine; nè era raro il caso che partisse dicasa munito d’un libro di lettura per ragazzi o d’unabambola da regalare alle sue piccole amiche, che nonavevano paura delle sue lenti e del suo barbone, e loamavano; perchè egli, pure in mezzo alla penetrazioneed all’acutezza con le quali leggeva chiaro nell’animoaltrui, conservava un’ingenuità ed una freschezza disentimenti quasi infantile. E nelle conversazioni fatte inquei rustici ritrovi raccoglieva, senza parere, i materialipiù vivi pe’ suoi lavori futuri. In qualcuno di questi caf-feucci egli dovette senza dubbio trovare, per esempio,quella sua indimenticabile Domenichina, di Scaricalasi-no: Domenichina:

«– Nome allegro! – le dice Pio Paletti, l’eroe di que-sto racconto. – E mi parete bonaccia. O sbaglio?

«– Se sbaglia! Domandi anche ai bimbi innocenti etutti le diranno che io sono la più perfida persona dellaParrocchia. Non ho mai ammazzato nessuno, questo no;

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ma tutti vanno d’accordo a dire che le mie chiacchieresono velenosissime.

«– Perchè?«– Perchè dico sempre la verità.«– Anche quando non ce n’è bisogno?«– Sempre. È una malattia. Come se avessi un cane

nella pancia che si mettesse ad abbaiare con la mia boc-ca. Ma ho i miei vantaggi. Ognuno mi detesta per quelche gli dico in faccia e ognuno mi vuol bene per quelche dico in faccia agli altri. E così, un poco amata, unpoco detestata secondo i momenti, non ho mai trovatochi mi voglia bene due giorni di seguito».

Se non forse il padre, che è uno scontroso tenebrone:il padre sì, la ama; ma sapete, perchè? Perchè Domeni-china, coi suoi discorsi, gli muove la bile; e questo gli fabene. Come un po’ a tutti, del resto. Quando Domeni-china va in collera, non ha paura neanche d’un leone, edice e fa dire quel che non va detto; ma ha, grazie a Dio,anche il fegato sano, Domenichina; e le passa così pre-sto! E tutti si sentono così leggeri appena facciano comelei. È come il sole, Domenichina. Brucia, ma fa schiu-mare gli umori della gente.

Scaricalasino è un libro di critica drammatica, comePietro e Paola con seguito di bei tipi è un libro di criticadell’arte narrativa. E Domenichina, che ha la malattiadella verità, con la quale brucia, ma fa schiumare gliumori della gente, rappresenta in Scaricalasino la Musacomica; come Paola, nell’altro libro, rappresenta laMusa dell’arte narrativa.

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ma tutti vanno d’accordo a dire che le mie chiacchieresono velenosissime.

«– Perchè?«– Perchè dico sempre la verità.«– Anche quando non ce n’è bisogno?«– Sempre. È una malattia. Come se avessi un cane

nella pancia che si mettesse ad abbaiare con la mia boc-ca. Ma ho i miei vantaggi. Ognuno mi detesta per quelche gli dico in faccia e ognuno mi vuol bene per quelche dico in faccia agli altri. E così, un poco amata, unpoco detestata secondo i momenti, non ho mai trovatochi mi voglia bene due giorni di seguito».

Se non forse il padre, che è uno scontroso tenebrone:il padre sì, la ama; ma sapete, perchè? Perchè Domeni-china, coi suoi discorsi, gli muove la bile; e questo gli fabene. Come un po’ a tutti, del resto. Quando Domeni-china va in collera, non ha paura neanche d’un leone, edice e fa dire quel che non va detto; ma ha, grazie a Dio,anche il fegato sano, Domenichina; e le passa così pre-sto! E tutti si sentono così leggeri appena facciano comelei. È come il sole, Domenichina. Brucia, ma fa schiu-mare gli umori della gente.

Scaricalasino è un libro di critica drammatica, comePietro e Paola con seguito di bei tipi è un libro di criticadell’arte narrativa. E Domenichina, che ha la malattiadella verità, con la quale brucia, ma fa schiumare gliumori della gente, rappresenta in Scaricalasino la Musacomica; come Paola, nell’altro libro, rappresenta laMusa dell’arte narrativa.

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E sono dunque due simboli? No. Son due personevive e vere. E voi, leggendo i due libri, non v’accorgetedella parte che esse, nella riposta intenzione dello scrit-tore, vi debbono rappresentare. Voi sapete di aver tramano due novelle critiche, perchè così appunto le intito-la l’autore; quasi a ogni pagina vi si parla e vi si discute,là d’arte drammatica, qua d’arte narrativa; ma la discus-sione letteraria non mortifica mai la creazione fantasti-ca, i personaggi che vi prendono parte; ciascuno ha lasua storia, un suo proprio corpo, di carne e d’ossa; e sonrappresentati con evidenza così trasparente, con tale ef-ficacia di tocchi, che voi li vedete vivi e spiranti innanzia voi; perchè Cantoni, come ho detto, raccoglieva dalvero i materiali dei suoi libri, e non impersonava mai,volutamente, le sue idee; ma dal, vero, dalla realtà, ve-duta, studiata, meditata, traeva il valore espressivo cheessa, secondo lui, poteva avere. La realtà restava imma-gine per lui, e il sentimento ch’essa gli destava, vivifica-va poi l’immagine stessa e dava valore espressivo allarappresentazione artistica ch’egli ne faceva. Il Cantoni,insomma, non pestava il fiore per cavarne l’essenzaodorosa, ma il fiore lasciava intatto e vivo, e ne racco-glieva delicatamente l’alito, cioè l’idealità essenziale esignificativa.

Ed è qui tutta la caratteristica di questo scrittore.Alberto Cantoni è, e vuol essere, in fondo, segnata-

mente un critico, ma un critico che non si serve dei pro-cedimenti della critica, bensì di quelli dell’arte. Alberto

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E sono dunque due simboli? No. Son due personevive e vere. E voi, leggendo i due libri, non v’accorgetedella parte che esse, nella riposta intenzione dello scrit-tore, vi debbono rappresentare. Voi sapete di aver tramano due novelle critiche, perchè così appunto le intito-la l’autore; quasi a ogni pagina vi si parla e vi si discute,là d’arte drammatica, qua d’arte narrativa; ma la discus-sione letteraria non mortifica mai la creazione fantasti-ca, i personaggi che vi prendono parte; ciascuno ha lasua storia, un suo proprio corpo, di carne e d’ossa; e sonrappresentati con evidenza così trasparente, con tale ef-ficacia di tocchi, che voi li vedete vivi e spiranti innanzia voi; perchè Cantoni, come ho detto, raccoglieva dalvero i materiali dei suoi libri, e non impersonava mai,volutamente, le sue idee; ma dal, vero, dalla realtà, ve-duta, studiata, meditata, traeva il valore espressivo cheessa, secondo lui, poteva avere. La realtà restava imma-gine per lui, e il sentimento ch’essa gli destava, vivifica-va poi l’immagine stessa e dava valore espressivo allarappresentazione artistica ch’egli ne faceva. Il Cantoni,insomma, non pestava il fiore per cavarne l’essenzaodorosa, ma il fiore lasciava intatto e vivo, e ne racco-glieva delicatamente l’alito, cioè l’idealità essenziale esignificativa.

Ed è qui tutta la caratteristica di questo scrittore.Alberto Cantoni è, e vuol essere, in fondo, segnata-

mente un critico, ma un critico che non si serve dei pro-cedimenti della critica, bensì di quelli dell’arte. Alberto

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Cantoni è un critico fantastico. dunque, un umorista. Mispiego.

Son già note a tutti le definizioni che finora si sondate dell’umorismo: quella che comunemente si dà inFrancia: «L’arte di rappresentar comicamente le cosetragiche e tragicamente le cose comiche»; quella un po’troppo vaga e, per dir così, bonaria, che ne diede il Nen-cioni: «Una naturale disposizione del cuore e della men-te a osservare con simpatica indulgenza le contradizionie le assurdità della vita»; l’altra del Bonghi, più acuta ecomprensiva: «Un’acre disposizione dello spirito a sco-prire ed esprimere il ridicolo del serio e il serio del ridi-colo umano». Ma queste e altre definizioni sono superfi-ciali, esteriori; come esteriori e superficiali sono le con-siderazioni che si sogliono fare intorno agli effetti or co-mici, or drammatici, or satirici, or burleschi dell’umori-smo. Per spiegarci chiaramente il fenomeno di questaespressione d’arte, non dobbiamo guardare i fatti giàespressi, svariatissimi, per cavarne una conclusione opiù o meno arbitraria; ma dobbiamo scoprirne la radice,penetrando nell’intimo dello scrittore umorista, primach’egli crei un corpo d’immagini alla sua concezione.Ordinariamente, l’opera d’arte è creata dal libero movi-mento della vita interiore che organa le idee e le imma-gini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi hancorrispondenza tra loro e con l’idea–madre che le coor-dina. La volontà e la riflessione, durante la concezione,come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non sonoinattive. La volontà, per esempio, arricchendo, vivifi-

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Cantoni è un critico fantastico. dunque, un umorista. Mispiego.

Son già note a tutti le definizioni che finora si sondate dell’umorismo: quella che comunemente si dà inFrancia: «L’arte di rappresentar comicamente le cosetragiche e tragicamente le cose comiche»; quella un po’troppo vaga e, per dir così, bonaria, che ne diede il Nen-cioni: «Una naturale disposizione del cuore e della men-te a osservare con simpatica indulgenza le contradizionie le assurdità della vita»; l’altra del Bonghi, più acuta ecomprensiva: «Un’acre disposizione dello spirito a sco-prire ed esprimere il ridicolo del serio e il serio del ridi-colo umano». Ma queste e altre definizioni sono superfi-ciali, esteriori; come esteriori e superficiali sono le con-siderazioni che si sogliono fare intorno agli effetti or co-mici, or drammatici, or satirici, or burleschi dell’umori-smo. Per spiegarci chiaramente il fenomeno di questaespressione d’arte, non dobbiamo guardare i fatti giàespressi, svariatissimi, per cavarne una conclusione opiù o meno arbitraria; ma dobbiamo scoprirne la radice,penetrando nell’intimo dello scrittore umorista, primach’egli crei un corpo d’immagini alla sua concezione.Ordinariamente, l’opera d’arte è creata dal libero movi-mento della vita interiore che organa le idee e le imma-gini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi hancorrispondenza tra loro e con l’idea–madre che le coor-dina. La volontà e la riflessione, durante la concezione,come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non sonoinattive. La volontà, per esempio, arricchendo, vivifi-

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cando lo spirito col lavoro, prepara l’opera prima che siaconcepita; poi, con le dolorose impazienze, con la in-quietudine, con l’ostinazione, agita lo spirito attornoall’idea e rende possibili quelle ore di vera gioja, in cuitutto pare che si faccia da sè. La riflessione, dal cantosuo, assiste al nascere e al crescere dell’opera d’arte, nesegue le fasi progressive e ne gode, raccosta i varii ele-menti, li coordina, li compara.

La coscienza non rischiara tutto lo spirito; segnata-mente per l’artista, essa non è un lume distinto dal pen-siero, che permetta alla volontà di attingere in lei comein un tesoro d’immagini e d’idee. La coscienza, insom-ma, non è una potenza creatrice; ma lo specchio interio-re in cui il pensiero si rimira; si può dire anzi ch’essa siail pensiero che vede sè stesso assistendo a quelloch’esso fa spontaneamente. E d’ordinario, nell’artista,nel momento della concezione, la riflessione si nascon-de, resta, per così dire, invisibile: è, quasi, per l’artistauna forma del sentimento. Man mano che l’opera si fa,essa la critica, non freddamente, come farebbe un giudi-ce spassionato, analizzandola; ma d’un tratto, mercèl’impressione che ne riceve. Questo, ripeto, ordinaria-mente. Nell’umorista, invece, la riflessione assume unaparte più importante; non si nasconde, nè resta invisibi-le; diventa anch’essa potenza creatrice. Perchè la conce-zione, in ogni vero umorista, si sdoppia, assegna unaparte al sentimento, una parte alla riflessione; e questarimane, si, come uno specchio interiore; ma – per usareuna immagine – è come uno specchio d’acqua diaccia,

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cando lo spirito col lavoro, prepara l’opera prima che siaconcepita; poi, con le dolorose impazienze, con la in-quietudine, con l’ostinazione, agita lo spirito attornoall’idea e rende possibili quelle ore di vera gioja, in cuitutto pare che si faccia da sè. La riflessione, dal cantosuo, assiste al nascere e al crescere dell’opera d’arte, nesegue le fasi progressive e ne gode, raccosta i varii ele-menti, li coordina, li compara.

La coscienza non rischiara tutto lo spirito; segnata-mente per l’artista, essa non è un lume distinto dal pen-siero, che permetta alla volontà di attingere in lei comein un tesoro d’immagini e d’idee. La coscienza, insom-ma, non è una potenza creatrice; ma lo specchio interio-re in cui il pensiero si rimira; si può dire anzi ch’essa siail pensiero che vede sè stesso assistendo a quelloch’esso fa spontaneamente. E d’ordinario, nell’artista,nel momento della concezione, la riflessione si nascon-de, resta, per così dire, invisibile: è, quasi, per l’artistauna forma del sentimento. Man mano che l’opera si fa,essa la critica, non freddamente, come farebbe un giudi-ce spassionato, analizzandola; ma d’un tratto, mercèl’impressione che ne riceve. Questo, ripeto, ordinaria-mente. Nell’umorista, invece, la riflessione assume unaparte più importante; non si nasconde, nè resta invisibi-le; diventa anch’essa potenza creatrice. Perchè la conce-zione, in ogni vero umorista, si sdoppia, assegna unaparte al sentimento, una parte alla riflessione; e questarimane, si, come uno specchio interiore; ma – per usareuna immagine – è come uno specchio d’acqua diaccia,

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in cui la fiaccola del sentimento non si contenta di rimi-rarsi, ma si tuffa e si smorza; e il friggere dell’acqua è ilriso che suscita l’umorista e il vapore che n’esala è lafantasia spesso un po’ fumosa dell’opera umoristica. Laquale nasce insomma dal contrasto tra il caldo del senti-mento e il freddo della riflessione.

L’umorismo è un fenomeno di sdoppiamento nell’attodella concezione; è come un’erma bifronte, che ride peruna faccia del pianto della faccia opposta. La riflessionediventa come un demonietto che smonta il congegnodell’immagine, del fantoccio messo su dal sentimento;lo smonta per veder come è fatto; scarica la molla, e tut-to il congegno ne stride, convulso.

Ogni vero umorista è, dunque, un critico di se stesso,del proprio sentimento; un critico sui generis; fantasti-co, come ho già detto, o capriccioso. In taluni la fantasiae il sentimento predominano, la vincono su la riflessio-ne, fino a nasconderla, almeno apparentemente, rico-prendola d’una veste d’immagini; in altri invece predo-mina la riflessione, e la critica allora si scopre, diventapalese, come spesso in Alberto Cantoni. Ma egli, ripeto,ha voluto esser così.

Se non fosse stato umorista, sarebbe stato semplice-mente o un artista o un critico. Egli è umorista perchè èartista e critico insieme; e non più critico che artista; maun artista che ha voluto esercitare divisatamente la suafacoltà artistica su la critica.

Egli non si preoccupa affatto dell’invenzione. In unpunto della sua novella che ha per titolo Il demonio del-

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in cui la fiaccola del sentimento non si contenta di rimi-rarsi, ma si tuffa e si smorza; e il friggere dell’acqua è ilriso che suscita l’umorista e il vapore che n’esala è lafantasia spesso un po’ fumosa dell’opera umoristica. Laquale nasce insomma dal contrasto tra il caldo del senti-mento e il freddo della riflessione.

L’umorismo è un fenomeno di sdoppiamento nell’attodella concezione; è come un’erma bifronte, che ride peruna faccia del pianto della faccia opposta. La riflessionediventa come un demonietto che smonta il congegnodell’immagine, del fantoccio messo su dal sentimento;lo smonta per veder come è fatto; scarica la molla, e tut-to il congegno ne stride, convulso.

Ogni vero umorista è, dunque, un critico di se stesso,del proprio sentimento; un critico sui generis; fantasti-co, come ho già detto, o capriccioso. In taluni la fantasiae il sentimento predominano, la vincono su la riflessio-ne, fino a nasconderla, almeno apparentemente, rico-prendola d’una veste d’immagini; in altri invece predo-mina la riflessione, e la critica allora si scopre, diventapalese, come spesso in Alberto Cantoni. Ma egli, ripeto,ha voluto esser così.

Se non fosse stato umorista, sarebbe stato semplice-mente o un artista o un critico. Egli è umorista perchè èartista e critico insieme; e non più critico che artista; maun artista che ha voluto esercitare divisatamente la suafacoltà artistica su la critica.

Egli non si preoccupa affatto dell’invenzione. In unpunto della sua novella che ha per titolo Il demonio del-

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lo stile, dichiara anzi apertamente che annette agli argo-menti un valore assai relativo in confronto a quello delleintenzioni.

Egli sa bene che l’originalità non consiste tantonell’idea che spesso è comune e assai di rado è nuova,quanto nel sentimento particolare che noi abbiamo diessa; o, per dirla con le sue stesse parole, sa bene che iltono del quadro, più assai del tema, fa il quadro nuovo.

Questo vale per tutti gli artisti, ma in modo specialeper lo scrittore umorista, la cui particolarità è veramentetutta nel tono, nelle variazioni capricciose del motivosentimentale, nella riflessione che contrasta al sentimen-to, o meglio, in cui il sentimento si smorza. Non per nul-la l’opera umoristica è sempre piena di digressioni, equeste digressioni sono sempre la parte principaledell’opera, la più saporita. E il sapore di essa è sempreacre; nè può essere altrimenti. Vi prego di credere chenon può esser lieta la condizione d’un uomo che si troviad esser sempre quasi fuori di chiave, ad essere a untempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pen-siero non può nascere, che subito non gliene nasca unaltro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egliabbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorga-no, che lo costringano a dir no, immediatamente dopo; etra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta lavita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un senti-mento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fauna smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce.Provatevi un po’ a piangere per un dolor vero, davanti a

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lo stile, dichiara anzi apertamente che annette agli argo-menti un valore assai relativo in confronto a quello delleintenzioni.

Egli sa bene che l’originalità non consiste tantonell’idea che spesso è comune e assai di rado è nuova,quanto nel sentimento particolare che noi abbiamo diessa; o, per dirla con le sue stesse parole, sa bene che iltono del quadro, più assai del tema, fa il quadro nuovo.

Questo vale per tutti gli artisti, ma in modo specialeper lo scrittore umorista, la cui particolarità è veramentetutta nel tono, nelle variazioni capricciose del motivosentimentale, nella riflessione che contrasta al sentimen-to, o meglio, in cui il sentimento si smorza. Non per nul-la l’opera umoristica è sempre piena di digressioni, equeste digressioni sono sempre la parte principaledell’opera, la più saporita. E il sapore di essa è sempreacre; nè può essere altrimenti. Vi prego di credere chenon può esser lieta la condizione d’un uomo che si troviad esser sempre quasi fuori di chiave, ad essere a untempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pen-siero non può nascere, che subito non gliene nasca unaltro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egliabbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorga-no, che lo costringano a dir no, immediatamente dopo; etra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta lavita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un senti-mento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fauna smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce.Provatevi un po’ a piangere per un dolor vero, davanti a

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uno specchio, guardandovi; se riuscirete a star fermi perun pezzetto a contemplarvi, vedrete la vostra espressio-ne dolorosa irrigidirsi in una smorfia che vi farà ridere;e resterete allora in una condizione molto penosa chenon vi consentirà più nè di seguitare a piangere di cuore,nè di ridere davvero.

Ora, perchè questo sdoppiamento avvenga, bisognache l’artista abbia fatto un’esperienza amara della vita edegli uomini, un’esperienza che, se da un canto non per-mette più al sentimento ingenuo di metter le ali e di le-varsi come un’allodola perchè lanci un trillo nel sole,senza ch’essa la trattenga per la coda nell’atto di spicca-re il volo; dall’altro lo induce a riflettere che la tristiziadegli uomini si deve spesso alla tristezza della vita, aimali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possonosopportare; lo induce a riflettere che la vita, non avendofatalmente per la ragione umana un fine chiaro e deter-minato, bisogna che, per non brancolar nel vuoto, ne ab-bia uno particolare, fittizio, illusorio, per ciascun uomo,o basso o alto: poco importa, giacchè non è nè può esse-re il fine vero, che tutti cercano affannosamente e nessu-no trova, perchè forse non esiste. Quel che importa èche si dia importanza a qualche cosa, e sia pur vana:varrà quanto un’altra stimata seria, perchè in fondo nèl’una nè l’altra daranno soddisfazione: tanto è vero chedurerà sempre ardentissima la sete di sapere, non siestinguerà mai la facoltà di desiderare, e non è detto purtroppo che nel progresso consista la felicità degli uomi-ni.

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uno specchio, guardandovi; se riuscirete a star fermi perun pezzetto a contemplarvi, vedrete la vostra espressio-ne dolorosa irrigidirsi in una smorfia che vi farà ridere;e resterete allora in una condizione molto penosa chenon vi consentirà più nè di seguitare a piangere di cuore,nè di ridere davvero.

Ora, perchè questo sdoppiamento avvenga, bisognache l’artista abbia fatto un’esperienza amara della vita edegli uomini, un’esperienza che, se da un canto non per-mette più al sentimento ingenuo di metter le ali e di le-varsi come un’allodola perchè lanci un trillo nel sole,senza ch’essa la trattenga per la coda nell’atto di spicca-re il volo; dall’altro lo induce a riflettere che la tristiziadegli uomini si deve spesso alla tristezza della vita, aimali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possonosopportare; lo induce a riflettere che la vita, non avendofatalmente per la ragione umana un fine chiaro e deter-minato, bisogna che, per non brancolar nel vuoto, ne ab-bia uno particolare, fittizio, illusorio, per ciascun uomo,o basso o alto: poco importa, giacchè non è nè può esse-re il fine vero, che tutti cercano affannosamente e nessu-no trova, perchè forse non esiste. Quel che importa èche si dia importanza a qualche cosa, e sia pur vana:varrà quanto un’altra stimata seria, perchè in fondo nèl’una nè l’altra daranno soddisfazione: tanto è vero chedurerà sempre ardentissima la sete di sapere, non siestinguerà mai la facoltà di desiderare, e non è detto purtroppo che nel progresso consista la felicità degli uomi-ni.

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Ma io non posso qui accennare neanche di sfuggitatutte le riflessioni che l’esperienza amara o la disposi-zione necessariamente pessimistica dello spirito posso-no suggerire a un umorista; perchè appunto – com’hodetto – in esse è l’essenza e la originalità della svariatis-sima letteratura umoristica. Può darsi che si trovi in essetalvolta quella tale simpatica indulgenza di cui parla ilNencioni4.

III.

Certo il Cantoni soffriva moltissimo dello sdoppia-mento di cui ho fatto parola; soffriva di non poter essereingenuo, come prepotentemente in lui la natura avrebbevoluto; e mordeva in sè e negli altri col veleno dello sti-le lo scaltro capriccioso che si metteva a far le smorfieall’ingenuo e a beffarlo, il monello della riflessione cheacchiappava per la coda la lodoletta del sentimentonell’atto ch’essa spiccava il volo. Questo conflitto, que-sta complicazione sentimentale lo indispettivano. Quellalunga novella sui generis, che è tra le più felici delloscrittore mantovano, L’altalena delle antipatie, ne è unaprova lampantissima.

Il lunatico eroe di questa novella confessa di essereuna specie di saliscendi fatto persona. Contro il suomale, prende per ricetta di sposare. Rimedio eroico, il

4 Da vedere su questo argomento il mio volume di prossima pubblicazione:L’umorismo (essenza, caratteri, materia).

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Ma io non posso qui accennare neanche di sfuggitatutte le riflessioni che l’esperienza amara o la disposi-zione necessariamente pessimistica dello spirito posso-no suggerire a un umorista; perchè appunto – com’hodetto – in esse è l’essenza e la originalità della svariatis-sima letteratura umoristica. Può darsi che si trovi in essetalvolta quella tale simpatica indulgenza di cui parla ilNencioni4.

III.

Certo il Cantoni soffriva moltissimo dello sdoppia-mento di cui ho fatto parola; soffriva di non poter essereingenuo, come prepotentemente in lui la natura avrebbevoluto; e mordeva in sè e negli altri col veleno dello sti-le lo scaltro capriccioso che si metteva a far le smorfieall’ingenuo e a beffarlo, il monello della riflessione cheacchiappava per la coda la lodoletta del sentimentonell’atto ch’essa spiccava il volo. Questo conflitto, que-sta complicazione sentimentale lo indispettivano. Quellalunga novella sui generis, che è tra le più felici delloscrittore mantovano, L’altalena delle antipatie, ne è unaprova lampantissima.

Il lunatico eroe di questa novella confessa di essereuna specie di saliscendi fatto persona. Contro il suomale, prende per ricetta di sposare. Rimedio eroico, il

4 Da vedere su questo argomento il mio volume di prossima pubblicazione:L’umorismo (essenza, caratteri, materia).

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matrimonio! E alla sposa, nè brutta nè troppo bella, nèsciocca nè fine, semplice ed orfana e sola, dice subito,francamente: «Ti sposo perchè t’avrò già veduto cin-quanta volte senza mai sapermi dire se tu mi piaccia ono. Nel primo caso sarei scappato a gambe levate per lospavento d’un mio prossimo voltafaccia; nel secondoavrei forse potuto rischiare, ma capirai, te ne saresti av-vista, e probabilmente non m’avresti voluto. lo son fattocosì, mercè di Dio, ma porto meco questo di buono nelnostro matrimonio, che non mi so punto dire come siifatta tu. Voglio anzi credere che la tua cara semplicità,così patente, sarà di altrettanto sostanziale, e che tu stes-sa, ov’io fossi tanto grullo da interrogarti sul conto tuo,me ne sapresti dire su per giù quanto me, cioè nulla. Iotengo ancora la tua anima per una specie di tabula rasa,nella quale, Dio ajutando, potrò studiarmi di non lasciarapparire che le più belle cose. La mia, pur troppo, è cosìcincischiata che è già un gran dire se mi ci raccapezzoio solo. Questo nullameno posso dirti: che cioè comenon mi è mai rimasto un gran tempo di volere bene anessuna donna, così non mi sono mai illuso fino al pun-to di credere che qualcuna potesse voler bene a me. Sai,quando uno se ne sta col cannocchiale perpetuamenteappuntato sopra se medesimo, e più specialmente soprale attinenze ch’egli possa avere cogli altri, come vuoiche non veda, se non è uno stupido, quanti ce ne sono edi più belli, e di più buoni, e di più ingegnosi di lui? Ese lo vede, che speranza gli può rimanere di essere mes-so avanti gli altri? Non ti sposo dunque perchè t’ami di

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matrimonio! E alla sposa, nè brutta nè troppo bella, nèsciocca nè fine, semplice ed orfana e sola, dice subito,francamente: «Ti sposo perchè t’avrò già veduto cin-quanta volte senza mai sapermi dire se tu mi piaccia ono. Nel primo caso sarei scappato a gambe levate per lospavento d’un mio prossimo voltafaccia; nel secondoavrei forse potuto rischiare, ma capirai, te ne saresti av-vista, e probabilmente non m’avresti voluto. lo son fattocosì, mercè di Dio, ma porto meco questo di buono nelnostro matrimonio, che non mi so punto dire come siifatta tu. Voglio anzi credere che la tua cara semplicità,così patente, sarà di altrettanto sostanziale, e che tu stes-sa, ov’io fossi tanto grullo da interrogarti sul conto tuo,me ne sapresti dire su per giù quanto me, cioè nulla. Iotengo ancora la tua anima per una specie di tabula rasa,nella quale, Dio ajutando, potrò studiarmi di non lasciarapparire che le più belle cose. La mia, pur troppo, è cosìcincischiata che è già un gran dire se mi ci raccapezzoio solo. Questo nullameno posso dirti: che cioè comenon mi è mai rimasto un gran tempo di volere bene anessuna donna, così non mi sono mai illuso fino al pun-to di credere che qualcuna potesse voler bene a me. Sai,quando uno se ne sta col cannocchiale perpetuamenteappuntato sopra se medesimo, e più specialmente soprale attinenze ch’egli possa avere cogli altri, come vuoiche non veda, se non è uno stupido, quanti ce ne sono edi più belli, e di più buoni, e di più ingegnosi di lui? Ese lo vede, che speranza gli può rimanere di essere mes-so avanti gli altri? Non ti sposo dunque perchè t’ami di

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già, e meno ancora perchè possa già credere che tu amime. Ti sposo perchè, dato un uomo del mio stampo, mici vuole una donna della stampa tua. Due sole cose tiraccomando: la prima di non ritenerti, sposandomi, pun-to più fortunata di nessun’altra donna; la seconda, dinon infingerti mai quando per avventura tu l’avessimeco, perchè c’è il caso molto probabile che tu, col la-sciarti scorgere, mi metta al punto di volerti più bene as-sai. Ed è questo soprattutto che io desidero dal profondodel cuore: volerti bene comechessia e durabilmente. Chese poi tu me ne vorrai meno, o poco, od anche punto, cihai a pensar tu. Sarà peggio per te». E che notte passaquesto disgraziato alla vigilia delle nozze! – «Io rinun-ziare, come il primo imbecille venuto, alle delizie delcelibato? lo rispondere della felicità di un’altra persona?Io in procinto di mettermi coi piedi legati in mani altrui?Ma perchè mi sposo, io? Per distrarmi, per non avercelapiù contro nessuno. Gran noia davvero che era questaper me! Ma foss’anco sicuro il rimedio, come non èpunto, che danno è mai venuto agli altri dalle mie sfu-riate d’antipatia? Chi ho manomesso? Chi ho vilipeso?Molti anzi non se ne avvidero nemmeno... e me ne dol-se. Ma io sì che me ne avvedo bene, pur troppo, ora, chece l’ho con me! Va, va che hai già fatto un bel guada-gno. Ti sei sacrificato per il tuo prossimo, che non ci pa-tiva nulla, ed ora te la pigli con te stesso, che ci patiscitanto, con la dolce prospettiva di mettere al mondo deglialtri originali come te!» Balza dal letto a camminareagitatissimo, quantunque in pantofole, per la camera.

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già, e meno ancora perchè possa già credere che tu amime. Ti sposo perchè, dato un uomo del mio stampo, mici vuole una donna della stampa tua. Due sole cose tiraccomando: la prima di non ritenerti, sposandomi, pun-to più fortunata di nessun’altra donna; la seconda, dinon infingerti mai quando per avventura tu l’avessimeco, perchè c’è il caso molto probabile che tu, col la-sciarti scorgere, mi metta al punto di volerti più bene as-sai. Ed è questo soprattutto che io desidero dal profondodel cuore: volerti bene comechessia e durabilmente. Chese poi tu me ne vorrai meno, o poco, od anche punto, cihai a pensar tu. Sarà peggio per te». E che notte passaquesto disgraziato alla vigilia delle nozze! – «Io rinun-ziare, come il primo imbecille venuto, alle delizie delcelibato? lo rispondere della felicità di un’altra persona?Io in procinto di mettermi coi piedi legati in mani altrui?Ma perchè mi sposo, io? Per distrarmi, per non avercelapiù contro nessuno. Gran noia davvero che era questaper me! Ma foss’anco sicuro il rimedio, come non èpunto, che danno è mai venuto agli altri dalle mie sfu-riate d’antipatia? Chi ho manomesso? Chi ho vilipeso?Molti anzi non se ne avvidero nemmeno... e me ne dol-se. Ma io sì che me ne avvedo bene, pur troppo, ora, chece l’ho con me! Va, va che hai già fatto un bel guada-gno. Ti sei sacrificato per il tuo prossimo, che non ci pa-tiva nulla, ed ora te la pigli con te stesso, che ci patiscitanto, con la dolce prospettiva di mettere al mondo deglialtri originali come te!» Balza dal letto a camminareagitatissimo, quantunque in pantofole, per la camera.

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L’idea della futura prole lo conduce per ultimo davantiai ritratti dei suoi genitori, ai quali dice con le bracciatese: «Anche con voi ho tentennato, poveri morti miei!Quando mi pareva di star benino al mondo, vi ringrazia-va in cor mio del dolce dono, e quando ci stava a disa-gio, vi avrei chiesto volentieri se non avevate niente dimeglio a darmi. Voi siete stati felicissimi un dell’altro,lo so, ma fu per poco, e intanto ci sono andato di mezzoio, e ci andranno fors’anco di mezzo i figli miei, se iodovrò far loro la stessa burla infelice che voi, poveretti,avete dovuto fare a me. Quanto era meglio che mi pren-deste con voi, piuttosto che lasciarmi qui solo, con lamia insanabile propensione al ragionamento! Fossi bensaldo in gambe per natura, me ne gioverei, ma come nonsono, i miei ragionamenti mi aiutano a stare un po’ su dauna parte, per cascar giù meglio dall’altra! Ora poi mipare di essere il Reno, a Sciaffusa!»

Altrove, nel Demonio dello stile, allo scrittore Ferdi-nando Acerra, il quale, richiesto, propone alcuni sogget-ti di novella a una sua amica, Alberto Cantoni fa escla-mare: «Guai, guai tre volte ai vostri futuri volumi se voi,nell’essere in alto mare, aveste potuto, per un prodigiodi separazione morale, dimezzarvi così bene da potersentire da una parte ed esaminarvi dall’altra. Bell’accoz-zo di bollor subitaneo e di rigore critico non ci appronte-reste voi!»

E in quel vero giojello che è il racconto Più persone eun cavallo, che strazio egli fa di quel tal colonnello, chedurante un viaggio di mare, per dargli una prova della

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L’idea della futura prole lo conduce per ultimo davantiai ritratti dei suoi genitori, ai quali dice con le bracciatese: «Anche con voi ho tentennato, poveri morti miei!Quando mi pareva di star benino al mondo, vi ringrazia-va in cor mio del dolce dono, e quando ci stava a disa-gio, vi avrei chiesto volentieri se non avevate niente dimeglio a darmi. Voi siete stati felicissimi un dell’altro,lo so, ma fu per poco, e intanto ci sono andato di mezzoio, e ci andranno fors’anco di mezzo i figli miei, se iodovrò far loro la stessa burla infelice che voi, poveretti,avete dovuto fare a me. Quanto era meglio che mi pren-deste con voi, piuttosto che lasciarmi qui solo, con lamia insanabile propensione al ragionamento! Fossi bensaldo in gambe per natura, me ne gioverei, ma come nonsono, i miei ragionamenti mi aiutano a stare un po’ su dauna parte, per cascar giù meglio dall’altra! Ora poi mipare di essere il Reno, a Sciaffusa!»

Altrove, nel Demonio dello stile, allo scrittore Ferdi-nando Acerra, il quale, richiesto, propone alcuni sogget-ti di novella a una sua amica, Alberto Cantoni fa escla-mare: «Guai, guai tre volte ai vostri futuri volumi se voi,nell’essere in alto mare, aveste potuto, per un prodigiodi separazione morale, dimezzarvi così bene da potersentire da una parte ed esaminarvi dall’altra. Bell’accoz-zo di bollor subitaneo e di rigore critico non ci appronte-reste voi!»

E in quel vero giojello che è il racconto Più persone eun cavallo, che strazio egli fa di quel tal colonnello, chedurante un viaggio di mare, per dargli una prova della

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sua penetrazione, gli narra una tristissima storia, con unmodo tutto suo di parlare! Sentitelo: «Appena i suoi di-scorsi tendevano ad animarsi un poco, e subito subito lasua voce principiava a discendere anzichè a salire, perassumere poi dei toni tanto più morbidi e tanto più ca-rezzevoli quanto più seguitando egli ad animarsi, avreb-bero potuto essere più risentiti e più forti». «Oh Diosanto e buono!» – esclama il Cantoni. – «Tu mi hai datooggi le più belle prove dell’amor tuo. Mi hai suggeritodi viaggiar per mare, e il mare è buono; mi hai distesoinnanzi questa cerulea bellezza d’acqua, ed io non hoche a voltarmi intorno, per sentirmi come penetrato del-la tua grandezza. Non bastava. Ora mi fai discendere ilsole a ponente, e mi fai alzare la luna a levante. Da unaparte il cielo è già tutto una gloria, dall’altra il mare ègià tutto uno zaffiro. Potevi tu essere più buono, piùamorevole, più grazioso meco? No. Ma ci sono i mieisimili che stanno per guastare la tua opera santa; c’è uncolonnello che mi vuole raccontare una sua buja storiad’orrore...». – E gliela racconta difatti, parlando in quel-la sua graziosa maniera. E dopo avergliela raccontata, loinvita ad andarsene a riposare. «A riposare!!» – esclamail Cantoni, con due punti esclamativi. E il colonnello: –«Sì, io mi son tenuto più che ho potuto; ma nonostanteci ho qui il mio scelleratissimo cuore che si fa sentire, eche ora mi dà una stretta, ora mi pesa quanto una maci-na da mulino. Andiamo a letto».

Il Cantoni accoglie quest’ultima confidenza, comes’accoglie, alle frutta, una pera passata da parte a parte.

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sua penetrazione, gli narra una tristissima storia, con unmodo tutto suo di parlare! Sentitelo: «Appena i suoi di-scorsi tendevano ad animarsi un poco, e subito subito lasua voce principiava a discendere anzichè a salire, perassumere poi dei toni tanto più morbidi e tanto più ca-rezzevoli quanto più seguitando egli ad animarsi, avreb-bero potuto essere più risentiti e più forti». «Oh Diosanto e buono!» – esclama il Cantoni. – «Tu mi hai datooggi le più belle prove dell’amor tuo. Mi hai suggeritodi viaggiar per mare, e il mare è buono; mi hai distesoinnanzi questa cerulea bellezza d’acqua, ed io non hoche a voltarmi intorno, per sentirmi come penetrato del-la tua grandezza. Non bastava. Ora mi fai discendere ilsole a ponente, e mi fai alzare la luna a levante. Da unaparte il cielo è già tutto una gloria, dall’altra il mare ègià tutto uno zaffiro. Potevi tu essere più buono, piùamorevole, più grazioso meco? No. Ma ci sono i mieisimili che stanno per guastare la tua opera santa; c’è uncolonnello che mi vuole raccontare una sua buja storiad’orrore...». – E gliela racconta difatti, parlando in quel-la sua graziosa maniera. E dopo avergliela raccontata, loinvita ad andarsene a riposare. «A riposare!!» – esclamail Cantoni, con due punti esclamativi. E il colonnello: –«Sì, io mi son tenuto più che ho potuto; ma nonostanteci ho qui il mio scelleratissimo cuore che si fa sentire, eche ora mi dà una stretta, ora mi pesa quanto una maci-na da mulino. Andiamo a letto».

Il Cantoni accoglie quest’ultima confidenza, comes’accoglie, alle frutta, una pera passata da parte a parte.

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Egli aveva dunque innanzi un’altra allegria: un uomocioè sempre assorto nella cura preventiva dell’aneuri-sma: e che però, non volendosi eccitare mai e poi mai,vigilava attentamente i proprii discorsi con quel suo si-stema di chiaroscuro... capovolto. Appena che questi di-scorsi erano tali da fargli fluire un po’ più rapido il san-gue, ed eccotelo subito a rallentare possibilmente la ec-citazione, con tutti i lenocinii della sua flemma a rove-scio! Ma che bisogno c’era d’andarglielo a dire? Scesogiù nella sua cuccetta, il Cantoni non può chiuder oc-chio. «C’è qualcuno che ignori, – egli domanda, – lostemma della Sicilia? Che non abbia mai visto l’arme,l’impresa dell’alma Trinacria? Allora vuol dire che eglinon ha mai viaggiato su certi vapori di Florio, tanto quelsegno vi ricorre da per tutto, come se fosse un’uggia,una persecuzione, un tic... Figuratevi lo scheletro d’unaruota con tre soli raggi, senza punto cerchio. Ponete unatesta al centro della ruota, fate partire da questa testa tregambe intere in atto di correre a precipizio tutte tre, e senon vi verrà in mente una girandola animata, ovveroun’idra a tre soli tentoni, vorrà dire (beati voi!) che nonavete ombra di fantasia. Povera testa! Quanti secoli cherotoli sulle tue tre gambe!» Ma anche quella dello scrit-tore non rotolava meno, allorchè si gettò nel camerino esi pose a sedere sopra uno sgabello ricamato, pur di co-prire della sua persona una di quelle teste e tre di quellegambe. Come Dio vuole, si dispone a dormire; ma conla mente invasa e sconvolta dal truce racconto del co-lonnello, la cuccetta gli sembra un cataletto: si mette

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Egli aveva dunque innanzi un’altra allegria: un uomocioè sempre assorto nella cura preventiva dell’aneuri-sma: e che però, non volendosi eccitare mai e poi mai,vigilava attentamente i proprii discorsi con quel suo si-stema di chiaroscuro... capovolto. Appena che questi di-scorsi erano tali da fargli fluire un po’ più rapido il san-gue, ed eccotelo subito a rallentare possibilmente la ec-citazione, con tutti i lenocinii della sua flemma a rove-scio! Ma che bisogno c’era d’andarglielo a dire? Scesogiù nella sua cuccetta, il Cantoni non può chiuder oc-chio. «C’è qualcuno che ignori, – egli domanda, – lostemma della Sicilia? Che non abbia mai visto l’arme,l’impresa dell’alma Trinacria? Allora vuol dire che eglinon ha mai viaggiato su certi vapori di Florio, tanto quelsegno vi ricorre da per tutto, come se fosse un’uggia,una persecuzione, un tic... Figuratevi lo scheletro d’unaruota con tre soli raggi, senza punto cerchio. Ponete unatesta al centro della ruota, fate partire da questa testa tregambe intere in atto di correre a precipizio tutte tre, e senon vi verrà in mente una girandola animata, ovveroun’idra a tre soli tentoni, vorrà dire (beati voi!) che nonavete ombra di fantasia. Povera testa! Quanti secoli cherotoli sulle tue tre gambe!» Ma anche quella dello scrit-tore non rotolava meno, allorchè si gettò nel camerino esi pose a sedere sopra uno sgabello ricamato, pur di co-prire della sua persona una di quelle teste e tre di quellegambe. Come Dio vuole, si dispone a dormire; ma conla mente invasa e sconvolta dal truce racconto del co-lonnello, la cuccetta gli sembra un cataletto: si mette

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fermo fermo con gli occhi chiusi e con le braccia incro-ciate sul petto, come quei vescovi (in effigie) che stannolunghi distesi nei pavimenti delle antiche basiliche, epoi pensa a Stenterello quand’era a letto e aveva pauradel morto dal mantello rosso. Non si può più reggere, escappa fuori all’aperto: va a trovare il cavallo, il poverobajo del colonnello, incassato sopra coperta fra quattropareti di legno, con la sola testa di fuori; gli s’accosta,gli fa appoggiare il mento su la spalla, e lì, con la gotaferma su la ganascia di esso e stringendolo pel collo, simette a parlare con lui: «Sei in collera? No, eh? Sai be-nissimo che io voleva rimanere, e che è stato il tuo pa-drone che mi ha condotto al macello per tutta quanta laserata. Caro quel tuo padrone! Ti lusinga ora perchèt’adopera, e quando invecchierai, ti venderà. Ti venderàlontano lontano, per paura di rivederti, e di rinnovarel’affetto, com’egli dice. Se n’intende lui di queste pau-re... Oh se tu sapessi, mio carissimo amico, che po’ po’di serpenti sono certi uomini, ti assicuro io che li balze-resti di sella tutti, per paura che te ne capitasse uno. Tusei buono, tu... Io rimango teco fino che spunta il sole.So già abbastanza cosa m’è accaduto a doverti abbando-nare la prima volta. Quando si tornerà a sentire odord’uomo intorno a noi, mi chiuderò a chiave nella miabolgetta, e chi mi vedrà spuntare avanti che ci fermiamoin golfo, quello potrà ben dire di essere battezzato duevolte. Da bravo, raccontami qualche cosa anche tu».

E quante gliene racconta, quel povero baio! Ch’erainglese, e che il nostro clima gli si confaceva poco; e

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fermo fermo con gli occhi chiusi e con le braccia incro-ciate sul petto, come quei vescovi (in effigie) che stannolunghi distesi nei pavimenti delle antiche basiliche, epoi pensa a Stenterello quand’era a letto e aveva pauradel morto dal mantello rosso. Non si può più reggere, escappa fuori all’aperto: va a trovare il cavallo, il poverobajo del colonnello, incassato sopra coperta fra quattropareti di legno, con la sola testa di fuori; gli s’accosta,gli fa appoggiare il mento su la spalla, e lì, con la gotaferma su la ganascia di esso e stringendolo pel collo, simette a parlare con lui: «Sei in collera? No, eh? Sai be-nissimo che io voleva rimanere, e che è stato il tuo pa-drone che mi ha condotto al macello per tutta quanta laserata. Caro quel tuo padrone! Ti lusinga ora perchèt’adopera, e quando invecchierai, ti venderà. Ti venderàlontano lontano, per paura di rivederti, e di rinnovarel’affetto, com’egli dice. Se n’intende lui di queste pau-re... Oh se tu sapessi, mio carissimo amico, che po’ po’di serpenti sono certi uomini, ti assicuro io che li balze-resti di sella tutti, per paura che te ne capitasse uno. Tusei buono, tu... Io rimango teco fino che spunta il sole.So già abbastanza cosa m’è accaduto a doverti abbando-nare la prima volta. Quando si tornerà a sentire odord’uomo intorno a noi, mi chiuderò a chiave nella miabolgetta, e chi mi vedrà spuntare avanti che ci fermiamoin golfo, quello potrà ben dire di essere battezzato duevolte. Da bravo, raccontami qualche cosa anche tu».

E quante gliene racconta, quel povero baio! Ch’erainglese, e che il nostro clima gli si confaceva poco; e

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che si ricordava bene della mamma sua, più bella di lui;e che i suoi fratelli maggiori gli avevano dato di grandicalci; e che voleva molto bene alla regina Vittoria.

Voi non ci credete? ne ridete? Pensate che il Cantoniaveva forse un po’ di febbre e che, se il cavallo taceva,gli poteva benissimo parere che parlasse? Ma rifletteteche quando una bella cosa pare vera, il meglio che pos-siamo fare è di credere che sia.

Ma allora voi non crederete neppure che il Cantoni ungiorno vide a Bergamo innanzi al monumento a GaetanoDonizetti un bel vecchio rubicondo e gioviale che stavaguardando le due nobili figure scolpite dal Jerace, e unometto smilzo e circospetto, con una faccia un pocosdolcinata e un poco motteggiatrice, che erano, quellol’Humour classico e questo l’Humour moderno. Proprioessi, che, senz’altro, là, si misero a disputare tra loro, epoi si lanciarono una sfida: si proposero di andare incampagna li presso, a Clusone, dove si teneva la fiera,ognuno per conto proprio, come se non si fossero maivisti, e di ritornare poi la sera, lì daccapo, innanzi al mo-numento a Donizetti, recando insieme nella bisaccia leloro particolari e fugaci impressioni, per metterle a para-gone.

In questo libro, che s’intitola appunto Humour classi-co e moderno, Alberto Cantoni si dimostra un vero mae-stro dell’umorismo.

Anche qui egli fa opera di critica, ma seguendo i pro-cedimenti dell’arte. Quel vecchio rubicondo e gioviale,che rappresenta l’Humour classico, è certamente qual-

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che si ricordava bene della mamma sua, più bella di lui;e che i suoi fratelli maggiori gli avevano dato di grandicalci; e che voleva molto bene alla regina Vittoria.

Voi non ci credete? ne ridete? Pensate che il Cantoniaveva forse un po’ di febbre e che, se il cavallo taceva,gli poteva benissimo parere che parlasse? Ma rifletteteche quando una bella cosa pare vera, il meglio che pos-siamo fare è di credere che sia.

Ma allora voi non crederete neppure che il Cantoni ungiorno vide a Bergamo innanzi al monumento a GaetanoDonizetti un bel vecchio rubicondo e gioviale che stavaguardando le due nobili figure scolpite dal Jerace, e unometto smilzo e circospetto, con una faccia un pocosdolcinata e un poco motteggiatrice, che erano, quellol’Humour classico e questo l’Humour moderno. Proprioessi, che, senz’altro, là, si misero a disputare tra loro, epoi si lanciarono una sfida: si proposero di andare incampagna li presso, a Clusone, dove si teneva la fiera,ognuno per conto proprio, come se non si fossero maivisti, e di ritornare poi la sera, lì daccapo, innanzi al mo-numento a Donizetti, recando insieme nella bisaccia leloro particolari e fugaci impressioni, per metterle a para-gone.

In questo libro, che s’intitola appunto Humour classi-co e moderno, Alberto Cantoni si dimostra un vero mae-stro dell’umorismo.

Anche qui egli fa opera di critica, ma seguendo i pro-cedimenti dell’arte. Quel vecchio rubicondo e gioviale,che rappresenta l’Humour classico, è certamente qual-

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che vecchio che egli ha veduto vivo e vero a Bergamo oaltrove e l’ha seguito, osservato e studiato, con quelladiligenza, con quella penetrazione ch’egli metteva sem-pre in tutte le sue ricerche. E invece di discorrere criti-camente della natura, delle intenzioni, del saporedell’umorismo antico e del, moderno, riporta vivacissi-mamente, in un dialogo scoppiettante di brio, le impres-sioni che quel vecchietto vero e quell’ometto smilzo nonmeno vero han raccolte alla fiera di Clusone: e quantovede e riferisce alla buona il vecchio rubicondo avrebbepotuto essere argomento d’una novella del Boccaccio odel Sacchetti, del Firenzuola o del Bandello; e i comentie le variazioni dell’ometto smilzo hanno il sapore diquelle de lo Sterne nel Viaggio sentimentale o del Heinenei Reisebilder. E così la critica nasce, ma dalla vitastessa, dalla realtà rimasta immagine e sentimento; e illibro si legge con lo stesso diletto con cui si leggerebbeuna novella o un romanzo. E anche qui il Cantoni mo-stra la sua predilezione per la natura ingenua e schietta,e terrebbe nella disputa dalla parte del vecchio rubicon-do e gioviale, se non fosse costretto a riconoscere cheesso ha voluto rimaner tale e quale assai più che non locomportassero gli anni, e che è volgaruccio e spessovergognosamente sensuale. Ma poi sente in sè – e n’hadispetto – il dissidio che tiene scissa, sdoppiata l’animadi quell’altro, dell’ometto smilzo, e lo fa mordere dalvecchio con aspre parole:

– A forza di ripetere continuamente che tu sembri sor-riso e che sei dolore... n’è venuto che oramai non si sa

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che vecchio che egli ha veduto vivo e vero a Bergamo oaltrove e l’ha seguito, osservato e studiato, con quelladiligenza, con quella penetrazione ch’egli metteva sem-pre in tutte le sue ricerche. E invece di discorrere criti-camente della natura, delle intenzioni, del saporedell’umorismo antico e del, moderno, riporta vivacissi-mamente, in un dialogo scoppiettante di brio, le impres-sioni che quel vecchietto vero e quell’ometto smilzo nonmeno vero han raccolte alla fiera di Clusone: e quantovede e riferisce alla buona il vecchio rubicondo avrebbepotuto essere argomento d’una novella del Boccaccio odel Sacchetti, del Firenzuola o del Bandello; e i comentie le variazioni dell’ometto smilzo hanno il sapore diquelle de lo Sterne nel Viaggio sentimentale o del Heinenei Reisebilder. E così la critica nasce, ma dalla vitastessa, dalla realtà rimasta immagine e sentimento; e illibro si legge con lo stesso diletto con cui si leggerebbeuna novella o un romanzo. E anche qui il Cantoni mo-stra la sua predilezione per la natura ingenua e schietta,e terrebbe nella disputa dalla parte del vecchio rubicon-do e gioviale, se non fosse costretto a riconoscere cheesso ha voluto rimaner tale e quale assai più che non locomportassero gli anni, e che è volgaruccio e spessovergognosamente sensuale. Ma poi sente in sè – e n’hadispetto – il dissidio che tiene scissa, sdoppiata l’animadi quell’altro, dell’ometto smilzo, e lo fa mordere dalvecchio con aspre parole:

– A forza di ripetere continuamente che tu sembri sor-riso e che sei dolore... n’è venuto che oramai non si sa

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più nè che cosa veramente tu sembri, nè che cosa vera-mente tu sia... Se tu ti potessi vedere, non capiresti,come me, se tu abbia più voglia di piangere o di sorride-re.

– Adesso è vero – gli risponde l’Humour moderno. –Perchè adesso penso solamente che voi vi siete fermatoa mezza via. Al vostro tempo le gioje e le angustie dellavita avevano due forme o almeno due parvenze più sem-plici e molto dissimili fra di loro, e niente era più facileche sceverare le une dalle altre per poi rialzare le primea danno delle seconde, o viceversa; ma dopo, cioè altempo mio, è sopravvenuta la critica e felice notte; s’èbrancolato molto tempo a non sapere nè che cosa fosseil meglio nè che cosa fosse il peggio, finchè principiaro-no ad apparire, dopo di essere stati così gran tempo qua-si nascosti, i lati dolorosi della gioia e i lati risibili deldolore umano. Anche gli antichi solevano sostenere cheil piacere non era altro che la cessazione del dolore eche il dolore stesso, ben esaminato, non era punto ilmale; ma le sostenevano sul serio queste belle cose;come dire che non ne erano niente penetrati; adesso in-vece è venuto pur troppo il tempo mio e si ripete, ahimè,quasi ridendo, cioè con la più profonda persuasione, chei due suddetti elementi, attaccati da poco in qua alla gio-ia ed al dolore, hanno assunto aspetti così incerti e cosìtrascolorati che non si possono più, nonchè separare,nemmeno distinguere. Ne è venuto che i miei contem-poranei non sanno ora più essere nè ben contenti, nèbene malcontenti mai, e che voi solo non bastate più nè

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più nè che cosa veramente tu sembri, nè che cosa vera-mente tu sia... Se tu ti potessi vedere, non capiresti,come me, se tu abbia più voglia di piangere o di sorride-re.

– Adesso è vero – gli risponde l’Humour moderno. –Perchè adesso penso solamente che voi vi siete fermatoa mezza via. Al vostro tempo le gioje e le angustie dellavita avevano due forme o almeno due parvenze più sem-plici e molto dissimili fra di loro, e niente era più facileche sceverare le une dalle altre per poi rialzare le primea danno delle seconde, o viceversa; ma dopo, cioè altempo mio, è sopravvenuta la critica e felice notte; s’èbrancolato molto tempo a non sapere nè che cosa fosseil meglio nè che cosa fosse il peggio, finchè principiaro-no ad apparire, dopo di essere stati così gran tempo qua-si nascosti, i lati dolorosi della gioia e i lati risibili deldolore umano. Anche gli antichi solevano sostenere cheil piacere non era altro che la cessazione del dolore eche il dolore stesso, ben esaminato, non era punto ilmale; ma le sostenevano sul serio queste belle cose;come dire che non ne erano niente penetrati; adesso in-vece è venuto pur troppo il tempo mio e si ripete, ahimè,quasi ridendo, cioè con la più profonda persuasione, chei due suddetti elementi, attaccati da poco in qua alla gio-ia ed al dolore, hanno assunto aspetti così incerti e cosìtrascolorati che non si possono più, nonchè separare,nemmeno distinguere. Ne è venuto che i miei contem-poranei non sanno ora più essere nè ben contenti, nèbene malcontenti mai, e che voi solo non bastate più nè

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a far fermentare il misurato sollazzo dei primi e nè a di-vergere le sofistiche tremerelle dei secondi. Ci voglio io,che mescolo tutto scientemente, per fare svanire da unaparte quanti più posso ingannevoli miraggi e per limaredall’altra quante più trovo superflue asperità. Vivo diespedienti e di cuscinetti, io...

– Bella vita! – esclama il vecchio.E l’ometto smilzo seguita:– ... per arrivare possibilmente ad uno stato interme-

dio che rappresenti come la sostanza grigia dell’umanasensibilità. Si sente troppo adesso, come troppo s’è risoad ufo ed a credenza in altri tempi: urge però che il pen-siero regga le briglie alla più incomposta manifestazionedel sentimento... Rimpiango sempre di non aver potutoereditare le vostre illusioni, e mi rallegro nello stessotempo di trovarmi di qua dal fosso, bene agguerrito con-tro alle insidie delle illusioni stesse! O che avete? Per-chè mi affisate a cotesto modo?

– Penso che se vuoi proprio avere due anime in una,fai molto bene a non assumere la famosa guardatura diquel vedovo innamorato, che a sinistra piangeva la mor-ta e a destra faceva l’occhietto alla viva. Tu invece vuoipiangere e far l’occhietto insieme, da tutte due le parti,come dire che non ci si capisce più nulla.

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a far fermentare il misurato sollazzo dei primi e nè a di-vergere le sofistiche tremerelle dei secondi. Ci voglio io,che mescolo tutto scientemente, per fare svanire da unaparte quanti più posso ingannevoli miraggi e per limaredall’altra quante più trovo superflue asperità. Vivo diespedienti e di cuscinetti, io...

– Bella vita! – esclama il vecchio.E l’ometto smilzo seguita:– ... per arrivare possibilmente ad uno stato interme-

dio che rappresenti come la sostanza grigia dell’umanasensibilità. Si sente troppo adesso, come troppo s’è risoad ufo ed a credenza in altri tempi: urge però che il pen-siero regga le briglie alla più incomposta manifestazionedel sentimento... Rimpiango sempre di non aver potutoereditare le vostre illusioni, e mi rallegro nello stessotempo di trovarmi di qua dal fosso, bene agguerrito con-tro alle insidie delle illusioni stesse! O che avete? Per-chè mi affisate a cotesto modo?

– Penso che se vuoi proprio avere due anime in una,fai molto bene a non assumere la famosa guardatura diquel vedovo innamorato, che a sinistra piangeva la mor-ta e a destra faceva l’occhietto alla viva. Tu invece vuoipiangere e far l’occhietto insieme, da tutte due le parti,come dire che non ci si capisce più nulla.

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IV.

Non si deve credere intanto che l’opera di AlbertoCantoni stia chiusa tutta quanta nel campo della criticaletteraria. Già, anche quando essa tratti argomenti lette-rarii, sconfina spesso nella filosofia e, poichè non è maisoltanto esercitazione critica, ma anche rappresentazio-ne artistica, entra nella vita e accoglie e muove profondipensieri e complessi sentimenti. Così, in Pietro e Paolacon seguito di bei tipi abbiamo l’amore tenerissimo delpovero Pietro, prima legatore di libri, poi calligrafo, poimaestrino, per il suo scolaretto inglese Bill Bush, abbia-mo la morte di Bill e de’ suoi vecchi genitori, a cui se-guono tutte le comiche avventure di Pietro obbligato pertestamento a scrivere un libro da dedicare alla memoriadel piccolo Bill. Il pover’uomo non sa da che parte rifar-si, perchè non ha mai pensato che, fra le tante disgrazie,gli potesse anche capitar questa sotto forma di benefi-zio. Comincia a frequentar le biblioteche, si mette a stu-diare, ma quanti più libri legge, quanto più studia, tantopiù si sente avvilito e disorientato. Pensa allora che lostudio non può far presa su lui, perchè egli non ha piùnulla dentro, nessuno in cuore, con cui aprire l’animo,con cui sentire la vita; e, quantunque già troppo maturo,risolve di prender moglie. Trova la Musa, Paola, cioèl’arguzia affettuosa fatta persona; ma il soggetto del li-bro da scrivere non riesce a trovarlo. Egli doveva osser-vare e notar di suo capo; ma dove osservare e che cosa

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IV.

Non si deve credere intanto che l’opera di AlbertoCantoni stia chiusa tutta quanta nel campo della criticaletteraria. Già, anche quando essa tratti argomenti lette-rarii, sconfina spesso nella filosofia e, poichè non è maisoltanto esercitazione critica, ma anche rappresentazio-ne artistica, entra nella vita e accoglie e muove profondipensieri e complessi sentimenti. Così, in Pietro e Paolacon seguito di bei tipi abbiamo l’amore tenerissimo delpovero Pietro, prima legatore di libri, poi calligrafo, poimaestrino, per il suo scolaretto inglese Bill Bush, abbia-mo la morte di Bill e de’ suoi vecchi genitori, a cui se-guono tutte le comiche avventure di Pietro obbligato pertestamento a scrivere un libro da dedicare alla memoriadel piccolo Bill. Il pover’uomo non sa da che parte rifar-si, perchè non ha mai pensato che, fra le tante disgrazie,gli potesse anche capitar questa sotto forma di benefi-zio. Comincia a frequentar le biblioteche, si mette a stu-diare, ma quanti più libri legge, quanto più studia, tantopiù si sente avvilito e disorientato. Pensa allora che lostudio non può far presa su lui, perchè egli non ha piùnulla dentro, nessuno in cuore, con cui aprire l’animo,con cui sentire la vita; e, quantunque già troppo maturo,risolve di prender moglie. Trova la Musa, Paola, cioèl’arguzia affettuosa fatta persona; ma il soggetto del li-bro da scrivere non riesce a trovarlo. Egli doveva osser-vare e notar di suo capo; ma dove osservare e che cosa

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notare? Gli avviene di leggere un giorno su una targa in-fissa a una porta: «Dott. Nanni – Patemi d’animo –Cura e pensione». Cura e pensione dei patemi d’animo?E qual patema d’animo maggiore del suo? Prende lamoglie e va con lei a mettersi a pensione dal dott. Nan-ni. Osserva tutto quanto gli accade là e sè stesso, la mo-glie, il dott. Nanni e i bei tipi che vi stanno in cura; notaogni cosa, prendendo l’imbeccata dall’arguzia affettuosadella moglie, e il libro speciosissimo è fatto. L’umori-smo critico del Cantoni non ha qui anche un’intenzionesatirica? Pietro, che va a cercare in una casa di salutel’argomento della sua narrazione, non significa nulla?Significa molto, a parer mio, e non solamente, per la no-stra letteratura patologica, ma anche per la vita che oggiviviamo.

Tra i libri che non trattano argomenti letterarii ho giàaccennato a L’altalena delle antipatie, dove la critica èpiù propriamente psicologica e anche sociale, su l’istitu-zione del matrimonio; ho accennato a Più persone e uncavallo, che non ha niente che vedere con la critica let-teraria; accennerò ora, brevemente, per finire, a due altrilibri che rappresentano l’opera capitale e di maggiormole del Cantoni: cioè alle memorie di Un Re umoristae alle scene popolari dell’Illustrissimo.

Quest’ultimo libro, L’Illustrissimo, composto dalCantoni una ventina d’anni fa e man mano rifuso, mi-gliorato, accarezzato con somma cura, fu pubblicatodopo la morte dell’autore, prima su la Nuova Antologia,poi raccolto in volume, per mia cura. Anche in esso il

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notare? Gli avviene di leggere un giorno su una targa in-fissa a una porta: «Dott. Nanni – Patemi d’animo –Cura e pensione». Cura e pensione dei patemi d’animo?E qual patema d’animo maggiore del suo? Prende lamoglie e va con lei a mettersi a pensione dal dott. Nan-ni. Osserva tutto quanto gli accade là e sè stesso, la mo-glie, il dott. Nanni e i bei tipi che vi stanno in cura; notaogni cosa, prendendo l’imbeccata dall’arguzia affettuosadella moglie, e il libro speciosissimo è fatto. L’umori-smo critico del Cantoni non ha qui anche un’intenzionesatirica? Pietro, che va a cercare in una casa di salutel’argomento della sua narrazione, non significa nulla?Significa molto, a parer mio, e non solamente, per la no-stra letteratura patologica, ma anche per la vita che oggiviviamo.

Tra i libri che non trattano argomenti letterarii ho giàaccennato a L’altalena delle antipatie, dove la critica èpiù propriamente psicologica e anche sociale, su l’istitu-zione del matrimonio; ho accennato a Più persone e uncavallo, che non ha niente che vedere con la critica let-teraria; accennerò ora, brevemente, per finire, a due altrilibri che rappresentano l’opera capitale e di maggiormole del Cantoni: cioè alle memorie di Un Re umoristae alle scene popolari dell’Illustrissimo.

Quest’ultimo libro, L’Illustrissimo, composto dalCantoni una ventina d’anni fa e man mano rifuso, mi-gliorato, accarezzato con somma cura, fu pubblicatodopo la morte dell’autore, prima su la Nuova Antologia,poi raccolto in volume, per mia cura. Anche in esso il

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Cantoni con predominio quasi assoluto dell’elementofantastico, fa a suo modo – cioè col suo metodo artistico– opera di critica sociale, trattando il problemadell’assenteismo, del disinteressamento cioè e dell’igno-ranza dei signori delle loro proprietà rurali e della vitadei contadini, da cui pur traggono, senza saper come nèin qual misura, il reddito pei loro ozii cittadineschi più omeno delicati.

L’Illustrissimo è il signore, il padrone pei contadinidella Lombardia: il padrone ch’essi non han mai veduto,e che si figurano tiranno spesso spietato attraverso il fat-tore ladro e parassita, con cui trattano; non si fanno per-ciò scrupolo di frodarlo come e quanto più possono. IlCantoni immagina che questo Illustrissimo, il conte Ga-leazzo di Belgirate, giovane pigro e fantastico, dall’ani-ma tranquilla e disutile. generoso senza avvedersene, ilquale alla fine fa sempre più e meglio degli altri quandola fortuna troppo gentile, lo piglia per il vestito e glieneporge l’occasione, un bel giorno sia mandato da unadonnetta saggia e apparentemente capricciosa, sua cugi-na, donna Maria di Breno, in penitenza e per una provad’amore – dice lei – ma in verità per fargli acquistarequell’esperienza che gli manca, nelle sue terre, fra i suoicontadini, per allogarsi come bracciante in casa d’unsuo mezzajuolo.

Il conte di Belgirate, naturalmente, in principio si ri-bella a questo straordinario, inverosimile capriccio dellacuginetta, di così difficile attuazione per lui. Ma poi,considerando che egli una volta ha già mancato grave-

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Cantoni con predominio quasi assoluto dell’elementofantastico, fa a suo modo – cioè col suo metodo artistico– opera di critica sociale, trattando il problemadell’assenteismo, del disinteressamento cioè e dell’igno-ranza dei signori delle loro proprietà rurali e della vitadei contadini, da cui pur traggono, senza saper come nèin qual misura, il reddito pei loro ozii cittadineschi più omeno delicati.

L’Illustrissimo è il signore, il padrone pei contadinidella Lombardia: il padrone ch’essi non han mai veduto,e che si figurano tiranno spesso spietato attraverso il fat-tore ladro e parassita, con cui trattano; non si fanno per-ciò scrupolo di frodarlo come e quanto più possono. IlCantoni immagina che questo Illustrissimo, il conte Ga-leazzo di Belgirate, giovane pigro e fantastico, dall’ani-ma tranquilla e disutile. generoso senza avvedersene, ilquale alla fine fa sempre più e meglio degli altri quandola fortuna troppo gentile, lo piglia per il vestito e glieneporge l’occasione, un bel giorno sia mandato da unadonnetta saggia e apparentemente capricciosa, sua cugi-na, donna Maria di Breno, in penitenza e per una provad’amore – dice lei – ma in verità per fargli acquistarequell’esperienza che gli manca, nelle sue terre, fra i suoicontadini, per allogarsi come bracciante in casa d’unsuo mezzajuolo.

Il conte di Belgirate, naturalmente, in principio si ri-bella a questo straordinario, inverosimile capriccio dellacuginetta, di così difficile attuazione per lui. Ma poi,considerando che egli una volta ha già mancato grave-

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mente verso di lei, e che ella ora pone per patto alle noz-ze con lui questo esperimento, si fa coraggio e va.

Tutto il romanzo consiste nella narrazione, o meglio,nella rappresentazione delle peripezie che càpitano alconte di Belgirate, travestito da bracciante, nei cinquegiorni che egli passa al servizio del suo mezzajuolo Do-menico Gervasi, detto Stentone, nella fattoria della Ca-sanova, a Coronaverde.

Il Cantoni, come ho detto, visse a lungo in campagnanelle sue terre di Pomponesco, presso Mantova. Per starbene, o almeno discretamente in salute, egli avrebbeavuto bisogno di non essere travagliato da cure e da bri-ghe. Ne ebbe molte, invece, e a causa appunto dei nu-merosi contadini suoi dipendenti. Entrati in un campo, sisa, i contadini vogliono starci a ogni costo, anche se laterra loro assegnata non sia sufficiente a nutrire la nu-merosa famiglia.

Quelli che il Cantoni mette in iscena nel suo romanzosono studiati a uno a uno dal vero e ritratti nella loro in-dole, nelle loro passioni, nei loro pregi e nei loro difetticon meravigliosa efficacia. Le figure di Stentone, diGiovannona, di Nunziata, di Costantina, del buon Piangie di Peppina, non si dimenticano più.

È difficile trovare in altri libri descritto con maggioreefficacia, senza esagerazioni in nero o in roseo, il carat-tere dei campagnuoli. Giovannona, la rustica virago, èuna figura di tal rilievo, che se vogliamo trovarle com-pagni, dobbiamo cercarli nei Promessi Sposi. La stessaarte sana, sobria, occulta e fine, tutta armata di segreta

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mente verso di lei, e che ella ora pone per patto alle noz-ze con lui questo esperimento, si fa coraggio e va.

Tutto il romanzo consiste nella narrazione, o meglio,nella rappresentazione delle peripezie che càpitano alconte di Belgirate, travestito da bracciante, nei cinquegiorni che egli passa al servizio del suo mezzajuolo Do-menico Gervasi, detto Stentone, nella fattoria della Ca-sanova, a Coronaverde.

Il Cantoni, come ho detto, visse a lungo in campagnanelle sue terre di Pomponesco, presso Mantova. Per starbene, o almeno discretamente in salute, egli avrebbeavuto bisogno di non essere travagliato da cure e da bri-ghe. Ne ebbe molte, invece, e a causa appunto dei nu-merosi contadini suoi dipendenti. Entrati in un campo, sisa, i contadini vogliono starci a ogni costo, anche se laterra loro assegnata non sia sufficiente a nutrire la nu-merosa famiglia.

Quelli che il Cantoni mette in iscena nel suo romanzosono studiati a uno a uno dal vero e ritratti nella loro in-dole, nelle loro passioni, nei loro pregi e nei loro difetticon meravigliosa efficacia. Le figure di Stentone, diGiovannona, di Nunziata, di Costantina, del buon Piangie di Peppina, non si dimenticano più.

È difficile trovare in altri libri descritto con maggioreefficacia, senza esagerazioni in nero o in roseo, il carat-tere dei campagnuoli. Giovannona, la rustica virago, èuna figura di tal rilievo, che se vogliamo trovarle com-pagni, dobbiamo cercarli nei Promessi Sposi. La stessaarte sana, sobria, occulta e fine, tutta armata di segreta

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ironia. Bisogna leggere le pagine nelle quali è descrittoun incendio in campagna, l’incendio doloso della Casa-nova. È una vera meraviglia d’arte!

La trovata originalissima rende poi oltre modo gusto-so il romanzo che pur vuole avere, senza nuocereall’arte, serietà d’intenti sociali.

Non ne han meno certamente gli altri libri del Canto-ni; ma poichè questo esce del tutto dal campo della criti-ca letteraria e accoglie in sè per la sua mole maggior co-pia di sentimenti, sarà senza dubbio destinato a una piùlarga diffusione e diverrà presto, dopo il Re umorista, illibro più noto di Alberto Cantoni.

Ma è proprio noto a tutti, come dovrebbe essere, que-sto capolavoro del Cantoni che s’intitola Un re umori-sta? Molti, forse più per la speciosità del titolo che peraverlo letto, lo ricordano e ne parlano; ma se esso fossenoto veramente, starebbe per consenso unanime tra lepoche opere culminanti della letteratura italiana contem-poranea, tra le poche più originali ed espressive di tuttaquanta la nostra letteratura moderna.

Chi l’ha letto una volta non dimenticherà mai più lafigura di questo re che sente tutta la miseria e l’oppres-sione della commedia che egli deve costituzionalmenterecitare e che gli altri gli rappresentano attorno, che hal’amarissima e suprema soddisfazione di potere anchestrappare un buon lembo alla commedia universale e dirifarsi così alla meglio delle altre commedie particolari,in forma di magna charta o di costituzione. Egli doman-da se sia giusto e benefico e regale che non abbia a poter

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ironia. Bisogna leggere le pagine nelle quali è descrittoun incendio in campagna, l’incendio doloso della Casa-nova. È una vera meraviglia d’arte!

La trovata originalissima rende poi oltre modo gusto-so il romanzo che pur vuole avere, senza nuocereall’arte, serietà d’intenti sociali.

Non ne han meno certamente gli altri libri del Canto-ni; ma poichè questo esce del tutto dal campo della criti-ca letteraria e accoglie in sè per la sua mole maggior co-pia di sentimenti, sarà senza dubbio destinato a una piùlarga diffusione e diverrà presto, dopo il Re umorista, illibro più noto di Alberto Cantoni.

Ma è proprio noto a tutti, come dovrebbe essere, que-sto capolavoro del Cantoni che s’intitola Un re umori-sta? Molti, forse più per la speciosità del titolo che peraverlo letto, lo ricordano e ne parlano; ma se esso fossenoto veramente, starebbe per consenso unanime tra lepoche opere culminanti della letteratura italiana contem-poranea, tra le poche più originali ed espressive di tuttaquanta la nostra letteratura moderna.

Chi l’ha letto una volta non dimenticherà mai più lafigura di questo re che sente tutta la miseria e l’oppres-sione della commedia che egli deve costituzionalmenterecitare e che gli altri gli rappresentano attorno, che hal’amarissima e suprema soddisfazione di potere anchestrappare un buon lembo alla commedia universale e dirifarsi così alla meglio delle altre commedie particolari,in forma di magna charta o di costituzione. Egli doman-da se sia giusto e benefico e regale che non abbia a poter

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giovare al suo popolo che da lontano, di rimbalzo, ada-gio adagio, quando gli venga fatto; che non possa quasinulla per saziare direttamente gli affamati, per agguerri-re i miseri, per rintuzzare i forti: che tutto gli abbia sem-pre ad arrivare davanti come triturato e pesto da tutti identi di tutte le ruote amministrative; che i buoni lo ami-no e i tristi lo temano solamente per intesa dire; e per ul-timo che non abbia mai ad essere quello che è, bensì chesi lasci fare via via (almeno apparentemente) ora piùrosso ora più nero a seconda dei partiti che stan sopra osotto. Ma allora io dove sto? – esclama fra sè. – Più sot-to di tutti per lo meno. «Re e sacerdote di un giovanepopolo, con la fronte ricinta di edera e di lauro, avreivoluto porre il mio trono or sotto agli olivi ed or sottoalle querce dei boschi sacri, e di là avrei amministratovolentieri la giustizia, propiziato alla pace, bevuto aimani, indetto la guerra. Ma così, santo Dio, così che gu-sto c’è?» E gli capita una moglie per ragion di Stato, chesa che l’etichetta va presa tal quale come una medicina,che più amara è più giova; una moglie logica che prendecioè sul serio la sua parte. Quando ella depone la porpo-ra, muta però anche il viso ed allora il re la vede appari-re così cangiata che per poco non la riconosce più. Pren-de il partito di non guardarla mai quando sono davantialla gente e di non guardare che lei quando sono in fa-miglia, perchè in fondo non darebbe un dito solo di suamoglie per tutta quanta Sua Maestà la regina. E confes-sa: «Io non voglio dire che sieno due; so bene che unaha il viso lungo e tirato e che l’altra ha la faccia fresca e

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giovare al suo popolo che da lontano, di rimbalzo, ada-gio adagio, quando gli venga fatto; che non possa quasinulla per saziare direttamente gli affamati, per agguerri-re i miseri, per rintuzzare i forti: che tutto gli abbia sem-pre ad arrivare davanti come triturato e pesto da tutti identi di tutte le ruote amministrative; che i buoni lo ami-no e i tristi lo temano solamente per intesa dire; e per ul-timo che non abbia mai ad essere quello che è, bensì chesi lasci fare via via (almeno apparentemente) ora piùrosso ora più nero a seconda dei partiti che stan sopra osotto. Ma allora io dove sto? – esclama fra sè. – Più sot-to di tutti per lo meno. «Re e sacerdote di un giovanepopolo, con la fronte ricinta di edera e di lauro, avreivoluto porre il mio trono or sotto agli olivi ed or sottoalle querce dei boschi sacri, e di là avrei amministratovolentieri la giustizia, propiziato alla pace, bevuto aimani, indetto la guerra. Ma così, santo Dio, così che gu-sto c’è?» E gli capita una moglie per ragion di Stato, chesa che l’etichetta va presa tal quale come una medicina,che più amara è più giova; una moglie logica che prendecioè sul serio la sua parte. Quando ella depone la porpo-ra, muta però anche il viso ed allora il re la vede appari-re così cangiata che per poco non la riconosce più. Pren-de il partito di non guardarla mai quando sono davantialla gente e di non guardare che lei quando sono in fa-miglia, perchè in fondo non darebbe un dito solo di suamoglie per tutta quanta Sua Maestà la regina. E confes-sa: «Io non voglio dire che sieno due; so bene che unaha il viso lungo e tirato e che l’altra ha la faccia fresca e

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distesa, so che quella parla breve e quasi sentenzioso equesta invece non si quieta mai, so che una mi pare piùmagra e l’altra più grassa. Insomma mia moglie ha tuttigli aspetti di una buona madre di famiglia alla modernae alla tedesca e la regina poteva nascere in ogni luogoed in ogni tempo e sarebbe stata sempre la medesima re-gina». Perchè ella finge, finge bene di non accorgersidei fili che la tengon su col suo manto regale e la suacorona, dei fili che la fanno muovere; mentre lui non safingere e da quei fili si sente impedito e legato; eppureecco: così tenuto com’è, col tormento di non potere es-ser lui, ma di dover essere a modo degli altri, degli altriche sono tutto il suo popolo, di dover essere cioè nulla,una parola: il re, quand’egli sente bene d’esser uno, unuomo con pensieri proprii, con proprii sentimenti che glis’inacidiscono dentro sempre più; eppure – dicevo –ecco: questo simbolo, che nulla è più, ora deve firmareuna condanna di morte, deve aver su la coscienza la vitad’un uomo: lui! Un re la coscienza deve averla come glialtri: i suoi ministri, gliela fanno. Ma se questo re è unuomo e ha per conto suo una propria coscienza?

