Douglas Adams - La lunga oscura pausa caffè dell'anima

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Il libro

Dirk Gently, “detective olistico”, si trovainvischiato in un pericoloso intrigointernazionale. Tutto inizia all’aeroportolondinese di Heathrow con un misteriosopersonaggio che tenta di imbarcarsi sul volo delle15.37 per Oslo. Chi è? E cos’ha a che fare con lastrana morte dell’ultimo, bizzarro cliente diGently, trovato cadavere proprio quella mattina, latesta spiccata dal corpo? Stretto tra le attenzionipoco amichevoli di un’aquila smarrita e ilproblema di un frigorifero molto, molto sporco,Dirk Gently riuscirà ancora una volta a venire acapo di uno dei grandi misteri dell’Universo. Con

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La lunga oscura pausa caffè dell’animal’effervescente fantasia di Adams trascina illettore in un fantasmagorico viaggio tra le antichedivinità nordiche, svelando i difficili legamifamiliari tra Odino e Thor, il patto diabolicostretto con due ricchi signori inglesi, e quanto siadifficile essere immortale e non avere piùnessuno che ti adori...

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L’autore

Douglas Noel Adams (Cambridge 1952 -Santa Barbara, California, 2001), laureato inletteratura inglese, ecologista, ma ancheappassionato di scienza e filosofia, si è prestodedicato alla sceneggiatura di serialradiofonici. Nel 1979 ha pubblicato Guidagalattica per gli autostoppisti, nato da unaserie di enorme successo trasmessa dalla BBC.A questo sono seguiti Ristorante al terminedell’Universo, La vita, l’Universo e tuttoquanto, Addio, e grazie per tutto il pesce ePraticamente innocuo, tutti legati alleavventure di Arthur Dent e Ford Prefect,

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surreali e irriverenti viaggiatori delle galassie etutti pubblicati negli Oscar Mondadori.

Nel 2002, sempre da Mondadori, è uscito Ilsalmone del dubbio.

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di Douglas Adams

Addio e grazie per tutto il pesceGuida galattica per gli autostoppisti

La lunga oscura pausa caffè dell’animaPraticamente innocuo

Ristorante al termine dell’UniversoLa vita, l’universo e tutto quanto

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DOUGLAS ADAMS

L A L U N G A O S C U R AP A U S A C A F F ÈD E L L ’ A N I M A

Traduzione di Marco e Dida Paggi

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La lunga oscura pausa caffè dell’anima

A Jane

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Non può essere un caso che in nessuna linguaterrestre esista l’espressione “Bello come unaeroporto”.

Gli aeroporti sono brutti. Alcuni sono moltobrutti. Certi raggiungono un livello di bruttezza chepuò solo essere il risultato di uno sforzoconsapevole. La bruttezza degli aeroporti dipendedal fatto che sono pieni di gente stanca e dipessimo umore che ha appena scoperto che ipropri bagagli sono sbarcati a Murmansk(l’aeroporto di Murmansk è l’unico che faeccezione a questa regola altrimenti infallibile), egli architetti per lo più si sono sforzati di riflettere

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questo stato d’animo nelle loro creazioni.Hanno cercato di dare rilievo al filo conduttore

della stanchezza e del pessimo umore della gentericorrendo a forme brutali e a colori snervanti; diagevolare al massimo la separazione perpetua delpasseggero dai suoi bagagli o dai suoi cari; diconfondere il viaggiatore con frecce che indicanofinestre, lontani espositori carichi di cravatte, o laposizione dell’Orsa Minore nel cielo; di lasciarein vista il più possibile tubi e condutture sullabase del fatto che sono utili, e di nascondere lasala partenze, presumibilmente in base allaconsiderazione che non lo è.

Colta in mezzo a un mare di luce indefinita e aun mare di rumori ugualmente indefiniti, KateSchechter si fermò e fu presa dal dubbio.

Il dubbio l’aveva tormentata durante tutto iltragitto da Londra a Heathrow. Non era un tiposuperstizioso, e nemmeno religioso: era solo unapersona non troppo sicura di voler andare inNorvegia. Però si scopriva sempre più portata acredere che Dio, se c’era un Dio e ammesso che

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fosse remotamente possibile che un’eventualedivinità capace di disporre le particelle nelmomento della creazione dell’universo provasseinteresse a dirigere il traffico lungo la M4, questoDio non volesse nemmeno lui che lei prendessel’aereo per la Norvegia. Tutto il casino con ibiglietti, e trovare un vicino che si occupasse dellagatta, e poi trovare la gatta perché il vicino se nepotesse occupare, il tetto che a un tratto si eramesso a perdere, il portafogli che non si trovavapiù, il brutto tempo, la morte improvvisa dellavicina, la gatta che era incinta – tutto parevaproprio far parte di un’apposita strategiaostruzionistica che aveva cominciato ad assumereproporzioni divine.

Persino il tassista – quando alla fine erariuscita a trovare un tassì – aveva detto: «InNorvegia? Ma cosa ci va a fare in Norvegia?». Equando lei non aveva prontamente risposto«L’aurora boreale!» o «I fiordi!» ma aveva fattouna faccia perplessa e si era morsa le labbra, iltassista aveva aggiunto: «Ho capito, è per via di

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un uomo. Le do un consiglio, gli dica di andare aquel paese e se ne vada a Tenerife».

Be’, era un’idea.Tenerife.Oppure, osò pensare per un istante, a casa.Aveva guardato fuori dal finestrino il viluppo

rabbioso del traffico, e aveva pensato che perquanto il tempo lì fosse orribile, non era nullarispetto a quello che avrebbe trovato in Norvegia.

O, anche, rispetto a quello di casa. New Yorkin quella stagione era stretta tra i ghiacci come laNorvegia. Stretta tra i ghiacci, con qua e là geyserche sprizzavano vapore nell’aria gelida, e infine siperdevano tra le rupi ghiacciate dei palazzonidella Sesta Avenue.

Sarebbe bastato un rapido sguardo al percorsoche Kate aveva fatto durante i suoi trent’anni divita per rivelare la sua indubbia originenewyorkese. Infatti, malgrado avesse abitato aNew York per pochissimo tempo, aveva trascorsogran parte della sua vita tenendoseneaccuratamente lontana. Los Angeles, San

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Francisco, l’Europa, e poi un periodo di confusivagabondaggi per il Sudamerica cinque anniprima, subito dopo il breve matrimonio con Luke,morto in un incidente mentre cercava di fermare untassì a New York.

Le piaceva pensare a New York come alla suacittà, e credere di sentirne la mancanza, ma inrealtà l’unica cosa di cui sentisse la mancanza erala pizza. E non di una pizza qualsiasi, ma di quellache tu telefoni, la ordini e te la portano adomicilio. Quella era la vera pizza. La pizza percui bisognava uscire e sedersi a un tavolo e fissareil tovagliolo di carta rossa non era la vera pizza,malgrado tutte le acciughe e la salsiccia in più checi mettevano sopra.

Londra era la città dove preferiva abitare – aparte naturalmente il problema della pizza, che lafaceva impazzire. Perché non c’era un servizio dipizza a domicilio? Perché nessuno si rendevaconto che è una caratteristica intrinseca della pizzaquella di arrivare alla porta di casa tua dentro unascatola calda di cartone? E poi tirarla fuori dalla

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carta oleata, piegare le fette in due e mangiarladavanti alla TV? Che difetto di fabbricazioneavevano quegli stupidi, presuntuosi e indolentidegli inglesi, per non riuscire a capire un principiocosì fondamentale? Chissà per quale motivo eraquesta l’unica frustrazione con cui non riuscivaassolutamente a convivere, per cui più o meno unavolta al mese telefonava a una pizzeria, ordinavala pizza più grande e sontuosa che riusciva adimmaginare – in pratica, una pizza con un’altrapizza sopra – e poi, dolcemente, chiedeva chegliela recapitassero a domicilio.

«Che cosa?»«La consegna. Le do il mio indirizzo...»«Non capisco. Viene lei a prenderla?»«No. Non fate consegna a domicilio? Il mio

indirizzo è...»«Ehm... questo non lo facciamo, signorina.»«Non fate cosa?»«Ehm... non recapitiamo a domicilio...»«Non recapitate a domicilio? Ho capito

bene?»

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La conversazione degenerò rapidamente in unaspiacevole gara di parolacce che la lasciò esaustae tremante; la mattina dopo, però, si sentiva molto,molto meglio. Sotto tutti gli altri punti di vista,Kate era una delle persone più dolci che si possasperare di incontrare.

Ma ora la giornata la stava davvero mettendoalla prova.

Sull’autostrada c’era un ingorgo spaventoso, equando un lontano lampeggiare di luci blu avevachiarito che la causa era un incidente avvenuto daqualche parte più avanti, Kate si era fatta ancorapiù tesa e aveva continuato a guardare fuoridall’altro finestrino fin quando non avevanosuperato a passo d’uomo il luogo dell’incidente.

Il tassista si era arrabbiato quando alla finel’aveva lasciata all’aeroporto, perché lei nonaveva i soldi precisi, e ne era seguito un granfrugarsi controvoglia nelle tasche dei pantalonistretti prima che le desse il resto. Ora, inun’atmosfera opprimente e minacciosa, Kate se nestava impalata nel bel mezzo della hall del

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Terminal numero due dell’aeroporto di Heathrow,e non riusciva a trovare il banco del check-in peril volo diretto a Oslo.

Per un istante rimase ferma immobile, facendogrossi e lenti respiri e cercando di non pensare aJean-Philippe.

Jean-Philippe era, come il tassista avevacorrettamente dedotto, il motivo per cui Kate stavaandando in Norvegia, ma allo stesso tempo eraanche il motivo per cui era convinta che laNorvegia non fosse affatto un buon posto in cuiandare. Pensare a lui la faceva continuamentetentennare, così le sembrava che la cosa migliorefosse smettere di pensarci e andarsenesemplicemente in Norvegia come se stessepassando per caso da quelle parti. A questo puntosarebbe stata incredibilmente sorpresa diincontrarlo in quell’albergo il cui nome e indirizzoerano riportati sulla cartolina che teneva nellatasca della borsetta.

In effetti sarebbe stata molto sorpresa ditrovarlo davvero in quell’albergo. Con ogni

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probabilità avrebbe trovato non lui, ma un suomessaggio in cui le diceva che la sua presenza erapurtroppo urgentemente richiesta in Guatemala, o aSeul o a Tenerife, e che le avrebbe telefonato dalaggiù. Jean-Philippe era la persona piùcontinuativamente assente che avesse maiconosciuto. Ed era solo il culmine di una serie. Daquando aveva perso Luke sotto quella grossaChevrolet gialla, Kate si era scoperta stranamentedipendente dalle emozioni, in verità piuttostovacue, che le provocava il succedersi di uominiegocentrici e presi di sé.

Cercò di chiudere questi pensieri fuori dallasua mente, e anche di chiudere gli occhi per unsecondo. Avrebbe voluto, riaprendoli, trovarsidavanti un cartello con scritto “Norvegia: daquesta parte”, e una freccia da poter seguire senzail bisogno di pensare alla direzione o a qualsiasialtra cosa. Probabilmente è questo, pensò,continuando le riflessioni precedenti, il modo incui nascono tutte le religioni, e il motivo per cuitutte queste sette si radunano negli aeroporti per

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fare adepti. Sanno che qui la gente è piùvulnerabile e confusa, e pronta ad accettarequalcuno che li guidi, chiunque esso sia.

Kate riaprì gli occhi per trovare, com’eraovvio, le sue aspettative deluse. Ma un attimodopo una lunga fila ondeggiante di tedeschiscocciati, tutti inspiegabilmente in maglietta gialla,si aprì per un attimo, e in quel varco lei ebbemodo di intravedere il check-in per Oslo. Si misein spalla la tracolla del borsone e si avviò daquella parte.

Al banco c’era solo una persona prima di lei,un uomo che, a quanto pareva, aveva dei problemi,o forse li stava dando lui stesso.

Era un omone grosso e ben piazzato – benprogettato, per così dire – ma aveva qualcosa distrano che la inquietava. Kate non riuscivanemmeno a definire con esattezza che cosa ci fossedi strano in lui; ma al momento non era propensa afar rientrare quell’uomo nel novero delle cose acui doveva pensare. Le tornò alla mente unarticolo in cui si diceva che l’unità centrale di

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elaborazione del cervello umano dispone soltantodi sette registri di memoria, per cui se si hanno inmente sette cose contemporaneamente e si pensa aun’altra ancora, una delle sette precedenti vienesubito eliminata.

In rapida successione pensò alle probabilità diriuscire a imbarcarsi, alla possibilità che fosse lasua immaginazione a farle apparire la giornatatanto brutta, agli impiegati della compagnia aereadal sorriso accattivante e dai modi indicibilmentesgarbati, ai negozi duty-free degli aeroporti chepotrebbero fare prezzi molto più bassi dei negozinormali ma che – mistero – non lo fanno, allapossibilità che stesse maturando dentro di lei unarticolo sugli aeroporti da vendere a qualcherivista per ripagarsi almeno in parte il viaggio,alla possibilità che la tracolla della borsa lefacesse meno male passandola sull’altra spalla einfine, malgrado tutte le sue buone intenzioni, aJean-Philippe, che da solo apriva un ventaglio dialtri sette pensieri subordinati.

L’uomo davanti a lei che discuteva con

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l’impiegata al check-in fu subito cancellato dallasua mente.

Solo l’ultimo annuncio del volo per Oslo lacostrinse a riprendere coscienza della situazione.

L’omone protestava perché non gli avevanodato un posto in prima classe. Era appena statochiarito che la ragione del disguido risiedeva nelfatto che l’uomo non aveva un biglietto di primaclasse.

A Kate il morale scese giù fino in fondoall’anima, e lì giunto prese ad aggirarsi ringhiandosommesso.

Venne poi accertato che l’uomo davanti a leinon aveva proprio nessun biglietto, né di primaclasse né di seconda, e la discussione si trasformòin una rassegna libera e rabbiosa di vari argomentiquali, l’aspetto della donna, le sue qualità umane,diverse teorie riguardo la sua ascendenza, alcuneipotesi su quello che il futuro avrebbe potutoriservare a lei e alla compagnia aerea per cuilavorava, per concludersi casualmente sull’allegraquestione della carta di credito.

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Risultò che l’uomo non ce l’aveva.Ne seguì un’ulteriore discussione sugli assegni

e sul motivo per cui la compagnia non li accettava.Kate gettò un lungo e lento sguardo omicida al

proprio orologio.«Mi scusi» disse, interrompendo la transazione.

«Ne avete ancora per molto? Devo prendere ilvolo per Oslo.»

«Ora mi sto occupando di questo signore»rispose l’addetta al check-in. «Solo un secondo esono da lei.»

Kate annuì, e cortesemente attese che passasseun secondo.

«È che l’aereo sta per decollare» replicò. «Hosolo un bagaglio, ho il biglietto e ho laprenotazione. Ci vorranno trenta secondi. Midispiace interrompervi, ma mi dispiacerebbeancora di più perdere il volo per trenta secondi. Esi tratta di trenta secondi veri, e non di trenta “soloun secondo” che potrebbero tenerci qui per tutta lanotte.»

La donna le puntò contro tutto lo splendore del

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suo rossetto, ma prima che facesse in tempo adaprir bocca l’omone biondo si voltò, e la suafaccia le fece un effetto sconcertante.

«Anch’io» disse con un lento e iroso accentonordico «vorrei prendere l’aereo per Oslo.»

Kate lo guardò. Sembrava del tutto fuori postoin un aeroporto – o, meglio, l’aeroporto era deltutto fuori posto rispetto a lui.

«Bene,» disse «a giudicare da come si sonomesse le cose, direi che non lo prenderemo né leiné io. Vediamo se si può fare qualcosa. Qual è ilproblema?»

L’impiegata sorrise con quel suo accattivante efreddo sorriso e spiegò: «Non si accettanoassegni, è contro il regolamento».

«D’accordo» rispose Kate buttando la sua cartadi credito sul banco. «Addebitate a me il costo delbiglietto di questo signore, e lui mi pagherà con unassegno.»

«Va bene?» aggiunse rivolta all’omone, che lastava fissando con lenta sorpresa. Aveva occhigrandi e azzurri che davano l’impressione di aver

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guardato a suo tempo un gran numero di ghiacciai.Erano straordinariamente arroganti, e anche un po’intontiti.

«Va bene?» ripeté‚ con forza. «Mi chiamo KateSchechter. Con due “c”, due “h”, due “e” e ancheuna “t”, una “r” e una “s”. Ce le metta tutte, miraccomando, e in banca non faranno difficoltàsull’ordine in cui le ha messe. Neanche loro sannoqual è quello giusto.»

L’uomo chinò lentamente la testa verso di lei inuna specie di inchino di gratitudine. La ringraziòper la sua gentilezza, per la sua cortesia e perun’altra cosa in norvegese che Kate non capì;disse che era da molto tempo che non incontravauna persona come lei e aggiunse che Kate era unadonna di spirito e poi un altro complimentosempre in norvegese, e che le era debitore. Allafine aggiunse distrattamente che non aveva illibretto degli assegni.

«D’accordo!» esclamò Kate, decisa a non farsiintimidire dalle difficoltà. Frugò nella borsetta etirò fuori un foglietto, prese una penna dal banco,

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ci scrisse qualcosa e lo tese all’uomo.«Questo è il mio indirizzo» disse. «Mi mandi i

soldi per posta. Porti la sua pelliccia al monte deipegni, se è il caso, ma me li mandi. Ok? Mi stofidando di lei a scatola chiusa.»

L’uomo prese il foglietto, lesse con immensalentezza le poche parole che vi erano scritte equindi lo ripiegò con grande cura e se lo misenella tasca della giacca. Le rivolse un altropiccolo inchino.

Kate a un tratto si rese conto che la donnadietro al banco stava aspettando in silenzio che leile restituisse la penna per compilare il modulodella carta di credito. Gliela ridiede seccata, lediede il suo biglietto e si impose un atteggiamentodi gelida calma.

Fu annunciata la partenza del volo per Oslo.«Posso avere i vostri passaporti, prego?»

domandò flemmatica l’impiegata.Kate le diede il suo passaporto, ma l’omone

non ce l’aveva.«Che cosa?!» esclamò Kate. L’impiegata si

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bloccò e si mise a fissare un punto qualsiasi sulbanco, aspettando che qualcun altro prendesse inmano la situazione. Non era un suo problema.

L’uomo ripeté con rabbia che non aveva ilpassaporto. Lo disse gridando e battendo il pugnosul banco con tanta forza che il piano si scheggiò.

Kate raccolse il suo biglietto, il suo passaportoe la sua carta di credito e si rimise in spalla latracolla della borsa da viaggio.

«Me ne vado» disse, e se ne andò. Sapeva diaver fatto ogni sforzo umanamente possibile perprendere l’aereo, ma il destino non aveva voluto.Avrebbe mandato a Jean-Philippe un messaggioper annunciargli che non sarebbe potuta venire, eil messaggio sarebbe probabilmente finito insiemea quello di lui in cui le spiegava il motivo per cuinemmeno lui avrebbe potuto trovarsi lì. Per unavolta sarebbero stati assenti tutti e due.

Stando così le cose, se ne sarebbe andata eavrebbe provato a calmarsi. Andò in cerca,nell’ordine, di un giornale e di un caffè, maseguendo le indicazioni non fu in grado di trovare

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né l’uno né l’altro. Non riuscì neanche a trovare untelefono funzionante da cui inviare il famosomessaggio, e decise di lasciar perdere l’aeroporto.Me ne vado, si disse, prendo un tassì e torno acasa.

Si fece strada tra la gente che affollava la hall,e quando fu vicino all’uscita si girò a guardare ilbanco del check-in che l’aveva sconfitta, giusto intempo per vederlo sfondare il soffitto avvolto inuna palla di fuoco arancione.

Sepolta sotto un cumulo di macerie,nell’oscurità, tra mille dolori e con la polvere chela soffocava, mentre cercava di trovare qualchecenno di sensibilità negli arti, fu con sollievo chele venne da pensare che non era solo frutto dellasua immaginazione: quella era una gran bruttagiornata per davvero. E così pensando, svenne.

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La responsabilità della faccenda se l’attribuì lasolita gente.

Prima l’IRA, poi l’OLP e infine l’azienda delgas. Anche l’Ente nucleare britannico si affrettò afare uscire un comunicato in cui si affermava chela situazione era completamente sotto controllo,che si trattava di un caso su un milione, che nonpoteva esserci stata alcuna contaminazione, e cheil luogo dell’esplosione era così sicuro che ci sipoteva portare i bambini per un picnic; tutto ciòprima di ammettere che non c’entrava per nullacon l’accaduto.

Non si riuscì a scoprire la causa

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dell’esplosione.Si sarebbe detto che fosse avvenuta

spontaneamente, di sua propria volontà. Qualcunoavanzò delle ipotesi, ma si trattava per lo più diperifrasi in cui si esprimeva lo stesso concetto conparole differenti, secondo gli stessi principi chehanno regalato al mondo il concetto di “fatica delmetallo”. Anzi si inventò una locuzione simile perindicare l’improvviso passaggio di materiali qualilegno, metallo, plastica e cemento a unacondizione esplosiva, e cioè una “catastroficaesasperazione strutturale non lineare” o, per dirlacon l’espressione che un ministro usò la sera dopoalla televisione e che lo avrebbe perseguitato pertutto il resto della sua carriera, il banco del check-in “si era sostanzialmente stufato di staredov’era”.

