Due materie - Maschietto Editore · gioco di soprammobili spostati che con il farsi del mondo – e...

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editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Due materie a settembre “Può essere la terra che ha dato i natali a Marco Polo e Matteo Ricci, la Cina, semplicemente un grande mercato dove andare a piazzare i nostri prodotti?” “Nel mio cuore c’è il 70esimo vissuto a Marzabotto, con Ferruccio e con gli altri eredi di quella battaglia” Matteo Renzi N° 1 251 84 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, sara nocentini, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile Con la cultura non si mangia

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editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Due materiea settembre

“Può essere la terra che ha dato i natali a Marco Polo e Matteo Ricci, la Cina, semplicemente un grande mercato dove andare a piazzare i nostri prodotti?”“Nel mio cuore c’è il 70esimo vissuto a Marzabotto, con Ferruccio e con gli altri eredi di quella battaglia”

Matteo Renzi

N° 125184

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello,

aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, sara nocentini,

barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

Con la cultura non si mangia

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Da nonsaltare

Ai Wei Wei Libero, si chiama e sarà con tutta probabilità l’attrazione di

questo autunno fiorentino. Una grande mostra - dal prossimo 22 settembre al 22 gennaio successivo – curata da Arturo Galansino, il direttore attuale, e allargata a tutto Palazzo Strozzi, dalle facciate alle cantine, sede per anni del Centro di cultura contemporanea, e oltre. Dagli Uffizi, con una scultura in mar-mo, al Mercato centrale, ormai anche attivissimo centro di proposte artistiche, con le foto del progetto Study of Perspective, dove lo stesso Ai Wei Wei, con il suo inconfondibile faccione, se ne sta con il dito medio alza-to di fronte ai principali simboli del potere mondiale, dalla Casa Bianca alla Tour Eiffel alla Piazza rossa di Pechino. Fino a continuare nelle varie bibliote-che cittadine, da quelle centrali come le Oblate a quella di Via Canova, dell’Isolotto, di piazza Tasso o dell’Orticoltura, con le conferenze e i laboratori per i più piccoli. Ma non è finita per-ché poi alcuni gruppi di studen-ti di alcune istituzione cittadine, l’Accademia di Belle Arti, la LABA, la New York University

o la SACI, lavoreranno attorno all’idea di Oggetti politici con mostre, conferenze e produzio-ne di testi critici. Ultimo, ma non certo meno importante, il ritorno sulla scena del Centro Pecci per l’arte contemporanea di Prato, raddoppiato negli spazi e impegnatissimo in una attività di riflessione a tutto tondo sui fatti dell’arte e non solo, ma in-credibilmente chiuso da tre anni alle mostre per un lunghissimo e molto italico protrarsi dei lavori di restauro. Ecco, anche il Pecci, che si collegherà a Palazzo Strozzi per questo evento di Ai Wei Wei, riapre, fra nemmeno un mese, il 16 ottobre, con una

grande mostra anche in questo caso, La fine del mondo, curata anche in questo caso dal diret-tore Fabio Cavallucci insieme a uno staff di advisor internazio-nali, da Lorenzo Bruni a Jota Castro. Si parla di una cinquan-tina di artisti, da Hirschhorn a Durham a Garaicoa , impegnati a raccontare le inquietudini di questa fine epoca testimonian-done però, al tempo stesso, la relatività e la necessità di un punto di vista sufficientemente distante da coglierne l’insieme. In relazione con l’attività di ri-flessione che il Centro ha svolto, dai tantissimi incontri al Forum dell’arte contemporanea italiana

dello scorso anno, la mostra sarà in realtà un evento, qualcosa che si muoverà fra territori diversi, musica, teatro, cinema, arte, investendo i tanti modi dell’essere cittadino del mondo oggi, esasperando così anche il ruolo dei centri d’arte, musei o meno, non tanto contenitori di opere ma propulsori di idee e interrogazioni. Anche in questo caso l’evento si allargherà a tutta la regione, dal Museo di Scienze Planetarie di Prato, dove sarà esposta una parte della collezio-ne (Kapoor), alla Biblioteca Na-zionale e al Museo della Specola di Firenze fino alla Normale di Pisa con Giulio Paolini.

di Gianni [email protected] Il senso di

Ai Wei Wei

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Da nonsaltare

Su Palazzo Strozzi intanto ventidue gommoni in plastica, di quelli che la nostra Marina usa quotidianamente per salvare i disperati migranti dal mare, ornano sulla facciata le finestre rinascimentali, provocando alcune consuete e scontate polemiche. Ma la mostra di questo gigantesco personaggio pone ben altri problemi. Ai Wei Wei, è noto, inizia la sua attività in Cina alla fine degli anni ’70 con la fondazione di un gruppo chiamato “Stars”. Alcune delle loro mostre, non autorizzate, vengono chiuse, molti perse-guitati. Dopo i fatti di Piazza Tienanmen dell’89 però la visibilità raggiunta da molti di loro consiglia al potere cautela, il successo economico poi ne consiglia ancora di più. La rete internet, per Ai Wei Wei e i suoi infiniti follower diventa stru-mento di divulgazione (come lo erano le riviste clandestine degli anni ’70) ma anche armatura, cintura difensiva. L’eco delle sue carcerazioni si fa planetario. Centinaia di miglia di cinesi firmano petizioni per la sua liberazione, si raccolgono fondi per pagarne la cauzione. Di-venta eroe e martire. Situazione anche pericolosa per un artista. Alcuni galleristi occidentali che lavorano con lui commentavano che imprigionandolo le autorità cinesi gli hanno … “aperto un conto in banca“. Una boutade, certamente, ma l’attività di Ai Wei Wei, dai 1001 cittadi-ni cinesi portati a Kassel per Documenta 12 nel 2007, al celebre stadio a nido d’uccello per le Olimpiadi di Pechino con Herzog e de Meuron nel 2008, ai 9000 zainetti dei bambini morti nel terremoto del Sichuan esposti a Monaco (Remebe-ring, 2009) fino alla proteste per la distruzione dei quar-tieri popolari (gli Hutong) di Pechino, diventa una presenza ineludibile, tutto quel che fa, dai grandi progetti alle proteste per le grandi catastrofi diventa immediatamente virale. E addi-ta – questa sua ricerca - motivi fondamentali del vivere d’oggi: le identità nazionali, le moltitu-dini e le individualità con il po-tere residuale di queste ultime, la democrazia, l’informazione, ma anche la cultura materiale di un popolo e il pericolo della sua

distruzione. Per questo accu-mula, sempre a Kassel, 1001 antiche sedie cinesi o frantuma un’urna della dinastia Han. Tutti se ne scandalizzano, ma non si scandalizzano altrettanto della distruzione quotidiana di ben altre e ben più preziose antichità.In questo senso, e con il ricorso a una spettacolarizzazione di massa, Ai Wei Wei recupera la tradizione di avanguardie e ne-ovanguardie, ma nella libertà e

nella leggerezza della Rete. Alla quale i suoi interventi danno quella forza che altrimenti mai avrebbe. La Rete di per sé è fragile, vaga, dispersiva. È lui che la carica di significati.Ma questa mostra indica motivi di riflessione anche alla città che la promuove. Innanzi tutto perché strutture come Palazzo Strozzi e il Centro Pecci sembra-no finalmente capire la necessità di fare rete. Una rete intercitta-dina che si apre a altre istitu-