Sta qui tutto il conflitto reso da Alberto Cantoni inpagine memorabili, attraverso i tanti casi svariati chepossono accadere a un re originalissimo.

Vi sono scrittori schiavi del tempo che pensano cioè esentono e scrivono come il tempo vuole, ed hanno fortu-na, e qualche volta anche gloria ed altissimi onori; e visono scrittori, che pur vivendo oscuri, solitarii e sdegno-si, lavorando nell’ombra con la tenace e vigile pazienza

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distesa, so che quella parla breve e quasi sentenzioso equesta invece non si quieta mai, so che una mi pare piùmagra e l’altra più grassa. Insomma mia moglie ha tuttigli aspetti di una buona madre di famiglia alla modernae alla tedesca e la regina poteva nascere in ogni luogoed in ogni tempo e sarebbe stata sempre la medesima re-gina». Perchè ella finge, finge bene di non accorgersidei fili che la tengon su col suo manto regale e la suacorona, dei fili che la fanno muovere; mentre lui non safingere e da quei fili si sente impedito e legato; eppureecco: così tenuto com’è, col tormento di non potere es-ser lui, ma di dover essere a modo degli altri, degli altriche sono tutto il suo popolo, di dover essere cioè nulla,una parola: il re, quand’egli sente bene d’esser uno, unuomo con pensieri proprii, con proprii sentimenti che glis’inacidiscono dentro sempre più; eppure – dicevo –ecco: questo simbolo, che nulla è più, ora deve firmareuna condanna di morte, deve aver su la coscienza la vitad’un uomo: lui! Un re la coscienza deve averla come glialtri: i suoi ministri, gliela fanno. Ma se questo re è unuomo e ha per conto suo una propria coscienza?

Sta qui tutto il conflitto reso da Alberto Cantoni inpagine memorabili, attraverso i tanti casi svariati chepossono accadere a un re originalissimo.

Vi sono scrittori schiavi del tempo che pensano cioè esentono e scrivono come il tempo vuole, ed hanno fortu-na, e qualche volta anche gloria ed altissimi onori; e visono scrittori, che pur vivendo oscuri, solitarii e sdegno-si, lavorando nell’ombra con la tenace e vigile pazienza

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dei forti, ribelli segretamente a tutte le tirannie del tem-po, alle idee comuni, che formano quasi l’atmosfera mo-rale e intellettuale di esso, lo vincono con l’opera loro,anche quando sembra che ne rimangano schiacciati.

Alberto Cantoni era di questi. Quegli altri scrittoripasseranno col tempo loro; l’opera di Alberto Cantonirimarrà, perchè non efimero frutto del tempo e della mu-tabile moda, ma frutto d’una particolarissima concezio-ne ch’egli ebbe della vita e degli uomini.

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dei forti, ribelli segretamente a tutte le tirannie del tem-po, alle idee comuni, che formano quasi l’atmosfera mo-rale e intellettuale di esso, lo vincono con l’opera loro,anche quando sembra che ne rimangano schiacciati.

Alberto Cantoni era di questi. Quegli altri scrittoripasseranno col tempo loro; l’opera di Alberto Cantonirimarrà, perchè non efimero frutto del tempo e della mu-tabile moda, ma frutto d’una particolarissima concezio-ne ch’egli ebbe della vita e degli uomini.

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III.Illustratori, Attori e Traduttori

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III.Illustratori, Attori e Traduttori

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Da qualche tempo è tornata di moda, quindi anche inpregio e in onore, la illustrazione del libro. Abbiamo ve-duto illustrati finanche libri di poesia lirica, che è tuttodire. E la nuova barbarie scientifica è arrivata a illustra-re in Francia, per mezzo della fotografia, romanzi e no-velle.

Veramente, per queste ultime opere, esemplari d’uncosì detto realismo, il quale, non riuscendo a vedernell’arte la natura stessa che si serve dello strumentodella fantasia umana per creare un’opera superiore, e ri-tornando alle antichissime disquisizioni sul fine el’oggetto dell’arte già spazzate via dalla sana criticaestetica, vorrebbe restringer l’arte all’imitazione pura esemplice della natura; per queste opere, dico, che nonhanno altra ambizione se non d’apparire una fotografiadella vita contemporanea, si dovrebbe dire acconciaquella nuova specie d’illustrazione, con la macchinetta.

Ricordo in Notre Coeur del Maupassant il romanziereLamarthe: «armé d’un œil qui cueillait les images, lesattitudes et les gestes avec la précision d’un appareilphotographique».

Sotto il personaggio Lamarthe si nascondeva in quelromanzo lo stesso Maupassant, a cui – com’è noto – ilFlaubert aveva dato per ricetta questa massima: – «Benguardare!» – in cui, a suo credere, consisteva tutta l’arte.

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Da qualche tempo è tornata di moda, quindi anche inpregio e in onore, la illustrazione del libro. Abbiamo ve-duto illustrati finanche libri di poesia lirica, che è tuttodire. E la nuova barbarie scientifica è arrivata a illustra-re in Francia, per mezzo della fotografia, romanzi e no-velle.

Veramente, per queste ultime opere, esemplari d’uncosì detto realismo, il quale, non riuscendo a vedernell’arte la natura stessa che si serve dello strumentodella fantasia umana per creare un’opera superiore, e ri-tornando alle antichissime disquisizioni sul fine el’oggetto dell’arte già spazzate via dalla sana criticaestetica, vorrebbe restringer l’arte all’imitazione pura esemplice della natura; per queste opere, dico, che nonhanno altra ambizione se non d’apparire una fotografiadella vita contemporanea, si dovrebbe dire acconciaquella nuova specie d’illustrazione, con la macchinetta.

Ricordo in Notre Coeur del Maupassant il romanziereLamarthe: «armé d’un œil qui cueillait les images, lesattitudes et les gestes avec la précision d’un appareilphotographique».

Sotto il personaggio Lamarthe si nascondeva in quelromanzo lo stesso Maupassant, a cui – com’è noto – ilFlaubert aveva dato per ricetta questa massima: – «Benguardare!» – in cui, a suo credere, consisteva tutta l’arte.

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«Va’ a far due passi, e mi riferirai in cento righi ciòche avrai veduto.»

Ma tanto il Flaubert, poi, quanto il Maupassant, insi-gni artisti, non riuscirono – a dispetto della teoria – duefotografi; non solo, ma il primo non riusci neppure unvero naturalista. La differenza tra natura e arte, costitui-ta appunto dalla modificazione che l’arte imprime allanatura, è evidentissima infatti in quel disdegno ironicodel Flaubert (che chiuse da umorista con Bouvard et Pé-cuchet, fratelli o figliuoli di Dupuis et Colonet), disde-gno ironico per la piatta realtà presa a descrivere per si-stema e odiata per istinto; ed è anche evidentissima nelproponimento del Maupassant d’opporre costantementel’istinto sicuro e fermo alla ragione incerta e vacillante,mostrando la bestialità stessa come il fondo del nostroessere, fondo solido che può solo mantenerci contro icapricci dell’immaginazione e gli errori dell’intelletto.5

Pittori, dunque – se mai – non fotografi; e pittori nonal modo con cui l’intendeva Biagio Pascal, il quale, rife-rendosi evidentemente a un concetto già espresso daAristotele nella Poetica e ripetuto poi da tanti altri; nontenendo conto della rifrazione degli oggetti nello spiritodell’artista, e credendo che la pittura non avesse altroscopo che quello d’attirar l’ammirazione «pour la res-

5 Vedi GEORGES PELISSIER, Le mouvement littéraire contemporain (Paris, Ha-chette et Cie, 1901). Ma il P. veramente non ammette alcuna modificazione, al-cuna alterazione nel Maupassant delle imagini reali, come se il Maupassantnon avesse un modo particolare di vedere, di pensare, di sentire; come se giànella scelta stessa delle rappresentazioni questo particolar modo di vedere, dipensare, di sentire non si affermasse esplicitamente!

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«Va’ a far due passi, e mi riferirai in cento righi ciòche avrai veduto.»

Ma tanto il Flaubert, poi, quanto il Maupassant, insi-gni artisti, non riuscirono – a dispetto della teoria – duefotografi; non solo, ma il primo non riusci neppure unvero naturalista. La differenza tra natura e arte, costitui-ta appunto dalla modificazione che l’arte imprime allanatura, è evidentissima infatti in quel disdegno ironicodel Flaubert (che chiuse da umorista con Bouvard et Pé-cuchet, fratelli o figliuoli di Dupuis et Colonet), disde-gno ironico per la piatta realtà presa a descrivere per si-stema e odiata per istinto; ed è anche evidentissima nelproponimento del Maupassant d’opporre costantementel’istinto sicuro e fermo alla ragione incerta e vacillante,mostrando la bestialità stessa come il fondo del nostroessere, fondo solido che può solo mantenerci contro icapricci dell’immaginazione e gli errori dell’intelletto.5

Pittori, dunque – se mai – non fotografi; e pittori nonal modo con cui l’intendeva Biagio Pascal, il quale, rife-rendosi evidentemente a un concetto già espresso daAristotele nella Poetica e ripetuto poi da tanti altri; nontenendo conto della rifrazione degli oggetti nello spiritodell’artista, e credendo che la pittura non avesse altroscopo che quello d’attirar l’ammirazione «pour la res-

5 Vedi GEORGES PELISSIER, Le mouvement littéraire contemporain (Paris, Ha-chette et Cie, 1901). Ma il P. veramente non ammette alcuna modificazione, al-cuna alterazione nel Maupassant delle imagini reali, come se il Maupassantnon avesse un modo particolare di vedere, di pensare, di sentire; come se giànella scelta stessa delle rappresentazioni questo particolar modo di vedere, dipensare, di sentire non si affermasse esplicitamente!

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semblance des choses dont nous n’admirons pas les ori-ginaux», esclamava: – Che vanità la pittura!

Ritorniamo alla illustrazione.Forse la mancanza di opere per sè stesse illustri fa

oggi trionfar così gl’illustratori? Freddura, facilissimobisticcio; ma viene spontaneamente alle labbra, conside-rando come gl’illustratori trionfino oggidì non solo neilibri, nelle rassegne, nei giornali, ma da per tutto: anche– e sia detto di passata – nella musica.

Il musicista che prende un dramma, o un drammac-cio, ma compiuto in ogni sua parte (la Tosca, poniamo,o la Fedora) e l’incornicia e lo fregia di comenti orche-strali, applicandovi qua e là qualche vignetta melodica,non fa forse in un altro campo l’illustratore anche lui?

Si sa che il libretto d’un melodramma, a rigore, do-vrebbe essere quasi inintelligibile alla lettura, apparirmonco, incompleto, com’opera d’arte; dovrebbe cioè la-sciar sospeso, insodisfatto il lettore, col desiderio vivo,irrequieto, di un’altra parte, non ascitizia, ma sostanzia-le: la musica, che, unita e fusa con esso, dovrebbe for-mare l’opera d’arte intera: il melodramma.

Chi musica Tosca o Fedora mostra di non intendere,o di non volere intendere che cosa sia o debba essere unmelodramma, per la semplicissima ragione che la musi-ca in tali drammi, comunque sia compiuti, rappresentanon solo un contorno superfluo e ozioso, ma – nel sensoclassico della parola – una contaminazione indegna.

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semblance des choses dont nous n’admirons pas les ori-ginaux», esclamava: – Che vanità la pittura!

Ritorniamo alla illustrazione.Forse la mancanza di opere per sè stesse illustri fa

oggi trionfar così gl’illustratori? Freddura, facilissimobisticcio; ma viene spontaneamente alle labbra, conside-rando come gl’illustratori trionfino oggidì non solo neilibri, nelle rassegne, nei giornali, ma da per tutto: anche– e sia detto di passata – nella musica.

Il musicista che prende un dramma, o un drammac-cio, ma compiuto in ogni sua parte (la Tosca, poniamo,o la Fedora) e l’incornicia e lo fregia di comenti orche-strali, applicandovi qua e là qualche vignetta melodica,non fa forse in un altro campo l’illustratore anche lui?

Si sa che il libretto d’un melodramma, a rigore, do-vrebbe essere quasi inintelligibile alla lettura, apparirmonco, incompleto, com’opera d’arte; dovrebbe cioè la-sciar sospeso, insodisfatto il lettore, col desiderio vivo,irrequieto, di un’altra parte, non ascitizia, ma sostanzia-le: la musica, che, unita e fusa con esso, dovrebbe for-mare l’opera d’arte intera: il melodramma.

Chi musica Tosca o Fedora mostra di non intendere,o di non volere intendere che cosa sia o debba essere unmelodramma, per la semplicissima ragione che la musi-ca in tali drammi, comunque sia compiuti, rappresentanon solo un contorno superfluo e ozioso, ma – nel sensoclassico della parola – una contaminazione indegna.

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Com’è inversamente, a mio modo di vedere, non dicola vignetta fotografica, ma anche quella artistica in un li-bro di poesia.

Che se quella – la musica – offende perchè pone ilsentimento vago, che è proprio delle sue forme e de’suoi modi, tra le idee e le rappresentazioni precise d’undramma realistico; la vignetta offende perchè determinatroppo e quasi irrigidisce in un’espressione troppo preci-sa le imagini del poeta, quando non le falsi.

È il problema estetico posto già da tanto tempo e ri-solto dal Lessing contro le idee dello Spencer su la stret-ta unione di poesia e pittura presso gli antichi, e del con-te di Caylus, il quale giudicava di maggiore o minor va-lore una poesia secondo che potesse o no essere da unpittore tradotta in quadri: problema estetico, che il Cro-ce a torto, credendo che il rapporto tra il fatto estetico,ossia la visione artistica, e il fatto fisico, ossia l’istru-mento che serve d’ajuto per la riproduzione, sia pura-mente estrinseco, dichiara inesistente; ma che il Cesareoinvece ammette e giustifica, considerandolo sottol’aspetto della coerenza, cioè dello scrupoloso ossequio,sia nelle immagini singole, sia nella creazione totale,alla tecnica dell’arte, che per lui è «la immediata appli-cazione delle leggi pratiche ai mezzi comunicativi dellarappresentazione estetica».6

Applicazione, per quanto immediata, non par detto fe-licemente. Per me, in arte, ciò che il Croce chiama atti-

6 Vedi La critica estetica, in Critica militante (Messina, Trimarchi, 1907).

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Com’è inversamente, a mio modo di vedere, non dicola vignetta fotografica, ma anche quella artistica in un li-bro di poesia.

Che se quella – la musica – offende perchè pone ilsentimento vago, che è proprio delle sue forme e de’suoi modi, tra le idee e le rappresentazioni precise d’undramma realistico; la vignetta offende perchè determinatroppo e quasi irrigidisce in un’espressione troppo preci-sa le imagini del poeta, quando non le falsi.

È il problema estetico posto già da tanto tempo e ri-solto dal Lessing contro le idee dello Spencer su la stret-ta unione di poesia e pittura presso gli antichi, e del con-te di Caylus, il quale giudicava di maggiore o minor va-lore una poesia secondo che potesse o no essere da unpittore tradotta in quadri: problema estetico, che il Cro-ce a torto, credendo che il rapporto tra il fatto estetico,ossia la visione artistica, e il fatto fisico, ossia l’istru-mento che serve d’ajuto per la riproduzione, sia pura-mente estrinseco, dichiara inesistente; ma che il Cesareoinvece ammette e giustifica, considerandolo sottol’aspetto della coerenza, cioè dello scrupoloso ossequio,sia nelle immagini singole, sia nella creazione totale,alla tecnica dell’arte, che per lui è «la immediata appli-cazione delle leggi pratiche ai mezzi comunicativi dellarappresentazione estetica».6

Applicazione, per quanto immediata, non par detto fe-licemente. Per me, in arte, ciò che il Croce chiama atti-

6 Vedi La critica estetica, in Critica militante (Messina, Trimarchi, 1907).

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vità teoretica è men che niente se il fatto estetico non èintegrato dall’attività pratica divenuta tutt’uno con esso,nè i mezzi comunicativi della rappresentazione estetica(parola, suoni musicali, colori, ecc.) e la tecnica hannoun rapporto estrinseco col fatto estetico interno; masono anzi, in arte, il fatto estetico stesso, nè un solo fattoestetico, ma questo o quel fatto estetico. Per me, la tec-nica, insomma, è l’attività stessa spirituale che manmano si libera in movimenti che la traducono un lin-guaggio d’apparenze; la tecnica è il libero, spontaneo eimmediato movimento della forma. Dallo spirito del pit-tore — dice il Séailles7 — il quadro discende nelle ditadi lui, le muove, e non cessa d’agire se non quando essosi è riflesso su la tela.

L’esecuzione in somma è la concezione stessa, viva inazione. All’ispirazione dell’artista non succede il lavoroa freddo dell’artigiano. Si tratta di creare una realtà che,come l’immagine stessa che vive nello spirito dell’arti-sta, sia a un tempo, come abbiamo già detto8 – materialee spirituale: un’apparenza che sia l’immagine, ma dive-nuta sensibile. Ora questo non potrebbe avvenire sel’immagine stessa non tendesse spontaneamente a tra-sformarsi nel movimento che dovrà effettuarla. L’attivi-tà pratica, la tecnica, il lavoro devono essere spontanei equasi incoscienti. La scienza acquisita non può essereimpiegata per mezzo della riflessione; la tecnicadev’esser divenuta nell’artista quasi un istinto. E creare

7 Vedi G. SÉAILLES, Essai sur le gènie dans l’art (Paris, Alcan).8 Vedi il primo saggio Arte e Scienza.

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vità teoretica è men che niente se il fatto estetico non èintegrato dall’attività pratica divenuta tutt’uno con esso,nè i mezzi comunicativi della rappresentazione estetica(parola, suoni musicali, colori, ecc.) e la tecnica hannoun rapporto estrinseco col fatto estetico interno; masono anzi, in arte, il fatto estetico stesso, nè un solo fattoestetico, ma questo o quel fatto estetico. Per me, la tec-nica, insomma, è l’attività stessa spirituale che manmano si libera in movimenti che la traducono un lin-guaggio d’apparenze; la tecnica è il libero, spontaneo eimmediato movimento della forma. Dallo spirito del pit-tore — dice il Séailles7 — il quadro discende nelle ditadi lui, le muove, e non cessa d’agire se non quando essosi è riflesso su la tela.

L’esecuzione in somma è la concezione stessa, viva inazione. All’ispirazione dell’artista non succede il lavoroa freddo dell’artigiano. Si tratta di creare una realtà che,come l’immagine stessa che vive nello spirito dell’arti-sta, sia a un tempo, come abbiamo già detto8 – materialee spirituale: un’apparenza che sia l’immagine, ma dive-nuta sensibile. Ora questo non potrebbe avvenire sel’immagine stessa non tendesse spontaneamente a tra-sformarsi nel movimento che dovrà effettuarla. L’attivi-tà pratica, la tecnica, il lavoro devono essere spontanei equasi incoscienti. La scienza acquisita non può essereimpiegata per mezzo della riflessione; la tecnicadev’esser divenuta nell’artista quasi un istinto. E creare

7 Vedi G. SÉAILLES, Essai sur le gènie dans l’art (Paris, Alcan).8 Vedi il primo saggio Arte e Scienza.

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appunto in sè quest'istinto mobile e sicuro, questa speciedi fatalità che, sotto l’azione del desiderio, faccia ri-spondere all’immagine il movimento che l’esprima; ap-propriarsi il linguaggio tecnico dell’arte fino a parlarlonaturalmente, è la prima condizione dell’artista vero.

In questo senso devono essere intesi nell’arte l’attivi-tà pratica, la tecnica, i mezzi comunicativi della rappre-sentazione, il fatto fisico in rapporto al fatto estetico, lacui unità non si salva ma si compromette, vedendo duefatti dove invece non è che un fatto solo. E s’intenderàallora facilmente che questo fatto estetico non può esse-re uno, uguale per tutte le arti; che la diversità esteriorenelle varie arti implica che sia diverso anche il fatto in-teriore. Un artista non è fatto dal caso o dall’attività pra-tica, come il Croce la intende, pittore o musico o poeta.Chi da un passaggio coglie un’impressione piuttosto cheun’immagine: chi più che visioni precise ha forme va-ghe, ma tuttavia l’anima commossa da profondi senti-menti, trova nella musica il suo linguaggio naturale. Ilpensiero del pittore è una visione; la logica del pittore è,per così dire, il giuoco espressivo d’una luce che orasplende or s’attenua, e i suoi sentimenti hanno un colo-re, una forma, o meglio, il colore e la forma sono per luisentimenti.

E veramente il poeta è meno limitato del pittore emeno libero del musico. Senza dubbio avviene talvolta– e ne abbiamo tanti esempii – che uno scrittored’immaginazione pittorica veda più che non pensi, e cheun pittore filosofo pensi invece di vedere. Lo scrittore

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appunto in sè quest'istinto mobile e sicuro, questa speciedi fatalità che, sotto l’azione del desiderio, faccia ri-spondere all’immagine il movimento che l’esprima; ap-propriarsi il linguaggio tecnico dell’arte fino a parlarlonaturalmente, è la prima condizione dell’artista vero.

In questo senso devono essere intesi nell’arte l’attivi-tà pratica, la tecnica, i mezzi comunicativi della rappre-sentazione, il fatto fisico in rapporto al fatto estetico, lacui unità non si salva ma si compromette, vedendo duefatti dove invece non è che un fatto solo. E s’intenderàallora facilmente che questo fatto estetico non può esse-re uno, uguale per tutte le arti; che la diversità esteriorenelle varie arti implica che sia diverso anche il fatto in-teriore. Un artista non è fatto dal caso o dall’attività pra-tica, come il Croce la intende, pittore o musico o poeta.Chi da un passaggio coglie un’impressione piuttosto cheun’immagine: chi più che visioni precise ha forme va-ghe, ma tuttavia l’anima commossa da profondi senti-menti, trova nella musica il suo linguaggio naturale. Ilpensiero del pittore è una visione; la logica del pittore è,per così dire, il giuoco espressivo d’una luce che orasplende or s’attenua, e i suoi sentimenti hanno un colo-re, una forma, o meglio, il colore e la forma sono per luisentimenti.

E veramente il poeta è meno limitato del pittore emeno libero del musico. Senza dubbio avviene talvolta– e ne abbiamo tanti esempii – che uno scrittored’immaginazione pittorica veda più che non pensi, e cheun pittore filosofo pensi invece di vedere. Lo scrittore

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stempera in dieci pagine quel che dovrebbe essere rac-colto in uno sguardo; il pittore sovrappone le proprieidee successive in un’immagine che si divide comel’atto dallo spirito che l’ha concepita. Nei due casi ilquadro avrà bisogno d’un commentario: quello del pit-tore per esser compreso, quello dello scrittore per esserveduto.

«Quando il Lessing, nel Laocoonte» – scrive il Cesa-reo, – segnò i limiti fra pittura e poesia, egli in sommanon agitò se non una questione di tecnica; nè si può direche avesse torto. La tecnica della pittura, ch’è rappre-sentazione di un momento nello spazio, esclude perciòqualunque successione di tempo: per legge fisica, noinon possiamo vedere a un tempo due aspetti diversi del-la cosa medesima. Così la tecnica della poesia, ch’è rap-presentazione di più momenti consecutivi nel tempo,esclude invece l’indugio soverchio sui particolari di cia-scun momento: per legge psichica, noi non possiamocogliere l’immagine unica e intera di cose evocate inmomenti diversi. Quanto più subitanea è la percezionesensibile della cosa, tanto più sarà vietato al poeta disminuzzarla nelle sue parti; l’opera d’arte non è perce-zione, ma è regolata dai risultati sperimentali di questa:ora una percezione sola e sintetica non può frangersi inpiù sensazioni tarde, analitiche, improprie. Codesto sa-rebbe un decomporre la concreta unità della percezionein un sistema di sensazioni: l’individuo verrebbe espres-so non già psicologicamente, ma logicamente. È lecitoal poeta di rappresentare successive percezioni nel tem-

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stempera in dieci pagine quel che dovrebbe essere rac-colto in uno sguardo; il pittore sovrappone le proprieidee successive in un’immagine che si divide comel’atto dallo spirito che l’ha concepita. Nei due casi ilquadro avrà bisogno d’un commentario: quello del pit-tore per esser compreso, quello dello scrittore per esserveduto.

«Quando il Lessing, nel Laocoonte» – scrive il Cesa-reo, – segnò i limiti fra pittura e poesia, egli in sommanon agitò se non una questione di tecnica; nè si può direche avesse torto. La tecnica della pittura, ch’è rappre-sentazione di un momento nello spazio, esclude perciòqualunque successione di tempo: per legge fisica, noinon possiamo vedere a un tempo due aspetti diversi del-la cosa medesima. Così la tecnica della poesia, ch’è rap-presentazione di più momenti consecutivi nel tempo,esclude invece l’indugio soverchio sui particolari di cia-scun momento: per legge psichica, noi non possiamocogliere l’immagine unica e intera di cose evocate inmomenti diversi. Quanto più subitanea è la percezionesensibile della cosa, tanto più sarà vietato al poeta disminuzzarla nelle sue parti; l’opera d’arte non è perce-zione, ma è regolata dai risultati sperimentali di questa:ora una percezione sola e sintetica non può frangersi inpiù sensazioni tarde, analitiche, improprie. Codesto sa-rebbe un decomporre la concreta unità della percezionein un sistema di sensazioni: l’individuo verrebbe espres-so non già psicologicamente, ma logicamente. È lecitoal poeta di rappresentare successive percezioni nel tem-

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po; non gli è lecito di descrivere i particolari d’una vi-sione istantanea nello spazio. Per questo i ritratti perconnotati d’uomo o di donna, le prolisse descrizioni dinatura viva o di natura morta, che piacquero al Zola, itravasamenti in versi del contenuto di quadri celebri ealtrettali esercitazioni da perdigiorni non son punto poe-sia. Ma, si dirà, come dee dunque un poeta rappresenta-re una sua intuizione di bellezza, una donna, un giardi-no, il mare in tempesta, il firmamento stellato, e via di-cendo? Come, non si può dire: ci son norme per la criti-ca dell’espressione, non per la produzione di questa:solo bisogna che il poeta non faccia contro alla tecnicadell’arte sua». E il Cesareo ricorda il modo come Danterappresenta la bellezza di Beatrice, e il Leopardi, di Sil-via o Nerina; e cita il vecchio ma sempre significativoesempio d’Omero, che non descrive altrimenti la bellez-za di Elena che nello stupore dei vecchioni di Troja alpassaggio della donna fatale; e, all’incontro, l’esempiodell’Ariosto, su cui s’era indugiato anche il Lessing, perla descrizione d’Alcina.

Da tutto ciò risulta evidente che la pittura è più limi-tata della poesia; e che perciò un illustratore, per quantointerpreti bene il sentimento del poeta non riuscirà mai,per la natura stessa della sua arte, a rendere quel che vi èdi fluttuante nell’espressione poetica. Il sentimento resovisibile, rappreso per così dire nei contorni del disegno,diventa piuttosto sensazione. Le immagini del poeta, fis-sate, avventano.

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po; non gli è lecito di descrivere i particolari d’una vi-sione istantanea nello spazio. Per questo i ritratti perconnotati d’uomo o di donna, le prolisse descrizioni dinatura viva o di natura morta, che piacquero al Zola, itravasamenti in versi del contenuto di quadri celebri ealtrettali esercitazioni da perdigiorni non son punto poe-sia. Ma, si dirà, come dee dunque un poeta rappresenta-re una sua intuizione di bellezza, una donna, un giardi-no, il mare in tempesta, il firmamento stellato, e via di-cendo? Come, non si può dire: ci son norme per la criti-ca dell’espressione, non per la produzione di questa:solo bisogna che il poeta non faccia contro alla tecnicadell’arte sua». E il Cesareo ricorda il modo come Danterappresenta la bellezza di Beatrice, e il Leopardi, di Sil-via o Nerina; e cita il vecchio ma sempre significativoesempio d’Omero, che non descrive altrimenti la bellez-za di Elena che nello stupore dei vecchioni di Troja alpassaggio della donna fatale; e, all’incontro, l’esempiodell’Ariosto, su cui s’era indugiato anche il Lessing, perla descrizione d’Alcina.

Da tutto ciò risulta evidente che la pittura è più limi-tata della poesia; e che perciò un illustratore, per quantointerpreti bene il sentimento del poeta non riuscirà mai,per la natura stessa della sua arte, a rendere quel che vi èdi fluttuante nell’espressione poetica. Il sentimento resovisibile, rappreso per così dire nei contorni del disegno,diventa piuttosto sensazione. Le immagini del poeta, fis-sate, avventano.

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Questo, ripeto, quando l’illustratore non falsi, cioènon interpreti male l’immagine espressa dal poeta. El’interpretazione fedele è così difficile, per non dire im-possibile! Più l’artista è valente, più vede ed esprime inun modo suo proprio e particolare. Tre pittori messi nel-le stesse condizioni di luce e d’ambiente, a ritrarre qual-cuno li dinanzi a loro, vivo e spirante, faranno tre ritrattidifferenti: immaginiamoci che faranno d’una figuraideale, d’una scena finta in un libro! Può dirlo chi haavuto la ventura di vedere pubblicato un suo romanzo ouna sua novella in qualche rivista illustrata.

E per un altro verso e in un altro campo, dell’impossi-bilità, o quasi, d’una fedele interpretazione può dire chiha scritto e scrive per il teatro. Perchè, nell’arte dram-matica, che cos’è la scena se non una grande vignettaviva, in azione? che cosa sono i comici se non illustrato-ri anche loro?

Ma illustratori necessari, qui, purtroppo.*

Quando noi leggiamo un romanzo o una novella,c’ingegniamo di raffigurarci i personaggi e le scenecome a mano a mano ce li descrive e ce li rappresental’autore. Ora supponiamo per un momento che questipersonaggi, a un tratto, per un prodigio, balzino dal librovivi innanzi a noi, nella nostra stanza, e si mettano aparlare con la loro voce e a muoversi e a compiere laloro azione senza più il sostegno descrittivo o narrativodel libro.

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Questo, ripeto, quando l’illustratore non falsi, cioènon interpreti male l’immagine espressa dal poeta. El’interpretazione fedele è così difficile, per non dire im-possibile! Più l’artista è valente, più vede ed esprime inun modo suo proprio e particolare. Tre pittori messi nel-le stesse condizioni di luce e d’ambiente, a ritrarre qual-cuno li dinanzi a loro, vivo e spirante, faranno tre ritrattidifferenti: immaginiamoci che faranno d’una figuraideale, d’una scena finta in un libro! Può dirlo chi haavuto la ventura di vedere pubblicato un suo romanzo ouna sua novella in qualche rivista illustrata.

E per un altro verso e in un altro campo, dell’impossi-bilità, o quasi, d’una fedele interpretazione può dire chiha scritto e scrive per il teatro. Perchè, nell’arte dram-matica, che cos’è la scena se non una grande vignettaviva, in azione? che cosa sono i comici se non illustrato-ri anche loro?

Ma illustratori necessari, qui, purtroppo.*

Quando noi leggiamo un romanzo o una novella,c’ingegniamo di raffigurarci i personaggi e le scenecome a mano a mano ce li descrive e ce li rappresental’autore. Ora supponiamo per un momento che questipersonaggi, a un tratto, per un prodigio, balzino dal librovivi innanzi a noi, nella nostra stanza, e si mettano aparlare con la loro voce e a muoversi e a compiere laloro azione senza più il sostegno descrittivo o narrativodel libro.

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Nessuno stupore! Questo prodigio appunto compiel’arte drammatica.

Ricordate la bella romanza fantastica di Arrigo Heinesu Jaufré Rudel e Melisenda?

«Nel castello di Blaya tutte le notti si sente un tremo-lio, uno scricchiolio, un susurro: le figure degli arazzicominciano a un tratto a muoversi. Il trovatore e ladama scuotono le addormentate membra di fantasime,scendono dalla parete e passeggiano su e giù per lasala.»

Qua il prodigio è operato dal raggio di luna nel vec-chio castello disabitato. I sommi tragedi greci lo aveva-no operato, spirando una possente anima lirica nellegrandiose figure del magnifico arazzo dell’epopea e del-le antiche leggende elleniche. Lo operò poi lo Shake-speare staccando dalla storia romana e dalla inglese lefigure più tragiche e complesse e altre staccandone daingegnosi orditi di novelle italiane.

Ma perchè dalle pagine scritte i personaggi balzinovivi e semoventi bisogna che il drammaturgo trovi la pa-rola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva chemuova, l’espressione immediata, connaturata con l’atto,l’espressione unica, che non può esser che quella, pro-pria cioè a quel dato personaggio in quella data situazio-ne; parole, espressioni che non s’inventano, ma che na-scono, quando l’autore si sia veramente immedesimatocon la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, avolerla com’essa si vuole.

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Nessuno stupore! Questo prodigio appunto compiel’arte drammatica.

Ricordate la bella romanza fantastica di Arrigo Heinesu Jaufré Rudel e Melisenda?

«Nel castello di Blaya tutte le notti si sente un tremo-lio, uno scricchiolio, un susurro: le figure degli arazzicominciano a un tratto a muoversi. Il trovatore e ladama scuotono le addormentate membra di fantasime,scendono dalla parete e passeggiano su e giù per lasala.»

Qua il prodigio è operato dal raggio di luna nel vec-chio castello disabitato. I sommi tragedi greci lo aveva-no operato, spirando una possente anima lirica nellegrandiose figure del magnifico arazzo dell’epopea e del-le antiche leggende elleniche. Lo operò poi lo Shake-speare staccando dalla storia romana e dalla inglese lefigure più tragiche e complesse e altre staccandone daingegnosi orditi di novelle italiane.

Ma perchè dalle pagine scritte i personaggi balzinovivi e semoventi bisogna che il drammaturgo trovi la pa-rola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva chemuova, l’espressione immediata, connaturata con l’atto,l’espressione unica, che non può esser che quella, pro-pria cioè a quel dato personaggio in quella data situazio-ne; parole, espressioni che non s’inventano, ma che na-scono, quando l’autore si sia veramente immedesimatocon la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, avolerla com’essa si vuole.

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Il fenomeno più elementare che si trova in fondoall’esecuzione d’ogni opera d’arte è questo: un’imagine(cioè quella specie di essere immateriale e pur vivente,che l’artista ha concepito e sviluppato con l’attivitàcreatrice dello spirito) un’imagine, che tende a divenire– come abbiamo detto – il movimento che la effettui, larenda reale, all’esterno, fuori dell’artista. L’esecuzionebisogna che balzi viva dalla concezione e soltanto pervirtù di essa, per un movimento non provocato indu-striosamente, ma libero, cioè promosso dall’imaginestessa, che vuol liberarsi, tradursi in realtà e vivere. Sitratta di creare, abbiamo detto, una realtà che, comel’immagine, sia a un tempo materiale e spirituale,un’apparenza che sia l’immagine ma divenuta sensibile.Al complesso delle immagini organate nella concezioneartistica dovrà rispondere per ciò un complesso di movi-menti organati, combinati secondo gli stessi rapporti etendenti a creare un’apparenza che, senza alterare i ca-ratteri propri dell’immagine, senz’infrangere minima-mente l’armonia affatto spirituale di essa, la faccia en-trare nel mondo reale. Nell’esecuzione si dovrebberodunque trovare tutti i caratteri della concezione.

Può avvenir questo nell’arte drammatica?Sempre, purtroppo, tra l’autore drammatico e la sua

creatura, nella materialità della rappresentazione,s’introduce necessariamente un terzo elemento impre-scindibile: l’attore.

Questa, come è noto, è per l’arte drammatica una sog-gezione inovviabile.

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Il fenomeno più elementare che si trova in fondoall’esecuzione d’ogni opera d’arte è questo: un’imagine(cioè quella specie di essere immateriale e pur vivente,che l’artista ha concepito e sviluppato con l’attivitàcreatrice dello spirito) un’imagine, che tende a divenire– come abbiamo detto – il movimento che la effettui, larenda reale, all’esterno, fuori dell’artista. L’esecuzionebisogna che balzi viva dalla concezione e soltanto pervirtù di essa, per un movimento non provocato indu-striosamente, ma libero, cioè promosso dall’imaginestessa, che vuol liberarsi, tradursi in realtà e vivere. Sitratta di creare, abbiamo detto, una realtà che, comel’immagine, sia a un tempo materiale e spirituale,un’apparenza che sia l’immagine ma divenuta sensibile.Al complesso delle immagini organate nella concezioneartistica dovrà rispondere per ciò un complesso di movi-menti organati, combinati secondo gli stessi rapporti etendenti a creare un’apparenza che, senza alterare i ca-ratteri propri dell’immagine, senz’infrangere minima-mente l’armonia affatto spirituale di essa, la faccia en-trare nel mondo reale. Nell’esecuzione si dovrebberodunque trovare tutti i caratteri della concezione.

Può avvenir questo nell’arte drammatica?Sempre, purtroppo, tra l’autore drammatico e la sua

creatura, nella materialità della rappresentazione,s’introduce necessariamente un terzo elemento impre-scindibile: l’attore.

Questa, come è noto, è per l’arte drammatica una sog-gezione inovviabile.

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Come l’autore, per fare opera viva, deve immedesi-marsi con la sua creatura, fino a sentirla com’essa sentesè stessa, a volerla com’essa vuole sè stessa; così, e nonaltrimenti, se fosse possibile, dovrebbe fare l’attore.

Ma anche quando si trovi un grande attore che riescaa spogliarsi del tutto della propria individualità per en-trare in quella del personaggio ch’egli deve rappresenta-re, l’incarnazione piena e perfetta è ostacolata spesso daragioni di fatto irrimediabili: dalla figura stessadell’attore, per esempio. A questo inconveniente si ripa-ra, almeno in parte, con la truccatura. Ma abbiamo sem-pre piuttosto un adattamento, una maschera, anzichè unavera incarnazione.

E quella stessa ingrata sorpresa che proviamo leggen-do un libro illustrato, nel veder raffigurato dall’illustra-tore nella vignetta in un modo affatto diverso da quelloche ci eravamo immaginato qualche personaggio o qual-che scena, deve provar senza dubbio un autore dramma-tico nel veder rappresentato dagli attori in teatro il suodramma. Per quanto l’attore si sforzi di penetrare nelleintenzioni dello scrittore, difficilmente riuscirà a vederecome questi ha veduto, a sentire il personaggio comel’autore l’ha sentito, a renderlo su la scena come l’auto-re l’ha voluto.

Se potesse avverarsi il prodigio a cui ho accennatopiù su, se cioè noi potessimo vedere, leggendo qualcheromanzo, balzar vivi dal libro innanzi a noi i personag-gi, e li vedessimo non già come noi ce li eravamo imma-ginati, ma come li ha raffigurati l’illustratore nella vi-

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Come l’autore, per fare opera viva, deve immedesi-marsi con la sua creatura, fino a sentirla com’essa sentesè stessa, a volerla com’essa vuole sè stessa; così, e nonaltrimenti, se fosse possibile, dovrebbe fare l’attore.

Ma anche quando si trovi un grande attore che riescaa spogliarsi del tutto della propria individualità per en-trare in quella del personaggio ch’egli deve rappresenta-re, l’incarnazione piena e perfetta è ostacolata spesso daragioni di fatto irrimediabili: dalla figura stessadell’attore, per esempio. A questo inconveniente si ripa-ra, almeno in parte, con la truccatura. Ma abbiamo sem-pre piuttosto un adattamento, una maschera, anzichè unavera incarnazione.

E quella stessa ingrata sorpresa che proviamo leggen-do un libro illustrato, nel veder raffigurato dall’illustra-tore nella vignetta in un modo affatto diverso da quelloche ci eravamo immaginato qualche personaggio o qual-che scena, deve provar senza dubbio un autore dramma-tico nel veder rappresentato dagli attori in teatro il suodramma. Per quanto l’attore si sforzi di penetrare nelleintenzioni dello scrittore, difficilmente riuscirà a vederecome questi ha veduto, a sentire il personaggio comel’autore l’ha sentito, a renderlo su la scena come l’auto-re l’ha voluto.

Se potesse avverarsi il prodigio a cui ho accennatopiù su, se cioè noi potessimo vedere, leggendo qualcheromanzo, balzar vivi dal libro innanzi a noi i personag-gi, e li vedessimo non già come noi ce li eravamo imma-ginati, ma come li ha raffigurati l’illustratore nella vi-

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gnetta che ci ha procurato l’ingrata sorpresa, noi soffri-remmo certamente come per una sopraffazione, comeper un incubo nel sonno, ci ribelleremmo, grideremmo:

– No! così no! così no!Ebbene, quante volte un povero autore drammatico,

assistendo alle prove d’un suo lavoro, non grida allostesso modo: – No! così no! – torcendosi come a unsupplizio, per il dispetto, per la rabbia, per il dolore dinon veder rispondere la traduzione in realtà materiale,che dev’essere per forza altrui, alla concezione e aquell’esecuzione ideale che son sue, tutte sue?

Ma allora, al richiamo dell’autore, soffre l’attore dalcanto suo, l’attore che vede e sente altrimenti e conside-ra a sua volta come una sopraffazione, come un incubo,la volontà e la visione dell’autore. Perchè l’attore, senon vuole (nè può volerlo) che le parole scritte deldramma gli escano dalla bocca come da un portavoce oda un fonografo, bisogna che riconcepisca il personag-gio, lo concepisca cioè a sua volta per conto suo; biso-gna che l’imagine già espressa torni ad organarsi in lui etenda a divenire il movimento che la effettui e la rendareale su la scena. Anche per lui, insomma, l’esecuzionebisogna che balzi viva dalla concezione, e soltanto pervirtù di essa, per movimenti cioè promossi dall’imaginestessa, viva e attiva, non solo dentro di lui, ma divenutacon lui e in lui anima e corpo.

Ora, benchè non nata nell’attore spontaneamente, masuscitata nello spirito di lui dall’espressione del poeta,quest’immagine può esser mai la stessa? può non alte-

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gnetta che ci ha procurato l’ingrata sorpresa, noi soffri-remmo certamente come per una sopraffazione, comeper un incubo nel sonno, ci ribelleremmo, grideremmo:

– No! così no! così no!Ebbene, quante volte un povero autore drammatico,

assistendo alle prove d’un suo lavoro, non grida allostesso modo: – No! così no! – torcendosi come a unsupplizio, per il dispetto, per la rabbia, per il dolore dinon veder rispondere la traduzione in realtà materiale,che dev’essere per forza altrui, alla concezione e aquell’esecuzione ideale che son sue, tutte sue?

Ma allora, al richiamo dell’autore, soffre l’attore dalcanto suo, l’attore che vede e sente altrimenti e conside-ra a sua volta come una sopraffazione, come un incubo,la volontà e la visione dell’autore. Perchè l’attore, senon vuole (nè può volerlo) che le parole scritte deldramma gli escano dalla bocca come da un portavoce oda un fonografo, bisogna che riconcepisca il personag-gio, lo concepisca cioè a sua volta per conto suo; biso-gna che l’imagine già espressa torni ad organarsi in lui etenda a divenire il movimento che la effettui e la rendareale su la scena. Anche per lui, insomma, l’esecuzionebisogna che balzi viva dalla concezione, e soltanto pervirtù di essa, per movimenti cioè promossi dall’imaginestessa, viva e attiva, non solo dentro di lui, ma divenutacon lui e in lui anima e corpo.

Ora, benchè non nata nell’attore spontaneamente, masuscitata nello spirito di lui dall’espressione del poeta,quest’immagine può esser mai la stessa? può non alte-

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rarsi, non modificarsi passando da uno spirito a un al-tro?

Non sarà più la stessa. Sarà magari un’immagine ap-prossimativa, più o meno somigliante; ma la stessa, no.Quel dato personaggio su la scena dirà le stesse paroledel dramma scritto, ma non sarà mai quello del poeta,perchè l’attore l’ha ricreato in sè, e sua è l’espressionequand’anche non siano sue le parole; sua la voce, suo ilcorpo, suo il gesto.

È precisamente lo stesso caso del traduttore.*

Illustratori, attori e traduttori si trovano difatti, a benconsiderare, nella medesima condizione di fronteall’estimativa estetica.

Anche senza tener conto dell’ultima conseguenzadell’illustrazione con la macchina fotografica, in cuil’identità tra illustratore e attore è precisa, in quanto chel’illustrazione è fatta qui propriamente da attori ritrattidalla macchina fotografica nell’atto di interpretare congli atteggiamenti, con la mimica, i personaggi e le azio-ni descritti e narrati dal novelliere o dal romanziere;consideriamo l’illustratore artista, non fotografo, l’attoree il traduttore.

Tutti e tre hanno davanti a sè un’opera d’arte giàespressa, cioè già concepita ed eseguita da altri, chel’uno deve tradurre in un’altra arte; il secondo, in azionemateriale; il terzo, in un’altra lingua.

Come saranno possibili queste traduzioni?

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rarsi, non modificarsi passando da uno spirito a un al-tro?

Non sarà più la stessa. Sarà magari un’immagine ap-prossimativa, più o meno somigliante; ma la stessa, no.Quel dato personaggio su la scena dirà le stesse paroledel dramma scritto, ma non sarà mai quello del poeta,perchè l’attore l’ha ricreato in sè, e sua è l’espressionequand’anche non siano sue le parole; sua la voce, suo ilcorpo, suo il gesto.

È precisamente lo stesso caso del traduttore.*

Illustratori, attori e traduttori si trovano difatti, a benconsiderare, nella medesima condizione di fronteall’estimativa estetica.

Anche senza tener conto dell’ultima conseguenzadell’illustrazione con la macchina fotografica, in cuil’identità tra illustratore e attore è precisa, in quanto chel’illustrazione è fatta qui propriamente da attori ritrattidalla macchina fotografica nell’atto di interpretare congli atteggiamenti, con la mimica, i personaggi e le azio-ni descritti e narrati dal novelliere o dal romanziere;consideriamo l’illustratore artista, non fotografo, l’attoree il traduttore.

Tutti e tre hanno davanti a sè un’opera d’arte giàespressa, cioè già concepita ed eseguita da altri, chel’uno deve tradurre in un’altra arte; il secondo, in azionemateriale; il terzo, in un’altra lingua.

Come saranno possibili queste traduzioni?

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Nota qui giustamente Benedetto Croce nella sua Este-tica, che non è possibile ridurre ciò che ha avuto già lasua forma estetica ad altra forma, anche estetica, e cheogni traduzione quindi o sminuisce o guasta: l’espres-sione resta sempre una, quella dell’originale, essendol’altra più o meno deficiente, cioè non propriamenteespressione; che non è possibile, insomma, una riprodu-zione della medesima espressione originale, ma tutt’alpiù la produzione d’un’espressione somigliante, più omeno prossima ad essa.

Questo che il Croce dice per le traduzioni vere e pro-prie, cioè per chi da una lingua traduce in un’altra, èvero – come abbiamo veduto – anche per l’illustratore eper l’attore; come veri altresì sono in tutti e tre i casi ladiminuzione e il guasto.

Come e perchè l’illustratore guasti e diminuiscal’immagine del poeta, ho dimostrato in principio: egli lariproduce in un’arte più limitata, le dà l’espressione pre-cisa, i contorni materiali, visibili del disegno, fissa, tra-duce l’immagine innanzi alla vista, a detrimentodell’armonia affatto spirituale di essa.

E l’attore?Ecco. La realtà materiale, quotidiana della vita limita

le cose, gli uomini e le loro azioni, li contraria, li defor-ma. Nella realtà le azioni che mettono in rilievo un ca-rattere si stagliano su un fondo di contingenze senza va-lore, di particolari comuni. Mille ostacoli impreveduti,improvvisi, deviano le azioni, deturpano i caratteri; mi-nute, volgari miserie spesso li sminuiscono. L’arte libera

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Nota qui giustamente Benedetto Croce nella sua Este-tica, che non è possibile ridurre ciò che ha avuto già lasua forma estetica ad altra forma, anche estetica, e cheogni traduzione quindi o sminuisce o guasta: l’espres-sione resta sempre una, quella dell’originale, essendol’altra più o meno deficiente, cioè non propriamenteespressione; che non è possibile, insomma, una riprodu-zione della medesima espressione originale, ma tutt’alpiù la produzione d’un’espressione somigliante, più omeno prossima ad essa.

Questo che il Croce dice per le traduzioni vere e pro-prie, cioè per chi da una lingua traduce in un’altra, èvero – come abbiamo veduto – anche per l’illustratore eper l’attore; come veri altresì sono in tutti e tre i casi ladiminuzione e il guasto.

Come e perchè l’illustratore guasti e diminuiscal’immagine del poeta, ho dimostrato in principio: egli lariproduce in un’arte più limitata, le dà l’espressione pre-cisa, i contorni materiali, visibili del disegno, fissa, tra-duce l’immagine innanzi alla vista, a detrimentodell’armonia affatto spirituale di essa.

E l’attore?Ecco. La realtà materiale, quotidiana della vita limita

le cose, gli uomini e le loro azioni, li contraria, li defor-ma. Nella realtà le azioni che mettono in rilievo un ca-rattere si stagliano su un fondo di contingenze senza va-lore, di particolari comuni. Mille ostacoli impreveduti,improvvisi, deviano le azioni, deturpano i caratteri; mi-nute, volgari miserie spesso li sminuiscono. L’arte libera

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le cose, gli uomini e le loro azioni di queste contingenzesenza valore, di questi particolari comuni, di questi vol-gari ostacoli o minute miserie; in un certo senso, liastrae; cioè, rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò checontraria la concezione dell’artista e aggruppa invecetutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e piùricchezza. Crea così un’opera che non è, come la natura,senz’ordine (almeno apparente) ed irta di contradizioni,ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi sitengono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo sen-so appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappre-senti tipi o dipinga idee; semplifica e concentra. L’ideache egli ha dei suoi personaggi, il sentimento che spirada essi evocano le immagini espressive, le aggruppano ele combinano. I particolari inutili spariscono, tutto ciòche è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito,concentrato nell’unità d’un essere meno reale e tuttaviapiù vero.

Ora, che fa l’attore? Fa proprio il contrario di ciò cheha fatto il poeta. Rende, cioè, più reale e tuttavia menvero il personaggio creato dal poeta, gli toglie tanto,cioè, di quella verità ideale, superiore, quanto più gli dàdi quella realtà materiale, comune; e lo fa men vero an-che perchè lo traduce nella materialità fittizia e conven-zionale della scena. L’attore insomma dà una consisten-za artefatta, in un ambiente posticcio, illusorio, a perso-ne e ad azioni che hanno già avuto una espressione divita superiore alle contingenze materiali e che vivono

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le cose, gli uomini e le loro azioni di queste contingenzesenza valore, di questi particolari comuni, di questi vol-gari ostacoli o minute miserie; in un certo senso, liastrae; cioè, rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò checontraria la concezione dell’artista e aggruppa invecetutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e piùricchezza. Crea così un’opera che non è, come la natura,senz’ordine (almeno apparente) ed irta di contradizioni,ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi sitengono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo sen-so appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappre-senti tipi o dipinga idee; semplifica e concentra. L’ideache egli ha dei suoi personaggi, il sentimento che spirada essi evocano le immagini espressive, le aggruppano ele combinano. I particolari inutili spariscono, tutto ciòche è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito,concentrato nell’unità d’un essere meno reale e tuttaviapiù vero.

Ora, che fa l’attore? Fa proprio il contrario di ciò cheha fatto il poeta. Rende, cioè, più reale e tuttavia menvero il personaggio creato dal poeta, gli toglie tanto,cioè, di quella verità ideale, superiore, quanto più gli dàdi quella realtà materiale, comune; e lo fa men vero an-che perchè lo traduce nella materialità fittizia e conven-zionale della scena. L’attore insomma dà una consisten-za artefatta, in un ambiente posticcio, illusorio, a perso-ne e ad azioni che hanno già avuto una espressione divita superiore alle contingenze materiali e che vivono

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già nell’idealità essenziale e caratteristica della poesia,cioè in una realtà superiore.

Lo stesso avviene nelle traduzioni (segnatamente del-le poesie) da una lingua in un’altra. Ricordiamo ciò cheDante diceva nel Convivio: «E però sappia ciascuno,che nulla cosa per legame musaico armonizzata si puòdalla sua loquela in altra trasmutare, sanza rompere tuttasua dolcezza e armonia».

È come trapiantare un albero generato da un altro ter-reno, fiorito sotto altro clima, in un terreno che non èpiù il suo: sotto il nuovo clima perderà il suo verde e isuoi fiori; per il verde, per le foglie intendiamo le parolenative e per fiori quelle grazie particolari della lingua,quell’armonia essenziale di essa, inimitabili. Le paroledi una lingua hanno per il popolo che la parla un valoreche va oltre il senso, per dir così, materiale di esse, eche è dato da tante cose che sfuggono all’esame più sot-tile, poichè veramente sono, come l’anima, impalpabili:ogni lingua ispira un particolare sentimento di sè e valo-re ha finanche la forma grafica delle parole. Se traducia-mo la parola tedesca liebe con l’italiana amore traducia-mo il concetto della parola, nient’altro: ma il suono?quel particolar suono con quella tale eco che esso susci-ta nello spirito e su cui forse il poeta in quel dato puntofaceva assegnamento? E la grazia che deriva dalla spe-ciale collocazione delle parole, dei costrutti, degli atteg-giamenti propri a un dato idioma? Avremo dunque, sì,trapiantato l’albero, ma costringendolo a vestirsi d’altrefoglie, a fiorir d’altri fiori; foglie e fiori che brilleranno

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già nell’idealità essenziale e caratteristica della poesia,cioè in una realtà superiore.

Lo stesso avviene nelle traduzioni (segnatamente del-le poesie) da una lingua in un’altra. Ricordiamo ciò cheDante diceva nel Convivio: «E però sappia ciascuno,che nulla cosa per legame musaico armonizzata si puòdalla sua loquela in altra trasmutare, sanza rompere tuttasua dolcezza e armonia».

È come trapiantare un albero generato da un altro ter-reno, fiorito sotto altro clima, in un terreno che non èpiù il suo: sotto il nuovo clima perderà il suo verde e isuoi fiori; per il verde, per le foglie intendiamo le parolenative e per fiori quelle grazie particolari della lingua,quell’armonia essenziale di essa, inimitabili. Le paroledi una lingua hanno per il popolo che la parla un valoreche va oltre il senso, per dir così, materiale di esse, eche è dato da tante cose che sfuggono all’esame più sot-tile, poichè veramente sono, come l’anima, impalpabili:ogni lingua ispira un particolare sentimento di sè e valo-re ha finanche la forma grafica delle parole. Se traducia-mo la parola tedesca liebe con l’italiana amore traducia-mo il concetto della parola, nient’altro: ma il suono?quel particolar suono con quella tale eco che esso susci-ta nello spirito e su cui forse il poeta in quel dato puntofaceva assegnamento? E la grazia che deriva dalla spe-ciale collocazione delle parole, dei costrutti, degli atteg-giamenti propri a un dato idioma? Avremo dunque, sì,trapiantato l’albero, ma costringendolo a vestirsi d’altrefoglie, a fiorir d’altri fiori; foglie e fiori che brilleranno

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e stormiranno altrimenti perchè mossi da altra aura idea-le: e l’albero nel miglior dei casi, non sarà più quello:nel peggiore, cioè se più ci sforziamo di fargli riteneredel primo rigóglio, più esso apparirà misero e stento.

Nel volume recente Pensieri e discorsi, Giovanni Pa-scoli parla dell’arte e dei modi della traduzione9, segna-tamente degli autori classici antichi, e dice: «…Che ètradurre?» così domandava poco fa il più geniale dei fi-lologi tedeschi; e rispondeva: «Il di fuori deve divenirnuovo; il di dentro restar com’è. A dir più preciso, restal’anima muta il corpo; la vera traduzione è metempsico-sì.» Non si poteva dir meglio; ma la tagliente definizio-ne non recide i miei o nostri dubbi. Mutar di veste (Tra-vestie), in italiano può essere «travestimento» e «trave-stire» ha in italiano mala voce. Dunque intendiamoci:dobbiamo dare allo scrittore antico una veste nuova, nondobbiamo travestirlo. Troppo abbiamo, per il passato,travestito, e a bella posta e senza volere. Ne sono causaforse le speciali sorti della lingua e letteratura; il fatto èche per noi il problema del tradurre non è così semplice.Noi non abbiamo sempre o non abbiamo spesso la vesteda offrire allo scrittore antico di prosa o di poesia: alme-no non l’abbiamo li pronta: almeno almeno non la sap-piamo li per li scegliere. E poi, quanto a metempsicosì ègiusta (almeno per questo proposito del tradurre) la di-stinzione di corpo e d’anima? Non è giusta. Mutandocorpo si muta anche anima. Si tratta dunque non di con-

9 Pensieri e discorsi (Bologna, Zanichelli 1907). V. La mia scuola digrammatica.

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e stormiranno altrimenti perchè mossi da altra aura idea-le: e l’albero nel miglior dei casi, non sarà più quello:nel peggiore, cioè se più ci sforziamo di fargli riteneredel primo rigóglio, più esso apparirà misero e stento.

Nel volume recente Pensieri e discorsi, Giovanni Pa-scoli parla dell’arte e dei modi della traduzione9, segna-tamente degli autori classici antichi, e dice: «…Che ètradurre?» così domandava poco fa il più geniale dei fi-lologi tedeschi; e rispondeva: «Il di fuori deve divenirnuovo; il di dentro restar com’è. A dir più preciso, restal’anima muta il corpo; la vera traduzione è metempsico-sì.» Non si poteva dir meglio; ma la tagliente definizio-ne non recide i miei o nostri dubbi. Mutar di veste (Tra-vestie), in italiano può essere «travestimento» e «trave-stire» ha in italiano mala voce. Dunque intendiamoci:dobbiamo dare allo scrittore antico una veste nuova, nondobbiamo travestirlo. Troppo abbiamo, per il passato,travestito, e a bella posta e senza volere. Ne sono causaforse le speciali sorti della lingua e letteratura; il fatto èche per noi il problema del tradurre non è così semplice.Noi non abbiamo sempre o non abbiamo spesso la vesteda offrire allo scrittore antico di prosa o di poesia: alme-no non l’abbiamo li pronta: almeno almeno non la sap-piamo li per li scegliere. E poi, quanto a metempsicosì ègiusta (almeno per questo proposito del tradurre) la di-stinzione di corpo e d’anima? Non è giusta. Mutandocorpo si muta anche anima. Si tratta dunque non di con-

9 Pensieri e discorsi (Bologna, Zanichelli 1907). V. La mia scuola digrammatica.

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servare all’antico la sua anima in un corpo nuovo, ma dideformargliela meno che sia possibile; si tratta di sce-gliere per l’antico la veste nuova, che meno lo faccia pa-rere diverso e anche ridicolo e goffo. Dobbiamo, insom-ma, osservare, traducendo, la stessa proporzione che ènel testo, del pensiero con la forma, dell’anima col cor-po, del di dentro col di fuori».

Il Pascoli osserva accortamente che non è giusta la di-stinzione di corpo e d’anima: mutando corpo, si mutaanche anima. Ma che intende egli per corpo e per ani-ma? Per corpo intende la forma, per anima il pensiero; ericasca, ahimè, come se il De Sanctis e, dopo, tanti altrivalentuomini che han disputato di critica estetica aves-sero predicato al vento, ricasca nel vecchio errore dellacritica classica e romantica, di considerare cioè la formacome un di fuori. Ma se potessero veramente separarsi ilcontenuto artistico dalla sua forma, corpo sarebbe ilpensiero, anima la forma. Il pensiero d’uno scrittore, an-tico o nuovo, quel che egli ha voluto dire, il concettodella cosa, insomma, noi possiamo bene renderlo, tra-durre in altra lingua, farlo intendere comunque: l’animanon possiamo rendere, la forma, che – in arte – è tutto.Mutando il corpo, cioè il pensiero, si muta anche l’ani-ma, cioè la forma: questo è ovvio. Ma serbando il corpo,il pensiero, gli si può dare un’anima, una espressione di-versa? Questo tenta la traduzione. E tenta l’impossibile:come far rivivere un cadavere inalandogli un’altra ani-ma. Quel che il Pascoli chiama il di fuori è propriol’espressione: ma l’espressione appunto è l’anima; e

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servare all’antico la sua anima in un corpo nuovo, ma dideformargliela meno che sia possibile; si tratta di sce-gliere per l’antico la veste nuova, che meno lo faccia pa-rere diverso e anche ridicolo e goffo. Dobbiamo, insom-ma, osservare, traducendo, la stessa proporzione che ènel testo, del pensiero con la forma, dell’anima col cor-po, del di dentro col di fuori».

Il Pascoli osserva accortamente che non è giusta la di-stinzione di corpo e d’anima: mutando corpo, si mutaanche anima. Ma che intende egli per corpo e per ani-ma? Per corpo intende la forma, per anima il pensiero; ericasca, ahimè, come se il De Sanctis e, dopo, tanti altrivalentuomini che han disputato di critica estetica aves-sero predicato al vento, ricasca nel vecchio errore dellacritica classica e romantica, di considerare cioè la formacome un di fuori. Ma se potessero veramente separarsi ilcontenuto artistico dalla sua forma, corpo sarebbe ilpensiero, anima la forma. Il pensiero d’uno scrittore, an-tico o nuovo, quel che egli ha voluto dire, il concettodella cosa, insomma, noi possiamo bene renderlo, tra-durre in altra lingua, farlo intendere comunque: l’animanon possiamo rendere, la forma, che – in arte – è tutto.Mutando il corpo, cioè il pensiero, si muta anche l’ani-ma, cioè la forma: questo è ovvio. Ma serbando il corpo,il pensiero, gli si può dare un’anima, una espressione di-versa? Questo tenta la traduzione. E tenta l’impossibile:come far rivivere un cadavere inalandogli un’altra ani-ma. Quel che il Pascoli chiama il di fuori è propriol’espressione: ma l’espressione appunto è l’anima; e

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viene a dirlo egli stesso poco dopo, senza accorgersene,anzi seguitando a insistere erroneamente su pensiero eintenzione. «C’è traduzione e c’è interpretazione: l’ope-ra di chi vuol rendere e il pensiero e l’intenzione delloscrittore, e di chi si contenta di esprimere le proposizio-ni soltanto; di chi vuol far gustare e di chi cerca soltantodi far capire. Quest’ultimo, il fidus interpres non impor-ta che renda verbum verbo: adoperi quante parole vuole,una per molte, e molte per una; basta che faccia capireciò che lo straniero dice.» Non come lo dice: dunque ilcorpo, non l’anima: il pensiero, non la forma. «E così vabene, – seguita il Pascoli, – e questa è utile arte, neces-saria per chi non sa la lingua che lo straniero parla el’interprete sa. E di queste interpretazioni è buono se nefacciano in iscritto e a voce (il Pascoli parla alla scolare-sca), specialmente a voce; e si usi pur la lingua più intel-ligibile, nel quarto d’ora o di secolo, ai più, e sia questaquanto voglia essere, sciatta e scinta. Ma alla interpreta-zione, nella scuola deve tener dietro la traduzione: ossiail morto scrittore di cui è morta la gente e la lingua,deve venire innanzi a dire nella nostra lingua nuova,dire esso, non io o voi, il suo pensiero che già espressenella sua lingua antica (sottolineo io). Dire esso a modosuo, bene o men bene che dicesse già: semplice, se erasemplice, e pomposo se era pomposo, e se amava le pa-role viete, le cerchi ora, le parole viete, nella nostra fa-

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viene a dirlo egli stesso poco dopo, senza accorgersene,anzi seguitando a insistere erroneamente su pensiero eintenzione. «C’è traduzione e c’è interpretazione: l’ope-ra di chi vuol rendere e il pensiero e l’intenzione delloscrittore, e di chi si contenta di esprimere le proposizio-ni soltanto; di chi vuol far gustare e di chi cerca soltantodi far capire. Quest’ultimo, il fidus interpres non impor-ta che renda verbum verbo: adoperi quante parole vuole,una per molte, e molte per una; basta che faccia capireciò che lo straniero dice.» Non come lo dice: dunque ilcorpo, non l’anima: il pensiero, non la forma. «E così vabene, – seguita il Pascoli, – e questa è utile arte, neces-saria per chi non sa la lingua che lo straniero parla el’interprete sa. E di queste interpretazioni è buono se nefacciano in iscritto e a voce (il Pascoli parla alla scolare-sca), specialmente a voce; e si usi pur la lingua più intel-ligibile, nel quarto d’ora o di secolo, ai più, e sia questaquanto voglia essere, sciatta e scinta. Ma alla interpreta-zione, nella scuola deve tener dietro la traduzione: ossiail morto scrittore di cui è morta la gente e la lingua,deve venire innanzi a dire nella nostra lingua nuova,dire esso, non io o voi, il suo pensiero che già espressenella sua lingua antica (sottolineo io). Dire esso a modosuo, bene o men bene che dicesse già: semplice, se erasemplice, e pomposo se era pomposo, e se amava le pa-role viete, le cerchi ora, le parole viete, nella nostra fa-

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vella, e se preferiva le frasi poetiche, non scavizzoli orai riboboli nel parlar della plebe10.

«Saranno essi ben altro nelle nostre, di quel che nelleloro pagine: oh! sì, morti spesso o sempre, invece chevivi; ombre e non corpi; ma le ombre assomigliano aicorpi perfettamente; le ombre come degli eroi così deipoeti conservano nell’Elisio gli stessi gusti che avevano

10 Il Pascoli ripete qui, press’a poco, un’osservazione del Leopardi (Pen-sieri di varia filosofia e di bella lett., v. I, pp. 89-90): «Un’osservazione impor-tantissima intorno alle traduzioni, e che non so se altri abbia fatta, e di cui nonho in mente alcuno che abbia profittato, è questa. Molte volte noi troviamonell’autore che traduciamo, per esempio greco, un composto, una parola che cipare ardita, e nel renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga, e fattoquesto ci accontentiamo. Ma spessissimo quel tal composto o parola, comechèsia, non solamente era ardita, ma l’autore la formava allora a bella posta, eperò nei lettori greci faceva quell’impressione e risaltava nello scritto comefanno le parole nuove di zecca, e come in noi italiani fanno quelle tante paroledell’Alfieri, per esempio spiemontizzare ecc. ecc. Onde tu che traduci, postoancora che abbi trovato una parola corrispondentissima, proprissima, equiva-lentissima, tuttavia non hai fatto niente, se questa parola non è nuova e non fain noi quell’impressione che faceva ai greci». È curioso notare, intanto, che ilPascoli ritiene difficile per noi l’esercizio del tradurre, e dice: «A ciò bisognastudiare e ingegnarsi: svecchiare, sovente, ciò che nella nostra lingua parevamorto; trovare, non di rado, qualche cosa che nella nostra letteratura non è an-cora. Dico, noi e dico, nella nostra: forse gli altri popoli non hanno bisogno ditanto lavorio. E sì: qualche volta a noi manca ciò che ad altri abbonda». Preci-samente il contrario dice il Leopardi (Pens. ecc., v. II, p. 302): «... nell’italianaè forse maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi alle forme stra-niere». Dimostra il perchè; quindi soggiunge: «Queste considerazioni, rispettoalla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta di lingua la-tina o della greca». E ne dice le ragioni. Acutissimo, come sempre, si dimostrail Leopardi nel parlare delle traduzioni in varii punti dello zibaldone. Citerò,per esempio, ciò che dice nel I vol. (pp. 388-389), dopo aver parlato dellainovviabile affettazione d’ogni traduttore:

«La traduzione non è traduzione, ma come un’imitazione sofistica, unacompilazione, un capo morto, o se non altro un’opera nuova».

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vella, e se preferiva le frasi poetiche, non scavizzoli orai riboboli nel parlar della plebe10.

«Saranno essi ben altro nelle nostre, di quel che nelleloro pagine: oh! sì, morti spesso o sempre, invece chevivi; ombre e non corpi; ma le ombre assomigliano aicorpi perfettamente; le ombre come degli eroi così deipoeti conservano nell’Elisio gli stessi gusti che avevano

10 Il Pascoli ripete qui, press’a poco, un’osservazione del Leopardi (Pen-sieri di varia filosofia e di bella lett., v. I, pp. 89-90): «Un’osservazione impor-tantissima intorno alle traduzioni, e che non so se altri abbia fatta, e di cui nonho in mente alcuno che abbia profittato, è questa. Molte volte noi troviamonell’autore che traduciamo, per esempio greco, un composto, una parola che cipare ardita, e nel renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga, e fattoquesto ci accontentiamo. Ma spessissimo quel tal composto o parola, comechèsia, non solamente era ardita, ma l’autore la formava allora a bella posta, eperò nei lettori greci faceva quell’impressione e risaltava nello scritto comefanno le parole nuove di zecca, e come in noi italiani fanno quelle tante paroledell’Alfieri, per esempio spiemontizzare ecc. ecc. Onde tu che traduci, postoancora che abbi trovato una parola corrispondentissima, proprissima, equiva-lentissima, tuttavia non hai fatto niente, se questa parola non è nuova e non fain noi quell’impressione che faceva ai greci». È curioso notare, intanto, che ilPascoli ritiene difficile per noi l’esercizio del tradurre, e dice: «A ciò bisognastudiare e ingegnarsi: svecchiare, sovente, ciò che nella nostra lingua parevamorto; trovare, non di rado, qualche cosa che nella nostra letteratura non è an-cora. Dico, noi e dico, nella nostra: forse gli altri popoli non hanno bisogno ditanto lavorio. E sì: qualche volta a noi manca ciò che ad altri abbonda». Preci-samente il contrario dice il Leopardi (Pens. ecc., v. II, p. 302): «... nell’italianaè forse maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi alle forme stra-niere». Dimostra il perchè; quindi soggiunge: «Queste considerazioni, rispettoalla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta di lingua la-tina o della greca». E ne dice le ragioni. Acutissimo, come sempre, si dimostrail Leopardi nel parlare delle traduzioni in varii punti dello zibaldone. Citerò,per esempio, ciò che dice nel I vol. (pp. 388-389), dopo aver parlato dellainovviabile affettazione d’ogni traduttore:

«La traduzione non è traduzione, ma come un’imitazione sofistica, unacompilazione, un capo morto, o se non altro un’opera nuova».

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in terra. Se vogliamo evocarli nella nostra lingua, essi,quando obbediscano, vogliono essere e parere quel chefurono; e noi non solo non dobbiamo menomarli e im-bruttirli, ma nemmeno (quel che spesso ci sognamo difare) correggerli e imbellezzirli; come a dire, togliere aOmero gli aggiunti oziosi di cantore erede di cantori11, ea Erodoto le sue lungaggini di narratore chiaro, e a Ci-cerone le sue ridondanze di oratore armonioso, e a Taci-to i suoi colori poetici di scrittore schivo del volgo.Ognuno faccia indovinare, se non sentire, le predilezioniche ebbe da vivo, quanto a lingua e a stile e a numero ea ritmo.»

Più anima di così! Ma veramente il Pascoli, tra glispiracoli della sua speciosissima prosa, non riesce mai aveder bene a dentro nella questione. E questo si argo-menta facilmente anche da ciò che dice riguardo al nu-mero e al ritmo. Domanda: «Per esempio, il verso sciol-to del Caro e del Monti è troppo sciolto; cioè pur nonpotendo con ogni singolo endecasillabo comprendere unesametro, non cura di comprenderne due con tre, sem-pre, metodicamente, monotonicamente, come mi parche dovrebbe? Ebbene, proveremo noi; faremo noi leterzine o rimate o assonanti o libere. O proveremo a tra-durre con l’esametro italico. Ma ci sembrerà, l’esametroCarducciano, troppo libero d’accento? E noi ci ingegne-remo di farlo tanto regolare, tanto sonoro, quanto alme-no quelli del Voss e del Geibel».

11 Allude evidentemente ai giusti rimproveri mossi dallo Zanella a la tra-duzione dell’Odissea del Pindemonte.

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in terra. Se vogliamo evocarli nella nostra lingua, essi,quando obbediscano, vogliono essere e parere quel chefurono; e noi non solo non dobbiamo menomarli e im-bruttirli, ma nemmeno (quel che spesso ci sognamo difare) correggerli e imbellezzirli; come a dire, togliere aOmero gli aggiunti oziosi di cantore erede di cantori11, ea Erodoto le sue lungaggini di narratore chiaro, e a Ci-cerone le sue ridondanze di oratore armonioso, e a Taci-to i suoi colori poetici di scrittore schivo del volgo.Ognuno faccia indovinare, se non sentire, le predilezioniche ebbe da vivo, quanto a lingua e a stile e a numero ea ritmo.»

Più anima di così! Ma veramente il Pascoli, tra glispiracoli della sua speciosissima prosa, non riesce mai aveder bene a dentro nella questione. E questo si argo-menta facilmente anche da ciò che dice riguardo al nu-mero e al ritmo. Domanda: «Per esempio, il verso sciol-to del Caro e del Monti è troppo sciolto; cioè pur nonpotendo con ogni singolo endecasillabo comprendere unesametro, non cura di comprenderne due con tre, sem-pre, metodicamente, monotonicamente, come mi parche dovrebbe? Ebbene, proveremo noi; faremo noi leterzine o rimate o assonanti o libere. O proveremo a tra-durre con l’esametro italico. Ma ci sembrerà, l’esametroCarducciano, troppo libero d’accento? E noi ci ingegne-remo di farlo tanto regolare, tanto sonoro, quanto alme-no quelli del Voss e del Geibel».

11 Allude evidentemente ai giusti rimproveri mossi dallo Zanella a la tra-duzione dell’Odissea del Pindemonte.

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Come se a scelta un poeta antico o straniero che com-pone in esametri si potesse tradurre in versi sciolti, interzine o rimate o assonanti o libere, o nel suo metro ori-ginario! Ricordo ciò che diceva il Goethe a propositodelle sue Elegie romane: «Tradotte nel ritmo del DonGiovanni del Byron (cioè in ottave), le mie Elegie ro-mane sarebbero un’opera del tutto insensata (ganz ver-rückt)». È vero che il Maffei le tradusse in versi sciolti,lasciando anche il verso a metà in fine di qualche elegia;e Domenico Gnoli, che non era ancora il Giulio Orsinidei versi liberi, le tradusse in terzine rimate, cioè nelmetro classico e tradizionale dell’elegia nella letteraturaitaliana! Il Pascoli, è pur vero, ha offerto saggi moltoammirati di traduzione d’Omero in esametri, non in ter-zine o in versi sciolti; ma è vero altresì, almeno a miomodo di vedere, che quei saggi molto ammirati nonsono del tutto esenti di quella tale affettazione che alLeopardi pareva inovviabile da ogni traduttore.