Come in tutte le catastrofi, il numero dei morti edei feriti conobbe enormi oscillazioni. Si partì conquarantasette morti e ottantanove feriti gravi, sipassò a sessantatré morti e centotrenta feriti, sitoccò la cifra di cento e diciassette morti e poi il

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numero cominciò a scendere. Alla fine, quandotutte le persone che si dovevano contare furonocontate, risultò che di morti non ce n’era statonemmeno uno. Qualcuno era finito all’ospedalecon bruciature o escoriazioni o in stato di shock,ma questo – a meno che non si avesse notizia di unvero disperso – era tutto.

La faccenda aveva un altro aspettoinspiegabile. La forza dell’esplosione avevaridotto in frantumi gran parte della facciata delTerminal 2, eppure tutti quelli che erano dentrol’edificio se l’erano cavata, o perché le macerie liavevano riparati dalle altre macerie che cadevanoo perché i bagagli avevano assorbito la forzadell’esplosione. A conti fatti, pochissimi bagaglierano usciti indenni dall’incidente. Ci furono aquesto proposito delle interrogazioni inParlamento, ma nulla di particolarmenteinteressante.

Fu un paio di giorni dopo che Kate Schechtervenne a conoscenza di queste cose, e anzi di unaqualsiasi cosa relativa al mondo esterno.

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Era tranquilla, chiusa in un suo mondo in cuiera circondata a perdita d’occhio da vecchi baulipieni di ricordi in cui frugava incuriosita e, certevolte, un po’ smarrita. O, per meglio dire, solo unbaule su dieci era pieno di vividi ricordi delpassato, che certe volte erano anche dolorosi osgradevoli; gli altri nove erano pieni – cosa strana– di pinguini. Nella misura in cui si rendeva contodi sognare, capiva anche che non stava facendoaltro che esplorare il suo subconscio. Aveva lettoda qualche parte che gli esseri umani usano soloun decimo del loro cervello, e che nessuno sa benea cosa servano gli altri nove decimi, ma di sicuronon aveva mai sentito dire che fossero pieni dipinguini.

Gradualmente i bauli, i ricordi e i pinguinicominciarono a farsi indistinti, a diventare tuttibianchi e tremolanti, poi a diventare semplicipareti tremolanti e bianche, o meglio di un biancosporco giallino o verdolino, e a rinchiuderla in unapiccola stanza.

La camera era in penombra. C’era una lampada

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accesa sul comodino, ma era molto fioca, mentredalla strada la luce di un lampione penetrava dalletende grigie e lasciava tracce di sodio sulla pareteopposta. Kate cominciò ad accorgersi vagamentedell’ombra che il suo corpo proiettava sotto labianca coperta rimboccata e le candide lenzuola.La fissò per un nervoso lasso di tempo,controllando che apparisse normale, prima diprovare, per tentativi, a muoverne tutte le parti.Provò la mano destra, che sembrava a posto. Unpo’ rigida e dolente, ma le dita rispondevano tuttee sembravano essere della giusta lunghezza econsistenza, e piegarsi nel modo giusto e nellagiusta direzione.

Ebbe un attimo di panico quando non riuscì alocalizzare subito la sua mano sinistra, ma poi sela trovò sulla pancia, stranamente contratta.Dovette concentrarsi per un paio di secondi primadi riuscire a mettere insieme un certo numero diinquietanti sensazioni e di rendersi conto che nelbraccio c’era un ago tenuto fermo da una benda.Questo non le piacque affatto. Dall’ago si snodava

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un lungo tubo sottile e trasparente che rilucevagiallastro alla luce del lampione, scendendo conun ampio ricciolo da una rigonfia sacca di plasticaappesa a un alto sostegno di metallo. Questaattrezzatura scatenò per un attimo dentro di lei unaserie di orrori, ma aguzzando gli occhi nella luceincerta riuscì a leggere sulla sacca la scritta“Soluzione salina”. Si costrinse allora a calmarsie a restare immobile per un poco prima diaccingersi ad altre esplorazioni.

Le costole non parevano fratturate. Ammaccateed escoriate sì, ma senza il dolore acuto delle ossarotte. Anche fianchi e cosce le facevano male, manon sembravano seriamente danneggiati. Contrassei muscoli della gamba destra e poi quelli dellasinistra. Ebbe la vaga impressione di essersislogata una caviglia.

In altre parole, disse dentro di sé, stava bene.Che ci faceva dunque in quel luogo che, agiudicare dal settico colore delle pareti, dovevaessere un ospedale?

Si mise a sedere, impaziente, e subito tornò a

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raggiungere i pinguini per qualche minuto.Quando rinvenne si trattò con più delicatezza e

restò ferma con un lieve senso di nausea.Sfiorò cautamente i ricordi di quanto le era

successo. Era tutto buio e sfocato e le arrivava aondate grigie e oleose come quelle del Mare delNord. Elementi informi emergevano a faticadisponendosi a formare un aeroportobeccheggiante. L’aeroporto era fangoso e ledoleva dentro la testa, e nel bel mezzo di esso,pulsante come un’emicrania, c’era il ricordo diuna grande vampata turbinosa di luce.

A un tratto le parve evidente che la hall delTerminal 2 di Heathrow era stata colpita da unmeteorite. In controluce vedeva la sagoma di unomone col cappotto di pelliccia che doveva averricevuto in pieno la forza dell’urto riducendosi auna nuvola di atomi liberi di andare dove più glipiaceva. A questa idea fu scossa fin nel profondoda un brivido di orrore. Quell’uomo eraesasperante e arrogante, ma in un modo onell’altro le era piaciuto. L’ostinata cocciutaggine

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del suo modo di fare aveva un che di nobile. Oforse, si disse, sembrava nobile a lei perché lericordava l’ostinata cocciutaggine con cui leicercava di farsi recapitare una pizza a domicilio inun mondo estraneo e ostile in cui la pizza adomicilio era sconosciuta. Nobiltà era una parolache serviva a fare un po’ di teatro intorno allerealtà inevitabili della vita, e non era la sola.

Di colpo fu invasa da un senso di paura e disolitudine che però svanì quasi subito lasciandolamolto più composta e serena, e con il bisogno diandare al gabinetto.

Secondo l’orologio erano da poco passate letre, e secondo tutto il resto era notte. Dovevachiamare un’infermiera e far sapere al mondo chesi era svegliata. Su una parete della stanza siapriva una vetrata attraverso la quale si vedeva uncorridoio semibuio con una barella e un’altabombola nera di ossigeno, e nient’altro. Tutto eramolto silenzioso.

Guardandosi intorno, si accorse che la stanzaconteneva un piccolo cassettone di compensato

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dipinto di bianco, due sedie tubolari di acciaio eplastica che se ne stavano tranquille e silenziose inagguato nell’oscurità, e di fianco al letto uncomodino, sempre di compensato bianco, sul qualeera posata una piccola scodella con un’unicabanana. Dall’altro lato del letto stava il supportodella sua fleboclisi. Inserita nella parete c’era unaplacca metallica con un paio di manopole nere conappese due vecchie cuffie di bachelite, mentreavvolto intorno alla testata tubolare del letto c’eraun filo con attaccato un campanello, che Kate tastòma che decise di non usare.

Stava benissimo. Poteva fare da sé.Piano piano, con un po’ di capogiro, si

raddrizzò sui gomiti, mise le gambe fuori dal lettoe appoggiò i piedi sul pavimento, che le parvemolto freddo. Capì subito che non avrebbe dovutofarlo perché ogni centimetro dei suoi piedi leinviava messaggi dicendole esattamente com’eraogni minima parte del pavimento che toccava,quasi fosse una strana e inquietante sensazione maiprima sperimentata. Tuttavia si mise a sedere sul

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bordo del letto e costrinse i piedi ad accettare ilpavimento, come una cosa cui si sarebbero dovutiper forza abituare.

Le avevano infilato addosso una roba a striscelarga e informe, simile a un sacco. No, non similea un sacco, stabilì dopo averla esaminata piùattentamente: era davvero un sacco. Un sacco dicotone a strisce bianche e azzurre. Si apriva suldietro facendo entrare i freddi spifferi notturni.Maniche che erano maniche solo di nome learrivavano al gomito. Si guardò le braccia allaluce della strada esaminandone la pelle,strofinandole e pizzicandole, soprattutto là dove labenda le teneva fermo l’ago. Normalmente le suebraccia erano lisce, sode ed elastiche. Ma oraassomigliavano di più ad ali di pollo. Si lisciòbrevemente gli avambracci e poi tornò a guardarsiintorno, con un intento preciso.

Si afferrò alla piantana della flebo e siccomel’arnese oscillava meno di quanto oscillasse lei,riuscì pian piano a tirarsi in piedi. Rimase lìferma, e tutto il suo corpo alto e snello tremava,

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ma dopo qualche secondo spinse la piantanadavanti a sé, come un pastore che si appoggia albastone.

Non ce l’aveva fatta ad arrivare in Norvegia,ma se non altro era riuscita ad alzarsi.

La piantana della flebo scorreva su quattropiccole ruote perversamente indipendenti l’unadall’altra che si comportavano come bambiniurlanti in un supermercato, ma nonostante tuttoKate riuscì a spingere l’arnese verso la porta. Ilfatto di camminare le faceva girare di più la testa,ma rafforzava anche la sua risoluzione a tenerduro. Arrivò alla porta, l’aprì, e spingendo ilsostegno della flebo davanti a sé si affacciò sulcorridoio.

A sinistra era chiuso da un paio di porte amolla con due oblò che parevano dare su unambiente più grande, forse una sala d’attesa. Adestra invece alcune porte più piccole si aprivanosul proseguimento del corridoio che, più avanti,girava ad angolo retto a destra. Una di quelle porteera probabilmente quella del bagno. E le altre?

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Be’, l’avrebbe scoperto.Le prime due porte erano armadi a muro. La

terza si apriva su uno spazio appena più grandedove c’era una sedia, quindi doveva essereconsiderata una stanza perché a nessuno va disedersi negli armadi a muro, nemmeno alleinfermiere, che pure devono fare un mucchio dicose che a gran parte della gente non andrebbe difare. C’era anche una pila di bicchieri di plastica,un bel po’ di bricchi da caffè pieni di pannaraggrumata e una vecchia caffettiera, il tuttosistemato su un tavolino a sgocciolare sopra unnumero dell’«Evening Standard».

Kate prese il giornale umidiccio e scurito ecercò di ricostruire i giorni che le mancavano.Però, sia perché con la testa che le girava in quelmodo le riusciva difficile leggere, sia per il fattoche il giornale aveva le pagine molli e appiccicatel’una all’altra, tutto ciò che le riuscì di capire erache nessuno sapeva per certo cosa fosse successo.Non c’erano stati feriti gravi, ma l’addetta alcheck-in di una linea aerea era ancora data per

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dispersa. L’incidente era stato ufficialmenteclassificato tra le “fatalità divine”.

«E bravo, Dio» disse Kate tra sé. Posò i restidi quel giornale e richiuse la porta.

La porta successiva dava su una stanzetta similealla sua. Anche lì c’era un piatto sul comodino condentro un’unica banana.

Il letto era chiaramente occupato. Fece perrichiudere in fretta la porta, ma non fu abbastanzasvelta. Sfortunatamente qualcosa aveva attratto lasua attenzione: se n’era accorta immediatamente,anche se non avrebbe saputo dire di cosa sitrattasse. Quindi rimase lì ferma con la portachiusa a metà, lo sguardo fisso sul pavimento,sapendo che non avrebbe dovuto guardare, ma chelo avrebbe fatto comunque.

Con grande cautela riaprì la porta.La stanza era buia e fredda. Così fredda da

ispirarle inquietudine per la persona che stava nelletto. Tese le orecchie. Anche tutto quel silenzionon faceva buona impressione. Non era il silenziodi un bel sonno profondo, era il silenzio del nulla,

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interrotto solo dai lontani rumori del traffico.Esitò per un lungo istante, così affacciata alla

porta, a guardare e ad ascoltare. La meravigliò lamole della persona distesa nel letto, e si chiesecome non sentisse freddo con addosso solo unacopertina leggera. Accanto al letto c’era unaseggiolina tubolare di plastica quasi schiacciata daun voluminoso e pesante cappottone di pellicciache vi era stato gettato sopra, e Kate pensò chequel cappotto sarebbe stato meglio stenderlo sulletto, sopra il suo gelido occupante.

Alla fine entrò nella stanza cercando di non farrumore e si chinò sul letto. Si trovò a fissare lafaccia dell’omone nordico del check-in. Malgradoil freddo, e nonostante avesse gli occhi chiusi,quel volto era un poco corrucciato, come velato dauna lieve preoccupazione. Kate ne ebbeun’impressione di infinita tristezza. Da vivo,quell’uomo aveva l’aria di una persona assillatada gravi, anche se poco chiari, problemi, e oraaveva l’aspetto di uno che anche nell’altra vitaavesse immediatamente incontrato nuove

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difficoltà.Stupefacente che fosse rimasto indenne. La

pelle del viso non era minimamente segnata. Erarubicondo e in salute – o, meglio, lo era stato finoa non molto tempo prima. Infatti a un’osservazionepiù attenta ci si accorgeva di un intrico di rughesottili da cui si capiva che era più vecchio deitrentacinque anni che gli si davano a prima vista.Era probabilmente vicino alla cinquantina, macomunque molto in forma.

Contro la parete, vicino alla porta, c’eraqualcosa di incongruo. Era un grosso distributoredi Coca-Cola. Si capiva che era lì soloprovvisoriamente: il cavo non era infilato nellaspina e c’era anche un cartello con la scritta“Guasto”. Sembrava dimenticato lì da qualcunoche di sicuro si aggirava ancora adesso perl’ospedale chiedendosi dove diavolo l’avesselasciato. Il grosso pannello bianco e rosso fissavavacuo la stanza senza dare alcuna spiegazione disé. Un’unica cosa il distributore comunicava almondo esterno: che c’era una fessura in cui si

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potevano inserire monete di ogni valore, eun’apertura da cui sarebbero fuoriuscite lattine divarie dimensioni – se fosse stato in funzione, manon era il nostro caso. Appoggiato al distributoredi Coca-Cola c’era anche un vecchio martello dafabbro, anch’esso, a suo modo, strano.

Kate cominciò a sentirsi molto debole; la stanzaassunse un lieve moto rotatorio e un fruscioirrequieto prese a provenire dai bauli della suamente.

Poi si rese conto che il fruscio non era fruttodella sua immaginazione. Si percepiva un rumoreben distinto nella stanza: un picchiare soffocato, ungrattare, uno sbattere sordo. Era un rumore cheandava e veniva come portato dal vento, ma Kate,stordita e incerta com’era, non riuscì subito acapire da dove provenisse. Infine il suo sguardo sisoffermò sulle tende alla finestra. Kate guardò letendine aggrottando la fronte come un ubriaco chesi sforza di capire come mai la porta si è messa aballare. Sì, quel rumore proveniva da lì. Siavvicinò incerta alla finestra e scostò le tende.

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Una grossa aquila con due cerchi concentrici sulleali sbatteva e picchiava contro la finestra,guardando dentro con i grandi occhi gialli e dandoviolenti colpi di becco contro i vetri.

Kate indietreggiò barcollando, si voltò e cercòdi uscire da quella stanza. In fondo al corridoio leporte a molla si aprirono e comparvero duepersone che si gettarono verso di lei a braccia tesementre Kate inciampava nel sostegno della flebo ecominciava ad afflosciarsi.

Era svenuta quando la rimisero delicatamente aletto. Era ancora svenuta quando, mezz’ora piùtardi, giunse un individuo troppo basso con uncamice bianco troppo lungo che portò via l’omonesu una barella, per poi ritornare dopo qualcheminuto e prelevare anche il distributore di Coca-Cola.

Kate si svegliò qualche ora dopo con un pallidosole invernale che entrava dalla finestra. Lagiornata si annunciava molto tranquilla e normale,ma Kate tremava ancora.

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3

Quello stesso sole entrò, qualche tempo dopo,dalle finestre del piano superiore di una casa nelNord di Londra e colpì un uomo pacificamenteaddormentato.

La stanza in cui l’uomo dormiva era grande e indisordine, e traeva scarso beneficio dall’essereilluminata. Il sole avanzò lentamente sullelenzuola, quasi timoroso di ciò che avrebbe potutotrovarci, strisciò giù dal letto, avanzò come stupitotra alcuni oggetti incontrati sul pavimento,giocherellò nervosamente con un paio di granellidi polvere, illuminò per un attimo un grossopipistrello impagliato appeso in un angolo, e si

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dileguò.Era stata, questa del sole, una delle sue visite

più prolungate, ed era durata un’ora circa, durantela quale l’uomo addormentato non si era mossoquasi per nulla.

Alle undici squillò il telefono, e l’uomo non siriscosse, così come non lo aveva fatto quando iltelefono aveva squillato alle sei e trentacinque, epoi alle sette meno venti, e di nuovo alle settemeno dieci, e poi per dieci minuti di seguito acominciare dalle sette meno cinque. Dopodichél’apparecchio era caduto in un lungo esignificativo silenzio, disturbato soltanto dall’urlodelle sirene della polizia in una strada vicinaverso le nove, dalla consegna di un grossoarpicordo settecentesco a due manuali verso lenove e un quarto, e dal sequestro dello stessoeffettuato dagli agenti giudiziari poco dopo ledieci. Non si trattava di avvenimenti insoliti: gliinteressati erano abituati a trovare la chiave sottolo stuoino e l’uomo nel letto a dormireindisturbato. Non si sarebbe potuto dire che

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dormiva il sonno del giusto, se non forse nel sensodi chi si è giusto addormentato; comunque eracertamente il sonno di uno che, quando la notte siinfila nel letto e spegne la luce, fa sul serio.

La stanza non era un luogo di quelli che elevanolo spirito. A Luigi XIV, tanto per fare un nome,non sarebbe piaciuta, avrebbe detto che c’era pocosole, e anche pochi specchi. Luigi XIV avrebbesentito la mancanza di qualcuno che tirasse su icalzini da terra, mettesse in ordine i dischi, emagari desse fuoco a tutta la casa. Michelangelonon ne avrebbe apprezzato le proporzioni, che nonerano né slanciate né conformate secondo unaqualche percepibile armonia o simmetria interna,se non questa, e cioè che tutta quanta la stanza erain ogni suo punto ugualmente piena di tazzinesporche, di scarpe e di portacenere pieni che siscambiavano ormai i ruoli l’uno con l’altro. Lepareti erano dipinte di quell’esatta sfumatura diverde per cui Raffaello Sanzio si sarebbe staccatoa morsi la mano destra pur di non usarla; edErcole, vedendo quel luogo, sarebbe

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probabilmente ritornato una mezz’ora più tardiarmato di un fiume navigabile. Quella stanza era,per farla breve, un immondezzaio, e tale sarebberimasta fin quando fosse stata affidata alle cure delsignor Svlad Gently, detto Dirk, nato Cjelli.

Alla fine Gently si svegliò.Aveva lenzuola e coperte avvolte attorno la

testa, più o meno all’altezza di metà letto una manouscì lentamente dalle lenzuola e prese a orientarsia tentoni sul pavimento. Messe sull’avviso da unalunga esperienza, le dita evitarono abilmente unpiatto con dentro qualcosa di ripugnante che era lìdalla festa di San Michele e alla fine siimbatterono in un pacchetto mezzo vuoto diGauloises senza filtro con relativa scatola difiammiferi. Le dita fecero uscire con unascossettina una sigaretta stazzonata dal pacchetto,la presero insieme ai fiammiferi e cominciarono adare colpettini alla testa avvolta dalle lenzuola neltentativo di aprirsi una strada, come unprestigiatore che spinge il fazzoletto dal quale siaccinge a fare uscire uno stormo di colombi.

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Finalmente la sigaretta venne inserita inun’apertura. Quindi venne accesa. Per un pocoparve che a fumare a grandi boccate fosse il lettostesso. Quindi prese a emettere violenti colpi ditosse, prolungati e squassanti, e infine cominciò arespirare secondo un ritmo più misurato. In questomodo Dirk Gently riprese coscienza di sé.

Rimase lì sdraiato per un poco, terribilmentepreoccupato e con uno spaventoso senso di colpariguardo a qualcosa che gli pesava addosso.Desiderò scordarsi cos’era, e subito se lodimenticò. Si spinse giù dal letto e qualche minutodopo scendeva ciabattando al piano di sotto.

La posta depositata sullo stuoino consistevanelle solite cose: una lettera in cui lo siminacciava senza mezzi termini di ritirarglil’American Express, un’altra in cui lo si invitava arichiedere un’American Express, e qualche fatturaancora più isterica e irreale. Non capiva perché siostinassero a mandargliele. C’era il costo delfrancobollo, dopotutto: soldi buoni che andavano afinire dietro a quelli già andati alla malora. Scosse

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la testa perplesso di fronte alla malevolaincompetenza del mondo, gettò via le fatture e tuttoil resto, andò in cucina e si avvicinò al frigoriferocon circospezione.

Se ne stava lì nel suo angolo.La cucina era ampia e immersa nell’oscurità –

un’oscurità che non venne dissipata, ma solo tintadi giallastro, dall’atto di accendere la luce. Dirk siaccosciò davanti al frigorifero ed esaminòattentamente lo sportello. Trovò quello checercava. Anzi, trovò molto di più di quello checercava.