zioni e spazi, Uffizi, Mercato Centrale, Biblioteca Nazionale, Specola, Museo delle Scienze di Prato. E che tramite la didattica metta a confronto anche strut-ture che di solito si ignorano, accademie e università italiane e straniere che dovrebbero invece essere considerate, nel loro insieme, un patrimonio analogo forse a quello museale. Poi per-ché, almeno riguardo a Palazzo Strozzi nella nuova gestione Galansino, si chiude l’imbaraz-zante separazione tra il piano nobile (lo spazio delle grandi mostre di arte consacrata) e il sotterraneo della Strozzina (lo spazio della ricerca). Un ultimo, ma non trascurabile motivo ri-guarda invece un dibattito tutto fiorentino. Perché, anche se a celebrare Ai Wei Wei, sponsor tra gli altri la galleria Continua di San Gimignano che ha con l’arista legami assai stretti, oltre che una sede a Pechino, Firenze arriva buon ultima, l’evento si lega qui a motivi urgenti e contingenti. L’invasione delle folle dei turisti, il consumo della città stessa come bene materiale e culturale e l’idea di un’arte che proprio qui si è fatta disegno e politica del mondo e che è ora spesso ridotta a ornamento, gioco di soprammobili spostati che con il farsi del mondo – e della città – non ha più alcuna attinenza.Proprio su queste pagine nei mesi scorsi, a proposito di arte e del ruolo di questa, si sono susseguite molte voci, storici dell’arte appunto, curatori, critici, tutti intenti a cercare di comprendere il cambiamento in atto: che senso ha, se ne ha uno, quello che viene defini-to confronto fra opere d’arte della tradizione e opere di artisti contemporanei? Jeff Koons o Jan Fabre in piazza Signoria hanno un motivo che non sia l’effimero effetto passerella? E le tante copie di sculture di cui la città si riempie, non rischiano di farla diventare un fondale per foto ricordo? L’arte ha un senso nella progettazione del mondo? Domande colossali alle quali la presenza di Ai Wei Wei, con questa bella iniziativa, contribu-isce a rispondere. O perlomeno a impostare una discussione corretta.

L’artista cinese sarà in mostraa Firenze dal 22 settembre

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fare: la nostra iniziativa era vera-mente molto modesta, ma ovunque ci siamo rivolti per chiedere collaborazione, ci hanno detto che da quando Eugenio Giani ha as-sunto anche la carica di presidente della Casa di Dante a Firenze, egli ha praticamente il monopolio dantesco e non può muoversi foglia che Eugenio non voglia intorno a Dante. Ci hanno riferito che Giani sta pianificando celebrazio-

ni dantesche fino al 2021 e che ri-tiene che l’occasione dei 700 anni della morte di Dante sarà decisiva per un Grande Balzo in Avanti: abbiamo chiesto alle nostre conso-relle, nipotine di Mao Zedong, che però ci hanno suggerito di diffidare delle imitazioni. Cosa dobbiamo fare? Attendiamo fiduciose la sua risposta. Cordialità,

Sorelle Marx

Care Sorelle Marx,cosa suggerirvi? Il bulimico Giani è ormai incontenibile, ma se organizzate delle letture dantesche in collaborazione con le nipotine di Mao in un qualche villaggio sperduto della Cina interna, gemellandovi il vostro paesello, forse potrete sfuggire alla longa manus di Giani, il Grande Pianificatore.

Il direttore

Se una volta alle Internazionali ci si divideva tra marxisti e anar-chici, tra comunisti e socialdemo-cratici, non mancano le scissioni alle riunioni del Comindeg, cioè il Comitato internazionale anti degrado, l’organo politico che deve dettare la linea per combattere la piaga degli anni 2000: la movida. Nel verbale dell’assemblea plenaria di qualche giorno fa, infatti, si può leggere il duro scontro fra la destra nardellista e i liberali filippeschia-ni. I primi, forti anche dell’ap-poggio del Comitato Centrale, insistono su un controllo puntuale e massiccio portando ad esempio il guardiano della tartaruga di Jan Fabre in piazza della Signoria che munito solo di uno sguardo arcigno e fisso e di una sedia protegge la scintillante scultura dall’orda dei barbari selfisti (un

sottoprodotto del turbocapitalismo yankee). I secondi, con meno mez-zi e praticamente isolati nella sola città di Pisa, provano a bloccare l’invasione affidandosi al mercato, interrompendo i rifornimenti di birra fresca. È già iniziata da parte della milizia competente una campagna di sequestro di frigorife-ri, ghiacciaine, borsefrigo e financo bombolette di ghiaccio spray per impedire l’approvvigionamento e sperare così che i barbari si ritirino fuori dai confini dell’impero.

Il più grande gruppo farmaceu-tico italiano, ci dice la sentenza che ha condannato la famiglia Aleotti, è riuscito ad essere tale anche grazie a un’enorme evasione fiscale, una rete di false fattu-re, società estere e un enorme immaginiamo dispendio di forze, persone e risorse. Una sentenza che avrebbe dovuto indignare, aprire i quotidiani per settimane, muovere coscienze e che invece è passata veloce, molto meno persi-stente della bufala dei 35 euro al giorno per gli immigrati. Miliardi di euro contro pochi spiccioli per comprarsi sigarette e caffè, eppure sono i secondi a indignare un popolo. Per gli Aleotti nessuna riprovazione sociale, nessuna gogna. Forse qualche invidia o al massimo qualche battuta qui in città sul fatto che se avessero

comprato loro la Fiorentina forse qualcosa di buono lo avrebbero acquistato. Se non è lo specchio di un Paese questo.

Egregio direttore,le scriviamo per segnalarle un fatto ben strano. Nella nostra ridente cittadina di periferia avevamo pensato di alzare un po’ il livello culturale della vita sociale orga-nizzando nella locale biblioteca alcune letture commentate dei Canti della Divina Commedia. Niente di particolarmente impe-gnativo; solo alcuni incontri per i (pochi) amanti del divin poeta del nostro paesello. Siamo rimaste interdette perché ci è arrivato un telegramma dai toni, invero, ab-bastanza perentori, dal Consiglio Regionale della Toscana. Eccone il testo: “Avendo avuto notizia vostra iniziativa dantesca, informiamo essere in corso ideazione primo piano quinquennale celebrazioni dantesche sotto egida invalicabile presidente Consiglio Regionale To-scana, Società Dantesca e Casa di Dante, S.E. messer Giani Eugenio. Stop. Ogni iniziativa dantesca devesi ricondurre a detto Piano GBiA (Grande Balzo in Avanti) pena messa al bando da Toscana. Stop. Pregasi correggere immedia-tamente eventuali deviazioni e prendere contatto con ufficio celeste presidente Giani Eugenio”.Caro direttore, non sappiamo cosa

riunione

difamiglia

Le SoreLLe Marx

Gli Aleotti, i migranti e lo specchio del Paese

Contro il degradoora e sempre

i CuGini enGeLS Lo zio di TroTzky

Piani quinquennali danteschi

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“Negli anni Quaranta c’era a New York un gruppo di giovani fotografi idealisti che

si facevano chiamare la “Photo League”. Scesero in piazza per documentare la disuguaglianza della città con la speranza di cambiarla.” Inizia con queste parole una lunga intervista rilasciata pochissimo tempo fa dalla anziana fotografa Sonia Handelman Meyer (nata nel 1920), che ha fatto parte della “Photo League di New York fino alla data del suo scioglimento nel 1951. In realtà la “Photo League” nasce nel 1936, ma le sue origini risalgono ad un progetto della organizzazione comunista berli-nese “Soccorso operaio interna-zionale” per la creazione di una filiale a New York, denominata “Film and Photo League” con il duplice scopo di documentare la vita e le lotte dei lavoratori americani, e di diffondere la produzione artistica rivoluziona-ria dei sovietici. All’interno della Lega si formano fino dal 1934 due correnti, con Paul Strand e Berenice Abbott che danno vita nel 1936 alla nuova “Photo League”, meno ideologizzata ma ancora con lo scopo dichiarato di “rimettere la fotocamera nelle mani dei fotografi onesti che la utilizzano per fotografare l’A-merica”. A differenza degli altri “Photo Club” esistenti all’epoca, la “Photo League” incentra il proprio interesse non tanto sullo stile delle immagini, quanto sulla “integrazione di elementi formali del design e l’estetica visiva con l’evidenza potente e comprensiva della condizione umana”. Oltre a questo la “Photo League” svolge un lavoro di istruzione e forma-zione dei giovani fotografi. Con una modesta quota annua di as-sociazione di cinque dollari si ac-quisisce il diritto all’utilizzo della camera oscura, posta nella sede sociale in un anonimo palazzo della 21a strada, ed a partecipare a corsi, seminari ed incontri con fotografi come Sid Grossman, Dorothea Lange, Lewis Hine, Edward Weston, Ansel Adams e Paul Strand. Viene inoltre stam-pato e diffuso il bollettino mensi-le “Photo Notes” che, tra le altre cose, propone saggi su argomenti critici legati alla fotografia sociale. Alla “Photo League”, che arriva