*Il conte di Caylus voleva che il maggiore o minor va-

lore d’una poesia si giudicasse secondo che essa potesseo no da un pittore esser tradotta in quadri. Similmentedel maggiore o minor valore d’un dramma si vuol giudi-care alla prova della rappresentazione; anzi si dice chenon è possibile dare un giudizio d’un dramma scritto,cioè già espresso dal poeta. Ora abbiamo dimostrato chequella del teatro non è la rappresentazione vera e pro-pria dell’espressione genuina, originale, ma una tradu-zione, cioè un’espressione somigliante, più o meno

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Come se a scelta un poeta antico o straniero che com-pone in esametri si potesse tradurre in versi sciolti, interzine o rimate o assonanti o libere, o nel suo metro ori-ginario! Ricordo ciò che diceva il Goethe a propositodelle sue Elegie romane: «Tradotte nel ritmo del DonGiovanni del Byron (cioè in ottave), le mie Elegie ro-mane sarebbero un’opera del tutto insensata (ganz ver-rückt)». È vero che il Maffei le tradusse in versi sciolti,lasciando anche il verso a metà in fine di qualche elegia;e Domenico Gnoli, che non era ancora il Giulio Orsinidei versi liberi, le tradusse in terzine rimate, cioè nelmetro classico e tradizionale dell’elegia nella letteraturaitaliana! Il Pascoli, è pur vero, ha offerto saggi moltoammirati di traduzione d’Omero in esametri, non in ter-zine o in versi sciolti; ma è vero altresì, almeno a miomodo di vedere, che quei saggi molto ammirati nonsono del tutto esenti di quella tale affettazione che alLeopardi pareva inovviabile da ogni traduttore.

*Il conte di Caylus voleva che il maggiore o minor va-

lore d’una poesia si giudicasse secondo che essa potesseo no da un pittore esser tradotta in quadri. Similmentedel maggiore o minor valore d’un dramma si vuol giudi-care alla prova della rappresentazione; anzi si dice chenon è possibile dare un giudizio d’un dramma scritto,cioè già espresso dal poeta. Ora abbiamo dimostrato chequella del teatro non è la rappresentazione vera e pro-pria dell’espressione genuina, originale, ma una tradu-zione, cioè un’espressione somigliante, più o meno

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prossima all’originale; non mai la stessa; e abbiamo det-to le ragioni per cui è anche un’espressione più o menoguasta e diminuita.

Lo stesso, sebbene in una misura molto minore, puòdirsi di quella traduzione che ognuno fa necessariamen-te dell’opera altrui, se non proprio nell’atto di leggerla,durante il quale lo spirito è disposto ad accogliere e a ri-flettere in sè o le idee che lo scrittore espone o le im-pressioni che l’opera vuol destare; ma quando noi rife-riamo altrui o anche a noi stessi quelle idee e quelle im-pressioni ricevute dalla lettura, cioè quando noi ripen-siamo l’opera letta. Avvenuto il passaggio da uno spiritoa un altro, le modificazioni sono inevitabili. Quantiscrittori non restano dolorosamente meravigliati nel ve-der che cosa l’opera propria sia divenuta attraverso lospirito di questo o di quel lettore, che magari lo felicita-no di certi effetti che egli non si era nemmeno sognatodi produrre!

– Quanto mi hai fatto ridere!E lo scrittore non intendeva affatto di promuovere il

benchè minimo riso! E come raramente avviene agliscrittori di compiacersi che la propria opera per un criti-co o per un lettore sia rimasta quella medesima, opress’a poco, ch’egli ha espressa, e non un’altra mala-mente ripensata e arbitrariamente riprodotta.

Consiste appunto in questo la somma difficoltà dellacritica. Bisogna innanzi tutto non presumere che gli al-tri, fuori del nostro io, non siano se non come noi li ve-diamo. Se così presumiamo, vuol dire che abbiamo una

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prossima all’originale; non mai la stessa; e abbiamo det-to le ragioni per cui è anche un’espressione più o menoguasta e diminuita.

Lo stesso, sebbene in una misura molto minore, puòdirsi di quella traduzione che ognuno fa necessariamen-te dell’opera altrui, se non proprio nell’atto di leggerla,durante il quale lo spirito è disposto ad accogliere e a ri-flettere in sè o le idee che lo scrittore espone o le im-pressioni che l’opera vuol destare; ma quando noi rife-riamo altrui o anche a noi stessi quelle idee e quelle im-pressioni ricevute dalla lettura, cioè quando noi ripen-siamo l’opera letta. Avvenuto il passaggio da uno spiritoa un altro, le modificazioni sono inevitabili. Quantiscrittori non restano dolorosamente meravigliati nel ve-der che cosa l’opera propria sia divenuta attraverso lospirito di questo o di quel lettore, che magari lo felicita-no di certi effetti che egli non si era nemmeno sognatodi produrre!

– Quanto mi hai fatto ridere!E lo scrittore non intendeva affatto di promuovere il

benchè minimo riso! E come raramente avviene agliscrittori di compiacersi che la propria opera per un criti-co o per un lettore sia rimasta quella medesima, opress’a poco, ch’egli ha espressa, e non un’altra mala-mente ripensata e arbitrariamente riprodotta.

Consiste appunto in questo la somma difficoltà dellacritica. Bisogna innanzi tutto non presumere che gli al-tri, fuori del nostro io, non siano se non come noi li ve-diamo. Se così presumiamo, vuol dire che abbiamo una

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coscienza unilaterale; che non abbiamo coscienza deglialtri; che non realizziamo gli altri in noi, per usareun’espressione di Josiah Royce, con una rappresentazio-ne vivente e per gli altri e per noi. Il mondo non è limi-tato all’idea che possiamo farcene: fuori di noi il mondoesiste per sè e con noi; e nella nostra rappresentazionedunque dobbiamo proporci di realizzarlo quanto più cisarà possibile, facendocene una coscienza in cui essoviva, in noi come in se stesso; vedendolo com’esso sivede, sentendolo com’esso si sente.

Ora quest’opera di realizzamento è estremamente dif-ficile! Può avvenire, anzi avviene non di rado, che noi,man mano leggendo, ripensiamo meglio ciò che lo scrit-tore ha pensato, esprimiamo meglio in noi ciò chel’autore ha espresso male o non ha espresso affatto, chenoi troviamo in un libro quel che in fondo non c’è: cherealizziamo noi, insomma, ciò che l’autore non è riusci-to a realizzare.

È lo stesso caso del comico che, nella rappresentazio-ne teatrale, migliora e non guasta, accresce e non dimi-nuisce il dramma che gli è stato affidato. Ma in questocaso (che non è infrequente davvero) il merito èdell’attore; e il dramma è cattivo. Così anche una tradu-zione può esser migliore dell’originale; ma allora l’ori-ginale diventa la traduzione, in quanto che il traduttoreha preso come materia bruta l’originale e l’ha ricreatacon la propria fantasia: tal quale come l’attore ha presoil dramma come un canovaccio qualsiasi e vi ha infusola vita su la scena. Lo stesso caso può anche ripetersi

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coscienza unilaterale; che non abbiamo coscienza deglialtri; che non realizziamo gli altri in noi, per usareun’espressione di Josiah Royce, con una rappresentazio-ne vivente e per gli altri e per noi. Il mondo non è limi-tato all’idea che possiamo farcene: fuori di noi il mondoesiste per sè e con noi; e nella nostra rappresentazionedunque dobbiamo proporci di realizzarlo quanto più cisarà possibile, facendocene una coscienza in cui essoviva, in noi come in se stesso; vedendolo com’esso sivede, sentendolo com’esso si sente.

Ora quest’opera di realizzamento è estremamente dif-ficile! Può avvenire, anzi avviene non di rado, che noi,man mano leggendo, ripensiamo meglio ciò che lo scrit-tore ha pensato, esprimiamo meglio in noi ciò chel’autore ha espresso male o non ha espresso affatto, chenoi troviamo in un libro quel che in fondo non c’è: cherealizziamo noi, insomma, ciò che l’autore non è riusci-to a realizzare.

È lo stesso caso del comico che, nella rappresentazio-ne teatrale, migliora e non guasta, accresce e non dimi-nuisce il dramma che gli è stato affidato. Ma in questocaso (che non è infrequente davvero) il merito èdell’attore; e il dramma è cattivo. Così anche una tradu-zione può esser migliore dell’originale; ma allora l’ori-ginale diventa la traduzione, in quanto che il traduttoreha preso come materia bruta l’originale e l’ha ricreatacon la propria fantasia: tal quale come l’attore ha presoil dramma come un canovaccio qualsiasi e vi ha infusola vita su la scena. Lo stesso caso può anche ripetersi

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per quegli illustratori che prendono come materia nonconvenientemente espressa le opere di quegli scrittorisecondari, descrittivi o decorativi, che hanno un’imma-ginazione pittorica e non riescono naturalmente a far ve-dere con l’incoerente mezzo comunicativo della parola iloro quadri.

Ultimamente un giornale di Roma indisse un referen-dum tra i nostri scrittori di teatro per sapere se gli attoriavessero o no il diritto di giudicare i drammi e le com-medie che venivano loro proposti per la rappresentazio-ne; o in altri termini, se gli attori dovessero o no essereconsiderati come strumenti più o meno abili di comuni-cazione tra lo scrittore e il pubblico, unico giudice legit-timo.

Nessuno fra tutti coloro che risposero alle domandedel referendum seppe sollevarsi a una questione più alta,che uno spirito acuto e comprensivo avrebbe potuto ve-der librarsi su quelle domande. Si suol dire comunemen-te che l’autore non è mai buon giudice dell’opera pro-pria e che l’attore non sa riconoscere i pregi artistici deldramma, poichè cerca soltanto in esso una buona parte,e se la trova il dramma è bello, e se non la trova, è brut-to.

Ora sta di fatto che la riflessione è per lo scrittorequasi una forma del sentimento: man mano che l’operasi fa, essa la critica, non freddamente, come farebbe ungiudice spassionato, analizzandola, ma d’un tratto, mer-cè l’impressione che ne riceve. L’opera, insomma, è nel-lo scrittore un sentimento analogo a quello che essa sve-

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per quegli illustratori che prendono come materia nonconvenientemente espressa le opere di quegli scrittorisecondari, descrittivi o decorativi, che hanno un’imma-ginazione pittorica e non riescono naturalmente a far ve-dere con l’incoerente mezzo comunicativo della parola iloro quadri.

Ultimamente un giornale di Roma indisse un referen-dum tra i nostri scrittori di teatro per sapere se gli attoriavessero o no il diritto di giudicare i drammi e le com-medie che venivano loro proposti per la rappresentazio-ne; o in altri termini, se gli attori dovessero o no essereconsiderati come strumenti più o meno abili di comuni-cazione tra lo scrittore e il pubblico, unico giudice legit-timo.

Nessuno fra tutti coloro che risposero alle domandedel referendum seppe sollevarsi a una questione più alta,che uno spirito acuto e comprensivo avrebbe potuto ve-der librarsi su quelle domande. Si suol dire comunemen-te che l’autore non è mai buon giudice dell’opera pro-pria e che l’attore non sa riconoscere i pregi artistici deldramma, poichè cerca soltanto in esso una buona parte,e se la trova il dramma è bello, e se non la trova, è brut-to.

Ora sta di fatto che la riflessione è per lo scrittorequasi una forma del sentimento: man mano che l’operasi fa, essa la critica, non freddamente, come farebbe ungiudice spassionato, analizzandola, ma d’un tratto, mer-cè l’impressione che ne riceve. L’opera, insomma, è nel-lo scrittore un sentimento analogo a quello che essa sve-

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glia nello spettatore: è provata, cioè, più che non siagiudicata.

Lo stesso avviene nell’attore, che non può essere af-fatto considerato come uno strumento meccanico, o pas-sivo di comunicazione. Se egli esaminasse a freddol’opera che deve rappresentare, come farebbe un giudicespassionato, analizzandola, e da questo esame freddo, daquest’analisi spassionata volesse assurgere alla interpre-tazione della propria parte, non riuscirebbe mai a darvita a un personaggio su la scena. Precisamente comenon farebbe mai opera viva uno scrittore che non avessein prima il sentimento ispiratore, la visione dell’insieme,e componesse a parte a parte i varii elementi fino poi ariunirli con un lavoro di composizione riflessiva, comeuna conclusione costruita al pari d’un ragionamento.L’attore, insomma, prova anch’esso e non giudica.Come lo scrittore sente a un tratto, per una emozione,per una simpatia improvvisa, in un caso della vita, co-mune per gli altri e inespressivo, o in un racconto dellastoria, il soggetto che gli conviene; così l’attore bisognache senta per una emozione, per una simpatia improvvi-sa la parte che gli conviene, che egli provi subito in sè ilpersonaggio che deve far vivere su la scena.

Naturalmente però l’attore, vivendo nel teatro, e delteatro cioè fra quanto vi è di posticcio e di convenziona-le in un palcoscenico, è spesso indotto a veder nell’ope-ra d’arte principalmente quanto vi è di teatrale; press’apoco come in un libro che gli sia dato a illustrare, il di-segnatore non vede se non ciò che meglio si presti alla

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glia nello spettatore: è provata, cioè, più che non siagiudicata.

Lo stesso avviene nell’attore, che non può essere af-fatto considerato come uno strumento meccanico, o pas-sivo di comunicazione. Se egli esaminasse a freddol’opera che deve rappresentare, come farebbe un giudicespassionato, analizzandola, e da questo esame freddo, daquest’analisi spassionata volesse assurgere alla interpre-tazione della propria parte, non riuscirebbe mai a darvita a un personaggio su la scena. Precisamente comenon farebbe mai opera viva uno scrittore che non avessein prima il sentimento ispiratore, la visione dell’insieme,e componesse a parte a parte i varii elementi fino poi ariunirli con un lavoro di composizione riflessiva, comeuna conclusione costruita al pari d’un ragionamento.L’attore, insomma, prova anch’esso e non giudica.Come lo scrittore sente a un tratto, per una emozione,per una simpatia improvvisa, in un caso della vita, co-mune per gli altri e inespressivo, o in un racconto dellastoria, il soggetto che gli conviene; così l’attore bisognache senta per una emozione, per una simpatia improvvi-sa la parte che gli conviene, che egli provi subito in sè ilpersonaggio che deve far vivere su la scena.

Naturalmente però l’attore, vivendo nel teatro, e delteatro cioè fra quanto vi è di posticcio e di convenziona-le in un palcoscenico, è spesso indotto a veder nell’ope-ra d’arte principalmente quanto vi è di teatrale; press’apoco come in un libro che gli sia dato a illustrare, il di-segnatore non vede se non ciò che meglio si presti alla

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illustrazione. L’attore, insomma, più che le ragioni idealidell’arte, vede quelle materiali del palcoscenico, più chela verità superiore dell’espressione artistica, la realtà fit-tizia della sua azione scenica.

Ora, non rinunziano forse per questa realtà fittizia eposticcia del palcoscenico a quella verità superiore, es-senziale e caratteristica dell’arte, quegli scrittori di tea-tro che compongono drammi per questo o per quell’atto-re? Non stanno essi, in un certo senso, di fronte all’esti-mativa estetica, nella stessa linea di quei tali poeti che siprestano a far la poesiola sotto le vignette di certe rivisteillustrate? Gli uni e gli altri a ogni modo dimostrano dinon intendere il grado di idealità e l’ufficio dell’arteloro. Ma son sempre senza dubbio più degni di scusa gliscrittori di teatro, perchè, in fondo, così facendo, obbe-discono a una triste necessità dell’arte loro. Badandoperò non alle creature della loro fantasia, ma aquest’attore o a quell’attrice della scena di prosa, e la-sciandosi infelicemente ispirare o suggerire dalla virtuo-sità di essi; partendo da una siffatta considerazione più omeno pratica e deducendo per la propria opera medianteil freddo ragionamento le imagini già fissate in prece-denza, incarnate in questo o in quell’attore, che operepotranno mai venir fuori? Opere schiave, prima di tutto,di questi stessi attori, dei loro mezzi e delle loro attitudi-ni; schiave e non d’arte; perchè l’arte ha bisogno impre-scindibile della sua libertà.

Non il dramma fa le persone, ma queste il dramma; eprima di ogni altro dunque bisogna aver le persone, ma

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illustrazione. L’attore, insomma, più che le ragioni idealidell’arte, vede quelle materiali del palcoscenico, più chela verità superiore dell’espressione artistica, la realtà fit-tizia della sua azione scenica.

Ora, non rinunziano forse per questa realtà fittizia eposticcia del palcoscenico a quella verità superiore, es-senziale e caratteristica dell’arte, quegli scrittori di tea-tro che compongono drammi per questo o per quell’atto-re? Non stanno essi, in un certo senso, di fronte all’esti-mativa estetica, nella stessa linea di quei tali poeti che siprestano a far la poesiola sotto le vignette di certe rivisteillustrate? Gli uni e gli altri a ogni modo dimostrano dinon intendere il grado di idealità e l’ufficio dell’arteloro. Ma son sempre senza dubbio più degni di scusa gliscrittori di teatro, perchè, in fondo, così facendo, obbe-discono a una triste necessità dell’arte loro. Badandoperò non alle creature della loro fantasia, ma aquest’attore o a quell’attrice della scena di prosa, e la-sciandosi infelicemente ispirare o suggerire dalla virtuo-sità di essi; partendo da una siffatta considerazione più omeno pratica e deducendo per la propria opera medianteil freddo ragionamento le imagini già fissate in prece-denza, incarnate in questo o in quell’attore, che operepotranno mai venir fuori? Opere schiave, prima di tutto,di questi stessi attori, dei loro mezzi e delle loro attitudi-ni; schiave e non d’arte; perchè l’arte ha bisogno impre-scindibile della sua libertà.

Non il dramma fa le persone, ma queste il dramma; eprima di ogni altro dunque bisogna aver le persone, ma

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libere. Con esse e in esse nascerà il dramma. Ogni idea,ogni azione, perchè appariscano in atto, vive innanziagli occhi nostri, han bisogno della libera individualitàumana, in cui si mostrino come movente affettivo: biso-gno, insomma, di caratteri. Ora il carattere sarà tanto piùdeterminato e superiore, quanto meno sarà o si mostreràsoggetto alla intenzione o ai modi dell’autore, alle ne-cessità dello sviluppo del fatto immaginato; quantomeno si mostrerà strumento passivo d’una data azione, equanto più invece farà vedere in ogni suo atto quasi tut-to un proprio essere e, insieme, una concreta specialità.

Così sono i caratteri creati dallo Shakespeare. E quigl’illustratori di teatro non possono facilmente trionfare.Perchè sono, in fatti, così pochi i degni interpreti delloShakespeare? Ma perchè le sue figure tragiche son cosìgrandiose ed han così fortemente segnati i tratti caratte-ristici, che solo pochissimi riescono a riempirle di sè, echi vuol farne un disegno a modo suo, nella vignettadella scena, mostra subito la sua piccolezza, la sua ridi-cola meschinità.

Altro è il dramma, opera d’arte già espressa e viventenella sua idealità essenziale e caratteristica; altro è larappresentazione scenica, traduzione o interpretazionedi essa, copia più o meno somigliante che vive in unarealtà materiale e pur fittizia e illusoria. Se vogliamotrarre le ultime conseguenze da questa indagine estetica,se non vogliamo una traduzione più o men fedele, mal’originale veramente a teatro, ecco la commediadell’arte: uno schema embrionale, e la libera creazione

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libere. Con esse e in esse nascerà il dramma. Ogni idea,ogni azione, perchè appariscano in atto, vive innanziagli occhi nostri, han bisogno della libera individualitàumana, in cui si mostrino come movente affettivo: biso-gno, insomma, di caratteri. Ora il carattere sarà tanto piùdeterminato e superiore, quanto meno sarà o si mostreràsoggetto alla intenzione o ai modi dell’autore, alle ne-cessità dello sviluppo del fatto immaginato; quantomeno si mostrerà strumento passivo d’una data azione, equanto più invece farà vedere in ogni suo atto quasi tut-to un proprio essere e, insieme, una concreta specialità.

Così sono i caratteri creati dallo Shakespeare. E quigl’illustratori di teatro non possono facilmente trionfare.Perchè sono, in fatti, così pochi i degni interpreti delloShakespeare? Ma perchè le sue figure tragiche son cosìgrandiose ed han così fortemente segnati i tratti caratte-ristici, che solo pochissimi riescono a riempirle di sè, echi vuol farne un disegno a modo suo, nella vignettadella scena, mostra subito la sua piccolezza, la sua ridi-cola meschinità.

Altro è il dramma, opera d’arte già espressa e viventenella sua idealità essenziale e caratteristica; altro è larappresentazione scenica, traduzione o interpretazionedi essa, copia più o meno somigliante che vive in unarealtà materiale e pur fittizia e illusoria. Se vogliamotrarre le ultime conseguenze da questa indagine estetica,se non vogliamo una traduzione più o men fedele, mal’originale veramente a teatro, ecco la commediadell’arte: uno schema embrionale, e la libera creazione

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dell’attore. Sarebbe sempre, come fu, triviale, perchèopera d’improvvisazione, in cui non può aver luogoquello scarto dei particolari ovvii, comuni, quella sem-plificazione e concentrazione ideale, caratteristicad’ogni opera d’arte superiore.

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dell’attore. Sarebbe sempre, come fu, triviale, perchèopera d’improvvisazione, in cui non può aver luogoquello scarto dei particolari ovvii, comuni, quella sem-plificazione e concentrazione ideale, caratteristicad’ogni opera d’arte superiore.

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IV.Per uno studio sul verso di Dante

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IV.Per uno studio sul verso di Dante

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Federico Garlanda, studiando alcuni elementi dellametrica shakespeariana, fu condotto, com’egli dice,«non per alcuna connessione storica, ma per naturale af-finità di argomento, a volgere l’occhio alla metrica dan-tesca». Allo studio del verso shakespeariano egli era giàvenuto, per natural trapasso, dallo studio dell’antica me-trica inglese, che ha per base fondamentale l’allitterazio-ne.

Il Garlanda mostra di credere che questa allitterazionesia elemento esclusivamente primitivo, che s’incontricioè soltanto nelle più antiche poesie, così presso i Se-miti come presso gli Ariani, presso i Latini come pressoi Celti, e nei canti popolari.

Ora sta di fatto che essa si trova largamente usata an-che nell’antichità classica e greca e latina. Si obbiettò, èvero, che nei versi greci e latini, letti non secondo gliaccenti della parola ma secondo gl’ictus ritmici, cioècome appunto li dovevano recitare gli antichi, questa al-litterazione, assonanza o consonanza, spariva spesso.Ma a questa obbiezione, in parte vera, si rispose cheGreci e Latini, pur declamando i versi secondo gli ac-centi ritmici, non dovevano rinunciare in pari tempo agli accenti delle parole, si che esse conservavano il lorospeciale accento più vivo che non sia per noi quando cifacciamo a recitar quei versi secondo i tempi forti; e

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Federico Garlanda, studiando alcuni elementi dellametrica shakespeariana, fu condotto, com’egli dice,«non per alcuna connessione storica, ma per naturale af-finità di argomento, a volgere l’occhio alla metrica dan-tesca». Allo studio del verso shakespeariano egli era giàvenuto, per natural trapasso, dallo studio dell’antica me-trica inglese, che ha per base fondamentale l’allitterazio-ne.

Il Garlanda mostra di credere che questa allitterazionesia elemento esclusivamente primitivo, che s’incontricioè soltanto nelle più antiche poesie, così presso i Se-miti come presso gli Ariani, presso i Latini come pressoi Celti, e nei canti popolari.

Ora sta di fatto che essa si trova largamente usata an-che nell’antichità classica e greca e latina. Si obbiettò, èvero, che nei versi greci e latini, letti non secondo gliaccenti della parola ma secondo gl’ictus ritmici, cioècome appunto li dovevano recitare gli antichi, questa al-litterazione, assonanza o consonanza, spariva spesso.Ma a questa obbiezione, in parte vera, si rispose cheGreci e Latini, pur declamando i versi secondo gli ac-centi ritmici, non dovevano rinunciare in pari tempo agli accenti delle parole, si che esse conservavano il lorospeciale accento più vivo che non sia per noi quando cifacciamo a recitar quei versi secondo i tempi forti; e

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che, d’altra parte, se questa obbiezione mirava a distrug-gere moltissime allitterazioni e assonanze e anche rimepure, in moltissimi casi, al contrario, tendeva a renderlepiù sensibili, perchè l’accentuazione ritmica le facevaanzi spiccar meglio. Nè ormai può più sussistere il dub-bio, che tanto i Greci quanto i Romani non le adoperas-sero ad arte, cioè con piena coscienza, così nei versicome nella prosa. Retori e grammatici ne formularonoteoreticamente le norme più precise. Quinto Cornificionella sua retorica, le chiamò – com’è noto – lumina, eanzi raccomandò agli scrittori d’usarle con parsimonia12.

Piuttosto, da quel che ne dicono anche Cicerone eQuintiliano, appare evidente che questi lumina nel pe-riodo classico debbano essere considerati come elemen-to affatto retorico e non ritmico, destinato insomma acarezzar l’orecchio e a mettere in miglior luce un pen-siero, si per somiglianza si per antitesi, o anche a rende-re una qualche armonia imitativa. I grammatici posterio-ri, invece, prendono di mano in mano a considerarlisempre più come elementi ritmici e a sentirne solo il va-lore musicale.

Ho voluto notar questo, perchè mi sembra che il Gar-landa – il quale pensa che Dante avesse «la mente tuttaimpregnata dell’antica coltura» e avesse «nell’orecchio,sia pure inconsciamente, l’eco insistente, non riducibileal silenzio, dei metri latini» – avrebbe potuto cavarne unforte sostegno alla sua tesi, che cioè le numerose allitte-

12 Ad C. Herennium, IV, 22, 32. Perchè, osserva: «eiusmodi studia ad de-lectationem quam ad veritatem videntur accomodatiora».

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che, d’altra parte, se questa obbiezione mirava a distrug-gere moltissime allitterazioni e assonanze e anche rimepure, in moltissimi casi, al contrario, tendeva a renderlepiù sensibili, perchè l’accentuazione ritmica le facevaanzi spiccar meglio. Nè ormai può più sussistere il dub-bio, che tanto i Greci quanto i Romani non le adoperas-sero ad arte, cioè con piena coscienza, così nei versicome nella prosa. Retori e grammatici ne formularonoteoreticamente le norme più precise. Quinto Cornificionella sua retorica, le chiamò – com’è noto – lumina, eanzi raccomandò agli scrittori d’usarle con parsimonia12.

Piuttosto, da quel che ne dicono anche Cicerone eQuintiliano, appare evidente che questi lumina nel pe-riodo classico debbano essere considerati come elemen-to affatto retorico e non ritmico, destinato insomma acarezzar l’orecchio e a mettere in miglior luce un pen-siero, si per somiglianza si per antitesi, o anche a rende-re una qualche armonia imitativa. I grammatici posterio-ri, invece, prendono di mano in mano a considerarlisempre più come elementi ritmici e a sentirne solo il va-lore musicale.

Ho voluto notar questo, perchè mi sembra che il Gar-landa – il quale pensa che Dante avesse «la mente tuttaimpregnata dell’antica coltura» e avesse «nell’orecchio,sia pure inconsciamente, l’eco insistente, non riducibileal silenzio, dei metri latini» – avrebbe potuto cavarne unforte sostegno alla sua tesi, che cioè le numerose allitte-

12 Ad C. Herennium, IV, 22, 32. Perchè, osserva: «eiusmodi studia ad de-lectationem quam ad veritatem videntur accomodatiora».

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razioni e suballitterazioni e quelle ch’egli chiama sinfo-nie (ripetizione della stessa vocale negli accenti metri-ci), che si trovano in Dante, siano deliberatamente volu-te e cercate dal poeta e non combinazioni inconsce e ca-suali.

L’ho però notato contro di me. M’affretto a dire, in-fatti, ch’io son contrario alla tesi del Garlanda, quantun-que creda con lui che tutte quelle innegabili numeroseallitterazioni e suballitterazioni e sinfonie non siano ca-suali.

Casuali, no; ma deliberatamente volute e cercate,neppure.

Credo così per tante ragioni. E principalissima questa:che un poeta, per quanto rigido, volontario e presentesempre a sè stesso, sistematico, geometrico, ponderato,misurato, come Dante, non potrebbe assolutamente met-ter su un verso, se con animo deliberato, e non perischerzo, volesse allitterarlo.

Dico non per ischerzo, perchè abbiamo pur tropponella nostra letteratura, chi nol sa?, tutt’un armento dipoeti scioperati (il Leporeo informi) i quali si piacquerodi comporre ogni sorta di sciocchi e insulsi bisticci, gio-cando in tutti i modi coi suoni delle parole e cercandoallitterazioni e annominazioni:

Donna da Dio discesa, don divino.... ecc.Marta, che merta mirto, a morte m’urta..., ecc.13.

13 Si ricordi il verso latino:O Ttte, tute, Tati, tibi, tanta, tyranne, tulisti.

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razioni e suballitterazioni e quelle ch’egli chiama sinfo-nie (ripetizione della stessa vocale negli accenti metri-ci), che si trovano in Dante, siano deliberatamente volu-te e cercate dal poeta e non combinazioni inconsce e ca-suali.

L’ho però notato contro di me. M’affretto a dire, in-fatti, ch’io son contrario alla tesi del Garlanda, quantun-que creda con lui che tutte quelle innegabili numeroseallitterazioni e suballitterazioni e sinfonie non siano ca-suali.

Casuali, no; ma deliberatamente volute e cercate,neppure.

Credo così per tante ragioni. E principalissima questa:che un poeta, per quanto rigido, volontario e presentesempre a sè stesso, sistematico, geometrico, ponderato,misurato, come Dante, non potrebbe assolutamente met-ter su un verso, se con animo deliberato, e non perischerzo, volesse allitterarlo.

Dico non per ischerzo, perchè abbiamo pur tropponella nostra letteratura, chi nol sa?, tutt’un armento dipoeti scioperati (il Leporeo informi) i quali si piacquerodi comporre ogni sorta di sciocchi e insulsi bisticci, gio-cando in tutti i modi coi suoni delle parole e cercandoallitterazioni e annominazioni:

Donna da Dio discesa, don divino.... ecc.Marta, che merta mirto, a morte m’urta..., ecc.13.

13 Si ricordi il verso latino:O Ttte, tute, Tati, tibi, tanta, tyranne, tulisti.

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Ora, i poeti latini potevan sì cercare ad arte l’allittera-zione, perchè i loro versi erano veramente per la mag-gior parte un congegno industrioso, una studiata combi-nazione musicale, che scaturiva dall’ordinata serie dilunghe e di brevi in cui le diverse misure di tempo eranodistintamente segnate e fatte cogliere all’orecchiodall’ictus ritmico, con sacrificio non solo dell’armoniaspontanea e naturale delle parole, ma anche del nessologico di esse; tant’è vero, che, per intendere il senso diquei versi, abbiamo spesso bisogno di ricostruire sintat-ticamente le parole, andando a cercarle qua e là nelle in-versioni e trasposizioni regolate a seconda del valoreprosodico e dell’esigenza del ritmo musicale, soverchia-tore.

Ma in Dante, no; in Dante, inversioni e trasposizionisono rarissime; il verso balza dall’energia spontaneadella lingua e della pronunzia popolare, dritto e schiettosempre, come una spada.

Si persuada il Garlanda che un poeta capace di for-mulare o di applicare una regola qualsiasi nell’atto stes-so della creazione, a freddo; che possa attendere, nelfervor dell’estro, a scegliere le parole, con predominiodi questa o quella consonante, non è un vero artista; èanzi addirittura inconcepibile. Vuole sul serio che Dantesia andato a cercar di proposito quattro parole con cin-que m per metter su il verso:

Similmente il mal seme d’Adamo?

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Ora, i poeti latini potevan sì cercare ad arte l’allittera-zione, perchè i loro versi erano veramente per la mag-gior parte un congegno industrioso, una studiata combi-nazione musicale, che scaturiva dall’ordinata serie dilunghe e di brevi in cui le diverse misure di tempo eranodistintamente segnate e fatte cogliere all’orecchiodall’ictus ritmico, con sacrificio non solo dell’armoniaspontanea e naturale delle parole, ma anche del nessologico di esse; tant’è vero, che, per intendere il senso diquei versi, abbiamo spesso bisogno di ricostruire sintat-ticamente le parole, andando a cercarle qua e là nelle in-versioni e trasposizioni regolate a seconda del valoreprosodico e dell’esigenza del ritmo musicale, soverchia-tore.

Ma in Dante, no; in Dante, inversioni e trasposizionisono rarissime; il verso balza dall’energia spontaneadella lingua e della pronunzia popolare, dritto e schiettosempre, come una spada.

Si persuada il Garlanda che un poeta capace di for-mulare o di applicare una regola qualsiasi nell’atto stes-so della creazione, a freddo; che possa attendere, nelfervor dell’estro, a scegliere le parole, con predominiodi questa o quella consonante, non è un vero artista; èanzi addirittura inconcepibile. Vuole sul serio che Dantesia andato a cercar di proposito quattro parole con cin-que m per metter su il verso:

Similmente il mal seme d’Adamo?

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Gli è venuto fatto così, e, diciamo la verità, gli è ve-nuto fatto male! Se si fosse accorto della troppa allitte-razione (pare un verso di Luigi Groto, il Cieco d’Adria),lo avrebbe sicuramente corretto. Tutte quelle m impic-ciano, invischiano il verso tra le labbra. E chi sa quantialtri ne avrebbe corretti di quelli che il Garlanda cita inprova del deliberato proposito del Poeta!

Con ciò, si badi, non voglio negare l’efficaciadell’allitterazione, che d’altra parte risulta evidentissimadagli esempii recati in si gran copia dal Garlanda. Negoche il Poeta le abbia coscientemente volute.

Nel De Vulgari Eloquentia Dante parla così minuta-mente del valore delle parole e le classifica e divide esuddivide secondo il suono, la forma, ecc., con così sot-tile discernimento, e dimostra di voler rendersi conto ditutto con tale industria minuziosa e tanto acume, checertamente, se avesse pensato di far uso coscientedell’allitterazione, ne avrebbe parlato in modo esplicito.Questo al Garlanda, che pur si vale del De Vulgari Elo-quentia, dovrebbe dar da pensare. Egli però, non trovan-do nulla qui e volendo a ogni costo trovare in Dantestesso qualche accenno in sostegno della sua tesi, ricorre(e non s’accorge del grave abbaglio!) ricorre a quel pas-so del Convivio, dove Dante, per negar la possibilità diben tradurre alcuna poesia da una in altra lingua, dice:«E però sappia ciascuno che nulla cosa, per legame mu-saico armonizzata, si può dalla sua loquela in altra tra-smutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia».

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Gli è venuto fatto così, e, diciamo la verità, gli è ve-nuto fatto male! Se si fosse accorto della troppa allitte-razione (pare un verso di Luigi Groto, il Cieco d’Adria),lo avrebbe sicuramente corretto. Tutte quelle m impic-ciano, invischiano il verso tra le labbra. E chi sa quantialtri ne avrebbe corretti di quelli che il Garlanda cita inprova del deliberato proposito del Poeta!

Con ciò, si badi, non voglio negare l’efficaciadell’allitterazione, che d’altra parte risulta evidentissimadagli esempii recati in si gran copia dal Garlanda. Negoche il Poeta le abbia coscientemente volute.

Nel De Vulgari Eloquentia Dante parla così minuta-mente del valore delle parole e le classifica e divide esuddivide secondo il suono, la forma, ecc., con così sot-tile discernimento, e dimostra di voler rendersi conto ditutto con tale industria minuziosa e tanto acume, checertamente, se avesse pensato di far uso coscientedell’allitterazione, ne avrebbe parlato in modo esplicito.Questo al Garlanda, che pur si vale del De Vulgari Elo-quentia, dovrebbe dar da pensare. Egli però, non trovan-do nulla qui e volendo a ogni costo trovare in Dantestesso qualche accenno in sostegno della sua tesi, ricorre(e non s’accorge del grave abbaglio!) ricorre a quel pas-so del Convivio, dove Dante, per negar la possibilità diben tradurre alcuna poesia da una in altra lingua, dice:«E però sappia ciascuno che nulla cosa, per legame mu-saico armonizzata, si può dalla sua loquela in altra tra-smutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia».

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Per Dante dunque – argomenta da questo passo ilGarlanda – il verso è un musaico armonico; e come nelmusaico, così nel verso: ogni scheggia di colore in quel-lo, ogni vibrazione di suono in questo, ha la sua propriaragion d’essere, è parte coordinata al tutto; nulla potetetogliere o variare o spostare senza rompere tutta la dol-cezza e l’armonia dell’insieme.

Ma no, ma no, caro Garlanda! Qui musaico non valegià quel che noi oggi intendiamo comunemente; quimusaico vale semplicemente musicale; e alcuni infattileggono, non musaico, ma musico. «Cosa per legamemusaico armonizzata» vuol dire verso, poesia, «cosa ar-monizzata per legame musicale»: musaico, da Musa. Elavoro musaico o arte musaica si chiamò difatti la poe-sia; e in Guido Giudice dalle Colonne si legge: «Furo at-tratti li suoni musaici et altri suoni di stromenti moltodilettosi». L’opera musiva, i tasselli e le tessere non cihanno che vedere, qui.

È vero che, a un certo punto (pag. 48), s’affaccia alGarlanda il dubbio: «Che se mai fosse inconscio e ca-suale l’uso di siffatti elementi, questo è appunto l’ufficiopiù alto della critica, di scoprire i principii e le leggi cuil’esplicazione dell’opera d’arte va soggetta, e cui obbe-discono, sia pure inconsciamente, il poeta e l’artista».

Oh, benone! Ora siamo d’accordo. Si sa che in ogniarte è inclusa una scienza, non riflessa però, ma per cosìdire istintiva, già che l’artista creando, osserva per forzatutte le leggi della vita. Per quanto libera, per quanto ca-pricciosa, per quanto in apparenza indipendente da ogni

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Per Dante dunque – argomenta da questo passo ilGarlanda – il verso è un musaico armonico; e come nelmusaico, così nel verso: ogni scheggia di colore in quel-lo, ogni vibrazione di suono in questo, ha la sua propriaragion d’essere, è parte coordinata al tutto; nulla potetetogliere o variare o spostare senza rompere tutta la dol-cezza e l’armonia dell’insieme.

Ma no, ma no, caro Garlanda! Qui musaico non valegià quel che noi oggi intendiamo comunemente; quimusaico vale semplicemente musicale; e alcuni infattileggono, non musaico, ma musico. «Cosa per legamemusaico armonizzata» vuol dire verso, poesia, «cosa ar-monizzata per legame musicale»: musaico, da Musa. Elavoro musaico o arte musaica si chiamò difatti la poe-sia; e in Guido Giudice dalle Colonne si legge: «Furo at-tratti li suoni musaici et altri suoni di stromenti moltodilettosi». L’opera musiva, i tasselli e le tessere non cihanno che vedere, qui.

È vero che, a un certo punto (pag. 48), s’affaccia alGarlanda il dubbio: «Che se mai fosse inconscio e ca-suale l’uso di siffatti elementi, questo è appunto l’ufficiopiù alto della critica, di scoprire i principii e le leggi cuil’esplicazione dell’opera d’arte va soggetta, e cui obbe-discono, sia pure inconsciamente, il poeta e l’artista».

Oh, benone! Ora siamo d’accordo. Si sa che in ogniarte è inclusa una scienza, non riflessa però, ma per cosìdire istintiva, già che l’artista creando, osserva per forzatutte le leggi della vita. Per quanto libera, per quanto ca-pricciosa, per quanto in apparenza indipendente da ogni

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regola, l’arte, abbiamo detto altrove14, ha pur sempreuna sua logica, non già immessa e aggiustata da fuori,come un congegno apparecchiato innanzi, ma ingenita,mobile, complessa. L’arte, nelle sue opere, riassume in-somma tutti i rapporti razionali, tutte le leggi che vivononell’istinto dell’artista, leggi a cui essa obbedisce senzaneppure averne il sospetto.

E oggi, infatti, non basta più dare dell’arte un giudi-zio fondato solamente, o quasi del tutto, su gli effettiche essa produce su la sensibilità relativa, per spiegarcitutte le ragioni della sua efficacia possente. Noi voglia-mo che essa non sia giudicata soltanto dal piacere che ciprocura ma che assuma anche espressione per l’intelli-genza, studiandola col sussidio della critica, che scopreappunto le leggi incluse, la scienza contenuta in essaistintivamente.

La logica poetica è il libero movimento della passioneco’ suoi impeti e gli abbandoni e i subiti cangiamenti. Edi qui la flessibilità d’una frase che si solleva e ricade, sislancia e s’arresta o si spezza o supera l’ostacolo e ri-prende il suo movimento aggirante. Nella passione, leidee tutte s’avventano, la più forte zampilla, le altre laseguono, secondo le alternative della spinta interiore. Edi qui certe scintille che si sprigionano, quasi al cozzodelle parole. Ai movimenti dell’anima rispondono certimovimenti del corpo: il suono della voce si altera, la re-spirazione diventa affannosa e le parole ora s’arrestano

14 Vedi il primo saggio Arte e scienza.

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regola, l’arte, abbiamo detto altrove14, ha pur sempreuna sua logica, non già immessa e aggiustata da fuori,come un congegno apparecchiato innanzi, ma ingenita,mobile, complessa. L’arte, nelle sue opere, riassume in-somma tutti i rapporti razionali, tutte le leggi che vivononell’istinto dell’artista, leggi a cui essa obbedisce senzaneppure averne il sospetto.

E oggi, infatti, non basta più dare dell’arte un giudi-zio fondato solamente, o quasi del tutto, su gli effettiche essa produce su la sensibilità relativa, per spiegarcitutte le ragioni della sua efficacia possente. Noi voglia-mo che essa non sia giudicata soltanto dal piacere che ciprocura ma che assuma anche espressione per l’intelli-genza, studiandola col sussidio della critica, che scopreappunto le leggi incluse, la scienza contenuta in essaistintivamente.

La logica poetica è il libero movimento della passioneco’ suoi impeti e gli abbandoni e i subiti cangiamenti. Edi qui la flessibilità d’una frase che si solleva e ricade, sislancia e s’arresta o si spezza o supera l’ostacolo e ri-prende il suo movimento aggirante. Nella passione, leidee tutte s’avventano, la più forte zampilla, le altre laseguono, secondo le alternative della spinta interiore. Edi qui certe scintille che si sprigionano, quasi al cozzodelle parole. Ai movimenti dell’anima rispondono certimovimenti del corpo: il suono della voce si altera, la re-spirazione diventa affannosa e le parole ora s’arrestano

14 Vedi il primo saggio Arte e scienza.

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d’un tratto, ora precipitano. E di qui la misura del versoche ritma il sentimento e le modulazioni che rompono lacontinuità monotona del linguaggio comune.

Opera di critica pregevole, per acume e per diligenza,resta dunque senza dubbio questa del Garlanda, quan-tunque egli si sia ostinato fino all’ultimo, nonostante ilbaleno di quel dubbio, a sostenere una tesi per me inam-missibile; opera di critica perchè mette in chiaro un ele-mento reale e non casuale, per quanto inconscio, delverso dantesco, elemento che contribuisce a crescerglicarattere e a spiegare a noi un’altra ragione della sua ef-ficacia possente.

Nè qui s’arresta il Garlanda. Altri elementi caratteri-stici egli mette in chiaro per spiegare quell’armonia par-ticolare che distingue in modo così sensibile, così spic-cato, il verso di Dante da quello di tutti gli altri nostripoeti, elementi finora non emersi per la materialità mec-canica della nostra metrica elementare.

Veramente da un pezzo ormai gli studii metrici sonocoltivati anche da noi con amore. Il guajo è che il fruttodi questi studii non penetra ancora, almeno come do-vrebbe, nelle scuole; e i nuovi e sani criterii su la naturadel ritmo, per esempio, e su le ragioni della quantità nonhanno quella diffusione che dovrebbero avere.

Avremmo voluto che il Garlanda, per legittimar me-glio quanto dice intorno alla necessità di ricorrere allametrica classica, fosse entrato a parlare appunto su que-sta natura del ritmo e su queste ragioni della quantitàcon criterii più nuovi e più logico accorgimento.

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d’un tratto, ora precipitano. E di qui la misura del versoche ritma il sentimento e le modulazioni che rompono lacontinuità monotona del linguaggio comune.

Opera di critica pregevole, per acume e per diligenza,resta dunque senza dubbio questa del Garlanda, quan-tunque egli si sia ostinato fino all’ultimo, nonostante ilbaleno di quel dubbio, a sostenere una tesi per me inam-missibile; opera di critica perchè mette in chiaro un ele-mento reale e non casuale, per quanto inconscio, delverso dantesco, elemento che contribuisce a crescerglicarattere e a spiegare a noi un’altra ragione della sua ef-ficacia possente.

Nè qui s’arresta il Garlanda. Altri elementi caratteri-stici egli mette in chiaro per spiegare quell’armonia par-ticolare che distingue in modo così sensibile, così spic-cato, il verso di Dante da quello di tutti gli altri nostripoeti, elementi finora non emersi per la materialità mec-canica della nostra metrica elementare.

Veramente da un pezzo ormai gli studii metrici sonocoltivati anche da noi con amore. Il guajo è che il fruttodi questi studii non penetra ancora, almeno come do-vrebbe, nelle scuole; e i nuovi e sani criterii su la naturadel ritmo, per esempio, e su le ragioni della quantità nonhanno quella diffusione che dovrebbero avere.

Avremmo voluto che il Garlanda, per legittimar me-glio quanto dice intorno alla necessità di ricorrere allametrica classica, fosse entrato a parlare appunto su que-sta natura del ritmo e su queste ragioni della quantitàcon criterii più nuovi e più logico accorgimento.

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Sarebbe tempo che si finisse una buona volta di ripe-tere che gli antichi avevano il senso dei valori prosodicidella loro lingua, che cioè distinguevano nella pronunziadelle sillabe, e quindi delle parole, la quantità di voceproferita, o, che vale lo stesso, il tempo speso nel profe-rirla; che questa quantità lunga o breve delle sillabe eraproprietà essenziale delle lingue classiche, era cioè inge-nita, o meglio, radicata nella natura di esse lingue e po-teva sussistere (come di fatto si faceva sussistere) indi-pendentemente dall’accento, il quale – si affermava –era una specie di canto, quasi anima vocis, e si limitavaa segnar nella pronunzia l’intonazione della voce, il gra-do di elevazione e di abbassamento di essa, ed era per-ciò essenzialmente musicale.

Veramente il Garlanda osserva che «pochi sensi pre-sentano, nell’evoluzione della natura umana, cambia-menti così poco radicali come il senso dell’udito». Mapoi anch’egli crede che il senso della quantità si sia manmano modificato. Orbene, non si è modificato niente af-fatto. Il popolo latino non seppe mai di queste artificiosedivisioni di lunghe e di brevi, che furon leggi scolasti-che, convenzionali, create unicamente per la conserva-zione degli antichi schemi musicali greci.

Ormai non bisogna cercare più le forme euritmichedel tempo in queste artificiose divisioni. Il tempo è for-mato naturalmente dall’alzarsi e dall’abbassarsi del mo-vimento vocale; il che vuol dire che esso si trova già perse stesso nella materia armonica, e che, anche senza un

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Sarebbe tempo che si finisse una buona volta di ripe-tere che gli antichi avevano il senso dei valori prosodicidella loro lingua, che cioè distinguevano nella pronunziadelle sillabe, e quindi delle parole, la quantità di voceproferita, o, che vale lo stesso, il tempo speso nel profe-rirla; che questa quantità lunga o breve delle sillabe eraproprietà essenziale delle lingue classiche, era cioè inge-nita, o meglio, radicata nella natura di esse lingue e po-teva sussistere (come di fatto si faceva sussistere) indi-pendentemente dall’accento, il quale – si affermava –era una specie di canto, quasi anima vocis, e si limitavaa segnar nella pronunzia l’intonazione della voce, il gra-do di elevazione e di abbassamento di essa, ed era per-ciò essenzialmente musicale.

Veramente il Garlanda osserva che «pochi sensi pre-sentano, nell’evoluzione della natura umana, cambia-menti così poco radicali come il senso dell’udito». Mapoi anch’egli crede che il senso della quantità si sia manmano modificato. Orbene, non si è modificato niente af-fatto. Il popolo latino non seppe mai di queste artificiosedivisioni di lunghe e di brevi, che furon leggi scolasti-che, convenzionali, create unicamente per la conserva-zione degli antichi schemi musicali greci.

Ormai non bisogna cercare più le forme euritmichedel tempo in queste artificiose divisioni. Il tempo è for-mato naturalmente dall’alzarsi e dall’abbassarsi del mo-vimento vocale; il che vuol dire che esso si trova già perse stesso nella materia armonica, e che, anche senza un

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principio formale, per propria virtù, crea la musica nelverso.

Il principio, il senso, che dà anima e vita a questa ma-teria, non è esteriore alla materia stessa, ma interiore, in-sito in essa; la materia del verso insomma non è assog-gettata da un principio esterno, ma questo principio na-sce, emana dalla materia stessa.

Quell’idea astratta, che tutti i metrologi antichi e nuo-vi han voluto farsi del ritmo, bisogna che cada una buo-na volta dinanzi al fatto.

Che vuol dire, in fondo, la famosa definizione che iltarentino Aristosseno ci diede del ritmo, che esso siacioè l’ordine dei tempi? Noi sappiamo che all’uomo èpreclusa ogni conoscenza che non provenga dai sensi.Noi non possiamo avere un’idea del ritmo, se non ne ab-biamo una sensazione. Il ritmo ha perciò bisogno d’unamateria per rendersi sensibile, per diventar reale. Senzaquesta materia esso non può rivelarsi, non esiste. Infatti,se il ritmo è ordine di tempi, bisogna che questi tempiesistano e che della loro disposizione esso possa nasce-re.

Per spiegarci l’assurdo, in cui i metrologi han volutocecamente persistere, dobbiamo pensare che nel tempoin cui le antiche teorie del ritmo furono fondate, la mu-sica era ancora legata alla poesia. Il ritmo di cui esse ciparlano era allora effettivamente esterno alla materiaparlata: era musicale e dominava in realtà la parola: or-dinava le sillabe e imponeva loro le misure di tempo, se-condo le sue necessità armoniche. Era dunque vero che

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principio formale, per propria virtù, crea la musica nelverso.

Il principio, il senso, che dà anima e vita a questa ma-teria, non è esteriore alla materia stessa, ma interiore, in-sito in essa; la materia del verso insomma non è assog-gettata da un principio esterno, ma questo principio na-sce, emana dalla materia stessa.

Quell’idea astratta, che tutti i metrologi antichi e nuo-vi han voluto farsi del ritmo, bisogna che cada una buo-na volta dinanzi al fatto.

Che vuol dire, in fondo, la famosa definizione che iltarentino Aristosseno ci diede del ritmo, che esso siacioè l’ordine dei tempi? Noi sappiamo che all’uomo èpreclusa ogni conoscenza che non provenga dai sensi.Noi non possiamo avere un’idea del ritmo, se non ne ab-biamo una sensazione. Il ritmo ha perciò bisogno d’unamateria per rendersi sensibile, per diventar reale. Senzaquesta materia esso non può rivelarsi, non esiste. Infatti,se il ritmo è ordine di tempi, bisogna che questi tempiesistano e che della loro disposizione esso possa nasce-re.

Per spiegarci l’assurdo, in cui i metrologi han volutocecamente persistere, dobbiamo pensare che nel tempoin cui le antiche teorie del ritmo furono fondate, la mu-sica era ancora legata alla poesia. Il ritmo di cui esse ciparlano era allora effettivamente esterno alla materiaparlata: era musicale e dominava in realtà la parola: or-dinava le sillabe e imponeva loro le misure di tempo, se-condo le sue necessità armoniche. Era dunque vero che

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il ritmo scaturiva da un ordine di tempi da lui imposto,poichè le diverse misure di tempo erano distintamentesegnate e fatte cogliere all’orecchio dal così detto ictus,o percussione musicale. così finchè le tre arti musiche simantennero unite, la ritmica, cioè l’elemento essenzial-mente musicale, prevalse su la metrica pura.

Bisogna pensare che negli antichissimi tempi il di-scorso «era infinitamente plastico e duttile. Le singoleparole, composte dell’agglomeramento ancor fresco diradici monosillabiche, non erano, come non sono ancorain Omero, rigidamente dominate da un accento ritmico,tonico. Tuttavia nel loro fluire avevano maggior risaltocerte sillabe; le tematiche, quelle contenenti un dittongo,o una vocale di suono cupo, tendente per propria naturaa collocarsi nelle basi del ritmo, quelle infine in cui unavocale era seguita dall’inciampo di due o più consonan-ti. Nell’accoppiamento del discorso con le primitivecanzoni senza parole, queste sillabe più intense andaro-no per ovvia simpatia a collocarsi sotto le note più lun-ghe e più percosse dal ritmo; le altre, che presentavanominor resistenza nel fluire del discorso, sotto le più bre-vi e meno salienti. Ma nelle più antiche cantilene grechenon v’erano che note d’un tempo o di due. Onde avven-ne che si tribuì convenzionalmente una durata musical-mente precisa a quelle due famiglie di sillabe, che preci-sa per propria natura non ne avevano: e si distinsero lesillabe di un tempo, brevi, e le sillabe di due, lunghe»15.

15 ETTORE ROMAGNOLI, La musica greca. – Vedi Nuova Antologia, fasc. del16 aprile 1905.

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il ritmo scaturiva da un ordine di tempi da lui imposto,poichè le diverse misure di tempo erano distintamentesegnate e fatte cogliere all’orecchio dal così detto ictus,o percussione musicale. così finchè le tre arti musiche simantennero unite, la ritmica, cioè l’elemento essenzial-mente musicale, prevalse su la metrica pura.

Bisogna pensare che negli antichissimi tempi il di-scorso «era infinitamente plastico e duttile. Le singoleparole, composte dell’agglomeramento ancor fresco diradici monosillabiche, non erano, come non sono ancorain Omero, rigidamente dominate da un accento ritmico,tonico. Tuttavia nel loro fluire avevano maggior risaltocerte sillabe; le tematiche, quelle contenenti un dittongo,o una vocale di suono cupo, tendente per propria naturaa collocarsi nelle basi del ritmo, quelle infine in cui unavocale era seguita dall’inciampo di due o più consonan-ti. Nell’accoppiamento del discorso con le primitivecanzoni senza parole, queste sillabe più intense andaro-no per ovvia simpatia a collocarsi sotto le note più lun-ghe e più percosse dal ritmo; le altre, che presentavanominor resistenza nel fluire del discorso, sotto le più bre-vi e meno salienti. Ma nelle più antiche cantilene grechenon v’erano che note d’un tempo o di due. Onde avven-ne che si tribuì convenzionalmente una durata musical-mente precisa a quelle due famiglie di sillabe, che preci-sa per propria natura non ne avevano: e si distinsero lesillabe di un tempo, brevi, e le sillabe di due, lunghe»15.

15 ETTORE ROMAGNOLI, La musica greca. – Vedi Nuova Antologia, fasc. del16 aprile 1905.

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Questo, per la prima poesia greca. Ma se noi conside-riamo davvicino l’indole e la naturale inclinazione dellalingua latina e studiamo passo passo il processo storicodi essa, non siamo forse costretti ad ammettere che, finda principio, l’accento latino ha non solo qualcosa dellanatura del tempo forte, ma sì potente energia nella paro-la che ad esso è forza addebitare tanti e tanti affievoli-menti fonici e alterazioni prosodiche e sincopi? Non sia-mo costretti ad ammettere la scarsissima forza del voca-lismo latino, di cui l’accento, secondo la sua inclinazio-ne fa scempio; e che dunque è assurdo l’affermare cheun tale accento, al quale non è possibile attribuire sol-tanto, nella pronunzia, un ufficio musicale, potesse inqualche modo essere vincolato dalla quantità, cioè daquesta pretesa proprietà delle vocali, che pur si dimo-strano così deboli di fronte ad esso?

Se lasciamo per poco da parte i trattati di prosodia estudiamo le relazioni dell’accento con la pretesa quanti-tà delle sillabe, secondo le leggi prescritte, non daigrammatici, ma dalla natura, non questa dipendenza sol-tanto dell’accento dalla quantità ci apparrà assurda, delresto, ma tutte le altre regole prosodiche, le quali, se sipossono ammettere nel campo della poesia metrica (evedremo bene il perchè), non sono affatto applicabili allinguaggio comune, tranne che non si voglia asserireche il popolo latino cantava e non parlava.

Si volle obbiettare che, non perchè noi ignoriamocome gli antichi potessero sentire e far sentire parlando ivalori prosodici della loro lingua indipendentemente

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Questo, per la prima poesia greca. Ma se noi conside-riamo davvicino l’indole e la naturale inclinazione dellalingua latina e studiamo passo passo il processo storicodi essa, non siamo forse costretti ad ammettere che, finda principio, l’accento latino ha non solo qualcosa dellanatura del tempo forte, ma sì potente energia nella paro-la che ad esso è forza addebitare tanti e tanti affievoli-menti fonici e alterazioni prosodiche e sincopi? Non sia-mo costretti ad ammettere la scarsissima forza del voca-lismo latino, di cui l’accento, secondo la sua inclinazio-ne fa scempio; e che dunque è assurdo l’affermare cheun tale accento, al quale non è possibile attribuire sol-tanto, nella pronunzia, un ufficio musicale, potesse inqualche modo essere vincolato dalla quantità, cioè daquesta pretesa proprietà delle vocali, che pur si dimo-strano così deboli di fronte ad esso?

Se lasciamo per poco da parte i trattati di prosodia estudiamo le relazioni dell’accento con la pretesa quanti-tà delle sillabe, secondo le leggi prescritte, non daigrammatici, ma dalla natura, non questa dipendenza sol-tanto dell’accento dalla quantità ci apparrà assurda, delresto, ma tutte le altre regole prosodiche, le quali, se sipossono ammettere nel campo della poesia metrica (evedremo bene il perchè), non sono affatto applicabili allinguaggio comune, tranne che non si voglia asserireche il popolo latino cantava e non parlava.

Si volle obbiettare che, non perchè noi ignoriamocome gli antichi potessero sentire e far sentire parlando ivalori prosodici della loro lingua indipendentemente

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dalla posizione dell’accento, perciò solo (cioè per la no-stra ignoranza) dobbiamo dire che essi non ne avesserola possibilità: ciò che oggi è impossibile a noi, potevabene esser loro possibile.

Che valore logico ha codesto modo di ragionare? Lapossibilità è forse senza limiti? La natura ha per noi unalogica intangibile, determinata dalla potenzialità essen-ziale delle sue forze, la quale rivela a noi i limiti dellapossibilità. Bisogna negare incrollabilmente qualsiasiasserto che implichi una contraddizione con la logicadella natura.

Ora, nel caso nostro, questa logica, per citar soltantole leggi più semplici e fondamentali, c’insegna:

1. che l’accento tonico, essendo un’espressione dellospirito e – per così dire – il martello dell’idea su la vocearticolata e rappresentando l’atto volitivo o intenzionalesu la materialità della parola, non può essere vincolatodalla pretesa quantità delle sillabe, cioè dalla materialitàstessa della parola;

2. che la voce umana non può restar sospesa oltre cer-ti limiti nell’articolazione dei suoni, ma ha bisognod’appoggiarsi e s’appoggia principalmente su la sillabasu cui cade il martello dell’idea. Diciamo principalmen-te, perchè, quando questa sillaba che chiameremo inten-zionale è distante, la voce, o s’appoggia più lievementee con minor pausa su le altre sillabe, o articola queste al-tre sillabe così fuggevolmente, quasi sorvolando pergiungere alla mèta, che esse perdono ogni valor di suo-no e diventano mute o avvizziscono e cadono;

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dalla posizione dell’accento, perciò solo (cioè per la no-stra ignoranza) dobbiamo dire che essi non ne avesserola possibilità: ciò che oggi è impossibile a noi, potevabene esser loro possibile.

Che valore logico ha codesto modo di ragionare? Lapossibilità è forse senza limiti? La natura ha per noi unalogica intangibile, determinata dalla potenzialità essen-ziale delle sue forze, la quale rivela a noi i limiti dellapossibilità. Bisogna negare incrollabilmente qualsiasiasserto che implichi una contraddizione con la logicadella natura.

Ora, nel caso nostro, questa logica, per citar soltantole leggi più semplici e fondamentali, c’insegna:

1. che l’accento tonico, essendo un’espressione dellospirito e – per così dire – il martello dell’idea su la vocearticolata e rappresentando l’atto volitivo o intenzionalesu la materialità della parola, non può essere vincolatodalla pretesa quantità delle sillabe, cioè dalla materialitàstessa della parola;

2. che la voce umana non può restar sospesa oltre cer-ti limiti nell’articolazione dei suoni, ma ha bisognod’appoggiarsi e s’appoggia principalmente su la sillabasu cui cade il martello dell’idea. Diciamo principalmen-te, perchè, quando questa sillaba che chiameremo inten-zionale è distante, la voce, o s’appoggia più lievementee con minor pausa su le altre sillabe, o articola queste al-tre sillabe così fuggevolmente, quasi sorvolando pergiungere alla mèta, che esse perdono ogni valor di suo-no e diventano mute o avvizziscono e cadono;

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3. che la sillaba, su cui la voce s’appoggia e ristà per-ciò alquanto, vien protratta, e non può esser dunque del-la stessa misura di tempo della sillaba su cui la voce nons’appoggia;

4. che le consonanti che precedono e seguono una vo-cale, e a cui essa dà, per così dire, anima di suono, ca-gionano alla vocale stessa una diversità di misura.

Queste sono leggi fisse, naturali e immutabili. Nessu-na lingua umana parlata può essere realmente in contra-sto con esse. Vi sarebbero state, se non con tutte, con al-cune, le lingue classiche, almeno secondo le leggi e leprescrizioni dei grammatici e di certi metrologi antiqua-ti: ma ormai s’è chiarito che questo contrasto è soltantofittizio e apparente e che esso, quantunque voluto, nonnella lingua parlata, che non era possibile, ma nel cam-po della metrica, pur rispettava, in fondo, per forza, leleggi naturali.

Che cosa è infatti l’ictus, la percussione, se non unaccento? Ora si ammetteva che questa percussione, oaccento ritmico, non potesse cadere che su le sillabelunghe, e si ammetteva altresì che esso potesse allunga-re la sillaba su cui cadeva, se essa era breve. Gli allun-gamenti delle sillabe in tesi, cioè delle sillabe su cui ca-deva l’accento ritmico, sono comunissimi. La vocale,dunque, su cui la voce s’appoggiava, non poteva esserbreve o rimaner breve. Or bene, questa è pur la leggenaturale e costante; nè poteva ribellarvisi la metrica lati-na. Soltanto, in essa l’accento tonico era vinto dal musi-cale: le parole non avevano più il loro accento proprio;

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3. che la sillaba, su cui la voce s’appoggia e ristà per-ciò alquanto, vien protratta, e non può esser dunque del-la stessa misura di tempo della sillaba su cui la voce nons’appoggia;

4. che le consonanti che precedono e seguono una vo-cale, e a cui essa dà, per così dire, anima di suono, ca-gionano alla vocale stessa una diversità di misura.

Queste sono leggi fisse, naturali e immutabili. Nessu-na lingua umana parlata può essere realmente in contra-sto con esse. Vi sarebbero state, se non con tutte, con al-cune, le lingue classiche, almeno secondo le leggi e leprescrizioni dei grammatici e di certi metrologi antiqua-ti: ma ormai s’è chiarito che questo contrasto è soltantofittizio e apparente e che esso, quantunque voluto, nonnella lingua parlata, che non era possibile, ma nel cam-po della metrica, pur rispettava, in fondo, per forza, leleggi naturali.

Che cosa è infatti l’ictus, la percussione, se non unaccento? Ora si ammetteva che questa percussione, oaccento ritmico, non potesse cadere che su le sillabelunghe, e si ammetteva altresì che esso potesse allunga-re la sillaba su cui cadeva, se essa era breve. Gli allun-gamenti delle sillabe in tesi, cioè delle sillabe su cui ca-deva l’accento ritmico, sono comunissimi. La vocale,dunque, su cui la voce s’appoggiava, non poteva esserbreve o rimaner breve. Or bene, questa è pur la leggenaturale e costante; nè poteva ribellarvisi la metrica lati-na. Soltanto, in essa l’accento tonico era vinto dal musi-cale: le parole non avevano più il loro accento proprio;

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ma, assoggettate a quell’altro, obbedivano pure alla leg-ge comune, di natura, che vuol lunga la sillaba su cui lavoce si appoggia. Non era abolita, insomma, nè si pote-va, la legge dell’accento, ma si faceva solamente unasostituzione: all’accento tonico, grammaticale, si sosti-tuiva il ritmico, musicale. Era una lotta tra i due accenti.Potè facilmente vincere quello ritmico, perchè più forte,più sensibile, quando la poesia era anche musica. La tesinaturale, e razionale, è quella su cui cade l’accento toni-co. Il ritmo musicale con le sue percussioni stabilivanelle parole tesi irrazionali, sacrificandone l’armoniaspontanea.

Nè si creda che questo, per altro, avvenisse soltantonella metrica antica; avviene anche nella metrica nostra,in quei versi segnatamente che sono più legati alla musi-ca, come l’ottonario. Leggiamo in Fra Jacopone:

Qui si forma un amoreDell’invisibile Dio.L’alma non vede, non sente,Che dispiacele ogni rio.O miracolo infinitoFarsi inferno celestio!Prorompe amor frenesioPiange la vita passata.

Evidentemente qua il ritmo era dato dalla musica: lalingua non vi metteva di suo che il numero delle sillabee l’accento grammaticale su l’ultima tesi. Ora, dal suonosgradevolissimo che rendono a noi questi versi privi del

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ma, assoggettate a quell’altro, obbedivano pure alla leg-ge comune, di natura, che vuol lunga la sillaba su cui lavoce si appoggia. Non era abolita, insomma, nè si pote-va, la legge dell’accento, ma si faceva solamente unasostituzione: all’accento tonico, grammaticale, si sosti-tuiva il ritmico, musicale. Era una lotta tra i due accenti.Potè facilmente vincere quello ritmico, perchè più forte,più sensibile, quando la poesia era anche musica. La tesinaturale, e razionale, è quella su cui cade l’accento toni-co. Il ritmo musicale con le sue percussioni stabilivanelle parole tesi irrazionali, sacrificandone l’armoniaspontanea.

Nè si creda che questo, per altro, avvenisse soltantonella metrica antica; avviene anche nella metrica nostra,in quei versi segnatamente che sono più legati alla musi-ca, come l’ottonario. Leggiamo in Fra Jacopone:

Qui si forma un amoreDell’invisibile Dio.L’alma non vede, non sente,Che dispiacele ogni rio.O miracolo infinitoFarsi inferno celestio!Prorompe amor frenesioPiange la vita passata.

Evidentemente qua il ritmo era dato dalla musica: lalingua non vi metteva di suo che il numero delle sillabee l’accento grammaticale su l’ultima tesi. Ora, dal suonosgradevolissimo che rendono a noi questi versi privi del

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loro accento ritmico, musicale, possiamo argomentarecome dovessero sonar male ai Latini i loro versi letticon gli accenti grammaticali e non secondo quelli ritmi-ci. Evidentemente i Latini, pur di sentire il ritmo,l’armonia dei loro versi, eran forzati a storpiare l’armo-nia naturale della parola, a sostituire cioè gli accenti rit-mici ai grammaticali nella lettura dei loro versi, precisa-mente come noi siam forzati a leggere:

Dell’invisibile DioProromp’àmor frenesioPiange là vita passata

se vogliamo sentire nel verso letto e non più cantato ilritmo che gli dava la musica.

Questo, nella poesia. Ma è possibile che nel parlar co-mune, dove l’accento musicale non aveva più luogo,fosse abolita parimenti la legge naturale dell’appoggia-tura della voce e che questa non determinasse la lun-ghezza della vocale, su cui l’accento cadeva?

Non è possibile. Eppure, nel vocabolario latino tro-viamo una serie infinita di parole che han segnata unaquantità illogica e irrazionale, una quantità che osta cioèalla legge naturale dell’appoggiatura della voce.

Per spiegarla in qualche modo qualcuno si provò fi-nanche a sostener l’ipotesi che nel periodo classico dellalingua non esistesse in realtà disaccordo tra l’accento ela quantità, e che questo disaccordo esista soltanto pernoi, cioè per il modo barbaro con cui noi leggiamo leparole della lingua latina.

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loro accento ritmico, musicale, possiamo argomentarecome dovessero sonar male ai Latini i loro versi letticon gli accenti grammaticali e non secondo quelli ritmi-ci. Evidentemente i Latini, pur di sentire il ritmo,l’armonia dei loro versi, eran forzati a storpiare l’armo-nia naturale della parola, a sostituire cioè gli accenti rit-mici ai grammaticali nella lettura dei loro versi, precisa-mente come noi siam forzati a leggere:

Dell’invisibile DioProromp’àmor frenesioPiange là vita passata

se vogliamo sentire nel verso letto e non più cantato ilritmo che gli dava la musica.

Questo, nella poesia. Ma è possibile che nel parlar co-mune, dove l’accento musicale non aveva più luogo,fosse abolita parimenti la legge naturale dell’appoggia-tura della voce e che questa non determinasse la lun-ghezza della vocale, su cui l’accento cadeva?

Non è possibile. Eppure, nel vocabolario latino tro-viamo una serie infinita di parole che han segnata unaquantità illogica e irrazionale, una quantità che osta cioèalla legge naturale dell’appoggiatura della voce.

Per spiegarla in qualche modo qualcuno si provò fi-nanche a sostener l’ipotesi che nel periodo classico dellalingua non esistesse in realtà disaccordo tra l’accento ela quantità, e che questo disaccordo esista soltanto pernoi, cioè per il modo barbaro con cui noi leggiamo leparole della lingua latina.

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Quest’ipotesi non ha alcuna serietà. Ho voluto ricor-darla soltanto perchè, messa avanti or non è molto comeuna novità, è invece assai vecchia. Fin dal 1623 Ludovi-co Zuccolo, accademico filopono di Faenza, in un suoDiscorso delle ragioni del numero del verso italiano,aveva affacciato il medesimo dubbio (v. Cap. IV: Chenoi non habbiamo più la vera pronunzia della linguaLatina, pag. 14–16 dell’ediz. di Venezia, appresso Mar-co Ginami). Questo Discorso dello Zuccolo, che io trapoco illustrerò, è dallo stesso autore annunziato nel tito-lo come «un pensier nuovo e curioso, e con prove evi-denti spiegato», e contiene senza dubbio, insieme conmolte ingenuità, pensieri veramente nuovi per il suotempo.

«Niuna sillaba – dice lo Zuccolo – può senza tempoproferirsi, e ogni voce di sillabe si compone; ne nasceche ogni orazione, per esser tessuta di voci, ha i suoitempi; i quali o sono indistinti e indeterminati e costitui-scono la prosa: o sono posti con ordine e con proporzio-ne tra di loro, e formano il verso... Claudio Tolomei equegli altri suoi accademici o della Virtù o dello Stagnodi Roma, i quali furono inventori degli esametri e deipentametri nella lingua nostra a concorrenza dei Greci edei Latini, con lunghezza e con brevità di sillabe, le qua-li si finsero a loro capriccio, andarono cercando indarnola verità nelle tenebre, e non la conobbero nella luce...Non perchè noi componiamo i versi nostri a giudiziodell’orecchia, ne sèguita però che i nostri versi non hab-biano si bene i loro tempi, come i Latini e i Greci. Ma la

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Quest’ipotesi non ha alcuna serietà. Ho voluto ricor-darla soltanto perchè, messa avanti or non è molto comeuna novità, è invece assai vecchia. Fin dal 1623 Ludovi-co Zuccolo, accademico filopono di Faenza, in un suoDiscorso delle ragioni del numero del verso italiano,aveva affacciato il medesimo dubbio (v. Cap. IV: Chenoi non habbiamo più la vera pronunzia della linguaLatina, pag. 14–16 dell’ediz. di Venezia, appresso Mar-co Ginami). Questo Discorso dello Zuccolo, che io trapoco illustrerò, è dallo stesso autore annunziato nel tito-lo come «un pensier nuovo e curioso, e con prove evi-denti spiegato», e contiene senza dubbio, insieme conmolte ingenuità, pensieri veramente nuovi per il suotempo.

«Niuna sillaba – dice lo Zuccolo – può senza tempoproferirsi, e ogni voce di sillabe si compone; ne nasceche ogni orazione, per esser tessuta di voci, ha i suoitempi; i quali o sono indistinti e indeterminati e costitui-scono la prosa: o sono posti con ordine e con proporzio-ne tra di loro, e formano il verso... Claudio Tolomei equegli altri suoi accademici o della Virtù o dello Stagnodi Roma, i quali furono inventori degli esametri e deipentametri nella lingua nostra a concorrenza dei Greci edei Latini, con lunghezza e con brevità di sillabe, le qua-li si finsero a loro capriccio, andarono cercando indarnola verità nelle tenebre, e non la conobbero nella luce...Non perchè noi componiamo i versi nostri a giudiziodell’orecchia, ne sèguita però che i nostri versi non hab-biano si bene i loro tempi, come i Latini e i Greci. Ma la

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diversità deriva dall’esserci quelle lingue straniere, dellequali habbiamo anche perduta la vera pronuncia, nè per-ciò possiamo senza regola riconoscere, quali sillabe sianlunghe e quali brevi; e questa propria e nativa, si chel’orecchia ci serve per misura».

Lo Zuccolo non poteva, naturalmente, servirsi ai suoitempi della scienza glottologica per dimostrare il suo as-serto, come di recente si fece.

Ma tanta erudizione, nel caso nostro, non serve pro-prio a nulla, per due semplicissime ragioni:

1. perchè la scienza glottologica può si determinare,caso per caso, la lunghezza di questa o di quella sillaba,lunghezza reale nella primitiva formazione della parola;ma le sue determinazioni, quando urtino contro le esi-genze fonetiche, naturali, della pronunzia, non hanno,nè possono aver più valore effettivo: noi, anche volen-do, non possiamo dare con la voce, nella pronunzia, unvalore doppio di tempo a certe sillabe segnate dallascienza glottologica come lunghe, quando vi s’opponga-no le leggi dell’organo vocale. Quando gli elementisemplici delle radici monosillabiche, le quali prima ave-van per sè la chiarezza del contenuto, cominciarono acorrompersi, fin dal principio dello stadio agglutinante,poi, per le esigenze fonetiche della pronunzia, si oscura-rono completamente, finchè si perdette ogni coscienzadel loro significato originario, così che i vocaboli allafine rappresentarono nè più nè meno che un semplicesegno dell’idea che stava nella nota specifica; quando,in altri termini, una lingua comincia a parlarsi senza più

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diversità deriva dall’esserci quelle lingue straniere, dellequali habbiamo anche perduta la vera pronuncia, nè per-ciò possiamo senza regola riconoscere, quali sillabe sianlunghe e quali brevi; e questa propria e nativa, si chel’orecchia ci serve per misura».

Lo Zuccolo non poteva, naturalmente, servirsi ai suoitempi della scienza glottologica per dimostrare il suo as-serto, come di recente si fece.