In fondo allo sportello, a cavallo della strisciadi gomma grigia che chiudeva ermeticamente ilfrigorifero, c’era un capello, uno solo. Era statoappiccicato lì con un po’ di saliva. Questo Dirk sel’aspettava. Ce l’aveva messo lui stesso tre giorniprima e da allora l’aveva controllato più volte.Quello che non si aspettava era trovare un altrocapello.

Aggrottò la fronte, allarmato. Due capelli?L’altro capello era appiccicato al frigorifero

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esattamente come il primo – ma in alto, e non inbasso, e non era stato Dirk a mettercelo. Loesaminò attentamente, e addirittura si spinse finoad aprire i vecchi scuri delle finestre perilluminare con luce extra la scena.

La luce del giorno fece irruzione come unasquadra di poliziotti, con un mucchio di “cosa stasuccedendo qui?”, in una stanza che, come lacamera da letto, avrebbe presentato delledifficoltà a chiunque avesse avuto un minimo disenso estetico. La cucina era, come quasi tutte lestanze della casa di Dirk, grande, imponente e inuno stato di confusione. Era un ambiente chesfidava sprezzante tutti i tentativi di mettere ordineda parte di chiunque, li sfidava sprezzante e liscostava da una parte con un’alzata di spalle,quasi fossero una delle mosche che, o morte omoribonde, giacevano in un mucchietto sotto lafinestra sopra una pila di vecchi cartoni dellapizza.

Alla luce l’altro capello apparve nei particolari– grigio alla radice, e poco più sopra tinto di un

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metallico arancione brillante. Dirk sporse lelabbra e rifletté molto profondamente. Non era ilcaso di scervellarsi per stabilire a chiappartenesse – c’era una sola persona che avesseregolare accesso alla cucina e la cui testa parevauna riserva di ossidi metallici estratti dai rifiutiindustriali – ma bisognava riflettere moltoseriamente sui corollari della scoperta appenafatta: che, cioè, questa donna aveva appiccicato unsuo capello allo sportello del frigorifero.

Ciò significava che il silenzioso conflitto tra luie la donna delle pulizie aveva, conun’imprevedibile escalation, raggiunto un nuovo epiù spaventoso livello. Erano trascorsi, calcolòrapidamente Dirk, tre mesi ormai da quando ilfrigorifero era stato aperto l’ultima volta, eciascuno di loro era fermamente deciso a nonriaprirlo per primo. Il frigorifero ormai non se nestava semplicemente lì nel suo angolo dellacucina, ma guatava bieco, in agguato. Dirkricordava molto bene il giorno in cui avevacominciato a guatare bieco. Risaliva a otto giorni

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prima, quando aveva cercato di ingannare con unsemplice stratagemma Eleonora – questo era ilnome della vecchiarda, ma Dirk lo pronunciava“Eleonéra” per fare rima con “cameriera”, unapresa in giro di cui ormai lui non si rendeva piùconto – per costringerla ad aprire il frigorifero.Ma il sotterfugio era stato scoperto con destrezza emandato a monte, e per un pelo le conseguenze nonerano orribilmente ricadute sul suo capo.

Dirk era ricorso alla strategia di fare un minimodi spesa al mini-market in fondo alla strada.Niente di provocatorio – un po’ di latte, qualcheuovo, della pancetta, due tranci di torta alcioccolato e un semplice panetto di burro. Avevalasciato la roba sopra il frigorifero così, in tuttainnocenza, come per dire: “Ah, appena ha unmomento le spiace sistemare la spesa?”.

Quando, la sera, era tornato a casa, il cuore gliera balzato nel petto vedendo che sul frigoriferonon c’era più nulla. E la roba non era da nessunaparte. Non era stata spostata e messa da qualchealtra parte: non c’era proprio più. Evidentemente

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la donna aveva capitolato e l’aveva messa nelfrigorifero. Sì, nel frigorifero. Nel frigorifero che,una volta aperto, aveva certamente pulito. Per laprima e unica volta il cuore gli si gonfiò digratitudine verso di lei, ed era sul punto dispalancare trionfante la portiera del frigo quandoun ottavo senso (Dirk aveva calcolato di averneundici, di sensi) lo ammonì di agire con grande,grandissima prudenza, e di riflettere prima su doveEleonora avrebbe potuto mettere la sua spesa.

Un dubbio senza nome si fece strada in luimentre senza fare rumore si avvicinava al secchiodella spazzatura sotto il lavandino. Trattenendo ilfiato, tolse il coperchio e guardò dentro.

Lì, ben collocati tra le pieghe di un sacchettopulito di plastica nera, c’erano le sue uova, la suapancetta, la sua torta al cioccolato e il suosemplice panetto di burro. Le due bottiglie dellatte, ben risciacquate e disposte in bell’ordine,erano sullo scolatoio del lavandino, dovepresumibilmente era finito il loro contenuto.

L’aveva buttato via. Piuttosto che aprire il

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frigorifero, aveva buttato via il suo cibo.Allora si era voltato lentamente a guardare lo

scostante, tozzo, bianco monolite, ed era statoquello l’esatto momento in cui si era reso contosenza un’ombra di dubbio che il frigo lo guardavastorto.

Si preparò un caffè nero ristretto e si sedette,tremando un po’. Non era nemmeno andatodirettamente a guardare dentro il lavandino, masapeva che il suo conscio doveva aver notato ledue bottiglie del latte vuote e pulite, e una partefunzionante della sua mente l’aveva messo sul chivive.

Il giorno dopo aveva cercato di darsi unaspiegazione razionale. Stava diventandoparanoico. Di certo si era trattato di una semplicedisattenzione da parte di Eleonora. Probabilmentestava pensando alla bronchite del figlio, o ai suoiattacchi di malumore o di omosessualità o diqualunque cosa fosse che le impediva di venire, odi combinare alcunché di percettibile le volte cheveniva. Era italiana, e doveva aver scambiato la

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sua spesa per spazzatura.Ma la faccenda del capello cambiava ogni

cosa. Stabiliva al di là di ogni dubbio cheEleonora sapeva esattamente ciò che faceva. Nonaveva proprio nessuna intenzione di aprire ilfrigorifero prima di lui, e Dirk non aveva nessunaintenzione di aprirlo prima di lei.

Evidentemente lei non si era accorta delcapello di Dirk, altrimenti la cosa più ragionevoleche avrebbe potuto fare sarebbe stato di toglierlo ebasta, facendogli così credere di aver aperto ilfrigorifero. Lui quindi adesso avrebbe dovutotogliere il capello di lei per farle credere la stessacosa, ma mentre se ne stava accosciato davanti alfrigorifero già sapeva che il trucco non avrebbefunzionato, e che entrambi erano chiusi in unaspirale sempre più stretta di non-apertura delfrigo, una spirale che li avrebbe condotti tutti edue alla follia e alla perdizione.

Si chiese se fosse il caso di pagare qualcunoperché aprisse il frigorifero.

Ma non era in condizione di poter pagare

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qualcuno perché facesse qualcosa. Non eraneppure in condizione di pagare a Eleonora leultime tre settimane di lavoro. L’unico motivo percui non la mandava via era che quando si licenziaqualcuno bisogna pagarlo di sicuro, cosa che luinon poteva fare. La sua segretaria si era finalmentelicenziata ed era andata a fare qualcosa direprensibile nel campo del turismo. Dirk avevacercato di fare del sarcasmo dicendole chepreferiva la monotonia del salario a...

«La regolarità del salario» l’aveva corretto leicon calma.

... alla soddisfazione professionale.Lei era stata sul punto di ribattere:

“Soddisfazione che?”, ma si era resa conto che seavesse detto questo avrebbe poi dovuto ascoltarela risposta di lui, che l’avrebbe fatta inferocirespingendola a ribattere a sua volta. Le venne dapensare per la prima volta che l’unica via di fugaera di non farsi coinvolgere in questi botta erisposta. Stavolta sarebbe bastato non rispondere,e sarebbe stata libera di andarsene. Mise alla

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prova questa sua nuova idea. Fu presa daun’improvvisa sensazione di libertà. Se ne andò.Una settimana dopo, sull’onda di questicambiamenti, sposò un assistente di volo di nomeSmith.

Dirk aveva rovesciato la scrivania dellasegretaria con un calcio, e in seguito aveva dovutoraddrizzarsela da sé perché lei non era tornata.

In quel periodo il lavoro di investigatoreferveva d’attività come una tomba. Nessuno avevavoglia che si investigasse su nulla, o così pareva.Per tenere insieme l’anima col corpo si era messoa praticare, nelle lunghe serate del giovedì, lachiromanzia, ma non gli piaceva granché. Avrebbeanche potuto sopportarla – ormai si era abituato, inun modo o nell’altro, all’odiosa, abiettaumiliazione di questa attività, e poi era piuttostoanonimo con la sua tenda piantata nel giardinoposteriore del pub – se non fosse stato cosìmostruosamente e penosamente bravo. Era cosìbravo che si trovava immerso in un bagno disudore e odio verso di sé. Con ogni mezzo cercava

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di imbrogliare, di fingere, di risultaredeliberatamente e cinicamente maldestro, ma ogniballa che cercava di raccontare non serviva mai anulla, e le sue previsioni finivano sempre perrivelarsi esatte.

Il momento più brutto era stato quando unapovera donna era venuta una sera dall’Oxfordshireper consultarlo. In un momento di umor faceto,Dirk le aveva detto di tenere d’occhio il maritoche, a giudicare dalla linea del matrimonio, era untipo un po’ volatile, un uccel di bosco. Era quindistato informato che il marito in questione era ineffetti un pilota di caccia, e che due settimaneprima il suo aereo non era più tornato daun’esercitazione sul Mare del Nord.

Dirk c’era rimasto molto male e aveva invanocercato di consolarla. Era sicuro, le aveva detto,che suo marito le sarebbe stato col temporestituito, che le cose si sarebbero sistemate, chetutto ma proprio tutto sarebbe andato beneeccetera. La donna aveva risposto che moltodifficilmente avrebbe rivisto il marito dato che il

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record mondiale di sopravvivenza nelle acque delMare del Nord non arrivava ai sessanta minuti, esiccome non si trovava traccia di suo marito dadue settimane ormai, le sembrava decisamenteimprobabile pensare che suo marito non fossemorto stecchito, e che quindi avrebbe cercato diabituarsi all’idea, grazie tante. Aveva detto tuttoquesto in tono parecchio sarcastico.

Dirk a questo punto aveva perso il controllo eaveva cominciato a parlare a ruota libera.

Dalle linee della mano appariva chiaramente,le aveva spiegato, che la montagna di soldi che lesarebbe piovuta addosso di lì a poco nonl’avrebbe consolata per la perdita del suo caro,caro marito, ma che se non altro le sarebbe stato diconforto sapere che lui era salito su in quel“grande qualcosa” che c’è in cielo, e che adessofluttuava sulla più lieve e più bianca nuvoletta chesi potesse immaginare, e che era molto bello avedersi con le sue nuove ali, e gli spiaceva moltodi essersi lasciato andare a queste mostruosefarneticazioni ma che lei l’aveva colto di sorpresa.

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Gradiva un tè, o una vodka, o magari un po’ diminestra?

Lei non gradiva. Aveva risposto che era entratanella tenda per sbaglio mentre cercava la toilette,e cos’era questa storia dei soldi?

«Niente, solo chiacchiere» aveva spiegatoDirk. Si trovava in difficoltà, col fatto di doverparlare in falsetto e tutto quanto. «Mi sonoinventato tutto sul momento. La prego di accettarele mie scuse più sentite per aver turbato cosìmaldestramente il suo lutto, e inoltre mi consentadi accompagnarla alla, cioè di mostrarle... be’, ciòche date le circostanze chiameremo toilette, che èqui fuori della tenda sulla sinistra.»

Questa storia l’aveva buttato parecchio giù dimorale, ma fu con sincero orrore che qualchegiorno più tardi scoprì che la povera vedovaaveva vinto 250.000 sterline alla lotteria. Quellanotte rimase per diverse ore sul tetto della casa amostrare il pugno al cielo buio gridando:«Piantala!» finché un vicino non chiamò la poliziadicendo che non riusciva a dormire. Dopodiché

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arrivò una pattuglia a sirene spiegate svegliandoanche il resto del vicinato.

Adesso, e cioè quella mattina, Dirk se ne stavaaccosciato a guardare il frigorifero parecchio giùdi morale. Quella feroce effervescenza su cui disolito contava per arrivare in fondo alla giornataera evaporata fin dal principio per via dellafaccenda del frigorifero. Lì dentro eraimprigionata la sua volontà, tenuta chiusa daquell’unico capello.

Ciò di cui aveva bisogno, pensò, era un cliente.Ti prego, Dio, pensò, se c’è un dio, un dioqualsiasi, mandami un cliente. Un clientesemplicissimo, più semplice è meglio è.Credulone e ricco. Uno come quel tizio di ieri.Tamburellò con le dita sul tavolo.

Il problema era questo: più il cliente eracredulone, più Dirk tirava fuori il suo lato buono,che continuava a rifarsi vivo e a intromettersi neimomenti meno opportuni. Dirk minacciava spessoil suo lato buono di sbatterlo per terra e distrangolarlo con un ginocchio sulla trachea, ma

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quello di solito riusciva a fregarlo travestendosida senso di colpa e disgusto di sé, e con questocamuffamento riusciva a sbatterlo fuori dal ring.

Credulone e ricco. Di modo che lui potessepagare qualcuno, o anche uno soltanto, dei suoi piùappariscenti e incredibili debiti. Accese unasigaretta. Il fumo si arricciò verso l’alto nella lucemattutina e si attaccò al soffitto.

Come il tizio di ieri...Qui si fermò.Il tizio di ieri...Il mondo trattenne il fiato.Piano piano calò su di lui la consapevolezza

che da qualche parte ci fosse qualcosa dispaventoso. Qualcosa di orribilmente sbagliato.

C’era una catastrofe che incombeva silenziosanell’aria intorno a lui, in attesa che lui se nerendesse conto.

Quello di cui aveva bisogno, stava pensandopoco prima, era un cliente. Era una cosa chepensava per abitudine. Lo pensava sempre aquell’ora della mattina. Quello che si era

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dimenticato era che un cliente lui ce l’aveva.Guardò l’ora, disperato. Quasi le undici e

mezzo. Scosse la testa cercando di far cessare quelflebile ronzio che aveva tra le orecchie, quindibalzò su per agguantare il cappello e il gransoprabito di pelle appeso dietro la porta.

Quindici secondi dopo usciva di casa, concinque ore di ritardo, ma di buon passo.

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4

Due minuti dopo Dirk si fermò per riflettere suquale fosse la migliore strategia da seguire. Invecedi arrivare con cinque ore di ritardo tuttoaffannato, sarebbe stato preferibile arrivare concinque ore e qualche minuto di ritardo, ma avendotrionfalmente in pugno la situazione.

“Dio non voglia che sia arrivato troppopresto!” sarebbe stata la sua battuta d’apertura; mapoi il seguito sarebbe dovuto essere all’altezza, elui non sapeva bene come andare avanti.

Forse avrebbe fatto più in fretta se fosse tornatoindietro a prendere la macchina, ma non dovevaandare lontano, e poi aveva un’incredibile facilità

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di perdersi quando era al volante. Ciò avveniva inlarga misura a causa del suo sistema diorientamento Zen, che consisteva nell’individuareuna qualsiasi macchina che avesse l’aria di saperedove stesse andando, e di seguirla. Questa tecnicaportava a risultati più spesso sorprendenti cheutili, ma Dirk era del parere che valesse pursempre la pena metterla in atto per amore di quellerare volte in cui l’esito era sia sorprendente cheutile.

E poi non era del tutto sicuro che la macchinafunzionasse.

Era una vecchia Jaguar, risalente a quelperiodo molto particolare in cui si costruivanoautomobili che dovevano fermarsi più spesso dalmeccanico che dal benzinaio, e spessonecessitavano di qualche mese di pausa tra ungiretto e l’altro. A pensarci bene, però, Dirk erasicuro che non ci fosse benzina nel serbatoio e cheper buona misura non disponeva né di contanti nédi un tesserino di plastica che gli permettesse diriempirlo.

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Abbandonò quel flusso di pensieri in quanto deltutto sterile.

Si fermò a comprare il giornale e ne approfittòper cercare di fare il punto della situazione. Eranole undici e trentacinque, secondo l’orologio delgiornalaio. Dannazione, dannazione, dannazione.Fu tentato di lasciar perdere. Andare via edimenticarsi del cliente. Mangiare qualcosa. Lafaccenda si profilava comunque irta di difficoltà.O meglio era irta di una sola specifica difficoltà:quella di riuscire a fingere di prenderla sul serio.Tutta quanta la faccenda era assurda. Il clienteaveva chiaramente qualche rotella fuori posto eDirk non avrebbe nemmeno preso inconsiderazione l’eventualità di accettare l’incaricose non fosse stato per un’unica importanteconsiderazione.

Trecento sterline al giorno più le spese.Il cliente aveva accettato senza battere ciglio. E

quando Dirk aveva fatto il suo solito discorsettoda cui risultava che i suoi metodi, basaticom’erano sulla interconnessione di fondo tra tutte

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le cose, spesso comportavano spese che al profanopotevano sembrare marginali rispetto al caso inquestione, quello aveva reagito con un’alzata dispalle. A Dirk piaceva quando la prendevano così.

Il cliente, pur mostrandosi ragionevole in modoquasi disumano, aveva posto un’unica condizione:Dirk doveva, e doveva assolutamente, presentarsisenza fallo, in perfette condizioni difunzionamento, senza nemmeno la minima ombradi un accenno di una qualche debolezza, quellamattina alle sei e mezzo. Assolutamente.

Ebbene, avrebbe dovuto mostrarsi ragionevoleanche su questo punto. Le sei e mezzo eranochiaramente un’orario assurdo, ed era ovvio che ilcliente non aveva parlato sul serio. Di certointendeva un’ora più civile, tipo mezzogiorno, e seavesse avuto qualcosa da ridire, Dirk sarebbestato costretto a citargli fior di statistiche. Nessunosi fa ammazzare prima di mezzogiorno. Proprionessuno. La gente non ce la fa. Bisogna avere unbuon pranzo in corpo che ti tiri su gli zuccheri e lasete di sangue. Dirk aveva le cifre che lo

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dimostravano.Lo sapeva, Anstey (così si chiamava il cliente,

un tizio strambo ed emotivo sulla trentina, gliocchi spiritati, la cravatta gialla e una di quellegrandi case che ci sono in Lupton Road; veramenteDirk non l’aveva trovato molto simpatico: aveval’aria di uno che si sforzasse di inghiottire unpesce), lo sapeva che il 67 per cento degliassassini che avevano avuto modo di esprimere leproprie preferenze alimentari, avevano mangiatofegato con pancetta a pranzo? E che un altro 22 percento si era dibattuto nell’indecisione tra un risottoindiano e un’omelette? Questo dissipava un buon89 per cento delle sue preoccupazioni in un solocolpo, e una volta messi in conto i mangiatori diinsalate miste e di sandwich di tacchino e pollo, sesi passava a vedere quanti erano quelli che sisarebbero accinti a una faccenda del genere astomaco vuoto, allora ci si sarebbe trovati immersinel mondo del marginale e del trascurabile – pernon dire delle pure e semplici fantasticherie.

Dopo le due e mezzo, ma più le tre che le due e

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mezzo, era il momento in cui bisognavacominciare a stare in guardia. Ma sul serio. Anchenelle giornate buone. Anche quando non si eraminacciati di morte da giganteschi sconosciuti congli occhi verdi, bisognava tenere d’occhio la gentecon occhi di falco dopo l’ora di pranzo. Ilmomento più pericoloso è dopo le quattro, quandoper le strade cominciano a imperversare torme dieditori e di agenti letterari, inferociti dallefettuccine e dallo yogurt con fermenti lattici vivi,che urlano contro i tassì. Quelli erano i momentiche mettevano a dura prova l’anima degli uomini.Ma le sei e mezza di mattina? Se lo potevascordare. E Dirk se n’era scordato, infatti.

Con passo risoluto, Dirk uscì dall’edicolanell’aria pungente della strada e si avviò.

«Spero voglia pagarmi quel giornale, signorDirk» lo richiamò il giornalaio, rincorrendolo.

«Ah, Bates,» disse Dirk con aria di superiorità«lei e le sue speranze! Non fa che sperare ora inuna cosa ora in un’altra. Le posso raccomandareun atteggiamento di serena accettazione? Una vita

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con un fardello di speranze è una vita infelice. Nonporta che a dolori e delusioni. Impari a vivere ilpresente, attimo per attimo.»

«Viene venti pence, signore» replicò Batestranquillamente.

«Le dirò io cosa deve fare, Bates, visto che sitratta di lei. Ha una penna? Va bene anche unasemplice penna a sfera.»

Bates prese una penna dalla tasca interna dellagiacca e la porse a Dirk, che strappò un pezzettodella prima pagina dov’era scritto il prezzo escrisse “Pagherò”. Quindi diede il pezzo di cartaal giornalaio.

«Lo devo mettere con gli altri, signore?»«Lo metta là dove le dà più gioia, caro Bates, e

mi raccomando, non si accontenti di nulla di meno.E adesso, brav’uomo, arrivederci.»