a contare oltre duecento soci, di cui un terzo donne, aderiscono nel corso degli anni Quaranta numerosi fotografi importanti, come Walter Rosenblum, Eliot Elisofon, Aaron Siskind, Jack Manning, Dan Weiner, Louis Stettner e Lisette Model, insieme ad altri non meno importanti, mentre altrettanti, come Marga-ret Bourke-White, Walter Eugene Smith, Helen Levitt, Arthur Rothstein, Beaumont Newhall, Nancy Newhall, Richard Avedon, Weegee, Robert Frank, Harold Feinstein, Ansel Adams, Edward Weston e Minor Bianco si avvicinano alla associazione con

interesse e curiosità. Natural-mente l’orientamento sociale e progressista dell’associazione non passa inosservato nell’America maccartista del dopoguerra, fino a quando lo FBI accusa la “Photo League” di essere comunista, sovversiva ed anti-americana, arrivando ad incriminarla for-malmente nel 1947. La “Photo League” reagisce organizzando una memorabile esposizione di fotografie nel 1948, ma alla luce dei vecchi contatti con le organizzazioni comuniste di Berlino, nonostante il calo delle iscrizioni e l’abbandono dei fotografi più “compromessi”,

come Paul Strand e Saul Leiter, la “Photo League” viene sciolta nel 1951. Mentre la maggior parte dei fotografi prosegue professio-nalmente nella propria attività su altri fronti, la maggior parte delle donne, come la stessa Sonia Han-delman Meyer, sospendono ogni forma di attività documentaria o artistica. Come sovente accade, sia negli USA che in Europa, solo settanta anni più tardi le fotogra-fie scattate da Sonia nelle strade di New York diventano oggetto di una esposizione importante, e la fotografa ultra ottantenne ot-tiene un meritato quanto tardivo riconoscimento.

Sonia Handelman Meyer e la Photo League

di daniLo [email protected]

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circostante, ricomponendolo a livello visivo, in una dimen-sione fisiologica che, di opera in opera, esalta sempre più la potenzialità significativa del grande teatro della parola. Fin dagli anni Sessanta Arrigo Lo-ra-Totino ha fatto della poesia concreta uno spazio estetico e divulgativo, promotore di una forza centripeta di situazioni e possibilità a cui nessun artista di oggi può venire meno, poiché da personalità come questa non si può non apprendere l’impor-tanza dell’inarrestabilità creativa e la necessità di una prospettiva culturale in continuo divenire.

di Lora-TotinoIl segno

di Laura [email protected]

Il mondo dell’Arte, soprat-tutto quella totale delle Neoavanguardie degli anni

Sessanta, saluta un altro grande artista, figlio dei nostri tempi e precursore di una sperimenta-zione che ancora accompagna le istanze della creatività contem-poranea. Arrigo Lora-Totino, classe 1928, ha lasciato un segno indelebile nel modo di fare e concepire il prodotto artistico del nostro presente: dall’immagine alla parola e dal suono al segno è riuscito, nel corso della sua poetica evolutiva e dinamica, a varcare i confini disciplinari reinventandosi con-tinuamente e credendo costan-temente nella forza espressiva della comunicazione. Per quasi mezzo secolo Arrigo Lora-To-tino ha sondato gli sterminati e inesplorati spazi della poesia, conducendola oltre i limiti della tradizionale pagina tipografica, con l’intento di analizzare ogni possibile alternativa al progresso massmediatico e alla falsa infor-mazione veicolata dal Sistema. Concretezza, visualità, sonorità, gestualità e virtù performativa sono state le manifestazioni essenziali della sua poetica e della sua prassi estetica, ossia un modo di fare Arte che è andato oltre la realtà linguistica ine-splorata, restituendola al mondo in una originalità inedita e concretizzando l’evento lingui-stico nella sua totalità. Nelle opere di Arrigo Lora-Totino la sperimentazione non si riflette sulla parola, ma si pone dentro e oltre la parola: il segno è carico di ogni possibile e immaginabile significato, divenendo elemento universale di comunicazione e decodificazione; la parola viene esibita in tutto il suo potenziale di essere al contempo conte-nuto semantico, segno grafico e tipografico, nonché segno sonoro-musicale. In linea con le ricerche concretiste, la parola si contamina con fantasmatici segni non convenzionali, con le forme plastiche che sorgo-no dalla combinazione degli elementi presenti sulla pagina, sulla tela o sul supporto. Poesia e parola – nelle loro più ampie attuazioni e accezioni – sono stati i veicoli attraverso cui l’artista ha esplorato il mondo

In alto III tempo. Sfuggendo, 1977Collage e china su carta

cm. 22x46,4A fianco

Intertesti, 1975Collage su cartoncino

cm. 70x47Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

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si muove con queste piccole oscillazioni. I pianeti ruotano intorno al Sole. Non è proprio vero: i pianeti ruotano intorno al centro di massa del Sistema Solare. Non è molto lontano dal centro del Sole. E anche il Sole si muove intorno al centro di massa del Sistema Solare. Di poco, perché lui è grande, ma si muove. Ma allora… Si, anche Proxima Centauri segue questo moto di oscillazione perché un pianeta le ruota intorno, e come la stella determina il moto del pianeta, così il pianeta determi-na il moto di Proxima Centauri! Il Sole, otto pianeti, più gli

asteroidi, i satelliti e le comete, e Proxima Centauri invece ha solo un pianeta? Si, la sensibilità degli strumenti che abbiamo ci permette di vedere solo questo pianeta di Proxima Centauri. Forse ce ne sono altri, forse no. Proxima Centauri b, il pianeta extrasolare più vicino che cono-sciamo. Da quello che abbiamo misurato di Proxima Centauri, e da quello che sappiamo della struttura e del funzionamento delle stelle, possiamo dire che la stella ha una massa circa un ottavo di quella solare e che ha una temperatura alla superficie di circa 3000 gradi, molto più

bassa di quella del Sole, che ha una temperatura di circa 6000 gradi..Il pianeta dista dalla stella circa un ventesimo di quanto dista la Terra dal Sole e ha un diametro che è almeno 1,3 volte il raggio della Terra. Due considerazioni. La prima. La stella più vicina al Sole ha un pianeta che le ruota intorno. Ma allora è proprio vero che i pianeti intorno a stelle non sono un fenomeno così raro. La seconda. La temperatura di un pianeta dipende soprattutto dalla distanza dalla sua stella. Bene: nel nostro caso, la tem-peratura di Proxima Centauri b è tale che ci si potrebbe trovare acqua liquida: né troppo calda, altrimenti sarebbe tutta in forma di vapore, né troppo fredda, altrimenti sarebbe ghiacciata. Potrebbe: sono richiesti altri requisiti, che ci sia una atmosfera che genera una pressione (senza pressio-ne, possiamo avere solo solidi o vapori, non liquidi, quindi ghiaccio o vapore d’acqua), che ci sia ossigeno e idrogeno a disposizione… L’acqua allo stato liquido è uno dei requi-siti che immaginiamo siano necessari perché la vita si possa sviluppare. Altre osservazioni saranno necessarie per capire se qualcuna della altre condizioni sono verificate. E forse vale la pena che ci faccia una visita la flotta di StarChips, le navi spa-ziali di qualche grammo spinte da un laser di potenza ancora mai vista, ma di cui Stephen Hawing, Yuri Miner e Mark Zuckerberg stanno parlando da qualche mese.