Ma tanta erudizione, nel caso nostro, non serve pro-prio a nulla, per due semplicissime ragioni:

1. perchè la scienza glottologica può si determinare,caso per caso, la lunghezza di questa o di quella sillaba,lunghezza reale nella primitiva formazione della parola;ma le sue determinazioni, quando urtino contro le esi-genze fonetiche, naturali, della pronunzia, non hanno,nè possono aver più valore effettivo: noi, anche volen-do, non possiamo dare con la voce, nella pronunzia, unvalore doppio di tempo a certe sillabe segnate dallascienza glottologica come lunghe, quando vi s’opponga-no le leggi dell’organo vocale. Quando gli elementisemplici delle radici monosillabiche, le quali prima ave-van per sè la chiarezza del contenuto, cominciarono acorrompersi, fin dal principio dello stadio agglutinante,poi, per le esigenze fonetiche della pronunzia, si oscura-rono completamente, finchè si perdette ogni coscienzadel loro significato originario, così che i vocaboli allafine rappresentarono nè più nè meno che un semplicesegno dell’idea che stava nella nota specifica; quando,in altri termini, una lingua comincia a parlarsi senza più

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coscienza della individualità degli elementi costitutividelle parole, i segni rimangono esteriori, a determinarsoltanto il suono per cui una parola si distinguedall’altra;

2. perchè, se è vero – come nessuno può mettere indubbio – che la lingua italiana è derivata dalla latina,non è possibile che il popolo latino, per quanto riguardala sede degli accenti, cioè le sillabe toniche, pronuncias-se la sua lingua in modo diverso, poichè allora la nostralingua non sarebbe quella che è. La filologia romanza cidimostra luminosamente che le sillabe toniche latine,quelle cioè scelte dall’accento latino per sua sede, di re-gola non mutano.

Il dire dunque che nella lingua latina non esisteva di-saccordo tra l’accento e la quantità glottologica è un er-rore, com’è un errore l’affermare che l’accento latinoera una modulazione, una cantilena, che accompagnavail discorso e non già un colpo di voce, come è nelle no-stre lingue oscurate e più povere di sonorità.

Ammettiamo per poco come storicamente esatta que-sta osservazione del Benloew, quantunque sappiamo giàche fin dal periodo arcaico l’accento nel corpo della pa-rola, raccogliendo tutta la sua energia su la sillaba chen’era colpita, portava per effetto che o la sillaba prece-dente o la seguente fosse pronunziata con minor forza equindi si avverassero affievolimenti, alterazioni e sinco-pi (altro che colpi di voce, dunque: colpi di scure!).L’accento tonico, abbiamo detto, rappresenta l’atto voli-tivo o intenzionale dello spirito sulla materialità della

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coscienza della individualità degli elementi costitutividelle parole, i segni rimangono esteriori, a determinarsoltanto il suono per cui una parola si distinguedall’altra;

2. perchè, se è vero – come nessuno può mettere indubbio – che la lingua italiana è derivata dalla latina,non è possibile che il popolo latino, per quanto riguardala sede degli accenti, cioè le sillabe toniche, pronuncias-se la sua lingua in modo diverso, poichè allora la nostralingua non sarebbe quella che è. La filologia romanza cidimostra luminosamente che le sillabe toniche latine,quelle cioè scelte dall’accento latino per sua sede, di re-gola non mutano.

Il dire dunque che nella lingua latina non esisteva di-saccordo tra l’accento e la quantità glottologica è un er-rore, com’è un errore l’affermare che l’accento latinoera una modulazione, una cantilena, che accompagnavail discorso e non già un colpo di voce, come è nelle no-stre lingue oscurate e più povere di sonorità.

Ammettiamo per poco come storicamente esatta que-sta osservazione del Benloew, quantunque sappiamo giàche fin dal periodo arcaico l’accento nel corpo della pa-rola, raccogliendo tutta la sua energia su la sillaba chen’era colpita, portava per effetto che o la sillaba prece-dente o la seguente fosse pronunziata con minor forza equindi si avverassero affievolimenti, alterazioni e sinco-pi (altro che colpi di voce, dunque: colpi di scure!).L’accento tonico, abbiamo detto, rappresenta l’atto voli-tivo o intenzionale dello spirito sulla materialità della

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parola, voce articolata. Ora, si può intendere chel’accento sia più reciso, più fermo negli individui piùvolitivi o di più ferma intenzione e nelle classi in cui lospirito sia più sviluppato. Nel popolo oggi, come in anti-co, la materialità della parola ha – se così possiamoesprimerci – maggior effetto di suono: il discorso delpopolo è, senza dubbio, più sonoro, quasi cantilenato.Però si badi, questa sonorità espressiva dei motidell’anima, nel discorso comune, non è mai indipenden-te dall’accento: gli strascichi della voce, la protrazionevocalica, gli allungamenti avvengono sempre sotto ildominio dell’accento. Non così quando il popolo canta,quando cioè assoggetta a una frase o a una cadenza mu-sicale fissa le parole del verso. Avviene allora il contra-sto tra l’accento tonico e la percussione ritmica, contra-sto che il canto attenua di molto. Orbene, questo avveni-va senz’altro nella metrica antica, finchè la poesia fu ac-coppiata alla musica. Non potè più avvenire, quando re-stò la nuda parola.

La tesi naturale e razionale, ripetiamo, è quella su cuicade l’accento. Il ritmo musicale, con le sue percussioni,stabiliva nelle parole tesi irrazionali, sacrificandonel’armonia spontanea. Donde lo studio dei poeti latini difar coincidere l’accento tonico con la tesi, di rispettarcioè le tesi naturali, quanto più potevano.

Già dopo Quintiliano, com’è noto, la compagine delleleggi prosodiche e metriche stabilite convenzionalmentedai grammatici e usate dai classici, cominciò qua e là arilassarsi. Già appajono i primi indizii, anche nel grem-

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parola, voce articolata. Ora, si può intendere chel’accento sia più reciso, più fermo negli individui piùvolitivi o di più ferma intenzione e nelle classi in cui lospirito sia più sviluppato. Nel popolo oggi, come in anti-co, la materialità della parola ha – se così possiamoesprimerci – maggior effetto di suono: il discorso delpopolo è, senza dubbio, più sonoro, quasi cantilenato.Però si badi, questa sonorità espressiva dei motidell’anima, nel discorso comune, non è mai indipenden-te dall’accento: gli strascichi della voce, la protrazionevocalica, gli allungamenti avvengono sempre sotto ildominio dell’accento. Non così quando il popolo canta,quando cioè assoggetta a una frase o a una cadenza mu-sicale fissa le parole del verso. Avviene allora il contra-sto tra l’accento tonico e la percussione ritmica, contra-sto che il canto attenua di molto. Orbene, questo avveni-va senz’altro nella metrica antica, finchè la poesia fu ac-coppiata alla musica. Non potè più avvenire, quando re-stò la nuda parola.

La tesi naturale e razionale, ripetiamo, è quella su cuicade l’accento. Il ritmo musicale, con le sue percussioni,stabiliva nelle parole tesi irrazionali, sacrificandonel’armonia spontanea. Donde lo studio dei poeti latini difar coincidere l’accento tonico con la tesi, di rispettarcioè le tesi naturali, quanto più potevano.

Già dopo Quintiliano, com’è noto, la compagine delleleggi prosodiche e metriche stabilite convenzionalmentedai grammatici e usate dai classici, cominciò qua e là arilassarsi. Già appajono i primi indizii, anche nel grem-

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bo stesso della scuola, che il processo evolutivo dellaquantità e dell’accento ripiglia il suo corso, quel corsoche la scuola e la convenzione avevano voluto arrestare.Le incertezze su la presunta quantità, come si ricava daAulo Gellio (lib. IV, c. XVII, Noct. Att.) cominciano adiffondersi tra i dotti. Da ogni parte penetrano nella let-teratura le energie spontanee della lingua e della pro-nunzia popolare.

Non bisogna dire, adunque, che il senso della quanti-tà, dagli antichi a noi, si è man mano modificato. Quellache noi troviamo segnata, in contrasto col tempo natu-ralmente incluso nelle parole, era durata musicale con-venzionalmente tribuita.

Premesso ciò, è legittimo applicare alla versificazionenostra, indipendente ormai del tutto dalla musica, glischemi della metrica classica, che hanno origine assolu-tamente musicale? o in altri termini, è legittimo imporreancora al tempo, che si trova già per se stesso, come ab-biamo detto, nella materia armonica e per propria virtùcrea la musica nel verso, un ordine imposto da un prin-cipio formale esterno?

Ci dovette essere una ragione per cui la poesia si stac-cò dalla musica. E la ragione fu questa senza dubbio,che la parola, elemento per eccellenza spirituale, dovettesentir presto il bisogno d’un movimento più libero diquello che il ritmo musicale le imponeva. Sotto questoritmo la parola era troppo sacrificata; e il sacrificio mag-giore per essa dovette esser quello dell’accento suo na-turale, cioè del suo proprio elemento armonico.

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bo stesso della scuola, che il processo evolutivo dellaquantità e dell’accento ripiglia il suo corso, quel corsoche la scuola e la convenzione avevano voluto arrestare.Le incertezze su la presunta quantità, come si ricava daAulo Gellio (lib. IV, c. XVII, Noct. Att.) cominciano adiffondersi tra i dotti. Da ogni parte penetrano nella let-teratura le energie spontanee della lingua e della pro-nunzia popolare.

Non bisogna dire, adunque, che il senso della quanti-tà, dagli antichi a noi, si è man mano modificato. Quellache noi troviamo segnata, in contrasto col tempo natu-ralmente incluso nelle parole, era durata musicale con-venzionalmente tribuita.

Premesso ciò, è legittimo applicare alla versificazionenostra, indipendente ormai del tutto dalla musica, glischemi della metrica classica, che hanno origine assolu-tamente musicale? o in altri termini, è legittimo imporreancora al tempo, che si trova già per se stesso, come ab-biamo detto, nella materia armonica e per propria virtùcrea la musica nel verso, un ordine imposto da un prin-cipio formale esterno?

Ci dovette essere una ragione per cui la poesia si stac-cò dalla musica. E la ragione fu questa senza dubbio,che la parola, elemento per eccellenza spirituale, dovettesentir presto il bisogno d’un movimento più libero diquello che il ritmo musicale le imponeva. Sotto questoritmo la parola era troppo sacrificata; e il sacrificio mag-giore per essa dovette esser quello dell’accento suo na-turale, cioè del suo proprio elemento armonico.

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Ora bisogna considerare il fenomeno della inclinazio-ne dell’accento, la sua tendenza a dominare sopra piùvoci. Sta di fatto che la parola di minor rilievo s’aggrup-pa nel discorso con la vicina od anche con le vicine aformare quasi una parola sola. La forza dell’accentoproprio a ogni singola parola or s’attenua or s’accresce eanche talvolta vanisce nella combinazione. Bisognaconsiderare che questa inclinazione e trasposizionedell’accento nel contesto delle parole ha una grandissi-ma importanza per l’attribuzione delle tesi nel verso.Per esempio, un verso che abbia in sè cinque o sei ac-centi grammaticali, attribuisce le tesi solo a tre. Ora noiabbiamo nella metrica nostra versi con tesi fisse e versisenza tesi fisse. In quelli, il ritmo è costante, quasi mar-tellato; in questi invece è volubile, ondeggiante. Abbia-mo, ad esempio, il così detto decasillabo (che corrispon-de precisamente al paremiaco puro dei greci) dal costan-te ritmo anapestico, e abbiamo l’endecasillabo, a cuinon è possibile imporre un ritmo determinato e costante.

Il Garlanda se la prende col Fraccaroli che ha dise-gnato 87 schemi distinti di endecasillabi e col Guarnerioche, seguendo la stessa via del Fraccaroli, ne disegna96. Sono un po’ troppi veramente! Non han tenuto contonè l’uno, nè l’altro del fatto che una sillaba in tesi nonpuò sostenerne più di due in arsi, che la voce umana nonpuò rimaner sospesa oltre tre sillabe; e così traccianoschemi impossibili, non badando alle tesi che per neces-sità si stabiliscono, quando per la ripresa della voce non

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Ora bisogna considerare il fenomeno della inclinazio-ne dell’accento, la sua tendenza a dominare sopra piùvoci. Sta di fatto che la parola di minor rilievo s’aggrup-pa nel discorso con la vicina od anche con le vicine aformare quasi una parola sola. La forza dell’accentoproprio a ogni singola parola or s’attenua or s’accresce eanche talvolta vanisce nella combinazione. Bisognaconsiderare che questa inclinazione e trasposizionedell’accento nel contesto delle parole ha una grandissi-ma importanza per l’attribuzione delle tesi nel verso.Per esempio, un verso che abbia in sè cinque o sei ac-centi grammaticali, attribuisce le tesi solo a tre. Ora noiabbiamo nella metrica nostra versi con tesi fisse e versisenza tesi fisse. In quelli, il ritmo è costante, quasi mar-tellato; in questi invece è volubile, ondeggiante. Abbia-mo, ad esempio, il così detto decasillabo (che corrispon-de precisamente al paremiaco puro dei greci) dal costan-te ritmo anapestico, e abbiamo l’endecasillabo, a cuinon è possibile imporre un ritmo determinato e costante.

Il Garlanda se la prende col Fraccaroli che ha dise-gnato 87 schemi distinti di endecasillabi e col Guarnerioche, seguendo la stessa via del Fraccaroli, ne disegna96. Sono un po’ troppi veramente! Non han tenuto contonè l’uno, nè l’altro del fatto che una sillaba in tesi nonpuò sostenerne più di due in arsi, che la voce umana nonpuò rimaner sospesa oltre tre sillabe; e così traccianoschemi impossibili, non badando alle tesi che per neces-sità si stabiliscono, quando per la ripresa della voce non

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si vogliano stabilir pause nel verso, che ne romperebbe-ro l’unità.

Ma mi sembra che il Garlanda, all’incontro, vogliasemplificar troppo, riducendo a uno schema solo jam-bo–trocaico l’endecasillabo. È vero che egli applicaquesto schema particolarmente al verso di Dante, e sog-giunge:

«Dico espressamente al verso di Dante, e non parlo diversi di altri poeti, perchè quello è vicinissimo alle ori-gini, è, si può dire, il primo grande modello del versonuovo, in confronto con quelli dell’antichità; laddove ilverso dei poeti che vennero dopo, e tanto più quanto piùci allontaniamo dalle origini, è stato sempre più influen-zato dal sistema di versificazione, divenuto oramai pre-valente, a sillabe e accenti».

Ma anche in Dante, osservo io, troviamo versi chenon è possibile ridurre al solo schema che il Garlandapropone, come ad esempio quello che egli crede jambi-co con trochei nel primo e nel quarto posto, e che perciòscandisce così:

Púte - la ter - ra che - quèsto - rice - ve,

il quale invece ha un ritmo dattilico evidentissimo ebisogna scandire così:

Púte la - tèrra che - quèsto ri - cève

come tant’altre tetrapodie dattiliche catalettiche indue sillabe che si trovano in Dante stesso:

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si vogliano stabilir pause nel verso, che ne romperebbe-ro l’unità.

Ma mi sembra che il Garlanda, all’incontro, vogliasemplificar troppo, riducendo a uno schema solo jam-bo–trocaico l’endecasillabo. È vero che egli applicaquesto schema particolarmente al verso di Dante, e sog-giunge:

«Dico espressamente al verso di Dante, e non parlo diversi di altri poeti, perchè quello è vicinissimo alle ori-gini, è, si può dire, il primo grande modello del versonuovo, in confronto con quelli dell’antichità; laddove ilverso dei poeti che vennero dopo, e tanto più quanto piùci allontaniamo dalle origini, è stato sempre più influen-zato dal sistema di versificazione, divenuto oramai pre-valente, a sillabe e accenti».

Ma anche in Dante, osservo io, troviamo versi chenon è possibile ridurre al solo schema che il Garlandapropone, come ad esempio quello che egli crede jambi-co con trochei nel primo e nel quarto posto, e che perciòscandisce così:

Púte - la ter - ra che - quèsto - rice - ve,

il quale invece ha un ritmo dattilico evidentissimo ebisogna scandire così:

Púte la - tèrra che - quèsto ri - cève

come tant’altre tetrapodie dattiliche catalettiche indue sillabe che si trovano in Dante stesso:

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Èran il - quinto di - quèi che fur - viviQuàle i be - àti al no - vissimo - bàndo

e anche in fra Jacopone:

Piange la Ecclesia, piange e doluraSente fortura di pessimo stato... ecc.

Ma è innegabile, tuttavia, che la maggior parte deiversi danteschi risponde allo schema jambo–trocaico. Eanche per questa parte, dunque, sebbene con una certariserva, come abbiamo fatto riguardo all’allitterazione,dobbiamo dare ampia lode al Garlanda. Egli ha fattoopera di critica, diligente e acuta, perchè è riuscito ametter bene in vista quest’altro carattere del verso diDante.

Avremmo voluto però che egli ci desse pure ragionedi quel trocheo che si trova quasi sistematicamente negliendecasillabi danteschi ora al primo ora al quarto posto.La ragione c’è, e si trova in una legge particolare e co-stante della dipodia giambica. L’aggruppamento per di-podie s’accentuò tanto in italiano, che la tesi più debole,cioè quella del primo piede, non solo divenne seconda-ria nel verso, ma alle volte scomparve, o si spostò, mo-dificando così non leggermente il carattere primitivo delritmo. Nella dipodia giambica però l’attenuazione dellaprima tesi porta sempre per conseguenza l’ipertesi, cioèlo spostamento dell’accento ritmico dalla seconda silla-ba alla prima, appunto per la legge del trisillabismo. Ordunque, nell’endecasillabo, se la dipodia precede alla

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Èran il - quinto di - quèi che fur - viviQuàle i be - àti al no - vissimo - bàndo

e anche in fra Jacopone:

Piange la Ecclesia, piange e doluraSente fortura di pessimo stato... ecc.

Ma è innegabile, tuttavia, che la maggior parte deiversi danteschi risponde allo schema jambo–trocaico. Eanche per questa parte, dunque, sebbene con una certariserva, come abbiamo fatto riguardo all’allitterazione,dobbiamo dare ampia lode al Garlanda. Egli ha fattoopera di critica, diligente e acuta, perchè è riuscito ametter bene in vista quest’altro carattere del verso diDante.

Avremmo voluto però che egli ci desse pure ragionedi quel trocheo che si trova quasi sistematicamente negliendecasillabi danteschi ora al primo ora al quarto posto.La ragione c’è, e si trova in una legge particolare e co-stante della dipodia giambica. L’aggruppamento per di-podie s’accentuò tanto in italiano, che la tesi più debole,cioè quella del primo piede, non solo divenne seconda-ria nel verso, ma alle volte scomparve, o si spostò, mo-dificando così non leggermente il carattere primitivo delritmo. Nella dipodia giambica però l’attenuazione dellaprima tesi porta sempre per conseguenza l’ipertesi, cioèlo spostamento dell’accento ritmico dalla seconda silla-ba alla prima, appunto per la legge del trisillabismo. Ordunque, nell’endecasillabo, se la dipodia precede alla

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tripodia (endecasillabo a minore), abbiamo il trocheo alprimo posto; se poi la dipodia segue alla tripodia (ende-casillabo a majore), il trocheo si trova naturalmente alquarto posto.

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tripodia (endecasillabo a minore), abbiamo il trocheo alprimo posto; se poi la dipodia segue alla tripodia (ende-casillabo a majore), il trocheo si trova naturalmente alquarto posto.

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V.Poscritta16

16 Pubblicata su La Vita Letteraria (anno IV, N. 42) in risposta a una notadi F. Garlanda su la rivista Minerva (anno XVII, N. 50), contro il mio studioprecedente, apparso su la Nuova Antologia (1 Nov. 1907).

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V.Poscritta16

16 Pubblicata su La Vita Letteraria (anno IV, N. 42) in risposta a una notadi F. Garlanda su la rivista Minerva (anno XVII, N. 50), contro il mio studioprecedente, apparso su la Nuova Antologia (1 Nov. 1907).

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PS. È noto ormai lippis et tonsoribus che il signorFederico Garlanda, per lo studio sul verso di Dante orora preso in esame, fu paragonato a Cristoforo Colom-bo.

Il paragone sembrò a molti in prima alquanto esagera-to. Se questi molti però avessero riflettuto che, in fondo,se Cristoforo Colombo scoprì l’America, Federico Gar-landa ha senza dubbio molto dell’americano e special-mente del dantista americano, avrebbero potuto, almenosotto questo aspetto, giustificare il paragone.

Ma il guajo è che egli non considera il paragone sottoquesto aspetto. E su la povera caravella sconquassata diquesto suo opuscoletto sul verso di Dante, alla quale haalzato per vele tutti quei giornali che con amenissimaignoranza han parlato della sua scoperta, si crede ormaiCristoforo Colombo per davvero.

Naturalmente, fa ridere.Quand’egli lesse all’Università di Roma (di cui è pro-

fessore ordinario, per effettivi meriti e non per ministe-riali benevolenze) questo suo opuscoletto, mi invitò adassistere alla lettura. Rimasi vivo, e non se ne parli più.Quando poi lo mandò a stampa per mezzo della sua be-nemerita Società Editrice Laziale, me lo inviò in omag-gio con un bigliettino d’accompagnamento molto corte-se. Ma ecco: non lo avevano ancora paragonato a Cri-

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PS. È noto ormai lippis et tonsoribus che il signorFederico Garlanda, per lo studio sul verso di Dante orora preso in esame, fu paragonato a Cristoforo Colom-bo.

Il paragone sembrò a molti in prima alquanto esagera-to. Se questi molti però avessero riflettuto che, in fondo,se Cristoforo Colombo scoprì l’America, Federico Gar-landa ha senza dubbio molto dell’americano e special-mente del dantista americano, avrebbero potuto, almenosotto questo aspetto, giustificare il paragone.

Ma il guajo è che egli non considera il paragone sottoquesto aspetto. E su la povera caravella sconquassata diquesto suo opuscoletto sul verso di Dante, alla quale haalzato per vele tutti quei giornali che con amenissimaignoranza han parlato della sua scoperta, si crede ormaiCristoforo Colombo per davvero.

Naturalmente, fa ridere.Quand’egli lesse all’Università di Roma (di cui è pro-

fessore ordinario, per effettivi meriti e non per ministe-riali benevolenze) questo suo opuscoletto, mi invitò adassistere alla lettura. Rimasi vivo, e non se ne parli più.Quando poi lo mandò a stampa per mezzo della sua be-nemerita Società Editrice Laziale, me lo inviò in omag-gio con un bigliettino d’accompagnamento molto corte-se. Ma ecco: non lo avevano ancora paragonato a Cri-

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stoforo Colombo, ed egli aveva per me, che pure nonsono stato mai americano, e per i miei lavori, che nonhanno mai scoperto alcuna America, riguardo e conside-razione.

In grazia appunto di questo riguardo e di questa con-siderazione, e anche in memoria dell’assidua collabora-zione da me prestata parecchi anni or sono a una suaRassegna Settimanale, volli degnare d’un articolo su laNuova Antologia il suo opuscoletto, cui nessuno, chenon sia come lui un orecchiante di metrica, poteva inbuona fede prender sul serio. Dico in buona fede, perchèpurtroppo alcuni, che non sono punto orecchianti, si la-sciano andare – o per soverchia cortesia o per altro – acalorosi ringraziamenti, a iperboliche congratulazioni efinanche a lodi smaccate verso ogni scrittorucolo chemandi loro in omaggio qualche sua escrezioncella.

Il paragone con Cristoforo Colombo è scappato diqui, di una di queste congratulazioni che naturalmente ilsignor Garlanda, da bravo dantista americano, si affrettòa strombazzare ai quattro venti.

Io dunque per buon cuore ebbi il torto di occuparmidi lui benevolmente su la Nuova Antologia, di lodarlo, eanche ampiamente, non foss’altro, per la fatica materia-le d’aver messo insieme una così gran copia d’esempii adimostrare qualche ragione dell’efficacia possente delverso dantesco.

Certo, non potevo accettare la stolida assurdità dellasua tesi, e con garbo e con pazienza piena di compassio-ne per la sua deplorevole ignoranza sia di storia, sia di

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stoforo Colombo, ed egli aveva per me, che pure nonsono stato mai americano, e per i miei lavori, che nonhanno mai scoperto alcuna America, riguardo e conside-razione.

In grazia appunto di questo riguardo e di questa con-siderazione, e anche in memoria dell’assidua collabora-zione da me prestata parecchi anni or sono a una suaRassegna Settimanale, volli degnare d’un articolo su laNuova Antologia il suo opuscoletto, cui nessuno, chenon sia come lui un orecchiante di metrica, poteva inbuona fede prender sul serio. Dico in buona fede, perchèpurtroppo alcuni, che non sono punto orecchianti, si la-sciano andare – o per soverchia cortesia o per altro – acalorosi ringraziamenti, a iperboliche congratulazioni efinanche a lodi smaccate verso ogni scrittorucolo chemandi loro in omaggio qualche sua escrezioncella.

Il paragone con Cristoforo Colombo è scappato diqui, di una di queste congratulazioni che naturalmente ilsignor Garlanda, da bravo dantista americano, si affrettòa strombazzare ai quattro venti.

Io dunque per buon cuore ebbi il torto di occuparmidi lui benevolmente su la Nuova Antologia, di lodarlo, eanche ampiamente, non foss’altro, per la fatica materia-le d’aver messo insieme una così gran copia d’esempii adimostrare qualche ragione dell’efficacia possente delverso dantesco.

Certo, non potevo accettare la stolida assurdità dellasua tesi, e con garbo e con pazienza piena di compassio-ne per la sua deplorevole ignoranza sia di storia, sia di

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metrica, sia d’ogni procedimento dell’attività creatricedello spirito, cercai di spiegargliene le ragioni.

Non volli tener conto di tutti gli strafalcioni di cuisono infarcite le 79 paginette dell’opuscolo, come adesempio che Dante avesse la mente tutta impregnatadell’antica coltura e avesse nell’orecchio l’eco insisten-te, non riducibile al silenzio, dei metri latini! A tenerconto di siffatte corbellerie, avrei dovuto abbandonarsenz’altro l’opuscolo alla discussione dei barbieri. Madal rilevarne certe altre non potei esimermi.

Apriti cielo! A un Cristoforo Colombo un tale affron-to?

E su la Minerva, dopo circa un mese di profonda elu-cubrazione, il signor Federico Garlanda, professore or-dinario di Filologia inglese all’Università di Roma pereffettivi meriti e non per ministeriali benevolenze, mirovesciò addosso quattro colonne di prosetta biliosetta esconclusionata, composta – per non occuparsi a lungo dime – in piccolissimo carattere.

Non parlerò delle scipite e meschine malignità, con lequali credette di dare una certa vispezza d’orso che ballaa quella sua prosuccia discretamente sgangherata. Glielelascio per consolazione di tutte le bestialità che dice, cheha detto e che senza dubbio seguiterà a dire finchè ilnaso gli fumica. E vengo alle accuse.

Il signor Garlanda dunque mi accusa innanzitutto dipoca probità letteraria perchè io non diedi ai lettori dellaNuova Antologia un’idea dei fatti da lui messi in luce.

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metrica, sia d’ogni procedimento dell’attività creatricedello spirito, cercai di spiegargliene le ragioni.

Non volli tener conto di tutti gli strafalcioni di cuisono infarcite le 79 paginette dell’opuscolo, come adesempio che Dante avesse la mente tutta impregnatadell’antica coltura e avesse nell’orecchio l’eco insisten-te, non riducibile al silenzio, dei metri latini! A tenerconto di siffatte corbellerie, avrei dovuto abbandonarsenz’altro l’opuscolo alla discussione dei barbieri. Madal rilevarne certe altre non potei esimermi.

Apriti cielo! A un Cristoforo Colombo un tale affron-to?

E su la Minerva, dopo circa un mese di profonda elu-cubrazione, il signor Federico Garlanda, professore or-dinario di Filologia inglese all’Università di Roma pereffettivi meriti e non per ministeriali benevolenze, mirovesciò addosso quattro colonne di prosetta biliosetta esconclusionata, composta – per non occuparsi a lungo dime – in piccolissimo carattere.

Non parlerò delle scipite e meschine malignità, con lequali credette di dare una certa vispezza d’orso che ballaa quella sua prosuccia discretamente sgangherata. Glielelascio per consolazione di tutte le bestialità che dice, cheha detto e che senza dubbio seguiterà a dire finchè ilnaso gli fumica. E vengo alle accuse.

Il signor Garlanda dunque mi accusa innanzitutto dipoca probità letteraria perchè io non diedi ai lettori dellaNuova Antologia un’idea dei fatti da lui messi in luce.

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Oh santo cielo! E se io di proposito, per compassionedi lui, dopo che tanti e tanti giornali avevano banditoall’orbe terraqueo la sua cristoforo-colombaggine, nonero voluto entrar nel merito di essa, perchè altrimentiavrei dovuto dire che finanche nel dizionario del Tom-maseo un pover’uomo, ignaro del significato della paro-la allitterazione, avrebbe trovato queste testuali parole:«Può l’allitterazione essere uno scontro casuale comein Dante Alighieri»?

Non faccio citazioni! Dio me ne guardi! Parlo soltan-to del dizionario del Tommaseo! Quando la nozione diquesta famosa allitterazione dantesca si trova financhein un dizionario, si può sostenere sul serio che l’abbiascoperta il signor Federico Garlanda?

Dunque, per buon cuore, non ne parlai. Per buon cuo-re parlai invece dell’allitterazione nel periodo classicodella letteratura latina, di cui egli mostrava di non avereneanche il più lontano sentore, e in cui mi pareva chel’ingrato Cristoforo avrebbe potuto trovare qualche so-stegno alla sua tesi, lui che credeva Dante tutto impre-gnato dell’antica coltura! Gli volli far notare insommache questo elemento dell’allitterazione «che ha tanta im-portanza – com’egli dice – non solo nella poesia inglese,ma in tutta la poesia primitiva e popolare», la aveva an-che nella non primitiva e nella non popolare. Ma andatea cercar la gratitudine nei dantisti americani!

Andiamo avanti. «Il nostro critico – (che sarei io) –riconosce, bontà sua – seguita il signor Garlanda – chesono innegabilmente numerose nella Divina Commedia

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Oh santo cielo! E se io di proposito, per compassionedi lui, dopo che tanti e tanti giornali avevano banditoall’orbe terraqueo la sua cristoforo-colombaggine, nonero voluto entrar nel merito di essa, perchè altrimentiavrei dovuto dire che finanche nel dizionario del Tom-maseo un pover’uomo, ignaro del significato della paro-la allitterazione, avrebbe trovato queste testuali parole:«Può l’allitterazione essere uno scontro casuale comein Dante Alighieri»?

Non faccio citazioni! Dio me ne guardi! Parlo soltan-to del dizionario del Tommaseo! Quando la nozione diquesta famosa allitterazione dantesca si trova financhein un dizionario, si può sostenere sul serio che l’abbiascoperta il signor Federico Garlanda?

Dunque, per buon cuore, non ne parlai. Per buon cuo-re parlai invece dell’allitterazione nel periodo classicodella letteratura latina, di cui egli mostrava di non avereneanche il più lontano sentore, e in cui mi pareva chel’ingrato Cristoforo avrebbe potuto trovare qualche so-stegno alla sua tesi, lui che credeva Dante tutto impre-gnato dell’antica coltura! Gli volli far notare insommache questo elemento dell’allitterazione «che ha tanta im-portanza – com’egli dice – non solo nella poesia inglese,ma in tutta la poesia primitiva e popolare», la aveva an-che nella non primitiva e nella non popolare. Ma andatea cercar la gratitudine nei dantisti americani!

Andiamo avanti. «Il nostro critico – (che sarei io) –riconosce, bontà sua – seguita il signor Garlanda – chesono innegabilmente numerose nella Divina Commedia

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le allitterazioni e suballitterazioni e sinfonie, pur guar-dandosi bene dall’osservare che fui io il primo a metter-le in luce, (e due! vedi Dizionario del Tommaseo, Vol. I,lett. A, pag. 332, colonna 3a. Ci vuole un bel coraggio,perdio!) – e che per due ordini di questi fatti perfino ladenominazione è cosa mia». Ebbene, nel mio articolosta scritto: «le numerose allitterazioni e suballitterazionie quelle ch’egli chiama sinfonie». Come non l’ho detto?Ma figuriamoci se volevo prendermi la paternità di unosproposito così madornale!

Io dissi che questi elementi non potevano essere deli-beratamente voluti e cercati dal poeta e che tuttavia nondovevano esser considerati come casuali. Orbene, al si-gnor Garlanda, che per la poesia dev’esser sordo comeuna talpa e non sa che certi suoni possono veramentenon venire a caso, ma per una intima legge musicale dicui il poeta nell’atto del comporre non si rende conto,perchè a questa legge obbedisce inconsciamente, sem-bra un indovinello, e crede di far dello spirito commen-tando: «Sarebbe come domandare: Volete sul serio cheDante si sia messo di proposito a cercar le tali e tali rimein ita o ura o ata ecc. per comporre un dato canto? E sìche la rima non è un elemento meno artificiale dell’allit-terazione!» Ah sì? Elemento artificiale, la rima? Perchi? Per lui, per il signor Garlanda, che forse conta lesillabe sul naso e va a cercar le rime nei rimarii! «Chipone la questione in questi termini fa vedere troppochiaramente quanta sia la sua competenza in materia e

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le allitterazioni e suballitterazioni e sinfonie, pur guar-dandosi bene dall’osservare che fui io il primo a metter-le in luce, (e due! vedi Dizionario del Tommaseo, Vol. I,lett. A, pag. 332, colonna 3a. Ci vuole un bel coraggio,perdio!) – e che per due ordini di questi fatti perfino ladenominazione è cosa mia». Ebbene, nel mio articolosta scritto: «le numerose allitterazioni e suballitterazionie quelle ch’egli chiama sinfonie». Come non l’ho detto?Ma figuriamoci se volevo prendermi la paternità di unosproposito così madornale!

Io dissi che questi elementi non potevano essere deli-beratamente voluti e cercati dal poeta e che tuttavia nondovevano esser considerati come casuali. Orbene, al si-gnor Garlanda, che per la poesia dev’esser sordo comeuna talpa e non sa che certi suoni possono veramentenon venire a caso, ma per una intima legge musicale dicui il poeta nell’atto del comporre non si rende conto,perchè a questa legge obbedisce inconsciamente, sem-bra un indovinello, e crede di far dello spirito commen-tando: «Sarebbe come domandare: Volete sul serio cheDante si sia messo di proposito a cercar le tali e tali rimein ita o ura o ata ecc. per comporre un dato canto? E sìche la rima non è un elemento meno artificiale dell’allit-terazione!» Ah sì? Elemento artificiale, la rima? Perchi? Per lui, per il signor Garlanda, che forse conta lesillabe sul naso e va a cercar le rime nei rimarii! «Chipone la questione in questi termini fa vedere troppochiaramente quanta sia la sua competenza in materia e

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la straordinaria finezza del suo raziocinio». Queste paro-le il signor Garlanda le rivolge a me.

Naturalmente, uno che crede in un vero poeta delibe-ratamente voluta e cercata l’allitterazione ed elementoartificiale la rima, deve credere altresì che un verso sipossa comporre come un musaico. Ma che lo creda e loaffermi lui, padronissimo! che poi lo faccia dire anche aDante, eh no, perbacco!

E non feci mica notare a lui, dantista e professore or-dinario all’Università di Roma per effettivi meriti e nonper ministeriali benevolenze, che scriveva Convito inve-ce di Convivio e De vulgari eloquio invece di De Vulga-ri Eloquentia. Gli feci notare semplicemente e senza lapretesa di dir cosa nuova (le dice lui, le cose nuove!)che in Dante «cosa per legame musaico armonizzata»non vuol già dire, come il signor Garlanda crede, cosacomposta a guisa di musaico, ma cosa musicalmente ar-monizzata: musaico da Musa. Il signor Garlanda diceche lo sapeva! E dice che non ostante l’opinione di tuttele migliori autorità, mantiene la sua opinione. Corag-gioso, il signor Garlanda. Sapete perchè mantiene la suaopinione? Perchè «se fosse vera la interpretazione co-mune, tramandata dall’uno all’altro senza che mai fosseassoggettata a un severo esame, si metterebbe in bocca aDante un ragionamento di questo genere: non si può tra-durre d’una in altra lingua alcuna poesia, perchè... nonsi può tradurre d’una in altra lingua alcuna cosa scrittain poesia!» Si può essere, diciamo... più sordo di così?

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la straordinaria finezza del suo raziocinio». Queste paro-le il signor Garlanda le rivolge a me.

Naturalmente, uno che crede in un vero poeta delibe-ratamente voluta e cercata l’allitterazione ed elementoartificiale la rima, deve credere altresì che un verso sipossa comporre come un musaico. Ma che lo creda e loaffermi lui, padronissimo! che poi lo faccia dire anche aDante, eh no, perbacco!

E non feci mica notare a lui, dantista e professore or-dinario all’Università di Roma per effettivi meriti e nonper ministeriali benevolenze, che scriveva Convito inve-ce di Convivio e De vulgari eloquio invece di De Vulga-ri Eloquentia. Gli feci notare semplicemente e senza lapretesa di dir cosa nuova (le dice lui, le cose nuove!)che in Dante «cosa per legame musaico armonizzata»non vuol già dire, come il signor Garlanda crede, cosacomposta a guisa di musaico, ma cosa musicalmente ar-monizzata: musaico da Musa. Il signor Garlanda diceche lo sapeva! E dice che non ostante l’opinione di tuttele migliori autorità, mantiene la sua opinione. Corag-gioso, il signor Garlanda. Sapete perchè mantiene la suaopinione? Perchè «se fosse vera la interpretazione co-mune, tramandata dall’uno all’altro senza che mai fosseassoggettata a un severo esame, si metterebbe in bocca aDante un ragionamento di questo genere: non si può tra-durre d’una in altra lingua alcuna poesia, perchè... nonsi può tradurre d’una in altra lingua alcuna cosa scrittain poesia!» Si può essere, diciamo... più sordo di così?

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Dante vuole affermare l’impossibilità delle traduzio-ni, segnatamente dei componimenti poetici, e dice ap-punto che non si può tradurre d’una in altra lingua alcu-na poesia, non perchè – come gli vorrebbe far dire ilGarlanda – non si può tradurre d’una in altra lingua al-cuna cosa scritta in poesia, ma perchè, essendo la poe-sia cosa musicalmente armonizzata, non si potrebbe tra-smutare d’una in altra loquela sanza rompere tutta suadolcezza e armonia.

Così ragiona Dante, e questo modo di ragionare dan-tesco non può naturalmente entrare nelle vedute esteti-co–musaiche garlandesche! E purtroppo i Garlanda sonolegione!

Confesso che, dopo questo, non mi sento più di rile-vare tutti gli altri spropositi che egli mi vorrebbe fardire, citando con perfidia a metà i miei argomenti e lemie conclusioni.

Su la natura del ritmo e su le ragioni della quantità (aproposito del sentimento di questa quantità, ch’egli da-gli antichi a noi credeva modificato) volli – per dare almio studio una certa importanza, visto che dalla scoper-ta del signor Garlanda non ne poteva avere – volli agita-re una delle più ardue questioni che tengano tuttora divi-so il campo degli studii metrici. Il signor Garlanda,ignorante come un pollo d’India, non ci ha capito nulla.Volli spiegargli come l’ipertesi avvenga costantemente,per la legge dell’appoggiatura della voce, nelle dipodiegiambiche, ogni qual volta si attenui la prima tesi, e lui

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Dante vuole affermare l’impossibilità delle traduzio-ni, segnatamente dei componimenti poetici, e dice ap-punto che non si può tradurre d’una in altra lingua alcu-na poesia, non perchè – come gli vorrebbe far dire ilGarlanda – non si può tradurre d’una in altra lingua al-cuna cosa scritta in poesia, ma perchè, essendo la poe-sia cosa musicalmente armonizzata, non si potrebbe tra-smutare d’una in altra loquela sanza rompere tutta suadolcezza e armonia.

Così ragiona Dante, e questo modo di ragionare dan-tesco non può naturalmente entrare nelle vedute esteti-co–musaiche garlandesche! E purtroppo i Garlanda sonolegione!

Confesso che, dopo questo, non mi sento più di rile-vare tutti gli altri spropositi che egli mi vorrebbe fardire, citando con perfidia a metà i miei argomenti e lemie conclusioni.

Su la natura del ritmo e su le ragioni della quantità (aproposito del sentimento di questa quantità, ch’egli da-gli antichi a noi credeva modificato) volli – per dare almio studio una certa importanza, visto che dalla scoper-ta del signor Garlanda non ne poteva avere – volli agita-re una delle più ardue questioni che tengano tuttora divi-so il campo degli studii metrici. Il signor Garlanda,ignorante come un pollo d’India, non ci ha capito nulla.Volli spiegargli come l’ipertesi avvenga costantemente,per la legge dell’appoggiatura della voce, nelle dipodiegiambiche, ogni qual volta si attenui la prima tesi, e lui

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crede che questa legge l’abbia scoperta io, e conclude:«Egregio Pirandello, condoglianze sincere!»

Condoglianze, sì: me le merito davvero; ma per averdiscusso con voi, egregio Garlanda!

Giuro che non lo farò più.

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crede che questa legge l’abbia scoperta io, e conclude:«Egregio Pirandello, condoglianze sincere!»

Condoglianze, sì: me le merito davvero; ma per averdiscusso con voi, egregio Garlanda!

Giuro che non lo farò più.

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VI.Soggettivismo e oggettivismo nell’arte

narrativa

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VI.Soggettivismo e oggettivismo nell’arte

narrativa

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Nella prefazione amaramente arguta a un suo recentevolume di novelle, Luigi Capuana17 volle raffermare unasua antica convinzione: che la novella cioè dovesse uni-camente esser creazione di caratteri, di personaggi chevivano nell’opera d’arte come nella realtà, per contoloro, e che la forma dovesse così intimamente esser fusacol contenuto da non doversi distinguere affatto da esso.

Ora tale convinzione racchiude un criterio d’arte, chenon si riferisce propriamente alla novella soltanto, bensìad ogni opera letteraria, che non voglia esser futile giuo-co o insulsa esercitazione di stile.

Chi concepisce e considera la forma come alcunchèd’esteriore, di posticcio, e l’immagine come un tropo oun traslato retorico da appiccicare all’acconciatura stili-stica quasi un pennacchio o una gemma o uno svolazzo,stimerà deficienza formale quell’immediatezza traspa-rente e aridità quella schiettezza semplice dell’espres-sione genuina. Son questi gli ultimi superstiti della vec-chia Retorica, gli ultimi sacerdoti delle così dette veneridello stile, che ancora, in nome della teoria dommaticadell’ornato o della lingua letteraria, scomunicano quellache essi chiamano lingua comune e quanti non rispetta-no le leggi esterne d’ogni composizione.

17 Coscienze – Catania, Battiato ed. 1906.

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Nella prefazione amaramente arguta a un suo recentevolume di novelle, Luigi Capuana17 volle raffermare unasua antica convinzione: che la novella cioè dovesse uni-camente esser creazione di caratteri, di personaggi chevivano nell’opera d’arte come nella realtà, per contoloro, e che la forma dovesse così intimamente esser fusacol contenuto da non doversi distinguere affatto da esso.

Ora tale convinzione racchiude un criterio d’arte, chenon si riferisce propriamente alla novella soltanto, bensìad ogni opera letteraria, che non voglia esser futile giuo-co o insulsa esercitazione di stile.

Chi concepisce e considera la forma come alcunchèd’esteriore, di posticcio, e l’immagine come un tropo oun traslato retorico da appiccicare all’acconciatura stili-stica quasi un pennacchio o una gemma o uno svolazzo,stimerà deficienza formale quell’immediatezza traspa-rente e aridità quella schiettezza semplice dell’espres-sione genuina. Son questi gli ultimi superstiti della vec-chia Retorica, gli ultimi sacerdoti delle così dette veneridello stile, che ancora, in nome della teoria dommaticadell’ornato o della lingua letteraria, scomunicano quellache essi chiamano lingua comune e quanti non rispetta-no le leggi esterne d’ogni composizione.

17 Coscienze – Catania, Battiato ed. 1906.

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Grazie a Dio, non vogliamo più sapere adesso checosa debba essere, in astratto, un romanzo o una novel-la; non vogliamo più sapere se molte narrazioni o rap-presentazioni più o meno brevi, che vanno tuttavia sottoil nome di novella, non rispondano più o rispondanomale alla definizione che di queste forme letterarie davala retorica, a gli esemplari famosi che ce ne offre la sto-ria letteraria nostra o di altre nazioni, secondo la lungaevoluzione delle forme stesse.

Che importa il nome? che importano il metodo, il cri-terio, la norma, seguiti da questo o da quello scrittore?Noi vogliamo vedere se la vasta e complessa operad’arte narrativa, qualificata ancora come romanzo, o labreve e sintetica qualificata ancora come novella, sia unessere vivo: vivo per sè, non in virtù d’una legge esternao dell’intendimento o del metodo del suo autore; se ilgerme in cui quest’essere era contenuto si sia sviluppatonaturalmente e spontaneamente sia fiorito, secondo cioèla sua propria intima legge vitale. Se poi quest’esserevivo appartenga o debba ascriversi a una nuova specie osia un individuo che viva per conto suo, è questione dicatalogo e di casellario. L’arte non ci ha che vedere.

È ormai tempo veramente che venga bandita una vol-ta per sempre ogni oziosa discussione di metodonell’esame delle opere d’arte. Non se ne può più!

Di natura s’è fatto naturalismo; di reale, realismo; divero, verismo; di ideale, idealismo, e via dicendo. Il Ca-puana ha pur combattuto e non poco contro tutti questiismi contemporanei; e di uno, anzi, che gli s’era attacca-

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Grazie a Dio, non vogliamo più sapere adesso checosa debba essere, in astratto, un romanzo o una novel-la; non vogliamo più sapere se molte narrazioni o rap-presentazioni più o meno brevi, che vanno tuttavia sottoil nome di novella, non rispondano più o rispondanomale alla definizione che di queste forme letterarie davala retorica, a gli esemplari famosi che ce ne offre la sto-ria letteraria nostra o di altre nazioni, secondo la lungaevoluzione delle forme stesse.

Che importa il nome? che importano il metodo, il cri-terio, la norma, seguiti da questo o da quello scrittore?Noi vogliamo vedere se la vasta e complessa operad’arte narrativa, qualificata ancora come romanzo, o labreve e sintetica qualificata ancora come novella, sia unessere vivo: vivo per sè, non in virtù d’una legge esternao dell’intendimento o del metodo del suo autore; se ilgerme in cui quest’essere era contenuto si sia sviluppatonaturalmente e spontaneamente sia fiorito, secondo cioèla sua propria intima legge vitale. Se poi quest’esserevivo appartenga o debba ascriversi a una nuova specie osia un individuo che viva per conto suo, è questione dicatalogo e di casellario. L’arte non ci ha che vedere.

È ormai tempo veramente che venga bandita una vol-ta per sempre ogni oziosa discussione di metodonell’esame delle opere d’arte. Non se ne può più!

Di natura s’è fatto naturalismo; di reale, realismo; divero, verismo; di ideale, idealismo, e via dicendo. Il Ca-puana ha pur combattuto e non poco contro tutti questiismi contemporanei; e di uno, anzi, che gli s’era attacca-

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to addosso, o meglio, che avevano voluto appiccicargli adispetto, ha pur dovuto soffrire durante la lunga carrieraletteraria.

Egli, in fondo, ha voluto sempre e solamente la since-rità in arte. Ma, ahimè, il sincero, se dice – poniamo –che l’arte deve ispirarsi alla natura, rischia d’esser chia-mato naturalista; se dice che l’opera d’arte dev’esserconcreta e adattata alla realità delle cose, rischia d’esserchiamato realista; e se vuole il vero, verista; e se final-mente si oppone a certe teoriche aberrate dei cosiddettiidealisti, rischia d’esser sospettato senza ideale, che è ilpeggior guajo che possa capitare ai di nostri.

Chi ha il pregiudizio d’una formula, chi si è fatto ungenere d’una cosa, la quale si presta ad essere intesa edeterminata da ciascuno a proprio modo, non può inten-dere o non vuole riconoscere come e che altri sia o pos-sa essere senza pregiudizii.

E così avviene spesso che naturalisti e realisti e veri-sti e idealisti e simbolisti, ecc. ecc., si voltino contro ilpover’uomo che si professa spregiudicatamente sinceroe che dichiara di trovar negli uni non la natura, ma ungenere di natura, e negli altri non il reale, ma un generedi reale; non il vero, ma un genere di vero; non l’ideale,ma un genere d’ideale, e così via.

Ora, poichè il sincero non ha pregiudizii, può accetta-re ed accoglier tutto – proclamando la massima libertà –tutto, a patto che non venga in alcun modo mortificata labellezza.

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to addosso, o meglio, che avevano voluto appiccicargli adispetto, ha pur dovuto soffrire durante la lunga carrieraletteraria.

Egli, in fondo, ha voluto sempre e solamente la since-rità in arte. Ma, ahimè, il sincero, se dice – poniamo –che l’arte deve ispirarsi alla natura, rischia d’esser chia-mato naturalista; se dice che l’opera d’arte dev’esserconcreta e adattata alla realità delle cose, rischia d’esserchiamato realista; e se vuole il vero, verista; e se final-mente si oppone a certe teoriche aberrate dei cosiddettiidealisti, rischia d’esser sospettato senza ideale, che è ilpeggior guajo che possa capitare ai di nostri.

Chi ha il pregiudizio d’una formula, chi si è fatto ungenere d’una cosa, la quale si presta ad essere intesa edeterminata da ciascuno a proprio modo, non può inten-dere o non vuole riconoscere come e che altri sia o pos-sa essere senza pregiudizii.

E così avviene spesso che naturalisti e realisti e veri-sti e idealisti e simbolisti, ecc. ecc., si voltino contro ilpover’uomo che si professa spregiudicatamente sinceroe che dichiara di trovar negli uni non la natura, ma ungenere di natura, e negli altri non il reale, ma un generedi reale; non il vero, ma un genere di vero; non l’ideale,ma un genere d’ideale, e così via.

Ora, poichè il sincero non ha pregiudizii, può accetta-re ed accoglier tutto – proclamando la massima libertà –tutto, a patto che non venga in alcun modo mortificata labellezza.

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Natura, reale, vero, ideale, ecc. sono termini astratti,quasi vaselli elastici, che ciascuno può riempire del pro-prio sentimento e del proprio pensiero. Basta che questosentimento e questo pensiero siano sinceri: sincerinell’essenza, sinceri nell’espressione.

Il fornaciajo che fabbrica questi vaselli è il tempo, ilquale di tanto in tanto ne varia più o meno la foggia e necresce o ne scema la capacità; e segna con questo varia-re le date di sua vita. Sopravvengono però al vecchiofornaciajo certi momenti di delirio febbrile, in cui, scon-tento dei vaselli vecchi, si mette a tentare smaniosamen-te le più strane fogge da dare ai nuovi, e impasta e rim-pasta in gran confusione. Nessuno più ci raccapezzanulla. I vaselli restano vuoti: i pensieri e i sentimenti,che dovrebbero andar dentro, stanno tutt’intorno ad essicome un liquor versato. Tale effetto mi fanno appuntotutti quegli aggettivi e avverbii e giri di frase attorno aitermini astratti nelle prose e nelle poesie moderne: paro-le e parole e parole, che dovrebbero star dentro aquell’una astratta e sintetica, e che invece restan fuori,poichè l’intesa non è, nè potrebbe essere, comune.

Che vuol dire natura? che vuol dire reale? che vuoldire il vero? e chi mi sa dire che sia l’ideale degli ideali-sti?

Termine astratto è anche sincerità, su cui pure mancauna comune intesa. Ciascuno può essere o credersi sin-cero a suo modo.

Verissimo. Solamente, io dico, se sincerità in arte si-gnifica qualche cosa, non saranno certo sinceri tutti co-

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Natura, reale, vero, ideale, ecc. sono termini astratti,quasi vaselli elastici, che ciascuno può riempire del pro-prio sentimento e del proprio pensiero. Basta che questosentimento e questo pensiero siano sinceri: sincerinell’essenza, sinceri nell’espressione.

Il fornaciajo che fabbrica questi vaselli è il tempo, ilquale di tanto in tanto ne varia più o meno la foggia e necresce o ne scema la capacità; e segna con questo varia-re le date di sua vita. Sopravvengono però al vecchiofornaciajo certi momenti di delirio febbrile, in cui, scon-tento dei vaselli vecchi, si mette a tentare smaniosamen-te le più strane fogge da dare ai nuovi, e impasta e rim-pasta in gran confusione. Nessuno più ci raccapezzanulla. I vaselli restano vuoti: i pensieri e i sentimenti,che dovrebbero andar dentro, stanno tutt’intorno ad essicome un liquor versato. Tale effetto mi fanno appuntotutti quegli aggettivi e avverbii e giri di frase attorno aitermini astratti nelle prose e nelle poesie moderne: paro-le e parole e parole, che dovrebbero star dentro aquell’una astratta e sintetica, e che invece restan fuori,poichè l’intesa non è, nè potrebbe essere, comune.

Che vuol dire natura? che vuol dire reale? che vuoldire il vero? e chi mi sa dire che sia l’ideale degli ideali-sti?

Termine astratto è anche sincerità, su cui pure mancauna comune intesa. Ciascuno può essere o credersi sin-cero a suo modo.

Verissimo. Solamente, io dico, se sincerità in arte si-gnifica qualche cosa, non saranno certo sinceri tutti co-

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loro che, invece di lasciar che l’opera nasca spontanea-mente nel loro spirito, la compongono esteriormente,sostituendo comunque alla natura la riflessione, una ri-flessione estranea, ambiziosa; tutti coloro che condanna-no la propria opera ad essere non già come essa si vuole,ma come essi la vogliono, per seguire una moda, unaformula, per parere insomma quel che non sono.

Può avvenire certamente, e avviene anzi non di rado,che noi siamo in fondo, sostanzialmente, diversi da quelche in buona fede ci crediamo, per quella illusione attivae pure incosciente che non ci permette di vederci nellanostra vera e schietta realtà, ma quali vorremmo essere.Crediamo di conoscerci, e ci ignoriamo. Pensiamo, ope-riamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia dinoi stessi. In tale stato, domina certamente la finzione;ma è una finzione vissuta, sincera.

Che opera d’arte verrà fuori da uno scrittore in talestato? Verrà fuori necessariamente un’opera non since-ra: perchè, o l’idea dell’opera sarà suggerita da questache, per quanto incosciente, spontanea, è pur sempreun’ambizione, e allora l’opera non troverà nella realtàprofonda e ignorata della coscienza gli elementi adatti,che la costituiscano; o l’opera sorgerà ingenuamentemateriata di questi elementi, e allora lo scrittore, chevive la sua finzione, sarà inconsciamente indotto ad al-terar secondo questa l’espressione dell’opera sua.

*

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loro che, invece di lasciar che l’opera nasca spontanea-mente nel loro spirito, la compongono esteriormente,sostituendo comunque alla natura la riflessione, una ri-flessione estranea, ambiziosa; tutti coloro che condanna-no la propria opera ad essere non già come essa si vuole,ma come essi la vogliono, per seguire una moda, unaformula, per parere insomma quel che non sono.

Può avvenire certamente, e avviene anzi non di rado,che noi siamo in fondo, sostanzialmente, diversi da quelche in buona fede ci crediamo, per quella illusione attivae pure incosciente che non ci permette di vederci nellanostra vera e schietta realtà, ma quali vorremmo essere.Crediamo di conoscerci, e ci ignoriamo. Pensiamo, ope-riamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia dinoi stessi. In tale stato, domina certamente la finzione;ma è una finzione vissuta, sincera.

Che opera d’arte verrà fuori da uno scrittore in talestato? Verrà fuori necessariamente un’opera non since-ra: perchè, o l’idea dell’opera sarà suggerita da questache, per quanto incosciente, spontanea, è pur sempreun’ambizione, e allora l’opera non troverà nella realtàprofonda e ignorata della coscienza gli elementi adatti,che la costituiscano; o l’opera sorgerà ingenuamentemateriata di questi elementi, e allora lo scrittore, chevive la sua finzione, sarà inconsciamente indotto ad al-terar secondo questa l’espressione dell’opera sua.

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Nessuna formula, dunque, nessun sistema, nessunafinzione e, sopra tutto, nessun metodo prestabilitonell’arte.

Anche tutte le distinzioni che si sogliono fare nelcampo dell’arte narrativa, sono in fondo arbitrarie e re-toriche. Si suol distinguere, ad esempio, tra novella, rac-conto e romanzo. Comunemente, una novella troppolunga, ma non ancor tanto da poterla chiamar romanzo,si suol chiamare racconto; e così pure un romanzo brevee tenue, che non si vorrebbe definir novella. Racconto,così, verrebbe a essere un che d’intermedio tra novella eromanzo.

Che valore possa avere una simile distinzione fondatasu la minore o maggior lunghezza d’una narrazione, misembra proprio ozioso indugiarsi a rilevare.

Altri, invece, fa una distinzione, che non si fonda inquesta misura esteriore, ma in qualcosa d’intimo, e cioèin un diverso atteggiamento dell’arte narrativa, e su que-sto vuol fondare una questione, per così dire, storica o ditradizione letteraria.

Dicono questi tali: ogni scrittore, nel trarre comunquedalla vita presente o passata una favola qualsiasi da nar-rare, sia breve, sia lunga – novella o romanzo – potràsempre farne un racconto o lungo o breve: questo pocoimporta; sarà racconto per il modo particolare che adot-terà nell’esporlo. Giacchè racconto, più che uno specialecomponimento d’arte narrativa, è una maniera d’arte,senz’alcuna determinazione di lunghezza o brevità, indi-pendente insomma dall’estensione o dalla complessità

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Nessuna formula, dunque, nessun sistema, nessunafinzione e, sopra tutto, nessun metodo prestabilitonell’arte.

Anche tutte le distinzioni che si sogliono fare nelcampo dell’arte narrativa, sono in fondo arbitrarie e re-toriche. Si suol distinguere, ad esempio, tra novella, rac-conto e romanzo. Comunemente, una novella troppolunga, ma non ancor tanto da poterla chiamar romanzo,si suol chiamare racconto; e così pure un romanzo brevee tenue, che non si vorrebbe definir novella. Racconto,così, verrebbe a essere un che d’intermedio tra novella eromanzo.

Che valore possa avere una simile distinzione fondatasu la minore o maggior lunghezza d’una narrazione, misembra proprio ozioso indugiarsi a rilevare.

Altri, invece, fa una distinzione, che non si fonda inquesta misura esteriore, ma in qualcosa d’intimo, e cioèin un diverso atteggiamento dell’arte narrativa, e su que-sto vuol fondare una questione, per così dire, storica o ditradizione letteraria.

Dicono questi tali: ogni scrittore, nel trarre comunquedalla vita presente o passata una favola qualsiasi da nar-rare, sia breve, sia lunga – novella o romanzo – potràsempre farne un racconto o lungo o breve: questo pocoimporta; sarà racconto per il modo particolare che adot-terà nell’esporlo. Giacchè racconto, più che uno specialecomponimento d’arte narrativa, è una maniera d’arte,senz’alcuna determinazione di lunghezza o brevità, indi-pendente insomma dall’estensione o dalla complessità

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maggiore o minore della favola. Questa, nel racconto,viene esposta o riferita dall’autore stesso o da un perso-naggio che parli in prima persona, più che rappresentatao messa in azione. Non che manchi nel racconto la rap-presentazione, ma certo la parte per così dire espositivao descrittiva predomina, e la rappresentazione stessanon è mai diretta, oggettiva, ma atteggiata subiettiva-mente da chi narra o descrive; e gli altri personaggi, ol-tre all’autore che parla in prima persona o a quell’altroda cui il racconto si finge narrato, non assumono voce inquesta rappresentazione subiettiva, se non quando, permaggior efficacia, il raccontatore lo stimi opportuno.Ove la rappresentazione diretta prendesse, per così dire,la mano al raccontatore, un grave difetto d’arte ne deri-verebbe al racconto; si può riferire un breve dialogo;non, per disteso e minutamente, un lungo discorso conla viva voce di chi lo proferì; nè tanto meno, oggettiva-mente, una scena complessa di parecchi collocutori.

Qui entriamo, veramente, nella retorica: prescriviamouna legge.

Si può ribattere:– Non una legge, propriamente; ma la coerenza. Pote-

te scegliere questo o quel mezzo; ma se scegliete questo,seguitelo, coerenti.

No, rispondiamo noi: perchè la coerenza, a cui qui sifa appello, non è la coerenza estetica, ma quella logica.Riferire un dialogo, nel racconto (rappresentazione sog-gettiva), o tutta una conversazione, non è errore estetico,perchè non offende la fantasia, ma solo – se mai – la ri-

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maggiore o minore della favola. Questa, nel racconto,viene esposta o riferita dall’autore stesso o da un perso-naggio che parli in prima persona, più che rappresentatao messa in azione. Non che manchi nel racconto la rap-presentazione, ma certo la parte per così dire espositivao descrittiva predomina, e la rappresentazione stessanon è mai diretta, oggettiva, ma atteggiata subiettiva-mente da chi narra o descrive; e gli altri personaggi, ol-tre all’autore che parla in prima persona o a quell’altroda cui il racconto si finge narrato, non assumono voce inquesta rappresentazione subiettiva, se non quando, permaggior efficacia, il raccontatore lo stimi opportuno.Ove la rappresentazione diretta prendesse, per così dire,la mano al raccontatore, un grave difetto d’arte ne deri-verebbe al racconto; si può riferire un breve dialogo;non, per disteso e minutamente, un lungo discorso conla viva voce di chi lo proferì; nè tanto meno, oggettiva-mente, una scena complessa di parecchi collocutori.

Qui entriamo, veramente, nella retorica: prescriviamouna legge.

Si può ribattere:– Non una legge, propriamente; ma la coerenza. Pote-

te scegliere questo o quel mezzo; ma se scegliete questo,seguitelo, coerenti.

No, rispondiamo noi: perchè la coerenza, a cui qui sifa appello, non è la coerenza estetica, ma quella logica.Riferire un dialogo, nel racconto (rappresentazione sog-gettiva), o tutta una conversazione, non è errore estetico,perchè non offende la fantasia, ma solo – se mai – la ri-

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flessione. I lunghi dialoghi o la conversazione possononon offenderci affatto, se il raccontatore riesce a dare –in un dato momento – l’illusione d’una rappresentazio-ne: noi dimentichiamo la persona che racconta. Pensarquesto, è già un sottrarsi all’impressione fantastica ecompiere un fatto di coscienza riflessa, vale a dire fuoridel fatto estetico.

Ma lasciamo star questo. In fondo, si vuole stabilireuna differenza tra rappresentazione soggettiva (raccon-to) e rappresentazione oggettiva. E alcuni parlano diquesto oggettivismo nell’arte narrativa come d’un pro-gresso che non possa mettersi in dubbio, e dicono cheesso ad ogni modo risponde siffattamente alla coscienzaartistica moderna, che un narratore, anche volendo e do-vendo, non riesce a farne a meno. Altri, invece, credonoe sostengono che esso non sia propriamente un modonostro, perchè noi nel racconto possiamo veramente ri-conoscere la pura tradizione nazionale della letteraturaitaliana: nel racconto che prosperò in particolar modo nele valli d’Arno e di Po. I bei discorsi, le favole piacevo-li, gli aneddoti ironici, i racconti tragici e sentimentali,furono per lungo tempo la delizia degli Italiani del Due-cento e dei secoli dopo. La vecchia narrazione obiettiva,la moralità, il fabliau francese arido e secco come unoscheletro vestito di magra pelle, mescolati con istorietratte dal vivo, acquistarono nel racconto italiano animae vita, polpa opulenta.

E due moderni scrittori nostri d’arte narrativa pubbli-carono, or son parecchi anni, due volumi a breve distan-

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flessione. I lunghi dialoghi o la conversazione possononon offenderci affatto, se il raccontatore riesce a dare –in un dato momento – l’illusione d’una rappresentazio-ne: noi dimentichiamo la persona che racconta. Pensarquesto, è già un sottrarsi all’impressione fantastica ecompiere un fatto di coscienza riflessa, vale a dire fuoridel fatto estetico.

Ma lasciamo star questo. In fondo, si vuole stabilireuna differenza tra rappresentazione soggettiva (raccon-to) e rappresentazione oggettiva. E alcuni parlano diquesto oggettivismo nell’arte narrativa come d’un pro-gresso che non possa mettersi in dubbio, e dicono cheesso ad ogni modo risponde siffattamente alla coscienzaartistica moderna, che un narratore, anche volendo e do-vendo, non riesce a farne a meno. Altri, invece, credonoe sostengono che esso non sia propriamente un modonostro, perchè noi nel racconto possiamo veramente ri-conoscere la pura tradizione nazionale della letteraturaitaliana: nel racconto che prosperò in particolar modo nele valli d’Arno e di Po. I bei discorsi, le favole piacevo-li, gli aneddoti ironici, i racconti tragici e sentimentali,furono per lungo tempo la delizia degli Italiani del Due-cento e dei secoli dopo. La vecchia narrazione obiettiva,la moralità, il fabliau francese arido e secco come unoscheletro vestito di magra pelle, mescolati con istorietratte dal vivo, acquistarono nel racconto italiano animae vita, polpa opulenta.

E due moderni scrittori nostri d’arte narrativa pubbli-carono, or son parecchi anni, due volumi a breve distan-

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za l’uno dall’altro, ispirati a uno stesso criterio d’arte, omeglio, con una stessa intenzione artistica, di mostrarcioè come noi, proseguendo questa tradizione italianadal Boccaccio giù giù per i novellieri del Cinquecento,avremmo potuto creare la novella e quindi il romanzopropriamente italiani. E vollero darne due prove: l’uno,il Mantovani, con Passioni celebri; l’altro, l’Albertazzi,con Vecchie storie d’amore.

L’intento era più palese nell’Albertazzi, il quale anziesplicitamente nella prefazione dichiarava d’aver volutoritemprare l’arte ai modi degli artisti sani e validi, trat-tando alcuni motivi della novellistica antica non con lamaniera arcaica, ma con la moderna: «Nulla d’arcaiconel racconto, se non, intimamente, quanto bisogna pernon offendere la rappresentazione, la verità, la visionedell’antico e la realtà della storia; dunque profittared’ogni mezzo che noi abbiamo imparato e conserviamodell’arte vecchia perchè nuovo in eterno; colorire mo-dernamente la forma, per quanto è possibile e conviene,e anche improntare il racconto di quell’osservazione espiegazione psicologica da cui oggi acquista verosimi-glianza e allettamento lo sviluppo della passione».

I due tentativi, naturalmente, riuscirono vani. Perquelli che sostenevano la necessità, ormai quasi impre-scindibile, di adottare l’obiettivismo nell’arte narrativa,la critica fu facile: Non si riallaccia, per volontà, – dis-sero – una tradizione spezzata, rimaneggiando antichimotivi. Tanto le Passioni celebri del Mantovani, quantole Vecchie storie d’amore dell’Albertazzi, non potevano

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za l’uno dall’altro, ispirati a uno stesso criterio d’arte, omeglio, con una stessa intenzione artistica, di mostrarcioè come noi, proseguendo questa tradizione italianadal Boccaccio giù giù per i novellieri del Cinquecento,avremmo potuto creare la novella e quindi il romanzopropriamente italiani. E vollero darne due prove: l’uno,il Mantovani, con Passioni celebri; l’altro, l’Albertazzi,con Vecchie storie d’amore.

L’intento era più palese nell’Albertazzi, il quale anziesplicitamente nella prefazione dichiarava d’aver volutoritemprare l’arte ai modi degli artisti sani e validi, trat-tando alcuni motivi della novellistica antica non con lamaniera arcaica, ma con la moderna: «Nulla d’arcaiconel racconto, se non, intimamente, quanto bisogna pernon offendere la rappresentazione, la verità, la visionedell’antico e la realtà della storia; dunque profittared’ogni mezzo che noi abbiamo imparato e conserviamodell’arte vecchia perchè nuovo in eterno; colorire mo-dernamente la forma, per quanto è possibile e conviene,e anche improntare il racconto di quell’osservazione espiegazione psicologica da cui oggi acquista verosimi-glianza e allettamento lo sviluppo della passione».

I due tentativi, naturalmente, riuscirono vani. Perquelli che sostenevano la necessità, ormai quasi impre-scindibile, di adottare l’obiettivismo nell’arte narrativa,la critica fu facile: Non si riallaccia, per volontà, – dis-sero – una tradizione spezzata, rimaneggiando antichimotivi. Tanto le Passioni celebri del Mantovani, quantole Vecchie storie d’amore dell’Albertazzi, non potevano

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riuscire ad altro che a due – se vuolsi – eleganti esercita-zioni di stile, e basta. La facoltà artistica può non pro-gredire, può anzi decadere; questo però non toglie chenon progrediscano intanto i mezzi d’arte, ossia le con-quiste dell’esperienza; e l’obiettivismo in arte è appuntouna di queste conquiste dell’esperienza; e chi non voles-se tenerne conto, incorrerebbe in quella stessa condannache il Goethe faceva dei preraffaeliti, i quali andavandietro supinamente a quei pittori, che sono antichi pernoi, ma che furono e vollero esser nuovi nel tempo incui vissero.

Ora il Goethe, propriamente, parlava contro l’imita-zione e discuteva di forma. I mezzi d’arte non possonoconcepirsi come esteriori. L’artificio non è arte. Chiconcepisce la tecnica come alcunchè d’esteriore, cadeprecisamente nello stesso errore di chi concepisce comealcunchè di esteriore la forma. La tecnica è il movimen-to libero spontaneo e immediato della forma. Chi imitauna tecnica, imita una forma, e non fa arte, ma copia, oartificio meccanico. Sostituisce, a ogni modo, anche qui,la riflessione alla natura, il ragionamento al libero movi-mento vitale.

E questo appunto fu l’errore del Mantovani edell’Albertazzi: profittare d’un mezzo imparato, per ren-der l’aria, il sapore, l’impronta, in una parola, lo stile delracconto tradizionale italiano.

Quanti errori e quali danni non cagionò alla nostraletteratura questo pregiudizio della tradizione, che im-poneva appunto l’imitazione di ciò che non si imita,

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riuscire ad altro che a due – se vuolsi – eleganti esercita-zioni di stile, e basta. La facoltà artistica può non pro-gredire, può anzi decadere; questo però non toglie chenon progrediscano intanto i mezzi d’arte, ossia le con-quiste dell’esperienza; e l’obiettivismo in arte è appuntouna di queste conquiste dell’esperienza; e chi non voles-se tenerne conto, incorrerebbe in quella stessa condannache il Goethe faceva dei preraffaeliti, i quali andavandietro supinamente a quei pittori, che sono antichi pernoi, ma che furono e vollero esser nuovi nel tempo incui vissero.

Ora il Goethe, propriamente, parlava contro l’imita-zione e discuteva di forma. I mezzi d’arte non possonoconcepirsi come esteriori. L’artificio non è arte. Chiconcepisce la tecnica come alcunchè d’esteriore, cadeprecisamente nello stesso errore di chi concepisce comealcunchè di esteriore la forma. La tecnica è il movimen-to libero spontaneo e immediato della forma. Chi imitauna tecnica, imita una forma, e non fa arte, ma copia, oartificio meccanico. Sostituisce, a ogni modo, anche qui,la riflessione alla natura, il ragionamento al libero movi-mento vitale.

E questo appunto fu l’errore del Mantovani edell’Albertazzi: profittare d’un mezzo imparato, per ren-der l’aria, il sapore, l’impronta, in una parola, lo stile delracconto tradizionale italiano.

Quanti errori e quali danni non cagionò alla nostraletteratura questo pregiudizio della tradizione, che im-poneva appunto l’imitazione di ciò che non si imita,

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cioè dello stile, del carattere, della forma! Non si vollecapir questo per tanto e tanto tempo, che ogni formadev’essere nè antica nè moderna, ma unica, quella cioèche è propria d’ogni singola opera d’arte e non può es-ser altra nè di altre opere; e che perciò non esiste tradi-zione, o meglio, non avrebbe dovuto mai esistere. Masì! E la retorica?

*

Riprendiamo il filo del nostro discorso.Quelli che sempre han difeso, che ancora seguitano a

difendere la tradizione, dissero che, a buon conto, finoal Manzoni essa veramente non era stata spezzata e chevollero fingersela spezzata quei nostri scrittori di prosanarrativa contemporanea che vennero dopo di lui.

«Coloro che entrano oggi nel campo dell’arte, – scri-veva Luigi Capuana nella prefazione alla ristampa delromanzo Giacinta, – ignorano il tormentosissimo statodi chi dovette provarsi il primo, senza tradizioni, quasisenza guida. Probabilmente, se lo sapessero, sarebberopiù benigni verso chi non ebbe e non poteva avere i lar-ghi ajuti di studio e di educazione letteraria ora allamano di tutti. In quel tempo (è già tanto lontano!) certequestioni apparivano così ardue, che lo stesso proporse-le diventava un atto di vera audacia». E nel volume Perl’Arte si fa domandare: «Non furono dunque scritti deiromanzi, delle novelle, delle commedie, delle tragedie,delle liriche assai prima che i vostri romanzi, le vostrenovelle, i vostri drammi e le vostre liriche venissero

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cioè dello stile, del carattere, della forma! Non si vollecapir questo per tanto e tanto tempo, che ogni formadev’essere nè antica nè moderna, ma unica, quella cioèche è propria d’ogni singola opera d’arte e non può es-ser altra nè di altre opere; e che perciò non esiste tradi-zione, o meglio, non avrebbe dovuto mai esistere. Masì! E la retorica?

*

Riprendiamo il filo del nostro discorso.Quelli che sempre han difeso, che ancora seguitano a

difendere la tradizione, dissero che, a buon conto, finoal Manzoni essa veramente non era stata spezzata e chevollero fingersela spezzata quei nostri scrittori di prosanarrativa contemporanea che vennero dopo di lui.

«Coloro che entrano oggi nel campo dell’arte, – scri-veva Luigi Capuana nella prefazione alla ristampa delromanzo Giacinta, – ignorano il tormentosissimo statodi chi dovette provarsi il primo, senza tradizioni, quasisenza guida. Probabilmente, se lo sapessero, sarebberopiù benigni verso chi non ebbe e non poteva avere i lar-ghi ajuti di studio e di educazione letteraria ora allamano di tutti. In quel tempo (è già tanto lontano!) certequestioni apparivano così ardue, che lo stesso proporse-le diventava un atto di vera audacia». E nel volume Perl’Arte si fa domandare: «Non furono dunque scritti deiromanzi, delle novelle, delle commedie, delle tragedie,delle liriche assai prima che i vostri romanzi, le vostrenovelle, i vostri drammi e le vostre liriche venissero

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fuori?» E risponde: – «Precisamente no, nel modo cheintendiamo noi, fatte due sole eccezioni pei PromessiSposi del Manzoni e per le poesie del Leopardi».

Oh dunque, – esclamarono i difensori della tradizionenazionale, – lasciamo stare tutto il resto: l’esempio delManzoni c’era!

Sì; ma, ragionando di alcuni ufficii della letteratura,scriveva anche a quei tempi il Tommaseo nel libro dellaBellezza educatrice: «Giova che gl’Italiani si dilettino atradurre buone poesie straniere piuttosto che a scrivernedi pessime... e più dirette e frequenti corrispondenze sta-bilire con que’ d’oltremonte, giacchè la fraternità dellelettere e il commercio delle idee possono seco portarecol tempo altri vincoli ed altri commercii: e bello sareb-be e necessario che in tanta discrepanza d’opinioni e insi viva lotta d’interessi, la repubblica delle lettere alme-no desse l’esempio d’una federazione generosa e poten-te». E vent’anni prima il famoso Conciliatore di Milanoera uscito con questo motto in capo, stampato a letteremajuscole: «Col raccomandare la lettura di poesie co-munque straniere, non intendiamo suggerire ai poetid’Italia l’imitazione; vogliamo bensì ch’esse servano adilatare i confini della loro critica». Nel qual Concilia-tore il Berchet aveva pure scritto: «Quantunque a rischiodi lasciare per qualche di nella dimenticanza i volumidell’antichità e i volumi dei moderni, traetevi ad esami-nare da vicino voi stessi la natura e lei imitate, lei soladavvero e niente altro».

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fuori?» E risponde: – «Precisamente no, nel modo cheintendiamo noi, fatte due sole eccezioni pei PromessiSposi del Manzoni e per le poesie del Leopardi».