«Spero che vorrà ridarmi anche la penna,signore.»

«Quando i tempi saranno maturi per questatransazione, mio caro Bates,» rispose Dirk «ci puòcontare senz’altro. Per il momento, scopi più alti

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la richiedono. Gioia, Bates, grande gioia. Bates, lalasci andare, per piacere.»

E dopo aver compiuto un ultimo, poco convintotentativo di riprendersi la penna, l’ometto fecespallucce e si avviò strascicando i piedi verso lasua edicola.

«Spero di rivederla, signor Dirk» lo salutòvolgendo appena la testa, senza entusiasmo.

Dirk fece un cortese cenno col capo indirezione dell’ometto che si allontanava e quindisi avviò di buon passo aprendo il giornale allapagina dell’oroscopo.

“Ogni decisione presa oggi si riveleràsbagliata” diceva brutalmente il suo oroscopo.

Dirk richiuse di scatto il giornale con ungrugnito. Non era sfiorato dal dubbio che enormimasse di materia in rotazione ad anni luce da lìpotessero sapere, sulla nostra giornata, più diquanto sappiamo noi stessi. Il fatto era che ilGrande Zaganza era un suo vecchio amico, econoscendo la data di nascita di Dirk scrivevasempre l’oroscopo del suo segno in modo da farlo

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arrabbiare. Il numero delle copie vendute erabruscamente calato di un dodicesimo da quandoaveva preso a occuparsi della rubrica astrologica,e solo Dirk e il Grande Zaganza sapevano ilperché.

Dirk continuò a camminare di buon passosfogliando rapidamente il giornale. Come al solitonon c’era niente di interessante. Un sacco diarticoli sulle ricerche in corso per rintracciareJanice Smith, l’addetta al check-in dell’aeroportodi Heathrow scomparsa. Sul giornale c’era la suafotografia più recente, che la raffigurava con letreccine all’età di sei anni. Suo padre, Jim Pearce,aveva detto che la foto era molto somigliante, mache adesso Janice era cresciuta un bel po’ e che disolito non era così sfocata. Spazientito, Dirk sificcò il giornale sotto il braccio e continuò acamminare, assorto in un flusso di pensieri moltopiù interessante.

Trecento sterline al giorno. Più le spese.Si chiese per quanto tempo poteva

ragionevolmente aspettarsi di far durare nella

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psiche del signor Anstey la sua bizzarraossessione, e cioè che stava per essere ucciso daun essere alto due metri e dieci con occhi verdi,capelli ispidi e corna, che solitamente brandivaverso di lui un contratto scritto in una linguaincomprensibile e firmato con uno schizzo disangue, e anche una specie di falce. Altracaratteristica notevole di questo essere era chenessuno l’aveva mai visto tranne il signor Ansteystesso, il quale giustificava la cosa sostenendo checiò avveniva per un gioco di luci.

Tre giorni? Quattro? Dirk non era sicuro diriuscire a durare una settimana facendo finta diprenderla sul serio, ma già si prospettava unmigliaio di sterline circa come ricompensa per ilsuo disturbo. E sulla lista delle spese marginali manon negoziabili avrebbe messo un frigoriferonuovo. Buona idea. Buttare via il frigoriferovecchio faceva decisamente partedell’interconnessione tra tutte le cose.

Cominciò a fischiettare al pensiero di farvenire qualcuno che lo portasse via, svoltò in

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Lupton Road e vide con sorpresa che era pieno dimacchine della polizia. E c’era pureun’ambulanza. Questo non gli piacque. Era unastonatura. Non si armonizzava bene con la visionedel frigorifero nuovo.

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Dirk conosceva Lupton Road. Era una bella stradaalberata con grandi case di tarda epoca vittorianache si innalzavano alte e solide e che nonapprezzavano affatto le macchine della polizia.Non le apprezzavano se erano parecchie, cioè, econ la luce blu lampeggiante. Gli abitanti diLupton Road amavano invece vedere una solamacchina della polizia, bella e ben curata, andaresu e giù di pattuglia in modo allegro e sostenuto –ciò manteneva allegro e sostenuto anche il valoredegli immobili. Ma nel momento in cui i faricominciavano a lampeggiare con quel loro blusoprannaturale, gettavano una luce sinistra non

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solo sui bei mattoni a vista delle facciate, maanche sul valore immobiliare che detti mattoni avista rappresentavano.

Volti ansiosi occhieggiavano da dietro i vetridelle finestre del vicinato, e su di essilampeggiavano le luci blu.

Erano tre: tre macchine della polizia ferme ditraverso nella strada in una posizione che andavachiaramente al di là di quella di un sempliceparcheggio. Questo loro modo di essere in sostacomunicava al mondo intero che era arrivata lalegge a farsi carico della situazione, e chechiunque avesse normali, legittime e pacifichefaccende da sbrigare in Lupton Road poteva pureandare a farsi fottere.

Dirk si avvicinò di corsa, sudando sotto lospesso soprabito di pelle. Un poliziotto cercò disbarrargli la strada con le braccia spalancate comese lo stesse marcando a rugby, ma Dirk lo schivòcon un torrente di parole alle quali quello nonseppe trovare subito una buona risposta. Dirkcorse verso la casa.

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Sulla porta lo fermò un altro poliziotto, e Dirkera sul punto di esibire una vecchia ricevuta deigrandi magazzini Marks and Spencer con un’abilemossa del polso per la quale si era esercitato ore eore davanti allo specchio nelle lunghe serate in cuinon c’era molto altro da fare, quando l’agenteimprovvisamente gli chiese: «Ehi, lei è Gently?».

Dirk sbatté le palpebre incredulo. Rispose conun lieve grugnito che avrebbe potuto significare sìo no a seconda delle circostanze.

«Perché il Capo la cercava.»«Davvero?» domandò Dirk.«Sì, l’ho riconosciuta dalla sua descrizione»

replicò l’agente squadrandolo dalla testa ai piedicon un sorriso vacuo.

«A dire la verità,» continuò il poliziotto «ilCapo ha fatto più volte il suo nome con un tonoche molti potrebbero giudicare piuttosto offensivo.Ha perfino mandato Big Bob l’Acchiappauomini acercarla in macchina. Si capisce subito che Bobnon l’ha trovata guardandola in faccia. La gentebeccata da Big Bob l’Acchiappauomini di solito

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arriva un po’ acciaccata. Certo, è in grado dicollaborare con noi, ma poco altro. Entri, entri.Meglio lei che me» aggiunse sottovoce.

Dirk diede un’occhiata alla casa. Le imposte dipino grezzo erano chiuse. La casa dava per ognialtro verso un’impressione di ordine, di pulizia, dievidente e ostentata ricchezza, ma quelle impostechiuse davano in qualche modo un’idea diimprovvisa devastazione.

Stranamente, si sentiva una musica che parevaprovenire dallo scantinato; non vera e propriamusica, ma piuttosto un unico brano musicalemolto ritmato che si ripeteva senza sosta.Probabilmente era la puntina di un giradischi checontinuava a percorrere lo stesso solco, e Dirk sichiese come mai nessuno avesse spentol’apparecchio, o almeno dato un colpo alla puntinain modo che il disco potesse andare avanti. Ilritornello a Dirk sembrava vagamente familiare:forse l’aveva sentito di recente alla radio, anchese non riusciva a riconoscere la canzone. Leparole sembravano queste:

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Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non prenderla tu, prenderla tu, pren-

... e via di seguito.«Immagino vorrà andare giù in cantina» disse

l’agente col tono di chi riteneva che quella fossel’ultima cosa che una persona sana di mentepotesse voler fare.

Dirk annuì seccamente e salì i gradini checonducevano al portoncino di ingresso, che erasocchiuso. Scosse la testa e si strinse nelle spallenel tentativo di rimettere ordine nel suo cervello.

L’anticamera emanava opulenza, sovrapposta aun gusto che originariamente doveva essere quellodi uno studente universitario. Il pavimento era diassi grezze con uno spesso strato di vernice alpoliuretano, e alle pareti bianche erano appesitappeti greci, ma tappeti greci costosi. Dirk erapronto a scommettere (ma non a scommettere deisoldi) che una perquisizione della casa avrebbeportato alla luce, insieme a chissà quali altri

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segreti reconditi, cinquecento azioni della BritishTelecom e una raccolta dei dischi di Bob Dylanche arrivava fino a Blood on the Tracks.

Nell’anticamera c’era un altro poliziotto.Pareva terribilmente giovane e stava in pieditenendosi appoggiato appena al muro, gli occhifissi per terra. Era pallidissimo e tutto sudato.Rivolse a Dirk uno sguardo incerto, e fece undebole cenno in direzione delle scale cheportavano di sotto.

Dallo scantinato veniva il ritornello senza fine:

Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non prenderla tu, prenderla tu, pren-

Dirk tremava di rabbia: una rabbia che siagitava dentro di lui cercando qualcosa da colpireo da strangolare. Avrebbe tanto voluto poternegare di avere alcuna colpa per ciò che eraavvenuto lì, ma fin quando qualcuno non l’avesseaccusato, non poteva farlo.

«Da quanto tempo siete qui?» chiese

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bruscamente.Il giovane poliziotto dovette farsi forza per

rispondere.«Siamo arrivati mezz’ora fa» rispose

debolmente. «Che brutta mattinata. Un grantrambusto.»

«Non mi parli di trambusto» replicò Dirk senzalogica alcuna. E si lanciò giù per i gradini.

Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non prenderla tu, prenderla tu, pren-

In fondo alle scale c’era uno stretto corridoiocon una porta fracassata, tenuta su da un cardinesolo, che dava su uno stanzone. Dirk fece perentrare ma una figura uscì dall’ombra e gli sipiazzò di fronte.

«Mi spiace che tu sia immischiato in questastoria» disse la figura. «Mi spiace moltissimo.Dimmi cosa c’entri con questa faccenda cosìcapisco di cosa devo dispiacermi esattamente.»

Dirk fissò stupefatto quel viso pulito e affilato.

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«Gilks?» domandò.«Non fare quella faccia stupida da

comesichiama... hai presente quegli animali chesembrano foche ma non sono foche? Quelle grossebestie lardose. Dugonghi, ecco. Non fare quellafaccia da dugongo. Perché quel... be’, quell’uomolà dentro» e indicò la stanza alle sue spalle «hascritto il tuo nome e il tuo numero di telefono suuna busta piena di soldi?»

«Come m...» cominciò Dirk. «Come mai seiqui, Gilks, se mi è lecito chiederlo? Che ci fai cosìlontano dalle paludi del Cambridgeshire? Questoambiente non mi sembra abbastanza umido per te.»

«Trecento sterline» disse Gilks. «Perché?»«Permettimi di parlare col mio cliente» ribatté

Dirk.«Il tuo cliente, eh?» ripeté acido Gilks. «Ma sì,

certo. Va’, parlagli pure. Voglio proprio sentirecos’hai da dirgli.» Indietreggiò di un passo e fececenno a Dirk di accomodarsi.

Dirk mise ordine nei suoi pensieri ed entrònella stanza in uno stato di controllata compostezza

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che durò poco più di un secondo.La maggior parte del suo cliente se ne stava

tranquillamente seduta in una comoda poltronadavanti allo stereo. La poltrona era posta in unaposizione di ascolto ottimale – a una distanza daglialtoparlanti doppia rispetto a quella che liseparava l’uno dall’altro, cosa che è di solitoconsiderata l’ideale per la resa stereofonica.

Nel complesso aveva un’aria disinvolta erilassata, le gambe accavallate e una tazzina dicaffè bevuto a metà sul tavolino accanto a lui.Purtroppo la scena era turbata dal fatto che la testapoggiava sul disco che girava sul piatto, con ilbraccio del giradischi che toccava il collo a ognirotazione venendone risospinto ogni volta nellostesso solco. Mentre la testa girava parevarivolgere a Dirk, ogni 1,8 secondi circa, unosguardo carico di rimprovero come per dire: “Haivisto cosa succede quando non vieni all’ora che tiho detto io?”. E girava verso il muro, girava erigirava e tornava a gettargli un altro sguardocarico di rimprovero.

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Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non prenderla tu, prenderla tu, pren-

La stanza si mise a oscillare un poco intorno alui, e Dirk si appoggiò al muro con la mano pertenerla ferma.

«Dovevi fornire al tuo cliente qualche servizioparticolare?» chiese molto piano Gilks alle suespalle.

«Ah, be’, no, era solo per una faccenduola»rispose debolmente Dirk. «Nulla che avesse a chefare con questo. No, lui, hmm, lui non ha accennatominimamente a una cosa del genere. Be’. Senti,vedo che hai da fare. Sarà meglio che riscuota lamia parcella e me ne vada. Hai detto che avevapreparato una busta, giusto?»

Detto questo, Dirk si lasciò cadere su una sediadi compensato che stava dietro di lui, e la ruppe.

Gilks lo tirò su e lo spinse contro il muro. Uscìun attimo e ritornò con un vassoio con un bicchieree una caraffa piena d’acqua. Versò un po’ d’acquanel bicchiere, si avvicinò a Dirk e gliela gettò

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addosso.«Va meglio?»«No» rispose Dirk, sputacchiando. «Non si può

almeno spegnere il giradischi?»«È roba per quelli della scientifica. Non si può

toccare niente prima che siano passati loro. Forsesono arrivati. Tu va’ fuori in giardino a prendereun po’ d’aria. Incatenati da solo a un’inferriata eschiaffeggiati un po’: io ho da fare. E cerca didiventare meno verde in faccia, d’accordo? Ilverde non ti dona.»

Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non prenderla tu, prenderla tu, pren-

Gilks gli voltò la schiena con un’aria stanca escocciata. Fece per dirigersi verso la porta perandare incontro ai nuovi venuti di cui avevasentito le voci al pianterreno, ma si fermò e rimasea guardare per qualche secondo la testa checontinuava a girare sul pesante piatto delgiradischi.

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«Sai,» disse alla fine «questi suicidiesibizionisti e supercervellotici mi danno propriosui nervi. Lo fanno solo per darci delle noie.»

«Suicidi?» chiese Dirk.Gilks si girò e lo guardò in faccia.«Finestre con sbarre di due centimetri di

diametro» spiegò. «Porta chiusa dall’interno conchiave ancora nella serratura. Barricata di mobilicontro la porta. Portefinestre della veranda chiusecon catenaccio. Nessuna traccia di scasso. Sefosse un omicidio, l’assassino dovrebbe essererimasto qui parecchio per far scomparire ognitraccia. Comunque, non c’è nessuno stucco fresco,e la vernice è vecchia.

«No. Nessuno è uscito da questa stanza, enessuno ci è entrato tranne noi, e sono sicurissimoche noi non siamo stati.

«Non ho tempo da perdere con questa faccenda.Si tratta evidentemente di suicidio, e compiutoapposta in modo cervellotico. Ho una mezza ideadi multare il defunto per aver fatto perdere tempoalla polizia. Ti dico una cosa» aggiunse guardando

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l’ora. «Ti do dieci minuti. Se entro dieci minutiriesci a trovare una spiegazione plausibile diquesto suicidio da mettere nel mio rapporto, tilascerò tenere le prove testimoniali contenute nellabusta meno il 20 per cento per me come compensoper la tensione nervosa causatami dal non avertipreso a pugni sul muso.»

Per un attimo Dirk fu in dubbio se menzionarele visite che il cliente sosteneva di aver ricevutoda parte di uno strano gigante impellicciato daimodi violenti e dagli occhi verdi, cheregolarmente compariva dal nulla gridandoqualcosa a proposito di contratti e di obblighi ebrandendo una falce affilata e scintillante lunga unmetro, ma, valutati i pro e i contro, alla fine decisedi non dire niente.

Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non prenderla tu, prenderla tu, pren-

Dirk era infuriato con se stesso. Non avevapotuto infuriarsi come si conveniva per la morte

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del suo cliente perché era un fardello troppopesante e spaventoso da portare. Ma ora era statoumiliato da Gilks, e si trovava in una condizionedi tale debolezza e confusione da non poterreagire, e così poteva finalmente infuriarsi con sestesso per questo.

Diede le spalle al suo tormentatore e andò ingiardino per restare solo con la sua furia.

Il giardino era in realtà un cortilettopavimentato rivolto a ovest, con poca luce per viadell’alto recinto posteriore della casa e dell’altomuro di una qualche costruzione industrialeaddossata all’altra estremità. Nel mezzo di questocortile c’era, per chissà quale ragione, unameridiana di pietra. Se un po’ di luce l’avesseinvestita, si sarebbe potuto constatare che eraquasi mezzogiorno, ora di Greenwich. In mancanzadi ciò, ci si appollaiavano gli uccelli. Qualchepianta intristiva nel suo vaso.

Dirk si ficcò una sigaretta in bocca e la accesecon violenza, bruciandola in buona parte.

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Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non prenderla tu, prenderla tu, pren-

continuava a ripetere l’assillante ritornello cheusciva dalla casa.

Siepi ben curate separavano a destra e asinistra il cortiletto dai giardini delle case vicine.Quello di sinistra era piccolo come questo, quellodi destra più grande, traendo vantaggio dal fattoche il capannone industriale finiva all’altezzadella siepe di divisione. Tutto era molto bentenuto. Nulla di grandioso, nulla di imponente:solo una sensazione di agiatezza e l’impressioneche la manutenzione lì non fosse un problema. Lacasa sulla destra, in particolare, aveva l’aria diaver avuto i mattoni a vista ripuliti di recente, e lefinestre riverniciate.

Dirk aspirò una gran boccata d’aria e per unsecondo si fermò a guardare quel po’ di cielo chesi poteva vedere, grigio e nebbioso. C’era unpuntolino nero che volteggiava proprio sotto lenubi. Dirk rimase a guardarlo per un po’, contento

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di poter badare a qualcosa che non fosse l’orroredello scantinato. Era vagamente consapevole chelà sotto c’era un certo andirivieni, che siprendevano misure, si scattavano fotografie, e chesi stavano svolgendo attività miranti allarimozione di teste staccate dal busto.

Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non prenderla tu, prenderla tu, pren-Non p-

Qualcuno alla fine l’aveva presa, la puntina, el’ossessionante ritornello si era finalmenteazzittito. Solo il suono gentile di un televisorelontano aleggiava pacificamente nell’aria.

Ma Dirk solo a fatica si rendeva conto di tuttoquesto. Era molto più consapevole di un’altracosa, di una successione di vertiginose botte sullatesta, che erano i colpi infertigli dal suo senso dicolpa. Non era quel senso di colpa che sembra unrumore di fondo e deriva dal solo fatto di esseregiunti sani e salvi nel Ventesimo secolo, e con cui

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Dirk era bravissimo a convivere. Era invece ilpoderoso senso che “questa specifica orribile cosaè specificamente e orribilmente colpa mia”.Nessuna delle solite strategie mentali gliconsentiva di scostarsi dall’ampia oscillazione diquel grande pendolo. Dang, ecco che tornava,ding, dang, ancora e ancora, dang, dang, dang.

Cercò di ricordare tutti i particolari che il suodefunto cliente (dang, dang) gli aveva riferito(dang), ma (dang) era virtualmente impossibile(dang) con tutti quei dang che gli rintronavano intesta (dang). Il tizio aveva detto (dang) che (Dirktirò un gran respiro) era perseguitato (dang) da(dang) un grosso mostro peloso dagli occhi verdiarmato di falce.

Dang!A queste parole Dirk aveva riso sotto i baffi.Ding, dang, ding, dang, ding, dang!E aveva pensato: “Che idiota!”.Ding, dang, ding, dang, ding, dang!Una falce (dang) e un contratto (dang).Un contratto relativo a che cosa? Il cliente non

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sapeva né riusciva a immaginarselo.“Naturalmente” aveva pensato Dirk (dang).Però aveva la vaga impressione che avesse

qualcosa a che fare con una certa “Patata”. C’erauna storia un po’ complicata a questo proposito(ding, ding, ding).

A questo punto Dirk aveva annuito con grandeserietà (dang), e con aria rassicurante aveva presoun appunto (dang) su un blocco che teneva sullascrivania (dang) apposta per scriverci sopraappunti con aria rassicurante (dang, dang, dang).In quel momento si era sentito inorgoglito di averdato l’impressione di aver messo una crocettaaccanto alla dicitura “patate”.

Dang, dang, dang, dang!Il signor Anstey aveva detto che gli avrebbe

dato ulteriori spiegazioni riguardo alle patatequando Dirk sarebbe andato da lui per assumerel’incarico.

E Dirk aveva promesso (dang), in modo facile(dang) e disinvolto (dang), con un gestorassicurante della mano (dang, dang, dang), che

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sarebbe andato da lui alle sei e mezza del mattino(dang) perché il contratto scadeva alle sette.

Dirk ricordava di aver preso un altro appuntosu “Contratto patate scade 07.00” (dang).

Non li sopportava più tutti quei dang. Lui nonaveva colpa di quello che era successo. Be’, sì.Certo che sì. Era ovviamente colpa sua (dang). Ilpunto era che lui non poteva continuare a darsi lacolpa di quello che era successo econtemporaneamente pensare con chiarezza alfattaccio, cosa che temeva di dover fare. Avrebbedovuto riesumare quell’orribile cosa (dang), e peressere in grado di farlo avrebbe dovuto trovare ilmodo di liberarsi (dang) di tutti quei dang.