Proxima Centauri Bdi ruGGero [email protected]

Per vederla, bisogna viag-giare verso sud, almeno fino alla latitudine del

Sinai. Laggiù, il sistema di Alfa Centauri si alza appena appena sopra l’orizzonte. Un sistema di tre stelle: due danzano insieme, ruotando intorno al centro di massa del loro sistema; la terza, Proxima Centauri, una stellina così debole che non si vede ad occhio nudo, percorre un’orbita che avvolge le altre due in circa 500.000 anni. È relativamente semplice misurare la distanza di Proxima Centauri da noi. Durante l’anno, dalla Terra vediamo che Proxima si muove rispetto alle stelle di sfondo, più lontane: percorre una piccola ellisse che è il riflesso dell’orbi-ta della Terra intorno al Sole. Misuriamo quanto è grande l’el-lisse, sappiamo quanto la Terra è lontana dal Sole, e con un sem-plice ragionamento geometrico, calcoliamo quale è la distanza di Proxima Centauri da noi: 4,25 anni luce. Per confronto, il Sole dista dalla Terra 8 minuti luce e 20 secondi luce, circa; Saturno, circa 10 volte tanto, poco più di un’ora luce e venti minuti luce. La Nube di Oort, la regione sferica intorno al Sole, da cui provengono le comete a lungo periodo, dista dal Sole un po’ meno di 9 mesi luce: ci manca-no le parole, le similitudini per descrivere le infinite distanze nell’Universo. Proxima Centauri si muove rispetto a noi, niente è fermo nell’Universo, e noi possiamo misurare la sua velocità grazie ad un fenomeno fisico, che si chiama effetto Doppler. Se la stella si muove verso di noi, la luce è un pochino più blu, se si allontana, un pelino più rossa. Non è che si vede così, a occhio nudo, o con un piccolo telesco-pio e basta: occorrono stru-menti sensibili fatti per queste analisi, gli spettroscopi, con cui possiamo misurare con preci-sione la lunghezza d’onda della luce che ci arriva. Bene, queste misure di velocità ci dicono che Proxima Centauri fa un piccolissimo moto oscillatorio, va avanti ed indietro, comple-tando un ciclo in un po’ più di 11 giorni. Curioso! Beh, ma se guardiamo bene, anche il Sole

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tivi - come Gabriele Frasca (15 settembre), Carlo Bordini (21 settembre Caffé letterario Le

Murate ore 17,30 e Biblioteca Oblate ore 21), Renata Morresi (20 settembre ore 18 Libreria

Todo Modo e ore 21 Biblioteca delle Oblate), Giuliano Scabia (20 settembre con Renata Mor-resi alle Oblate ore 21) – alcuni importanti poeti stranieri come la slovena Kristina Hočevar insieme all’australiano Nathan Shepherdson (il 22 settembre alle Oblate ore 21), l’inglese Simon Marsh, l’australiana Me-linda Smith (22 settembre NYU Florence ore 16,30) e i palesti-nesi Mohamed Hilmi al-Risheh, Mourad al-Sudani (in una serata dedicata il 28 settembre ore 21 alla Biblioteca delle Oblate). Il programma dettagliato lo trova-te all’indirizzo www.vocilonta-nevocisorelle.it. “Voci lontane, voci sorelle” si incarica, dunque, di comunicar-ci che c’è ancora una speranza che germoglia, silenziosa e inesorabile, dietro le grige pareti di cemento armato del pensiero mainstream; che si può resistere alle ferree leggi dell’economici-smo che hanno ormai colonizza-to anche la cultura, quella che si mangia, naturalmente; che c’è, montalianamente, una maglia rotta nella rete che ci stringe dalla quale volendo si può balzare fuori e fuggire. Dopo quattordici anni, non è poco.

Si è aperto in questi giorni il festival di poesia interna-zionale “Voci lontane, voci

sorelle”, in vari luoghi a Firenze. Quattordicesima edizione! E come possa sopravvivere, anzi crescere, per 14 anni un festival di poesia in un tempo e a latitu-dini dove ogni senso della poesia nella vita sociale e politica si è perso, è già questo un interro-gativo che varrebbe lo spazio di una approfondita riflessione. Che potrebbe addirittura avere spazi nell’ambito dei fenomeni inspiegabili dell’irrazionalità. Voglio dire, ma perché mai in una società completamente pie-gata alle logiche del profitto o dell’individualismo proprietario, come titolava nel lontano 1987 un libro di Pietro Barcellona che sottoponeva a critica lo sviluppo delle teorie lockiane sull’indivi-dualismo nell’età contempora-nea, la poesia dovrebbe avere un minimo di spazio vitale? La più disutile delle arti, la più lontana da ogni implicazione economica (finanche quella delle vendite editoriali, figurarsi quella dei finanziamenti pubblici!), la più immateriale delle espressioni artistiche, sembrerebbe condan-nata all’irrilevanza e, forse, alla morte per inedia. Invece, come la pianta spontanea che rompe il potente cemento con le sue fra-gili eppure persistenti radici, la poesia si fa largo fra le stritolanti leggi dell’economia che pre-siedono anche alla produzione culturale e prorompe in forme insospettabili. Così questo festi-val dal 2002 continua a propor-re ad un pubblico crescente (in numero, qualità e tipologia) la poesia del mondo. E sottopone al pubblico non solo la poesia prodotta e letta dai suoi stessi autori, ma anche i problemi della poesia contemporanea, come quello della traduzione, delle strategie dell’avvicinamen-to alla lettura della poesia (il 23 settembre ore 17 alla Biblioteca delle Oblate), dei classici e della poesia in tempi di povertà (il 27 settembre ore 17 al Mu-seo Novecento), della poesia dei popoli oppressi (la poesia palestinese il 28 ottobre ore 221 sempre alla Biblioteca delle Oblate). Accanto ai poeti italia-ni contemporanei più significa-

Voci lontanevoci sorelle

di SiMone [email protected]

Le cose non funzionano. Lo so che a dirlo si corre il rischio di passare per gufi. A dire la verità ciò che ci manca non è la spe-ranza ma la fiducia. Vorremmo essere ottimisti, guardare al futuro con serenità, vedere i nostri figli in grado di costruirsi un futuro. Vorremo vedere il nostro paese crescere. Vorremmo. Mala realtà ce lo impedisce. Siamo realisti non pessimisti. E neppure gufi, visto che la notte sprofon-diamo in sonni profondi. Di giorno invece è difficile non essere sfiduciati. Lo siamo perché la cronaca è quella che è. A Genova i lavori sul Bisagno sono stati realizzati con oltre 3 anni di ritardi a causa di corsi e ricorsi. A Pompei bloccati i lavori di consolidamento a seguito di gare aggiudicate e sospese. In Veneto

- ci dice Il Gazzettino – 8 appalti su 10 sono fermi. In Toscana per il via libera alla costru-zione dei 4 ospedali si sono persi 3 anni. Per completare la diga del Metramo in Calabria non sono bastati 35 anni. E si potrebbe continuare. L’elenco è lungo. Fatto sta che il 70% delle gare pubbliche – scrive Quadrio Curzio sul Sole – sono bloccate dai ricorsi. Da noi è ancora aperto il caso, clamoroso, della gara per la gestione unica del trasporto pubblico, urbano ed extraur-bano. Gara che la Regione ha aggiudicato lo scorso 2 marzo ad Autolinee Toscane ma ancora bloccata dal ricorso al Tar, il cui esito è destinato all’incertezza per ancora diversi mesi se non anni. Vengono così bloccati 563 mi-lioni di investimenti e ogni mese che passa la Regione è costretta a sborsare 650mila euro in più agli attuali gestori.