Oh dunque, – esclamarono i difensori della tradizionenazionale, – lasciamo stare tutto il resto: l’esempio delManzoni c’era!

Sì; ma, ragionando di alcuni ufficii della letteratura,scriveva anche a quei tempi il Tommaseo nel libro dellaBellezza educatrice: «Giova che gl’Italiani si dilettino atradurre buone poesie straniere piuttosto che a scrivernedi pessime... e più dirette e frequenti corrispondenze sta-bilire con que’ d’oltremonte, giacchè la fraternità dellelettere e il commercio delle idee possono seco portarecol tempo altri vincoli ed altri commercii: e bello sareb-be e necessario che in tanta discrepanza d’opinioni e insi viva lotta d’interessi, la repubblica delle lettere alme-no desse l’esempio d’una federazione generosa e poten-te». E vent’anni prima il famoso Conciliatore di Milanoera uscito con questo motto in capo, stampato a letteremajuscole: «Col raccomandare la lettura di poesie co-munque straniere, non intendiamo suggerire ai poetid’Italia l’imitazione; vogliamo bensì ch’esse servano adilatare i confini della loro critica». Nel qual Concilia-tore il Berchet aveva pure scritto: «Quantunque a rischiodi lasciare per qualche di nella dimenticanza i volumidell’antichità e i volumi dei moderni, traetevi ad esami-nare da vicino voi stessi la natura e lei imitate, lei soladavvero e niente altro».

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Ora, non volendo adesso vedere che altri vincoli ocommercii con que’ d’oltremonte portasse seco la frater-nità delle lettere consigliata dal Tommaseo, certo poesiee prose comunque straniere si lessero, si tradussero e,contro il suggerimento, s’imitarono; nella dimenticanza,e non per qualche di soltanto, si lasciarono i volumidell’antichità e quelli dei moderni (che per il Bercheteran Parini e Alfieri e Monti e Foscolo e Manzoni, ecc.),e tutti si trassero ad esaminar da vicino la natura; ma,ahimè, il consiglio d’imitarla si può dire che ebbe perultimo effetto l’imitazione piuttosto del naturalismofrancese.

Ricordo, a questo proposito, una frase e un’esclama-zione in due lettere di F. D. Guerrazzi scritte dalle Mu-rate di Firenze: «Tutto facciamo per imitazione, tutto,basta che ci venga la idea di oltre mare e di oltre monte,e chiniamo la testa. O Italiani, scimmie e non uomini!Da grandissimo tempo in poi non facciamo che copia-re».

Restringendoci soltanto alla letteratura, se pensiamoche in ogni tempo l’imitazione da noi non solo fu con-sentita, ma tenuta in pregio e in onore, potremmo ag-giungere che forse non abbiamo mai fatto altro che co-piare o copiarci. L’imitazione, effetto – prima – di so-verchio e mal’inteso studio, di soverchio e mal’intesoamore delle cose nostre, fu – poi – per smania d’intro-durre novità straniere e molto spesso per ignoranza diciò che si era fatto prima di noi, nel nostro stesso paese.

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Ora, non volendo adesso vedere che altri vincoli ocommercii con que’ d’oltremonte portasse seco la frater-nità delle lettere consigliata dal Tommaseo, certo poesiee prose comunque straniere si lessero, si tradussero e,contro il suggerimento, s’imitarono; nella dimenticanza,e non per qualche di soltanto, si lasciarono i volumidell’antichità e quelli dei moderni (che per il Bercheteran Parini e Alfieri e Monti e Foscolo e Manzoni, ecc.),e tutti si trassero ad esaminar da vicino la natura; ma,ahimè, il consiglio d’imitarla si può dire che ebbe perultimo effetto l’imitazione piuttosto del naturalismofrancese.

Ricordo, a questo proposito, una frase e un’esclama-zione in due lettere di F. D. Guerrazzi scritte dalle Mu-rate di Firenze: «Tutto facciamo per imitazione, tutto,basta che ci venga la idea di oltre mare e di oltre monte,e chiniamo la testa. O Italiani, scimmie e non uomini!Da grandissimo tempo in poi non facciamo che copia-re».

Restringendoci soltanto alla letteratura, se pensiamoche in ogni tempo l’imitazione da noi non solo fu con-sentita, ma tenuta in pregio e in onore, potremmo ag-giungere che forse non abbiamo mai fatto altro che co-piare o copiarci. L’imitazione, effetto – prima – di so-verchio e mal’inteso studio, di soverchio e mal’intesoamore delle cose nostre, fu – poi – per smania d’intro-durre novità straniere e molto spesso per ignoranza diciò che si era fatto prima di noi, nel nostro stesso paese.

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Spezzata dall’irrompere della scuola romantica la tra-dizione così detta classica, l’imitazione, insomma, noncessò da noi. Si ebbe soltanto un rinnovamento dei mo-delli imitabili, oltre a quelli custoditi e venerati nel mu-seo chiuso e polveroso della retorica: modelli tolti allealtre nazioni europee le quali, mentre l’Italia, dopo ilsuo grande rinascimento, decadeva nell’inerzia e nellaschiavitù, eran man mano dietro l’esempio nostro pur ri-sorte e già fiorenti.

Gli occhi, ormai tanto stanchi di rimirar sempre lestesse linee riprodotte invariabilmente dagli stessi mo-delli e sazii della convenuta bellezza, si volsero tosto,ingranditi dallo stupore, a guardar fuori, attraverso le fi-nestre aperte, anzi spalancate dal romanticismo: ed’allora in poi, si può dire, non si son più distolti dalnuovo spettacolo. I primi però si contentarono solamen-te di rimirarlo e d’innamorarsene da lontano, rimanendocioè nell’antica sede degli studii, come alunni distrattinel corso delle pedantesche lezioni da una gagliarda im-provvisa scossa di vento, che avesse sforzato le impostedella scuola. Non così quelli venuti dopo. Attratti viep-più dallo spettacolo, i nuovi alunni presero a marinar piùdi frequente la scuola e alla fine la abbandonarono deltutto. Addio, tradizione! addio, volumi dell’antichità!

Il guajo fu però, che, fuori delle pareti della vecchiascuola, questi ribelli non rimasero liberi; si sentironosperduti, senza guida, e si misero in cerca di un’altrascuola, in cerca d’altri volumi, d’altri libri di testo.

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Spezzata dall’irrompere della scuola romantica la tra-dizione così detta classica, l’imitazione, insomma, noncessò da noi. Si ebbe soltanto un rinnovamento dei mo-delli imitabili, oltre a quelli custoditi e venerati nel mu-seo chiuso e polveroso della retorica: modelli tolti allealtre nazioni europee le quali, mentre l’Italia, dopo ilsuo grande rinascimento, decadeva nell’inerzia e nellaschiavitù, eran man mano dietro l’esempio nostro pur ri-sorte e già fiorenti.

Gli occhi, ormai tanto stanchi di rimirar sempre lestesse linee riprodotte invariabilmente dagli stessi mo-delli e sazii della convenuta bellezza, si volsero tosto,ingranditi dallo stupore, a guardar fuori, attraverso le fi-nestre aperte, anzi spalancate dal romanticismo: ed’allora in poi, si può dire, non si son più distolti dalnuovo spettacolo. I primi però si contentarono solamen-te di rimirarlo e d’innamorarsene da lontano, rimanendocioè nell’antica sede degli studii, come alunni distrattinel corso delle pedantesche lezioni da una gagliarda im-provvisa scossa di vento, che avesse sforzato le impostedella scuola. Non così quelli venuti dopo. Attratti viep-più dallo spettacolo, i nuovi alunni presero a marinar piùdi frequente la scuola e alla fine la abbandonarono deltutto. Addio, tradizione! addio, volumi dell’antichità!

Il guajo fu però, che, fuori delle pareti della vecchiascuola, questi ribelli non rimasero liberi; si sentironosperduti, senza guida, e si misero in cerca di un’altrascuola, in cerca d’altri volumi, d’altri libri di testo.

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E così, ad una retorica se ne sostituì un’altra: si ripre-sero tutte le vecchie questioni su le forme e su la forma,come dovessero ora esser trattate col nuovo metodo direcente appreso nella nuova scuola.

E una delle questioni più dibattute, come si sa, fuquella della lingua. I seguaci della vecchia tradizione vi-dero minacciati i sacri, inviolabili dominii della loro fio-rita lingua letteraria dalla torbida alluvione del così det-to gergo plebeo.

Discorrendo del Monti nel Dizionario estetico lo stes-so Tommaseo dice appunto che troppo potè su l’autoredella famosa Proposta il timore di veder trasfusa nellalingua letteraria la feccia del gergo plebeo: pericolo lon-tano, impossibile ad avverarsi e tanto men da temere, inquanto che il male della letteratura era appuntonell’estremo contrario.

Ahi ahi: videro presto, invece, gli ultimi puristi, gliultimi seguaci dell’antica tradizione quanta ragioneavesse il Monti nel suo timore e come si ingannasse ilTommaseo nel creder lontano il pericolo e impossibilead avverarsi: non solo la feccia del gergo plebeo viderotrasfusa nella lingua letteraria; ma non mai questa,neanche tra le smancerie del Cinquecento e le goffaggi-ni del Seicento, precipitata in più misero stato: plebeiz-zata e imbarbarita!

Le condizioni, poco liete, in cui cadde veramente laletteratura e quelle anche peggiori della lingua per effet-to dell’imitazione straniera, cioè dei nuovi metodi dellanuova retorica, dopo l’irruzione del romanticismo, non

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E così, ad una retorica se ne sostituì un’altra: si ripre-sero tutte le vecchie questioni su le forme e su la forma,come dovessero ora esser trattate col nuovo metodo direcente appreso nella nuova scuola.

E una delle questioni più dibattute, come si sa, fuquella della lingua. I seguaci della vecchia tradizione vi-dero minacciati i sacri, inviolabili dominii della loro fio-rita lingua letteraria dalla torbida alluvione del così det-to gergo plebeo.

Discorrendo del Monti nel Dizionario estetico lo stes-so Tommaseo dice appunto che troppo potè su l’autoredella famosa Proposta il timore di veder trasfusa nellalingua letteraria la feccia del gergo plebeo: pericolo lon-tano, impossibile ad avverarsi e tanto men da temere, inquanto che il male della letteratura era appuntonell’estremo contrario.

Ahi ahi: videro presto, invece, gli ultimi puristi, gliultimi seguaci dell’antica tradizione quanta ragioneavesse il Monti nel suo timore e come si ingannasse ilTommaseo nel creder lontano il pericolo e impossibilead avverarsi: non solo la feccia del gergo plebeo viderotrasfusa nella lingua letteraria; ma non mai questa,neanche tra le smancerie del Cinquecento e le goffaggi-ni del Seicento, precipitata in più misero stato: plebeiz-zata e imbarbarita!

Le condizioni, poco liete, in cui cadde veramente laletteratura e quelle anche peggiori della lingua per effet-to dell’imitazione straniera, cioè dei nuovi metodi dellanuova retorica, dopo l’irruzione del romanticismo, non

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eran forse da imputare in tutto a questo; ma pur ad essosi volle in gran parte attribuire il danno, e non solo perla letteratura, ma anche per la coltura in genere e per lavita civile e politica della nazione.

Come perder di vista, in fatti, il carattere particolareche assunse da noi il movimento romantico, onde inLombardia, che fu il vero suo campo, romantico e libe-rale eran diventati sinonimi? «Quivi – scriveva il Pellicoal Pozzo – si manifestò non tanto con l’imitar gli stra-nieri, quanto col voler condurre la letteratura a rigenerarla nazione».

Eh sì, certamente, con l’aprir gli animi, cui la scola-stica imitazione delle forme classiche immiseriva, allenuove idee, alle nuove dottrine che si agitavano nelle al-tre nazioni, il romanticismo concorse in gran parte a ri-generar la nazione. Ma come dimenticar parimenti, cheanche opera di restaurazione, e con fine in sostanzaugualmente civile, aveva iniziato molto tempo primaquel che, in contrapposto al nuovo movimento, s’era de-finito il classicismo? È vero, l’evocazione del gloriosoed eroico passato, se era stata giusta e natural reazionealle insulsaggini arcadiche di allora, di fronte ai tempinuovi, ai nuovi bisogni, con tutta quella suppellettile piùo meno arcaica e mitologica, con tutte quelle figure eimmagini della vecchia retorica, dovette a un certo pun-to apparir vuota forma soltanto, forma priva di spirito.Era pure in questa forma, però, in questi ricordi di scuo-la, il fantasma di un’altra Italia, di quella stessa forsevagheggiata dal Petrarca e suggerita a Cola di Rienzo

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eran forse da imputare in tutto a questo; ma pur ad essosi volle in gran parte attribuire il danno, e non solo perla letteratura, ma anche per la coltura in genere e per lavita civile e politica della nazione.

Come perder di vista, in fatti, il carattere particolareche assunse da noi il movimento romantico, onde inLombardia, che fu il vero suo campo, romantico e libe-rale eran diventati sinonimi? «Quivi – scriveva il Pellicoal Pozzo – si manifestò non tanto con l’imitar gli stra-nieri, quanto col voler condurre la letteratura a rigenerarla nazione».

Eh sì, certamente, con l’aprir gli animi, cui la scola-stica imitazione delle forme classiche immiseriva, allenuove idee, alle nuove dottrine che si agitavano nelle al-tre nazioni, il romanticismo concorse in gran parte a ri-generar la nazione. Ma come dimenticar parimenti, cheanche opera di restaurazione, e con fine in sostanzaugualmente civile, aveva iniziato molto tempo primaquel che, in contrapposto al nuovo movimento, s’era de-finito il classicismo? È vero, l’evocazione del gloriosoed eroico passato, se era stata giusta e natural reazionealle insulsaggini arcadiche di allora, di fronte ai tempinuovi, ai nuovi bisogni, con tutta quella suppellettile piùo meno arcaica e mitologica, con tutte quelle figure eimmagini della vecchia retorica, dovette a un certo pun-to apparir vuota forma soltanto, forma priva di spirito.Era pure in questa forma, però, in questi ricordi di scuo-la, il fantasma di un’altra Italia, di quella stessa forsevagheggiata dal Petrarca e suggerita a Cola di Rienzo

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repubblicana, se non di quell’altra suggerita a Carlo IV,imperiale; d’una Italia che si potrebbe definir classica inopposizione a questa che le necessità storiche, dopo il1848 e il 1849 (anni procellosi) dovevano man mano ef-fettuar romantica o, per usare un’espressione del Car-ducci, inforestierata nell’anima e negli ordini, come nel-lo spirito e nelle opere dovevano inforestierarsi la coltu-ra nazionale e la letteratura.

Scappati dalla scuola i discoli alunni, furon da essascacciati pure i maestri, quei poveri vecchi retori. Al ri-volgimento, insomma, nell’indirizzo delle lettere corri-spose il rivolgimento della scuola. Per la filosofia e perla coltura in genere, sia filologica, sia storica, c’invasela Germania; per la letteratura, la Francia.

Fu sopra tutto questione di metodo: il metodo parvenuovo, più logico, più intimo, e attrasse.

La vecchia retorica aveva da noi per così dire mum-mificato le forme tradizionali, fissandone rigorosamentele leggi e le regole, e impedendone la naturale evoluzio-ne: lo stile, per essa, era divenuto un guardaroba doveogni manichino (che si chiamava commedia, o tragedia,o idillio, o dialogo, o novella, o poema, ecc.) trovava davestirsi acconciamente, a modo degli antichi, di stoffaumile o mezzana o magnifica, secondo il grado del ma-nichino e la dignità: e il manichino-idillio, per esempio,trovava in quel guardaroba un abituccio così lindo e benaggiustato e grazioso di pastorello, che non doveva pun-to invidiare il maestoso paludamento del manichino–tra-gedia. Dentro d’ogni manichino poi, un pappagallo am-

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repubblicana, se non di quell’altra suggerita a Carlo IV,imperiale; d’una Italia che si potrebbe definir classica inopposizione a questa che le necessità storiche, dopo il1848 e il 1849 (anni procellosi) dovevano man mano ef-fettuar romantica o, per usare un’espressione del Car-ducci, inforestierata nell’anima e negli ordini, come nel-lo spirito e nelle opere dovevano inforestierarsi la coltu-ra nazionale e la letteratura.

Scappati dalla scuola i discoli alunni, furon da essascacciati pure i maestri, quei poveri vecchi retori. Al ri-volgimento, insomma, nell’indirizzo delle lettere corri-spose il rivolgimento della scuola. Per la filosofia e perla coltura in genere, sia filologica, sia storica, c’invasela Germania; per la letteratura, la Francia.

Fu sopra tutto questione di metodo: il metodo parvenuovo, più logico, più intimo, e attrasse.

La vecchia retorica aveva da noi per così dire mum-mificato le forme tradizionali, fissandone rigorosamentele leggi e le regole, e impedendone la naturale evoluzio-ne: lo stile, per essa, era divenuto un guardaroba doveogni manichino (che si chiamava commedia, o tragedia,o idillio, o dialogo, o novella, o poema, ecc.) trovava davestirsi acconciamente, a modo degli antichi, di stoffaumile o mezzana o magnifica, secondo il grado del ma-nichino e la dignità: e il manichino-idillio, per esempio,trovava in quel guardaroba un abituccio così lindo e benaggiustato e grazioso di pastorello, che non doveva pun-to invidiare il maestoso paludamento del manichino–tra-gedia. Dentro d’ogni manichino poi, un pappagallo am-

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maestrato che sapeva ripeter come niente da Omero e daVirgilio e da Orazio e da Plauto e da Terenzio e da Cice-rone e insomma da tutti gli antichi, squarci e sentenzedebitamente tradotti, ch’era un piacere.

Fuori – oh miracolo! – uomini, esseri vivi, che nonparlavano dipinti, che si movevano liberamente, che nonsentivano di scuola...

E di questi liberi movimenti, di queste vive voci, diquesti spontanei atteggiamenti rimasero sopra tutto am-mirati i nostri primi scrittori d’arte narrativa contempo-ranea.

Come dietro la rivolta del romanticismo ben pochiavvertirono da noi tutto il movimento filosofico inteso adar risalto alle facoltà soggettive della coscienza, cioè alsentimento e alla volontà, troppo soffocate dall’intellet-tualismo prepotente; così dietro il naturalismo nessunovolle vedere propriamente la rinascita delle dottrine in-tellettualistiche impregnate di materialismo dopo le sco-perte fatte nel dominio delle scienze fisiche, chimiche,biologiche e la pubblicazione dei libri del Büchner, delMayer, del Wagner, del Moleschott, del Vogt, del Ioule,del Colding, del Helmholtz, del Ludwig, di ClaudioBernard.

Lo dice chiaramente Luigi Capuana in quella graziosaconfessione a Neera intitolata Com’io divenni novellie-re: –«Naturalista? verista? Il nome mi preoccupavapoco. Dicendo naturalista, verista, tanto per farmi in-tendere dagli altri, volevo significare che, secondo me,nel mettersi a scrivere novelle o romanzi, bisognava ba-

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maestrato che sapeva ripeter come niente da Omero e daVirgilio e da Orazio e da Plauto e da Terenzio e da Cice-rone e insomma da tutti gli antichi, squarci e sentenzedebitamente tradotti, ch’era un piacere.

Fuori – oh miracolo! – uomini, esseri vivi, che nonparlavano dipinti, che si movevano liberamente, che nonsentivano di scuola...

E di questi liberi movimenti, di queste vive voci, diquesti spontanei atteggiamenti rimasero sopra tutto am-mirati i nostri primi scrittori d’arte narrativa contempo-ranea.

Come dietro la rivolta del romanticismo ben pochiavvertirono da noi tutto il movimento filosofico inteso adar risalto alle facoltà soggettive della coscienza, cioè alsentimento e alla volontà, troppo soffocate dall’intellet-tualismo prepotente; così dietro il naturalismo nessunovolle vedere propriamente la rinascita delle dottrine in-tellettualistiche impregnate di materialismo dopo le sco-perte fatte nel dominio delle scienze fisiche, chimiche,biologiche e la pubblicazione dei libri del Büchner, delMayer, del Wagner, del Moleschott, del Vogt, del Ioule,del Colding, del Helmholtz, del Ludwig, di ClaudioBernard.

Lo dice chiaramente Luigi Capuana in quella graziosaconfessione a Neera intitolata Com’io divenni novellie-re: –«Naturalista? verista? Il nome mi preoccupavapoco. Dicendo naturalista, verista, tanto per farmi in-tendere dagli altri, volevo significare che, secondo me,nel mettersi a scrivere novelle o romanzi, bisognava ba-

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dare a foggiar quest’opera d’arte giusta la sua ultimaforma; provvisoria anch’essa, ne convenivo; tanto checercavo anch’io nella misura delle mie deboli forze disvolgerla, d’ampliarla, o, per lo meno, di ripulirla, to-gliendone via quanto ancora rimaneva in essa di frondeinutili, di rami morti».

È vero che, pur volendo imitar soltanto quel liberomovimento, quelle voci vive, quegli spontanei atteggia-menti, si cascò inevitabilmente ad imitare anche altro.Ma questo è un corollario della legge in virtù della qualeogni immagine tende ad effettuarsi: imitando i segniespressivi d’un sentimento, non provochiamo forse innoi l’immagine di questo sentimento e per questo sol-tanto, più o meno, non lo proviamo? Aggrottiamo le ci-glia, contraiamo le labbra in giù, e una vaga angoscias’impadronirà di noi. In gran parte non si spiega forsecosì l’arte dei grandi attori? Lo abbiamo già detto: imezzi d’arte non possono concepirsi come esteriori. Latecnica è il movimento spontaneo e immediato della for-ma, e chi imita una tecnica, imita inevitabilmente unaforma.

Ora, imitare per imitare, – dissero gli ultimi difensoridella tradizione o della nazionalità della letteratura, –perchè non rivolgersi all’esempio del Manzoni? Ancheil Manzoni s’era illuminato della luce che venivad’oltremonte e d’oltremare; ma egli non aveva tuttavialasciato nella dimenticanza i volumi dell’antichità; esommo suo merito fu l’aver compiuto da solo in sè e at-tuato nella sua opera immortale quella tale evoluzione

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dare a foggiar quest’opera d’arte giusta la sua ultimaforma; provvisoria anch’essa, ne convenivo; tanto checercavo anch’io nella misura delle mie deboli forze disvolgerla, d’ampliarla, o, per lo meno, di ripulirla, to-gliendone via quanto ancora rimaneva in essa di frondeinutili, di rami morti».

È vero che, pur volendo imitar soltanto quel liberomovimento, quelle voci vive, quegli spontanei atteggia-menti, si cascò inevitabilmente ad imitare anche altro.Ma questo è un corollario della legge in virtù della qualeogni immagine tende ad effettuarsi: imitando i segniespressivi d’un sentimento, non provochiamo forse innoi l’immagine di questo sentimento e per questo sol-tanto, più o meno, non lo proviamo? Aggrottiamo le ci-glia, contraiamo le labbra in giù, e una vaga angoscias’impadronirà di noi. In gran parte non si spiega forsecosì l’arte dei grandi attori? Lo abbiamo già detto: imezzi d’arte non possono concepirsi come esteriori. Latecnica è il movimento spontaneo e immediato della for-ma, e chi imita una tecnica, imita inevitabilmente unaforma.

Ora, imitare per imitare, – dissero gli ultimi difensoridella tradizione o della nazionalità della letteratura, –perchè non rivolgersi all’esempio del Manzoni? Ancheil Manzoni s’era illuminato della luce che venivad’oltremonte e d’oltremare; ma egli non aveva tuttavialasciato nella dimenticanza i volumi dell’antichità; esommo suo merito fu l’aver compiuto da solo in sè e at-tuato nella sua opera immortale quella tale evoluzione

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della forma e delle forme che per tanti secoli la retoricaaveva impedito, dando nuovo e vivo movimento allalingua, intimità allo stile. Mercè sua, eravamo riusciti aserbare intatte e resistenti contro il violento irromperedelle correnti straniere le nostre virtù native. Che cosaandavano a cercar lontano i nostri scrittori, che non po-tessero trovare nel Manzoni? Non s’era fatta questi dellaverità una vera e propria fissazione, fino a negare teore-ticamente il suo stesso capolavoro? «Il vero solo è bello;giacchè il verisimile manifestato e appreso come verisi-mile, è un vero, diverso bensì, anzi diversissimo del rea-le, ma un vero veduto dalla mente per sempre o, per par-lar con più precisione, irrevocabile». Non è qui tutta lapoetica aberrata del naturalismo? Egli condannò la veri-tà dell’arte, il vero della fantasia (o verisimile, come sidiceva allora) perchè non era e non poteva essere la ve-rità o la realtà comune, e cadde appunto – solo teoretica-mente per fortuna – nello stesso errore della poetica na-turalistica. Tanto più, dunque, avevano il dovered’agganciarsi a lui gli scrittori nostri d’arte narrativacontemporanea.

Ecco l’errore: i nostri scrittori d’arte narrativa con-temporanea non dovevano nient’affatto agganciarsi alManzoni; facendolo, avrebbero commesso lo stesso er-rore che commisero agganciandosi alle forme del ro-manzo e della novella francese. Perchè la forma non vapensata prima nè riportata a uno o a un altro modello;ma ciascuna forma deve nascere senza addentellati, uni-ca, originale.

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della forma e delle forme che per tanti secoli la retoricaaveva impedito, dando nuovo e vivo movimento allalingua, intimità allo stile. Mercè sua, eravamo riusciti aserbare intatte e resistenti contro il violento irromperedelle correnti straniere le nostre virtù native. Che cosaandavano a cercar lontano i nostri scrittori, che non po-tessero trovare nel Manzoni? Non s’era fatta questi dellaverità una vera e propria fissazione, fino a negare teore-ticamente il suo stesso capolavoro? «Il vero solo è bello;giacchè il verisimile manifestato e appreso come verisi-mile, è un vero, diverso bensì, anzi diversissimo del rea-le, ma un vero veduto dalla mente per sempre o, per par-lar con più precisione, irrevocabile». Non è qui tutta lapoetica aberrata del naturalismo? Egli condannò la veri-tà dell’arte, il vero della fantasia (o verisimile, come sidiceva allora) perchè non era e non poteva essere la ve-rità o la realtà comune, e cadde appunto – solo teoretica-mente per fortuna – nello stesso errore della poetica na-turalistica. Tanto più, dunque, avevano il dovered’agganciarsi a lui gli scrittori nostri d’arte narrativacontemporanea.

Ecco l’errore: i nostri scrittori d’arte narrativa con-temporanea non dovevano nient’affatto agganciarsi alManzoni; facendolo, avrebbero commesso lo stesso er-rore che commisero agganciandosi alle forme del ro-manzo e della novella francese. Perchè la forma non vapensata prima nè riportata a uno o a un altro modello;ma ciascuna forma deve nascere senza addentellati, uni-ca, originale.

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I nostri scrittori d’arte narrativa contemporanea volle-ro la forma addentellata: s’accorsero che, dopo il Man-zoni c’era ancora qualche novità da tentare: che si pote-va fare cioè un passo più là, nell’obiettivismo. Giacchèil Manzoni – per quanto il suo romanzo sia profonda-mente realistico e la rappresentazione sia continua, mi-nuta, spiccata, evidente – il Manzoni da un canto subor-dina l’arte a un principio d’utilità morale, la verità alsentimento cristiano, e dall’altro racconta ancora, fa an-cora capolino di tratto in tratto con l’arguto e bonariosorriso umoristico.

E per tentare questa novità, s’agganciarono all’artefrancese, cioè alla poetica del naturalismo francese, sen-za pensare che l’unica novità da tentare dopo il Manzoniera di trovare soltanto una forma bella e originale quan-to la sua, e che il pregiudizio dell’obiettivismo non do-veva entrarci per nulla, perchè si può nascere con unafantasia subiettiva, come il Manzoni, anche di qui a unsecolo, e con una fantasia obiettiva, come Petronio, an-che diciotto secoli a dietro, dipendendo questo fatto dal-la personalità, e non essendo nè una qualità nè un viziodella forma. Che l’autore crei e ne mostri coscienza, ocrei senza mostrarla, è solo un atteggiamento dello spiri-to, indifferente per la bellezza dell’espressione, purchècoerente con quella. Si tratta, a ogni modo, e unicamen-te, di creare.

Ed eccoci ormai in grado di chiarir la questione.*

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I nostri scrittori d’arte narrativa contemporanea volle-ro la forma addentellata: s’accorsero che, dopo il Man-zoni c’era ancora qualche novità da tentare: che si pote-va fare cioè un passo più là, nell’obiettivismo. Giacchèil Manzoni – per quanto il suo romanzo sia profonda-mente realistico e la rappresentazione sia continua, mi-nuta, spiccata, evidente – il Manzoni da un canto subor-dina l’arte a un principio d’utilità morale, la verità alsentimento cristiano, e dall’altro racconta ancora, fa an-cora capolino di tratto in tratto con l’arguto e bonariosorriso umoristico.

E per tentare questa novità, s’agganciarono all’artefrancese, cioè alla poetica del naturalismo francese, sen-za pensare che l’unica novità da tentare dopo il Manzoniera di trovare soltanto una forma bella e originale quan-to la sua, e che il pregiudizio dell’obiettivismo non do-veva entrarci per nulla, perchè si può nascere con unafantasia subiettiva, come il Manzoni, anche di qui a unsecolo, e con una fantasia obiettiva, come Petronio, an-che diciotto secoli a dietro, dipendendo questo fatto dal-la personalità, e non essendo nè una qualità nè un viziodella forma. Che l’autore crei e ne mostri coscienza, ocrei senza mostrarla, è solo un atteggiamento dello spiri-to, indifferente per la bellezza dell’espressione, purchècoerente con quella. Si tratta, a ogni modo, e unicamen-te, di creare.

Ed eccoci ormai in grado di chiarir la questione.*

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L’errore della rappresentazione oggettiva, cioè dellapoetica del naturalismo, fu appunto quello stesso cheabbiamo rilevato parlando nel primo saggio di questovolume delle teorie estetiche del Croce; errore psicolo-gico ed estetico: l’aver confuso cioè il fatto fisico, il fat-to psichico e il fatto estetico in tal maniera che al fattoestetico si venne a dare teoreticamente (chè in praticanon era possibile) quel carattere di necessità meccanicae quella fissità che son proprie del fatto fisico.

La poetica del naturalismo voleva fondarsi infatti pre-cisamente sul principio che non vi ha alcuna differenzatra il fatto fisico e il morale, che i fenomeni morali sonoanch’essi soggetti al determinismo, proprio come i feno-meni fisici, e che perciò la storia umana rientra nellastoria naturale e deve praticarne il metodo. «Que lesfaits soient physiques ou moraux, il n’importe, ils onttoujours des causes. Il y en a pour l’ambition, pour lecourage, pour la véracité, comme pour la digestion, pourle mouvement musculaire, pour la chaleur animale. Levice et la vertu sont des produits comme le vitriol etcommc le sucre...» Queste parole del Taine, com’è noto,furono inalberate dallo Zola, segnacolo in vessillo, ap-plicando all’arte il naturalismo.

Ora, osserva giustamente il Pellissier18: «on peut sansdoute croire que, parmi les caractères de l’individuhumain, comme parmi ceux de l’animal ou du végétal,les uns sont subordonnés et accessoires, les autres

18 Op. cit. La critique, pag. 229 e sgg.

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L’errore della rappresentazione oggettiva, cioè dellapoetica del naturalismo, fu appunto quello stesso cheabbiamo rilevato parlando nel primo saggio di questovolume delle teorie estetiche del Croce; errore psicolo-gico ed estetico: l’aver confuso cioè il fatto fisico, il fat-to psichico e il fatto estetico in tal maniera che al fattoestetico si venne a dare teoreticamente (chè in praticanon era possibile) quel carattere di necessità meccanicae quella fissità che son proprie del fatto fisico.

La poetica del naturalismo voleva fondarsi infatti pre-cisamente sul principio che non vi ha alcuna differenzatra il fatto fisico e il morale, che i fenomeni morali sonoanch’essi soggetti al determinismo, proprio come i feno-meni fisici, e che perciò la storia umana rientra nellastoria naturale e deve praticarne il metodo. «Que lesfaits soient physiques ou moraux, il n’importe, ils onttoujours des causes. Il y en a pour l’ambition, pour lecourage, pour la véracité, comme pour la digestion, pourle mouvement musculaire, pour la chaleur animale. Levice et la vertu sont des produits comme le vitriol etcommc le sucre...» Queste parole del Taine, com’è noto,furono inalberate dallo Zola, segnacolo in vessillo, ap-plicando all’arte il naturalismo.

Ora, osserva giustamente il Pellissier18: «on peut sansdoute croire que, parmi les caractères de l’individuhumain, comme parmi ceux de l’animal ou du végétal,les uns sont subordonnés et accessoires, les autres

18 Op. cit. La critique, pag. 229 e sgg.

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dominateurs, et qu’il y a en lui une faculté maîtresse.Mais, même si cette faculté se laisse reconnaître, nous lereprésenterons–nous tel qu’un mécanisme de piècescommandées par un moteur unique? A la facultémaitresse, Taine substitue je ne sais quelle facultéproprement génératrice, d’où procéderaient toutes lesautres. Voilà une psychologie un peu bien simple, lapsychologie, non d’un moraliste, mais d’un logicien etd’un géomètre. Or, sur cette matière si complexe qu’estl’âme humaine, la logique et l’esprit de géométrie n’ontpas de prise: il y faudrait l’esprit de finesse, qui manquetotalement à Taine. De même pour les influencesprimordiales. Si l’on ne peut contester que cesinfluences existent, n’échappent–elles pas à l’analyse?Et, si même l’analyse en saisit quelque chose, est–ceassez pour que nous prétendions établir là–dessus desrègles fixes? Étudions telle race, tel milieu, tel moment,avec toute l’application possible et dans tout le détaildont notre science est capable: cette étude nous mettra–t–elle en état de déterminer d’avance quelle sera lanature intellectuelle et morale des individus qui s’yproduiront? Non certes; et combien d’individus qui, loinde s’expliquer par les influences primordiales, noussemblent au contraire les démentir! La race, d’abord,n’a rien de précis, rien de fixe, et ne nous permet que deconjectures plus ou moins vraisemblables. PierreCorneille est l’auteur du Cid, et son frère Thomas,l’auteur de Stilicon. L’influence du milieu se marquedavantage; mais niera–t–on que nous ne puissions le

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dominateurs, et qu’il y a en lui une faculté maîtresse.Mais, même si cette faculté se laisse reconnaître, nous lereprésenterons–nous tel qu’un mécanisme de piècescommandées par un moteur unique? A la facultémaitresse, Taine substitue je ne sais quelle facultéproprement génératrice, d’où procéderaient toutes lesautres. Voilà une psychologie un peu bien simple, lapsychologie, non d’un moraliste, mais d’un logicien etd’un géomètre. Or, sur cette matière si complexe qu’estl’âme humaine, la logique et l’esprit de géométrie n’ontpas de prise: il y faudrait l’esprit de finesse, qui manquetotalement à Taine. De même pour les influencesprimordiales. Si l’on ne peut contester que cesinfluences existent, n’échappent–elles pas à l’analyse?Et, si même l’analyse en saisit quelque chose, est–ceassez pour que nous prétendions établir là–dessus desrègles fixes? Étudions telle race, tel milieu, tel moment,avec toute l’application possible et dans tout le détaildont notre science est capable: cette étude nous mettra–t–elle en état de déterminer d’avance quelle sera lanature intellectuelle et morale des individus qui s’yproduiront? Non certes; et combien d’individus qui, loinde s’expliquer par les influences primordiales, noussemblent au contraire les démentir! La race, d’abord,n’a rien de précis, rien de fixe, et ne nous permet que deconjectures plus ou moins vraisemblables. PierreCorneille est l’auteur du Cid, et son frère Thomas,l’auteur de Stilicon. L’influence du milieu se marquedavantage; mais niera–t–on que nous ne puissions le

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modifier en l’accomodant à notre personnalité propre?Voici deux poètes – et pourquoi changer d’exemple? –voici Pierre et Thomas Corneille, qui ne se ressemblentguère. Il faut bien admettre que l’un ou l’autre, sinontous les deux, n’a point subi cette influence. Dira–t–onque le milieu de l’un ne fut pas celui de l’autre? On enviendrait bientôt à reconnaître autant de milieux qued’individus».

Certo! perchè ognuno cresce assimilandosi gli ele-menti che gli convengono e rifiutando quelli che non sa-prebbe appropriarsi: il che vuol dire che gli elementi cheraccogliamo del mondo non sono esteriori, indifferenti.Ha ben ragione dunque il Pellissier di concludere: «Ondoit reconnaître tout au moins que les trois influences(razza, ambiente, momento) se croisent, s’emmêlent, secontrarient, qu’il est impossible de les distinguer, denoter chacune d’elles avec précision. Elles échappent,encore un coup, à notre prise, ou, du moins, elles nepeuvent pas se réduire en formules. Affaire d’art et detact, non de procédés mécaniques».

Tutto il cammino percorso in pochi anni dalla psico-logia contemporanea ha dimostrato le ragioni per cui aiprocessi in genere della coscienza si davano i caratteridi necessità meccanica e di fissità quasi materiale, met-tendo in chiaro che il mondo è rappresentazione solo inquanto lo consideriamo facendo astrazione dal soggetto,da noi; è rappresentazione e volontà in quanto lo consi-deriamo come ci si presenta direttamente alla coscienza,nella quale troviamo appunto in intimo e inscindibile le-

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modifier en l’accomodant à notre personnalité propre?Voici deux poètes – et pourquoi changer d’exemple? –voici Pierre et Thomas Corneille, qui ne se ressemblentguère. Il faut bien admettre que l’un ou l’autre, sinontous les deux, n’a point subi cette influence. Dira–t–onque le milieu de l’un ne fut pas celui de l’autre? On enviendrait bientôt à reconnaître autant de milieux qued’individus».

Certo! perchè ognuno cresce assimilandosi gli ele-menti che gli convengono e rifiutando quelli che non sa-prebbe appropriarsi: il che vuol dire che gli elementi cheraccogliamo del mondo non sono esteriori, indifferenti.Ha ben ragione dunque il Pellissier di concludere: «Ondoit reconnaître tout au moins que les trois influences(razza, ambiente, momento) se croisent, s’emmêlent, secontrarient, qu’il est impossible de les distinguer, denoter chacune d’elles avec précision. Elles échappent,encore un coup, à notre prise, ou, du moins, elles nepeuvent pas se réduire en formules. Affaire d’art et detact, non de procédés mécaniques».

Tutto il cammino percorso in pochi anni dalla psico-logia contemporanea ha dimostrato le ragioni per cui aiprocessi in genere della coscienza si davano i caratteridi necessità meccanica e di fissità quasi materiale, met-tendo in chiaro che il mondo è rappresentazione solo inquanto lo consideriamo facendo astrazione dal soggetto,da noi; è rappresentazione e volontà in quanto lo consi-deriamo come ci si presenta direttamente alla coscienza,nella quale troviamo appunto in intimo e inscindibile le-

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game e in continua azione reciproca quei due elementiche la vecchia psicologia teneva disuniti: i sentimenti ele rappresentazioni; donde la variabilità di queste consi-derate direttamente.

Si possono le rappresentazioni considerare in sè sole,cioè facendo astrazione non solo dai sentimenti e dagliimpulsi che le accompagnano, ma anche dalle rappre-sentazioni della memoria che possono mescolarsi adesse? considerare come oggetti relativamente fissi? Sì.Così le considerano appunto e le studiano le scienze na-turali. Ma è possibile applicare all’arte questo metodo?Lo stesso Zola, fondando la sua dottrina, lasciò postoalle modificazioni che la realtà subisce per divenire ope-ra d’arte. In fin dei conti, tutto ciò ch’egli assommavasotto il nome improprio di esperienza, è l’homo additusnaturae: la natura veduta attraverso un temperamento.Ed ecco dunque tolta di mezzo quell’astrazione daglielementi soggettivi della coscienza per cui solo è possi-bile il metodo scientifico, e dimostrata l’inapplicabilitàdi questo metodo all’arte.

La differenza tra rappresentazione obiettiva e rappre-sentazione subiettiva deriva, in fondo, semplicementedal diverso valore che noi attribuiamo all’atto dello spi-rito nella rappresentazione della realtà esteriore: valoreobiettivo se ci sforziamo di cogliere e di rappresentare ilmondo esteriore nella sua composizione reale; valoresubiettivo se impieghiamo un’attività cosciente nel co-glierlo. Ma bisogna tener ben fermo questo: che non sitratta di vedere come e quanto possa essere oggettivo,

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game e in continua azione reciproca quei due elementiche la vecchia psicologia teneva disuniti: i sentimenti ele rappresentazioni; donde la variabilità di queste consi-derate direttamente.

Si possono le rappresentazioni considerare in sè sole,cioè facendo astrazione non solo dai sentimenti e dagliimpulsi che le accompagnano, ma anche dalle rappre-sentazioni della memoria che possono mescolarsi adesse? considerare come oggetti relativamente fissi? Sì.Così le considerano appunto e le studiano le scienze na-turali. Ma è possibile applicare all’arte questo metodo?Lo stesso Zola, fondando la sua dottrina, lasciò postoalle modificazioni che la realtà subisce per divenire ope-ra d’arte. In fin dei conti, tutto ciò ch’egli assommavasotto il nome improprio di esperienza, è l’homo additusnaturae: la natura veduta attraverso un temperamento.Ed ecco dunque tolta di mezzo quell’astrazione daglielementi soggettivi della coscienza per cui solo è possi-bile il metodo scientifico, e dimostrata l’inapplicabilitàdi questo metodo all’arte.

La differenza tra rappresentazione obiettiva e rappre-sentazione subiettiva deriva, in fondo, semplicementedal diverso valore che noi attribuiamo all’atto dello spi-rito nella rappresentazione della realtà esteriore: valoreobiettivo se ci sforziamo di cogliere e di rappresentare ilmondo esteriore nella sua composizione reale; valoresubiettivo se impieghiamo un’attività cosciente nel co-glierlo. Ma bisogna tener ben fermo questo: che non sitratta di vedere come e quanto possa essere oggettivo,

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cioè reale in sè e non in relazione col nostro sentimentotutto ciò che nella cognizione di una cosa ci vienedall’essenza reale di essa; non si tratta insomma dellaseparazione impossibile tra soggetto e oggetto; ma sol-tanto del valore intenzionale che attribuiamo all’attodella rappresentazione, con tutte quelle circospezioni einibizioni che ne risultano per un verso, e tutta quella at-tività cosciente che ne risulta per l’altro.

Se non che, questo valore intenzionale non è possibileimporlo all’arte, meditatamente; imporlo cioè allo spiri-to nell’atto della creazione artistica. L’atto dello spiritonel momento della creazione non è che creazione: chepoi, ripetiamo, l’artista crei e ne mostri coscienza o creisenza mostrarla, è un atteggiamento indifferente per labellezza dell’espressione.

Ora la poetica del naturalismo voleva imporre all’artequesto valore obiettivo intenzionale, circospezioni e ini-bizioni; e conseguentemente, una tecnica meccanica, ra-zionale, fondata sul metodo scientifico; una tecnica cioèche non fosse più il libero, spontaneo e immediato mo-vimento della forma. Come questa era consideratadall’antica retorica, così la tecnica fu considerata dallapoetica del naturalismo: esteriore.

E si ebbero così gli eccessi e le aberrazionidell’oggettivismo, dopo il soggettivismo sfrenato delperiodo romantico. Si vollero scontare tutte le esaltazio-ni troppo libere, scomposte e disordinate dei sentimentie della volontà, con una schiavitù bruta agli oggetti dellapiatta realtà esteriore; tutte le trasformazioni e modifica-

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cioè reale in sè e non in relazione col nostro sentimentotutto ciò che nella cognizione di una cosa ci vienedall’essenza reale di essa; non si tratta insomma dellaseparazione impossibile tra soggetto e oggetto; ma sol-tanto del valore intenzionale che attribuiamo all’attodella rappresentazione, con tutte quelle circospezioni einibizioni che ne risultano per un verso, e tutta quella at-tività cosciente che ne risulta per l’altro.

Se non che, questo valore intenzionale non è possibileimporlo all’arte, meditatamente; imporlo cioè allo spiri-to nell’atto della creazione artistica. L’atto dello spiritonel momento della creazione non è che creazione: chepoi, ripetiamo, l’artista crei e ne mostri coscienza o creisenza mostrarla, è un atteggiamento indifferente per labellezza dell’espressione.

Ora la poetica del naturalismo voleva imporre all’artequesto valore obiettivo intenzionale, circospezioni e ini-bizioni; e conseguentemente, una tecnica meccanica, ra-zionale, fondata sul metodo scientifico; una tecnica cioèche non fosse più il libero, spontaneo e immediato mo-vimento della forma. Come questa era consideratadall’antica retorica, così la tecnica fu considerata dallapoetica del naturalismo: esteriore.

E si ebbero così gli eccessi e le aberrazionidell’oggettivismo, dopo il soggettivismo sfrenato delperiodo romantico. Si vollero scontare tutte le esaltazio-ni troppo libere, scomposte e disordinate dei sentimentie della volontà, con una schiavitù bruta agli oggetti dellapiatta realtà esteriore; tutte le trasformazioni e modifica-

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zioni arbitrarie della natura, con una rigorosa, compas-sata, arida e nuda imitazione di essa. Dopo il trionfo de-lirante della personalità, la negazione di essa. Ma furonoeccessi ed aberrazioni più che altro teorici, chè nellapratica poi risultarono inattuabili, non potendo l’arte as-solutamente fare a meno di quelle facoltà soggettive del-lo spirito, da cui traggon natura e carattere i suoi proces-si.

E tal contrasto fra teoria e pratica spiccò, com’è noto,evidentissimo nello Zola, il quale, se da un canto cascanell’astrattezza dei tipi e nella insignificanza della realtàempirica, dall’altro violenta di continuo con la gigante-sca immaginazione romantica tutto il formulario dellasua tecnica esteriore; si avvertì meno nel Maupassant,ma solo perchè questi, dato il suo temperamento, conminore sforzo, men volontariamente, riusci ad applicarequella teorica in brevi narrazioni, moltissime delle qualituttavia – si noti – atteggiate soggettivamente in formadi racconto, diventano poi a un tratto rappresentazioneoggettiva, poichè le persone del racconto non si conten-tano del riferimento compendioso della loro azione e deiloro discorsi, come secondo la coerenza logica dovrebbefare il raccontatore, e vengono innanzi, rappresentanoda sè la loro azione, parlano con la loro viva voce, e fan-no benissimo.

*Intanto, la poetica del naturalismo co’ suoi eccessi è

le sue aberrazioni, trasportata dalla Francia in Italia, do-veva per forza urtare da noi contro lo scoglio della lin-

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zioni arbitrarie della natura, con una rigorosa, compas-sata, arida e nuda imitazione di essa. Dopo il trionfo de-lirante della personalità, la negazione di essa. Ma furonoeccessi ed aberrazioni più che altro teorici, chè nellapratica poi risultarono inattuabili, non potendo l’arte as-solutamente fare a meno di quelle facoltà soggettive del-lo spirito, da cui traggon natura e carattere i suoi proces-si.

E tal contrasto fra teoria e pratica spiccò, com’è noto,evidentissimo nello Zola, il quale, se da un canto cascanell’astrattezza dei tipi e nella insignificanza della realtàempirica, dall’altro violenta di continuo con la gigante-sca immaginazione romantica tutto il formulario dellasua tecnica esteriore; si avvertì meno nel Maupassant,ma solo perchè questi, dato il suo temperamento, conminore sforzo, men volontariamente, riusci ad applicarequella teorica in brevi narrazioni, moltissime delle qualituttavia – si noti – atteggiate soggettivamente in formadi racconto, diventano poi a un tratto rappresentazioneoggettiva, poichè le persone del racconto non si conten-tano del riferimento compendioso della loro azione e deiloro discorsi, come secondo la coerenza logica dovrebbefare il raccontatore, e vengono innanzi, rappresentanoda sè la loro azione, parlano con la loro viva voce, e fan-no benissimo.

*Intanto, la poetica del naturalismo co’ suoi eccessi è

le sue aberrazioni, trasportata dalla Francia in Italia, do-veva per forza urtare da noi contro lo scoglio della lin-

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gua, la quale, cercata fuori, come un oggetto, natural-mente nessuno riusciva a trovare.

Lo avvertì dapprima il Tommaseo stesso nel Diziona-rio estetico, il Tommaseo che, come rilevò accortamenteAdolfo Albertazzi in un suo saggio pubblicato parecchianni or sono su la Rivista d’Italia, può sotto alcuniaspetti considerarsi come un vero precursore del natura-lismo: «Manca, – egli dice nel Dizionario estetico, – lagrazia del dialogo; e manca perchè non se ne hanno vivimodelli. Il mettere a fronte una dell’altra due persone, efar loro dire tutto quel che direbbero in un dialogo vero,è sforzo molto spesso impossibile a ben riuscire». Per-chè anch’egli pensava che manca «un linguaggio comu-ne a tutta la nazione, determinato, vivente, che facciacon l’affetto e con l’idea, come corpo con spirito, unente solo!»

Gli si rivoltò contro, com’è noto, il Cattaneo, ricor-dando con una certa enfasi «la lingua che, cinquecentoanni sono, fra i trabocchetti e le gabbie di ferro, sapevacantare: Solo e pensoso i più deserti campi..., la linguaschietta e limpida come cristallo, che narrava di Fiordi-ligi e di Armida; che, vezzeggiata nelle marine di Sor-rento e tra le fonti di Valchiusa, veniva con eco volut-tuosa ripetuta nelle gondole della laguna; che, temprataad affetti più austeri, aveva cantato: La bocca sollevòdal fiero pasto...». Per il Cattaneo la lingua viva italianac’era. «Ciò che manca – diceva – non è per fermo la co-pia dei vocaboli, che ne abbiamo per mala ventura dafarne tre lingue di popolo savio, che adoperi parole per

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gua, la quale, cercata fuori, come un oggetto, natural-mente nessuno riusciva a trovare.

Lo avvertì dapprima il Tommaseo stesso nel Diziona-rio estetico, il Tommaseo che, come rilevò accortamenteAdolfo Albertazzi in un suo saggio pubblicato parecchianni or sono su la Rivista d’Italia, può sotto alcuniaspetti considerarsi come un vero precursore del natura-lismo: «Manca, – egli dice nel Dizionario estetico, – lagrazia del dialogo; e manca perchè non se ne hanno vivimodelli. Il mettere a fronte una dell’altra due persone, efar loro dire tutto quel che direbbero in un dialogo vero,è sforzo molto spesso impossibile a ben riuscire». Per-chè anch’egli pensava che manca «un linguaggio comu-ne a tutta la nazione, determinato, vivente, che facciacon l’affetto e con l’idea, come corpo con spirito, unente solo!»

Gli si rivoltò contro, com’è noto, il Cattaneo, ricor-dando con una certa enfasi «la lingua che, cinquecentoanni sono, fra i trabocchetti e le gabbie di ferro, sapevacantare: Solo e pensoso i più deserti campi..., la linguaschietta e limpida come cristallo, che narrava di Fiordi-ligi e di Armida; che, vezzeggiata nelle marine di Sor-rento e tra le fonti di Valchiusa, veniva con eco volut-tuosa ripetuta nelle gondole della laguna; che, temprataad affetti più austeri, aveva cantato: La bocca sollevòdal fiero pasto...». Per il Cattaneo la lingua viva italianac’era. «Ciò che manca – diceva – non è per fermo la co-pia dei vocaboli, che ne abbiamo per mala ventura dafarne tre lingue di popolo savio, che adoperi parole per

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capire e farsi capire, per far piangere e far ridere, e sopratutto per arme della ragione e stimolo della volontà. Ciòche manca all’Italia, e per colpa di chi troppo sa, non dichi sa poco, è il modo sicuro e fermo e concorde ed unodi valersi della lingua». E si scagliava contro chi «comese la lingua non vi fosse ancora, prende il bordone daperegrino, e va ramingo per Toscana a far abbaiare icani delle cascine, per raggranellare atomi novelli da farlingua».

Ma figurarsi se le ragioni del Cattaneo e l’esempiodei quattro evangelisti della nostra letteratura, vogliodire Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso, potevano bastare aquei nostri primi scrittori d’arte narrativa contempora-nea, che non avevano voluto accontentarsi neanchedell’esempio del Manzoni, il quale, se non era andato atirar sassi alle cascine di Toscana per farne abbajare icani, era pure andato a risciacquare in Arno, e ad ognimodo alla lingua aveva saputo dare una tale arrendevo-lezza alla verità oggettiva, da far sentire le varie voci deisuoi personaggi secondo il loro grado e la lor natura.

Data la teorica naturalistica, questa incontentabilitàera del resto perfettamente logica. Certo l’uso vivo e co-stante della lingua italiana non esiste nelle varie regionidella penisola; se esiste – come dicono – a Firenze, èuna lingua viva che ha per confini le mura d’una città; ilpopolo e anche le classi colte, così a Torino come a Mi-lano, così a Venezia come a Genova, così a Bolognacome a Napoli, a Palermo, ecc., parlano in dialetto. Maè certo altresì che, se ciascun dialetto ha un tipo fonetico

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capire e farsi capire, per far piangere e far ridere, e sopratutto per arme della ragione e stimolo della volontà. Ciòche manca all’Italia, e per colpa di chi troppo sa, non dichi sa poco, è il modo sicuro e fermo e concorde ed unodi valersi della lingua». E si scagliava contro chi «comese la lingua non vi fosse ancora, prende il bordone daperegrino, e va ramingo per Toscana a far abbaiare icani delle cascine, per raggranellare atomi novelli da farlingua».

Ma figurarsi se le ragioni del Cattaneo e l’esempiodei quattro evangelisti della nostra letteratura, vogliodire Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso, potevano bastare aquei nostri primi scrittori d’arte narrativa contempora-nea, che non avevano voluto accontentarsi neanchedell’esempio del Manzoni, il quale, se non era andato atirar sassi alle cascine di Toscana per farne abbajare icani, era pure andato a risciacquare in Arno, e ad ognimodo alla lingua aveva saputo dare una tale arrendevo-lezza alla verità oggettiva, da far sentire le varie voci deisuoi personaggi secondo il loro grado e la lor natura.

Data la teorica naturalistica, questa incontentabilitàera del resto perfettamente logica. Certo l’uso vivo e co-stante della lingua italiana non esiste nelle varie regionidella penisola; se esiste – come dicono – a Firenze, èuna lingua viva che ha per confini le mura d’una città; ilpopolo e anche le classi colte, così a Torino come a Mi-lano, così a Venezia come a Genova, così a Bolognacome a Napoli, a Palermo, ecc., parlano in dialetto. Maè certo altresì che, se ciascun dialetto ha un tipo fonetico

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e morfologico e uno stampo sintattico particolare, tutti idialetti italiani hanno poi un fondo comune che dà ani-ma e corpo alla lingua della nazione. Basta sfuggire queimodi e quei nessi troppo idiotici e arrotondare un po’ ledesinenze, perchè un dialetto divenga subito intelligibileall’altro. E non era questa in fondo la teorica dantescadel volgare che «in qualibet redolet civitate, nec cubat inulla»? Non piacerà ai così detti fiorentinisti, non piaceràai così detti puristi, a tutti coloro che non voglion cono-scere altra lingua che quella dei libri, e di pochi libriquasi sacri alla loro venerazione e al loro culto, linguamummificata come le forme della retorica, lingua cosìdetta letteraria; lingua dipinta e pettinata; non piacerà acoloro che vogliono scriver bello perchè non sanno scri-ver bene; ma è pur questa la lingua che vive, nella quale– per dirla con l’Ascoli – la proposta individuale, lacreazione, la disumazione, il rifiuto, la riforma, la diffu-sione, l’uso, sono avvenimenti ed effetti incessanti, peiquali si continua e si riproduce, in nobilissima sfera, ilmedesimo processo di consenso creativo onde pur surgee si assoda e si trasforma un vernacolo qualunque.

Se non che, a rigore, neanche di questa lingua si pote-vano contentare gli scrittori naturalisti quando ponevanoin iscena contadini o altra gente volgare. Il color verna-colo lasciato a quella loro forma arrotondata, era un ri-piego, una mezza accomodatura: la teorica avrebbe im-posto il dialetto. Beato il Fucini che poteva usarlo, nellesue Veglie di Neri, e farsi intendere! Ma un contadino si-ciliano? un pastore sardo? un alpigiano piemontese?

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e morfologico e uno stampo sintattico particolare, tutti idialetti italiani hanno poi un fondo comune che dà ani-ma e corpo alla lingua della nazione. Basta sfuggire queimodi e quei nessi troppo idiotici e arrotondare un po’ ledesinenze, perchè un dialetto divenga subito intelligibileall’altro. E non era questa in fondo la teorica dantescadel volgare che «in qualibet redolet civitate, nec cubat inulla»? Non piacerà ai così detti fiorentinisti, non piaceràai così detti puristi, a tutti coloro che non voglion cono-scere altra lingua che quella dei libri, e di pochi libriquasi sacri alla loro venerazione e al loro culto, linguamummificata come le forme della retorica, lingua cosìdetta letteraria; lingua dipinta e pettinata; non piacerà acoloro che vogliono scriver bello perchè non sanno scri-ver bene; ma è pur questa la lingua che vive, nella quale– per dirla con l’Ascoli – la proposta individuale, lacreazione, la disumazione, il rifiuto, la riforma, la diffu-sione, l’uso, sono avvenimenti ed effetti incessanti, peiquali si continua e si riproduce, in nobilissima sfera, ilmedesimo processo di consenso creativo onde pur surgee si assoda e si trasforma un vernacolo qualunque.

Se non che, a rigore, neanche di questa lingua si pote-vano contentare gli scrittori naturalisti quando ponevanoin iscena contadini o altra gente volgare. Il color verna-colo lasciato a quella loro forma arrotondata, era un ri-piego, una mezza accomodatura: la teorica avrebbe im-posto il dialetto. Beato il Fucini che poteva usarlo, nellesue Veglie di Neri, e farsi intendere! Ma un contadino si-ciliano? un pastore sardo? un alpigiano piemontese?

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E nessuno intendeva che questo così detto tormentodella lingua era un tormento accattato di martiri volonta-rii d’un sistema assurdo, contrario alla vera natura e alvero ufficio dell’arte. La quale non consiste, nè può con-sistere nell’imitar senz’altro, tal quale, la natura, nel ri-produrre la realtà materiale, dei suoni, dei gesti, comefarebbe un fonografo o un cinematografo; ma ha una ve-rità, una realtà superiore a tutte queste particolarità vol-gari, ovvie, comuni, a tutti questi segni esteriori.

L’eccesso dell’oggettivismo si mostrò poi per un altroverso nello sviluppo fuor di misura che andò a mano amano prendendo la parte dialogica, la quale tende sem-pre più a sopraffare la narrazione e anche ad emancipar-si da essa. Già il Rovetta nel romanzo L’Idolo introdus-se direttamente i personaggi a comporre la scena, comein un dramma o in una commedia, staccandoli dalla nar-razione.

L’ultima conseguenza di questo eccesso è la così det-ta novella dialogata. Ricorderò qui ancora una volta ilTommaseo, per un certo raffronto ch’egli, discorrendonel Dizionario estetico della novella, voleva istituire traquesto componimento e la tragedia classica. «La novellasta al romanzo, – diceva, – a un dipresso come la trage-dia osservatrice delle unità al dramma storico. E la no-vella e la tragedia classica condensano in piccolo spazioi fatti, i sentimenti che la natura presenta o dilatati o di-spersi. L’una e l’altra pigliano il fatto, a dir così, per lacoda; e di questa estremità si contentano; intese a dipin-gerci non le origini, non i gradi della passione, non le

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E nessuno intendeva che questo così detto tormentodella lingua era un tormento accattato di martiri volonta-rii d’un sistema assurdo, contrario alla vera natura e alvero ufficio dell’arte. La quale non consiste, nè può con-sistere nell’imitar senz’altro, tal quale, la natura, nel ri-produrre la realtà materiale, dei suoni, dei gesti, comefarebbe un fonografo o un cinematografo; ma ha una ve-rità, una realtà superiore a tutte queste particolarità vol-gari, ovvie, comuni, a tutti questi segni esteriori.

L’eccesso dell’oggettivismo si mostrò poi per un altroverso nello sviluppo fuor di misura che andò a mano amano prendendo la parte dialogica, la quale tende sem-pre più a sopraffare la narrazione e anche ad emancipar-si da essa. Già il Rovetta nel romanzo L’Idolo introdus-se direttamente i personaggi a comporre la scena, comein un dramma o in una commedia, staccandoli dalla nar-razione.

L’ultima conseguenza di questo eccesso è la così det-ta novella dialogata. Ricorderò qui ancora una volta ilTommaseo, per un certo raffronto ch’egli, discorrendonel Dizionario estetico della novella, voleva istituire traquesto componimento e la tragedia classica. «La novellasta al romanzo, – diceva, – a un dipresso come la trage-dia osservatrice delle unità al dramma storico. E la no-vella e la tragedia classica condensano in piccolo spazioi fatti, i sentimenti che la natura presenta o dilatati o di-spersi. L’una e l’altra pigliano il fatto, a dir così, per lacoda; e di questa estremità si contentano; intese a dipin-gerci non le origini, non i gradi della passione, non le

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relazioni di quella con i molti oggetti che circondanol’uomo e servono a sospingerla, a ripercuoterla, ad in-formarla in mille modi diversi, ma solo gli ultimi passi,l’eccesso insomma».

Ora la novella dialogata, quantunque più vicina este-riormente alla forma drammatica, è però la più lontanache si possa immaginare dal rigor sintetico della trage-dia unitaria.

Sì, essa vorrebbe condensare, anche troppo: tutta unanovella in una sola scena. Ma riesce spesso una scenastaccata e quasi inorganica. Non sorretta più dal conge-gno narrativo, va su i lievi trampoli descrittivi delle di-dascalie, pestando un po’ troppo in vero quel volgaretappeto che è lo stile conversativo alla francese. E pervoler troppo condensare da una parte è costretta a diluir-si soverchiamente dall’altra. Non si contenta di prendereil fatto per la coda, come dice il Tommaseo; ma lascia ilfatto, riducendolo a un disegnino schematico in princi-pio, e allunga la coda, dove – come si sa si trova spessoil veleno.

La novella dialogata, insomma, mi fa un po’ l’effettodel topo, che ha la coda più lunga del corpo. Questacoda di topo talvolta, che è che non è, s’arricciola, e al-lora pare quella d’un altro animale.

Questa metamorfosi (graziosa, non dico di no, piace-volissima) avviene nelle novelle dialogate – stavo perdir diavolate – di Giannino Antona–Traversi Oh!... ledame e i gentiluomini. Lo cito perchè nella prefazione alvolume egli si presenta come un teorico della novella

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relazioni di quella con i molti oggetti che circondanol’uomo e servono a sospingerla, a ripercuoterla, ad in-formarla in mille modi diversi, ma solo gli ultimi passi,l’eccesso insomma».

Ora la novella dialogata, quantunque più vicina este-riormente alla forma drammatica, è però la più lontanache si possa immaginare dal rigor sintetico della trage-dia unitaria.

Sì, essa vorrebbe condensare, anche troppo: tutta unanovella in una sola scena. Ma riesce spesso una scenastaccata e quasi inorganica. Non sorretta più dal conge-gno narrativo, va su i lievi trampoli descrittivi delle di-dascalie, pestando un po’ troppo in vero quel volgaretappeto che è lo stile conversativo alla francese. E pervoler troppo condensare da una parte è costretta a diluir-si soverchiamente dall’altra. Non si contenta di prendereil fatto per la coda, come dice il Tommaseo; ma lascia ilfatto, riducendolo a un disegnino schematico in princi-pio, e allunga la coda, dove – come si sa si trova spessoil veleno.

La novella dialogata, insomma, mi fa un po’ l’effettodel topo, che ha la coda più lunga del corpo. Questacoda di topo talvolta, che è che non è, s’arricciola, e al-lora pare quella d’un altro animale.

Questa metamorfosi (graziosa, non dico di no, piace-volissima) avviene nelle novelle dialogate – stavo perdir diavolate – di Giannino Antona–Traversi Oh!... ledame e i gentiluomini. Lo cito perchè nella prefazione alvolume egli si presenta come un teorico della novella

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dialogata. Della metamorfosi, a cui ho accennato più su,s’avvede egli stesso, e scatta: «Oh, infine, signori mieibelli, io soffoco di sincerità! Mi negherete voi forse chenon vivano, e in buon numero nel mondo, quelle perso-ne che io illumino di scorcio nelle mie novelle? Affer-mereste voi che io le ho sognate e le ho evocate con lamia fantasia? Le une e gli altri esistono, voi lo sapetemeglio di me; e io non mi sono mostrato certo troppoaustero contro le loro grandi leggerezze e le loro piccoleviltà».

Ma esistono sicuro! – gli rispondiamo noi. – Chi lonega? Soltanto, non avendo egli voluto riscattare la li-cenziosità con qualche intento ideale superiore, si puòforse rimproverare a Giannino Antona Traversi d’averfatto quella licenziosità troppo spesso fine a se stessa.

«Io sono un semplice osservatore, – egli dice, – chenota quanto gli par notevole». – Ebbene, per conto mio,vorrei ch’egli non fosse un semplice osservatore di coseche, presentate come sono, paiono non molto degne dinota, e che avrebbero potuto essere invece notevolissi-me, se dal pensiero e dal sentimento dell’artista avesse-ro acquistato un più alto valore, non già morale, chepoco importa per l’arte, ma espressivo.

«La vita, – egli seguita, – e primieramente la vita delmondo elegante, è una commedia, ma non sempre cosìampia e complessa nelle sue varie manifestazioni da po-ter riempire l’arco scenico. Ciò che risulta da minuta os-servazione, ciò che si vela di sottile ironia, ciò che si co-lora di una saporosa ma non troppo evidente comicità, si

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dialogata. Della metamorfosi, a cui ho accennato più su,s’avvede egli stesso, e scatta: «Oh, infine, signori mieibelli, io soffoco di sincerità! Mi negherete voi forse chenon vivano, e in buon numero nel mondo, quelle perso-ne che io illumino di scorcio nelle mie novelle? Affer-mereste voi che io le ho sognate e le ho evocate con lamia fantasia? Le une e gli altri esistono, voi lo sapetemeglio di me; e io non mi sono mostrato certo troppoaustero contro le loro grandi leggerezze e le loro piccoleviltà».

Ma esistono sicuro! – gli rispondiamo noi. – Chi lonega? Soltanto, non avendo egli voluto riscattare la li-cenziosità con qualche intento ideale superiore, si puòforse rimproverare a Giannino Antona Traversi d’averfatto quella licenziosità troppo spesso fine a se stessa.

«Io sono un semplice osservatore, – egli dice, – chenota quanto gli par notevole». – Ebbene, per conto mio,vorrei ch’egli non fosse un semplice osservatore di coseche, presentate come sono, paiono non molto degne dinota, e che avrebbero potuto essere invece notevolissi-me, se dal pensiero e dal sentimento dell’artista avesse-ro acquistato un più alto valore, non già morale, chepoco importa per l’arte, ma espressivo.

«La vita, – egli seguita, – e primieramente la vita delmondo elegante, è una commedia, ma non sempre cosìampia e complessa nelle sue varie manifestazioni da po-ter riempire l’arco scenico. Ciò che risulta da minuta os-servazione, ciò che si vela di sottile ironia, ciò che si co-lora di una saporosa ma non troppo evidente comicità, si

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sperde sulla scena, svanisce. Il teatro vuole una sintesi,che si svolga da un carattere sotto l’impero dei fatti: allanovella dialogata conviene l’analisi di un momento, diun atteggiamento, di uno stato d’animo passeggero. Ilcarattere non vi si dipinge fermo e preciso: guizza escompare, accompagnato da un fine sorriso, più che dauno scoppio di risa».

Tutto questo ha del precetto e, per conseguenza, è ar-bitrario. Rispecchia un particolar modo d’intendere lanovella dialogata. La quale non vuol esser più l’anticodialogo di parecchi collocutori della vecchia retorica,dialogo che si piaceva di argomenti gravi e sennati.Commediola dimidiata, insomma, secondo GianninoAntona–Traversi, la novella dialogata: tenue commedio-la, in cui il lettore sopporta facilmente ciò che offendeoggi lo spettatore: il cambiamento di scena. Che se poile scene riescano a seguirsi nel tempo e nel luogo, non sisa più vedere in che consista la differenza tra una novel-la dialogata e una commediola vera e propria, da salotto,se non da teatro.

*

Penso, intanto, che anche questa forma della novelladialogata ci è venuta dalla Francia; che dalla Francia vo-lemmo imitare, con tutti gli eccessi e le aberrazioni teo-riche, l’evoluzione delle forme d’arte narrativa; penso atante altre importazioni dalla Francia, del così detto ro-manzo psicologico prima, del simbolista poi; e mi ritor-na a mente, insieme con l’esclamazione di Francesco

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sperde sulla scena, svanisce. Il teatro vuole una sintesi,che si svolga da un carattere sotto l’impero dei fatti: allanovella dialogata conviene l’analisi di un momento, diun atteggiamento, di uno stato d’animo passeggero. Ilcarattere non vi si dipinge fermo e preciso: guizza escompare, accompagnato da un fine sorriso, più che dauno scoppio di risa».

Tutto questo ha del precetto e, per conseguenza, è ar-bitrario. Rispecchia un particolar modo d’intendere lanovella dialogata. La quale non vuol esser più l’anticodialogo di parecchi collocutori della vecchia retorica,dialogo che si piaceva di argomenti gravi e sennati.Commediola dimidiata, insomma, secondo GianninoAntona–Traversi, la novella dialogata: tenue commedio-la, in cui il lettore sopporta facilmente ciò che offendeoggi lo spettatore: il cambiamento di scena. Che se poile scene riescano a seguirsi nel tempo e nel luogo, non sisa più vedere in che consista la differenza tra una novel-la dialogata e una commediola vera e propria, da salotto,se non da teatro.

*

Penso, intanto, che anche questa forma della novelladialogata ci è venuta dalla Francia; che dalla Francia vo-lemmo imitare, con tutti gli eccessi e le aberrazioni teo-riche, l’evoluzione delle forme d’arte narrativa; penso atante altre importazioni dalla Francia, del così detto ro-manzo psicologico prima, del simbolista poi; e mi ritor-na a mente, insieme con l’esclamazione di Francesco

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Domenico Guerrazzi dalle Murate di Firenze, una favo-letta del Lessing, che non posso tenermi dal tradurre.

È intitolata La scimmia e la volpe. E dice così:«Vantavasi una scimmia di fronte alla volpe: – Cita-

mi, se sai, una bestia così abile e scaltra, cui io, volendo,non sappia imitare.

«E la volpe, di rimando:«– E tu citami una bestia così sciocca e melensa, a cui

possa cadere in mente d’imitar te».Seguiva alla favola questa breve morale:«O autori della mia nazione, ho io bisogno d’espri-

mermi più chiaramente?»Nota bene. – La favoletta era contro quei poeti della

famosa scuola slesiana capitanata da Martino Opitz, iquali allora – oh gloria nostra! – imitavano fra gli altrigli arcadi italiani, i quali così poco si conoscevano, chepregavano il buon Dio che li mutasse nei cagnolini delleloro dame.

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Domenico Guerrazzi dalle Murate di Firenze, una favo-letta del Lessing, che non posso tenermi dal tradurre.

È intitolata La scimmia e la volpe. E dice così:«Vantavasi una scimmia di fronte alla volpe: – Cita-

mi, se sai, una bestia così abile e scaltra, cui io, volendo,non sappia imitare.

«E la volpe, di rimando:«– E tu citami una bestia così sciocca e melensa, a cui

possa cadere in mente d’imitar te».Seguiva alla favola questa breve morale:«O autori della mia nazione, ho io bisogno d’espri-

mermi più chiaramente?»Nota bene. – La favoletta era contro quei poeti della

famosa scuola slesiana capitanata da Martino Opitz, iquali allora – oh gloria nostra! – imitavano fra gli altrigli arcadi italiani, i quali così poco si conoscevano, chepregavano il buon Dio che li mutasse nei cagnolini delleloro dame.

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VII.Per l’ordinanza d’un Sindaco

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VII.Per l’ordinanza d’un Sindaco

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L’eccellentissimo signor sindaco di Roma si destò ungiorno con un soprassalto d’italianità; e, dal Campido-glio, ordinò che le denominazioni e le iscrizioni che sipongono su le mostre, tabelle e vetrine, su le facciatedegli edifizii e all’esterno degli alberghi, su gli eserciziipubblici, ufficii e negozi d’ogni genere, dovessero d’orain poi essere scritte nella lingua nazionale.

Voi sbarrate gli occhi e spalancate la bocca, oppressidi stupore; domandate:

– Ma come! Dunque vuol dire che noi siamo italiani?Ebbene, sì! Esultate. D’ora in poi, italiani, a Roma al-

meno nelle insegne delle botteghe.A Roma, badate. A Roma, dove d’inverno abbiamo il

re, e il papa tutto l’anno, dove c’è anche il Parlamentonazionale e il Senato, ma dove tuttavia i forestieri nonvengono se non per certe rovine, per certi musei, percerte gallerie, che per loro pare abbiano importanza untantino più che noi e la nostra vita moderna; a Roma,che in fondo non vive d’altro che di questa così detta in-dustria dei forestieri, per cui è divenuta tutta quanta unalbergo; a Roma il sindaco ha avuto il coraggio di fareuna così solenne affermazione d’italianità.

E la tolleranza?Io finora, per non farmi lapidare, m’ero contentato di

ripetere soltanto a me stesso, in tacitu sinu, che è stata

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L’eccellentissimo signor sindaco di Roma si destò ungiorno con un soprassalto d’italianità; e, dal Campido-glio, ordinò che le denominazioni e le iscrizioni che sipongono su le mostre, tabelle e vetrine, su le facciatedegli edifizii e all’esterno degli alberghi, su gli eserciziipubblici, ufficii e negozi d’ogni genere, dovessero d’orain poi essere scritte nella lingua nazionale.

Voi sbarrate gli occhi e spalancate la bocca, oppressidi stupore; domandate:

– Ma come! Dunque vuol dire che noi siamo italiani?Ebbene, sì! Esultate. D’ora in poi, italiani, a Roma al-

meno nelle insegne delle botteghe.A Roma, badate. A Roma, dove d’inverno abbiamo il

re, e il papa tutto l’anno, dove c’è anche il Parlamentonazionale e il Senato, ma dove tuttavia i forestieri nonvengono se non per certe rovine, per certi musei, percerte gallerie, che per loro pare abbiano importanza untantino più che noi e la nostra vita moderna; a Roma,che in fondo non vive d’altro che di questa così detta in-dustria dei forestieri, per cui è divenuta tutta quanta unalbergo; a Roma il sindaco ha avuto il coraggio di fareuna così solenne affermazione d’italianità.

E la tolleranza?Io finora, per non farmi lapidare, m’ero contentato di

ripetere soltanto a me stesso, in tacitu sinu, che è stata

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una delle nostre maggiori vigliaccherie l’avere innalzatoa dignità di virtù civile la tolleranza, cioè la mancanzad’ogni fede operosa, d’ogni rispetto per noi stessi e pertutto ciò che doveva formare il nostro orgoglio d’uominipensanti e volenti; la tolleranza, cioè l’inerzia scettica,la noncuranza più egoistica dell’altrui salute morale, evia dicendo.

– Rispettate la mia opinione, com’io rispetto la vo-stra.

Sì! Come se poi si sapesse fin dove può arrivarel’opinione degli altri... Perchè la tolleranza non potrebbeesistere se non ci fosse il suo contrario, come non esiste-rebbe il bianco se non ci fosse il nero.

E tolleranti, di fatti, non siamo stati fin qui, solamentenoi, gente virtuosa e civile, gentuccia bianca, di fronte alnero dell’intolleranza altrui?

Ma lasciamo andare. Ora che il sindaco di Roma, al-meno per un verso, ha appioppato un calcio così benescolpito a questa virtù, sfondando le vetrine, gli sporti ele insegne delle botteghe con le iscrizioni francesi, tede-sche o inglesi, io posso gridar forte il sentimento mio.