Una gran rabbia lo invase di fronte a quellasituazione senza uscita e all’intricata desolazionedella sua vita. Odiava quel cortiletto beneordinato. Odiava la meridiana coi suoi annessi econnessi, e quelle belle finestre ridipinte e queitetti dalle tegole odiosamente ordinate. Avrebbevoluto dare la colpa non a se stesso ma a queldisgustoso lavoro di rifinitura, alle rivoltanti

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pietre ben squadrate che lastricavano il cortile, e aquel disgustoso abominio dei mattoni a vista tiratia lucido.

«Mi scusi...»«Che c’è?» Si girò di scatto, colto di sorpresa

dall’intrusione di una voce sommessa ebeneducata nella sua arrabbiatura.

«Lei è con...?» Con un piccolo movimentofluttuante del polso la donna indicò tuttoquell’insieme di sgradevolezze e di cantinerie e diorribile polizieria proprio alla porta accanto lasua. Aveva al polso un braccialetto rosso abbinatoalla montatura degli occhiali. Lo stava fissando dasopra la siepe che separava il cortile dal giardinodi destra con un’espressione di lieve disgustomisto ad ansia.

Dirk la fissò a sua volta senza parlare. Erasulla quarantina e qualcosa, elegante, e da leispirava immediatamente l’inequivocabile aria dichi lavora nella pubblicità.

La donna emise un sospiro turbato.«Lo so che probabilmente è una cosa terribile e

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tutto quanto,» riprese «ma lei pensa che ci vorràmolto? Abbiamo chiamato la polizia solo perchéquella musica orribile ci stava facendo impazzire.È tutto un po’...»

Lanciò a Dirk uno sguardo di silenziosarichiesta di soccorso, e Dirk stabilì che potevaessere tutta colpa di quella donna. Per quanto loriguardava, la colpa di tutto quanto potevabenissimo ricadere su di lei mentre lui intantopensava al da farsi. D’altra parte, se lo meritava,se non altro perché portava un braccialetto delgenere.

Senza dire una parola, Dirk girò sui tacchi eriportò la sua furia dentro la casa, doverapidamente prese a rapprendersi in qualcosa dirigido ed efficiente.

«Gilks!» chiamò. «La tua teoria del suicidaesibizionista mi piace. Secondo me sta in piedi. Ecredo di sapere come il nostro bastardo saputelloabbia combinato questo guaio. Dammi carta epenna.»

Si mise a sedere con fare pomposo al tavolo di

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ciliegio che occupava il centro della stanza eschizzò rapidamente uno schema degli avvenimentiche comprendeva un certo numero di arnesi dacucina o comunque domestici, un lampadario inoscillazione munito di contrappesi e un calcolo deitempi estremamente preciso incentrato sul fatto cheil giradischi era di marca giapponese.

«Questo dovrebbe fare contenti i tuoi ragazzidella scientifica» disse spiccio Dirk a Gilks. Iragazzi della scientifica gli diedero un’occhiata,passarono in rassegna i punti principali e liapprezzarono molto. Erano semplici, pocoplausibili, ma erano proprio del tipo che uncoroner a cui piaceva andare in vacanza aMarbella proprio come loro avrebbe apprezzatomolto.

«A meno che» disse Dirk distrattamente «nonpreferiate l’idea che il defunto avesse stretto unaspecie di patto diabolico con qualche entitàsoprannaturale venuta a riscuoterne il pagamento.»

I ragazzi della scientifica si scambiarono unosguardo e fecero di no con la testa. Tra di loro si

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era diffusa la sensazione che la mattinata fosseormai molto avanzata e che questo tipo di discorsiservisse solo a introdurre complicazioni superfluein un caso che altrimenti sarebbe già stato acquapassata prima dell’ora di pranzo.

Dirk si strinse soddisfatto nelle spalle, prese lasua quota di prove testimoniali e, rivolto un cennodi saluto all’ispettore, tornò al piano di sopra.

Nell’anticamera si rese improvvisamente contoche il pacifico suono della televisione mattutinache aveva sentito quando era in giardino era statoper tutto il tempo soffocato dall’insistenteritornello che proveniva dallo scantinato.

Si accorse con sorpresa che il suono dellatelevisione veniva dal piano di sopra. Accertatosicon una rapida occhiata che nessuno lo stesseguardando, Dirk mise il piede sul primo gradino ealzò sorpreso gli occhi verso l’alto.

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Le scale erano rivestite con una sorta di stuoia conqualche pretesa di un’eleganza austera e raffinata.Dirk salì in silenzio passando accanto ad alcunigrandi affari in vaso raffinatamente essiccati chestavano sul primo pianerottolo e guardò dentro lestanze del primo piano. Anch’esse raffinate edessiccate.

La camera da letto padronale era l’unica chemostrasse qualche segno di vita vissuta. Si capivache era stata progettata affinché la luce mattutinagiocasse sui fiori delicatamente disposti e suipiumoni imbottiti di un materiale tipo fieno; ma siriceveva l’impressione che calzini sporchi e

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lamette usate stessero per stringere la stanza nellaloro morsa. Quella camera da letto denunciava contutta evidenza l’assenza di alcunché di femminile –la stessa sensazione di assenza che dà un quadrotolto dalla parete. C’era un’atmosfera di tensione edi tristezza e di cose bisognose di essere tiratefuori da sotto il letto.

Nel bagno c’era un disco d’oro appeso al murodi fronte al water per le cinquecentomila copievendute di un disco intitolato Patata Bollente,inciso da un gruppo che si chiamava Pugilato e ilterzo picchiatello autistico. Dirk ricordavavagamente di aver letto parte di un’intervistarilasciata dal leader di questo complesso (eranosolo in due, e uno di questi due era il leader)sull’inserto illustrato di un quotidiano. Allarichiesta di spiegare il nome del gruppo, ilpersonaggio in questione aveva risposto che c’eradietro una storia interessante, che poi diinteressante non aveva proprio nulla. «Significaquello che la gente vuole che significhi» avevaaggiunto stringendosi nelle spalle, seduto sul

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divano nell’ufficio del suo agente, dalle parti diOxford Street.

Dirk ricordava di essersi immaginato ilgiornalista che annuiva educatamente mentre siappuntava questa frase. Dopodiché gli s’eraformato un ignobile nodo allo stomaco, nodo chealla fine era riuscito a sciogliere col gin.

“Patata Bollente...” pensò Dirk.Improvvisamente capì, guardando il disco d’oroappeso al muro nella sua custodia rossa, chequello era ovviamente il disco su cui ruotava latesta del defunto signor Anstey.

Patata Bollente. Non prenderla tu.Ma che voleva dire?“Significa quello che la gente vuole che

significhi” pensò Dirk con cattivo gusto.Ricordava un’altra cosa di quell’intervista, e

cioè che Pain (questo era il nome del leader diPugilato e il terzo picchiatello autistico) dicevache il testo della canzone l’aveva scrittotrascrivendo parola per parola una conversazionesentita per caso in un bar o in una sauna o a bordo

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di un aereo o cose del genere. Dirk si domandòcome si sarebbero sentiti gli interlocutori originarisentendo ripetere le loro parole nelle circostanzein cui era capitato a lui di sentirle.

Guardò con più attenzione l’etichetta al centrodel disco d’oro. In cima c’era la scritta: “ARRGH!”,sotto seguivano alcuni nomi: “Paignton, Mulville,Anstey”.

Mulville era presumibilmente l’altro membrodi Pugilato e il terzo picchiatello autistico, quelloche non era il leader. E il nome di Geoff Anstey,messo lì, significava che con quel mezzo milionedi dischi venduti doveva essersi comprato la casa.Quando Anstey aveva detto che il famoso contrattoaveva a che fare con una certa “Patata” aveva datoper scontato che Dirk capisse cosa intendeva.Invece lui aveva subito dato per scontato cheAnstey stesse farneticando. Era molto facileconcludere che uno che parlava di mostri dagliocchi verdi armati di falce farneticasse ancheparlando di patate.

Dirk sospirò, profondamente a disagio. Non gli

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piaceva il modo in cui il disco d’oro era appesoalla parete, e lo spostò un poco in modo chependesse con un’inclinazione meno rigorosa e piùumana. Questo gesto provocò la caduta di unabusta dietro la custodia. Dirk cercò di prenderla alvolo senza riuscirci. Con un grugnito di fatica sichinò e la raccolse da terra.

Era una busta piuttosto grande, color avorio, dibella carta pesante, grossolanamente aperta da unaparte e poi richiusa con lo scotch. Dava anzil’impressione di essere stata riaperta e richiusacon altro scotch più e più volte; questaimpressione derivava dal fatto che c’erano scrittisopra diversi nomi – ognuno dei quali era statocancellato e sostituito con un altro.

L’ultimo era quello di Geoff Anstey. Almeno,Dirk pensò che fosse l’ultimo perché era l’unicoche non fosse stato cancellato, e cancellato conpesanti tratti di penna. Dirk cercò di leggere glialtri nomi.

Ce n’erano un paio, a malapena leggibili, chegli dicevano qualcosa; però doveva esaminare la

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busta più da vicino. Era da quando avevacominciato a fare il detective che volevacomprarsi una lente di ingrandimento, ma nonaveva mai trovato il tempo per farlo. Non avevanemmeno un coltellino, così decise con riluttanzache la cosa migliore era infilarsi la busta in unodei più bui recessi del suo soprabito edesaminarla in seguito con comodo.

Diede una rapida occhiata dietro il disco d’oroper vedere se per caso nascondesse qualche altroreperto interessante ma non trovò niente, e cosìuscì dal bagno e riprese la sua esplorazione.

L’altra camera da letto era molto pulita e inordine e senz’anima. Mai usata. Le cose piùnotevoli erano un letto di legno naturale, unpiumone e una vecchia cassettiera che era statarinfrescata immergendola in una vasca piena diacido. Dirk richiuse la porta e prese a salire unafragile scaletta laccata di bianco che portava a unamansarda da cui proveniva la vocina di BugsBunny.

In cima alla scala c’era un minuscolo

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pianerottolo su cui si aprivano due porte. Unadava su un bagno così piccolo che per usarlo sisarebbe dovuti rimanere fuori e infilarci dentro gliarti da lavare uno alla volta. Da questa porta,socchiusa, usciva un tubo di plastica verde che dalrubinetto del lavandino attraversava il pianerottoloed entrava nell’altra porta.

Dietro questa seconda porta c’era una mansardacol soffitto molto inclinato, al punto che c’era benpoco spazio in cui una persona di altezza mediapotesse stare in piedi.

Dirk si fermò, curvo, sulla soglia esaminandoquello che la stanza conteneva, timoroso di ciò cheavrebbe potuto trovarci. L’ambiente davaun’impressione di generale lerciume. Dalletendine tirate entrava pochissima luce, e la stanzaera illuminata soprattutto dal chiarore sfarfallantedei cartoni animati. In un angolo in cui il soffittoincombeva particolarmente basso era cacciato unletto sfatto dalle lenzuola sudice e attorcigliate. Lepareti e parte del soffitto erano coperte daillustrazioni malamente ritagliate da riviste.

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Queste immagini non sembravano collegate daun tema comune. Oltre a un paio di lussuoseautomobili tedesche e alla réclame di un reggisenoper taglie forti, c’era una torta di frutta rozzamentestrappata, un pezzo di una pubblicità diassicurazioni e altri frammenti casuali che davanol’impressione di essere stati scelti con idiota ebovina indifferenza nei confronti di ogni loropossibile significato o scopo.

Il tubo di plastica verde correva sul pavimentoe arrivava fino a una vecchia poltrona di fronte altelevisore.

Sullo schermo il coniglio smaniava. Il baglioredi quel suo smaniare illuminava il profilo dellalogora poltrona. Bugs Bunny stava lottando con icomandi di un aereo che cadeva in picchiata. A uncerto punto vedeva un pulsante con la scritta“Pilota automatico” e lo premeva. Si apriva unosportelletto e ne usciva un pilota robot, il qualecapiva la situazione con un solo sguardo e siaffrettava a filarsela. L’aereo stava per fracassarsial suolo quando all’ultimo momento il carburante

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finiva e il coniglio si salvava.Dirk scorse anche la sommità di un cranio.Su quel cranio c’erano dei capelli neri,

spettinati e unti. Dirk attese per un lungo,sgradevole momento prima di avanzare lentamenteper vedere cosa fosse attaccato a quella testa –sempre che ci fosse attaccato qualcosa. Il sollievocon cui scoprì, girando attorno alla poltrona, chequella testa era, se non altro, attaccata a un corpovivo, venne però un poco offuscato dalla vista delcorpo cui era attaccata.

Stravaccato sulla poltrona c’era un ragazzino.Poteva avere tredici o quattordici anni e,

sebbene non mostrasse di avere alcun problemafisico specifico, dava subito l’impressione di nonstare bene in salute. I capelli pendevano floscisulla testa, la testa pendeva floscia tra le spalle, edera gettato sulla poltrona con una sorta diabbandonata fiacchezza, come se fosse caduto lìda un treno in corsa. Indossava una giacca di pelleda quattro soldi e un sacco a pelo.

Dirk lo guardò con tanto d’occhi.

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Chi era? Che ci faceva un ragazzino davantialla televisione in una casa in cui era stato appenadecapitato un uomo? Sapeva che cos’erasuccesso? Gilks era al corrente della suapresenza? Si era preso il disturbo, Gilks, di salirefin lassù? In effetti le rampe di scale eranoparecchie per un poliziotto superimpegnato con undifficile caso di suicidio tra le mani.

Dopo una ventina di secondi che Dirk lo stavafissando, il ragazzo alzò lentamente gli occhi, manon accennò a dare peso alla sua presenza e tornòa guardare il coniglio.

Dirk non era abituato a fare così pocaimpressione sulla gente. Si accertò di avereaddosso il suo lungo soprabito di pelle e il suoassurdo cappello rosso e che il suo profilospiccasse in modo abbastanza teatrale contro laporta illuminata.

Deluso, disse «Ehm...» a mo’ diautopresentazione, senza però attirare l’attenzionedel ragazzo. La cosa non gli piacque. Quelmoccioso continuava deliberatamente a guardare

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la televisione in sua presenza. Dirk lo fissòcorrucciato. Aveva l’impressione che nella stanzaandasse crescendo una pressione da caldaia avapore: l’atmosfera stava diventando tesa esibilante e lui non sapeva come reagire. Questapressione salì e salì e poi cessò con uno scattoimprovviso che fece sussultare Dirk.

Il ragazzo si mosse come un lento, grassoserpente, si sporse sopra l’altro bracciolo dellapoltrona e si diede a una elaborata e invisibileattività che implicava, si rese conto Dirk, unbollitore elettrico. Quando tornò a stravaccarsicome prima sulla poltrona, aveva nella manodestra una ciotola di plastica dalla quale prese aportarsi alla bocca con una forchetta dei filamentigommosi e fumanti.

Il coniglio concluse le sue faccende e lasciò ilposto a un comico sghignazzante che pretendevadagli spettatori che comprassero una certa marcadi birra solo in grazia del suo non disinteressatoinvito.

Dirk capì che era giunto il momento di fare un

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po’ più colpo. Si frappose tra il ragazzino e iltelevisore.

«Ragazzo,» disse in un tono che speravasarebbe suonato fermo e gentile, e per nullacondiscendente o affettato o imbarazzato «vorreisapere chi...»

Si interruppe, distratto dalla vista che la nuovaposizione gli offriva. A fianco della poltrona,infatti, c’era uno scatolone mezzo pieno dibarattoli di spaghetti precotti, un altro scatolonemezzo pieno di Mars, una catasta demolita a metàdi lattine di aranciata, e l’altra estremità del tubodi plastica. Il tubo terminava con un rubinetto diplastica, e serviva evidentemente a riempire ilbollitore.

Dirk voleva solo chiedergli chi era, ma daquell’angolazione l’aria di famiglia erainequivocabile. Il ragazzo era senza dubbio ilfiglio di Geoffrey Anstey, recentemente decapitato.Forse si comportava così per lo shock. O forsenon sapeva cos’era successo. O forse...

Dirk non voleva pensarci.

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Anzi, Dirk non poteva pensare: non con latelevisione lì accanto che, per conto di una dittaproduttrice di pasta dentifricia, cercava dipersuaderlo a preoccuparsi di alcune delle coseche potevano capitare ai suoi denti.

«Ok,» disse «mi spiace disturbarti in unmomento che, mi rendo conto, per te dev’esseremolto duro e difficile, ma vorrei chiederti in primoluogo se ti rendi conto che questo è per te unmomento molto duro e difficile.»

Niente.D’accordo, pensò Dirk, è arrivato il momento

di fare giudiziosamente il duro. Si appoggiò con laspalla al muro, si ficcò le mani in tasca come perdire “Ok, se è questo che vuoi”, tenne lo sguardocupamente fisso a terra per qualche secondo, equindi alzò la testa di scatto fissando il ragazzodritto negli occhi.

«Devo dirti, ragazzo,» proruppe laconico «chetuo padre è morto.»

Avrebbe anche potuto funzionare se in quelpreciso momento non fosse incominciato uno spot

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molto noto e molto lungo. A Dirk parve unesempio stupefacente di comunicazionepubblicitaria.

Lo spot iniziava con una sequenza in cuil’angelo Lucifero cadeva dal cielo giù fin nel piùprofondo dell’inferno, dove giaceva su un lago difuoco finché non arrivava un diavolo di passaggioche gli dava una lattina di una bibita chiamatashAde. Appena Lucifero la assaggiava, si scolavaavidamente tutta la lattina; quindi si girava versol’obiettivo, si metteva un paio d’occhiali da solefirmati e diceva: «Ora sì che cominciamo davveroa scaldarci!». Dopodiché si tornava a sdraiare trai cumuli di carboni ardenti che lo attorniavano.

A questo punto una voce dall’accentoamericano, incredibilmente bassa e profonda, tantoprofonda che pareva provenire davverodall’inferno, o anche solo da una bettolasotterranea di Soho dove aveva una fretta terribiledi tornare per corroborarsi in vista della prossimavoce fuori campo, diceva: «shAde. Un inferno didrink» e la lattina ruotava un poco così che la “sh”

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iniziale rimaneva nascosta lasciando in vista solo“Ade”.

Tutto ciò pareva avere alle spalle una teologiaalquanto confusa, rifletté Dirk; ma cos’era unagoccia di disinformazione in più in tutto queltumultuoso torrente?

Poi Lucifero guardava di nuovo dentrol’obiettivo come per una foto segnaletica e diceva:«Val bene una caduta...» e nel caso in cui lospettatore fosse rimasto completamente istupiditoda tutti questi eventi, veniva fatta rivedere lasequenza iniziale, quella della caduta di Luciferodal Paradiso, per spiegare la battuta.

Il ragazzo era totalmente assorto in questavisione.

Dirk si accovacciò tra la poltrona e iltelevisore.

«Senti» cominciò.Il ragazzo allungò il collo per continuare a

guardare lo schermo. Per poter fare questo eproseguire a ingollare forchettate di spaghettiprecotti dovette ridistribuire tutti gli arti nella

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poltrona.«Senti» ripeté Dirk.Dirk percepiva che la situazione stava

rischiando di sfuggirgli di mano. Il ragazzo non erasoltanto tutto preso dalla televisione, ma null’altroaveva per lui un significato o un’esistenzaindipendente. Dirk non era che un oggetto informeche si frapponeva tra lui e lo schermo. Il ragazzonon ce l’aveva con lui: voleva solo vedere quelloche c’era dietro di lui.

«Senti, non potremmo spegnere questo affareper un momento?» propose Dirk, cercando di nonsuonare risentito.

Il ragazzo non reagì. Ci fu magari unimpercettibile irrigidirsi, o forse era soloun’alzata di spalle. Dirk si girò e cercò invano ilpulsante per spegnere il televisore. I comandiparevano interamente dedicati a un unico scopo,quello di tenersi accesi – non c’erano pulsanti conla scritta “On” o “Off”. Alla fine Dirk ricorse alsemplice espediente di staccare la spina, quindi sivoltò verso il ragazzo, che gli ruppe il naso.

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Dirk sentì il setto nasale spezzarsi all’impattodella fronte del ragazzo mentre entrambi finivanocontro il televisore e poi per terra, ma il rumoredella cartilagine che si rompeva, nonché il suogrido di dolore, venne del tutto sopraffatto dalleferoci urla di rabbia del ragazzo. Dirk cercò diproteggersi agitando vanamente le braccia, ma ilragazzo riuscì lo stesso a ficcargli un gomitonell’occhio, a pestarlo con le ginocchia primasulle costole, poi sulla mascella e infine di nuovosul naso già rotto, mentre gli passava sopra aquattro zampe per rimettere la spina nella presa.Dopodiché tornò a gettarsi sulla poltrona aosservare impassibile l’immagine che si riformavasullo schermo.

«Potevi almeno aspettare il telegiornale» dissecon una voce priva di inflessioni.

Dirk lo guardò a bocca aperta. Si mise a sedereper terra, tenendosi il naso sanguinante tra le manie fissando con gli occhi sbarrati quell’essere cosìmostruosamente distaccato.

«Vhhfff... fffmmm... nnggh!» protestò, e poi per

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il momento lasciò perdere tutto, mentre si tastavail naso per accertare i danni.