Ritardi che provocano danni consistenti. In presenza di incertezze gli investitori stranieri scelgono altri Paesi, l’economia si sfianca, si ritarda la realizzazione di opere o l’avvio di ge-stioni più efficienti dei servizi. Il tutto perché non siamo ancora riu-

sciti a riformare la giustizia am-ministrativa, annunciata da Prodi e ribadita da Renzi. Fatto sta che i Tar continuano a giudicare sulla base di norme ingiallite anziché valutare gli effetti concreti. Eccesso di norme, proliferazione di regole, codice degli appalti assai ingarbugliato consentono ai perdenti di mettere i bastoni fra le ruote e bloccare tutto. Dice il presidente della Corte dei Conti, Squitieri, “le opere non partono per i troppi ricorsi e le sospensi-ve, attuati perché non si riesce a rispettare il pacchetto enorme di leggi”. Più chiaro di così. Ma - ci dicono - per avere un’Italia più efficiente “Basta un Sì”.

di reMo FaTTorini

Segnalidi fumo

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archetipo del bisogno di identità e sicurezza, o meglio dell’im-possibilità di realizzazione di questo bisogno, così come della fascinazione misteriosa di ogni interno. Vittorio Corsini, livor-

nese d’origine, opera a Firenze e insegna scultura all’Accade-mia di Belle Arti di Brera; ha esposto le sue opere, oltre che a Firenze, Siena, Torino e Milano, anche, solo per ricordare alcune

occasioni, a Londra (Garzelli Art House) e Salisburgo ( AGP Galerie). La mostra di Amster-dam, da cui sono tratte le foto pubblicate, si concluderà l’8 ottobre del 2016

Le case costituiscono il leit-motif, un sogno ricorrente che attraversa il percorso

espressivo dell’opera di Vitto-rio Corsini; dalle primissime lievitanti nello spazio blu nelle tele in acrilico degli anni ‘80, a quella quasi impossibile da trovare perché appesa al soffitto capovolta esposta al Pecci nel 2003, alla baracca militare in metallo da cui si proiettavano sul soffitto e le pareti le paro-le del più famoso discorso di Martin Luther King “I have a dream “ (Genova 2004) fino alle minuscole in vetro, rosa all’interno, delle esposizioni più recenti. Così, anche in questa mostra di Amsterdam, il lavoro di Corsini sembra sospeso tra la promessa e l’impossibilità di abitare uno spazio; e l’alternarsi di materiali solidi con altri estre-mamente fragili non modifica l’equilibrio sospeso tra desiderio e impossibilità. L’apertura è, in ogni caso, sempre apparente sia che si tratti di pareti d’alluminio ripiegate che di mura comple-tamente trasparenti; in effetti, solo la luce può penetrare e quindi lo sguardo che spazia liberamente dentro la casa, ma per nessuno è possibile entrare neanche quando il desiderio si fa struggente, intrigato dalla luce rossastra come un cuore interno o dalla delicatezza ge-ometrica dei profili del piccolo castello. Nello svolgersi del per-corso artistico , a partire dagli anni ‘80, lo spazio si è appunto aperto alla luce e allo sguardo gradualmente; le prime case fluttuanti erano chiuse e opache mentre le ultime sono aperte completamente oppure traspa-renti e luminose ma l’interno è sempre, direi necessariamente, vuoto e fuori dal tempo, solo nella casa di “I have a dream” (Genova 2004) vi era un riferi-mento temporale, ma proiettato fuori e ripetuto all’infinito sulle pareti fino a renderlo diverso da sé. Ormai per l’artista, e questa mostra lo rispecchia pienamen-te, la scultura della casa è solo

di MarianGeLa arnavaS

Il sogno delle case

Le massime vette della specu-lazione contemporanea sono raggiunte da questo immenso ca-polavoro di Fred Bongusto. Molti filosofi del nostro tempo breve, anziché alambiccarsi sui concetti di amore e sentimento, avrebbero fatto meglio a scandagliare questo immenso testo. L’oggetto estetico, l’amata in Bongusto non ha volto, né forme, né è rappresentativa di una icona di sensualità. Anche se Bongusto descrive le fattezze della donna bramata, queste paiono sparire ad ogni canzone su uno sfondo fallico: la donna è uno spettro, una sorta di esponenziale e grottesca proiezione della fica di “Bongusta”, una promanazione fallica di un desiderio manico-miale, autoritario. In questi viaggi canori è concesso il fantasticare delimitato, la palingenesi clau-strofobica del desiderio: noi in realtà ci accoppiamo, limoniamo, scopiamo con lui e non con le sue belle. Si prenda questo brano e si analizzi il relativo testo. Nella sostanza, Bongusto è una sorta di “Donno”, ignaro, sorpreso. “Che bella idea” che hai avuto, tu spettro, tu donna-oggetto-co-sa-membro-vulva, tu donna funzionale, portatrice di una

maternità priva di placenta…”mi prendi la faccia, mi dici che bello che sei”, siamo al parto mascolino, al desiderio del marito-bimbo che sensualizza la madre vestendola con un completo da uomo…”e allora so cosa vuoi”, io maschio ignaro e innocente, traviato dalla lussuria della baccante, sorpreso e travolto da questa indecenza che si fa concreta, reale…Il paradosso dell’incantamento del Bongusto-Odisseo, sta tutto in quel: “metti su un disco ma io non capisco, che strana musica sia”; è l’incanto del perverso, del masochista (femminino) che si fa legare al palo pur d’udire, d’esser tentato. Qui il graffio della puntina del giradischi ricorda i solchi della tortura inquisitoria e ci rimanda all’ideale platonico del

Bello come Terrore.In buona sostanza, Bongusto è il cantore del nostro “epos” italico, sentire le sue canzoni è sprofon-dare in una sorta di Arcadia, di bucolica dal tempo indistinto, fra i vapori di un passato remoto che pur abbiamo vissuto, mondi popolati di patonze pelose, cosce cellulitiche di semidee e gonne a campanazza svolazzanti su mutande di pizzo profumate al ciclamino.La donna di Bongusto è irreale, è il volto della mamma raffigurata nella confezione del “Brodo Star”, è un ideale fumettistico, un essere non carnale ma fisico, espressione di brama ultraterrena, di una dea lussuriosa che indossa il collant del Postal Market. D’altronde, lo si deduce: Atena non ha volto.In un altro pezzo, Bongusto recita, smaccatamente: “tu esci come Venere dall’onda…sei bella mi fai quasi rabbia…in radio la classifica dei dischi…”. Ecco la musica infernale, tentatrice sotto forma di juke-box mefistofelico, di nenia estiva che annuncia l’Incanto e l’irruzione del Divino sulla Terra. Non c’è che dire: un gigante, un titano.

di FranCeSCo [email protected] Apologia di Bongusto

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L’attività di Tempo Reale (il centro fiorentino di ricerca musicale fondato da

Luciano Berio) dentro Solliccia-no è divenuta in questi anni un momento importante, un perno centrale delle sue attività. Non quindi una ricerca effimera di chi aspira ad un luogo inusueto o a collaborazioni di carattere “esotico”: c’è bensì un interesse forte a far coincidere forma-zione e produzione musicale con l’esigenza della comunità culturale di riconciliarsi con persone e idee che non si ha modo di incrociare quotidiana-mente, ma che rischiamo invece di confinare – anche idealmen-te – in un universo di secon-da mano, emarginato. Poco importa quindi se base di tutto questo sono forme espressive ormai ampiamente sdoganate (come il rap o la canzone) o se è molto debole qualsiasi idea di ricerca e innovazione linguistica. Il compito di un centro come Tempo Reale non è e non può essere solo quello di operare in quella fortunata isola felice della cultura mainstream: il ruolo di un centro è anche quello di esprimere il senso della ricerca nell’indagine di nuovi meccani-smi di rapporto sociale attraver-so la musica, di relazioni aperte e “indifese” con donne e uomini apparentemente lontani tra loro e dalla nostra tranquilla esistenza di tutti i giorni.Da quattro anni Tempo Reale ha condiviso con alcuni partner progetti specificamente ideati per il carcere, per la diffusione dei problemi, della vita e delle esperienze artistiche che vi si conducono. Inseriti sempre nelle attività istituzionali di Tempo Reale (il festival, il Progetto Primavera) i progetti hanno visto alternarsi varie tipologie di azioni che, nel 2016 com-prenderanno, oltre al concerto SOS-SolliccianoOnStage, anche un percorso formativo sull’inge-gneria del suono esplicitamente progettato per i detenuti. Questa progettualità con il Complesso Circondariale di Sollicciano – sostenuta dalla Regione Toscana, dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze insieme ad un significa-tivo apporto di risorse istituzio-nali – ha dunque radici recenti.