Certe tolleranze, a Roma – capitale, finora, non tantod’Italia, quanto della tolleranza – cominciano a non es-ser più tollerate.

Voi, signori bottegai, potete sì seguitare a vendere,come e quanto vi piaccia, merce francese, inglese, tede-sca, americana, turca se volete o che so io, e a consiglia-re ai vostri clienti di guardarsi bene da tutti i prodottidell’industria e dell’ingegno nazionale, e di accettare in-

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una delle nostre maggiori vigliaccherie l’avere innalzatoa dignità di virtù civile la tolleranza, cioè la mancanzad’ogni fede operosa, d’ogni rispetto per noi stessi e pertutto ciò che doveva formare il nostro orgoglio d’uominipensanti e volenti; la tolleranza, cioè l’inerzia scettica,la noncuranza più egoistica dell’altrui salute morale, evia dicendo.

– Rispettate la mia opinione, com’io rispetto la vo-stra.

Sì! Come se poi si sapesse fin dove può arrivarel’opinione degli altri... Perchè la tolleranza non potrebbeesistere se non ci fosse il suo contrario, come non esiste-rebbe il bianco se non ci fosse il nero.

E tolleranti, di fatti, non siamo stati fin qui, solamentenoi, gente virtuosa e civile, gentuccia bianca, di fronte alnero dell’intolleranza altrui?

Ma lasciamo andare. Ora che il sindaco di Roma, al-meno per un verso, ha appioppato un calcio così benescolpito a questa virtù, sfondando le vetrine, gli sporti ele insegne delle botteghe con le iscrizioni francesi, tede-sche o inglesi, io posso gridar forte il sentimento mio.

Certe tolleranze, a Roma – capitale, finora, non tantod’Italia, quanto della tolleranza – cominciano a non es-ser più tollerate.

Voi, signori bottegai, potete sì seguitare a vendere,come e quanto vi piaccia, merce francese, inglese, tede-sca, americana, turca se volete o che so io, e a consiglia-re ai vostri clienti di guardarsi bene da tutti i prodottidell’industria e dell’ingegno nazionale, e di accettare in-

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vece a occhi chiusi le marche di fabbrica estere per ognigenere di mercanzia, dalla tintura dei capelli al cerottoper le scarpe; e tu, libraio, il libro francese che «vient deparaitre» e l’odio per il libro italiano; e tu, sarto, chesogghigni sotto sotto e mi commiseri se vengo ad ordi-narti una marsina e non un frack, un soprabito e non unpardessus, un vestiario completo e non un tout-de-même, tu seguita pure a vendere e a consigliare il pannoinglese e la seta di Lione e l’ultimo figurino di Parigi;ma le insegne, vivaddio, no, le insegne delle vostre bot-teghe siano scritte d’ora in poi in lingua italiana!

Che trionfo! Siamo a Roma per nulla? per nulla ne laCapitale d’Italia? D’ora in poi, vogliamo vedere rispet-tata, tenuta in onore, là, bene in vista, la lingua naziona-le.

Traducete pure, se volete, signori bottegai, magari inottentotto, le iscrizioni e le denominazioni (poichèl’ordinanza del sindaco ve ne dà licenza), ma giù, sottoall’italiana e in lettere più piccole e meno appariscenti.Non tollereremo più che non si trovi in tutta Roma,neanche a pagarlo un occhio della testa, un barbiere, peresempio, una modesta barbieria. Tutti Salons, tutti, fi-nanche il più misero stambugio!

Fra tanta esultanza un solo pensiero mi affligge: che ilbuon Giuseppe Rigutini sia morto. Ahi Dio! Chi sa qualgioja avrebbe provato questo valentuomo per la nuova ememoranda ordinanza del sindaco di Roma!

Con quali lagrime nella voce egli narrava d’aver sco-perto un giorno in una via remota di Firenze una botte-

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vece a occhi chiusi le marche di fabbrica estere per ognigenere di mercanzia, dalla tintura dei capelli al cerottoper le scarpe; e tu, libraio, il libro francese che «vient deparaitre» e l’odio per il libro italiano; e tu, sarto, chesogghigni sotto sotto e mi commiseri se vengo ad ordi-narti una marsina e non un frack, un soprabito e non unpardessus, un vestiario completo e non un tout-de-même, tu seguita pure a vendere e a consigliare il pannoinglese e la seta di Lione e l’ultimo figurino di Parigi;ma le insegne, vivaddio, no, le insegne delle vostre bot-teghe siano scritte d’ora in poi in lingua italiana!

Che trionfo! Siamo a Roma per nulla? per nulla ne laCapitale d’Italia? D’ora in poi, vogliamo vedere rispet-tata, tenuta in onore, là, bene in vista, la lingua naziona-le.

Traducete pure, se volete, signori bottegai, magari inottentotto, le iscrizioni e le denominazioni (poichèl’ordinanza del sindaco ve ne dà licenza), ma giù, sottoall’italiana e in lettere più piccole e meno appariscenti.Non tollereremo più che non si trovi in tutta Roma,neanche a pagarlo un occhio della testa, un barbiere, peresempio, una modesta barbieria. Tutti Salons, tutti, fi-nanche il più misero stambugio!

Fra tanta esultanza un solo pensiero mi affligge: che ilbuon Giuseppe Rigutini sia morto. Ahi Dio! Chi sa qualgioja avrebbe provato questo valentuomo per la nuova ememoranda ordinanza del sindaco di Roma!

Con quali lagrime nella voce egli narrava d’aver sco-perto un giorno in una via remota di Firenze una botte-

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guccia nella quale si fabbricavano e si vendevano quelletali cornici che comunemente si sogliono chiamare pas-se–par–tout. Ebbene, quella botteguccia, tenuta da unbuon vecchiotto d’antico stampo, il quale si ebbe la ri-conoscenza e l’ammirazione del Rigutini, finchè visse, eaccolse in quel giorno nell’amplesso fraterno le lagrimedi lui, lagrime di commozione; quella botteguccia, dico,recava in italiano (pare impossibile!) il cartellino dellamerce.

Diceva così:

FABBRICA DI SOPRAFFONDI

Ora come faranno, domando io, i bottegai di Roma atradurre nella lingua nazionale le insegne e le mostredelle loro botteghe? Chi dirà loro che il passe-par-toutin italiano si chiama sopraffondo?

Il Municipio di Roma dovrebbe al più presto istituireuna Commissione permanente, di puri linguisti. Nonpuò farne a meno! Una Commissione che possa rispon-dere con autorità a tutte le domande dei bottegai, deimercanti, dei professionisti d’ogni genere e qualità, chetengono un pubblico e privato ufficio, s’impone. Ma ionon vorrei farne parte. Chi sa in quali imbarazzi si tro-verà, a contentare tanta gente già sdegnata e messa in al-larme dalla famosa ordinanza sindacale!

Chi vorrà accettare la correzione, la traduzione, laproposta? Parrà a tutti, senza dubbio, che la parola ita-liana non corrisponda alla merce o alla derrata in vendi-

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guccia nella quale si fabbricavano e si vendevano quelletali cornici che comunemente si sogliono chiamare pas-se–par–tout. Ebbene, quella botteguccia, tenuta da unbuon vecchiotto d’antico stampo, il quale si ebbe la ri-conoscenza e l’ammirazione del Rigutini, finchè visse, eaccolse in quel giorno nell’amplesso fraterno le lagrimedi lui, lagrime di commozione; quella botteguccia, dico,recava in italiano (pare impossibile!) il cartellino dellamerce.

Diceva così:

FABBRICA DI SOPRAFFONDI

Ora come faranno, domando io, i bottegai di Roma atradurre nella lingua nazionale le insegne e le mostredelle loro botteghe? Chi dirà loro che il passe-par-toutin italiano si chiama sopraffondo?

Il Municipio di Roma dovrebbe al più presto istituireuna Commissione permanente, di puri linguisti. Nonpuò farne a meno! Una Commissione che possa rispon-dere con autorità a tutte le domande dei bottegai, deimercanti, dei professionisti d’ogni genere e qualità, chetengono un pubblico e privato ufficio, s’impone. Ma ionon vorrei farne parte. Chi sa in quali imbarazzi si tro-verà, a contentare tanta gente già sdegnata e messa in al-larme dalla famosa ordinanza sindacale!

Chi vorrà accettare la correzione, la traduzione, laproposta? Parrà a tutti, senza dubbio, che la parola ita-liana non corrisponda alla merce o alla derrata in vendi-

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ta, alla professione esercitata; o che la avvilisca. Sicuro!Perchè molti credono che il loro commercio o il loro uf-ficio sia nobilitato o acquisti maggior considerazione emaggiore importanza col denominarlo in francese o ininglese. Andate a chiamar «benzina», come l’ho sentitochiamare io una volta, con termine appropriatissimo,uno chauffeur!

Conosco intanto un negoziante, in Via Nazionale, ches’è messo in regola con l’ordinanza del sindaco, senzabisogno della Commissione. Egli ha voltato da sè, senzastento, l’iscrizione della mostra nella lingua nazionale,così:

BIGIOTTERIA

Son sicuro che la maggior parte dei negozianti diRoma lo imiteranno. E, in questo caso, buon per noi chela lingua francese in Italia sia conosciuta molto megliodella nostra! Correremmo il rischio, altrimenti, di noncapir più, domani, che cosa si venda nelle botteghe conl’insegna tradotta in lingua nazionale.

Consiglio infine a un certo camiciaio di mia cono-scenza, che ha bottega sul Corso Umberto I, poco piùgiù di piazza S. Carlo, di non ritoccare affatto, di lascia-re tal quale la sua insegna francese, che è un vero monu-mento nazionale.

L’insegna dice così:

CHEMISERIE

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ta, alla professione esercitata; o che la avvilisca. Sicuro!Perchè molti credono che il loro commercio o il loro uf-ficio sia nobilitato o acquisti maggior considerazione emaggiore importanza col denominarlo in francese o ininglese. Andate a chiamar «benzina», come l’ho sentitochiamare io una volta, con termine appropriatissimo,uno chauffeur!

Conosco intanto un negoziante, in Via Nazionale, ches’è messo in regola con l’ordinanza del sindaco, senzabisogno della Commissione. Egli ha voltato da sè, senzastento, l’iscrizione della mostra nella lingua nazionale,così:

BIGIOTTERIA

Son sicuro che la maggior parte dei negozianti diRoma lo imiteranno. E, in questo caso, buon per noi chela lingua francese in Italia sia conosciuta molto megliodella nostra! Correremmo il rischio, altrimenti, di noncapir più, domani, che cosa si venda nelle botteghe conl’insegna tradotta in lingua nazionale.

Consiglio infine a un certo camiciaio di mia cono-scenza, che ha bottega sul Corso Umberto I, poco piùgiù di piazza S. Carlo, di non ritoccare affatto, di lascia-re tal quale la sua insegna francese, che è un vero monu-mento nazionale.

L’insegna dice così:

CHEMISERIE

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Si può leggere in francese, e si può leggere anche be-nissimo in italiano, staccando un pochettino la prima sil-laba, senza alterar di molto il senso.

Dico, almeno, il senso della sua e della nostra italiani-tà.

CHE MISERIE

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Si può leggere in francese, e si può leggere anche be-nissimo in italiano, staccando un pochettino la prima sil-laba, senza alterar di molto il senso.

Dico, almeno, il senso della sua e della nostra italiani-tà.

CHE MISERIE

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VIII.Sonetti di Cecco Angiolieri

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VIII.Sonetti di Cecco Angiolieri

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I.

Parecchi anni or sono, io presi in esame19 i sonetti diCecco Angiolieri sopra tutto per dimostrare che questopoeta non era, come ad Alessandro D’Ancona era sem-brato,20 un umorista. Promettevo in quel mio studio didar presto fuori un’edizione critica dei sonetti angiolie-reschi, che mi pareva facile (e m’ingannavo) dopo lastampa di Carlo e Ludovico Frati dell’Indice delle cartedi Pietro Bilancioni. La promessa, per tante ragioni, nonpotè essere mantenuta. Ma ora, dopo dieci anni da quelmio studio, l’edizione critica dei sonetti di Cecco An-giolieri è venuta fuori per cura del signor A. F. Massè-ra.21

Rileggendoli, mi sono più che mai raffermato nelconcetto già espresso in quel mio studio, che cioè conaltri intendimenti, lontano dalla nostra mente il proposi-to di voler trovare ad ogni costo l’umorismo dove tutt’alpiù non ci può essere altro che lo scherzo, la burla e tal-volta la satira popolare e il popolare epigramma, e am-mettiamo anche non grossolani, perchè fatti dal popoloche meritamente si vanta il più arguto d’Italia, avrebbe

19 Un preteso poeta umorista del sec. XIII, nella Vita italiana, anno II, v.VI (febbr.-apr. 1896).

20 C. A. DA SIENA poeta umorista del sec. Decimoterzo, nel vol. Studi dicritica e storia letteraria (Bologna, Zanichelli, 1880).

21 I Sonetti di C. A. editi criticamente ed illustrati Bologna, Ditta NicolaZanichelli, 1906.

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I.

Parecchi anni or sono, io presi in esame19 i sonetti diCecco Angiolieri sopra tutto per dimostrare che questopoeta non era, come ad Alessandro D’Ancona era sem-brato,20 un umorista. Promettevo in quel mio studio didar presto fuori un’edizione critica dei sonetti angiolie-reschi, che mi pareva facile (e m’ingannavo) dopo lastampa di Carlo e Ludovico Frati dell’Indice delle cartedi Pietro Bilancioni. La promessa, per tante ragioni, nonpotè essere mantenuta. Ma ora, dopo dieci anni da quelmio studio, l’edizione critica dei sonetti di Cecco An-giolieri è venuta fuori per cura del signor A. F. Massè-ra.21

Rileggendoli, mi sono più che mai raffermato nelconcetto già espresso in quel mio studio, che cioè conaltri intendimenti, lontano dalla nostra mente il proposi-to di voler trovare ad ogni costo l’umorismo dove tutt’alpiù non ci può essere altro che lo scherzo, la burla e tal-volta la satira popolare e il popolare epigramma, e am-mettiamo anche non grossolani, perchè fatti dal popoloche meritamente si vanta il più arguto d’Italia, avrebbe

19 Un preteso poeta umorista del sec. XIII, nella Vita italiana, anno II, v.VI (febbr.-apr. 1896).

20 C. A. DA SIENA poeta umorista del sec. Decimoterzo, nel vol. Studi dicritica e storia letteraria (Bologna, Zanichelli, 1880).

21 I Sonetti di C. A. editi criticamente ed illustrati Bologna, Ditta NicolaZanichelli, 1906.

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dovuto studiarsi l’Angiolieri, e non solo l’Angiolieri,ma in apposito libro e distesamente tutto il gruppo du-gentista di quei poeti, non di scuola, ma di popolo, pienidi naturalezza nell’arte loro non ancora ben sicura, nelcui petto per prima si ridesta o di dolce voglia o per casireali, per sentimenti veri, un’anima di canto umano, trale insulse e sconsolanti scimierie dei poeti per distrazio-ne o per sollazzo o per moda o per galanteria, tra i bi-sticci pur che siano della scuola provenzaleggiante; diquei poeti infine, ne’ cui versi, per dirla col Bartoli, èl’annunzio del carattere realistico che assumeranno lenostre lettere.

Evidentissimo è il contrasto tra la subiettività, la natu-ralezza arguta e vivace, la semplicità di questo gruppodi poeti e le vuote astrazioni prive affatto d’ogni caratte-re proprio, la falsità, l’accozzo spesso ridicolo di parolesenza senso dei poeti di scuola.

E tal contrasto si avverte subito, qualche volta, anchenelle loro stesse poesie, in quelle cioè che non balzanloro vive e spontanee o da un caso reale o da un senti-mento vero, ma che essi propriamente compongono,quasi per esercitazione di stile, secondo il ricettario dimoda, come sarebbe appunto, per recare un esempio, ilsonetto di Cecco (XXXIV dell’ediz. del Massèra)

Io son sì altamente innamorato

dove il poeta, vedendo inchinevole a cedere la sua don-na (la quale noi sappiamo, com’egli stesso sapeva, di

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dovuto studiarsi l’Angiolieri, e non solo l’Angiolieri,ma in apposito libro e distesamente tutto il gruppo du-gentista di quei poeti, non di scuola, ma di popolo, pienidi naturalezza nell’arte loro non ancora ben sicura, nelcui petto per prima si ridesta o di dolce voglia o per casireali, per sentimenti veri, un’anima di canto umano, trale insulse e sconsolanti scimierie dei poeti per distrazio-ne o per sollazzo o per moda o per galanteria, tra i bi-sticci pur che siano della scuola provenzaleggiante; diquei poeti infine, ne’ cui versi, per dirla col Bartoli, èl’annunzio del carattere realistico che assumeranno lenostre lettere.

Evidentissimo è il contrasto tra la subiettività, la natu-ralezza arguta e vivace, la semplicità di questo gruppodi poeti e le vuote astrazioni prive affatto d’ogni caratte-re proprio, la falsità, l’accozzo spesso ridicolo di parolesenza senso dei poeti di scuola.

E tal contrasto si avverte subito, qualche volta, anchenelle loro stesse poesie, in quelle cioè che non balzanloro vive e spontanee o da un caso reale o da un senti-mento vero, ma che essi propriamente compongono,quasi per esercitazione di stile, secondo il ricettario dimoda, come sarebbe appunto, per recare un esempio, ilsonetto di Cecco (XXXIV dell’ediz. del Massèra)

Io son sì altamente innamorato

dove il poeta, vedendo inchinevole a cedere la sua don-na (la quale noi sappiamo, com’egli stesso sapeva, di

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che risma fosse), si spassa a tesserne letterariamente, dimaniera, le lodi, almeno fino all’undecimo verso, chenegli ultimi tre, veramente, per quanto faccia, non riescepiù a mantenersi composto e pettinato:

Io son sì altamente innamoratoalla mercè d’una donna e d’Amore,ch’e’ non è al mondo re nè imperadorea cui volessi io già cambiar mio stato:ch’io amo quella a cui dio à donatotutto ciò che conviene a gentil core;dunque chi di tal donna è servidoreben si può dir che ’n buon pianeto è nato.Et ella à ’l cor tanto cortese e pianoin ver di me, la mia gentile manza,che sua mercè basciata li ò la mano.E si mi diè ancor ferma speranzache di qui a poco, se dio mi fa sano,io compierò di lei mia disianza.

Dio ha donato a Becchina tutto ciò che conviene agentil core? Becchina ha il cor cortese e piano? gentilemanza, Becchina? Dobbiamo proprio crederci? Ma,quando Cecco non poeteggia, o non si vuole dar l’aria dipoeteggiare di scuola, anche vedendo Becchina inchine-vole a cedergli, la fa parlare così:

Cecco, l’umiltà tua m’à si rimossache giamma’ ben nè gioia ’l mie’ cor sente,se di te nove mesi non vo grossa.

Gentile manza, come ognun vede, Becchina!

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che risma fosse), si spassa a tesserne letterariamente, dimaniera, le lodi, almeno fino all’undecimo verso, chenegli ultimi tre, veramente, per quanto faccia, non riescepiù a mantenersi composto e pettinato:

Io son sì altamente innamoratoalla mercè d’una donna e d’Amore,ch’e’ non è al mondo re nè imperadorea cui volessi io già cambiar mio stato:ch’io amo quella a cui dio à donatotutto ciò che conviene a gentil core;dunque chi di tal donna è servidoreben si può dir che ’n buon pianeto è nato.Et ella à ’l cor tanto cortese e pianoin ver di me, la mia gentile manza,che sua mercè basciata li ò la mano.E si mi diè ancor ferma speranzache di qui a poco, se dio mi fa sano,io compierò di lei mia disianza.

Dio ha donato a Becchina tutto ciò che conviene agentil core? Becchina ha il cor cortese e piano? gentilemanza, Becchina? Dobbiamo proprio crederci? Ma,quando Cecco non poeteggia, o non si vuole dar l’aria dipoeteggiare di scuola, anche vedendo Becchina inchine-vole a cedergli, la fa parlare così:

Cecco, l’umiltà tua m’à si rimossache giamma’ ben nè gioia ’l mie’ cor sente,se di te nove mesi non vo grossa.

Gentile manza, come ognun vede, Becchina!

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Prendono sempre, questi poeti, l’intonazione dal po-polo, e da un popolo che, come nota il Navone, «dimen-tica in mezzo alle feste le gravi cure cittadine, e spessosi lascia cogliere nelle cantine dai rintocchi della campa-na che lo chiamano alle armi in difesa della minacciatalibertà della patria».22

E ciò che il D’Ancona scrive, in fondo a quel suo stu-dio, su Siena ai tempi dell’Angiolieri e su l’indole diquel popolo, conforta a meraviglia l’opinione che la for-ma vivace dei sonetti angioliereschi, se da un canto pro-viene certamente dall’intenzione burlesca del poeta,dall’altro si deve anche in gran parte alla sua natura pae-sana.

Quel popolo argutamente immaginoso, anche oggidi,volendo narrare le sue sventure e le sue afflizioni, espri-mere gli odi suoi e i suoi amori, manifestar lo sdegno oil rimprovero o un suo desiderio, non parla diversamen-te da questi nostri primi poeti. Colorire comicamente lafrase è virtù nel popolo spontanea, nativa. Il Belli, peresempio, non vuol tradurre in romanesco per Luigi Lu-ciano Bonaparte il Vangelo di san Matteo, perchè la lin-gua della plebe è buffona e «appena riuscirebbe ad altroche ad una irriverenza verso i sacri volumi»23. – Cosic-chè, parmi, anche il Bartoli, che a una sua domanda:«Ma perchè questa intonazione è sempre burlesca?» ha

22 G. NAVONE – Prefazione alle Rime di Folgore da S. Gemignano e diCene da la Chitarra (Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1880).

23 V. MORANDI – Prefazione ai sonetti romaneschi del Belli (Cttà di Castel-lo, Lapi, vol. I, 1889).

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Prendono sempre, questi poeti, l’intonazione dal po-polo, e da un popolo che, come nota il Navone, «dimen-tica in mezzo alle feste le gravi cure cittadine, e spessosi lascia cogliere nelle cantine dai rintocchi della campa-na che lo chiamano alle armi in difesa della minacciatalibertà della patria».22

E ciò che il D’Ancona scrive, in fondo a quel suo stu-dio, su Siena ai tempi dell’Angiolieri e su l’indole diquel popolo, conforta a meraviglia l’opinione che la for-ma vivace dei sonetti angioliereschi, se da un canto pro-viene certamente dall’intenzione burlesca del poeta,dall’altro si deve anche in gran parte alla sua natura pae-sana.

Quel popolo argutamente immaginoso, anche oggidi,volendo narrare le sue sventure e le sue afflizioni, espri-mere gli odi suoi e i suoi amori, manifestar lo sdegno oil rimprovero o un suo desiderio, non parla diversamen-te da questi nostri primi poeti. Colorire comicamente lafrase è virtù nel popolo spontanea, nativa. Il Belli, peresempio, non vuol tradurre in romanesco per Luigi Lu-ciano Bonaparte il Vangelo di san Matteo, perchè la lin-gua della plebe è buffona e «appena riuscirebbe ad altroche ad una irriverenza verso i sacri volumi»23. – Cosic-chè, parmi, anche il Bartoli, che a una sua domanda:«Ma perchè questa intonazione è sempre burlesca?» ha

22 G. NAVONE – Prefazione alle Rime di Folgore da S. Gemignano e diCene da la Chitarra (Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1880).

23 V. MORANDI – Prefazione ai sonetti romaneschi del Belli (Cttà di Castel-lo, Lapi, vol. I, 1889).

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saputo rispondere: «perchè la burla e il riso sono il lin-guaggio favorito del popolo», anche il Bartoli, dico, par-mi abbia esagerato nel considerare la natura di questoriso, che in verità non manifesta mai alcun contrasto.Quando l’animo piange veramente, non è vero che labocca rida.

Il contrasto, e segnatamente quello intimo, profondo especiosissimo che caratterizza l’umorismo, non si trovamai in questi poeti; non è, nè può essere la qualità fon-damentale della maniera poetica dell’Angiolieri, come ilD’Ancona volle dimostrare e come tuttora moltissimi,giurando in verba magistri, s’ostinano a ripetere.

È da sperare che, non essendo valse finora le mie ar-gomentazioni in contrario, varrà la pubblicazione dei so-netti dell’Angiolieri (dopo il molto che già s’è scritto in-torno all’umorismo) a sfatar la leggenda d’un CeccoAngiolieri poeta umorista del secolo XIII.

Il Massèra, intanto, nella lunga introduzione al volu-me, non ha voluto neppur sfiorare la questione. S’è ri-stretto in essa a dar conto soltanto, «non senza l’ariditàvoluta dall’argomento», del come sia stata messa insie-me la sua stampa. Promette però che si darà presto lagrata fatica d’uno studio «di carattere fondamentalmenteestetico e storico» su la vita, su l’arte e la poesia del va-gheggiator di Becchina. Ma, a giudicare almeno daquanto dice su lo studio del D’Ancona, su la luce nonpiccola da questo studio gettata su la poesia dell’Angio-lieri, e dalla partizione, che anch’egli adotta, dei sonettiin amorosi, invettivi, burleschi e umoristici, si può pre-

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saputo rispondere: «perchè la burla e il riso sono il lin-guaggio favorito del popolo», anche il Bartoli, dico, par-mi abbia esagerato nel considerare la natura di questoriso, che in verità non manifesta mai alcun contrasto.Quando l’animo piange veramente, non è vero che labocca rida.

Il contrasto, e segnatamente quello intimo, profondo especiosissimo che caratterizza l’umorismo, non si trovamai in questi poeti; non è, nè può essere la qualità fon-damentale della maniera poetica dell’Angiolieri, come ilD’Ancona volle dimostrare e come tuttora moltissimi,giurando in verba magistri, s’ostinano a ripetere.

È da sperare che, non essendo valse finora le mie ar-gomentazioni in contrario, varrà la pubblicazione dei so-netti dell’Angiolieri (dopo il molto che già s’è scritto in-torno all’umorismo) a sfatar la leggenda d’un CeccoAngiolieri poeta umorista del secolo XIII.

Il Massèra, intanto, nella lunga introduzione al volu-me, non ha voluto neppur sfiorare la questione. S’è ri-stretto in essa a dar conto soltanto, «non senza l’ariditàvoluta dall’argomento», del come sia stata messa insie-me la sua stampa. Promette però che si darà presto lagrata fatica d’uno studio «di carattere fondamentalmenteestetico e storico» su la vita, su l’arte e la poesia del va-gheggiator di Becchina. Ma, a giudicare almeno daquanto dice su lo studio del D’Ancona, su la luce nonpiccola da questo studio gettata su la poesia dell’Angio-lieri, e dalla partizione, che anch’egli adotta, dei sonettiin amorosi, invettivi, burleschi e umoristici, si può pre-

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vedere facilmente che non si discosterà di moltodall’opinione del primo illustratore.

Ora, le ragioni che il D’Ancona adduceva in quel suostudio per dimostrare il carattere umoristico dell’arte an-giolieresca, si possono citar qui per disteso, non essendopoi molte; e giacchè pare che esse abbiano ancora moltopeso e molto valore, non sarà forse inutile ch’io mi pro-vi a riconfutarle, prima di venire a parlare dell’edizionecritica del sig. Massèra.

II.

«Prima di tutto – scrive il d’Ancona, – ritrovo nel no-stro Cecco quel che d’individuo, anzi di subbiettivo, chein massimo grado è proprio alla poesia umoristica. Inciò l’umorista non diverge molto, è vero, dal poeta liricoin generale e in special modo dall’erotico; ma l’umoristaha un’abbondanza di particolari, una cura delle minuzie,qualche volta una, a giudicarla astrattamente e a primavista, trivialità e volgarità, a cui non discendono gli altrisuoi maggiori confratelli. Non vi ha certamente nessunaltro fra i poeti, che soglia, come l’umorista, parlar tantoin persona propria, e come lui dire tutto quello che glipassa per la mente o gli si agita nel cuore. Ciò che av-viene al di fuori lo anima meno e meno lo eccita, chenon facciano i minimi accidenti, le più fugaci vicissitu-dini e i fattarelli della sua vita. Che se il lettore, anzichèsentirne fastidio o nausea, prova invece un sentimento

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vedere facilmente che non si discosterà di moltodall’opinione del primo illustratore.

Ora, le ragioni che il D’Ancona adduceva in quel suostudio per dimostrare il carattere umoristico dell’arte an-giolieresca, si possono citar qui per disteso, non essendopoi molte; e giacchè pare che esse abbiano ancora moltopeso e molto valore, non sarà forse inutile ch’io mi pro-vi a riconfutarle, prima di venire a parlare dell’edizionecritica del sig. Massèra.

II.

«Prima di tutto – scrive il d’Ancona, – ritrovo nel no-stro Cecco quel che d’individuo, anzi di subbiettivo, chein massimo grado è proprio alla poesia umoristica. Inciò l’umorista non diverge molto, è vero, dal poeta liricoin generale e in special modo dall’erotico; ma l’umoristaha un’abbondanza di particolari, una cura delle minuzie,qualche volta una, a giudicarla astrattamente e a primavista, trivialità e volgarità, a cui non discendono gli altrisuoi maggiori confratelli. Non vi ha certamente nessunaltro fra i poeti, che soglia, come l’umorista, parlar tantoin persona propria, e come lui dire tutto quello che glipassa per la mente o gli si agita nel cuore. Ciò che av-viene al di fuori lo anima meno e meno lo eccita, chenon facciano i minimi accidenti, le più fugaci vicissitu-dini e i fattarelli della sua vita. Che se il lettore, anzichèsentirne fastidio o nausea, prova invece un sentimento

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di simpatia verso siffatte bizzarre nature di poeti, egli èche nell’apparente tenuità del soggetto trova la profon-dità del sentimento e la gagliarda novità della forma,ben a fondo impressa di nota individuale, e nei casi spe-ciali del cantore riconosce i fatti suoi propri e di tutti gliuomini, la verità cioè e la realtà della vita comune. Cosìè del nostro Cecco: leggendo le sue rime capricciosa-mente malinconiche, la impressione che ne abbiamo dicolpo non ci lascia riflettere se quel dolore poteva evi-tarsi colla prudenza e colla vita più regolata: se egli fu,come avrebbe dovuto, seguendo religione e morale,buon figlio e uomo castigato e dabbene, o il contrarioprecisamente; ma quand’anche si riconosca che l’amorsuo fu fremito dei sensi e le sue consuetudini più datreccone che da gentiluomo, non possiamo però distrug-gere la prima benevola impressione, e il senso di pietàche involontario in noi si è manifestato. È inutile chetentiamo di scacciarlo: eppur concedendo quanto si devealle leggi supreme della vita e del vero, gli accenti dellamusa di Cecco ci ripiomban sul cuore. È uno sventuratoche piange, e se anch’egli stesso è principale autore deisuoi guai, noi ci sentiamo uomini, e come uomini com-mossi alle sue sventure. Nè queste sono poche e lievi;perchè ognuno capisce che non consistono soltanto nelnon aver danari da scialacquare e nel non tener la Bec-china a sua posta; ma anche nel sentirsi nobile e trovarsinel fango, nell’esser nato ai più dolci affetti e invanocercarli nelle mura domestiche, e procacciarseli soppiat-ti e mal sicuri; nel confondere insieme, come in un ghi-

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di simpatia verso siffatte bizzarre nature di poeti, egli èche nell’apparente tenuità del soggetto trova la profon-dità del sentimento e la gagliarda novità della forma,ben a fondo impressa di nota individuale, e nei casi spe-ciali del cantore riconosce i fatti suoi propri e di tutti gliuomini, la verità cioè e la realtà della vita comune. Cosìè del nostro Cecco: leggendo le sue rime capricciosa-mente malinconiche, la impressione che ne abbiamo dicolpo non ci lascia riflettere se quel dolore poteva evi-tarsi colla prudenza e colla vita più regolata: se egli fu,come avrebbe dovuto, seguendo religione e morale,buon figlio e uomo castigato e dabbene, o il contrarioprecisamente; ma quand’anche si riconosca che l’amorsuo fu fremito dei sensi e le sue consuetudini più datreccone che da gentiluomo, non possiamo però distrug-gere la prima benevola impressione, e il senso di pietàche involontario in noi si è manifestato. È inutile chetentiamo di scacciarlo: eppur concedendo quanto si devealle leggi supreme della vita e del vero, gli accenti dellamusa di Cecco ci ripiomban sul cuore. È uno sventuratoche piange, e se anch’egli stesso è principale autore deisuoi guai, noi ci sentiamo uomini, e come uomini com-mossi alle sue sventure. Nè queste sono poche e lievi;perchè ognuno capisce che non consistono soltanto nelnon aver danari da scialacquare e nel non tener la Bec-china a sua posta; ma anche nel sentirsi nobile e trovarsinel fango, nell’esser nato ai più dolci affetti e invanocercarli nelle mura domestiche, e procacciarseli soppiat-ti e mal sicuri; nel confondere insieme, come in un ghi-

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gno ed una smorfia, il riso ed il pianto. Ed è appunto inquest’ultima mischianza degli elementi più opposti fraloro, che rinveniamo nella poesia del nostro una dellequalità speciali dell’umorista: che se per gli altri il dolo-re si manifesta col pianto, e col riso l’allegrezza, perl’umorista il cuore lieto ha spesso per segno esterno unalacrima lenta ed amara, e la profonda mestizia del cuoresi scioglie per lui come dice il Giusti, in riso, e sia puredi quello che non passa alla midolla. Questa difformità,questo contrasto genera appunto la vaghezza della poe-sia umoristica lieta, leggera, spensierata al di fuori; main se stessa grave, trista, profonda e che, come pur diceil toscano poeta, par sorriso ed è dolore. L’impressioneche veramente reca in altri la poesia umoristica è la tri-stezza, o a dir meglio la malinconia: quando invece, os-serva il Richter, la poesia greca e la classica in generaleinduce nell’animo la serenità. E nella sua giocondità, nelsuo lepore o nel suo riso, malinconico è veramente ilnostro Angiolieri: anzi si può dire che egli sia il primofra gli antichi poeti volgari che abbia fatto uso di questaparola malinconia tanto moderna, tanto modificata amorale significazione del senso materiale che ha nel la-tino di Cicerone e di Plinio. E chi non penetra l’intimovalore di essa, quando nel fondo delle sventure, ei sorgea gridare:

Malinconia perciò non mi daraggioAnzi m’allegrerò del mio tormento?24

24 Nell’ediz. del Massera questi due versi, che appartengono al s. LXXII,

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gno ed una smorfia, il riso ed il pianto. Ed è appunto inquest’ultima mischianza degli elementi più opposti fraloro, che rinveniamo nella poesia del nostro una dellequalità speciali dell’umorista: che se per gli altri il dolo-re si manifesta col pianto, e col riso l’allegrezza, perl’umorista il cuore lieto ha spesso per segno esterno unalacrima lenta ed amara, e la profonda mestizia del cuoresi scioglie per lui come dice il Giusti, in riso, e sia puredi quello che non passa alla midolla. Questa difformità,questo contrasto genera appunto la vaghezza della poe-sia umoristica lieta, leggera, spensierata al di fuori; main se stessa grave, trista, profonda e che, come pur diceil toscano poeta, par sorriso ed è dolore. L’impressioneche veramente reca in altri la poesia umoristica è la tri-stezza, o a dir meglio la malinconia: quando invece, os-serva il Richter, la poesia greca e la classica in generaleinduce nell’animo la serenità. E nella sua giocondità, nelsuo lepore o nel suo riso, malinconico è veramente ilnostro Angiolieri: anzi si può dire che egli sia il primofra gli antichi poeti volgari che abbia fatto uso di questaparola malinconia tanto moderna, tanto modificata amorale significazione del senso materiale che ha nel la-tino di Cicerone e di Plinio. E chi non penetra l’intimovalore di essa, quando nel fondo delle sventure, ei sorgea gridare:

Malinconia perciò non mi daraggioAnzi m’allegrerò del mio tormento?24

24 Nell’ediz. del Massera questi due versi, che appartengono al s. LXXII,

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o quando riconosce vano ogni sforzo a sottrarsene:

Caro mi costa la malinconiaChe, per fuggirla, son renduto a fareL’arte sgraziata dell’usurareLa qual consuma la persona mia.25

Altrove si propone di non più lasciarsene possedere,deliberando:

Di lasciar la natura lavorareE di guardarmi, s’io il potrò fareChe non m’accolga più malinconia.26

Eppure egli ne è per modo sotto l’impero, che farebbepietà ai nemici:

La mia malinconia è tanta e tale.Ch’io non discredo che s’egli il sapesseUn che mi fosse nemico mortaleChe di me di pietate non piangesse.27

Ma ogni sforzo è inutile: ed egli deve concludere conquesto verso singhiozzante:

Con gran malinconia io sempre sto.»28

suonano così:Però malinconia non prenderaggio,anzi m’allegrò del mi’ tormento.

25 s. LXVII, v. 1 - 4.26 s. XLIV, v 4 - 6.27 s. XI, v. 1 - 4.28 s. LXIX, v. 1. Il Massèra legge:

Con gran malinconia sempre istò.

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o quando riconosce vano ogni sforzo a sottrarsene:

Caro mi costa la malinconiaChe, per fuggirla, son renduto a fareL’arte sgraziata dell’usurareLa qual consuma la persona mia.25

Altrove si propone di non più lasciarsene possedere,deliberando:

Di lasciar la natura lavorareE di guardarmi, s’io il potrò fareChe non m’accolga più malinconia.26

Eppure egli ne è per modo sotto l’impero, che farebbepietà ai nemici:

La mia malinconia è tanta e tale.Ch’io non discredo che s’egli il sapesseUn che mi fosse nemico mortaleChe di me di pietate non piangesse.27

Ma ogni sforzo è inutile: ed egli deve concludere conquesto verso singhiozzante:

Con gran malinconia io sempre sto.»28

suonano così:Però malinconia non prenderaggio,anzi m’allegrò del mi’ tormento.

25 s. LXVII, v. 1 - 4.26 s. XLIV, v 4 - 6.27 s. XI, v. 1 - 4.28 s. LXIX, v. 1. Il Massèra legge:

Con gran malinconia sempre istò.

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III.

Confesso che leggendo la prima volta queste parole,mi parve di trovarmi in una corte di giustizia nell’idealrepubblica delle lettere, e d’assistere alla calorosa, elo-quente, drammatica difesa d’un bravo e vecchio avvoca-to il quale, caso affatto nuovo, avesse lui stesso accusatoil suo difeso, e ora, nel punto culminante della mozionedegli affetti, se lo tirasse su, dal fondo dell’ignominia incui egli stesso l’aveva gittato, con frasi d’effetto comequeste: «Gli accenti della musa di Cecco ci ripiombansul cuore... È uno sventurato che piange... Noi ci sentia-mo uomini, e come uomini commossi alle suesventure...».

Ora, codeste frasi – il D’Ancona lo sa meglio di me –non fanno critica. Evidentemente egli si innamorò trop-po del nostro Cecco. E si può intendere fino a un certosegno che il D’Ancona abbia voluto conciliare a lui labenevolenza degli studiosi; ma non è poi lecito scusareun tristo, e sia pur poeta quanto l’Alighieri, col dire:«Compatitelo, è un umorista!».

Dato e non concesso che per la valutazione esteticadebbano tirarsi in ballo i sentimenti organici o interessa-ti, di pietà, di simpatia, di tolleranza, ecc., il D’Anconaavrebbe dovuto, non affermare semplicemente, ma di-mostrare come e da che ognuno possa capire che lesventure di Cecco «non consistono soltanto nel non averdanari da scialacquare e nel non tener la Becchina a sua

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III.

Confesso che leggendo la prima volta queste parole,mi parve di trovarmi in una corte di giustizia nell’idealrepubblica delle lettere, e d’assistere alla calorosa, elo-quente, drammatica difesa d’un bravo e vecchio avvoca-to il quale, caso affatto nuovo, avesse lui stesso accusatoil suo difeso, e ora, nel punto culminante della mozionedegli affetti, se lo tirasse su, dal fondo dell’ignominia incui egli stesso l’aveva gittato, con frasi d’effetto comequeste: «Gli accenti della musa di Cecco ci ripiombansul cuore... È uno sventurato che piange... Noi ci sentia-mo uomini, e come uomini commossi alle suesventure...».

Ora, codeste frasi – il D’Ancona lo sa meglio di me –non fanno critica. Evidentemente egli si innamorò trop-po del nostro Cecco. E si può intendere fino a un certosegno che il D’Ancona abbia voluto conciliare a lui labenevolenza degli studiosi; ma non è poi lecito scusareun tristo, e sia pur poeta quanto l’Alighieri, col dire:«Compatitelo, è un umorista!».

Dato e non concesso che per la valutazione esteticadebbano tirarsi in ballo i sentimenti organici o interessa-ti, di pietà, di simpatia, di tolleranza, ecc., il D’Anconaavrebbe dovuto, non affermare semplicemente, ma di-mostrare come e da che ognuno possa capire che lesventure di Cecco «non consistono soltanto nel non averdanari da scialacquare e nel non tener la Becchina a sua

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posta; ma anche nel sentirsi nobile e trovarsi nel fango,nell’esser nato ai più dolci affetti e invano cercarli nellemura domestiche, e procacciarseli fuori di casa, soppiat-ti e mal sicuri; nel confondere insieme, come in un ghi-gno od una smorfia, il riso ed il pianto».

Nessun poeta più dell’Angiolieri mette a nudo se stes-so; e se veramente egli avesse provato schifo del fangoin cui gli piacque d’affogare, se veramente gli si fossedestato in petto un dolce e nobile affetto, lo avrebbe su-bito manifestato, così come manifesta con vispa o tran-quilla spudoratezza i più laidi vizi, i più turpi sentimen-ti, i più sconci appetiti.

Del resto, quali siano i suoi più dolci affetti dice eglistesso:

Tre cose solamente mi so’ in gradole quali posso non ben ben fornire,cioè la donna, la taverna, e ’l dado:queste mi fanno ’l cuor lieto sentire;29

E la donna che più di tutte gli è in grado (egli ne haamate parecchie parecchie, come canta nel s. LXVII) èBecchina, figliuola – come si sa – d’un «agevol coiaio»,la quale, non ostante che abbia un marito

che le fa peggio c’a lui non fa ’l babbo,

29 s. LXXXVIII, v. 1-4. II ed. Chigiano L. VIII. 305, da cui il signor Mas-sera lo riporta, reca il primo verso così: Tre cose solamente mi son in grado,cioè con una sillaba di più. Il signor M. sa che è forma propria del dialetto se-nese so’ per sono, e intanto, dovendo emendare il verso, fa l’aferesi ’n in luogodell’apocope so’. Il D’A. riporta il verso così:

Tre cose solamente sonmi in grado.

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posta; ma anche nel sentirsi nobile e trovarsi nel fango,nell’esser nato ai più dolci affetti e invano cercarli nellemura domestiche, e procacciarseli fuori di casa, soppiat-ti e mal sicuri; nel confondere insieme, come in un ghi-gno od una smorfia, il riso ed il pianto».

Nessun poeta più dell’Angiolieri mette a nudo se stes-so; e se veramente egli avesse provato schifo del fangoin cui gli piacque d’affogare, se veramente gli si fossedestato in petto un dolce e nobile affetto, lo avrebbe su-bito manifestato, così come manifesta con vispa o tran-quilla spudoratezza i più laidi vizi, i più turpi sentimen-ti, i più sconci appetiti.

Del resto, quali siano i suoi più dolci affetti dice eglistesso:

Tre cose solamente mi so’ in gradole quali posso non ben ben fornire,cioè la donna, la taverna, e ’l dado:queste mi fanno ’l cuor lieto sentire;29

E la donna che più di tutte gli è in grado (egli ne haamate parecchie parecchie, come canta nel s. LXVII) èBecchina, figliuola – come si sa – d’un «agevol coiaio»,la quale, non ostante che abbia un marito

che le fa peggio c’a lui non fa ’l babbo,

29 s. LXXXVIII, v. 1-4. II ed. Chigiano L. VIII. 305, da cui il signor Mas-sera lo riporta, reca il primo verso così: Tre cose solamente mi son in grado,cioè con una sillaba di più. Il signor M. sa che è forma propria del dialetto se-nese so’ per sono, e intanto, dovendo emendare il verso, fa l’aferesi ’n in luogodell’apocope so’. Il D’A. riporta il verso così:

Tre cose solamente sonmi in grado.

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si dà per danaro, e lo dice, a chi le offra di più.Si sente nobile Cecco? Sì, forse di nascita. Ma dove

mai, in tutto il canzoniere, dà a vedere uno anche mini-mo indizio di nobiltà d’animo? Piange la povertà, a cuiil padre lo condanna, ma non perchè essa gl’impedisca ogli ostacoli qualche generosa aspirazione, sì perchè glitoglie di scialacquare, di soddisfare i bassi o turpi desi-deri già così esplicitamente espressi. Se fosse ricco –come spera che sarà un giorno, alla sospirata, anzi im-precata morte del padre – egli vorrebbe di gavazze pa-rer fiorentino (sonetto LXXVII); stare in Siena com’èricchi al Bagno (s. XCIV); e non lascerebbe mai Bec-china, senza la quale, pur avendo fiorini a sacchi e Arci-dosso e Montegiovi in potere, non gli parrebbe

aver tre bagattini;30

il che però non gl’impedirebbe di colmar di ricchezzeanche un tal Lano, ch’egli spudoratamente dichiarad’amare più che nessun uom la vita (CVIII). Del resto,anche senza aver molti denari, confessa che

... s’avvien talor per avventurac’alquanti me ne vegnon uncicati;de’ quali fo si gran manicatura,c’anzi ch’i’ gli abbia son quasi lograti.31

Cecco soffre perchè non trova in casa, fra le mura do-mestiche, i dolci affetti a cui il D’Ancona lo crede nato?Ma se egli non si dimostra mai, mai neppur d’un punto

30 s. XLI.31 s. LXXV, v. 9-12.

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si dà per danaro, e lo dice, a chi le offra di più.Si sente nobile Cecco? Sì, forse di nascita. Ma dove

mai, in tutto il canzoniere, dà a vedere uno anche mini-mo indizio di nobiltà d’animo? Piange la povertà, a cuiil padre lo condanna, ma non perchè essa gl’impedisca ogli ostacoli qualche generosa aspirazione, sì perchè glitoglie di scialacquare, di soddisfare i bassi o turpi desi-deri già così esplicitamente espressi. Se fosse ricco –come spera che sarà un giorno, alla sospirata, anzi im-precata morte del padre – egli vorrebbe di gavazze pa-rer fiorentino (sonetto LXXVII); stare in Siena com’èricchi al Bagno (s. XCIV); e non lascerebbe mai Bec-china, senza la quale, pur avendo fiorini a sacchi e Arci-dosso e Montegiovi in potere, non gli parrebbe

aver tre bagattini;30

il che però non gl’impedirebbe di colmar di ricchezzeanche un tal Lano, ch’egli spudoratamente dichiarad’amare più che nessun uom la vita (CVIII). Del resto,anche senza aver molti denari, confessa che

... s’avvien talor per avventurac’alquanti me ne vegnon uncicati;de’ quali fo si gran manicatura,c’anzi ch’i’ gli abbia son quasi lograti.31

Cecco soffre perchè non trova in casa, fra le mura do-mestiche, i dolci affetti a cui il D’Ancona lo crede nato?Ma se egli non si dimostra mai, mai neppur d’un punto

30 s. XLI.31 s. LXXV, v. 9-12.

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superiore al padre, alla madre, alla moglie, come nean-che a Becchina e a Min Zeppa e a Ciampolino, se nonper il fatto che sa mettere in versi arguti e vivacissimi leproprie turpitudini? Tutte le accuse nefande che scagliacontro i suoi e contro coloro coi quali più o meno ha dafare, riescon mai forse a diventare una scusa per lui?Gavazzatore, Ciampolino? Ma nel s. CXVI dice:

Io feci di me stesso un Ciampolinocredendomi da llui esser amato,ed eravam di du’, un dal meo lato.

Sodomita, Moco? Ma, e lui, Cecco? Basta leggere isonetti per Lano (chiedo venia dello sconcio bisticcioinvolontario) e quelli per un tal ser Corso di Corzano.Avaro, il padre? E magari sarà stato! Ma non bisogna di-menticare che per tutti i figliuoli discoli, scioperati, scia-lacquatori, femminieri, beoni, giocatori, il padre è sem-pre avaro. A buon conto, dal s. XLI si rileva che frateAngiolieri fece di tutto per allontanarlo da Becchina, epossiamo anche pensare che, se egli stringeva la boccaalla punga (cioè, alla borsa), lo faceva per tenere a frenoil figliuolo scapestrato.

Il quale, come si sa, se ne vendica ingiuriandolo intutti i modi: e del can giudeo gli dà, dopo aver litigatocon lui per un fiasco di raspeo (s. XCVI); e lo chiamademonio e fra Gaudente e ladro di Salvagno32 e incojato,

32 Per spiegare quest’ingiuria il M. riporta in nota ciò che il Rajna scrissein Zeitschr. für rom. Phil., II, pp. 251 sg., che cioè questo Salvagno è senzadubbio una persona stessa col Selvain, Servain, ed anche Servein, che si ritrova

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superiore al padre, alla madre, alla moglie, come nean-che a Becchina e a Min Zeppa e a Ciampolino, se nonper il fatto che sa mettere in versi arguti e vivacissimi leproprie turpitudini? Tutte le accuse nefande che scagliacontro i suoi e contro coloro coi quali più o meno ha dafare, riescon mai forse a diventare una scusa per lui?Gavazzatore, Ciampolino? Ma nel s. CXVI dice:

Io feci di me stesso un Ciampolinocredendomi da llui esser amato,ed eravam di du’, un dal meo lato.

Sodomita, Moco? Ma, e lui, Cecco? Basta leggere isonetti per Lano (chiedo venia dello sconcio bisticcioinvolontario) e quelli per un tal ser Corso di Corzano.Avaro, il padre? E magari sarà stato! Ma non bisogna di-menticare che per tutti i figliuoli discoli, scioperati, scia-lacquatori, femminieri, beoni, giocatori, il padre è sem-pre avaro. A buon conto, dal s. XLI si rileva che frateAngiolieri fece di tutto per allontanarlo da Becchina, epossiamo anche pensare che, se egli stringeva la boccaalla punga (cioè, alla borsa), lo faceva per tenere a frenoil figliuolo scapestrato.

Il quale, come si sa, se ne vendica ingiuriandolo intutti i modi: e del can giudeo gli dà, dopo aver litigatocon lui per un fiasco di raspeo (s. XCVI); e lo chiamademonio e fra Gaudente e ladro di Salvagno32 e incojato,

32 Per spiegare quest’ingiuria il M. riporta in nota ciò che il Rajna scrissein Zeitschr. für rom. Phil., II, pp. 251 sg., che cioè questo Salvagno è senzadubbio una persona stessa col Selvain, Servain, ed anche Servein, che si ritrova

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ecc. ecc.; e propone alla morte di prendere un partitocomunale, cioè o d’uccidere lui o d’uccidere il padre(XCIV); ma poi, nel sonetto appresso, dispera che lamorte voglia prender questo partito:

che la morte paur’ à di morire,e s’ella intrasse in lui, i’ so’ sicuroch’ella morrebb’e lu’ faria guarire.

Che uso farebbe del danaro alla morte del padre, giàsappiamo. E quando il padre finalmente muore, e lui nedà a un suo degno compare l’incredibile notizia in unsonetto atroce (Non si disperin quelli de lo ’nferno, XC-VIII), sogna il per totum contabimur orbem:

che sempre vivarò glorificatopuo’ che messer Angiolieri è scoiatoche m’afrigea di state e di verno.

Ma è inutile qui adesso rifare la disamina dei sonetti,che già il D’Ancona fece così bene in quel suo studio.Da che mai potè egli argomentare i dolci affetti a cuiCecco si sentiva nato? Non riconosce forse anch’egliche Cecco può scherzare a suo modo quando canta:

Chi dice che suo padre altro c’onorela lingua gli dovrebbe esser tagliata?33

sonetto, a cui risponde nella mia memoria un canto,di tra il folle tripudio dell’antico carneval fiorentino, il

come ladro di grido in più d’un romanzo francese.33 s. CIV, v. 1-2.

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ecc. ecc.; e propone alla morte di prendere un partitocomunale, cioè o d’uccidere lui o d’uccidere il padre(XCIV); ma poi, nel sonetto appresso, dispera che lamorte voglia prender questo partito:

che la morte paur’ à di morire,e s’ella intrasse in lui, i’ so’ sicuroch’ella morrebb’e lu’ faria guarire.

Che uso farebbe del danaro alla morte del padre, giàsappiamo. E quando il padre finalmente muore, e lui nedà a un suo degno compare l’incredibile notizia in unsonetto atroce (Non si disperin quelli de lo ’nferno, XC-VIII), sogna il per totum contabimur orbem:

che sempre vivarò glorificatopuo’ che messer Angiolieri è scoiatoche m’afrigea di state e di verno.

Ma è inutile qui adesso rifare la disamina dei sonetti,che già il D’Ancona fece così bene in quel suo studio.Da che mai potè egli argomentare i dolci affetti a cuiCecco si sentiva nato? Non riconosce forse anch’egliche Cecco può scherzare a suo modo quando canta:

Chi dice che suo padre altro c’onorela lingua gli dovrebbe esser tagliata?33

sonetto, a cui risponde nella mia memoria un canto,di tra il folle tripudio dell’antico carneval fiorentino, il

come ladro di grido in più d’un romanzo francese.33 s. CIV, v. 1-2.

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canto di messer Battista dell’Ottonaio, araldo della Si-gnoria, il Canto dei giovani che portavano bruno pelpadre:

Chi brama aver di libertà il mantelloCome facemmo noi,Porga l’udire e ’ntenda qual sien poiGli error, gli affanni e servitù di quello.

Venivano talvolta in piazza (allora!) certe crude veri-tà, così tragicamente mascherate, tra le maschere piùsguaiate e più sconce.

Noi pregammo l’inferno e ’l cielo ognoraChe ’l padre ci togliessePerchè più si potesseGodere ed ire a nostra posta fuora.

Che se i sonetti relativi alla famiglia pajono alD’Ancona stesso terreno che scotta, e dal quale non glipar vero di levare i piedi più presto che per lui si possa,sono forse gli altri sonetti un giardino ove spunti qual-che fior di gentilezza? Lasciando la casa orrida, l’orridafamiglia, non caschiamo forse o nel lupanare o nellabettola? Argomenta forse il D’Ancona i dolci affetti diCecco dal frequente uso che l’Angiolieri fa della parolamalinconia e dal contrasto, che gli pare fondamentaledella poesia angiolieresca, tra il riso e il pianto? Ma laparola malinconia in Cecco, se non ha più il senso mate-riale originario che aveva nel latino di Cicerone e di Pli-nio, è pur lontanissima da quella delicata affezione o

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canto di messer Battista dell’Ottonaio, araldo della Si-gnoria, il Canto dei giovani che portavano bruno pelpadre:

Chi brama aver di libertà il mantelloCome facemmo noi,Porga l’udire e ’ntenda qual sien poiGli error, gli affanni e servitù di quello.

Venivano talvolta in piazza (allora!) certe crude veri-tà, così tragicamente mascherate, tra le maschere piùsguaiate e più sconce.

Noi pregammo l’inferno e ’l cielo ognoraChe ’l padre ci togliessePerchè più si potesseGodere ed ire a nostra posta fuora.

Che se i sonetti relativi alla famiglia pajono alD’Ancona stesso terreno che scotta, e dal quale non glipar vero di levare i piedi più presto che per lui si possa,sono forse gli altri sonetti un giardino ove spunti qual-che fior di gentilezza? Lasciando la casa orrida, l’orridafamiglia, non caschiamo forse o nel lupanare o nellabettola? Argomenta forse il D’Ancona i dolci affetti diCecco dal frequente uso che l’Angiolieri fa della parolamalinconia e dal contrasto, che gli pare fondamentaledella poesia angiolieresca, tra il riso e il pianto? Ma laparola malinconia in Cecco, se non ha più il senso mate-riale originario che aveva nel latino di Cicerone e di Pli-nio, è pur lontanissima da quella delicata affezione o

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passion d’animo che intendiamo noi. Malinconia perCecco significa sempre non aver danari da scialacquare;non poter soddisfare con Becchina, che vuol esser paga-ta, le voglie carnali; aspettare invano che il padre vec-chissimo e ricco si muoja,

ed e’ morrà quando ’l mar sarà sicco,si ll’à dio fatto per mio strazio sano!

Quel verso che il D’Ancona chiama singhiozzante eche cita per ultimo a concludere che ogni sforzo che ilpoeta faccia per liberarsi dalla malinconia gli riesce inu-tile:

con gran malinconia sempre istò,

non ha affatto il carattere compendioso, nè il valoreespressivo che il D’Ancona gli vuol dare. È il primoverso d’un sonetto tutto a rime tronche composto daCecco durante una lontananza forzata da Siena, chi saper qual sua nuova bricconata. Quel «sempre» vuol dire«da che sto qui» oltre i confini; tanto vero che se coluial quale si rivolge per ajuto lo farà ribandire in Siena,egli ritornerà lieto,

e parrà un colombo senza feletanto starà di bon core giecchito.

Il contrasto, quello che par sorriso ed è dolore dov’è?Veramente è un voler fare ingiuria a questo verso, natodi squisita, delicata e profonda sentimentalità, il riferirloai sonetti di Cecco. A provare il contrasto, il D’Ancona

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passion d’animo che intendiamo noi. Malinconia perCecco significa sempre non aver danari da scialacquare;non poter soddisfare con Becchina, che vuol esser paga-ta, le voglie carnali; aspettare invano che il padre vec-chissimo e ricco si muoja,

ed e’ morrà quando ’l mar sarà sicco,si ll’à dio fatto per mio strazio sano!

Quel verso che il D’Ancona chiama singhiozzante eche cita per ultimo a concludere che ogni sforzo che ilpoeta faccia per liberarsi dalla malinconia gli riesce inu-tile:

con gran malinconia sempre istò,

non ha affatto il carattere compendioso, nè il valoreespressivo che il D’Ancona gli vuol dare. È il primoverso d’un sonetto tutto a rime tronche composto daCecco durante una lontananza forzata da Siena, chi saper qual sua nuova bricconata. Quel «sempre» vuol dire«da che sto qui» oltre i confini; tanto vero che se coluial quale si rivolge per ajuto lo farà ribandire in Siena,egli ritornerà lieto,

e parrà un colombo senza feletanto starà di bon core giecchito.

Il contrasto, quello che par sorriso ed è dolore dov’è?Veramente è un voler fare ingiuria a questo verso, natodi squisita, delicata e profonda sentimentalità, il riferirloai sonetti di Cecco. A provare il contrasto, il D’Ancona

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cita anche qui due versi, staccandoli da tutto il resto edando loro un valore espressivo che non hanno:

Però malinconia non prenderaggio,anzi m’allegrerò del mi’ tormento.

Come se a questi due versi non seguisse una terzina,che non solo spiega l’apparente contrasto, ma lo distrug-ge affatto. Cecco non prenderà malinconia, anzi s’alle-grerà del suo tormento, perchè ha udito dire a un uomosaggio

che ven un di che vai per più di cento.

E il di sarà quello della morte del padre, che gli per-metterà di far gavazze, come allude nel s. XCI:

Sed i’ credesse vivar un di solopiù di colui che mmi fa vivar tristoassa’ di volte ringrazere’ Cristo...

Questo giorno ha pur da venire: bisognerà aspettarlocon pazienza, perchè

l’uom non può sua ventura prolungarenè far più brieve c’ordinato sia;ond’i’ mi credo tener questa via,di lasciar la natura lavoraree di guardarmi, s’io ’l potrò fareche non m’accolga più malinconia,ch’i’ posso dir che per la mia folliai’ ò perduto assai buon sollazzare.Anche che troppo tardi mi n’avveggio,

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cita anche qui due versi, staccandoli da tutto il resto edando loro un valore espressivo che non hanno:

Però malinconia non prenderaggio,anzi m’allegrerò del mi’ tormento.

Come se a questi due versi non seguisse una terzina,che non solo spiega l’apparente contrasto, ma lo distrug-ge affatto. Cecco non prenderà malinconia, anzi s’alle-grerà del suo tormento, perchè ha udito dire a un uomosaggio

che ven un di che vai per più di cento.

E il di sarà quello della morte del padre, che gli per-metterà di far gavazze, come allude nel s. XCI:

Sed i’ credesse vivar un di solopiù di colui che mmi fa vivar tristoassa’ di volte ringrazere’ Cristo...

Questo giorno ha pur da venire: bisognerà aspettarlocon pazienza, perchè

l’uom non può sua ventura prolungarenè far più brieve c’ordinato sia;ond’i’ mi credo tener questa via,di lasciar la natura lavoraree di guardarmi, s’io ’l potrò fareche non m’accolga più malinconia,ch’i’ posso dir che per la mia folliai’ ò perduto assai buon sollazzare.Anche che troppo tardi mi n’avveggio,

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non lascerò ch’i’ non prenda conforto,c’a far d’un danno due sarebbe peggio.Ond’i’ mi allegro e aspetto buon porto,ta’ cose nascier ciascun giorno veggio,che ’n di di vita (mia) non m’isconforto.34

È chiaro? Sul valore della parola malinconia non èpossibile farsi, come il D’Ancona ha voluto farsi, alcunaillusione. Il tormento di Cecco noi sappiamo bene qualesia, e del suo tormento egli non s’allegra mai, si lo rive-ste d’una forma vivace che per me spesso, ripeto, piùche per intenzione burlesca o satirica proviene dalla suaarguta natura paesana, ed è tutta popolare senese.

Ora, per ritornare a ciò che abbiamo detto più su datoe non concesso che per la valutazione estetica debbanotirarsi in ballo i sentimenti organici o interessati, la pie-tà, la simpatia, ecc., io nego assolutamente che a un’ani-ma nobile e delicata, e sia pur quanto si voglia inchine-vole alla tolleranza, i sonetti di Cecco possano recare lastessa impressione che reca la poesia umoristica, comedice il D’Ancona, cioè la tristezza, o meglio, la malinco-nia. Essi non possono recar altro, invece, che nausea, ri-brezzo, orrore; il che – si badi bene – non toglie nulla alloro pregio artistico, perchè altro è il sentimento dellaforma (il solo che conti nella valutazione estetica), altroil sentimento del contenuto. «A punto perciò» nota acu-tamente il Cesareo35 «il contenuto più gradevole (che

34 Il Massèra vorrebbe mettere in relazione questo sonetto e il precedente,che è il LXVIII, con l’avventura narrata dal Boccaccio nella nov. IV del Dec.

35 Vedi Op. cit. pag. 10.

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non lascerò ch’i’ non prenda conforto,c’a far d’un danno due sarebbe peggio.Ond’i’ mi allegro e aspetto buon porto,ta’ cose nascier ciascun giorno veggio,che ’n di di vita (mia) non m’isconforto.34

È chiaro? Sul valore della parola malinconia non èpossibile farsi, come il D’Ancona ha voluto farsi, alcunaillusione. Il tormento di Cecco noi sappiamo bene qualesia, e del suo tormento egli non s’allegra mai, si lo rive-ste d’una forma vivace che per me spesso, ripeto, piùche per intenzione burlesca o satirica proviene dalla suaarguta natura paesana, ed è tutta popolare senese.

Ora, per ritornare a ciò che abbiamo detto più su datoe non concesso che per la valutazione estetica debbanotirarsi in ballo i sentimenti organici o interessati, la pie-tà, la simpatia, ecc., io nego assolutamente che a un’ani-ma nobile e delicata, e sia pur quanto si voglia inchine-vole alla tolleranza, i sonetti di Cecco possano recare lastessa impressione che reca la poesia umoristica, comedice il D’Ancona, cioè la tristezza, o meglio, la malinco-nia. Essi non possono recar altro, invece, che nausea, ri-brezzo, orrore; il che – si badi bene – non toglie nulla alloro pregio artistico, perchè altro è il sentimento dellaforma (il solo che conti nella valutazione estetica), altroil sentimento del contenuto. «A punto perciò» nota acu-tamente il Cesareo35 «il contenuto più gradevole (che

34 Il Massèra vorrebbe mettere in relazione questo sonetto e il precedente,che è il LXVIII, con l’avventura narrata dal Boccaccio nella nov. IV del Dec.

35 Vedi Op. cit. pag. 10.

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impropriamente da molti è detto «bello fisico»), se maleespresso, dà noja, e il contenuto più ripugnante, se dettobene, reca piacere. Nulla è più uggioso che la primaveranelle rime degli arcadi, e nulla è più attraente che laghiaccia dei traditori nel poema di Dante». Nulla, ag-giungo io, è più stucchevole, più insipido delle rime deipoeti provenzaleggianti; e si spiega benissimo come unostudioso, il quale passi da queste ai sonetti di Cecco An-giolieri, debba subito compiacersi del loro sapore, ancorche troppo agro, e concepire per il poeta una viva sim-patia. Ma non bisogna andare più in là. La simpatia è unsentimento interessato, che toglie la libertà del giudizio.E al D’Ancona gliel’ha tolta tanto, da indurlo a scusareo almeno a tentar di attenuare tutte le trivialità e volgari-tà reali del contenuto della poesia angiolieresca racco-standole a quelle apparenti, se così possono chiamarsi,della vera poesia umoristica, le quali vanno intese espiegate in ben altro modo.

Espongo altrove, nel mio studio su l’Umorismo, ilprocedimento dell’arte umoristica rispetto a quellodell’arte in genere. Mentre questa compone, l’umorismodecompone. L’arte in genere astrae e concentra, cogliecioè e rappresenta così degli individui come delle cose,l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umori-sta che tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda arender troppo ragionevole o almeno troppo coerente lavita. Gli pare che delle cause, delle cause vere che muo-vono spesso questa povera anima umana a gli atti più in-consulti, assolutamente imprevedibili, l’arte in genere

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impropriamente da molti è detto «bello fisico»), se maleespresso, dà noja, e il contenuto più ripugnante, se dettobene, reca piacere. Nulla è più uggioso che la primaveranelle rime degli arcadi, e nulla è più attraente che laghiaccia dei traditori nel poema di Dante». Nulla, ag-giungo io, è più stucchevole, più insipido delle rime deipoeti provenzaleggianti; e si spiega benissimo come unostudioso, il quale passi da queste ai sonetti di Cecco An-giolieri, debba subito compiacersi del loro sapore, ancorche troppo agro, e concepire per il poeta una viva sim-patia. Ma non bisogna andare più in là. La simpatia è unsentimento interessato, che toglie la libertà del giudizio.E al D’Ancona gliel’ha tolta tanto, da indurlo a scusareo almeno a tentar di attenuare tutte le trivialità e volgari-tà reali del contenuto della poesia angiolieresca racco-standole a quelle apparenti, se così possono chiamarsi,della vera poesia umoristica, le quali vanno intese espiegate in ben altro modo.

Espongo altrove, nel mio studio su l’Umorismo, ilprocedimento dell’arte umoristica rispetto a quellodell’arte in genere. Mentre questa compone, l’umorismodecompone. L’arte in genere astrae e concentra, cogliecioè e rappresenta così degli individui come delle cose,l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umori-sta che tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda arender troppo ragionevole o almeno troppo coerente lavita. Gli pare che delle cause, delle cause vere che muo-vono spesso questa povera anima umana a gli atti più in-consulti, assolutamente imprevedibili, l’arte in genere

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non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Perl’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logi-che, così ordinate come nelle nostre comuni opered’arte. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentroquattro, cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva,l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale? E se-condo che domina questa o quella, s’atteggia la nostracoscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella inter-pretazione fittizia di noi medesimi, del nostro essere in-teriore che ignoriamo, perchè non si manifesta maitutt’intero, ma ora in un modo, ora in un altro, comevolgano i casi della vita. La natura senz’ordine almenoapparente, irta di contraddizioni, pare insomma all’umo-rista lontanissima dal congegno ideale delle comuniconcezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibil-mente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. Nel-la realtà vera – come ho detto altrove36 – le azioni chemettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondodi vicende ordinarie, di particolari comuni. Ebbene, gliscrittori in genere non se n’avvalgono, o poco se ne cu-rano, come se queste vicende, questi particolari non ab-biano alcun valore e siano inutili e trascurabili. Ne fa te-soro invece l’umorista. L’oro in natura non si trovaframmisto alla terra? Ebbene, gli scrittori ordinariamen-te buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuo-vi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marcae il loro stemma bene impressi. Ma l’umorista sa che le

36 Vedi il saggio Illustratori, Attori, Traduttori.

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non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Perl’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logi-che, così ordinate come nelle nostre comuni opered’arte. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentroquattro, cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva,l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale? E se-condo che domina questa o quella, s’atteggia la nostracoscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella inter-pretazione fittizia di noi medesimi, del nostro essere in-teriore che ignoriamo, perchè non si manifesta maitutt’intero, ma ora in un modo, ora in un altro, comevolgano i casi della vita. La natura senz’ordine almenoapparente, irta di contraddizioni, pare insomma all’umo-rista lontanissima dal congegno ideale delle comuniconcezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibil-mente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. Nel-la realtà vera – come ho detto altrove36 – le azioni chemettono in rilievo un carattere si stagliano su un fondodi vicende ordinarie, di particolari comuni. Ebbene, gliscrittori in genere non se n’avvalgono, o poco se ne cu-rano, come se queste vicende, questi particolari non ab-biano alcun valore e siano inutili e trascurabili. Ne fa te-soro invece l’umorista. L’oro in natura non si trovaframmisto alla terra? Ebbene, gli scrittori ordinariamen-te buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuo-vi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marcae il loro stemma bene impressi. Ma l’umorista sa che le

36 Vedi il saggio Illustratori, Attori, Traduttori.

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vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialitàdella vita insomma, così varia e complessa, contraddico-no poi aspramente tutte quelle semplificazioni ideali,costringono ad azioni, ispirano pensieri e sentimenticontrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e deicaratteri concepiti dagli scrittori ordinarii. E l’impreve-duto che è nella vita? E l’abisso che è nelle anime? Nonci sentiamo guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasilampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili fi-nanche a noi stessi, come sorti davvero da un’anima di-versa da quella che normalmente ci riconosciamo? Diqui, nell’umorista, tutta quella ricerca dei particolari piùintimi e minuti, che possono anche parer volgari e tri-viali se si raffrontano con le sintesi idealizzatacidell’arte in genere, e quella ricerca dei contrasti e dellecontraddizioni, su cui spesso l’opera sua si fonda, in op-posizione alla coerenza cercata dagli altri; di qui quelche di scomposto, di slegato, di capriccioso, tutte quelledigressioni che si notano nell’opera umoristica, in oppo-sizione al congegno ordinato, alla composizionedell’opera d’arte in genere.

E quei particolari intimi e minuti, quei contrasti, quel-le contraddizioni, quelle digressioni, son frutto dellaspecialissima riflessione umoristica, riflessione che nonsi cela, che non diventa, come nell’artista ordinario, unaforma del sentimento, ma il suo contrario, pur seguendopasso passo il sentimento, come l’ombra segue il corpo.L’artista ordinario bada al corpo solamente; l’umoristabada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che

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vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialitàdella vita insomma, così varia e complessa, contraddico-no poi aspramente tutte quelle semplificazioni ideali,costringono ad azioni, ispirano pensieri e sentimenticontrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e deicaratteri concepiti dagli scrittori ordinarii. E l’impreve-duto che è nella vita? E l’abisso che è nelle anime? Nonci sentiamo guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasilampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili fi-nanche a noi stessi, come sorti davvero da un’anima di-versa da quella che normalmente ci riconosciamo? Diqui, nell’umorista, tutta quella ricerca dei particolari piùintimi e minuti, che possono anche parer volgari e tri-viali se si raffrontano con le sintesi idealizzatacidell’arte in genere, e quella ricerca dei contrasti e dellecontraddizioni, su cui spesso l’opera sua si fonda, in op-posizione alla coerenza cercata dagli altri; di qui quelche di scomposto, di slegato, di capriccioso, tutte quelledigressioni che si notano nell’opera umoristica, in oppo-sizione al congegno ordinato, alla composizionedell’opera d’arte in genere.

E quei particolari intimi e minuti, quei contrasti, quel-le contraddizioni, quelle digressioni, son frutto dellaspecialissima riflessione umoristica, riflessione che nonsi cela, che non diventa, come nell’artista ordinario, unaforma del sentimento, ma il suo contrario, pur seguendopasso passo il sentimento, come l’ombra segue il corpo.L’artista ordinario bada al corpo solamente; l’umoristabada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che

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al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essaora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie alcorpo, che intanto non la calcola e non se ne cura. Maquanto valga un’ombra l’umorista sa bene: il PeterSchlemihl di Chamisso informi.

Che cosa dà valore a tutti questi scherzi di ombra? Unprofondo e sottile sentimento filosofico, pessimistico oscettico, sentimento che si sdoppia e talvolta anche simoltiplica, cosicchè l’umorista, smarrito e perplesso,non sa più da qual parte tenere.

Ora si può dir questo veramente di Cecco Angiolieri?Egli tiene sempre da una parte, e sappiamo purtroppo

che parte sia; e mai nè contrasti nè contraddizioni in lui,come abbiamo dimostrato; e la sua malinconia, determi-nata da cause a noi ben note, non ha nulla che vederecol profondo e sottile sentimento filosofico dell’umori-sta. Restano le volgarità e le trivialità. Che la poesiaumorista sia in massimo grado subiettiva e individuale èun fatto che nessuno può mettere in dubbio; ma, comeben nota il D’Ancona, questa è una subiettività che la-scia appunto nel caso speciale, nel fatto proprio ricono-scere la verità e la realtà della vita comune; è la partico-larità insomma che abbraccia la generalità, un piccolospecchio che riflette grandi cose. Che cosa riflettono ipiccoli specchi di Cecco? Casi speciali, volgari e trivia-li, con cui gli altri uomini, per fortuna, non han da vede-re. Via, l’umorismo è ben altra cosa; l’impressione dimalinconia che reca la poesia umoristica è determinatada ben altre cause. E io non avrei speso certamente su

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al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essaora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie alcorpo, che intanto non la calcola e non se ne cura. Maquanto valga un’ombra l’umorista sa bene: il PeterSchlemihl di Chamisso informi.

Che cosa dà valore a tutti questi scherzi di ombra? Unprofondo e sottile sentimento filosofico, pessimistico oscettico, sentimento che si sdoppia e talvolta anche simoltiplica, cosicchè l’umorista, smarrito e perplesso,non sa più da qual parte tenere.

Ora si può dir questo veramente di Cecco Angiolieri?Egli tiene sempre da una parte, e sappiamo purtroppo

che parte sia; e mai nè contrasti nè contraddizioni in lui,come abbiamo dimostrato; e la sua malinconia, determi-nata da cause a noi ben note, non ha nulla che vederecol profondo e sottile sentimento filosofico dell’umori-sta. Restano le volgarità e le trivialità. Che la poesiaumorista sia in massimo grado subiettiva e individuale èun fatto che nessuno può mettere in dubbio; ma, comeben nota il D’Ancona, questa è una subiettività che la-scia appunto nel caso speciale, nel fatto proprio ricono-scere la verità e la realtà della vita comune; è la partico-larità insomma che abbraccia la generalità, un piccolospecchio che riflette grandi cose. Che cosa riflettono ipiccoli specchi di Cecco? Casi speciali, volgari e trivia-li, con cui gli altri uomini, per fortuna, non han da vede-re. Via, l’umorismo è ben altra cosa; l’impressione dimalinconia che reca la poesia umoristica è determinatada ben altre cause. E io non avrei speso certamente su

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tale argomento tante parole ove non avessi dovuto levar-mi contro l’autorità d’Alessandro D’Ancona.

IV.

L’originalità di Cecco va cercata altrove; va cercatasopra tutto nell’aver egli fatto materia di poesia i casisuoi specialissimi, i suoi più intimi sentimenti, con unasincerità che avventa e offende. È una originalità checosta cara alla buona reputazione. Ci vuol un tristo co-raggio per guadagnarsela. E Cecco l’ha, e l’adopera conuna tranquillità che incute ribrezzo. È infatti un corag-gio che si può avere soltanto per incoscienza; una formadi degenerazione ben nota alla scienza psichiatrica.