C’era proprio un pezzettino rotto che simuoveva e faceva un brutto rumore grattante sottole dita, e tutto quanto il naso gli pareva avereassunto una forma che gli era orribilmenteestranea. Prese il fazzoletto di tasca e se lo misesulla faccia. Il sangue usciva a fiotti. Si rialzòbarcollando, rifiutò con un gesto inesistenti offerted’aiuto e a grandi passi andò nel piccolo bagno.Qui strappò irosamente il tubo di plastica verdedal rubinetto, prese una salvietta, la bagnò conl’acqua fredda e se la tenne sul naso finché ilsangue diminuì e alla fine smise di uscire. Siguardò allo specchio. Il naso era sulle ventitré.Cercò coraggiosamente di raddrizzarlo, ma ilcoraggio non gli bastò. Gli faceva un malemostruoso, così si accontentò di sfiorarlo con lasalvietta bagnata e di imprecare sottovoce.

Rimase lì per qualche tempo ancora,appoggiato al lavabo, a respirare con affanno e aesercitarsi a dire con fierezza: «D’accordo!»

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davanti allo specchio. Però gli usciva«D’aggoddo!», e non aveva alcuna autorevolezza.Quando si sentì ricaricato, o almeno più ricaricatodi quanto avrebbe potuto esserlo nell’immediato,uscì dal bagno e ritornò a grandi passi nella tanadella bestia.

La quale stava seduta immobile ad assorbire leanticipazioni di un nuovo ed eccitante gioco apremi in serbo quella sera per lo spettatoreostinato, e quando Dirk entrò non alzò nemmenogli occhi.

Dirk andò deciso alla finestra e aprì le tende,sperando in cuor suo che la bestia si sarebberidotta in cenere con un urlo se esposta alla lucedel sole; invece questa si limitò ad arricciareappena il naso. Qualcosa passò davanti allafinestra per un attimo, ma Dirk non riuscì a vederecosa fosse.

Si girò per affrontare il ragazzo-bestia. Stavacominciando il telegiornale di mezzogiorno e ilragazzo pareva un po’ più aperto, un po’ piùricettivo al mondo esterno al rettangolo colorato e

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sfarfallante dello schermo. Gettò a Dirk unosguardo amareggiato e stanco.

«Cazzovuoi?» chiese il ragazzo.«De lo digo io goda boglio» disse Dirk con

forza ma senza speranza. «Boglio... Afthbedda ’nmomendo! Io la gonofthgo guella vaggia!»

Dirk si era messo a un tratto a fissare loschermo, dove in quel momento appariva unafotografia un po’ più recente dell’impiegata delcheck-in scomparsa a Heathrow.

«Cazzocifaituqui?» domandò il ragazzo.«Schhhh!» fece Dirk, e si mise a sedere sul

bracciolo della poltrona fissando attento il voltoapparso sullo schermo. La foto era di un annoprima, quando la ragazza ancora non avevascoperto il rossetto. Aveva i capelli crespi eun’aria goffa, fuori moda.

«Cazzosei? Cazzovuoi?» ripeté il ragazzo.«Fthendi, ragadzo» lo rimproverò Dirk. «Fthdo

gergando di guardare la dele!»L’annunciatore comunicò che la polizia

ammetteva la sua perplessità sul fatto che non vi

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fosse traccia di Janice Smith sul luogodell’incidente. La polizia inoltre faceva presenteche c’era un limite al numero delle volte in cui sipuò perquisire un edificio, e faceva appelloaffinché chiunque avesse un’idea di dove laragazza potesse trovarsi si facesse avanti.

«Guella è la mia fthegredaria! Guella è mifthfthPearth!» esclamò Dirk stupefatto.

Al ragazzo non interessava per nulla chi fossequella lì, e rinunciò ad attirare l’attenzione diDirk. Uscì, contorcendosi, dal sacco a pelo e andòin bagno.

Dirk si sedette in poltrona sempre guardando latelevisione, sconcertato per non aver capito primachi era la ragazza scomparsa. D’altra parte, si reseconto, come avrebbe potuto? Il nome era quello dasposata, e quella era la prima fotografia chepermetteva di riconoscerla. Fino a quel momentonon aveva badato più di tanto allo strano incidenteavvenuto all’aeroporto; ora però esso richiamavala sua attenzione.

L’esplosione era stata ufficialmente definita una

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“fatalità divina”.Ma, pensò Dirk, che divinità l’avrebbe

provocata? E perché?Quale dio era passato dal Terminal 2

dell’aeroporto di Heathrow per prendere il volodelle 15.37 per Oslo?

Dopo la triste inazione delle ultime duesettimane, ecco che Dirk si trovava a un tratto conun mucchio di cose per le mani che richiedevanotutta la sua immediata attenzione. Riflettéprofondamente, la fronte corrugata, per qualcheistante, senza quasi accorgersi del ragazzo-bestia,che era tornato a infilarsi nel sacco a pelo giustoquando stava ricominciando la pubblicità. Il primospot mostrava come un normalissimo dado perbrodo poteva diventare il centro dell’attenzione ditutta una famigliola felice.

Saltò in piedi per interrogare il ragazzo, maquando lo vide gli caddero le braccia. La bestiaera lontana, di nuovo sprofondata nella sua buiatana sfarfallante, e in quel momento non se lasentiva di disturbarla ancora.

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Si accontentò di dire al ragazzo impassibile chesi sarebbe fatto vivo di nuovo e poi prese ascendere le scale a passi pesanti, con l’ampiosoprabito di pelle che svolazzava furiosamentedietro di lui.

Nell’atrio incontrò ancora una volta l’odiosoGilks.

«Che ti è successo?» domandò brusco ilpoliziotto vedendo il naso gonfio di Dirk.

«Ftholo guello ghe mi hai deddo di fare du»rispose Dirk con aria innocente. «Mi fhonobigghiado un bo’.»

Ma Gilks volle sapere cosa gli era successo, eDirk generosamente gli spiegò che al piano disopra c’era un testimone in possesso di prezioseinformazioni. Gli suggerì anche di andar su ascambiare due parole con lui, ma di spegnereprima la televisione.

Gilks fece un brusco cenno d’assenso e si avviòsu per le scale. Dirk lo fermò.

«Dod drobi niende di fthdrado in guefthdagatha?» chiese.

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«Che dici?» chiese Gilks irritato.«Gualcoftha di fthdrado» disse Dirk.«Qualcosa di che?»«Fthdrado!» insistette Dirk.«Di strano?»«Efthaddo, fthdrado.»Gilks alzò le spalle. «Per esempio?»«Fthembra ghe fthia gombledamende

fthenz’adiba.»«Completamente che?»«Fthenz’adiba» riprovò Dirk. «Fthenza adiba!

Boldo inderessande, do?»E detto questo si cavò il cappello e uscì in

strada, dove un’aquila scese in picchiata dal cieloe lo sfiorò, e per un pelo non lo fece finire sotto unautobus della linea 73 che procedeva in direzionesud.

Dopodiché, per una ventina di minuti si udironourla spaventose provenire dall’ultimo piano dellacasa di Lupton Road, cosa che causò notevoletensione nel vicinato. L’ambulanza portò via i restimortali superiori e inferiori del signor Anstey,

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insieme a un poliziotto che perdeva sangue dalnaso. Seguì quindi un momento di silenzio.

Dopo un po’ arrivò un’auto della polizia che sifermò davanti alla casa, accolta da commenti tipo“Ehi, è arrivato Bob” mentre un agenteestremamente massiccio e corpulento scendevadalla macchina e saliva su per le scale. Dopoqualche minuto e qualche altro scoppio di urla e digrida, quello stesso agente usciva dalla casa con lafaccia tra le mani e ripartiva furibondo con grandee superfluo stridore di pneumatici.

Venti minuti dopo arrivò un furgone da cui uscìun altro poliziotto che aveva con sé un televisoreportatile. Entrò in casa e ne uscì poco doposeguito docilmente da un ragazzo tredicenne conl’aria molto soddisfatta del suo nuovo giocattolo.

Quando tutti i poliziotti se ne furono andati,salvo un’unica macchina rimasta a tener d’occhiola casa, una figura grande, pelosa e con gli occhiverdi uscì dal suo nascondiglio dietro unamolecola dello scantinato.

L’essere appoggiò la sua falce a una cassa

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dell’hi-fi, tuffò un lungo dito nodoso nel sangueormai quasi del tutto rappreso che era rimasto sulpiatto del giradischi, premette quel dito in calce aun foglio di carta spessa e giallastra e scomparvenel suo buio e segreto sottomondo fischiettandouna strana e maligna melodia, per poi tornare unattimo dopo a riprendere la falce dimenticata.

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Quella stessa mattina, a un confortevole lasso ditempo dagli avvenimenti fin qui narrati, e a unaconfortevole distanza da un’ampia finestra dallaquale entrava la fredda luce mattutina, un vecchiocieco da un occhio giaceva su un letto bianco.Accanto al letto, sul pavimento, c’era un giornaleche pareva una tenda da campeggio mezza crollata;ce l’aveva gettato il vecchio due minuti prima,quando l’orologio sul comodino segnava le diecipassate da poco.

La stanza non era grande, ma ammobiliata coninsipido buon gusto, come la camera di unacostosa clinica privata: e infatti di questo si

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trattava, il Woodshead Hospital, situato neipiccoli ma ben tenuti campi al limitare di unpiccolo ma ben tenuto paesino tra le colline deiCotswolds.

Il vecchio era sveglio, e per niente contento diesserlo.

Aveva una pelle delicatissimamente vecchia,simile a una sottile pergamena trasparente moltotesa, e dolcemente cosparsa di lentiggini. Le manieleganti e fragili erano appena piegate sullelenzuola del bianco più puro, e tremavanolievemente.

Gli si attribuivano vari nomi: signor Odwin, oWodin, o anche Odino. Era – è – un dio, e per dipiù un dio come nessuno vorrebbe avere accanto asé: un dio di pessimo umore. Il suo unico occhiodardeggiava.

Era di pessimo umore per via di quello cheaveva letto sul giornale, e cioè che un altro dio erascappato e si era messo a farne di tutti i colori.Non è che sul giornale si dicesse proprio così,naturalmente. Non c’era scritto “Divinità scappa e

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si mette a farne di tutti colori in un aeroporto”; sidescriveva solo la devastazione conseguente,senza poterne trarre nessuna conclusione.

La faccenda si era rivelata del tuttoinsoddisfacente da ogni punto di vista: perché erasenza capo né coda in modo sconcertante, perchénon portava da nessuna parte e perché – cosaparecchio irritante (dal punto di vistagiornalistico) – non c’era stata una bella stragecome si deve. Naturalmente, che non vi fosse statauna strage era di per sé un mistero, ma un giornalepreferisce sempre una bella strage a un banalemistero.

Odino, però, aveva subito capito come stavanole cose. Su quella faccenda c’era la firma di Thora lettere così grandi che nessuno salvo un altro diole poteva vedere. Aveva buttato via il giornale perl’irritazione, e adesso stava cercando diconcentrarsi sugli esercizi di rilassamento per nonfarsi turbare troppo da questa storia. Eranoesercizi che consistevano nell’inspirare in un certomodo e nell’espirare in un certo altro e che

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facevano molto bene alla pressione eccetera. Nonche stesse per morire o robe simili – ah! – ma nonc’era dubbio alcuno che alla sua età – ah! –preferiva prendere le cose come venivano epreoccuparsi più che altro di sé.

Più di ogni altra cosa gli piaceva dormire.Era per lui un’attività di estrema importanza.

Gli piaceva dormire per periodi piuttosto lunghi,per delle belle tratte di tempo. Dormire la notte ebasta significava non prendere la cosa abbastanzasul serio. Farsi una bella nottata di sonno glipiaceva, certo, e non ci avrebbe rinunciato pernulla al mondo, però non bastava – era meno dellametà di quanto sarebbe stato giusto. Gli piacevaaddormentarsi prima delle undici e mezzo dimattina, e possibilmente dopo aver poltrito un belpo’ a letto. Una colazione leggera e una capatina inbagno mentre gli cambiavano le lenzuola era tuttal’attività di cui aveva bisogno, e ci teneva a chequesto movimento non gli facesse passare il sonnorovinandogli così il sonnellino pomeridiano. Certevolte riusciva a dormire per una settimana di fila,

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e questo era ciò che lui definiva una bella dormita.Aveva anche dormito per tutto il 1986, e senzaperdersi nulla.

Ma sapeva, con sua profonda insoddisfazione,che di lì a poco si sarebbe dovuto alzare peradempiere a una sacra e irritante missione. Sacraperché era una missione divina, nel senso cheaveva a che fare con degli dei; e irritante per viadel dio che vi era in quel caso coinvolto.

Scostò furtivo le tendine, senza alzarsi,ricorrendo semplicemente al suo divino volere.Fece un gran sospiro. Doveva riflettere, esoprattutto era l’ora della sua gita mattutina inbagno.

Suonò il campanello per chiamarel’inserviente.

Questi arrivò subito, col suo largo camiceverde ben stirato, gli diede allegramente ilbuongiorno e gli portò le pantofole e la vestaglia.Aiutò Odino a scendere dal letto, cosa alquantosimile all’operazione di togliere una cornacchiaimpagliata dalla sua scatola, e pian piano lo

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accompagnò al bagno. Odino camminava tuttorigido: sembrava una testa appesa in cima a duetrampoli avvolti in un pigiama e un accappatoio dispugna. Per l’inserviente, Odino era il signorOdwin, e non sospettava minimamente che fosseun dio – informazione, questa, che Odino non erasolito propalare, cosa che avrebbe gradito facesseanche Thor.

Thor era il Dio del Tuono e, in tutta franchezza,si comportava di conseguenza. Non aveva buonsenso. Non voleva intendere ragione né adeguarsialle circostanze – forse era solo troppo stupidoper capire... Odino si interruppe qui. Si era resoconto che stava cominciando a sbraitare nella suatesta. Bisognava riflettesse con calma sul da farsiriguardo a Thor, e stava dirigendosi verso il luogopiù adatto alla bisogna.

Non appena Odino ebbe raggiunto,trotterellando con dignità, la porta del gabinetto,nella camera entrarono due infermiere chedisfecero e rifecero il letto con immensaprecisione, impiegando lenzuola pulite ben stirate,

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e accuratamente tese e rimboccate. Una di questeinfermiere, evidentemente la più alta in grado, erauna suora paffuta e di forme matronali; l’altra, piùgiovane, era bruna e ossuta. Il giornale buttato aterra venne recuperato e piegato con esattezza, ilpavimento venne ripassato con l’aspirapolvere, letende tirate, i fiori e la frutta intatta vennerosostituiti con altri fiori e frutta fresca – anchequesta destinata, come tutta quella che l’avevapreceduta, a restare intatta.

Quando, poco tempo dopo, terminate leabluzioni mattutine del vecchio dio, la porta delbagno si riaprì, la stanza appariva trasformata. Ledifferenze erano minime, naturalmente, ma l’effettocomplessivo era di una sottile e magicatrasformazione in qualcosa di fresco e di nuovo. Aquesta vista, Odino annuì soddisfatto. Fece finta diispezionare il letto, come un monarca che passa inrivista i soldati.

«È ben rincalzato?» chiese con la sua vocebisbigliante di vecchio.

«È molto ben rincalzato, signor Odwin» rispose

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l’infermiera più anziana con un sorrisoossequioso.

«È ben piegato il lenzuolo?» Si vedevabenissimo che era ben piegato. La domanda erasolo un pro forma.

«È molto ben piegato, signor Odwin» dissel’infermiera. «Ho provveduto personalmente alcambio delle lenzuola.»

«Ne sono compiaciuto, Suor Bailey, moltocompiaciuto» disse Odino. «Lei ha una manoeccellente per piegare e fermare le lenzuola.Davvero non saprò come fare senza di lei.»

«Ma io non ho intenzione di andare da nessunaparte, signor Odwin» osservò Suor Baileytrasudando un gioioso ottimismo.

«Però lei non vivrà per sempre, Suor Bailey»disse Odino. Era un’osservazione, questa, chelasciava sempre un poco perplessa Suor Bailey,per via dell’estremo egoismo che sottintendeva.

«Certo, signor Odwin, nessuno vive persempre» rispose la caposala in tono gentile, e conl’aiuto della compagna si accinse al difficile

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compito di mettere a letto Odino senza offenderela sua dignità.

«Lei è irlandese, non è vero, Suor Bailey?»chiese Odino una volta che si fu sistemato.

«Sì, signor Odwin, sono irlandese.»«Conoscevo un irlandese una volta. Si

chiamava Finn qualche-cosa. Mi ha raccontato unmucchio di roba che non mi serviva a niente, manon mi ha detto nulla delle lenzuola. Comunque,adesso lo so.»

A questo ricordo, fece un breve cenno col capoe appoggiò la testa sui cuscini ben sprimacciatiaccarezzando col dorso della mano lentigginosa illenzuolo ripiegato. Odino amava le lenzuola.Bianchi lenzuoli irlandesi, appena inamidati,puliti, stirati, ben rimboccati – questi aggettivierano per lui come una litania di desiderio. Dasecoli nulla l’aveva attratto come ora le lenzuola.Non riusciva assolutamente a concepire come sipotesse desiderare qualcos’altro.

Lenzuola.E dormire. Dormire e lenzuola. Dormire nelle

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lenzuola. Dormire.Suor Bailey lo guardò con una specie d’affetto

di proprietaria. Non sapeva che era un dio, anzipensava che il signor Odwin fosse con tuttaprobabilità un ex produttore cinematografico o uncriminale nazista. Di sicuro aveva un indefinibileaccento straniero, e la sua noncurante cortesia,l’egoismo che gli veniva così spontaneo e la maniaper l’igiene personale la dicevano lunga su unpassato che doveva essere pieno di orrori.

Se avesse potuto vedere il suo misteriosopaziente assiso in trono, padre guerriero degli Deiguerrieri di Asgard, non ne sarebbe stata affattosorpresa. No, questo non è vero. Non avrebbecreduto ai suoi occhi. Però avrebbe avuto laconferma delle qualità che percepiva in lui – unavolta superato lo shock di scoprire chepraticamente tutto ciò in cui l’umanità ha deciso dicredere è in effetti reale. O che continua ad avereun’esistenza reale anche molto tempo dopo chel’umanità non ha più bisogno di credere che essoabbia un’esistenza reale.

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Odino congedò il suo personale paramedicocon un gesto, dopo aver chiesto che glimandassero il suo assistente personale.

A tale richiesta, Suor Bailey strinseimpercettibilmente le labbra. L’assistentepersonale del signor Odwin – o tuttofare oservitore o come altro si voglia chiamarlo – non lepiaceva. Aveva uno sguardo maligno che la facevasobbalzare quando lo incontrava all’improvviso, einoltre nutriva il fondato sospetto che facesseinnominabili proposte alle infermiere durante lapausa per il tè.

Aveva, l’assistente personale del signorOdwin, quella che Suor Bailey pensava sidefinisse solitamente una carnagione olivastra, inquanto tendeva straordinariamente al verde. SuorBailey era convinta che in lui ci fosse qualcosache non andava.

Naturalmente non si sarebbe mai sognata digiudicare una persona dal colore della sua pelle –anche se ciò era accaduto giusto il giorno prima,quando aveva concepito un’istantanea antipatia nei

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confronti di un diplomatico africano che si erafatto ricoverare per una calcolosi. Il diplomaticonon le era piaciuto affatto. Perché, non l’avrebbesaputo dire: era un’infermiera, Suor Bailey, non untassista, e non si sarebbe mai permessa di lasciareche i suoi sentimenti personali interferissero colsuo lavoro. Infatti era una vera professionista,bravissima, e trattava tutti più o meno con la stessaefficiente e gaia cortesia, anche, pensò – e unagrande freddezza la invase a questo punto –, ancheil signor Calzetta.

Il signor Calzetta era l’assistente personale delsignor Odwin. Lei non poteva farci assolutamentenulla. Non era affar suo criticare le decisioni delsignor Odwin riguardo alla sua vita privata. Ma sefosse stato affar suo, il che non era, allora avrebbedi gran lunga preferito – e non solo perun’antipatia sua personale ma per il bene delsignor Odwin, questo sopra ogni cosa – che avesseassunto un tizio che non le facesse venire la pelled’oca, ecco tutto.

Smise risolutamente di pensarci e andò in cerca

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del signor Calzetta. Quando era arrivata quellamattina, aveva appreso con sollievo che il signorCalzetta se n’era andato la sera prima, ma l’avevavisto ritornare – questa volta con vivo disappunto– un’ora più tardi.

Lo trovò esattamente là dove non dovevatrovarsi, stravaccato su una poltroncina della salad’attesa con indosso un indumento cheassomigliava in modo preoccupante a un camicelercio di alcune taglie più grande della sua. Nonsolo, ma stava suonando una stridula melodia perniente musicale con una specie di flauto che si erafatto utilizzando una grossa siringa ipodermica chenon avrebbe mai dovuto possedere.

Il signor Calzetta le lanciò uno sguardo conquei suoi occhi mobilissimi e sfuggenti, sogghignòe continuò a trarre suoni stridenti come prima, solodecisamente più forti.

Suor Bailey passò in rassegna dentro di sé tuttele cose che sarebbe stato inutile dire a propositodi camici o siringhe, o sul fatto che stando lìspaventava, o stava per spaventare, i visitatori.

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Sapeva che non avrebbe potuto sopportare l’ariadi innocenza e ingiusta offesa che lui avrebbepreso, o la provocatoria assurdità delle suerisposte. Non le restava altro che far finta di nullae andarsene il più in fretta possibile.