Sollicciano

Il progetto che nel 2013 ha aperto le porte del carcere per le idee di Tempo Reale è stato Leitmotiv/Sollicciano, ripetuto in più occasioni. L’idea è stata quella di scoprire e valorizzare il “luogo carcere” attraverso la musica, così come di presentare ad un pubblico la quotidiani-tà di alcuni degli spazi vissuti dai detenuti, dalla chiesa agli orti, dal teatro alla scuola. Un percorso inedito e sorprendente che grazie alla presenza sonora di musicisti e performer scelti tra i detenuti ha permesso di

assorbire la particolare atmosfera dei vari spazi, ascoltando l’esecu-zione di brani musicali inediti o la rielaborazione estemporanea ed originale di temi musicali depositati nella memoria collet-tiva, frutto spesso della contami-nazione tra culture musicali di paesi diversi. L’obiettivo è stato quello di costituire uno spazio e un tempo ideali aperti alla coesistenza di generi, stili e per-sonalità differenti per condivi-dere insieme al pubblico un’idea di universo sonoro in grado di accogliere musiche e musicisti di

di FranCeSCo [email protected] SOS

culture lontane: un orizzonte di comune appartenenza, pur nella varietà anche conflittuale delle emergenze espressive e delle storie individuali.Gli ultimi due anni si è pensato ad un concerto e, mentre nel 2015 il filo rosso del dialogo con i musicisti detenuti è stato affidato gruppo fiorentino Pastis (dei fratelli Lanza), in questo SOS-Sollicciano On Stage abbiamo pensato di scombinare le carte inserendo nel progetto il gruppo Scaramouche: una formazione di folk rock e world music composta da musicisti toscani e pugliesi che, formatisi nel 2004, presenta brani energici e struggenti a metà strada tra il cantautorato e la tradizione popolare salentina. La band, composta da Michele Lombardi (voce e chitarra acustica), Ric-cardo Brizzi (percussioni) e Sal-vatore Sese (chitarra elettrica) ha una ricca attività concertistica in Italia e ha esplicitamente com-posto una canzone per l’occa-sione del 29 settembre, data che aprirà anche la nona edizione del Tempo Reale Festival.Il personaggio centrale di questa lunga operazione è senza dubbio Massimo Altomare, già cono-sciuto cantautore fiorentino e instancabile “capo-banda” di tutti i progetti formativi in carcere legati alla musica già da molti anni: la sua generosità e il suo spirito di dedizione ci hanno convinto a supportarlo e aiutarlo nell’opera che con continuità pluriennale lui compie all’inter-no delle mura carcerarie, tirando le fila di quell’Orkestra Ristretta che è divenuta emblema del desiderio di libertà espressiva di chi sta dietro le sbarre. Lavorare con lui ci permette di imparare molto.SOS-Sollicciano on Stage avrà luogo il 29 settembre, le modalità di partecipazione e di prenotazione (entro il 20 settembre) sono consultabili su www.temporeale.it

on stage

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Sento parlare di “capolavoro assoluto”, davvero non ricordo a proposito di cosa,

e percepisco all’istante il fastidio e la stonatura. Il fastidio è per la banalità, la quasi automaticità dell’uso dell’aggettivo; intriso della piag-geria tipica del basso giornalismo e, non in ultimo, segno di un approccio all’arte disarmato e conformista. Cito, al proposito, Antonio Natali, già direttore della Galleria degli Uffizi, per il quale “la venerazione tribu-tata, per esempio, ai dipinti di Botticelli della Galleria fiorentina è paragonabile alla devozione che si riserva alle reliquie reputate miracolose. La fede (cui peraltro aspiro, ma su un altro piano) è un’attitudine financo dannosa al cospetto di un’opera d’arte; cui ci si dovrà volgere con la stessa disposizione intellettuale e spirituale che s’assume quando ci s’accinga alla lettura d’un testo letterario”. Perché “nel ricorso abusato ai feticci della storia dell’arte muore ogni istanza d’educazione e, per converso, vive e prospera l’ignoranza” (da “L’alleanza tra scultori e pittori di statue”, Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2016). Insieme al fastidio, si diceva, è anche la stonatura, che quasi erompe dall’espressione ‘capo-lavoro assoluto’. Nel concetto di capolavoro (nome composto da ‘capo’ e ‘lavoro’), infatti, è già insito un giudizio di supe-riorità, ove di non di eccellenza. Per Wikipedia capolavoro è “un’opera generalmente consi-derata eccelsa, oppure la prima in ordine d’importanza di un artista, artigiano o autore”. È “la migliore opera di un artista, di una scuola, di una corren-te letteraria” per lo Zingarelli minore (Zanichelli, 2004) e nel vocabolario della Crusca (V° ed. 1863-1923, vol. II, pag. 532) esso è “opera di grande eccellen-za, ed anche l’Opera più perfetta di un autore”. Insomma è chiaro: se un capo-lavoro ‘è’ un capolavoro, cosa c’entra porre quell’assoluto’, al suo seguito? Come un carrello a due ruote agganciato ad un’agile vettura sportiva, o un maggior-domo al servizio di un individuo che basta a sé stesso: è zavorra,

cosa inutile - ove non dannosa - e persino insopportabile!Si rifletta, quindi, sul significato di ‘assoluto’. Il vocabolo deriva dal latino ‘absolutus’, che nel di-zionario etimologico del Devoto (II° ed., 1968) equivale a “libera-to da qualsiasi vincolo”. ‘Solutus’ - participio perfetto del verbo latino ‘solvere’ - vuole appunto dire sciolto, liberato da. Senonché quando dico che un’o-pera è un capolavoro, io giudico quell’opera necessariamente

rispetto ad altre opere. Per Roger Scruton (“La bellezza”, 2011) “occorre prendere sul serio la possibilità che i giudizi di valore tendano a essere comparativi. Quando giudichiamo la bontà e la bellezza delle cose, molto spesso creiamo un elenco di alternative, con l’idea di scegliere tra loro. La ricerca di una bellezza assoluta o ideale ci può distrarre dall’esi-genza più impellente di mettere a posto le cose”. Dunque, ‘messe a posto le cose’, l’eventuale emerge-

re di un capolavoro è pur sempre all’interno di una relazione - per lo più di ordine estetico - tra un’opera e altre opere. Il capo-lavoro è, insomma, inevitabil-mente ‘relativo’; è frutto di quella relatività che non vuol dire tutto e il contrario di tutto, non è puro soggettivismo; piuttosto, essa allu-de a rapporti, a nessi più o meno nascosti o espliciti tra le cose.Il ‘capolavoro assoluto’ è una idiozia e se mai io l’avessi pro-nunciata, dovrei farne pubblica ammenda. Assurge ad emblema di un linguaggio autocompiaciu-to che irride o comunque non si cura degli aspetti semantici; che non fa uso della parola, bensì la spolpa, la svilisce, perde il contat-to con essa, generando brutture e autentici non-sensi.Abbiamo tutti l’obbligo morale di prestare attenzione alla parola, con impegno e con umiltà; senza remore nel rilevare e discutere ciò che risulta sbagliato e, soprattut-to, senza sottrarsi all’onere e al piacere di spalancare le pagine di un vocabolario.