Egli non fa mai, per dir così, letteratura (i sonetti chedimostrano una qualche intenzione letteraria si possonocontar su le dita): della sua veramente non comune atti-tudine poetica egli non s’avvale se non per scherzare oper darsi uno sfogo. Naturalmente, efficacissimo riescenello scherzo per la nativa arguzia e la straordinaria vi-vacità con cui sa rendere ogni guizzo dell’immagine co-mica; non meno efficace riesce nello sfogo, poichè ilpudore non trattiene mai nè mai tenta di attenuar mini-mamente la cruda schiettezza. Egli è tutto in predaall’anima istintiva, alla bestia originaria che s’acquattain fondo a tutti noi, ma che noi spesso, se non sempre, enon tutti, riusciamo, bene o male, a tener in freno e a na-scondere.

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tale argomento tante parole ove non avessi dovuto levar-mi contro l’autorità d’Alessandro D’Ancona.

IV.

L’originalità di Cecco va cercata altrove; va cercatasopra tutto nell’aver egli fatto materia di poesia i casisuoi specialissimi, i suoi più intimi sentimenti, con unasincerità che avventa e offende. È una originalità checosta cara alla buona reputazione. Ci vuol un tristo co-raggio per guadagnarsela. E Cecco l’ha, e l’adopera conuna tranquillità che incute ribrezzo. È infatti un corag-gio che si può avere soltanto per incoscienza; una formadi degenerazione ben nota alla scienza psichiatrica.

Egli non fa mai, per dir così, letteratura (i sonetti chedimostrano una qualche intenzione letteraria si possonocontar su le dita): della sua veramente non comune atti-tudine poetica egli non s’avvale se non per scherzare oper darsi uno sfogo. Naturalmente, efficacissimo riescenello scherzo per la nativa arguzia e la straordinaria vi-vacità con cui sa rendere ogni guizzo dell’immagine co-mica; non meno efficace riesce nello sfogo, poichè ilpudore non trattiene mai nè mai tenta di attenuar mini-mamente la cruda schiettezza. Egli è tutto in predaall’anima istintiva, alla bestia originaria che s’acquattain fondo a tutti noi, ma che noi spesso, se non sempre, enon tutti, riusciamo, bene o male, a tener in freno e a na-scondere.

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Cecco nè sa tenerla in freno, nè si cura di nasconder-la. La bestia soffre in lui, e or digrigna i denti e mostrale unghie e urla contro il padre che l’incatena; or levaruggiti come nel sonetto famoso S’i’ fossi foco; or az-zanna e fa strazio dei suoi nemici; ora, spasimando perle brame insoddisfatte, trova espressioni come queste:

andava e ritornava com’un’orsache va arrabbiando e ’l luogo non si ficca

oppure:

la notte come serpe mi trovollo

oppure:

che mmi conven far di chelle dell’orsache per la fame si lecca le dita.

o espressioni di disperato abbandono, come:

Ond’io esser non nato ben vorriaod esser cosa che non si sentisse.

Questo sente, questo canta, con la fissità d’un mania-co. E se n’accorge egli stesso:

Tant’abbo di Becchina novellatoe di mie’ madr’e di babbo e d’Amore,c’una parte del mondo n’ò stancato:però mi vo restare per migliore,che non è si bel giuoco tropp’usatoche non sia rincrescerne all’uditore.37

37 s. LXXXIII, v. 1-6.

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Cecco nè sa tenerla in freno, nè si cura di nasconder-la. La bestia soffre in lui, e or digrigna i denti e mostrale unghie e urla contro il padre che l’incatena; or levaruggiti come nel sonetto famoso S’i’ fossi foco; or az-zanna e fa strazio dei suoi nemici; ora, spasimando perle brame insoddisfatte, trova espressioni come queste:

andava e ritornava com’un’orsache va arrabbiando e ’l luogo non si ficca

oppure:

la notte come serpe mi trovollo

oppure:

che mmi conven far di chelle dell’orsache per la fame si lecca le dita.

o espressioni di disperato abbandono, come:

Ond’io esser non nato ben vorriaod esser cosa che non si sentisse.

Questo sente, questo canta, con la fissità d’un mania-co. E se n’accorge egli stesso:

Tant’abbo di Becchina novellatoe di mie’ madr’e di babbo e d’Amore,c’una parte del mondo n’ò stancato:però mi vo restare per migliore,che non è si bel giuoco tropp’usatoche non sia rincrescerne all’uditore.37

37 s. LXXXIII, v. 1-6.

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Ma non si resta: nello stesso sonetto seguita il belgiuoco: dice che arrabbia di morire nel veder ricco chidovrebbe esser bretto, cioè il padre, e vedendo bretto chidovrebbe gioire, cioè lui. E seguita, seguita per tant’altrisonetti, togliendo pretesto spesso da minuzie miserevoli.E alla poca varietà degli argomenti, nell’angustia moraleopprimente, in cui il poeta sta chiuso e quasi ingabbiato,risponde anche, per necessità, una scarsa varietà negliatteggiamenti del pensiero. Si confrontino, ad esempio, isonetti VIII, XLII, XCII: hanno tutt’e tre lo stesso atteg-giamento e la mossa medesima:

Io potrei così star senz’amorecome la soddomia tollar a Moco,o come Ciampolin gavazzatorepotesse vivar tollendol’ il gioco,o come Min di Pepo accorridores’ardisse di toccar Tan pur un poco,o come Migo, ch’è tutto d’errore,ch’e’ non morisse di caldo di fuoco

dice nel primo; e nell’altro:

Io potrei così disamorarecome veder Ficiecchio da Bolognao l’India maggior di val di Pognao de la vai di Bocchenzan lo mare,o a mie’ posta veder l’ovo sudare,o far villan uom che tema vergogna,o tutto ’nterpetrare ciò c’uom sogna,o cosa fatta poter istornare;

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Ma non si resta: nello stesso sonetto seguita il belgiuoco: dice che arrabbia di morire nel veder ricco chidovrebbe esser bretto, cioè il padre, e vedendo bretto chidovrebbe gioire, cioè lui. E seguita, seguita per tant’altrisonetti, togliendo pretesto spesso da minuzie miserevoli.E alla poca varietà degli argomenti, nell’angustia moraleopprimente, in cui il poeta sta chiuso e quasi ingabbiato,risponde anche, per necessità, una scarsa varietà negliatteggiamenti del pensiero. Si confrontino, ad esempio, isonetti VIII, XLII, XCII: hanno tutt’e tre lo stesso atteg-giamento e la mossa medesima:

Io potrei così star senz’amorecome la soddomia tollar a Moco,o come Ciampolin gavazzatorepotesse vivar tollendol’ il gioco,o come Min di Pepo accorridores’ardisse di toccar Tan pur un poco,o come Migo, ch’è tutto d’errore,ch’e’ non morisse di caldo di fuoco

dice nel primo; e nell’altro:

Io potrei così disamorarecome veder Ficiecchio da Bolognao l’India maggior di val di Pognao de la vai di Bocchenzan lo mare,o a mie’ posta veder l’ovo sudare,o far villan uom che tema vergogna,o tutto ’nterpetrare ciò c’uom sogna,o cosa fatta poter istornare;

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e nel terzo:

I' potre’ anzi ritornare in ierie venir nella grazia di Becchina,o 'l diamante tritar come farina,o veder far misera vita a’ frieri,o ffar la ppancia di messer Min Pieri,o star content’ ad un piè di gallina,o che morisse ma’ della continaque’ ch’è domonio e chiamas’ Angiolieri.

Ma non bisogna domandare a Cecco più di quelloch’egli ci vuole e ci può dare. Già, a domandarglielo, sicorre il rischio ch’egli ci dia del bue, come a Dante Ali-ghieri. Quando la bestia in lui è un po’ queta, del resto, operchè paga in certo qual modo o perchè stracca, ed eglisi trova in tèmpera di scherzare, sempre un po’ mordic-chiando o sgraffiando, s’intende, ci lascia pur godere diqualche comica rappresentazione o di Neri piccolinotornato di Francia o di Buon Martini cascato male nellaputente Magna o di Min Zeppa quand’entra in santo odi quel Meo che si strugge a notte dietro l’uscio di Ghi-tuccia. Ma non gli diamo, per carità, le morbide malin-conie filosofiche d’un poeta umorista!

Quanto alla metrica, è da notare che Cecco sente dav-vero la forma del sonetto. Esso risponde sempre con si-cura franchezza e salda agilità alle intenzioni del poeta,seconda le vispe mosse del pensiero e a tempo le contie-ne. Costantemente osservata è la pausa tra le due quarti-ne e le due mute del componimento; men rigorosamente

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e nel terzo:

I' potre’ anzi ritornare in ierie venir nella grazia di Becchina,o 'l diamante tritar come farina,o veder far misera vita a’ frieri,o ffar la ppancia di messer Min Pieri,o star content’ ad un piè di gallina,o che morisse ma’ della continaque’ ch’è domonio e chiamas’ Angiolieri.

Ma non bisogna domandare a Cecco più di quelloch’egli ci vuole e ci può dare. Già, a domandarglielo, sicorre il rischio ch’egli ci dia del bue, come a Dante Ali-ghieri. Quando la bestia in lui è un po’ queta, del resto, operchè paga in certo qual modo o perchè stracca, ed eglisi trova in tèmpera di scherzare, sempre un po’ mordic-chiando o sgraffiando, s’intende, ci lascia pur godere diqualche comica rappresentazione o di Neri piccolinotornato di Francia o di Buon Martini cascato male nellaputente Magna o di Min Zeppa quand’entra in santo odi quel Meo che si strugge a notte dietro l’uscio di Ghi-tuccia. Ma non gli diamo, per carità, le morbide malin-conie filosofiche d’un poeta umorista!

Quanto alla metrica, è da notare che Cecco sente dav-vero la forma del sonetto. Esso risponde sempre con si-cura franchezza e salda agilità alle intenzioni del poeta,seconda le vispe mosse del pensiero e a tempo le contie-ne. Costantemente osservata è la pausa tra le due quarti-ne e le due mute del componimento; men rigorosamente

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le pause tra l’una e l’altra di queste e l’una e l’altraquartina. Insomma, il freno dell’arte non manca, benchènessuno stento lo tradisca mai; anzi si dimostri sempreprecipuo il carattere di spontaneità. Il componimentoviene giù quasi di getto, nativo nella sua forma e nellasua struttura. Cecco non cerca le rime; s’accontenta fa-cilmente di quelle che gli occorrono in prima; e molte,in verità, son quelle, troppo agevoli, in –ore, in –are, in–ire, in –ato, in –mente; pure talvolta supera con disin-voltura la rima difficile; la compone con felice industria,come, ad esempio, per enclisi nel verso:

ma, veramente come Cristo ’n ciel è38

che rima con S. Michele, candele e cautele; e parimentinel s. CXXI:

gridando li andrebber dietro – dà, dà

che rima con bada e Rada; e nel s. CXXX:

e dimandata sarai: – chi ’l fè’, di’? cchi?

che rima con micchi e impicchi. Anche altre rime inquesto sonetto sono burlescamente composte: vuomi,suomi, puomi, tuomi nelle quartine, e tiemmi, diemmi,soviemmi nelle terzine; burlesco è anche il micchi che sitrova pure in rima nel son. LXXI (da mihi lat.). Altrove,avremmo una rima derivata per tmesi, se si potesse ac-cettare la lezione proposta dal Massera:

38 s. XVII, v. 7.

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le pause tra l’una e l’altra di queste e l’una e l’altraquartina. Insomma, il freno dell’arte non manca, benchènessuno stento lo tradisca mai; anzi si dimostri sempreprecipuo il carattere di spontaneità. Il componimentoviene giù quasi di getto, nativo nella sua forma e nellasua struttura. Cecco non cerca le rime; s’accontenta fa-cilmente di quelle che gli occorrono in prima; e molte,in verità, son quelle, troppo agevoli, in –ore, in –are, in–ire, in –ato, in –mente; pure talvolta supera con disin-voltura la rima difficile; la compone con felice industria,come, ad esempio, per enclisi nel verso:

ma, veramente come Cristo ’n ciel è38

che rima con S. Michele, candele e cautele; e parimentinel s. CXXI:

gridando li andrebber dietro – dà, dà

che rima con bada e Rada; e nel s. CXXX:

e dimandata sarai: – chi ’l fè’, di’? cchi?

che rima con micchi e impicchi. Anche altre rime inquesto sonetto sono burlescamente composte: vuomi,suomi, puomi, tuomi nelle quartine, e tiemmi, diemmi,soviemmi nelle terzine; burlesco è anche il micchi che sitrova pure in rima nel son. LXXI (da mihi lat.). Altrove,avremmo una rima derivata per tmesi, se si potesse ac-cettare la lezione proposta dal Massera:

38 s. XVII, v. 7.

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oi me lassa, ben posso dir ch’immi-ti un turbo39.

ma questa lezione non è accettabile. Il cd. R.2, da cui ilM. ha tratto il sonetto, reca:

oi me lassa, ben posso dir chimmitien turbo...

Il M. con tutta peritanza, com’egli dice, crede che iltien a principio del v. 6 renda inesplicabile tutto intero ilverso; e una parte, la prima sillaba, l’appiccica al chim-mi con cui finisce il verso precedente, chimmiti«ch’immiti» ed emenda l’en rimanente in un. Tuttol’emendamento è arbitrario. In questo sonetto, come inaltri, Cecco sberteggia Min Zeppa, o meglio, lo fa sber-teggiare da una donna, che gli rinfaccia qui la vigliac-cheria. Nei primi due versi la donna domanda a MinZeppa:

Per cotanto ferruzzo, Zeppa, dimmi:se tti facesse fuggir ogne cria?

cioè ogni grido. E tutto il sonetto s’aggira sul fuggirepiù o men precipitoso di Min Zeppa per paura. MinZeppa risponde che ad ogni modo la sua speranza fu benadempiuta. E la donna nei versi 5 e 6, esclama:

oi me lassa, ben posso dir: chi mmitien? turbo, c’al fuggir par, die’, arpia!

39 son. CXIX.

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oi me lassa, ben posso dir ch’immi-ti un turbo39.

ma questa lezione non è accettabile. Il cd. R.2, da cui ilM. ha tratto il sonetto, reca:

oi me lassa, ben posso dir chimmitien turbo...

Il M. con tutta peritanza, com’egli dice, crede che iltien a principio del v. 6 renda inesplicabile tutto intero ilverso; e una parte, la prima sillaba, l’appiccica al chim-mi con cui finisce il verso precedente, chimmiti«ch’immiti» ed emenda l’en rimanente in un. Tuttol’emendamento è arbitrario. In questo sonetto, come inaltri, Cecco sberteggia Min Zeppa, o meglio, lo fa sber-teggiare da una donna, che gli rinfaccia qui la vigliac-cheria. Nei primi due versi la donna domanda a MinZeppa:

Per cotanto ferruzzo, Zeppa, dimmi:se tti facesse fuggir ogne cria?

cioè ogni grido. E tutto il sonetto s’aggira sul fuggirepiù o men precipitoso di Min Zeppa per paura. MinZeppa risponde che ad ogni modo la sua speranza fu benadempiuta. E la donna nei versi 5 e 6, esclama:

oi me lassa, ben posso dir: chi mmitien? turbo, c’al fuggir par, die’, arpia!

39 son. CXIX.

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cioè: – chi mi tiene in braccio? un turbine, che al fuggirepare, dico, arpia. A parte quell’immiti per imiti assoluta-mente inaccettabile, il Massèra avrebbe dovuto badareche le rime dei versi 1, 3, 5, 7 delle quartine e quelle delverso secondo della la e della 2a terzina sono compostetutte allo stesso modo: dimmi, sì mmi, chi mmi, li mmi,fimmi, mi mmi, cioè per mezzo dell’enclitica mmi. Ilpoeta si è intestato a vincere qua una difficoltà, compo-nendo tutto il sonetto con due rime sole in –immi e in –ia tanto nelle quartine quanto nelle terzine, e ci riescemale; altrove, nel s. CXVI,40 ci riesce invece felicemen-te, perchè le rime in –ino e –ato non erano difficili.

Tutto ciò dimostra a ogni modo in Cecco periziad’arte e che la tecnica è divenuta in lui istinto mobile esicuro. Egli, come abbiamo veduto, giuoca con essa.Un’altra dimostrazione la troviamo nei sonetti vivacissi-mi dialogati, nei quali tuttavia le parti son sempre dispo-ste con arte e con misura. Così, ad esempio, nei sonettiXXIII e XLVI il dialogo si svolge a botta e rispostasempre entro lo stesso verso:

Becchina mia! – Cecco, noi ti confesso –ed i’ son tu’– cotesto disdico –

40 Nell’Indice degli schemi metrici in fondo al volume, il Massèra s’è la-sciato sfuggire un errore di stampa. Il s. CXVI è saltato, e invece è attribuita alCXV la particolarità delle stesse rime per le terzine e le quartine. Ma non s’èpoi accorto il M. o ha dimenticato di segnar nell’Indice che il s. CXIX ha lastessa particolarità.

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cioè: – chi mi tiene in braccio? un turbine, che al fuggirepare, dico, arpia. A parte quell’immiti per imiti assoluta-mente inaccettabile, il Massèra avrebbe dovuto badareche le rime dei versi 1, 3, 5, 7 delle quartine e quelle delverso secondo della la e della 2a terzina sono compostetutte allo stesso modo: dimmi, sì mmi, chi mmi, li mmi,fimmi, mi mmi, cioè per mezzo dell’enclitica mmi. Ilpoeta si è intestato a vincere qua una difficoltà, compo-nendo tutto il sonetto con due rime sole in –immi e in –ia tanto nelle quartine quanto nelle terzine, e ci riescemale; altrove, nel s. CXVI,40 ci riesce invece felicemen-te, perchè le rime in –ino e –ato non erano difficili.

Tutto ciò dimostra a ogni modo in Cecco periziad’arte e che la tecnica è divenuta in lui istinto mobile esicuro. Egli, come abbiamo veduto, giuoca con essa.Un’altra dimostrazione la troviamo nei sonetti vivacissi-mi dialogati, nei quali tuttavia le parti son sempre dispo-ste con arte e con misura. Così, ad esempio, nei sonettiXXIII e XLVI il dialogo si svolge a botta e rispostasempre entro lo stesso verso:

Becchina mia! – Cecco, noi ti confesso –ed i’ son tu’– cotesto disdico –

40 Nell’Indice degli schemi metrici in fondo al volume, il Massèra s’è la-sciato sfuggire un errore di stampa. Il s. CXVI è saltato, e invece è attribuita alCXV la particolarità delle stesse rime per le terzine e le quartine. Ma non s’èpoi accorto il M. o ha dimenticato di segnar nell’Indice che il s. CXIX ha lastessa particolarità.

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e così di seguito per tutti gli altri versi; oppure, come nelson. XL, alle persone del dialogo sono assegnati dueversi all’una e due all’altra, nelle quartine, e poi una ter-zina all’una e una terzina all’altra; nel son. LVIII è asse-gnata, invece, una strofa a ciascuna. Notiamo inoltre ilson. XX a versi incatenati, e i due sonetti LXXV e CI,nelle cui quartine, oltre la rima, si ha l’assonanza internaed esterna:

In una ch’e danar mi danno menoanco che pochi me n’entrano ’n mano,son come vin ch’è du part’acqualeno,e son più vil che non fu pro’ Tristano;e ’nfra le genti vo col capo ’n senopiù vergognoso c’un can foretano;e per averne di e notte peno,ciò è in modo che non sia villano.

e nel CI:

Mia madre si m’insegna medicina,la quale m’è crudelmente non sana.

ecc.Ho già citato il son. LXIX a rime tronche, che comin-

cia:

Con gran malinconia sempre istò,si ch’io allegrar niente possomi;

dal quale ultimo verso abbiamo ancora una prova evi-dentissima, se pur n’avessimo bisogno, del fatto che suiproparossitoni in fine di verso la pronuncia poneva un

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e così di seguito per tutti gli altri versi; oppure, come nelson. XL, alle persone del dialogo sono assegnati dueversi all’una e due all’altra, nelle quartine, e poi una ter-zina all’una e una terzina all’altra; nel son. LVIII è asse-gnata, invece, una strofa a ciascuna. Notiamo inoltre ilson. XX a versi incatenati, e i due sonetti LXXV e CI,nelle cui quartine, oltre la rima, si ha l’assonanza internaed esterna:

In una ch’e danar mi danno menoanco che pochi me n’entrano ’n mano,son come vin ch’è du part’acqualeno,e son più vil che non fu pro’ Tristano;e ’nfra le genti vo col capo ’n senopiù vergognoso c’un can foretano;e per averne di e notte peno,ciò è in modo che non sia villano.

e nel CI:

Mia madre si m’insegna medicina,la quale m’è crudelmente non sana.

ecc.Ho già citato il son. LXIX a rime tronche, che comin-

cia:

Con gran malinconia sempre istò,si ch’io allegrar niente possomi;

dal quale ultimo verso abbiamo ancora una prova evi-dentissima, se pur n’avessimo bisogno, del fatto che suiproparossitoni in fine di verso la pronuncia poneva un

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accento, come in latino la musica faceva cadere un tem-po forte. Rimano in questo sonetto con possomi: possotie piacciati. E risulta evidentissimo altresì da tutti i versidi Cecco l’andamento binario, giambico, dell’endecasil-labo, che stabilisce spesso nel verso tesi in contrasto congli accenti tonici. Versi come:

se tti piace di volermi parlareegli è agra cosa ’l disamorarese momento avesse quella che ireme’ mi so cattiveggiar su ’n un lettose degnasse di volerm’ a servente

e tanti e tanti altri, non avrebbero suono di verso, se nonsi martellassero, per così dire, con le percussioni ritmi-che del giambo. Noi adesso, leggendo gli endecasillabiantichi, sentiamo e cogliamo in essi un ritmo molto piùampio e ondeggiante che per gli antichi non avevano.Ce lo prova il fatto di quei versi, che secondo la letturanostra non avrebbero ritmo, e per gli antichi l’avevano,appunto perchè li scandivano altrimenti. Così il verso diCecco, per citarne uno:

e poggiavi si smisuratamente

non aveva di certo per il suo autore il respiro e lo slan-cio che gli diamo oggi noi.

E veniamo adesso all’edizione critica del signor Mas-sèra.

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accento, come in latino la musica faceva cadere un tem-po forte. Rimano in questo sonetto con possomi: possotie piacciati. E risulta evidentissimo altresì da tutti i versidi Cecco l’andamento binario, giambico, dell’endecasil-labo, che stabilisce spesso nel verso tesi in contrasto congli accenti tonici. Versi come:

se tti piace di volermi parlareegli è agra cosa ’l disamorarese momento avesse quella che ireme’ mi so cattiveggiar su ’n un lettose degnasse di volerm’ a servente

e tanti e tanti altri, non avrebbero suono di verso, se nonsi martellassero, per così dire, con le percussioni ritmi-che del giambo. Noi adesso, leggendo gli endecasillabiantichi, sentiamo e cogliamo in essi un ritmo molto piùampio e ondeggiante che per gli antichi non avevano.Ce lo prova il fatto di quei versi, che secondo la letturanostra non avrebbero ritmo, e per gli antichi l’avevano,appunto perchè li scandivano altrimenti. Così il verso diCecco, per citarne uno:

e poggiavi si smisuratamente

non aveva di certo per il suo autore il respiro e lo slan-cio che gli diamo oggi noi.

E veniamo adesso all’edizione critica del signor Mas-sèra.

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V.

Del non avere io mantenuto la promessa di pubblicareundici anni fa i sonetti dell’Angiolieri il signor Massèradice nell’Introduzione che in verità ciò non fu gravedanno per le lettere nostre, dato quel tanto che sul meto-do e sul contenuto del lavoro io avevo fatto pubblica-mente conoscere.

Così credo anch’io, senza voler neppure ammettere inmia scusa che forse, accingendomi all’impresa, studian-do più attentamente i testi, estendendo a mano a mano leindagini, non mi sarei più fondato in ogni punto su la bi-bliografia dell’Angiolieri contenuta nell’Indice stampatoda Carlo e Ludovico Frati delle carte bilancioniane.

Ma, ad ogni modo, il mio metodo, almeno per ciò chesi riferisce alla lingua, alla veste idiomatica dei sonettidi Cecco, non sarebbe stato mai quello seguito nella pre-sente stampa dal signor Massèra. Questo sì, certamente.

Qual è, o quale dovrebbe essere, l’ideale d’una edi-zione critica? Ricostituire il testo su i mss. diligente-mente esaminati in ordine all’età, all’autorità, al conte-nuto e vagliati e raffrontati ecc., per modo che essos’accosti in tutto e per tutto, quanto più sia possibile,all’originale perduto.

Ora, per far questo, bisogna innanzi tutto intendereche un’opera di poesia non si può ricostituire meccani-camente, esteriormente, per addizione d’elementi di cuisi siano anche con la massima diligenza studiati i rap-

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V.

Del non avere io mantenuto la promessa di pubblicareundici anni fa i sonetti dell’Angiolieri il signor Massèradice nell’Introduzione che in verità ciò non fu gravedanno per le lettere nostre, dato quel tanto che sul meto-do e sul contenuto del lavoro io avevo fatto pubblica-mente conoscere.

Così credo anch’io, senza voler neppure ammettere inmia scusa che forse, accingendomi all’impresa, studian-do più attentamente i testi, estendendo a mano a mano leindagini, non mi sarei più fondato in ogni punto su la bi-bliografia dell’Angiolieri contenuta nell’Indice stampatoda Carlo e Ludovico Frati delle carte bilancioniane.

Ma, ad ogni modo, il mio metodo, almeno per ciò chesi riferisce alla lingua, alla veste idiomatica dei sonettidi Cecco, non sarebbe stato mai quello seguito nella pre-sente stampa dal signor Massèra. Questo sì, certamente.

Qual è, o quale dovrebbe essere, l’ideale d’una edi-zione critica? Ricostituire il testo su i mss. diligente-mente esaminati in ordine all’età, all’autorità, al conte-nuto e vagliati e raffrontati ecc., per modo che essos’accosti in tutto e per tutto, quanto più sia possibile,all’originale perduto.

Ora, per far questo, bisogna innanzi tutto intendereche un’opera di poesia non si può ricostituire meccani-camente, esteriormente, per addizione d’elementi di cuisi siano anche con la massima diligenza studiati i rap-

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porti, perchè la combinazione di tante membra sparsenon ha mai creato un corpo vivo; i particolari non hanmai creato l’insieme. Tanto è vero questo che, se ponia-mo uno pratico alquanto dell’arte del disegno e un altroignaro di fronte a una statua, questi, per copiarla, allun-gherà timidamente tante linee, le multiplicherà, si perde-rà nella loro diversità, calcolerà, addizionerà e non con-cluderà nulla; l’altro, invece, d’un solo sguardo, scopriràil senso nascosto dell’opera, la linea che l’ha creata, e inpochi, sicuri e precisi tratti ne riassumerà lo spirito.

L’insieme, insomma, crea il particolare. E dunque, in-nanzi tutto, bisogna aver l’insieme; il che, nel caso no-stro, vuol dire lo spirito del poeta, il sentimento dellesue forme, nel tempo in cui visse, nelle condizioni chegli furono proprie. E ciò non soltanto, si badi, per di-scernere, ove manchi la precisa attribuzione, quali cosesiano propriamente sue, e per il riordinamento dei com-ponimenti, ecc., bensì anche e principalmente per tuttociò che si riferisce alla forma, alla lingua.

Che cosa fanno, invece, in genere, i compilatori diedizioni così dette critiche?

Riconoscono tutti la abituale tendenza negli antichiamanuensi a rivestire delle particolarità fonetiche e mor-fologiche del loro dialetto i testi da essi copiati che fos-sero stati composti originariamente in altro dialetto; ri-conoscono che i mss. sono spessissimo irti di scorrezio-ni d’ogni sorta, per ignoranza o per negligenza dei me-nanti; sbagliati i versi; alterate le rime; storpiate le paro-le; tartassata l’espressione; e riconoscono qua una svista

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porti, perchè la combinazione di tante membra sparsenon ha mai creato un corpo vivo; i particolari non hanmai creato l’insieme. Tanto è vero questo che, se ponia-mo uno pratico alquanto dell’arte del disegno e un altroignaro di fronte a una statua, questi, per copiarla, allun-gherà timidamente tante linee, le multiplicherà, si perde-rà nella loro diversità, calcolerà, addizionerà e non con-cluderà nulla; l’altro, invece, d’un solo sguardo, scopriràil senso nascosto dell’opera, la linea che l’ha creata, e inpochi, sicuri e precisi tratti ne riassumerà lo spirito.

L’insieme, insomma, crea il particolare. E dunque, in-nanzi tutto, bisogna aver l’insieme; il che, nel caso no-stro, vuol dire lo spirito del poeta, il sentimento dellesue forme, nel tempo in cui visse, nelle condizioni chegli furono proprie. E ciò non soltanto, si badi, per di-scernere, ove manchi la precisa attribuzione, quali cosesiano propriamente sue, e per il riordinamento dei com-ponimenti, ecc., bensì anche e principalmente per tuttociò che si riferisce alla forma, alla lingua.

Che cosa fanno, invece, in genere, i compilatori diedizioni così dette critiche?

Riconoscono tutti la abituale tendenza negli antichiamanuensi a rivestire delle particolarità fonetiche e mor-fologiche del loro dialetto i testi da essi copiati che fos-sero stati composti originariamente in altro dialetto; ri-conoscono che i mss. sono spessissimo irti di scorrezio-ni d’ogni sorta, per ignoranza o per negligenza dei me-nanti; sbagliati i versi; alterate le rime; storpiate le paro-le; tartassata l’espressione; e riconoscono qua una svista

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e là un’omissione o un’inversione; e insomma errori emancamenti d’ogni genere; e poi? poi, tranne qualchecorrezioncina, timida anche nei casi più ovvi, non sannodiscostarsene d’un punto; riproducono rigorosamentequei mss., seguono, e se ne vantano, fedelissimamentequegli amanuensi anche nelle loro incostanti abitudiniortografiche; e, quando il materiale si trovi diffuso inpiù codici, tolgono come niente ai loro testi «critica-mente» ricostituiti (!) l’unità fonetica e morfologica41, enon tentano di ripristinare il perduto color vernacolodell’autore neppure nella misura consentita dalle tracceevidenti che di esso per avventura fossero rimaste neicodici.

Il Navone, nella prefazione alle Rime di Folgore daS. G. e di Cene d. l. Chitarra, parlando del dialogo delMonti I poeti dei primi secoli della lingua italiana, acui, com’è noto, diedero materia alcune postille lasciatedal Perticari, dopo aver fatto rilevare gli errori di esse:«In tal modo, – dice, – l’emendamento viene assai so-vente ad accrescere la confusione, e chi se la prende conla negligenza altrui non s’avvede che la negligenzamaggiore è la sua, che senza prendersi il fastidio di rive-dere nei mss. gli errori, se vi fossero stati, del barbaro

41 «Se non che – nota il sig. Massèra nell’Int. al vol. (pg. LIII) – sventura-tamente, 117 soltanto sono i sonetti portati dal cd. chig.: così che per i 21 rima-nenti noi ci vediamo costretti a far capo a mss. che non si trovano nelle stesseprivilegiate condizioni dell’altro testè considerato; ciò che viene a togliere,senza mia colpa, alla presente edizione quell’unità fonetica e morfologica chesarebbe stata sommamente desiderabile.

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e là un’omissione o un’inversione; e insomma errori emancamenti d’ogni genere; e poi? poi, tranne qualchecorrezioncina, timida anche nei casi più ovvi, non sannodiscostarsene d’un punto; riproducono rigorosamentequei mss., seguono, e se ne vantano, fedelissimamentequegli amanuensi anche nelle loro incostanti abitudiniortografiche; e, quando il materiale si trovi diffuso inpiù codici, tolgono come niente ai loro testi «critica-mente» ricostituiti (!) l’unità fonetica e morfologica41, enon tentano di ripristinare il perduto color vernacolodell’autore neppure nella misura consentita dalle tracceevidenti che di esso per avventura fossero rimaste neicodici.

Il Navone, nella prefazione alle Rime di Folgore daS. G. e di Cene d. l. Chitarra, parlando del dialogo delMonti I poeti dei primi secoli della lingua italiana, acui, com’è noto, diedero materia alcune postille lasciatedal Perticari, dopo aver fatto rilevare gli errori di esse:«In tal modo, – dice, – l’emendamento viene assai so-vente ad accrescere la confusione, e chi se la prende conla negligenza altrui non s’avvede che la negligenzamaggiore è la sua, che senza prendersi il fastidio di rive-dere nei mss. gli errori, se vi fossero stati, del barbaro

41 «Se non che – nota il sig. Massèra nell’Int. al vol. (pg. LIII) – sventura-tamente, 117 soltanto sono i sonetti portati dal cd. chig.: così che per i 21 rima-nenti noi ci vediamo costretti a far capo a mss. che non si trovano nelle stesseprivilegiate condizioni dell’altro testè considerato; ciò che viene a togliere,senza mia colpa, alla presente edizione quell’unità fonetica e morfologica chesarebbe stata sommamente desiderabile.

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menante, s’accingeva a correggerli a capriccio, da casasua».

Ora, non si deve certamente nè correggere, nè modifi-care, nè alterare, senza tener sott’occhio i mss.; ma nonsi deve, o meglio, non si dovrebbe neppure aver ritegnoa far ciò che gli antichi amanuensi fecero già, a lor vol-ta, senza il minino scrupolo, e spesso barbaramente;cioè tutte quelle modificazioni e alterazioni e ritraduzio-ni; non già a capriccio, ma con la temperanza e gli ac-corgimenti e la scorta della sana critica, con tutto il cor-redo delle nozioni necessarie, filologiche e storiche, esopratutto – ripeto – secondo l’indole e lo spiritodell’autore e il sentimento delle sue forme. O se no, nonsi parli d’edizioni critiche! O che forse critica vuol direnon esercitare affatto la critica, o usarla solo esterior-mente, a modo di un pazientissimo compilatore di cata-loghi? O che forse la differenza tra una edizione criticae una diplomatica consiste soltanto in ciò, che questa ri-produce tal quale, fotograficamente, un codice; e quella,allo stesso modo o press’a poco, di tanti codici scelti,ordinati e raffrontati, solo quella parte di essi che si rife-risca a questo o a quell’autore e nulla più?

Se così è, se la critica in codeste edizioni non deveavere altro ufficio che questo, non so più proprio che midire. Ma, guardando ai risultati che essa mi dà, così co-stretta a una fedeltà schiava e balorda alla riconosciutaignoranza, al riconosciuto arbitrio degli antichi ama-nuensi, spero che nessuno potrà dirmi che ho torto se

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menante, s’accingeva a correggerli a capriccio, da casasua».

Ora, non si deve certamente nè correggere, nè modifi-care, nè alterare, senza tener sott’occhio i mss.; ma nonsi deve, o meglio, non si dovrebbe neppure aver ritegnoa far ciò che gli antichi amanuensi fecero già, a lor vol-ta, senza il minino scrupolo, e spesso barbaramente;cioè tutte quelle modificazioni e alterazioni e ritraduzio-ni; non già a capriccio, ma con la temperanza e gli ac-corgimenti e la scorta della sana critica, con tutto il cor-redo delle nozioni necessarie, filologiche e storiche, esopratutto – ripeto – secondo l’indole e lo spiritodell’autore e il sentimento delle sue forme. O se no, nonsi parli d’edizioni critiche! O che forse critica vuol direnon esercitare affatto la critica, o usarla solo esterior-mente, a modo di un pazientissimo compilatore di cata-loghi? O che forse la differenza tra una edizione criticae una diplomatica consiste soltanto in ciò, che questa ri-produce tal quale, fotograficamente, un codice; e quella,allo stesso modo o press’a poco, di tanti codici scelti,ordinati e raffrontati, solo quella parte di essi che si rife-risca a questo o a quell’autore e nulla più?

Se così è, se la critica in codeste edizioni non deveavere altro ufficio che questo, non so più proprio che midire. Ma, guardando ai risultati che essa mi dà, così co-stretta a una fedeltà schiava e balorda alla riconosciutaignoranza, al riconosciuto arbitrio degli antichi ama-nuensi, spero che nessuno potrà dirmi che ho torto se

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esclamo: – Povera critica! – da un canto, e dall’altro: –Poveri autori!

Vediamo un po’, infatti, com’è riuscito a costituir cri-ticamente il testo dei sonetti angioliereschi il signorMassèra.

In mancanza d’un unico e compiuto esemplare a cuiattenersi, egli s’è servito di undici mss. che chiama fon-damentali, sia per il quantitativo numerico, sia per laqualità della lezione delle poesie in esso contenute. Ri-conosce, oltre che per il quantitativo numerico, ancheperciò che si riferisce alla lingua, la superiorità del ed.chigiano L. VIII 305 su tutti gli altri mss., non solo per-chè esso proviene dalla Toscana ma anche perchè qua elà traspaiono ancora sotto la trascrizione del menante leforme idiomatiche proprie alle diverse parlate dei singo-li rimatori, sicchè nei 117 sonetti angioliereschi portatida questo ms. «sono parecchie ed evidenti le tracce dellafavella in cui furono certo dettati, che fu la senese». Eb-bene, fa egli uno spoglio fonetico e morfologico del cd.per servirsi poi dei suoni e delle forme senesi, delle trac-ce idiomatiche, almeno nella misura di esse, non alte-rando a capriccio cioè, nè continuamente, ma caso percaso, con la scorta e la testimonianza del materiale stes-so rinvenuto nel codice?

Ci pensa; ma poi gli pare che tal fatica sia da trascu-rare come inutile, perchè ad ogni modo questo spoglio,dice, «per noi che non sappiamo con quanta maggiore ominor fedeltà il chig. stesso riproduca il suo prototipo,non avrebbe valso che a far conoscere meglio la lingua

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esclamo: – Povera critica! – da un canto, e dall’altro: –Poveri autori!

Vediamo un po’, infatti, com’è riuscito a costituir cri-ticamente il testo dei sonetti angioliereschi il signorMassèra.

In mancanza d’un unico e compiuto esemplare a cuiattenersi, egli s’è servito di undici mss. che chiama fon-damentali, sia per il quantitativo numerico, sia per laqualità della lezione delle poesie in esso contenute. Ri-conosce, oltre che per il quantitativo numerico, ancheperciò che si riferisce alla lingua, la superiorità del ed.chigiano L. VIII 305 su tutti gli altri mss., non solo per-chè esso proviene dalla Toscana ma anche perchè qua elà traspaiono ancora sotto la trascrizione del menante leforme idiomatiche proprie alle diverse parlate dei singo-li rimatori, sicchè nei 117 sonetti angioliereschi portatida questo ms. «sono parecchie ed evidenti le tracce dellafavella in cui furono certo dettati, che fu la senese». Eb-bene, fa egli uno spoglio fonetico e morfologico del cd.per servirsi poi dei suoni e delle forme senesi, delle trac-ce idiomatiche, almeno nella misura di esse, non alte-rando a capriccio cioè, nè continuamente, ma caso percaso, con la scorta e la testimonianza del materiale stes-so rinvenuto nel codice?

Ci pensa; ma poi gli pare che tal fatica sia da trascu-rare come inutile, perchè ad ogni modo questo spoglio,dice, «per noi che non sappiamo con quanta maggiore ominor fedeltà il chig. stesso riproduca il suo prototipo,non avrebbe valso che a far conoscere meglio la lingua

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della trascrizione, la quale non si può certo credere intutto e per tutto quella stessa in cui furono composti ori-ginariamente i sonetti di Cecco».

Bella ragione! Ma se noi sappiamo che i sonetti diCecco furono composti nel dialetto senese, se noi sap-piamo che quei dati suoni e quelle date forme sono se-nesi, tanto che in virtù di essi ha acquistato agli occhinostri maggiore autorità il cd. che li contiene, non dob-biamo poi valercene per cercare almeno di accostare ilnostro testo alla forma che dobbiamo presumere origi-naria, o se non tale effettivamente, certo più vicina adessa?

E se, per uno scrupolo sciocco, per una fedeltà fuor diluogo, non vogliamo far questo, che non sarebbe in al-cun modo alterazione arbitraria e capricciosa, ma consi-gliata anzi dalla critica e dalla logica, perchè in fondonon sarebbe altro che un’operazione inversa a quella giàfatta arbitrariamente dal menante; se non vogliamo farquesto, dico, non dovremmo almeno, per serbare l’unitàfonetica e morfologica al testo (che sarebbe – come lostesso signor Massèra crede «sommamente desiderabi-le») toglier via, far sparire quelle poche tracce idiomati-che e render tutto secondo le abitudini fonetiche e mor-fologiche del Cd.? Nossignore; nè l’una cosa, nè l’altra.Il Massèra, ad esempio, trova nel chig. chi I., 2 per qui,chel XXXV, 12 e chello CVI, 10 per quel e quello; che-ste CXXXII, 12 per queste; costione LXII, 14 per que-stione, e le riconosce per forme senesi; riconosce cheaccanto a queste le corrispondenti letterarie in prevalen-

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della trascrizione, la quale non si può certo credere intutto e per tutto quella stessa in cui furono composti ori-ginariamente i sonetti di Cecco».

Bella ragione! Ma se noi sappiamo che i sonetti diCecco furono composti nel dialetto senese, se noi sap-piamo che quei dati suoni e quelle date forme sono se-nesi, tanto che in virtù di essi ha acquistato agli occhinostri maggiore autorità il cd. che li contiene, non dob-biamo poi valercene per cercare almeno di accostare ilnostro testo alla forma che dobbiamo presumere origi-naria, o se non tale effettivamente, certo più vicina adessa?

E se, per uno scrupolo sciocco, per una fedeltà fuor diluogo, non vogliamo far questo, che non sarebbe in al-cun modo alterazione arbitraria e capricciosa, ma consi-gliata anzi dalla critica e dalla logica, perchè in fondonon sarebbe altro che un’operazione inversa a quella giàfatta arbitrariamente dal menante; se non vogliamo farquesto, dico, non dovremmo almeno, per serbare l’unitàfonetica e morfologica al testo (che sarebbe – come lostesso signor Massèra crede «sommamente desiderabi-le») toglier via, far sparire quelle poche tracce idiomati-che e render tutto secondo le abitudini fonetiche e mor-fologiche del Cd.? Nossignore; nè l’una cosa, nè l’altra.Il Massèra, ad esempio, trova nel chig. chi I., 2 per qui,chel XXXV, 12 e chello CVI, 10 per quel e quello; che-ste CXXXII, 12 per queste; costione LXII, 14 per que-stione, e le riconosce per forme senesi; riconosce cheaccanto a queste le corrispondenti letterarie in prevalen-

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za son dovute all’opera degli amanuensi; e lascia quellee non modifica queste. Lo stesso dicasi per le forme: lie’(lei), puo’ puoi (poi), puo’ che e da puo’ (dittongamentoproprio del senese); vènto (vinto) e vencesse LXII, 4 e 9,spento42 in luogo di spinto CXI, 14; elli (egli); gl’infinitiin –are in luogo di –ere: tollare, vivare, èssare, maledi-ciarmi, crèdarmi, diciar, condùciarmi, dispònare; e icondizionali rispondarei, tremarei, credarei, mettarei,andarei, accordarei, trovarei, mozarei, lassarei, torna-re’; le forme del vb. essere, so’, sserò, sserebber, cheegli lascia accanto alle corrispondenti letterarie e qual-che volta anche nello stesso sonetto:

Sed i’ credesse vivar un di solo XCI (1)più di colui che mi fa viver tristo (2)

I’ò un padre si compressionato XCIII (1)ch’e guf’ebber da llu’ la complessione (11)

faccia la forch’e ’npicchisi elli stesso LXXXIX (2)s’egli è al mondo Amor cert’i’ son esso (6)

qual i’ mi so può’ che così de’ andare XXII (9)da poi che rimaner far non ti posso (11)

e ’l diavol m’à di le’ fatto si grosso XLVII (7)perched i’ l’am’e da lie’ si’ odiato (11)

e de la sua mercè colsi quel fiore XXXV (7)42 È da notare che tanto vento quanto spento si trovano in rima; come an-

che in rima troviamo vento in un sonetto di Folgore da S. Gemignano:allora si conosca chi à vento

V. Navone, op. cit., p. XXV e 39. Ma poi nello stesso sonetto troviamovencesse.

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za son dovute all’opera degli amanuensi; e lascia quellee non modifica queste. Lo stesso dicasi per le forme: lie’(lei), puo’ puoi (poi), puo’ che e da puo’ (dittongamentoproprio del senese); vènto (vinto) e vencesse LXII, 4 e 9,spento42 in luogo di spinto CXI, 14; elli (egli); gl’infinitiin –are in luogo di –ere: tollare, vivare, èssare, maledi-ciarmi, crèdarmi, diciar, condùciarmi, dispònare; e icondizionali rispondarei, tremarei, credarei, mettarei,andarei, accordarei, trovarei, mozarei, lassarei, torna-re’; le forme del vb. essere, so’, sserò, sserebber, cheegli lascia accanto alle corrispondenti letterarie e qual-che volta anche nello stesso sonetto:

Sed i’ credesse vivar un di solo XCI (1)più di colui che mi fa viver tristo (2)

I’ò un padre si compressionato XCIII (1)ch’e guf’ebber da llu’ la complessione (11)

faccia la forch’e ’npicchisi elli stesso LXXXIX (2)s’egli è al mondo Amor cert’i’ son esso (6)

qual i’ mi so può’ che così de’ andare XXII (9)da poi che rimaner far non ti posso (11)

e ’l diavol m’à di le’ fatto si grosso XLVII (7)perched i’ l’am’e da lie’ si’ odiato (11)

e de la sua mercè colsi quel fiore XXXV (7)42 È da notare che tanto vento quanto spento si trovano in rima; come an-

che in rima troviamo vento in un sonetto di Folgore da S. Gemignano:allora si conosca chi à vento

V. Navone, op. cit., p. XXV e 39. Ma poi nello stesso sonetto troviamovencesse.

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ma gir mi vo chel fior, ch’i’ò a gioire (12)

Per diciar è da notare che lo troviamo non solo accan-to a dire ma anche a dicer in due versi molto simili:

ch’i seppi tanto tra dicere e ffare XXXV (5)ch’i’ò saputo si diciare e fare LXXIX (10)

e troviamo poi nel son. CXVII, 14 dicier e nel XXX, 8dicierebbe come accanto a conduciarmi LXIII, 5 trovia-mo conduciermi XXXVII, 5: ebbene, neanche in questicasi il Massèra si arrischia di ripristinare la tinta idioma-tica.

Ma quel che egli ha saputo fare per la sommamentedesiderabile unità fonetica o morfologica apparrà chiarodal seguente schema che risulta dallo spoglio del suo te-sto «criticamente» costituito.

VOCALI TONICHEdeo XLVT, 3; Dio XXII, 2; XXV, 3; idio LXXXVII,

4; dde’ XCIII, 8; di’ V, 2; ideo CXVII, 6; die’ LXVI, 12;XLVII, 10; LIX, 12; LXVIII, 1 ecc.; anzi, nello stessosonetto XLVI:

merzé, per deo! – tu vien molto giecchito (3)Die’ te’l perdoni – e cche, non te ne vai? (12)

e qui merzé per deo!, altrove, XXV, 3, merle per dio!meo XXVIII, 3; CXVII, 3; CXXV, 9; mio XXXI, 4,

10; me’ XIII, 8; mi’ XIV, 5; mie’ XI, 7 e ibid. 11 mei, poimiei XIX, 8; accanto a mia IX, 5; XI, 1 mie’ XLIII, 9;

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ma gir mi vo chel fior, ch’i’ò a gioire (12)

Per diciar è da notare che lo troviamo non solo accan-to a dire ma anche a dicer in due versi molto simili:

ch’i seppi tanto tra dicere e ffare XXXV (5)ch’i’ò saputo si diciare e fare LXXIX (10)

e troviamo poi nel son. CXVII, 14 dicier e nel XXX, 8dicierebbe come accanto a conduciarmi LXIII, 5 trovia-mo conduciermi XXXVII, 5: ebbene, neanche in questicasi il Massèra si arrischia di ripristinare la tinta idioma-tica.

Ma quel che egli ha saputo fare per la sommamentedesiderabile unità fonetica o morfologica apparrà chiarodal seguente schema che risulta dallo spoglio del suo te-sto «criticamente» costituito.

VOCALI TONICHEdeo XLVT, 3; Dio XXII, 2; XXV, 3; idio LXXXVII,

4; dde’ XCIII, 8; di’ V, 2; ideo CXVII, 6; die’ LXVI, 12;XLVII, 10; LIX, 12; LXVIII, 1 ecc.; anzi, nello stessosonetto XLVI:

merzé, per deo! – tu vien molto giecchito (3)Die’ te’l perdoni – e cche, non te ne vai? (12)

e qui merzé per deo!, altrove, XXV, 3, merle per dio!meo XXVIII, 3; CXVII, 3; CXXV, 9; mio XXXI, 4,

10; me’ XIII, 8; mi’ XIV, 5; mie’ XI, 7 e ibid. 11 mei, poimiei XIX, 8; accanto a mia IX, 5; XI, 1 mie’ XLIII, 9;

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LXII, 14; LV, 7; anzi in tre sonetti consecutivi, al princi-pio, XCIX, C e CI: Mia madre nel primo, e poi negli al-tri due mie’ madre; nel sonetto CHI troviamo poi al v. 3mia madre, nell’ 11 mie’ madre. Allo stesso modo tro-viamo ora lo mi’ cor XIV, 5; XXIV, 1; ora 7 mie’ cor X,7; ora 7 me’ core XIII, 8; ora 7 meo core XXXV, 2; LUI,4; ora il mio cor LXV, 6.

reo VI, 1; rio LXV, 11; reto XXXVII, 12; rie’ LXX-XII, 11.

lei IV, 12; le’ XLVII, 7; lie’ XLVII, 11.de’ (deve) XXXII, 8; XXXV, 14 e die’ (devi) CXIV,

11.senza LXXXIV, 1 ecc. e sanza L, 10; LVII, 7, ecc.La dittongazione dell’e e dell’o è frequentissima. Non

terrò conto di ven accanto a vien, ten accanto a tien, coraccanto a cuor; voi, voi accanto a vuol, vuoi; mojo ac-canto a muojo, ecc. Noterò che si trova quasi semprefuor, fuori o fuore, fuora e che il M. nel s. LXXIX al v.11 lascia fore che pure è in rima con cuore e muore,mentre altrove (s. IV, 12) in rima con fuore e cuore la-scia more; così similmente truova CXXXIV, 6 e sotto,al v. 11, in rima con nuova lascia trova. Noterò altresì iseguenti casi: uom IV, 14; XIX, 14, ecc.; om XXXI, 2;LXXXV, 5,9 ecc.; on XTV, 2; uon III, 9 e vuom XXVII,7; e nello stesso sonetto:

come fa nel rie’ tempo l’on selvaggio LXXXII, 11ch’i’aggio udito dire a om saggio (13)

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LXII, 14; LV, 7; anzi in tre sonetti consecutivi, al princi-pio, XCIX, C e CI: Mia madre nel primo, e poi negli al-tri due mie’ madre; nel sonetto CHI troviamo poi al v. 3mia madre, nell’ 11 mie’ madre. Allo stesso modo tro-viamo ora lo mi’ cor XIV, 5; XXIV, 1; ora 7 mie’ cor X,7; ora 7 me’ core XIII, 8; ora 7 meo core XXXV, 2; LUI,4; ora il mio cor LXV, 6.

reo VI, 1; rio LXV, 11; reto XXXVII, 12; rie’ LXX-XII, 11.

lei IV, 12; le’ XLVII, 7; lie’ XLVII, 11.de’ (deve) XXXII, 8; XXXV, 14 e die’ (devi) CXIV,

11.senza LXXXIV, 1 ecc. e sanza L, 10; LVII, 7, ecc.La dittongazione dell’e e dell’o è frequentissima. Non

terrò conto di ven accanto a vien, ten accanto a tien, coraccanto a cuor; voi, voi accanto a vuol, vuoi; mojo ac-canto a muojo, ecc. Noterò che si trova quasi semprefuor, fuori o fuore, fuora e che il M. nel s. LXXIX al v.11 lascia fore che pure è in rima con cuore e muore,mentre altrove (s. IV, 12) in rima con fuore e cuore la-scia more; così similmente truova CXXXIV, 6 e sotto,al v. 11, in rima con nuova lascia trova. Noterò altresì iseguenti casi: uom IV, 14; XIX, 14, ecc.; om XXXI, 2;LXXXV, 5,9 ecc.; on XTV, 2; uon III, 9 e vuom XXVII,7; e nello stesso sonetto:

come fa nel rie’ tempo l’on selvaggio LXXXII, 11ch’i’aggio udito dire a om saggio (13)

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E infine penser XXXII, 13 o pensero LXIX, 13 epensiere CXXXVH, 9; manera XLV, 8 e manieraCXVI, 3.

Per altri casi di quella dittongazione propria del sene-se che abbiamo veduto in puo’ (poi), il signor Massera siregola allo stesso modo, cioè lascia senz’altro nel testola forma idiomatica accanto alla corrispondente lettera-ria. Così nel noto s. CXXXII, che rappresenta una scenadel mercato, dove il poeta motteggia i volgari di Tosca-na, troviamo nella «poscia muta» del sonetto dedicataalla parlata senese, fuoron (= furono); altrove troviamofuor (= fur) XXII, 14; LI, 13; CXVIII, 14; ebbene, nean-che questa dittongazione caratteristica è riprodotta sem-pre nel testo, e accanto a fuor troviamo fur, furono ac-canto a fuoron; come accanto a fuora XII, 6; XL, 4;XLIII, 12 ecc.; fora XX, 3; XXIX, 11 ecc.

Noteremo in fine: rispos’ CXVIII, 8 e rispuosi LXI,7; C, 5; scende CXXXV, 5 e sciender LXXXVII, 8;odiendomi LVII, 8 e udendol LVII, 14; abolendo CX, 4e nello stesso s. al v. 14 avendo; dugento CVII, 1 e du-giento XLIX, 14, come afrigiea XCVIII, 8; FiciecchioXLII, 2; ciecierbita CXI, 2.

Aere XIV, 2 e are XXIV, 3 in rima; XLV, 3 non inrima.43

43 Non tengo conto di vinti (venti, num.) XLIX, 13; Gesò L, 8, che forsedeve leggersi Gesò (segue Cristo); cervugia CXXIV, 4; agoro (augurio, inrima) XCVII, 7; Àlena (Elena) XXVIII, 13, perchè non hanno altro riscontronel testo.

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E infine penser XXXII, 13 o pensero LXIX, 13 epensiere CXXXVH, 9; manera XLV, 8 e manieraCXVI, 3.

Per altri casi di quella dittongazione propria del sene-se che abbiamo veduto in puo’ (poi), il signor Massera siregola allo stesso modo, cioè lascia senz’altro nel testola forma idiomatica accanto alla corrispondente lettera-ria. Così nel noto s. CXXXII, che rappresenta una scenadel mercato, dove il poeta motteggia i volgari di Tosca-na, troviamo nella «poscia muta» del sonetto dedicataalla parlata senese, fuoron (= furono); altrove troviamofuor (= fur) XXII, 14; LI, 13; CXVIII, 14; ebbene, nean-che questa dittongazione caratteristica è riprodotta sem-pre nel testo, e accanto a fuor troviamo fur, furono ac-canto a fuoron; come accanto a fuora XII, 6; XL, 4;XLIII, 12 ecc.; fora XX, 3; XXIX, 11 ecc.

Noteremo in fine: rispos’ CXVIII, 8 e rispuosi LXI,7; C, 5; scende CXXXV, 5 e sciender LXXXVII, 8;odiendomi LVII, 8 e udendol LVII, 14; abolendo CX, 4e nello stesso s. al v. 14 avendo; dugento CVII, 1 e du-giento XLIX, 14, come afrigiea XCVIII, 8; FiciecchioXLII, 2; ciecierbita CXI, 2.

Aere XIV, 2 e are XXIV, 3 in rima; XLV, 3 non inrima.43

43 Non tengo conto di vinti (venti, num.) XLIX, 13; Gesò L, 8, che forsedeve leggersi Gesò (segue Cristo); cervugia CXXIV, 4; agoro (augurio, inrima) XCVII, 7; Àlena (Elena) XXVIII, 13, perchè non hanno altro riscontronel testo.

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VOCALI ATONEa) Protoniche:guarire XX, 6,7; XCV, 11 e guerire LI, 10. massari-

zia LXXXIV, 6,10 e masserizia LXXXV, 2;maladetto IV, 1; VI, 9; XCVII, 9 ecc.; maladetta LV,

1;maladisse LXV, 2; maladiciarmi XXXVI, 14; e poi

maledetta LXXXIV, 10 e maledico IX, 7; mercennaroLXX, 12 e marcennaio CXXXI, 1; peggiore XIII, 7;XIX, 5; peggiorare VI, 2 e poi piggiore XXXVII, 11;megliorare XXXVII, 14; CU, 3 e migliorare XVII, 12;segnor VI, 3; segnore XIII, 6; segnori LXXIX, 5; se-gnoria XIV, 3 e signore II, 2; signori LXXIII, 12; signo-ria LVII, 2. Nel sonetto CXXV:

si raccomand’a tte com’a segnore (2)il qual è stat’ un tu’ signor antico (4)

denaro LXXVII, 2 e danaro LXXV, 1; dovesse IX, 9e dovesse LXX, 13; desire LII, 7 e disire LXXXVIII, 8.

volentier LII, 9 e volontier VII, 11; transvolontieriXXIV, 10.

messere XCII, 5; XCVIII, 7 e misser CXXV, 17.lleal L, 7; lealmente XXV, 13; LXII, 13 e liallate CX-

XXVIII, 12.divizia XL, 6; LXXXIV, 7 e dovizia LXXXV, 7;nimico XXIII, 7; nimici CXX, 2 e nemico IX, 9; XI,

3; enemico XVII, 1; opinione XCIII, 9 e upinione XLI,10; oppinione IV, 11 e oppenione II, 13; CX, 1.

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VOCALI ATONEa) Protoniche:guarire XX, 6,7; XCV, 11 e guerire LI, 10. massari-

zia LXXXIV, 6,10 e masserizia LXXXV, 2;maladetto IV, 1; VI, 9; XCVII, 9 ecc.; maladetta LV,

1;maladisse LXV, 2; maladiciarmi XXXVI, 14; e poi

maledetta LXXXIV, 10 e maledico IX, 7; mercennaroLXX, 12 e marcennaio CXXXI, 1; peggiore XIII, 7;XIX, 5; peggiorare VI, 2 e poi piggiore XXXVII, 11;megliorare XXXVII, 14; CU, 3 e migliorare XVII, 12;segnor VI, 3; segnore XIII, 6; segnori LXXIX, 5; se-gnoria XIV, 3 e signore II, 2; signori LXXIII, 12; signo-ria LVII, 2. Nel sonetto CXXV:

si raccomand’a tte com’a segnore (2)il qual è stat’ un tu’ signor antico (4)

denaro LXXVII, 2 e danaro LXXV, 1; dovesse IX, 9e dovesse LXX, 13; desire LII, 7 e disire LXXXVIII, 8.

volentier LII, 9 e volontier VII, 11; transvolontieriXXIV, 10.

messere XCII, 5; XCVIII, 7 e misser CXXV, 17.lleal L, 7; lealmente XXV, 13; LXII, 13 e liallate CX-

XXVIII, 12.divizia XL, 6; LXXXIV, 7 e dovizia LXXXV, 7;nimico XXIII, 7; nimici CXX, 2 e nemico IX, 9; XI,

3; enemico XVII, 1; opinione XCIII, 9 e upinione XLI,10; oppinione IV, 11 e oppenione II, 13; CX, 1.

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bicchiere XXXVI, 13 e becchier XVIII, 8.offesa XIV, 12 e affende CXXXVII, 6.giocato CXVI, 14 e giucar CXV, 8; oblio IV, 4 e ub-

blio XLVII, 8 (ubria XIII, 8 senese, in rima).usura XXXIX, 4; usurare LXVII, 3 e osorrier XCV,

6.La lezione del ms. (chig. LVIII. 305) è losoccieri che

il M. emenda in l’osorrier. Altri esempi di o in luogo diu abbiamo in vitoperato CXIV, 9; CXXII, 8; notrite LX-XIII, 5; ma viceversa giucar CXV, 8; tributato LXIV, 6.

Gaudente LIV, 13; XCV, 8 e Godente XCIII, 14; tau-pino XCIX, 5 e tapino LXXXIX, 5.

Frequente come il condizionale in –arei troviamo ilfuturo in –arò: lassare XXVI, 11; provarò IX, 14; fre-giarò CXXIV, 14; ma anche qui accanto a lassare, la-scerò XLIV, 10; averò, metterò, ecc. ecc.

Da notare la dittongazione dell’e protonica in ritor-niere’ CXXIII, 4; contierie XCIX, 4 e poi in dicierebbeXXX, 8; conciedetti XXXIII, 3; ciecierbita CXI, 2; in-gienerato LXV, 4, ma poi engenerato LXXX, 3.

Parimenti qui non tengo conto di giogante XXIX, 5;accetto (eccetto) XXII, 14; domonio XCII, 8; ndivino(indovino) CXIII, 5; ccentura XCIX, 2; cinquicentoXLI, 4; curata LVI, 5, che non trovano altro riscontronel testo. Come vitoperato citato più su, due volte peròsi trova nel testo mistiere XXXVI, 9; CXXX, 13, e piùvolte pregione LI, 14; CXIII, 11; LXXVII, 3.

b) Postoniche:

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bicchiere XXXVI, 13 e becchier XVIII, 8.offesa XIV, 12 e affende CXXXVII, 6.giocato CXVI, 14 e giucar CXV, 8; oblio IV, 4 e ub-

blio XLVII, 8 (ubria XIII, 8 senese, in rima).usura XXXIX, 4; usurare LXVII, 3 e osorrier XCV,

6.La lezione del ms. (chig. LVIII. 305) è losoccieri che

il M. emenda in l’osorrier. Altri esempi di o in luogo diu abbiamo in vitoperato CXIV, 9; CXXII, 8; notrite LX-XIII, 5; ma viceversa giucar CXV, 8; tributato LXIV, 6.

Gaudente LIV, 13; XCV, 8 e Godente XCIII, 14; tau-pino XCIX, 5 e tapino LXXXIX, 5.

Frequente come il condizionale in –arei troviamo ilfuturo in –arò: lassare XXVI, 11; provarò IX, 14; fre-giarò CXXIV, 14; ma anche qui accanto a lassare, la-scerò XLIV, 10; averò, metterò, ecc. ecc.

Da notare la dittongazione dell’e protonica in ritor-niere’ CXXIII, 4; contierie XCIX, 4 e poi in dicierebbeXXX, 8; conciedetti XXXIII, 3; ciecierbita CXI, 2; in-gienerato LXV, 4, ma poi engenerato LXXX, 3.

Parimenti qui non tengo conto di giogante XXIX, 5;accetto (eccetto) XXII, 14; domonio XCII, 8; ndivino(indovino) CXIII, 5; ccentura XCIX, 2; cinquicentoXLI, 4; curata LVI, 5, che non trovano altro riscontronel testo. Come vitoperato citato più su, due volte peròsi trova nel testo mistiere XXXVI, 9; CXXX, 13, e piùvolte pregione LI, 14; CXIII, 11; LXXVII, 3.

b) Postoniche:

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Abbiamo notato gl’infiniti in ’are in luogo di ’ere:tòllare, vivare, èssare, maladiciarmi, crèdarmi, diciar,condùciarmi, dispònare, accanto a tollere, vivere, esse-re, maladicere, credere, dicer ecc.

Noteremo anche qui nascier XLIV, 13, ma poi nasceXXXVIII, 2; escie CXVII, 8, ma poi esce CVT, 1; cre-scier LXXIV, 5; Pescie (Nicola Pescie) CXXIII, 14; an-goscie X, 3, ma poi fasce LXXX, 5. Accanto a struggeVI, 5 strugie X, 12.

come XLVII, 1 ecc. e como XXVIII, 2; anzi nellostesso sonetto:

como di lei servir molto mi cale X, 11come ne l’acqua bollita fa ’l sale X, 13

ogni XLV, 8 ecc. e ogne XXXVI, 1 ecc.due XLIII, 3; XLIV, 11 e duo XXI, 2.giugiale CVIII, 1; pianeto XXIV, 8; zucar CXXTV, 4;

letta (letti) LXXVII, 11 si trovano una volta sola nel te-sto. Troviamo invece sempre diece per dieci, a dimostra-re con altri esempi la tendenza all’e finale. V. anchegliele (per glielo) nel son. XXIII:

ell’ avrà ’l capo fesso ––chi gliele fenderà?

CONSONANTIll ora rimane, ora si ammollisce in gl: travallato CX-

XXVI, 3; elli XVIII, 3 ecc. ecc., ed egli XI, 2, ecc. ecc.;tollar VIII, 2 accanto a toliar XCIX, 7; tollendol VIII,

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Abbiamo notato gl’infiniti in ’are in luogo di ’ere:tòllare, vivare, èssare, maladiciarmi, crèdarmi, diciar,condùciarmi, dispònare, accanto a tollere, vivere, esse-re, maladicere, credere, dicer ecc.

Noteremo anche qui nascier XLIV, 13, ma poi nasceXXXVIII, 2; escie CXVII, 8, ma poi esce CVT, 1; cre-scier LXXIV, 5; Pescie (Nicola Pescie) CXXIII, 14; an-goscie X, 3, ma poi fasce LXXX, 5. Accanto a struggeVI, 5 strugie X, 12.

come XLVII, 1 ecc. e como XXVIII, 2; anzi nellostesso sonetto:

como di lei servir molto mi cale X, 11come ne l’acqua bollita fa ’l sale X, 13

ogni XLV, 8 ecc. e ogne XXXVI, 1 ecc.due XLIII, 3; XLIV, 11 e duo XXI, 2.giugiale CVIII, 1; pianeto XXIV, 8; zucar CXXTV, 4;

letta (letti) LXXVII, 11 si trovano una volta sola nel te-sto. Troviamo invece sempre diece per dieci, a dimostra-re con altri esempi la tendenza all’e finale. V. anchegliele (per glielo) nel son. XXIII:

ell’ avrà ’l capo fesso ––chi gliele fenderà?

CONSONANTIll ora rimane, ora si ammollisce in gl: travallato CX-

XXVI, 3; elli XVIII, 3 ecc. ecc., ed egli XI, 2, ecc. ecc.;tollar VIII, 2 accanto a toliar XCIX, 7; tollendol VIII,

224

4; tolle CXXXV, 6; dàll (dagli) XCVII, 6; digli XCVIII,11; diverralli CXXXIV, 12; degli XXI, 3; quegli XCV,7.

Esempi frequentissimi di degradazione di dentale sor-da in sonora: servidore XXVIII, 3; accorridore VIII, 5;armadura LXXIII, 3; nodrite ibid. 5; inperadore VII, 11ecc.; ma poi mperator LXXXVI, 7; pietade XI, 4; natu-raltade CVIII, 9; bellade, bontade, ibid. 11 e 13; ma poiumilitate II, 10; liallate CXXXVIII, 12.

Labiale sorda e sonora in v: savere XVII, 5; savesseXXVII, 6; ma poi sapesse XI, 2; fevraio CVIII, 2;all’incontro boce XLVIII, 14.

c palatale in z: merzé XXVI, 2, 10 ecc.; accanto amercé XXXIV, 2, 11, ecc.; perzar LXXIX, 1; dolziCVII, 4 accanto a dolce VIII, 14; dolci CXI, 3; poi Gre-za CXXX, 7 in rima con Veneza, screza, e speza.44

s per z: caresse CXXXVIII, 1; richesse ibid. 7 (luc-chese).

sc in ss: lassar CXXIV, 1; lassarò XXVI, 11; lassareiLXXX, 6; lassim’ CHI, 14; e poi lasciare XLIV, 6; la-sciamo XCIII, 13; lascerò XLIV, 10; lasciato 1,3, ecc.

ci in sci: basciar V, 11; basciasse XXVIII, 11; ba-sciata XXXIV, 11; ma poi baci XLIX, 11; mentre cascio(cacio) CI, 9.

Da notare accanto a sagrato XXX, 6, saramento LII,12.

44 Neanche qui il M. s’è fatta abilità di mutare Veneza in Venezia, screza inscrezia e speza in spezia. E si che nel son. CXXVII troviamo in rima, con me-scianza e sanza, Francia e ciancia.

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4; tolle CXXXV, 6; dàll (dagli) XCVII, 6; digli XCVIII,11; diverralli CXXXIV, 12; degli XXI, 3; quegli XCV,7.

Esempi frequentissimi di degradazione di dentale sor-da in sonora: servidore XXVIII, 3; accorridore VIII, 5;armadura LXXIII, 3; nodrite ibid. 5; inperadore VII, 11ecc.; ma poi mperator LXXXVI, 7; pietade XI, 4; natu-raltade CVIII, 9; bellade, bontade, ibid. 11 e 13; ma poiumilitate II, 10; liallate CXXXVIII, 12.

Labiale sorda e sonora in v: savere XVII, 5; savesseXXVII, 6; ma poi sapesse XI, 2; fevraio CVIII, 2;all’incontro boce XLVIII, 14.

c palatale in z: merzé XXVI, 2, 10 ecc.; accanto amercé XXXIV, 2, 11, ecc.; perzar LXXIX, 1; dolziCVII, 4 accanto a dolce VIII, 14; dolci CXI, 3; poi Gre-za CXXX, 7 in rima con Veneza, screza, e speza.44

s per z: caresse CXXXVIII, 1; richesse ibid. 7 (luc-chese).

sc in ss: lassar CXXIV, 1; lassarò XXVI, 11; lassareiLXXX, 6; lassim’ CHI, 14; e poi lasciare XLIV, 6; la-sciamo XCIII, 13; lascerò XLIV, 10; lasciato 1,3, ecc.

ci in sci: basciar V, 11; basciasse XXVIII, 11; ba-sciata XXXIV, 11; ma poi baci XLIX, 11; mentre cascio(cacio) CI, 9.

Da notare accanto a sagrato XXX, 6, saramento LII,12.

44 Neanche qui il M. s’è fatta abilità di mutare Veneza in Venezia, screza inscrezia e speza in spezia. E si che nel son. CXXVII troviamo in rima, con me-scianza e sanza, Francia e ciancia.

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s per z: ans’ XVII, 13 mentre poi sempre anzi VII, 3,6; XII, 5, ecc. ecc.

r per l: compressionato XCII, 1, ma poi complessioneibid. 11; afrigiea XCVIII, 8, ma poi afflizione IX, 6; pa-rore CVII, 11 accanto a parole XXVIII, 5, ecc.; grolifi-cato XCVIII, 6; viceversa ingiuliato C, 6.

n per l e viceversa: maninconia XCVIII, 12, mentrealtrove sempre malinconia; venen CXXIII, 7 (lat.).

n davanti a l:, in l: nol le (non le) I, 5; IV, 7; XIII, 9; ille’ (in le’) V, 3; nol lo (non lo) XVI, 14; col le (con le)XXX, 9; nol la (non la) XLVII, 1; il lui (in lui) XCV, 10,14; CVII, 12; CXVI, 9; 7 ’l luogo (in luogo) LXI, 4; ‘lloco CXXIII, 11; bel lo (ben lo) XLVII, 1; LXXVII, 10;ma poi: ben li XII, 14; ’n l’amor LIV, 6; non la XXXVI,5; vien la LXV, 9; non lesse LXII, 10.

Notare che nel s. XCV il M. appositamente emenda lalezione del ms. (chig. L. VIII. 305) in llui fondare in illui fondare. E allora?

qui que –: abbiamo veduto che il M. registra comeforme proprie del senese chi (qui), chel, chelle, cheste,costione, e che vi lascia accanto le corrispondenti lette-rarie qui, quel, quella, queste, ecc. Noteremo ora qui,accanto a quela LXI 14; quelo CIII, 14; unque XLVIII,4; qualunque XIX, 8 ecc.; dunque XXXIV, 7, ecc. leforme dunqua XLII, 9; XLIII, 12 e chiunca LXXXI, 14.In Folgore da S. Gemignano troviamo qualunche XXII,7, ed. Navone.

– ario –: ora in –aro ora in –aio: mercennaro LXXH,2 e marcennaio CXXX3, 1; denaro, danaro e danaio,

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s per z: ans’ XVII, 13 mentre poi sempre anzi VII, 3,6; XII, 5, ecc. ecc.

r per l: compressionato XCII, 1, ma poi complessioneibid. 11; afrigiea XCVIII, 8, ma poi afflizione IX, 6; pa-rore CVII, 11 accanto a parole XXVIII, 5, ecc.; grolifi-cato XCVIII, 6; viceversa ingiuliato C, 6.

n per l e viceversa: maninconia XCVIII, 12, mentrealtrove sempre malinconia; venen CXXIII, 7 (lat.).

n davanti a l:, in l: nol le (non le) I, 5; IV, 7; XIII, 9; ille’ (in le’) V, 3; nol lo (non lo) XVI, 14; col le (con le)XXX, 9; nol la (non la) XLVII, 1; il lui (in lui) XCV, 10,14; CVII, 12; CXVI, 9; 7 ’l luogo (in luogo) LXI, 4; ‘lloco CXXIII, 11; bel lo (ben lo) XLVII, 1; LXXVII, 10;ma poi: ben li XII, 14; ’n l’amor LIV, 6; non la XXXVI,5; vien la LXV, 9; non lesse LXII, 10.

Notare che nel s. XCV il M. appositamente emenda lalezione del ms. (chig. L. VIII. 305) in llui fondare in illui fondare. E allora?

qui que –: abbiamo veduto che il M. registra comeforme proprie del senese chi (qui), chel, chelle, cheste,costione, e che vi lascia accanto le corrispondenti lette-rarie qui, quel, quella, queste, ecc. Noteremo ora qui,accanto a quela LXI 14; quelo CIII, 14; unque XLVIII,4; qualunque XIX, 8 ecc.; dunque XXXIV, 7, ecc. leforme dunqua XLII, 9; XLIII, 12 e chiunca LXXXI, 14.In Folgore da S. Gemignano troviamo qualunche XXII,7, ed. Navone.

– ario –: ora in –aro ora in –aio: mercennaro LXXH,2 e marcennaio CXXX3, 1; denaro, danaro e danaio,

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denaio; gennaio, fevraio e necessaro LXXII, 2; contra-ro LXXXH, 4, ecc.

de –: destrutto XXXVIII, 8 accanto a distrutto IV, 1;delicata LXVI, 11 accanto a dilicato XXXIII, 12.

re –: retornar XXTV, 13 accanto a ritornare XCII, 1;recisa LXXXI, 8 accanto a ricide LXXVII, 1; rescossaLXXXI, 3.

in –: engenerato LXXX, 3 accanto a ingieneratoLXV, 4; entervien LXV, 12, poi sempre in. Da notare in-trasse XCV, 10; intrante XLIX, 13, accanto a entrareCXVIII, 7.

ARTICOLIil I,13 ecc. ecc.; ir (segue re) V, 6; el IX, 7 ecc. ecc.;

lo I,11 ecc.; i CXX, 2; e XCIII, 11, ecc.; li V, 11; gliLXVI, 12 (e al v. 14 anzi gli volti, stonatura tanto piùnotevole, in quanto che in tutto il testo troviamo in pre-valenza li per gli).