«Il signor Odwin la vuole» annunciò. Cercò didirlo con il suo solito tono allegro e disinvolto, manon le riuscì. Avrebbe voluto che l’uomo nonmuovesse gli occhi in quel modo. Ciò non solo laturbava da un punto di vista medico ed estetico,ma le dava anche l’offensiva impressione chenella stanza ci fossero almeno trentasette altrecose più interessanti di lei.

Lui la fissò con quel suo sguardo sconcertanteper qualche secondo; poi, borbottando che non c’èpace per i malvagi, nemmeno per chi èestremamente malvagio, scostò Suor Bailey ecorse via nel corridoio per andare a ricevere gliordini del suo signore e padrone, subito subito,prima che il suo signore e padrone siaddormentasse.

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Kate riuscì a farsi dimettere prima di mezzogiorno.Dovette superare alcune difficoltà iniziali perchéla caposala prima e il dottore poi erano statiirremovibili sul fatto che non era in condizione dilasciare l’ospedale. Era appena uscita dal coma,leggero, sì, ma aveva bisogno di cure, avevabisogno di...

«Pizza...» disse risoluta Kate.... riposo, aveva bisogno di...«... andare a casa, e di respirare aria fresca.

L’aria qui dentro è orribile. Sa di ascelle, leascelle di un aspirapolvere.»

... ulteriori medicazioni, e doveva

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assolutamente rimanere sotto osservazione per unaltro paio di giorni finché non si fosse stati certidella sua completa guarigione.

Almeno erano stati irremovibili in modo leale.Durante la mattinata Kate riuscì a farsi dare untelefono e cominciò a cercare di farsi recapitareuna pizza all’ospedale. Telefonò alle pizzeriemeno collaborative di tutta Londra, fece lorograndi arringhe, cercò inutilmente – erumorosamente – di arruolare un pony express chegirasse per il West End alla ricerca di una pizzaAmerican Hot con l’aggiunta di peperoni, funghi eformaggi vari che il tizio dell’agenzia non vollenemmeno provare a ricordare, e dopo un paiod’ore passate così le obiezioni della caposala edel medico caddero una a una come petali di rosa.

E così, poco dopo mezzogiorno, Katecamminava per una desolata strada londinesesentendosi debole e tremante, ma padrona di sestessa. Si era portata la sacca da viaggio, vuota e abrandelli, che non aveva voluto gettar via, e avevain borsa un foglietto su cui era appuntato un nome.

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Prese un tassì e rimase con gli occhi chiusi perquasi tutto il percorso fino a casa sua, in PrimroseHill. Salì all’ultimo piano. La segreteria telefonicaaveva registrato dieci telefonate: Kate cancellò ilnastro senza neppure ascoltarle.

Aprì la finestra della camera da letto e sisporse nell’unico modo pericoloso e precario chele permetteva di intravedere un pezzetto di verde.Era un piccolissimo giardino pubblico con solo unpaio di platani, incorniciato da case che permiracolo non bloccavano completamente lavisuale, e per questo motivo Kate aveva quasi lasensazione che fosse il suo parco personale,sensazione che un grandioso panorama nonavrebbe saputo darle.

Una volta c’era andata, e aveva percorsol’invisibile perimetro che segnava i confinidell’area che lei poteva vedere, riuscendo quasi asentirla come una cosa sua. Aveva perfinoaccarezzato i tronchi dei platani con orgoglio diproprietaria, e si era seduta sotto gli alberi aguardare il sole che tramontava su Londra – i

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brutti edifici che si profilavano contro il cielo e lepizzerie che non facevano consegne a domicilio –e infine se ne era andata con la sensazioneprofonda di una cosa o dell’altra, senza saperebene cosa fosse. Comunque, si era detta, con queichiari di luna bisognava essere grati di provareuna qualsiasi sensazione profonda, anche se cosìpoco specifica.

Si allontanò dalla finestra lasciandolaspalancata malgrado facesse freddo, andò in bagnoe aprì i rubinetti della vasca. Il bagno era piccoloma la vasca era di quelle d’anteguerra, enorme edel tutto sproporzionata rispetto allo scarso spaziodisponibile, e ricopriva tutta la stanza con i suoi itubi verniciati di bianco. L’acqua sgorgava a fiotti.Quando il locale fu abbastanza pieno di vapore dasembrare caldo, Kate si svestì e aprì l’armadietto.

La metteva un poco in imbarazzo l’enormequantità di prodotti per il bagno che aveva in casa,ma chissà perché non era capace di passaredavanti a una farmacia o a un’erboristeria senzafarsi sedurre da questa o quest’altra bottiglietta dal

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tappo di vetro contenente un liquido oleoso dicolore blu o verde o arancione che avrebbe dovutoripristinare l’equilibrio naturale di qualche oscurasostanza che lei non aveva minimamente sospettatodi avere nei pori della sua pelle.

Esitò nell’indecisione.Qualcosa di rosa? Un integratore con vitamina

B? O B12? O B13? Il solo numero dei prodotticontenenti i vari tipi di vitamina B la metteva inimbarazzo. C’erano non solo olii, ma anchepolveri, gel, e anche sacchetti di sconosciuti semidall’odore acre che esercitavano un beneficoinflusso su qualche oscura parte del corpo in virtùdi qualche oscuro meccanismo.

Perché non quei cristalli verdi? Un giorno ol’altro, si era detta più volte, non si sarebbenemmeno presa la briga di scegliere, ma avrebbemesso nell’acqua un poco di tutto. Quando neavrebbe davvero sentito il bisogno. E ora quelmomento era arrivato, si disse, e con un’ondata dipiacere corroborante prese a versare nella vascaun poco di tutto ciò che aveva nell’armadietto

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finché l’acqua non si fece di un colore indefinibilee anche un poco colloso.

Chiuse i rubinetti, andò a prendere una cosa cheteneva in borsetta e quindi si immerse nella vasca,e lì rimase immobile con gli occhi chiusi,respirando lentamente per almeno tre minuti primadi guardare il foglietto che si era portatadall’ospedale.

C’era scritta una parola soltanto, una parola cheera riuscita a strappare alla giovane infermiera,stranamente riluttante, che le aveva misurato latemperatura quella mattina.

Kate le aveva chiesto chi fosse l’uomo dellastanza accanto. L’omone in cui s’era imbattutaall’aeroporto, e il cui cadavere aveva visto quellanotte.

«Oh, no» aveva risposto l’infermiera. «Non èmica morto. Era in una specie di coma.»

Poteva andarlo a trovare? aveva chiesto Kate.Come si chiamava?

Aveva cercato di chiederlo facendo finta dinulla, come se fosse una domanda tra tante – cosa

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non facile, con il termometro in bocca – e non erasicura di esserci riuscita. L’infermiera avevarisposto che non poteva dirlo, che non eraautorizzata a dare informazioni sugli altri pazienti.E che, comunque, quell’uomo non c’era più, eraandato da qualche altra parte. Era arrivataun’ambulanza che l’aveva portato via.

Kate questo non se l’aspettava.E dove l’avevano portato? In quale posto

speciale? Ma l’infermiera non aveva voluto diremolto altro, e un attimo dopo l’aveva chiamata lacaposala. Un’unica parola aveva detto, equell’unica parola Kate l’aveva scritta sul foglioche ora stava guardando.

La parola era Woodshead.Adesso che era più calma aveva l’impressione

che il nome non le fosse del tutto sconosciuto,sebbene non ricordasse affatto dove l’avessesentito pronunciare.

Ma l’attimo in cui le venne in mente saltò fuoridalla vasca e corse subito al telefono, fermandosisolo l’attimo necessario per togliersi di dosso la

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poltiglia dei sali da bagno.

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L’omone si svegliò e fece per guardarsi intorno,ma si accorse di non poter muovere la testa. Cercòdi mettersi a sedere, ma non riuscì a fare nemmenoquesto. Aveva l’impressione di essere statoattaccato a terra con una supercolla, e qualchesecondo dopo ne scoprì la stupefacente causa.

Sollevò con violenza la testa, lasciando grandiciocche di capelli gialli attaccati al pavimento. Esi guardò intorno. Si trovava in un capannoneindustriale abbandonato, o così sembrava: eprobabilmente non al pianterreno, a giudicare daquel po’ di cielo scialbo che si intravedeva tra isudici vetri delle finestre rotte.

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Dal soffitto altissimo pendevano festoni diragnatele tessute da ragni ai quali non importavanulla di raccogliere più che altro polvere ecalcinacci. Il soffitto era sostenuto da pilastrid’acciaio dove si scrostava un’antica vernicecolor panna, e a loro volta i pilastri poggiavano suun impiantito coperto di vecchie assi di quercia,alle quali lui era stato chiaramente incollato.Infatti c’era una zona dalla forma grosso modoovale tutto intorno al corpo nudo di lui cheluccicava di bagnato. Da essa si levavano vaporisottili e penetranti. No, non era possibile.Ruggendo di rabbia cercò di scollarsi e sicontorse tutto, ma riuscì solo a farsi male neltentativo di staccare la pelle solidamente incollataal pavimento.

Questa era senz’altro opera del vecchio.Picchiò forte la nuca contro il pavimento con un

colpo che fece scricchiolare le assi e gli provocòun ronzio nelle orecchie. Di nuovo si mise aruggire traendo una qualche furibondasoddisfazione dal fare il più inutile e stupido

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fracasso che poteva. Ruggì e ruggì finché i pilastrisi misero a vibrare e i vetri rotti delle finestreandarono in frantumi. Quindi, mentre agitava latesta da una parte e dall’altra, vide il suo martelloappoggiato al muro a due o tre metri di distanza, losollevò in aria con una parola, e lo scagliòroteando per tutto il magazzino, picchiando ognipilastro finché tutto quanto l’edificio non si mise arisuonare come un gong impazzito.

Ancora una parola e il martello volò verso dilui, si abbatté sul pavimento a una spanna dalla suatesta, fracassando legno e cemento.

Nel buio spazio sottostante il martello roteòvolando in una lenta e pesante parabola attraversouna pioggia di pezzi di cemento e di schegge dilegno che cadde sul pavimento. Quindi prese loslancio e andò a colpire il soffitto, sollevando unapioggia di schegge mentre rompeva un’altra asse auna spanna dai piedi dell’omone.

Il martello si alzò nell’aria, rimase sospeso unattimo come se a un tratto non pesasse più nulla,quindi si capovolse con uno scatto, il manico in

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alto, e piombò giù fracassando il pavimento in unaltro punto e passando di sotto – e così via,facendo una serie di buchi orlati di scheggeintorno al suo padrone finché con un lungoscricchiolio sonoro tutta quanta la zona ovale dipavimento cosparsa di colla e traforata dai buchicedette e cadde di sotto roteando. Andò afracassarsi sul pavimento del piano di sotto tra unapioggia di calcinacci, da cui l’omone emersebarcollando, agitando invano le braccia contro lapolvere e tossendo. Aveva schiena, braccia egambe ancora coperti di grandi schegge di quercia,ma se non altro ora poteva muoversi. Si appoggiòal muro con le mani e tossendo cercò di liberarsiun poco i polmoni dalla polvere.

Appena si girò, il martello volò verso di lui,evitò con uno scarto di farsi prendere e a voloradente strisciò sul pavimento sollevando scintilledal cemento con la sua testona, quindi si raddrizzòe andò ad appoggiarsi in maniera aggraziata controun pilastro.

Davanti a lui prese forma, tra il polverone che

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si andava depositando, un grosso distributore diCoca-Cola. L’omone lo esaminò conpreoccupazione mista a seri sospetti. Se ne stava lìcon un’aria, come dire, vacua e vitrea, e con unbiglietto di suo padre attaccato sul davanti che glidiceva di piantarla, qualsiasi cosa stesse facendo.Il biglietto era stato firmato una prima volta “Saibene chi”, ma poi questa scritta era statacancellata con un tratto di penna e sostituita con“Odino”, e anche questa era stata cancellata esostituita con “TUO PADRE”, tutto maiuscolo. Odinonon rinunciava mai a manifestare con estremachiarezza in quale stima tenesse le doti intellettivedel figlio. L’omone staccò con violenza il bigliettoe lo fissò furioso. C’era anche un poscritto conqueste oscure parole: “Ricordati del Galles. Nonvorrai rifarlo un’altra volta”. Appallottolò ilfoglio e lo scagliò fuori da una finestra, dove ilvento lo prese e lo portò via. Per un attimo ebbel’impressione di sentire un bizzarro stridio, maprobabilmente era solo il vento che sibilava tra ivicini capannoni industriali abbandonati.

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Si avvicinò alla finestra e si mise a guardarefuori con un broncio bellicoso. Incollato per terra!Alla sua età! Cosa diavolo voleva dire? “Giù lacresta” evidentemente voleva dire. “Giù la crestao ti faccio stare giù io.” Ecco cosa voleva dire.“Devi stare coi piedi ben piantati per terra.”

Si ricordò che proprio queste erano state leprecise parole del vecchio in occasione di quellasgradevole faccenda del Phantom. «Perché nonstai coi piedi ben piantati per terra?» aveva detto.E si immaginava benissimo come al vecchio, conla sua stupida e benigna malizia, fosse sembratodivertente mettere in pratica quell’immagine.

Una gran rabbia cominciò a gonfiarsi dentro dilui, ma la ricacciò indietro. Da qualche tempo inqua succedevano cose molto preoccupanti ognivolta che si arrabbiava, e poi aveva la sensazione,guardando il distributore di Coca-Cola, cheun’altra di quelle cose molto preoccupanti dovevaessere successa pochissimo tempo prima.

Non si sentiva bene.Da qualche tempo in qua gli capitava spesso di

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non sentirsi bene, e gli riusciva difficile continuarea espletare quei pochi doveri divini che ancora glirestavano sentendosi continuamente addossol’influenza. Aveva mal di testa, vertigini, sensi dicolpa e tutti quegli altri sintomi elencati cosìspesso dagli spot televisivi. Inoltre, quando siarrabbiava per davvero gli capitavano terrificantiperiodi di blackout.

Arrabbiarsi gli era sempre piaciuto da morire. Igrandi, meravigliosi accessi di ira erano la suavita. Si sentiva grande. Si sentiva pervaso di forza,di luce, di energia.

Sempre aveva avuto meravigliose opportunitàdi arrabbiarsi – enormi provocazioni o tradimenti,gente che gli metteva di nascosto l’oceanoAtlantico nell’elmo, gli tirava addosso i continentio si ubriacava e faceva finta di essere un albero.Roba per cui ci si poteva arrabbiare sul serio emettersi a spaccare le cose. In poche parole gli erasempre piaciuto moltissimo fare il Dio del Tuono.Ed ecco invece che ora gli veniva il nervosismo, ilmal di testa, l’ansia, e i sensi di colpa. Queste

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erano esperienze nuove per un dio, e per nientepiacevoli.

«Come sei ridicolo!»Quella voce stridula diede a Thor

l’impressione di unghie che stridono su unalavagna in fondo al suo cervello. Era una vocecattiva, piena di disprezzo e di scherno, una voceda camicia bianca di nylon a buon mercato, dibaffetti a spazzolino e calzoni lucidi sul sedere;una voce, in poche parole, che a Thor non piacevaaffatto. Suscitava in lui una gran brutta reazioneanche nei momenti migliori; e doverla sentirementre se ne stava nudo in mezzo a un decrepitocapannone industriale con larghe schegge diquercia ancora incollate alla schiena lo incattivivaparticolarmente.

Si girò di scatto, adirato. Avrebbe volutopotersi voltare con una calma dignitosa e terribile,ma una simile strategia non avrebbe funzionato conquell’essere, e siccome lui, Thor, avrebbecomunque finito per sentirsi umiliato e ridicoloqualsiasi atteggiamento avesse assunto, tanto

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valeva adottarne uno che gli si confaceva.«Mezza Calzetta!» ruggì mandando il martello

impazzito in aria e scagliandolo con immensaforza contro un ometto accovacciato con aria disuperiorità sopra un cumulo di macerie,lievemente proteso in avanti.

Mezza Calzetta afferrò il martello al volo e lodepose sopra i vestiti di Thor che stavano ripiegatiaccanto a lui. Sogghignò, e così facendo unsolitario raggio di sole luccicò su un suo dente.Queste cose non succedono per caso. MezzaCalzetta aveva impiegato un bel po’ di tempo,mentre Thor era privo di sensi, a calcolare quantoci avrebbe messo a riprendersi, e poi a spostareoperoso il mucchio di macerie proprio in quelpunto, controllando che fosse dell’altezza giusta ecalcolando l’esatta inclinazione con cui stareaccovacciato. Andava molto orgoglioso della suaprofessionalità di provocatore.

«Sei stato tu?» ruggì Thor. «Sei stato tu a...»Thor cercò una qualsiasi espressione per dire

“incollarmi per terra” che non fosse “incollarmi

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per terra”, ma alla fine la pausa si fece troppolunga e dovette rinunciarci.

«... A incollarmi per terra?» disse alla fine. Sipentì subito di aver fatto una domanda cosìstupida.

«Non rispondere!» aggiunse furibondo, eavrebbe voluto non aver detto nemmeno questo.Batté un piede per terra facendo tremare l’edificiofino alle fondamenta tanto per aggiungere un po’ dienfasi. Un po’ di enfasi a che cosa, non sapeva,però aveva l’impressione che ci stesse bene. Lanuvola di polvere che si era sollevata prese adiradarsi intorno a lui.

Mezza Calzetta lo guardava con quei suoi occhisfuggenti e lampeggianti.

«Io mi limito a eseguire gli ordini di tuo padre»disse con una grottesca parodia d’ossequio.

«A me pare» ribatté Thor «che da quando sei alsuo servizio gli ordini di mio padre siano diventatimolto strani. Credo che tu eserciti una cattivainfluenza su di lui. Non so di che tipo di cattivainfluenza si tratti, ma è decisamente un’influenza,

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ed è decisamente...» non gli venne nessunsinonimo «... cattiva» concluse.

Mezza Calzetta reagì come farebbe un’iguanacon uno che andasse da lei a lamentarsi del vino.

«Io?» protestò. «Come potrei io esercitareun’influenza su tuo padre? Odino è il più grandedegli dei di Asgard, e io sono il suo devotoservitore in ogni cosa. Odino dice: “Fa’ questo”, eio lo faccio. Odino dice: “Va’ là”, e io ci vado.Odino mi dice: “Va’ a tirare fuori mio figliodall’ospedale prima che combini qualche altroguaio, e poi, vediamo un po’, mah, incollalo perterra o qualcosa del genere”, e io faccioesattamente come lui mi dice. Io sono solo il piùinfimo dei suoi funzionari. Qualsiasi commissioneOdino mi affidi, per insignificante e umile che sia,io la sbrigo.»

Thor non era abbastanza buon conoscitore dellanatura degli uomini – né, se per questo, dellanatura degli dei o dei goblin – per ribattere che giàquella sua disponibilità era di per sé strumentosufficiente per esercitare un’influenza su chiunque,

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e tanto più su un vecchio dio viziato e fallibile.Capiva solo che la cosa non gli piaceva.

«Va bene,» gridò «allora riferisci questomessaggio a mio padre Odino. Digli che io, Thor,il Dio del Tuono, chiedo un incontro con lui. E nonin quel suo maledetto ospedale! Non intendoandare su e giù a sfogliare riviste e guardare lafrutta mentre gli cambiano le lenzuola! Digli cheThor, il Dio del Tuono, incontrerà Odino, il Padredegli Dei di Asgard, stanotte, all’Ora della Sfida,nel Palazzo di Asgard!»

«Un’altra volta?» chiese Mezza Calzettaguardando con la coda dell’occhio il distributoredi Coca-Cola.

«Eh, sì» disse Thor. «Sì» ripeté adirato.«Un’altra volta!»

Mezza Calzetta sospirò come uno che si vedecostretto a soddisfare i desideri di un imbecillefacile agli sbalzi d’umore, e disse: «Va bene,glielo dirò. Non gli piacerà molto, immagino».

«Non è affar tuo se gli piacerà o meno!» urlòThor, facendo tremare ancora una volta le

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fondamenta dell’edificio. «Questa faccendariguarda solo mio padre e me! Tu che ti considericosì intelligente, Mezza Calzetta, e magari pensiche io non lo sono...»

Mezza Calzetta inarcò un sopracciglio. Si erapreparato per quel momento. Non disse nulla e silimitò a far sì che il solitario raggio di soleluccicasse sui suoi occhi sfuggenti. Fu un silenziomolto eloquente.

«Non saprò cosa stai macchinando, MezzaCalzetta, non saprò un mucchio di cose... Però unacosa la so. Che io sono Thor, il Dio del Tuono, eche non mi faccio prendere in giro da un goblin!»

«Be’,» disse Mezza Calzetta con un lievesogghigno «quando ne saprai due, di cose, sarai ildoppio più intelligente. Ricordati di vestirti primadi uscire.» Indicò con indifferenza gli abiti accantoa lui e se ne andò.

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Il problema con quel tipo di negozi che vendonolenti di ingrandimento e coltellini è che tendono avendere anche ogni sorta di altre cose affascinanti,per esempio lo straordinario oggetto con cui allafine Dirk uscì dopo aver inutilmente tentato didecidersi tra un coltello con annesso cacciavitePhilips, stuzzicadenti e penna a sfera e un altro consega a gattuccio a 13 denti e borchie saldate arame arso.