L’assolutezza del capolavorodi PaoLo [email protected]

Valencia, Calatrava

Le architetturedi Pasquale Comegna

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piuttosto spolpato. Un mega-schermo a metà piazza proietta ininterrottamente immagini documentanti l’invasione dei carrarmati russi, il 20 agosto ri-corre l’anniversario, le barricate, le inutili proteste, per sottoli-nearne la realtà, parcheggiati lì vicino, un carro blindato che sembra di latta ed una ambu-lanza dell’epoca. Nella parte alta della piazza la lapide che ricorda Ian Palach e un suo emulo che per protesta si diedero fuoco,

avevano 20 anni, chissà, ho pensato, se valeva la pena quel sacrificio di sé per il proprio nome nella storia. La Casa Co-munale è un edificio bellissimo, restaurato con costi stratosferici e restituito al suo fulgore fuori e dentro, tutto è curatissimo e disegnato da artisti e architetti vari, ogni stanza ha un autore che ne ha curato ogni dettaglio, dalle poltrone ai lampadari, ai tendaggi in pendant con gli affreschi e le balconate e i rica-mi sulle tappezzerie, e persino attaccapanni e termosifoni. Per-fetti anche locali tecnici e guar-daroba. Fra i vari artisti anche Mucha nel suo, un po’ ostico, linguaggio storico patriottico la concordia slava è il tema. Scelgo due foto di dettagli di questo meraviglioso ed inconsueto luogo, che malgrado la ricchezza dei decori comunica un senso di razionale ed ordinata semplicità, ricca ovvio. In una delle tante, belle, galle-rie, un’enorme statua di bronzo di un cavallo all’incontrario... cavalcato sulla pancia. Nella periferia anche i lunghi e grigi palazzoni di regime sono stati dipinti ed intorno a loro sono nati alberi e giardini che hanno reso, se non belli, meno tristi e squallidi questi luoghi.

Che Praga fosse una città molto bella me lo ricorda-vo, ma dal ‘92, epoca della

nostra, sommaria, visita ad oggi i miglioramenti sono stupefa-centi. Allora, da poco, c’era stata la liberazione dal giogo comu-nista e dal controllo sovietico, si respirava un’aria frizzante di libertà, di irrisione e scherno verso ogni tipo di divisa e ogni simbolo istituzionale, gruppi di ragazzi e ragazze ballavano e cantavano in centro e sul Ponte Carlo e seguivano, saltellando loro intorno irriverenti, i soldati che facevano il cambio della guardia alla residenza del Presi-dente al Castello. I negozi erano pochi però, come polverosi, i loro scaffali semivuoti, gli abiti, le scarpe, le borse e anche i cibi in vendita scarsi in quantità e qualità e terribili. C’era però un fiorire di librerie e piccoli negozi di dischi, di antiquariato o di vecchiumi meno nobili e tantis-sime gallerie d’arte che offrivano quadri, incisioni e stampe molto carini. Oggi..tutto risplende, i turisti sono vere e proprie folle, ancora più fitti che nel nostro triangolo d’oro, le merci in offerta copiosissime, molte cianfrusaglie per turisti, molti gioielli a base di granati, cristalli di Boemia, molta meno arte direi. Palazzi e case sono tutti perfettamente restaurati, i tetti che si vedono sotto e intorno alla torre dell’orologio sono tutti nuovissimi. Ciononostante le vie non perdono l’atavica bellezza derivante loro dall’anti-co lignaggio, insegne affrescate, decorazioni, mosaici, dettagli liberty, ringhiere, cancellate, forme, colori delle facciate, chiese e torri scurissime, tutto contribuisce a rendere un po’ magicamente finta e al contem-po vera, vissuta e reale la città. I marciapiedi sono a mosaico, pietre piccole bianche e nere formano geometrie semplici che nel ghetto si fanno a stella di David. In piazza Venceslao, lun-ga, distesa e vitalissima, a forni elettrici di vetro in cui girano maialini interi e baracchini con würstel se ne accompagna uno che esibisce un lungo spiedo in cui vari prosciutti, infilzati in verticale, si affumicano su fuoco di legna, la sera ne resta uno e

di CriSTina [email protected]

di andrea [email protected]

Ritorno a Praga

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo FrangioniIl migliore dei Lidi possibili

Teste di tasto

di Lido [email protected]

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e la Fondazione IlBisonte, un percorso formativo legato ad una riflessione sul proprio io nei confrontidella contemporaneità. Verran-no offerte, ai dieci partecipanti selezionati, duesettimane di workshop, il primo corso dedicato alla pittura en plein air presso la

Fondazione Primo Conti, il secondo corso dedicato all’inci-sione calcografica presso laFondazione il Bisonte.Le domande pervenute entro le ore 12 del 21 ottobre 2016 (data scadenza del bando)saranno valutate dalla Giuria Tecnica composta da Carlo Sisi (Presidente), Adriano

Bimbi, Rodolfo Ceccotti e Gio-vanna Uzzani.Le opere realizzate saranno espo-ste per due settimane presso gli spazi espositivi messia disposizione per l’occasione dal Comune di Fiesole.Il Bando è pubblicato sui se-guenti siti: www.fondazionepri-moconti.org, www.ilbisonte

La Fondazione Conti per i giovaniLa Fondazione Primo Conti, con il sostegno del Comune di Fiesole e la collaborazione della Fondazione Il Bisonte bandisce nell’ambito di “Toscanaincon-temporanea2016”, con il contri-buto della Regione Toscana,un concorso rivolto a giovani artisti di tutte le nazionalità, residenti in Toscana, di etàcompresa tra 18 e 25 anni, pro-ponendo un’occasione formativa di due settimane diworkshop per stimolare la pro-pria creatività nella produzione di opere.È la seconda volta, sempre nell’ambito di “Toscanaincon-temporanea2016”, che laFondazione Primo Conti indice un concorso rivolto ai giovani artisti, ai quali anche lostesso Maestro Conti guardava con attenzione, amore e dedi-zione.La Fondazione ha voluto così at-tivare, con il Comune di Fiesole

Programma

Saluti istituzionaliBarbara Casalini, Assessore a Turismo e Cultura del Comune di FiesoleGiancarlo Paba, Presidente della Fondazione MichelucciRoberto Masini, Presidente dell’Ordine Architetti Firenze

InterventiPier Lodovico Rupi – Massimo Baldi e la Commissione Regionale Tecnico Amministrativa del 1972.Roberto Agnoletti – Giovanni Michelucci e Massimo Baldi, due sguardi urbanistici.

Tavola rotondaRoberta Bencini, Raimondo Innocenti, Silvia Viviani e Iacopo Zetti – Fiesole e Pistoia: paesaggio, territorio e architettura.coordina Monica Baldi

ConclusioniAnna Ravoni, Sindaco di FiesoleElena Becheri, Assessore alle Attività ed istituti culturali del Comune di Pistoia

A seguire, alle ore 18.30, inaugurazione della mostra “Massimo Baldi: l’eredità di un architetto urbanista” alla sala Antiquarium Costantini del Museo Civico Archeologico. Si ringrazia per il sostegno Vernici Ecologiche BIO ROMA

Per gli architetti la partecipazione darà diritto a Crediti Formativi. Informazioni presso Fondazione Architetti Firenze.