PRONOMIi’ I, 2 ecc. ecc.; io II, 2 ecc. ecc.; eo VI, 2, 10, 11 ecc.;

e’ LIII, 10; egli VII, 1 ecc.; elli XVIII, 3 ecc.; e’ VII, 14ecc.; gli (= a lui) II, 11 ecc. e li VII, 14 ecc.; li (= a lei,le) X, 4 ecc.; e poi le IV, 7 ecc.; li (= glie) XII, 14;XCVI, 9; ma gliele XXIII, 6; i (= glie) XI, 5; i (= gli)XXXVII, 8 ecc.; quegli XCV, 7 e quelli CVII, 10; chelXXXV, 12; chella CVI, 10; cheste CXXXII, 12; lei IV,12 ecc.; le’ XLVII, 7 ecc.; lie’ XLVII, 11 ecc.; mi VII, 14ecc. ecc., e me (= mi) VII, 14 ecc.; nello stesso son. LX-XXIV mi tene e me franga, me dice, me spiace; mi ne

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denaio; gennaio, fevraio e necessaro LXXII, 2; contra-ro LXXXH, 4, ecc.

de –: destrutto XXXVIII, 8 accanto a distrutto IV, 1;delicata LXVI, 11 accanto a dilicato XXXIII, 12.

re –: retornar XXTV, 13 accanto a ritornare XCII, 1;recisa LXXXI, 8 accanto a ricide LXXVII, 1; rescossaLXXXI, 3.

in –: engenerato LXXX, 3 accanto a ingieneratoLXV, 4; entervien LXV, 12, poi sempre in. Da notare in-trasse XCV, 10; intrante XLIX, 13, accanto a entrareCXVIII, 7.

ARTICOLIil I,13 ecc. ecc.; ir (segue re) V, 6; el IX, 7 ecc. ecc.;

lo I,11 ecc.; i CXX, 2; e XCIII, 11, ecc.; li V, 11; gliLXVI, 12 (e al v. 14 anzi gli volti, stonatura tanto piùnotevole, in quanto che in tutto il testo troviamo in pre-valenza li per gli).

PRONOMIi’ I, 2 ecc. ecc.; io II, 2 ecc. ecc.; eo VI, 2, 10, 11 ecc.;

e’ LIII, 10; egli VII, 1 ecc.; elli XVIII, 3 ecc.; e’ VII, 14ecc.; gli (= a lui) II, 11 ecc. e li VII, 14 ecc.; li (= a lei,le) X, 4 ecc.; e poi le IV, 7 ecc.; li (= glie) XII, 14;XCVI, 9; ma gliele XXIII, 6; i (= glie) XI, 5; i (= gli)XXXVII, 8 ecc.; quegli XCV, 7 e quelli CVII, 10; chelXXXV, 12; chella CVI, 10; cheste CXXXII, 12; lei IV,12 ecc.; le’ XLVII, 7 ecc.; lie’ XLVII, 11 ecc.; mi VII, 14ecc. ecc., e me (= mi) VII, 14 ecc.; nello stesso son. LX-XXIV mi tene e me franga, me dice, me spiace; mi ne

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XLIV, 9 ecc. ecc., accanto a me ne XIII, 3 ecc. ecc.; veCXVII, 14 poi sempre vi; si XVIII, 2,3 ecc. e se CXXX-VI, 7 ecc.; dilettase IV, 3; ogni XLV, 8, ecc. e ogne XX-XVI, 1, ecc.; qualunque XIX, 8 ecc., e chiunca LXXXI,14.

meo XXVIII, 3 ecc.; mio XXXI, 4 ecc.; me’ XIII, 8ecc.; mi’ XIV, 5 ecc.; mie’ X, 7; XI, 7; miei XIX, 8 e meiXI, 11; mia IX, 5 ecc. e mie’ XLIII, 9; tu’ II, 1, ecc. etuo II, 3, 7,14; tuo’ (= tua, ’n tuo’ presenza) CXXX, 12;tuo’ (= tue; tuo’ parole) XXVII, 5, ma poi tue CXXII, 1ecc.; seo CXVII, per suo, ma in rima.

NOMIPoichè preda C, 12 per pietra si trova in rima (altro-

ve, XXXIII, 9, pietra) e per pianeto, come ho detto piùsu, non si trova altro riscontro nel testo, noterò qui sol-tanto la sangue XII, 7 accanto a ’l sangue XXI, 12; diaIII, 5 e la dia LX, 13 in rima; poi ora die, el di XX, 2, diXXI, 11; la fiore XXXIII, 3 accanto a quel fiore XXXV,8; chel fiore ibid. 12; del fior XXXVIII, 2.

VERBINota il Massèra tra le forme più caratteristiche del se-

nese anche quelle del vb. essere so’, sserò, sserebber. Diqueste ultime due abbiamo detto altrove. Inutile ripetereche anche la forma so’ si trova continuamente accanto ason. Del resto lo confessa lo stesso M.

Diciamo di altre forme del vb. essere. Accanto a siaXX, 10 ecc.; sie XXX, 9, ecc., anzi nello stesso son.XXIII, al v. 5 sie, al v. 12 sia. Parimenti nello stesso

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XLIV, 9 ecc. ecc., accanto a me ne XIII, 3 ecc. ecc.; veCXVII, 14 poi sempre vi; si XVIII, 2,3 ecc. e se CXXX-VI, 7 ecc.; dilettase IV, 3; ogni XLV, 8, ecc. e ogne XX-XVI, 1, ecc.; qualunque XIX, 8 ecc., e chiunca LXXXI,14.

meo XXVIII, 3 ecc.; mio XXXI, 4 ecc.; me’ XIII, 8ecc.; mi’ XIV, 5 ecc.; mie’ X, 7; XI, 7; miei XIX, 8 e meiXI, 11; mia IX, 5 ecc. e mie’ XLIII, 9; tu’ II, 1, ecc. etuo II, 3, 7,14; tuo’ (= tua, ’n tuo’ presenza) CXXX, 12;tuo’ (= tue; tuo’ parole) XXVII, 5, ma poi tue CXXII, 1ecc.; seo CXVII, per suo, ma in rima.

NOMIPoichè preda C, 12 per pietra si trova in rima (altro-

ve, XXXIII, 9, pietra) e per pianeto, come ho detto piùsu, non si trova altro riscontro nel testo, noterò qui sol-tanto la sangue XII, 7 accanto a ’l sangue XXI, 12; diaIII, 5 e la dia LX, 13 in rima; poi ora die, el di XX, 2, diXXI, 11; la fiore XXXIII, 3 accanto a quel fiore XXXV,8; chel fiore ibid. 12; del fior XXXVIII, 2.

VERBINota il Massèra tra le forme più caratteristiche del se-

nese anche quelle del vb. essere so’, sserò, sserebber. Diqueste ultime due abbiamo detto altrove. Inutile ripetereche anche la forma so’ si trova continuamente accanto ason. Del resto lo confessa lo stesso M.

Diciamo di altre forme del vb. essere. Accanto a siaXX, 10 ecc.; sie XXX, 9, ecc., anzi nello stesso son.XXIII, al v. 5 sie, al v. 12 sia. Parimenti nello stesso

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son. CXXLX troviamo al v. 10 sien (= siamo), all’11siem, al 14 siam:

che spesse volte sien45 senza tovagliasette siem che mangiarli per iscodellaquando non siam ben unti di sevaglia.

Accanto a sii XXXVI, 6, sie’ (2a pers.) XXVII, 13;XC, 14. Accanto a fosse XIII, 2 ecc., fusse XLIX, 6ecc.; accanto a fosser LXVII, 11 ecc., fosson XCII, 10.Per fora accanto a fuora; fur accanto a fuor; furono ac-canto a fuoron, v. altrove. Accanto a sarebbe XXIV, 9,saria XXXLX, 13, ecc. e seria LXXXVIII, 12; accantoa sarei XLV, 3, seria (1 pers.) CXVIII, 4. Una sol voltafo (= fu) XXVIII, 12, poi sempre fu. La la pers. sing.dell’imperf. cong. esce ora in -e ora in -i, e così abbiamoora i’ fosse LXXXVI, 1, 2, 3, 4, 5, 7, 10, 12 ecc., ora i’fusse LXXXI, 13, ora i’ fossi II, 2; V, 12 ecc., ora i’ fussiCIV, 5; nello stesso son. V:

Ed i’ fossi sicur d’un fiordaliso (12)e no, ch’i’ fosse dal mondo diviso (14)

Parimenti abbiamo: s’io avesse IX, 2, ecc. e i’ avessiXCVI, 9; CI, 12; s’io potesse XXVIII, 1, ecc., e poi i’potessi CIX, 9; s’io devesse IX, 9; i’ toccasse XXIX, 7;i’ ’l’ vedesse XXXI, 2; i’ facesse ibid. 5; i’ pugnasse XL-VITI, 3; eo fesse LXXXI, 7; s’io volesse LXXXII, 8; i’

45 Altri esempi d’uscita in -n in luogo di -m: asciughianci nello stesso son.al v. 13; andian I, 11; eravan CXVI, 3.

229

son. CXXLX troviamo al v. 10 sien (= siamo), all’11siem, al 14 siam:

che spesse volte sien45 senza tovagliasette siem che mangiarli per iscodellaquando non siam ben unti di sevaglia.

Accanto a sii XXXVI, 6, sie’ (2a pers.) XXVII, 13;XC, 14. Accanto a fosse XIII, 2 ecc., fusse XLIX, 6ecc.; accanto a fosser LXVII, 11 ecc., fosson XCII, 10.Per fora accanto a fuora; fur accanto a fuor; furono ac-canto a fuoron, v. altrove. Accanto a sarebbe XXIV, 9,saria XXXLX, 13, ecc. e seria LXXXVIII, 12; accantoa sarei XLV, 3, seria (1 pers.) CXVIII, 4. Una sol voltafo (= fu) XXVIII, 12, poi sempre fu. La la pers. sing.dell’imperf. cong. esce ora in -e ora in -i, e così abbiamoora i’ fosse LXXXVI, 1, 2, 3, 4, 5, 7, 10, 12 ecc., ora i’fusse LXXXI, 13, ora i’ fossi II, 2; V, 12 ecc., ora i’ fussiCIV, 5; nello stesso son. V:

Ed i’ fossi sicur d’un fiordaliso (12)e no, ch’i’ fosse dal mondo diviso (14)

Parimenti abbiamo: s’io avesse IX, 2, ecc. e i’ avessiXCVI, 9; CI, 12; s’io potesse XXVIII, 1, ecc., e poi i’potessi CIX, 9; s’io devesse IX, 9; i’ toccasse XXIX, 7;i’ ’l’ vedesse XXXI, 2; i’ facesse ibid. 5; i’ pugnasse XL-VITI, 3; eo fesse LXXXI, 7; s’io volesse LXXXII, 8; i’

45 Altri esempi d’uscita in -n in luogo di -m: asciughianci nello stesso son.al v. 13; andian I, 11; eravan CXVI, 3.

229

credesse XCI, 1, accanto a s’io prendessi XLVIII, 9;stessi CI, 13 ecc.

In tre soli sonetti troviamo l’uscita in –i della terzapers. sing. dell’imp. cong.:

chè non è cuor che potessi pensare LVII, 5che quel cotal ci venissi alle mani CIV, 10noi non crediam che li potessi avere CIX, 9

altrove l’uscita regolarmente in -e.così pure troviamo, per la la pers. del pres. cong.:

Vedete ben s’i’ debbi avere empiezza XCI, 12

accanto a faccia LX, 6; CVIII, 11; veggia XXIV, 2;oda ibid.:

ch’i’ veggia o cch’i’ oda ricordare

per la 2a pers.:

non me ne poss’ atar – abiet’ il danno XXIII, 14si disse: – Cecco, va, che ssie’ fenduto! XC, 14

ma poi: «che sii ucciso» XXXVI, 6, e ahi XXVI, 6;facci XClV,4; veggi XXXVI,5

per la 3a pers.:

però mi facci Amor ciò che li piace VIII, 9che così piacci a la mia donna amarmi CXXXIII, 13ch’e facci altro c’usato si sia CXX, 11

230

credesse XCI, 1, accanto a s’io prendessi XLVIII, 9;stessi CI, 13 ecc.

In tre soli sonetti troviamo l’uscita in –i della terzapers. sing. dell’imp. cong.:

chè non è cuor che potessi pensare LVII, 5che quel cotal ci venissi alle mani CIV, 10noi non crediam che li potessi avere CIX, 9

altrove l’uscita regolarmente in -e.così pure troviamo, per la la pers. del pres. cong.:

Vedete ben s’i’ debbi avere empiezza XCI, 12

accanto a faccia LX, 6; CVIII, 11; veggia XXIV, 2;oda ibid.:

ch’i’ veggia o cch’i’ oda ricordare

per la 2a pers.:

non me ne poss’ atar – abiet’ il danno XXIII, 14si disse: – Cecco, va, che ssie’ fenduto! XC, 14

ma poi: «che sii ucciso» XXXVI, 6, e ahi XXVI, 6;facci XClV,4; veggi XXXVI,5

per la 3a pers.:

però mi facci Amor ciò che li piace VIII, 9che così piacci a la mia donna amarmi CXXXIII, 13ch’e facci altro c’usato si sia CXX, 11

230

c’aspetto ched e’ muoi a mano a mano LXXXIX, 12non piatti a dio ch’i’ viva niente XXII, 2mal grado n’abbi Amor c’a lle’ mi diene XI, 14.

È da notare che troviamo sempre un’a dopo tutti e seii casi sopra citati; manca forse l’apostrofo: «facci’A»,«piacci’a» ecc.? Perchè altrove abbiamo: faccia XXV,10; possa XXXI, 9; agia XXVII, 7; abbia VII, 9; XX-XIII, 9.

Notiamo inoltre queste forme nell’imp. ind.: sole’LXX, 10; solea CXXI, 4; solia LXXXVII, 2; solevaXVIII, 1; XL, 1; avia CII, 2 e avea LVI, 12; i’ venieXVI, 10; vediemi, dicie’, facien ibid. 2, 3; dicea CX-VIII, 7; parev’ XVIII, 4; facea CXXVII, 4; credev’XXXI, 12; vedea, credea XCIII, 6, 7.

Nel cond.: avre’ XLV, 3; avari’ LXI, 13; averia LX-XXV, 3; avria CXXIII, 6. Parimenti: dare’ I, 6; voreiLXXXIV, 8 e vorrie V, 8; vorrei CVII, 9 e voria LII, 11;ringrazere’ XCI, 3; guardare XXVIII, 7; dire’ XXIX,12; tornere’ XXXI, 3 e torneri’ LII, 9 e tornare’ LII, 9;potrei VI, 2, ecc. e poria XV, 5 ecc. piaceria XXXII,10; serveria LXVI, 6; dovria LXX, 7 e dovrie LXXX-VI, 14; farei XXIV, 14 e faria XCV, 11; C, 11 ecc.

Nel s. LIV al v. 1 debbo (come altrove, XL, 10;XCVI, 12 ecc.) e poi al v. 4 deo.

Nel son. CXXIX, 3 sacci e poi nel seguente CXXX alv. 3 sappi. Nel s. I al v. 14 sacc’io.

Nel son. CXVII, 2 vi dea, altrove sempre dia.

231

c’aspetto ched e’ muoi a mano a mano LXXXIX, 12non piatti a dio ch’i’ viva niente XXII, 2mal grado n’abbi Amor c’a lle’ mi diene XI, 14.

È da notare che troviamo sempre un’a dopo tutti e seii casi sopra citati; manca forse l’apostrofo: «facci’A»,«piacci’a» ecc.? Perchè altrove abbiamo: faccia XXV,10; possa XXXI, 9; agia XXVII, 7; abbia VII, 9; XX-XIII, 9.

Notiamo inoltre queste forme nell’imp. ind.: sole’LXX, 10; solea CXXI, 4; solia LXXXVII, 2; solevaXVIII, 1; XL, 1; avia CII, 2 e avea LVI, 12; i’ venieXVI, 10; vediemi, dicie’, facien ibid. 2, 3; dicea CX-VIII, 7; parev’ XVIII, 4; facea CXXVII, 4; credev’XXXI, 12; vedea, credea XCIII, 6, 7.

Nel cond.: avre’ XLV, 3; avari’ LXI, 13; averia LX-XXV, 3; avria CXXIII, 6. Parimenti: dare’ I, 6; voreiLXXXIV, 8 e vorrie V, 8; vorrei CVII, 9 e voria LII, 11;ringrazere’ XCI, 3; guardare XXVIII, 7; dire’ XXIX,12; tornere’ XXXI, 3 e torneri’ LII, 9 e tornare’ LII, 9;potrei VI, 2, ecc. e poria XV, 5 ecc. piaceria XXXII,10; serveria LXVI, 6; dovria LXX, 7 e dovrie LXXX-VI, 14; farei XXIV, 14 e faria XCV, 11; C, 11 ecc.

Nel s. LIV al v. 1 debbo (come altrove, XL, 10;XCVI, 12 ecc.) e poi al v. 4 deo.

Nel son. CXXIX, 3 sacci e poi nel seguente CXXX alv. 3 sappi. Nel s. I al v. 14 sacc’io.

Nel son. CXVII, 2 vi dea, altrove sempre dia.

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Da notare poteo (potei) XXXV, 11; perio (perii) XVI,9; ma i’sali’ XXXV, 6.

PREPOSIZIONI E CONGIUNZIONIOra in ora en: da notare nella stessa frase: ritornare

in ieri XCII, 1 e retornar enn ieri XXIV, 13. Sempre di;tre sole volte de LXXXVII, 2 e 8; XCI, 6. Che, dipen-dente da comparativo, in ca X, 4; XXV, 5 ecc.

più ne son fuor che gennai’ del fioritopiù son fornito ca ottobre del mosto.

Dato il carattere della poesia angiolieresca, il saporetroppo intimo e autobiografico, quasi sempre senza in-tento veramente e propriamente letterario, il Massèrasuppone che Cecco non procurò mai di riunire i suoi so-netti per salvarli da un oblio che non temeva, e per darloro una maggiore diffusione alla quale non aspirava, eche i sonetti poterono in buon numero sopravvivere egiunger fino a noi per opera di un ristretto circolo dicompagni e d’amici ai quali il poeta dovette esser solitopartecipare le proprie composizioni. Il Massèra insom-ma ritiene che un vero e proprio originale dei sonetti an-gioliereschi forse non si ebbe mai, ma che si ebbero in-vece alcune raccoltine di essi per opera di quegli amici,desiderosi di conservarli per proprio diletto, raccoltinecompilate in varia maniera «o sopra copie di sonetti for-nite dal poeta stesso o pure dietro la sua recitazione im-mediata (ed essere per conseguenza più fedeli al testooriginale) o anche scrivendo a memoria – e quindi non

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Da notare poteo (potei) XXXV, 11; perio (perii) XVI,9; ma i’sali’ XXXV, 6.

PREPOSIZIONI E CONGIUNZIONIOra in ora en: da notare nella stessa frase: ritornare

in ieri XCII, 1 e retornar enn ieri XXIV, 13. Sempre di;tre sole volte de LXXXVII, 2 e 8; XCI, 6. Che, dipen-dente da comparativo, in ca X, 4; XXV, 5 ecc.

più ne son fuor che gennai’ del fioritopiù son fornito ca ottobre del mosto.

Dato il carattere della poesia angiolieresca, il saporetroppo intimo e autobiografico, quasi sempre senza in-tento veramente e propriamente letterario, il Massèrasuppone che Cecco non procurò mai di riunire i suoi so-netti per salvarli da un oblio che non temeva, e per darloro una maggiore diffusione alla quale non aspirava, eche i sonetti poterono in buon numero sopravvivere egiunger fino a noi per opera di un ristretto circolo dicompagni e d’amici ai quali il poeta dovette esser solitopartecipare le proprie composizioni. Il Massèra insom-ma ritiene che un vero e proprio originale dei sonetti an-gioliereschi forse non si ebbe mai, ma che si ebbero in-vece alcune raccoltine di essi per opera di quegli amici,desiderosi di conservarli per proprio diletto, raccoltinecompilate in varia maniera «o sopra copie di sonetti for-nite dal poeta stesso o pure dietro la sua recitazione im-mediata (ed essere per conseguenza più fedeli al testooriginale) o anche scrivendo a memoria – e quindi non

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senza inevitabili inesattezze e alterazioni – poesie cheda breve tempo erano state ascoltate od apprese, ma del-le quali, non ostante la grande loro facilità ad essere ri-tenute, la redazione scritta non rispecchiava più da pertutto la dettatura primitiva e genuina». Ora, si pensi chequeste raccolte furono più volte ricopiate e servirononon solo a trascrizioni, ma pure a imitazioni, e che viag-giarono per l’Italia e che si trasformarono in ciascunodei nuovi passaggi perdendo ogni volta qualche pocodelle native sembianze, e che si alterarono linguistica-mente giungendo in nuovi domini dialettali: non farà piùnessuna meraviglia – conclude il Massèra – la grandissi-ma varietà di forma, di attribuzione, di letture nella qua-le son giunte a noi le cose dell’Angiolieri.

Ebbene? Codeste ipotesi, che il signor Massèra credeche gli possano di servir di scusa, non gli davano inveceun obbligo maggiore di esercitar la critica e di non ac-cettar ciecamente tutte queste varietà di forme e di lettu-re? Se Cecco non procurò mai di riunire da sè i suoi so-netti, questo non vuol dire che non li compose lui, inuna forma sua, e che debbano valer le forme altrui, chegli fanno dire in tanti modi diversi quel che egli dissecertamente in un modo solo, nel suo, ch’era il dialettalesenese. E l’aver egli scritto indubbiamente in dialetto,facilitava di molto il compito del Massera, poichè in tut-ti i dialetti in genere son di gran lunga minori le allotro-pie che per tante ragioni si stabiliscono in una lingua.

Capirei fino a un certo punto, se egli non avesse fattomai alcuna modificazione; ma, nossignore, egli ritradu-

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senza inevitabili inesattezze e alterazioni – poesie cheda breve tempo erano state ascoltate od apprese, ma del-le quali, non ostante la grande loro facilità ad essere ri-tenute, la redazione scritta non rispecchiava più da pertutto la dettatura primitiva e genuina». Ora, si pensi chequeste raccolte furono più volte ricopiate e servirononon solo a trascrizioni, ma pure a imitazioni, e che viag-giarono per l’Italia e che si trasformarono in ciascunodei nuovi passaggi perdendo ogni volta qualche pocodelle native sembianze, e che si alterarono linguistica-mente giungendo in nuovi domini dialettali: non farà piùnessuna meraviglia – conclude il Massèra – la grandissi-ma varietà di forma, di attribuzione, di letture nella qua-le son giunte a noi le cose dell’Angiolieri.

Ebbene? Codeste ipotesi, che il signor Massèra credeche gli possano di servir di scusa, non gli davano inveceun obbligo maggiore di esercitar la critica e di non ac-cettar ciecamente tutte queste varietà di forme e di lettu-re? Se Cecco non procurò mai di riunire da sè i suoi so-netti, questo non vuol dire che non li compose lui, inuna forma sua, e che debbano valer le forme altrui, chegli fanno dire in tanti modi diversi quel che egli dissecertamente in un modo solo, nel suo, ch’era il dialettalesenese. E l’aver egli scritto indubbiamente in dialetto,facilitava di molto il compito del Massera, poichè in tut-ti i dialetti in genere son di gran lunga minori le allotro-pie che per tante ragioni si stabiliscono in una lingua.

Capirei fino a un certo punto, se egli non avesse fattomai alcuna modificazione; ma, nossignore, egli ritradu-

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ce, modifica, adatta dove più dove meno; ne sente in-somma egli stesso l’obbligo e la necessità; ma con qualeesito già s’è veduto.

Quando trae qualche sonetto da altri ms. che non sia-no il chig. L. VIII. 305, egli s’arrischia a raddoppiare al-cune consonanti che il cd. ha scempie: ma non le rad-doppia tutte: alcune sì, e alcune no! Così, p. es. nel son.LXVI tratto da R4 raddoppia le scempie dona, bela,pasi, tropo; ma poi muta vezo multi in vegio molti e la-scia «inamorato». Nel son. seguente, tratto dal Chig. tro-viamo «innamorare» e «aggio».

Ma il cd. chig. stesso non osserva poi sempre le stesseabitudini ortografiche, ed ecco il Massera seguirne tran-quillamente tutti gli ondeggiamenti. È vero bensì, chenon si regola a questo modo lui solo! Nel son. LXVIII,tratto dal Chig., in due versi consecutivi, 8 e 9, troviamo«avrebb’» e «parreb’». Nel son. VI tratto da R4, intanto,da struze fa strugge, e poi, nel son. X, tratto da M2, al v.12 lascia strugie. Nel son. LXV, tratto da R6, raddoppiale scempie maledise, ela, tuto, ma poi lascia agio, e ina-morato; corregge qua «tenpo» in «tempo» e poi altrovelascia «inmollo» LIII, 7, «inpoverito» LVII, 13, «inpro-metto» XXVII, 14, e accanto a «imperadore», «nperado-re»; accanto a «inpicco», «impicchi»; accanto a «enpiez-za» XCI, 12, «empiezza» LV, 6; nel son. XCVIII, trattodal ed. F9, corregge lui «senpiterno» da «sepiterno», eperchè con un n invece di un m, quando nei suoi stessitesti innanzi alla p si muta in m la stessa n: «nom perdo-ni» XCVIII, 4; «im parore» CVIII, 11?

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ce, modifica, adatta dove più dove meno; ne sente in-somma egli stesso l’obbligo e la necessità; ma con qualeesito già s’è veduto.

Quando trae qualche sonetto da altri ms. che non sia-no il chig. L. VIII. 305, egli s’arrischia a raddoppiare al-cune consonanti che il cd. ha scempie: ma non le rad-doppia tutte: alcune sì, e alcune no! Così, p. es. nel son.LXVI tratto da R4 raddoppia le scempie dona, bela,pasi, tropo; ma poi muta vezo multi in vegio molti e la-scia «inamorato». Nel son. seguente, tratto dal Chig. tro-viamo «innamorare» e «aggio».

Ma il cd. chig. stesso non osserva poi sempre le stesseabitudini ortografiche, ed ecco il Massera seguirne tran-quillamente tutti gli ondeggiamenti. È vero bensì, chenon si regola a questo modo lui solo! Nel son. LXVIII,tratto dal Chig., in due versi consecutivi, 8 e 9, troviamo«avrebb’» e «parreb’». Nel son. VI tratto da R4, intanto,da struze fa strugge, e poi, nel son. X, tratto da M2, al v.12 lascia strugie. Nel son. LXV, tratto da R6, raddoppiale scempie maledise, ela, tuto, ma poi lascia agio, e ina-morato; corregge qua «tenpo» in «tempo» e poi altrovelascia «inmollo» LIII, 7, «inpoverito» LVII, 13, «inpro-metto» XXVII, 14, e accanto a «imperadore», «nperado-re»; accanto a «inpicco», «impicchi»; accanto a «enpiez-za» XCI, 12, «empiezza» LV, 6; nel son. XCVIII, trattodal ed. F9, corregge lui «senpiterno» da «sepiterno», eperchè con un n invece di un m, quando nei suoi stessitesti innanzi alla p si muta in m la stessa n: «nom perdo-ni» XCVIII, 4; «im parore» CVIII, 11?

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E che dire di Ciampolino che finanche in uno stessosonetto, nel CXIV, al v. 1 è scritto Ciampolino e al v. 6Cianpolin? Ma più comico ancora è il modo com’è trat-tato il cognome di Dante! Cecco conobbe Dante, anzi ilMassera opina che lo vide e gli parlò a Siena: ebbene, èpresumibile ch’egli non sapesse come sonava veramenteil cognome di lui? Nei son. CXXIV e CXXVI DanteAlighieri e nel son. CXXV Dante Allaghier! Propriocosì.

Ma per il trattamento delle consonanti, ora doppie orascempie, si veda lo spoglio seguente:

1. B: - abbia VII, 9; XXXIII, 2, 9 ecc.; abbi XI, 4ecc.; abbiendo CX, 4; abbiate CXXX, 12, e poi ab’ LX-XXV, 14; abi XXVI, 6; abiet’ XXIII, 14; - ebbi VII, 6;ebb’ LXIII, 3; ebbe LVI, 2 ecc.; ebber XCIII, 11 ed eb’XXXIII, 5; ebe LXV, 11 ecc.; eber CXIII, 7; - potrebbeXI, 6 ecc.; sarebbe XXIV, 9 ecc.; farebbe LII, 7 ecc.;dovrebbe CIV, 2 ecc.; dicierebbe XXX, 8; direbbeXCVI, 14; saprebbe XCII, 10; caprebbe XLIX, 5;avrebbe XIII, 11 ecc.; parrebbe XIII, 12; fornirebbe XC,6; ismaltirebbe XCII, 14; converrebbe XCV, 14; mor-rebbe XCV, 11; rimarrebbe CXX, 7; e poi: potreb’ VII,3 ecc.; sareb’ XVIII, 6; direb’ XXLX, 14; avreb’ XCIII,3; vorebe CX, 5; sentirebe XXXVIII, 12; pareb’ LX-VIII, 9; andrebe CXXI, 14; poi: conobbi XXIII, 12;Bibbia XLIX, 6; debbo LIV, 1 ecc.; debb’ XC, 10 ecc.;debbi XCI, 12; nibbio CXXIV, 7; arrabbiando LXI, 4,contro a abarbagliat’ IV, 13; ubidite XIII, 13; abatterviCXII, 2; abandonate CXV, 9; abondanza LXXIII, 9;

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E che dire di Ciampolino che finanche in uno stessosonetto, nel CXIV, al v. 1 è scritto Ciampolino e al v. 6Cianpolin? Ma più comico ancora è il modo com’è trat-tato il cognome di Dante! Cecco conobbe Dante, anzi ilMassera opina che lo vide e gli parlò a Siena: ebbene, èpresumibile ch’egli non sapesse come sonava veramenteil cognome di lui? Nei son. CXXIV e CXXVI DanteAlighieri e nel son. CXXV Dante Allaghier! Propriocosì.

Ma per il trattamento delle consonanti, ora doppie orascempie, si veda lo spoglio seguente:

1. B: - abbia VII, 9; XXXIII, 2, 9 ecc.; abbi XI, 4ecc.; abbiendo CX, 4; abbiate CXXX, 12, e poi ab’ LX-XXV, 14; abi XXVI, 6; abiet’ XXIII, 14; - ebbi VII, 6;ebb’ LXIII, 3; ebbe LVI, 2 ecc.; ebber XCIII, 11 ed eb’XXXIII, 5; ebe LXV, 11 ecc.; eber CXIII, 7; - potrebbeXI, 6 ecc.; sarebbe XXIV, 9 ecc.; farebbe LII, 7 ecc.;dovrebbe CIV, 2 ecc.; dicierebbe XXX, 8; direbbeXCVI, 14; saprebbe XCII, 10; caprebbe XLIX, 5;avrebbe XIII, 11 ecc.; parrebbe XIII, 12; fornirebbe XC,6; ismaltirebbe XCII, 14; converrebbe XCV, 14; mor-rebbe XCV, 11; rimarrebbe CXX, 7; e poi: potreb’ VII,3 ecc.; sareb’ XVIII, 6; direb’ XXLX, 14; avreb’ XCIII,3; vorebe CX, 5; sentirebe XXXVIII, 12; pareb’ LX-VIII, 9; andrebe CXXI, 14; poi: conobbi XXIII, 12;Bibbia XLIX, 6; debbo LIV, 1 ecc.; debb’ XC, 10 ecc.;debbi XCI, 12; nibbio CXXIV, 7; arrabbiando LXI, 4,contro a abarbagliat’ IV, 13; ubidite XIII, 13; abatterviCXII, 2; abandonate CXV, 9; abondanza LXXIII, 9;

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aboccato LXXVIII, 6; poi: febbre XCV, 8; CI, 6 ecc.;ebbro CXII, 5 e libra XXVII, 1; libre LXXXIV, 2.

2. C: – accorri I, 1 e acorridore VIII, 5; accordareXXIV, 6; accordanza LXVIII, 14 e acordarei XLVIII,10; uccidere LXXXI, 14; e nello stesso son. XCIV:

se ttu uccidi me, i’ ne guadagno (10)e se tt’ ucid’ il ladro di Salvagno (12)

Poi: toccar VIII, 6 ecc.; tocc’ XXIII, 8; tocca LIX, 9;toccasse XXIX, 7; soccorso XVI, 9; secca LVI, 5; seccoLXXXIX, 10; disaccar XC, 13; accorto XCVI, 4; rac-conciare CV, 8; raccomanda CXXV, 2; acciajo XXIX, 2ecc.; giecchito L, 13 ecc.; piacciati LXIX, 8; accettoXXII, 14; agghiacciato LXX, 5; uccel LXXVI, 2; sac-cente LXXII, 13; inpicco, ’npiccare, impicchi, npicca,apiccat’, npicchis’, e poi apicarmi LX, 11; acolgaXLIV, 6; aconciare LXXXV, 1; acoglienza XC, 13; ri-chesse CXXXVIII, 8 (ma ricco LXXXIX, 11); zucarCXXIV, 4.

Da notare nel son. CVII, 4 faccendo (= facendo).3. D: addolorato XLVIII, 6; reddir LXIX, 11; e adita

LX, 8; idio LXXXVII, 4. Da notare fiddi CXXXVIII,10; ma poi fidare XL, 3; fidere’ CXVI, 9 ffida CXVI,14; fidato CXVI, 10; e soddomia VIII, 2.

4. F: sofferrò VIII, 11; soffrire LVIII, 9; sofferire CX-XXI, 3; sofferisco ibid. 11 e poi soferto XLVIII, 7; sso-frire LXVIII, 4; affizia LXXXV, 6 e afizia XXVII, 5; af-flizione IX, 6 e afrigiea XCVIII, 8; affog’ LXXVI, 10;affogar CXX, 14; affogare CHI, 12 e poi afogone XLV,

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aboccato LXXVIII, 6; poi: febbre XCV, 8; CI, 6 ecc.;ebbro CXII, 5 e libra XXVII, 1; libre LXXXIV, 2.

2. C: – accorri I, 1 e acorridore VIII, 5; accordareXXIV, 6; accordanza LXVIII, 14 e acordarei XLVIII,10; uccidere LXXXI, 14; e nello stesso son. XCIV:

se ttu uccidi me, i’ ne guadagno (10)e se tt’ ucid’ il ladro di Salvagno (12)

Poi: toccar VIII, 6 ecc.; tocc’ XXIII, 8; tocca LIX, 9;toccasse XXIX, 7; soccorso XVI, 9; secca LVI, 5; seccoLXXXIX, 10; disaccar XC, 13; accorto XCVI, 4; rac-conciare CV, 8; raccomanda CXXV, 2; acciajo XXIX, 2ecc.; giecchito L, 13 ecc.; piacciati LXIX, 8; accettoXXII, 14; agghiacciato LXX, 5; uccel LXXVI, 2; sac-cente LXXII, 13; inpicco, ’npiccare, impicchi, npicca,apiccat’, npicchis’, e poi apicarmi LX, 11; acolgaXLIV, 6; aconciare LXXXV, 1; acoglienza XC, 13; ri-chesse CXXXVIII, 8 (ma ricco LXXXIX, 11); zucarCXXIV, 4.

Da notare nel son. CVII, 4 faccendo (= facendo).3. D: addolorato XLVIII, 6; reddir LXIX, 11; e adita

LX, 8; idio LXXXVII, 4. Da notare fiddi CXXXVIII,10; ma poi fidare XL, 3; fidere’ CXVI, 9 ffida CXVI,14; fidato CXVI, 10; e soddomia VIII, 2.

4. F: sofferrò VIII, 11; soffrire LVIII, 9; sofferire CX-XXI, 3; sofferisco ibid. 11 e poi soferto XLVIII, 7; sso-frire LXVIII, 4; affizia LXXXV, 6 e afizia XXVII, 5; af-flizione IX, 6 e afrigiea XCVIII, 8; affog’ LXXVI, 10;affogar CXX, 14; affogare CHI, 12 e poi afogone XLV,

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9; - affare II, 8; affanno LV, 6 ecc.; niffa XXIII, 7; beffeCXXIX, 9; caffettin CXXIV, 4; doffesa e offesa XIV, 10e 12; affende CXXXVII, 6. Da notare che per il son.CXXVI il Massera si vale del cd. barb. passato alla Vati-cana col n. 3953 e, fra gli emendamenti (per fare scom-parire da esso la patina veneta) pone al v. 6 raffreni darefreni.

5. G: leggiadre XC, 5 e legiadre LXXXVI, 13; strug-ge VI, 5 e strugie X, 12; maggiore II, 8, ecc. e magiorLXXXVII, 10; peggiore, peggiorare, peggiori e piggio-re e poi pigiore LII, 4; aggio CII, 12, ecc. e agio LXV,5; agia XX, 14 ecc.; reggio XL, 9 ecc. e vegio XX, 14ecc., poi vegg, veggh, veggi, veggia, veggi, veggiono,veggion, veggendo, veggendol; fuggire LI, 14, ecc.; fug-gi CXIV, 9, ecc.; fuggire’ CXXXVIII, 4 e fugirei LXX-XVI, 10; cheggio XXI, 5 ecc.; aveggio XLIV, 9 ecc.;aleggia LIII, 8; leggeramente LXV, 12; poggiavi CXX-XI, 2; foggia CXXXIV, 13 e sogiorno LV, 4; aggradaLIII, 14; struggo LXXI, 13 e trag’ (un) LXXXIV, 10.

6. H: È soppressa d’arbitrio – pare impossibile! – perrammodernar la scrittura, nelle forme del vb. avere e al-trove. Curioso questo scrupolo di rammodernamento perla sola lettera h!

7. L: allora XLII, 13; allor CI, 11; e alora CXXXVI,9; alor IX, 2; XLVII, 14; CXXXVI, 8; sollazzo IV, 4;sollazzare XLIV, 8; allume CVI, 6; allegrezza XXII, 4;XXXV, 2; candellier CXIII, 2; bellico XXVIII, 8 ealeggia LIII, 8 (alleggia):

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9; - affare II, 8; affanno LV, 6 ecc.; niffa XXIII, 7; beffeCXXIX, 9; caffettin CXXIV, 4; doffesa e offesa XIV, 10e 12; affende CXXXVII, 6. Da notare che per il son.CXXVI il Massera si vale del cd. barb. passato alla Vati-cana col n. 3953 e, fra gli emendamenti (per fare scom-parire da esso la patina veneta) pone al v. 6 raffreni darefreni.

5. G: leggiadre XC, 5 e legiadre LXXXVI, 13; strug-ge VI, 5 e strugie X, 12; maggiore II, 8, ecc. e magiorLXXXVII, 10; peggiore, peggiorare, peggiori e piggio-re e poi pigiore LII, 4; aggio CII, 12, ecc. e agio LXV,5; agia XX, 14 ecc.; reggio XL, 9 ecc. e vegio XX, 14ecc., poi vegg, veggh, veggi, veggia, veggi, veggiono,veggion, veggendo, veggendol; fuggire LI, 14, ecc.; fug-gi CXIV, 9, ecc.; fuggire’ CXXXVIII, 4 e fugirei LXX-XVI, 10; cheggio XXI, 5 ecc.; aveggio XLIV, 9 ecc.;aleggia LIII, 8; leggeramente LXV, 12; poggiavi CXX-XI, 2; foggia CXXXIV, 13 e sogiorno LV, 4; aggradaLIII, 14; struggo LXXI, 13 e trag’ (un) LXXXIV, 10.

6. H: È soppressa d’arbitrio – pare impossibile! – perrammodernar la scrittura, nelle forme del vb. avere e al-trove. Curioso questo scrupolo di rammodernamento perla sola lettera h!

7. L: allora XLII, 13; allor CI, 11; e alora CXXXVI,9; alor IX, 2; XLVII, 14; CXXXVI, 8; sollazzo IV, 4;sollazzare XLIV, 8; allume CVI, 6; allegrezza XXII, 4;XXXV, 2; candellier CXIII, 2; bellico XXVIII, 8 ealeggia LIII, 8 (alleggia):

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c’alcuna cosa m’aleggia ’l dolore.

8. M: ammendi XVIII, 14 e amenda XXVI, 8; amen-dato CVI, 14; femminile L, 9; cammino CXXI, 6; asom-mato LXXI, 11; LXXIV, 4 e poi amazza CXVII, 11;amantinente XXXVIII, 5; amalato LXXII, 10; - pajom-mi LVIII, 2; èmmi LXXI, 5; viemmi, tiemmi, diemmi,soviemmi CXXX, 6,10, 12, 14; dàmmi III, 5 e poi par-rami LXXVIII, 13; arrecom’ CII, 4 (arrecommi); fumo(fummo) CXV, 2.

9. N: innamorato XXXIII, 10; LXXXIX, 1; ’nnamo-rato XXI, 14; XXVII, 11 ecc.; ’nnamorai IV, 2; inna-morare LXVII, 6 e poi: inamorato XXXIV, 1; XXX-VIII, 13, ecc.; rinamorarmi XLVIII, 9; innoiare XV, 4 einoiarmi XCI, 10; innanzi LIV, 14; innanti CVII, 8 einanzi LXV, 1; ’nanzi LV, 8; LVII, 1 ecc.; gennaioXXIX, 3; innaturato XCII, 13 e anegherei LXXXVI, 3;vane (vanne) XCVIII, 9; onipotente XXII, 8.

10. P: aviluppato L, 5; sappia LXII, 1; appelloLXXX, 2; approvare XCVI, 10; appariresti CXXII, 11;appogno CXXVIII, 7 e poi apuoia46 XXII, 3; apicarmiLX, 11; apiccat’ XCVII, 5; apressare L, 3; apoggiarsiCXXXVIII, 11; apo XXVIII, 12; XXXI, 8 ecc. Notareaccanto a opinione XCIII, 9 e upinione XLI, 10; oppe-nione II, 13 ecc.; oppinione IV, 11 ecc.

11. R: cherre’ VI, 10 e cherei XLVIII, 14; vorriaXIX, 9; XXIII, 11 e voria LII, 11; LXXXVII, 4; vorrie

46 Lo stesso M. avverte nel Lessico che il Voc. Mgl. registra appoiare nelsenso attivo di «infastidire, recar noia o fastidio», il part. appoiato, il sost. ap-poio «fastidio, noia» e l’agg. appoioso.

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c’alcuna cosa m’aleggia ’l dolore.

8. M: ammendi XVIII, 14 e amenda XXVI, 8; amen-dato CVI, 14; femminile L, 9; cammino CXXI, 6; asom-mato LXXI, 11; LXXIV, 4 e poi amazza CXVII, 11;amantinente XXXVIII, 5; amalato LXXII, 10; - pajom-mi LVIII, 2; èmmi LXXI, 5; viemmi, tiemmi, diemmi,soviemmi CXXX, 6,10, 12, 14; dàmmi III, 5 e poi par-rami LXXVIII, 13; arrecom’ CII, 4 (arrecommi); fumo(fummo) CXV, 2.

9. N: innamorato XXXIII, 10; LXXXIX, 1; ’nnamo-rato XXI, 14; XXVII, 11 ecc.; ’nnamorai IV, 2; inna-morare LXVII, 6 e poi: inamorato XXXIV, 1; XXX-VIII, 13, ecc.; rinamorarmi XLVIII, 9; innoiare XV, 4 einoiarmi XCI, 10; innanzi LIV, 14; innanti CVII, 8 einanzi LXV, 1; ’nanzi LV, 8; LVII, 1 ecc.; gennaioXXIX, 3; innaturato XCII, 13 e anegherei LXXXVI, 3;vane (vanne) XCVIII, 9; onipotente XXII, 8.

10. P: aviluppato L, 5; sappia LXII, 1; appelloLXXX, 2; approvare XCVI, 10; appariresti CXXII, 11;appogno CXXVIII, 7 e poi apuoia46 XXII, 3; apicarmiLX, 11; apiccat’ XCVII, 5; apressare L, 3; apoggiarsiCXXXVIII, 11; apo XXVIII, 12; XXXI, 8 ecc. Notareaccanto a opinione XCIII, 9 e upinione XLI, 10; oppe-nione II, 13 ecc.; oppinione IV, 11 ecc.

11. R: cherre’ VI, 10 e cherei XLVIII, 14; vorriaXIX, 9; XXIII, 11 e voria LII, 11; LXXXVII, 4; vorrie

46 Lo stesso M. avverte nel Lessico che il Voc. Mgl. registra appoiare nelsenso attivo di «infastidire, recar noia o fastidio», il part. appoiato, il sost. ap-poio «fastidio, noia» e l’agg. appoioso.

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V, 8; vorresti XXIII, 10; vorra’ XXVI, 8; e vorre’ XXIV,10 ecc. ecc. e vorei LXXXIV, 8; torei XLIX, 10; LXX-XVI, 13; corre VI, 14; trarriparmi XIII, 12; trarripareXXXII, 6; arreco LIV, 6; arrotato LVI, 8; verrucolatoibid. 14; arrado LIX, 4; borrato XCI, 7; corredato CVI,12; arrivar CXXXVII, 6; arrivato CXI, 11; correnteXXI, 13; rimarrai CXIII, 3; averria CXXIII, 2; diverral-li CXXXIV, 12; parrà LXVIII, 2; parrò ibid. 5; LXX-VII, 12; trarrà ibid. 11; morrò XLVI, 11; morrà LXX-XIX, 13; morrai CXIII, 14 e moria (= morria) IX, 12;terrò XXXVII, 3 e berò CII, 13; berai ibid. 9; coruccia-ta IX, 1; coruccio ibid. 11; arestato XXXI, 14; ferroCVIII, ferruzzo CXIX, 1 e inferigno XCV, 12; arabbioLXXXIII, 12 e arrabbiando LXI, 4. Da notare sofferròVili, 11; comparrai XXVII, 4:

di quel che caramente comparrai

osorrierXCV, 6. (ved. Voc. atone).12. S: assicurare II, 4 e asicurarmi XLVIII, 11; asi-

cura XCIX, 7; asommato LXXI, 11; LXXIV, 4; asisoXXXVI, 3; asetto XXI, 4 e attossicato CU, 5; nessunoXLIX, 12; assa’ III, 9 ecc.; ’ssessino XCIX, 4; messerXCVIII, 7; massarizia LXXXIV, 6.

13. T: metterà X, 2; attenni XVI, 8; cottardita LX, 1;attorsa LXI, 7; mattina LXXXVII, 4 ecc.; attossicatoCII, 5; burattello CVI, 6; promettile XXV, 11 e vatene(vattene) CXXIV, 9.

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V, 8; vorresti XXIII, 10; vorra’ XXVI, 8; e vorre’ XXIV,10 ecc. ecc. e vorei LXXXIV, 8; torei XLIX, 10; LXX-XVI, 13; corre VI, 14; trarriparmi XIII, 12; trarripareXXXII, 6; arreco LIV, 6; arrotato LVI, 8; verrucolatoibid. 14; arrado LIX, 4; borrato XCI, 7; corredato CVI,12; arrivar CXXXVII, 6; arrivato CXI, 11; correnteXXI, 13; rimarrai CXIII, 3; averria CXXIII, 2; diverral-li CXXXIV, 12; parrà LXVIII, 2; parrò ibid. 5; LXX-VII, 12; trarrà ibid. 11; morrò XLVI, 11; morrà LXX-XIX, 13; morrai CXIII, 14 e moria (= morria) IX, 12;terrò XXXVII, 3 e berò CII, 13; berai ibid. 9; coruccia-ta IX, 1; coruccio ibid. 11; arestato XXXI, 14; ferroCVIII, ferruzzo CXIX, 1 e inferigno XCV, 12; arabbioLXXXIII, 12 e arrabbiando LXI, 4. Da notare sofferròVili, 11; comparrai XXVII, 4:

di quel che caramente comparrai

osorrierXCV, 6. (ved. Voc. atone).12. S: assicurare II, 4 e asicurarmi XLVIII, 11; asi-

cura XCIX, 7; asommato LXXI, 11; LXXIV, 4; asisoXXXVI, 3; asetto XXI, 4 e attossicato CU, 5; nessunoXLIX, 12; assa’ III, 9 ecc.; ’ssessino XCIX, 4; messerXCVIII, 7; massarizia LXXXIV, 6.

13. T: metterà X, 2; attenni XVI, 8; cottardita LX, 1;attorsa LXI, 7; mattina LXXXVII, 4 ecc.; attossicatoCII, 5; burattello CVI, 6; promettile XXV, 11 e vatene(vattene) CXXIV, 9.

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14. V: costantemente scempio: avene, aven, avegna,aveduto, aventura, aveggio, aviluppato, aviso, aviato,sovien, averria, aveder, avenente, aventurato, provede-re. Una volta sola troviamo avvia LVII, 8. Nel son. CII,al v. 13 bevi per bevvi.

15. Z: sollazzo IV, 4; tramazzando XV, 14; npazzato I,6; allegrezza XXII, 4; bizzarria XXXII, 7; bozzagroLXXXVIII, 14; sozzo LXX, 9; gavazze LXXVII, 9 e ga-vazatore VIII, 3; mozarei LXXXVI, 8; vezeggia CXXX,12; adizza CXXVIII, 7 e poi viza e riza in rima conadizza.

Non tengo conto in questa nota del raddoppiamentodelle consonanti a principio delle parole dove più calcala voce: lli, ssi, mmi ecc.; osservo però che il testo delM. non è coerente neppure in questo raddoppiamento. Indue sonetti consecutivi, ad esempio (CXX e CXXI), tro-viamo:

E Pier Faste’ che venne d’oltre mare (3)Se tutta l’otriaca d’oltre mmare (1)

Un altro esempio evidentissimo:

che ss’ i’ potesse retornar enn ieri XXTV, 13I’ potre’ anzi ritornare in ieri XCII, 1

e un altro, in quei due versi già citati:

ch’ i’ seppi tanto tra dicere e ffare XXXV, 5ch’ i’ ò saputo si diciar e fare LXXIX, 10.

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14. V: costantemente scempio: avene, aven, avegna,aveduto, aventura, aveggio, aviluppato, aviso, aviato,sovien, averria, aveder, avenente, aventurato, provede-re. Una volta sola troviamo avvia LVII, 8. Nel son. CII,al v. 13 bevi per bevvi.

15. Z: sollazzo IV, 4; tramazzando XV, 14; npazzato I,6; allegrezza XXII, 4; bizzarria XXXII, 7; bozzagroLXXXVIII, 14; sozzo LXX, 9; gavazze LXXVII, 9 e ga-vazatore VIII, 3; mozarei LXXXVI, 8; vezeggia CXXX,12; adizza CXXVIII, 7 e poi viza e riza in rima conadizza.

Non tengo conto in questa nota del raddoppiamentodelle consonanti a principio delle parole dove più calcala voce: lli, ssi, mmi ecc.; osservo però che il testo delM. non è coerente neppure in questo raddoppiamento. Indue sonetti consecutivi, ad esempio (CXX e CXXI), tro-viamo:

E Pier Faste’ che venne d’oltre mare (3)Se tutta l’otriaca d’oltre mmare (1)

Un altro esempio evidentissimo:

che ss’ i’ potesse retornar enn ieri XXTV, 13I’ potre’ anzi ritornare in ieri XCII, 1

e un altro, in quei due versi già citati:

ch’ i’ seppi tanto tra dicere e ffare XXXV, 5ch’ i’ ò saputo si diciar e fare LXXIX, 10.

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Altre osservazioni, più gravi ancora, sarebbero dafare, in fine, a questa edizione critica del signor Massè-ra. Mi limiterò, per brevità, a notare le seguenti scorre-zioni: ditto per detto nel v. 12 del son. CXXXIII: la rimaè in –etto; secco per sicco nel v. 13 del son. LXXXIX:la rima è in –icco; fattezza per fattizza nel v. 6 del son.CXXVIII: la rima è in –izza. Il verso 7 del son. XIX:

le pene e tormenti e li sconforti

va emendato senza dubbio in

le pene e li tormenti e li sconforti.

Nel v. 7 del son. LXXI:

ben m’è ancor rimas’ un podere

manca una sillaba: in luogo dell’elisione rimas’ un vaposta una dieresi rimaso un, o bisogna leggere ancora enon ancor. Una sillaba di più ha invece il v. 1 del son. L:

Da Giuda in fuori neuno sciagurato.

Cecco non fa mai bisillabo neuno:

Neun’ altra speranz’ ò che di morte LI, 9che neun om che vada ’n su’ duo piei XXI, 2in neun modo veder i’ non posso XLVII, 2che sia neun dolor addolorato XLVIII, 6a nneun modo di farlo morire LVIII, 11che non à neun si picciol vicino CXXVII, 10.

È chiaro dunque che il verso deve leggersi:

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Altre osservazioni, più gravi ancora, sarebbero dafare, in fine, a questa edizione critica del signor Massè-ra. Mi limiterò, per brevità, a notare le seguenti scorre-zioni: ditto per detto nel v. 12 del son. CXXXIII: la rimaè in –etto; secco per sicco nel v. 13 del son. LXXXIX:la rima è in –icco; fattezza per fattizza nel v. 6 del son.CXXVIII: la rima è in –izza. Il verso 7 del son. XIX:

le pene e tormenti e li sconforti

va emendato senza dubbio in

le pene e li tormenti e li sconforti.

Nel v. 7 del son. LXXI:

ben m’è ancor rimas’ un podere

manca una sillaba: in luogo dell’elisione rimas’ un vaposta una dieresi rimaso un, o bisogna leggere ancora enon ancor. Una sillaba di più ha invece il v. 1 del son. L:

Da Giuda in fuori neuno sciagurato.

Cecco non fa mai bisillabo neuno:

Neun’ altra speranz’ ò che di morte LI, 9che neun om che vada ’n su’ duo piei XXI, 2in neun modo veder i’ non posso XLVII, 2che sia neun dolor addolorato XLVIII, 6a nneun modo di farlo morire LVIII, 11che non à neun si picciol vicino CXXVII, 10.

È chiaro dunque che il verso deve leggersi:

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Da Giuda in fuor neuno sciaguratooppure:

Da Giuda in fuori neun sciagurato.

Finalmente nel s. CXII al v. 8: vi face evidentementedeve esser corretto in vi faccia. Basterà citare le duequartine, per intenderlo:

In tale che d’amor vi pass’ il coreabattervi possiate voi, ser Corso,e si vi pregi vie men e’ un vil torso,e come tosco li siate inn amore,e facciavi mugghiare a tutte l’oredel giorno come mugghia bue od orso,e, come l’ebbro bee a sorso a sorsoil vin, vi face ber foco e martore.

Povero Cecco! Neanche dagli errori di grammatica tiha saputo difendere il signor Aldo Frane. Massera nellasupina sua schiavitù a tutti gli spropositi dei menanti.

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Da Giuda in fuor neuno sciaguratooppure:

Da Giuda in fuori neun sciagurato.

Finalmente nel s. CXII al v. 8: vi face evidentementedeve esser corretto in vi faccia. Basterà citare le duequartine, per intenderlo:

In tale che d’amor vi pass’ il coreabattervi possiate voi, ser Corso,e si vi pregi vie men e’ un vil torso,e come tosco li siate inn amore,e facciavi mugghiare a tutte l’oredel giorno come mugghia bue od orso,e, come l’ebbro bee a sorso a sorsoil vin, vi face ber foco e martore.

Povero Cecco! Neanche dagli errori di grammatica tiha saputo difendere il signor Aldo Frane. Massera nellasupina sua schiavitù a tutti gli spropositi dei menanti.

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Appendice(Per le ragioni estetiche della parola)

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Appendice(Per le ragioni estetiche della parola)

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Esce or ora (mentre sto per licenziare al pubblicoquesto volume di saggi) la traduzione italiana di duestudii di Karl Vossler: Positivismus und Idealismus inder Sprachwissenschaft e Sprache als Schöpfung undEntwicklung, raccolti in un sol volume dal traduttore ita-liano sotto il titolo del primo studio.47

Il Vossler – com’egli stesso, del resto, dichiara nellaprefazione al volume – è un seguace convinto della dot-trina estetica di Benedetto Croce. Questi suoi due studinon vogliono esser altro che un’applicazione ai più im-portanti problemi della linguistica dei principii diquell’estetica ch’io ho chiamato intellettualistica senzaintelletto.

In fondo al suo libro dell’Estetica, il Croce avevaidentificato scienza dell’arte e scienza del linguaggio:«L’Estetica e la Linguistica non sono già due scienze di-stinte, subordinate, coordinate o disparate, ma sono unascienza sola».

Io ho dimostrato già, criticando la teoria estetica delCroce, la ragione di questa identificazione.

Ciò che il Croce chiama forma, espressione, arte, fat-to estetico è soltanto oggettivazione, che viene ad averetutti i caratteri del fatto fisico, cioè necessità, fissità, as-

47 KARL VOSSLER, – Positivismo e Idealismo nella scienza del linguaggio,trad. del Dr. Tom. Gnoli – (Bari, Laterza e Figli, 1908).

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Esce or ora (mentre sto per licenziare al pubblicoquesto volume di saggi) la traduzione italiana di duestudii di Karl Vossler: Positivismus und Idealismus inder Sprachwissenschaft e Sprache als Schöpfung undEntwicklung, raccolti in un sol volume dal traduttore ita-liano sotto il titolo del primo studio.47

Il Vossler – com’egli stesso, del resto, dichiara nellaprefazione al volume – è un seguace convinto della dot-trina estetica di Benedetto Croce. Questi suoi due studinon vogliono esser altro che un’applicazione ai più im-portanti problemi della linguistica dei principii diquell’estetica ch’io ho chiamato intellettualistica senzaintelletto.

In fondo al suo libro dell’Estetica, il Croce avevaidentificato scienza dell’arte e scienza del linguaggio:«L’Estetica e la Linguistica non sono già due scienze di-stinte, subordinate, coordinate o disparate, ma sono unascienza sola».

Io ho dimostrato già, criticando la teoria estetica delCroce, la ragione di questa identificazione.

Ciò che il Croce chiama forma, espressione, arte, fat-to estetico è soltanto oggettivazione, che viene ad averetutti i caratteri del fatto fisico, cioè necessità, fissità, as-

47 KARL VOSSLER, – Positivismo e Idealismo nella scienza del linguaggio,trad. del Dr. Tom. Gnoli – (Bari, Laterza e Figli, 1908).

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senza di fine e differenza soltanto quantitativa: oggetti-vazione, dunque, meccanica. Egli ragiona così: il lin-guaggio è espressione; l’espressione è arte; dunque illinguaggio è arte, e Linguistica ed Estetica sono unacosa sola.

Il sofisma s’annida qua nella parola espressione. Ma èsofisma per noi, non per il Croce. Il Croce non può darealcun valore all’espressione, perchè per lui questa, ripe-tiamo, è oggettivazione e nient’altro, e l’arte non è nèpiù nè meno che la forma delle sensazioni, e non, comeper noi, il soggettivarsi di quest’oggettivazione.

Delle nostre sensazioni, delle nostre impressioni, ecc.noi non sappiamo nulla finchè esse non siano formate,finchè noi non le abbiamo intuite. L’intuizione è dunquel’atto dello spirito che forma. Questo sostiene il Croce.Egli chiama formare l’intuire. E già comincia il disac-cordo. Questo disaccordo cresce naturalmente quandoegli vuole identificare quest’atto dello spirito che forma(primo momento) col fatto estetico, con l’arte. Il Croceragiona così: noi, prima, non sappiamo nulla; conoscia-mo formando; la forma dunque è conoscenza; l’arte èforma; dunque l’arte è conoscenza. E ritorniamo al sofi-sma di prima.

Questa forma, come il Croce la intende, non è altroche materia oggettivata, la conoscenza intuitiva che noiabbiamo della materia. Ora questa materia oggettivata oin questo senso formata non è arte, perchè non è formama contenuto dell’arte: è la rappresentazione d’un og-getto che l’arte deve investire soggettivamente. Il Croce

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senza di fine e differenza soltanto quantitativa: oggetti-vazione, dunque, meccanica. Egli ragiona così: il lin-guaggio è espressione; l’espressione è arte; dunque illinguaggio è arte, e Linguistica ed Estetica sono unacosa sola.

Il sofisma s’annida qua nella parola espressione. Ma èsofisma per noi, non per il Croce. Il Croce non può darealcun valore all’espressione, perchè per lui questa, ripe-tiamo, è oggettivazione e nient’altro, e l’arte non è nèpiù nè meno che la forma delle sensazioni, e non, comeper noi, il soggettivarsi di quest’oggettivazione.

Delle nostre sensazioni, delle nostre impressioni, ecc.noi non sappiamo nulla finchè esse non siano formate,finchè noi non le abbiamo intuite. L’intuizione è dunquel’atto dello spirito che forma. Questo sostiene il Croce.Egli chiama formare l’intuire. E già comincia il disac-cordo. Questo disaccordo cresce naturalmente quandoegli vuole identificare quest’atto dello spirito che forma(primo momento) col fatto estetico, con l’arte. Il Croceragiona così: noi, prima, non sappiamo nulla; conoscia-mo formando; la forma dunque è conoscenza; l’arte èforma; dunque l’arte è conoscenza. E ritorniamo al sofi-sma di prima.

Questa forma, come il Croce la intende, non è altroche materia oggettivata, la conoscenza intuitiva che noiabbiamo della materia. Ora questa materia oggettivata oin questo senso formata non è arte, perchè non è formama contenuto dell’arte: è la rappresentazione d’un og-getto che l’arte deve investire soggettivamente. Il Croce

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dunque scambia il contenuto psichico col fatto estetico;ma il contenuto psichico non è la forma. «L’elaborazio-ne stessa delle impressioni» – egli dice – «non può nonessere, a sua volta, un fatto psichico, cioè altre impres-sioni. Considerata ab extra, l’attività estetica non è essastessa che un succedersi d’impressioni. Gli è per questoche molti non riescono a constatarne l’esistenza, e a co-glierne la peculiarità e l’originalità. Chi guarda di fuori,scorge il di fuori; e chi appunta, come Nelson, il can-nocchiale sull’occhio cieco, può affermare con tutta ve-rità che non vede nulla. Ma solo quando si acquista co-scienza della diversità tra l’esterno e l’interno, e chel’interno, appunto perchè tale, non si coglie al modostesso dell’esterno, si entra nella filosofia.» Sì: si entranella filosofia, ma si esce dall’arte.

Quando noi diciamo che la forma non deve esser con-siderata come alcunchè d’esteriore, non intendiamo giàparlare di questo interno del Croce, che non è forma,com’egli crede, ma contenuto. Il Croce non arriva, nèpuò mai arrivare alla vera forma individuale, perchès’arresta alla conoscenza soltanto dell’individuale. Ora,la forma come conoscenza, non può esser altro che unaastrazione, la rappresentazione astratta, meccanica (per-chè soggetta alla legge di causa ed effetto) d’una sensa-zione: non può esser altro dunque che un concetto o unpseudo-concetto. Nel primo momento noi non possiamoaver altro.

Ora, perchè questo pseudo-concetto diventi fatto este-tico, arte, bisogna che la forma non sia semplice cono-

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dunque scambia il contenuto psichico col fatto estetico;ma il contenuto psichico non è la forma. «L’elaborazio-ne stessa delle impressioni» – egli dice – «non può nonessere, a sua volta, un fatto psichico, cioè altre impres-sioni. Considerata ab extra, l’attività estetica non è essastessa che un succedersi d’impressioni. Gli è per questoche molti non riescono a constatarne l’esistenza, e a co-glierne la peculiarità e l’originalità. Chi guarda di fuori,scorge il di fuori; e chi appunta, come Nelson, il can-nocchiale sull’occhio cieco, può affermare con tutta ve-rità che non vede nulla. Ma solo quando si acquista co-scienza della diversità tra l’esterno e l’interno, e chel’interno, appunto perchè tale, non si coglie al modostesso dell’esterno, si entra nella filosofia.» Sì: si entranella filosofia, ma si esce dall’arte.

Quando noi diciamo che la forma non deve esser con-siderata come alcunchè d’esteriore, non intendiamo giàparlare di questo interno del Croce, che non è forma,com’egli crede, ma contenuto. Il Croce non arriva, nèpuò mai arrivare alla vera forma individuale, perchès’arresta alla conoscenza soltanto dell’individuale. Ora,la forma come conoscenza, non può esser altro che unaastrazione, la rappresentazione astratta, meccanica (per-chè soggetta alla legge di causa ed effetto) d’una sensa-zione: non può esser altro dunque che un concetto o unpseudo-concetto. Nel primo momento noi non possiamoaver altro.

Ora, perchè questo pseudo-concetto diventi fatto este-tico, arte, bisogna che la forma non sia semplice cono-

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scenza, forma d’una sensazione, materia oggettivata, eche si abbia il subiettivarsi di questa forma, cioè di que-sta oggettivazione, che è un contenuto psichico.

Il Croce s’arresta al primo gradino della conoscenzaintuitiva, e non vede mai, dunque, veramente il fattoestetico: confonde l’arte con la rappresentazione dellaconoscenza intuitiva, l’oggettivazione con l’espressionesoggettiva, lo stile con la lingua. Infatti egli domanda:«Chi mai è riuscito a distinguere, per quanti sforzi sisian fatti, tra lingua e stile?».

Ed è ben naturale che egli non possa o non sappia di-stinguere. Appunta anche lui, come Nelson, il cannoc-chiale su un occhio cieco.

*

Non si riesce in verità a comprendere in prima comefaccia ad andar d’accordo col Croce il Vossler per cui«lo stile è l’uso linguistico individuale in opposizione aquello generale».

Ma che intende egli per uso linguistico individuale?Ahimè, l’intuizione anche lui, la materia oggettivata, ilcontenuto psichico, non l’espressione soggettiva, il su-biettivarsi di quell’oggettivazione, la creazione d’unaforma. L’uso linguistico generale, in fatti, per lui, nonpuò esser altro in fondo «che la somma approssimativapossibilmente di tutti, o almeno dei più importanti usilinguistici individuali».

Ora, questi usi linguistici individuali, così intesi, nonsono stile, sono rappresentazioni di sensazioni indivi-

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scenza, forma d’una sensazione, materia oggettivata, eche si abbia il subiettivarsi di questa forma, cioè di que-sta oggettivazione, che è un contenuto psichico.

Il Croce s’arresta al primo gradino della conoscenzaintuitiva, e non vede mai, dunque, veramente il fattoestetico: confonde l’arte con la rappresentazione dellaconoscenza intuitiva, l’oggettivazione con l’espressionesoggettiva, lo stile con la lingua. Infatti egli domanda:«Chi mai è riuscito a distinguere, per quanti sforzi sisian fatti, tra lingua e stile?».

Ed è ben naturale che egli non possa o non sappia di-stinguere. Appunta anche lui, come Nelson, il cannoc-chiale su un occhio cieco.

*

Non si riesce in verità a comprendere in prima comefaccia ad andar d’accordo col Croce il Vossler per cui«lo stile è l’uso linguistico individuale in opposizione aquello generale».

Ma che intende egli per uso linguistico individuale?Ahimè, l’intuizione anche lui, la materia oggettivata, ilcontenuto psichico, non l’espressione soggettiva, il su-biettivarsi di quell’oggettivazione, la creazione d’unaforma. L’uso linguistico generale, in fatti, per lui, nonpuò esser altro in fondo «che la somma approssimativapossibilmente di tutti, o almeno dei più importanti usilinguistici individuali».

Ora, questi usi linguistici individuali, così intesi, nonsono stile, sono rappresentazioni di sensazioni indivi-

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duali, oggettivazione di queste sensazioni: lingua, nonstile; conoscenza intuitiva, non arte.

L’errore, dunque, è quello stesso del Croce, ed è fon-damentale.

«Nella sua più intima essenza» – scrive il Vossler, pa-rafrasando il Croce, – «ogni espressione linguistica ècreazione individuale e spirituale. Per esprimereun’intuizione v’è un’unica forma. Tanti individui, tantistili.»

Domando io adesso, come può esser creazione ogniespressione linguistica, se questa è forma di sensazioni,intuizione pura, conoscenza, e dunque attività teoreticasoltanto? La creazione è della volontà. Finchè questanon interviene, non possiamo aver creazione, ma sem-plice conoscenza. Non ha detto forse il Croce che «conla forma teoretica l’uomo comprende le cose: con la for-ma pratica (cioè con la volontà) le va mutando: con laprima s’appropria l’universo, con l’altra lo crea»? Comesi può parlare dunque di creazione di forma, se restiamonel primo gradino della conoscenza? Questa non ci puòdare che una rappresentazione astratta e meccanica d’uncontenuto individuale, una oggettivazione, non mai unacreazione.

Invano il Vossler tenta di negar l’astrazione, sofisti-cando così: «Si generalizzi e si allarghi pure quanto sivoglia l’immagine di cane, comprendendovi le più raree svariate specie di quest’animale; saremo pur semprelontanissimi dall’avere innalzato tale immagine a digni-tà di concetto. Il concetto si forma per deduzione e per

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duali, oggettivazione di queste sensazioni: lingua, nonstile; conoscenza intuitiva, non arte.

L’errore, dunque, è quello stesso del Croce, ed è fon-damentale.

«Nella sua più intima essenza» – scrive il Vossler, pa-rafrasando il Croce, – «ogni espressione linguistica ècreazione individuale e spirituale. Per esprimereun’intuizione v’è un’unica forma. Tanti individui, tantistili.»

Domando io adesso, come può esser creazione ogniespressione linguistica, se questa è forma di sensazioni,intuizione pura, conoscenza, e dunque attività teoreticasoltanto? La creazione è della volontà. Finchè questanon interviene, non possiamo aver creazione, ma sem-plice conoscenza. Non ha detto forse il Croce che «conla forma teoretica l’uomo comprende le cose: con la for-ma pratica (cioè con la volontà) le va mutando: con laprima s’appropria l’universo, con l’altra lo crea»? Comesi può parlare dunque di creazione di forma, se restiamonel primo gradino della conoscenza? Questa non ci puòdare che una rappresentazione astratta e meccanica d’uncontenuto individuale, una oggettivazione, non mai unacreazione.

Invano il Vossler tenta di negar l’astrazione, sofisti-cando così: «Si generalizzi e si allarghi pure quanto sivoglia l’immagine di cane, comprendendovi le più raree svariate specie di quest’animale; saremo pur semprelontanissimi dall’avere innalzato tale immagine a digni-tà di concetto. Il concetto si forma per deduzione e per

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definizione, cioè per derivazione da altri e per limitazio-ne rispetto ad altri concetti. Una rappresentazione o im-magine generale si forma invece allargando, diluendo leconcrete impressioni sensibili. Il concetto non sarà com-piuto finchè non sia costruito intero il sistema dei con-cetti, ossia la filosofia; mentre l’immagine generale reg-ge da sè, indipendente nel proprio valore individuale emomentaneo. Pensare in forma d’immagini generalivuol dire veder le cose a larghi contorni, da grande lon-tananza e quasi a volo d’uccello; pensare in forma diconcetti, vuol dire conoscere le invisibili relazioni chefra le cose corrono. Ora il linguaggio è sempre rappre-sentazione ed intuizione, mai astrazione».

Prima di tutto, mettiamo bene in chiaro questo: chequando io ho visto a volo d’uccello o no, da lontano oda vicino, un cane e ho detto: cane, non ho creato nulla,come non creo ancora nulla dicendo cane danese, canelevriere, cane barbone e così via: tutte queste espressio-ni sono oggettivazioni, fatti di conoscenza, non creazio-ni. Non saranno concetti, concetti veri e propri; maespressioni, rappresentazioni astratte sono di certo. Nonsaranno, tutt’al più, astrazioni logiche, ecco; astrazioniespressive sono però di certo: conoscenze intuitive, senon logiche; ma conoscenze sempre.

Ora che ha da vedere con questa conoscenza intuitiva,con questa rappresentazione di sensazioni, lo stile? Lostile è creazione di forma, non la forma delle sensazioni.Io creerò un cane (come Anatole France ha creato il fa-moso Riquet di M. Bergeret) quando l’immagine di quel

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definizione, cioè per derivazione da altri e per limitazio-ne rispetto ad altri concetti. Una rappresentazione o im-magine generale si forma invece allargando, diluendo leconcrete impressioni sensibili. Il concetto non sarà com-piuto finchè non sia costruito intero il sistema dei con-cetti, ossia la filosofia; mentre l’immagine generale reg-ge da sè, indipendente nel proprio valore individuale emomentaneo. Pensare in forma d’immagini generalivuol dire veder le cose a larghi contorni, da grande lon-tananza e quasi a volo d’uccello; pensare in forma diconcetti, vuol dire conoscere le invisibili relazioni chefra le cose corrono. Ora il linguaggio è sempre rappre-sentazione ed intuizione, mai astrazione».

Prima di tutto, mettiamo bene in chiaro questo: chequando io ho visto a volo d’uccello o no, da lontano oda vicino, un cane e ho detto: cane, non ho creato nulla,come non creo ancora nulla dicendo cane danese, canelevriere, cane barbone e così via: tutte queste espressio-ni sono oggettivazioni, fatti di conoscenza, non creazio-ni. Non saranno concetti, concetti veri e propri; maespressioni, rappresentazioni astratte sono di certo. Nonsaranno, tutt’al più, astrazioni logiche, ecco; astrazioniespressive sono però di certo: conoscenze intuitive, senon logiche; ma conoscenze sempre.

Ora che ha da vedere con questa conoscenza intuitiva,con questa rappresentazione di sensazioni, lo stile? Lostile è creazione di forma, non la forma delle sensazioni.Io creerò un cane (come Anatole France ha creato il fa-moso Riquet di M. Bergeret) quando l’immagine di quel

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cane, sensazione o impressione oggettivata, cesserà diessere un simbolo dell’oggetto in me, una visione ch’ionon posso non volere o volere (fatto spirituale meccani-co, dunque); e sarà visione voluta, voluta per se stessa, edunque libera perchè ha solo in se stessa il suo fine. Ionon posso negare il cane come oggetto, anche ammet-tendo che esso esiste in me solamente in quanto io ne hoconoscenza; oggetto rimarrà sempre, se non più fisico,spirituale; oggetto ch’io contemplo in me, ma che noncreo: non posso crearlo perchè io non lo ho voluto edesso medesimo ancora non si vuole in me: è in me anco-ra un’espressione che non ha valore, è in me come og-getto, semplice conoscenza intuitiva, non creazione.Quando diventerà creazione? Quand’io cesserò di con-templarlo quale un oggetto in me, quando esso comince-rà a volersi in me, qual io per se stesso lo voglio;quand’esso cesserà di essere mera contemplazione teo-retica in me e diventerà azione, quando la mera formateoretica di esso diventerà forma pratica, tecnica, cioè li-bero spontaneo e immediato movimento della formastessa, non più oggettivazione, ma subiettivata. Allorasoltanto, e non prima, io avrò il fatto estetico, l’arte.

Non è assolutamente possibile escludere la volontà eil fine dall’arte. Solamente l’opera d’arte deve avere insè la propria volontà e il proprio fine: l’autore cioè devevolerla per se stessa, qual essa in lui si vuole, libera per-chè solo in se stessa ha il proprio fine. Ma l’avere in sè eper sè volontà e fine non equivale a non averne, nonvuol mica dire cioè che l’arte non abbia fine e volontà e

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cane, sensazione o impressione oggettivata, cesserà diessere un simbolo dell’oggetto in me, una visione ch’ionon posso non volere o volere (fatto spirituale meccani-co, dunque); e sarà visione voluta, voluta per se stessa, edunque libera perchè ha solo in se stessa il suo fine. Ionon posso negare il cane come oggetto, anche ammet-tendo che esso esiste in me solamente in quanto io ne hoconoscenza; oggetto rimarrà sempre, se non più fisico,spirituale; oggetto ch’io contemplo in me, ma che noncreo: non posso crearlo perchè io non lo ho voluto edesso medesimo ancora non si vuole in me: è in me anco-ra un’espressione che non ha valore, è in me come og-getto, semplice conoscenza intuitiva, non creazione.Quando diventerà creazione? Quand’io cesserò di con-templarlo quale un oggetto in me, quando esso comince-rà a volersi in me, qual io per se stesso lo voglio;quand’esso cesserà di essere mera contemplazione teo-retica in me e diventerà azione, quando la mera formateoretica di esso diventerà forma pratica, tecnica, cioè li-bero spontaneo e immediato movimento della formastessa, non più oggettivazione, ma subiettivata. Allorasoltanto, e non prima, io avrò il fatto estetico, l’arte.

Non è assolutamente possibile escludere la volontà eil fine dall’arte. Solamente l’opera d’arte deve avere insè la propria volontà e il proprio fine: l’autore cioè devevolerla per se stessa, qual essa in lui si vuole, libera per-chè solo in se stessa ha il proprio fine. Ma l’avere in sè eper sè volontà e fine non equivale a non averne, nonvuol mica dire cioè che l’arte non abbia fine e volontà e

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sia soltanto conoscenza, come il Croce sostiene in Ger-mania e il Vossler in Italia... o viceversa.

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sia soltanto conoscenza, come il Croce sostiene in Ger-mania e il Vossler in Italia... o viceversa.

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