GIOVANNI MICHELUCCI, MASSIMO BALDI E L’URBANISTICA IN TOSCANAConvegnoFiesole, Sala del Basolato, piazza Mino da Fiesole22 settembre 2016, dalle ore 14.00 alle 18.00

Un’iniziativa di

Comunedi Fiesole

Comunedi Pistoia

FondazioneGiovanni Michelucci

Ordine degli Architetti, Paesaggisti, Pianificatori e Conservatori della Provincia di Firenze Fondazione Architetti Firenze

con il patrocinio di

Carlo Cantini, “Uno sguardo su Novoli” alla Galleria Frittelli di Firenze fino al 30 settembre.

Il 29 luglio è morto, a quasi novanta anni,  Sauro Cavallini, spezzino di nascita, viveva e lavorava a Fiesole da otre 50 anni. Molte sue opere sono visibile nell’aree pubbliche fiorentine (Palazzo dei Congressi, Piazza Ferrucci). Aveva collaborato con Giovanni Michelucci per alle-stire le opere artistiche nelle chiese progettate dal grande architetto.

Uno sguardosu Novoli

Addio Sauro Cavallini

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inizi degli anni ‘70, iniziò un progetto opposto di riqualifica-zione dell’area che sarebbe dive-nuto una vera vittoria dell’am-biente sull’urbanizzazione e l’industrializzazione. Furono demoliti molti edifici, trasporta-to di 45.000 metri cubi di terra,

e piantati 1500 alberi e 3500 arbusti che ben si integravano e valorizzavano il patrimonio vegetale autocnono ancora pre-sente sull’isola in un progetto del Dipartimento delle Riserve Naturali, unico nel suo genere, che combina il valore estetico al

rispetto assoluto degli ecosiste-mi, usando tecniche d’irrigazio-ne tradizionali e rinunciando a fertilizzanti e sostanze chimiche. In questo angolo di paradiso ritrovato ci sono biciclette, zone picnic e area cani. Si passeggia in una natura che nasce, cresce e si tramuta liberamente seguendo il corso delle stagioni respiran-do un’aria, lontana dai miasmi cittadini, che profuma di erba, di lavanda e di piante officinali. Gli unici suoni sono il cinquet-tio degli uccelli e il ronzio delle api. Nei campi colorati di fiori selvatici rane e germani si divi-dono le grandi pozze. Per i più piccoli al posto del parco giochi c’è il Giardino delle Scoperte, un piccolo labirinto a forma di guscio di lumaca con un laghet-to ecologico.Dal promontorio che domina il panorama si può pensare che qui il Paradiso è più vicino di Parigi.

Storia edificante della ri-conquista di un angolo di paradiso.

Saint-Germain è un isolotto di circa 20 ettari circondato dalla Senna. Al margine di Parigi, in una zona chiamata Issy-les-Moulineaux, oggi è facilmente raggiungibile con la RER (la metropolitana che arri-va fino alle zone periferiche della capitale) in pochi minuti. L’isola ha una storia molto antica. A metà del 500 vi fu costruita, su volere della casa reale, un’abba-zia, Saint-Germain-des-Près, che nel corso del tempo, a seguito di donazioni e nuove acquisizioni, divenne sempre più potente e meta di pellegrinaggi fino alla Rivoluzione quando fu costretta a chiudere ed abbandonare gli orti e i pascoli che la circonda-vano. L’isola ritornò ad essere disabitata e selvaggia. Proprio questa natura incontaminata co-minciò ad attrarre, agli inizi del 1800, artisti e escursionisti che ancoravano le loro barche sulle rive di quella che veniva chiama-ta “ai confini del mondo” per di-pingere en plein air, passeggiare, nuotare o magari solo fermarsi a mangiare da madame Husset, la proprietaria dell’unico ristoran-te, Le Robinson. Con la guerra del 1870 parte dell’Isola venne occupata da un presidio militare con relative abitazioni e depo-siti. Nel 1905 fu costruito un ponte (l’attuale Pont d’Issy) che permise anche l’arrivo del tram da Parigi. Durante la prima guerra mondiale molte famiglie in fuga da Parigi si rifugiarono nell’isola e in seguito, all’inizio degli anni 30 anche molti gli operai della Renault, con lo stabilimento in un’isola vicina, trovarono alloggio lì. Con i qua-si 2000 abitanti che popolavano ormai Saint-Germain arrivarono anche una quarantina di negozi e alcune attività inquinanti come depositi di legno e rottami metallici. Il destino dell’isola “ai confini del mondo” sembrava ormai segnato tanto che negli anni ‘60, sotto la spinta dalla crescente urbanizzazione, si pen-sò di trasformare Saint-Germain in una zona portuale per lo stoccaggio di sabbia e cemento. L’idea non andò a buon fine ma anzi pochi anni dopo, verso gli

di SiMoneTTa [email protected] Ai confini del mondo

di SerGio FaviLLi [email protected], 14 settembre 2016 - Ultime notizie dal Campidoglio – Continua inesauribile la serie di dimissioni dai propri incarichi: oggi è stata costretta alle dimissio-ni la Sora Lalla, addetta alle pulizie del Comune di Roma con l’impu-tazione di non aver pagato la tassa di suolo pubblico per l’occupazio-ne dello stesso da parte del secchio d’acqua usato per dare lo straccio nell’atrio comunale. Nel frattempo prosegue spasmodica la ricerca del nuovo Assessore al bilancio e corre voce che siano stati convocati al Campidoglio i tre della Banda Bassotti per il conferimento delle deleghe al Bilancio, ai Tributi ed alle Finanze (tre son meglio di uno). Ci risulta che la Sig.ra Raggi, memore  dei precedenti avvenimenti, si sia informata ex ante sull’attività professionale dei Bassotti e che gli stessi abbiano falsificato la documentazione in modo talmente ineccepibile da essere tempestivamente convocati. Desta anche preoccupazione il fatto che l’On.le Di Battista, detto Dibba, nonostante quanto gli stia succedendo d’intorno, abbia perennemente stampato sul viso

un inespressivo sorriso a trentadue denti che gli conferisce un’aria da pugile suonato: non ci risulta alcuna denuncia per percosse. In contemporanea a questi eventi abbiamo appurato che il vice presi-dente della Camera On.le Di Maio è sempre chiuso nel suo studio per cercar di decifrare correttamente le mail ricevute in merito alle indagi-ni in corso sull’assessore ai rifiuti, non riesce a comprenderle ed ha chiesto l’intervento del segretario dell’Accademia della Crusca, ma non è tutto!!!! Oltre ad aver litigato

da giovane con la professoressa di lettere (non riesce ad azzeccare un congiuntivo) deve aver avuto diverbi anche il professore di storia e geografia: non sa che delinquente storico è stato Pinochet e dove sta-va di casa. Da fonti molto molto riservate è con sincero dispiacere che abbiamo appreso che l’On.le Di Maio ultimamente soffre di un disturbo non simpatico in parti del corpo intime e particolari, in-somma, gli fa male il Grillo!!! A Di Maio vada tutta la nostra umana solidarietà !!

Raggiro

Page 15: Due materie - Maschietto Editore · gioco di soprammobili spostati che con il farsi del mondo – e della città – non ha più alcuna attinenza. Proprio su queste pagine nei mesi

17SETTEMBRE

2016pag. 15

L

Al cinema Victoria si proiettava un film d’avventura, Le pistole dei magnifici sette. In realtà questo contrasto con le suore mi ha fatto subito pensare a queste “Magnifiche tre monachine”. I contrasti in questa città erano quasi sempre all’ordine del giorno, o almeno lo erano ai miei occhi in quel periodo. Il mio impegno quotidiano era quello di girovagare senza meta lasciandomi stupire in continua-

zione da questo flusso continuo di persone in movimento perenne. Senza conoscere alcuno di questi passanti pensavo fosse bello cercare di immaginare un po’ delle loro storie e delle loro vite.

NY City, agosto 1968

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

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