Le lenti di ingrandimento l’avevano affascinatoper un momento, soprattutto quella a 25 diottrie,elevata costanza dell’indice di rifrazione, laccataoro con manico e montatura monoblocco e

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lucidatura a ossido di cerio; ma poi a Dirk cascòl’occhio su una piccola calcolatrice elettronica diI Ching, e lì fu la fine.

Mai aveva immaginato potesse esistere unoggetto simile. E passare nel giro di quarantasecondi dalla ignoranza assoluta al desideriototale, e quindi al possesso dell’oggetto inquestione, fu per Dirk una rivelazione.

La calcolatrice elettronica di I Ching erascadente. Doveva essere stata fabbricata inqualche paese del Sudest asiatico che cercava difare alla Corea del Sud ciò che la Corea del Sudera intenta a fare al Giappone. In quel paese latecnologia dell’incollaggio non era evidentementeprogredita fino al punto di riuscire a tenere unitauna cosa all’altra. Infatti la parte posteriore si eragià staccata e si rendeva necessario il ricorso alnastro adesivo.

Era molto simile a una qualsiasi calcolatricetascabile, con l’unica differenza che lo schermo acristalli liquidi era un poco più grande delconsueto, e ciò per poter ospitare il riassunto del

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giudizio di re Wen per ciascuno deisessantaquattro esagrammi, più il commento di suofiglio, il duca di Chou, relativamente a ciascunalinea di cui l’esagramma è composto. Non erano,quelli, i testi che si è soliti veder sfilare sulloschermo delle calcolatrici tascabili, tanto più cheerano stati tradotti dal cinese passando per ilgiapponese e parevano aver vissuto parecchieavventure lungo il tragitto.

L’apparecchietto funzionava anche come unanormale calcolatrice, ma in misura limitata.Riusciva a compiere ogni tipo di calcolo, a pattoche il risultato non fosse superiore a 4.

A calcolare 1+1 ce la faceva benissimo (2), eanche 1+2 (3) e 2+2 (4) e anche tangente di 74(3,4874145), ma tutto ciò che era superiore a 4veniva rappresentato esclusivamente mediantel’espressione “Una Soffusione di Giallo”. Dirknon era sicuro se si trattasse di un errore diprogrammazione o di qualche verità così profondada essere per lui insondabile, ma l’oggetto glipiacque tanto che pagò venti sterline senza fiatare.

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«Grazie, signore» disse il titolare. «È unbell’oggetto. Ne sarà contento, vedrà.»

«Lo thono dià» osservò Dirk.«Ne sono lieto, signore» rispose il titolare. «Lo

sa di avere il naso rotto?»Dirk smise per un attimo di contemplare il suo

nuovo acquisto e lo guardò.«Thì» ribatté innervosito. «Obbio ghe do tho.»L’uomo annuì soddisfatto.«È che parecchi dei miei clienti non si

accorgerebbero di una cosa del genere» spiegò.Dirk lo ringraziò laconicamente e corse via col

nuovo acquisto. Pochi minuti dopo presetemporanea residenza al tavolino d’angolo di uncaffè di Islington, ordinò una tazzina diridottissimo in quantità ma incredibilmente forte, ecercò di fare il punto della situazione. Gli bastò unminuto di riflessione per rendersi conto di averbisogno di una birra, anch’essa ridottissima inquantità ma incredibilmente forte, e cercò diaggiungere la birra alla sua ordinazione.

«Che?» disse il cameriere. Aveva i capelli

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nerissimi, lucidi di brillantina. Era alto,incredibilmente atletico e troppo superiore per darretta ai clienti o per finire le frasi.

Dirk ripeté l’ordinazione, ma dovendocontrastare l’impianto di diffusione sonora dellocale, il naso rotto e l’insormontabile senso disuperiorità del cameriere, alla fine trovò più facilescrivere l’ordinazione su un tovagliolo di cartacon un mozzicone di matita. Il cameriere guardòoffeso il tovagliolo, e andò via.

Dirk rivolse un cenno amichevole a una ragazzaseduta al tavolino accanto, che stavaleggiucchiando un libro e aveva mostrato empatiaper le sue difficoltà col cameriere. Quindi siaccinse a disporre sul tavolino quanto si eraprocurato nella mattinata, e cioè il giornale, lacalcolatrice elettronica di I Ching e la busta cadutada dietro il disco d’oro appeso nel bagno diGeoffrey Anstey. Dopodiché per un paio di minutisi preoccupò di tamponarsi il naso col fazzoletto edi toccarselo con colpetti teneri per sentire quantofaceva male, e faceva male parecchio. Sospirò e

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rimise via il fazzoletto.Pochi secondi dopo arrivò il cameriere

portando una frittata alle erbe con un unicogrissino. Dirk gli disse che non era quello cheaveva ordinato. Il cameriere si strinse nelle spallee disse che non era colpa sua.

Dirk non aveva la minima idea di cosarispondere, e lo disse. Gli riusciva sempre moltodifficile farsi capire. Il cameriere gli chiese se siera rotto il naso e Dirk disse thì, bolde grathsieber l’indereththamendo, brobrio gothì. Il camerieredisse che anche il suo amico Neil si era rotto ilnaso una volta, e Dirk disse che sberava glibacesse un bale dell’inberno, il che parveconcludere la conversazione. Il cameriere siriprese la frittata e andò via, giurando in cuor suodi non ritornare mai più.

Quando la ragazza seduta al tavolino accantoguardò per un attimo da un’altra parte, Dirk leprese la tazzina di caffè che aveva davanti. Sapevache non correva nessun rischio perché lei nonavrebbe mai creduto che qualcuno potesse fare una

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cosa simile. Così rimase lì seduto a sorseggiare ilcaffè appena tiepido ripensando alla sua giornata.

Sapeva che prima di consultare l’I Ching, anchese elettronico, occorreva riordinare i propripensieri e ritrovare la serenità.

Mica facile.Per quanto cercasse di sgombrare la mente e di

pensare in modo calmo e raccolto, non riusciva aimpedire alla testa di Geoffrey Anstey di ruotaresenza fine su se stessa. Ruotava con un’aria didisapprovazione, come puntando un ditoaccusatore contro di lui. Il fatto che nondisponesse di un dito accusatore da puntare facevasolo sì che l’accusa colpisse più a fondo.

Dirk chiuse gli occhi e cercò allora diconcentrarsi sul problema della misteriosascomparsa della signorina Pearce, senza peròriuscire a inquadrarlo molto bene. Quandolavorava per lui era più volte scomparsamisteriosamente per due o tre giorni, ma la cosanon era mai finita sui giornali. Era vero però chein quelle occasioni non si era mai trovata al centro

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di un’esplosione – non che lui sapesse, almeno, leinon aveva mai accennato a un’esplosione.

E poi, ogni volta che rivedeva la sua faccia,come l’aveva vista in televisione a casa diGeoffrey Anstey, istantaneamente il suo pensierotornava alla testa di lui intenta a ruotare trentatrévirgola tre volte al minuto tre piani più sotto. Tuttoquesto non lo disponeva favorevolmente a quellostato d’animo distaccato e contemplativo cuiaspirava. E nemmeno l’impianto di diffusionesonora del locale, del resto.

Sospirò guardando la calcolatrice elettronica diI Ching.

Per riordinare i suoi pensieri, tanto valevacominciare col riordinarli cronologicamente.Decise di riandare all’inizio della giornata,quando nessuna di quelle orribili cose era ancorasuccessa – non a lui, comunque.

Per prima cosa c’era stato il frigorifero.Aveva l’impressione che, tenuto conto del

resto, il problema del frigorifero si fosse oraridotto a proporzioni molto più ragionevoli.

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Ancora gli provocava una percettibile fitta dipaura e di senso di colpa, ma restava, pensò, unproblema che poteva affrontare con relativa calma.

Secondo il libretto di istruzioni, dovevaconcentrarsi “spiritualmente” sull’interrogativoche lo “assillava”, metterlo per iscritto, pensarcisu, gustare il silenzio e poi, una volta conseguital’interiore armonia e tranquillità, premere ilpulsante rosso.

Non c’era un pulsante rosso, ma uno blu con lascritta “Rosso”, e Dirk pensò che fosse quellogiusto.

Si concentrò un poco sull’interrogativo, equindi si mise a cercare in tutte le tasche un pezzodi carta senza trovare nulla. Alla fine scrisse il suointerrogativo: “Devo comprare un frigoriferonuovo?” su un angolo del tovagliolo di carta.Quindi, avendo stabilito che se avesse dovutoaspettare di conseguire l’interiore armonia etranquillità gli sarebbe toccato restare lì per tuttala notte, decise di andare avanti e premettecomunque il pulsante blu con la scritta “Rosso”. In

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un angolo dello schermo apparve un simbolo, unesagramma con sotto una scritta:

Sul minuscolo schermo a cristalli liquidi dellacalcolatrice di I Ching scorse quindi questo testo:

Il giudizio di Re Wen:Chun Significa Difficoltà All’Inizio, Come Un

Filo D’Erba Che Cresce Contro la Pietra. I TempiSono Pieni Di Irregolarità E Oscurità: L’UomoSuperiore Prenderà I Suoi Provvedimenti ComeQuando Ordina I Fili Dell’Ordito E Della Trama.Ferma Correttezza Porterà Infine Successo. I PrimiPassi Vanno Fatti Con Estrema Cautela. SaràVantaggioso Avvicinare Principi Feudali.

Linea 6 mutevole.

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Il commento del duca di Chou:I Cavalli E Il Cocchio Costretti A Indietreggiare.Fiumi Di Lacrime E Di Sangue Seguiranno.

Dirk rifletté su queste parole per qualcheistante, quindi stabilì che nel complesso ilresponso gli indicava di acquistare un frigoriferonuovo; linea d’azione che, per una stupefacentecoincidenza, lui stesso vedeva con occhiofavorevole.

C’era un telefono a gettoni in uno degli angolibui dove ciondolavano i camerieri cupamenteappoggiati l’uno all’altro. Dirk passò tra di lorochiedendosi che cosa gli ricordassero, e alla finestabilì che sembravano quegli uomini nudi che sivedono sullo sfondo della Sacra Famiglia diMichelangelo, e che Michelangelo ci ha messoapparentemente per il solo motivo che gli andavadi metterli.

Telefonò a un suo conoscente, tale NobbyPaxton, così almeno diceva di chiamarsi, che sioccupava del lato oscuro della vendita di

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elettrodomestici per la casa. Dirk venne subito alpunto.

«Dobby, bi serbe un vrigo.»«Dirk, ne tenevo uno da parte proprio per

quando me l’avresti chiesto.»A Dirk questo parve molto improbabile.«De voglio udo buodo, Dobby.»«È il migliore, Dirk. Giapponese. Controllo a

microprocessore.»«Ba ghe gi va ud bigrobrogezzore id ud

vrigorivero, Dobby?»«Lo mantiene fresco, Dirk. Dico ai ragazzi di

portartelo subito. Bisogna che me lo tolga daipiedi in fretta per motivi che non sto a dirti.»

«Bolde grazie, Dobby» disse Dirk. «Ba g’è udbroblema, id guesdo bobedto dod sodo id gasa.»

«Entrare nelle case in assenza dei proprietari èsolo una delle molte abilità dei miei ragazzi.Fammi sapere se dopo c’è qualcosa che manca,comunque.»

«Sedz’aldro, Dobby. Idoldre se i duoi ragazzihaddo voglia di bordar via roba vorrei che

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inittiassero gol mio vegghio vrigo. È brobrio dabuddar via, orbai.»

«Gli dirò di farlo, Dirk. C’è sempre un po’ diposto sul marciapiede, nella tua via. E adessodimmi, hai intenzione di pagarlo o ti devo fargambizzare subito, risparmiando così tempo e noiea tutti quanti?»

Dirk non era mai sicuro al cento per cento dicapire quando Nobby stava scherzando o dicevasul serio, e non aveva nessuna intenzione diverificarlo. Gli assicurò quindi che avrebbepagato la prima volta che si fossero visti.

«Allora arrivederci a molto presto, Dirk» disseNobby. «Tra parentesi, lo sai che parli esattamentecome uno col naso rotto?»

Ci fu una pausa.«Pronto, Dirk?» disse Nobby.«Sodo sembre gui» disse Dirk. «Sdabo solo

asgoldando un disgo.»“Patata bollente!” ruggiva l’hi-fi del bar.Non prenderla tu, prenderla tu, prenderla tuPassala, passala, passala presto.

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«Dicevo, lo sai che parli esattamente come unocol naso rotto?» ripeté Nobby.

Dirk rispose che sì, lo sapeva, si congratulòcon Nobby per il suo spirito d’osservazione, losalutò, rifletté per un momento, fece ancora unpaio di telefonate e quindi tornò, passando tra lapiccola folla di camerieri in pose plastiche, al suotavolo, al quale trovò seduta la ragazza cui avevasottratto il caffè.

«Salve» disse lei in tono eloquente.Dirk reagì con la massima cortesia.Le fece un piccolo inchino, si tolse il cappello,

dato che queste due cose gli concedevano un paiodi secondi per riprendersi, e le chiese se potevasedersi.

«Faccia pure» lei disse. «Il tavolo è suo.» Feceun gesto magnanimo.

Era minuta, con i capelli neri ben pettinati, suiventicinque anni, e stava fissando con ariainterrogativa la tazzina di caffè mezza vuota cheera sul tavolo.

Dirk si sedette di fronte alla ragazza e si

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protese verso di lei con aria da cospiratore. «Miasbeddo» sussurrò «ghe lei sdia gergando il suogaffè.»

«Ci può scommettere» rispose lei.«Non le va bede, sa?»«Davvero?»«Brobrio gosì. La gaffeida. Il golesderolo nel

ladde.»«Capisco. E così lei pensava solo alla mia

salute, non è vero?»«Bedzavo a bolde gose» rispose Dirk con

disinvoltura.«Mi ha visto seduta al mio tavolo e ha pensato:

“Ecco là una bella ragazza che si sta rovinando lasalute. Voglio salvarla da se stessa”.»

«Bress’abbogo.»«Lo sa che ha il naso rotto?»«Sì, obbio ghe lo so» disse Dirk stizzito.

«Duddi dod faddo ghe...»«Quando se l’è rotto?» domandò la ragazza.«Dod be lo sono roddo da be, be l’ha roddo un

aldro girga vendi biduti va.»

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«Lo supponevo» disse la ragazza. «Chiuda gliocchi un momento.»

Dirk la fissò sospettoso.«Non si preoccupi» disse lei sorridendo. «Non

le farò male. Chiuda gli occhi.»Corrugando perplesso la fronte, Dirk chiuse gli

occhi un momento. In quell’attimo la ragazza gliafferrò il naso torcendoglielo con uno scattosecco. Dirk fu pervaso da un dolore lancinante, egridò così forte da attirare quasi l’attenzione di uncameriere.

«Sdrondsa!» gridò scattando sulla sedia con lafaccia tra le mani. «Balededda sdrondsa!»

«Oh, stia zitto e si rimetta a sedere» disse lei.«D’accordo, ho mentito quando ho detto che non leavrei fatto male, ma almeno adesso il suo naso èdritto, cosa che le risparmierà un mucchio di guaiin seguito. Ora deve andare subito all’ospedaleper farselo medicare. Sono infermiera, e so quelloche faccio. O almeno, credo. Mi faccia dareun’occhiata.»

Ansimando e sputacchiando, Dirk si rimise a

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sedere, le mani a coppa intorno al naso. Dopo unpo’ riprese a toccarselo teneramente e poi lepermise di darci un’occhiata.

«A proposito, mi chiamo Sally Mills» fece lei.«Di solito cerco di presentarmi come si deveprima di passare a un approccio fisico, ma certevolte» concluse con un sospiro «manca il tempo.»

Di nuovo Dirk si toccò il naso.«Bi sebbra biù driddo» disse infine.«Dritto» sottolineò Sally. «Dica “dritto” come

si deve. Vedrà che si sentirà meglio.»«Dritto» disse Dirk. «Sì. Ha brobrio ragione.»«Prego?»«Ha proprio ragione. Mi sento meglio.»«Bene» disse lei con un sospiro di sollievo.

«Sono contenta che abbia funzionato. Il miooroscopo diceva che praticamente tutte ledecisioni che avrei preso oggi si sarebberorivelate sbagliate.»

«Non crederà mica a queste stupidaggini?»domandò seccamente Dirk.

«Ma no» rispose Sally.

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«E soprattutto non creda al Grande Zaganza.»«Ah, perché, lo legge anche lei?»«No. Cioè, sì, ma non per lo stesso motivo.»«Il mio motivo è che questa mattina un paziente

mi ha chiesto di leggergli l’oroscopo. È mortosubito dopo. E il suo, di motivo?»

«Ah, be’, è una questione lunga e complicata.»«Capisco» disse Sally, scettica. «E quello

cos’è?»«È una calcolatrice» rispose Dirk. «Bene,

senta, non voglio trattenerla. Lei ha tutta la miagratitudine, mia cara signorina, per l’amorevolezzadelle sue cure e il prestito del suo caffè ma, ahimè,il tempo vola, e io sono certo che un gran numerodi afflizioni corporee attendono le sue cure.»

«Si sbaglia. Ho finito il turno di notte alle novedi questa mattina, e per tutta la giornata non hoaltro da fare che tenermi sveglia per poter dormirenormalmente stanotte. Non ho nulla di meglio dafare che attaccare bottone con perfetti sconosciutial caffè. Lei, invece, dovrebbe presentarsi alpronto soccorso il prima possibile. Non prima di

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aver pagato la mia consumazione, però.»Prese il conto che stava sul suo tavolino. Lo

guardò e scosse la testa con aria didisapprovazione.

«I caffè sono cinque, temo. La notte in ospedaleè stata lunga. C’è stato un grande andirivieni.Prima dell’alba sono venuti a prendere un pazientein coma per portarlo in una clinica privata. Diosolo sa perché hanno scelto quell’ora. Perromperci le scatole, credo. Io non pagherei ilsecondo cornetto, se fossi in lei. L’ho ordinato manon me l’hanno mai portato.»

Porse il conto a Dirk che lo prese con unsospiro di riluttanza.

«Esorbitante» disse. «Un vero furto. E in questecircostanze aggiungere il 15 per cento per ilservizio è una beffa. Scommetto che non riuscirònemmeno a procurarmi un coltello.»

Dirk si girò e, senza molta convinzione, cercòdi richiamare l’attenzione del branco di camerieriche ciondolavano tra le zuccheriere in fondo allocale.

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Sally Mills prese il conto e cercò di ricalcolareil totale sulla calcolatrice tascabile di Dirk.

«Come risultato dà “Una Soffusione diGiallo”» annunciò.

«Grazie, questa la tengo io» disse Dirkgirandosi e riprendendosi la calcolatrice di IChing, che si mise in tasca. Riprese a gesticolareinutilmente all’indirizzo dello sfondo immobile dicamerieri.

«Ma a che le serve un coltello?» chiese Sally.«Ad aprire questa» rispose Dirk mostrandole la

busta chiusa con più strati di scotch.«Ci penso io» disse la ragazza. C’era, a un

tavolino accanto al loro, un giovanotto che in quelmomento guardava altrove. Con abile mossa, Sallygli prese il coltello.

«Le sono molto grato» disse Dirk tendendo lamano.

Lei non glielo diede.«Che cosa c’è nella busta?» volle sapere.«Lei si sta comportando in modo estremamente

indiscreto e sfacciato» esclamò Dirk.

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«E lei» replicò Sally Mills «è un uomo moltostrano.»

«Strano quel tanto che è necessario» ribattéDirk.

«Uff» fece Sally. «Cosa c’è nella busta?» Sallycontinuava a tenere il coltello fuori della suaportata.

«Questa busta non le appartiene» proclamòDirk. «E il suo contenuto non la riguarda.»

«Ha l’aria interessante, però. Cosa c’èdentro?»

«Be’, se non la apro come faccio a saperlo?»Lei lo guardò sospettosa, e quindi gli strappò la

busta di mano.«Insisto...» protestò inutilmente Dirk.«Lei come si chiama?» domandò Sally.«Gently. Dirk Gently.»«E non Geoffrey Anstey, o qualcun altro di

questi nomi che sono stati cancellati?» Aggrottò unattimo la fronte guardandoli.

«No» concesse Dirk. «Direi di no.»«Quindi la busta non è neanche sua.»

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«Be’... Cioè...»«Aha! E così anche lei si sta comportando in

modo estremamente... Com’era?»«Indiscreto e sfacciato. Non lo nego. Ma io

sono un investigatore privato. Mi pagano perchésia indiscreto e sfacciato. Non spesso né inabbondanza come vorrei, ma io sono comunqueprofessionalmente indiscreto e sfacciato.»

«Che peccato. Io trovo che sia molto piùdivertente essere indiscreti e sfacciati per hobby.E così lei è un professionista e io una dilettante alivello olimpionico. Lei non ha l’ariadell’investigatore privato.»

«Nessun investigatore privato ha l’ariadell’investigatore privato. Questa è una delleregole fondamentali dell’investigazione privata.»

«Ma se nessun investigatore privato ha l’ariadell’investigatore privato, come fa l’investigatoreprivato a sapere che aria non deve avere? A mepare che qui nasca un problema.»

«Sì, ma non così grosso da tenermi sveglio lanotte» ribatté Dirk esasperato. «Comunque, io non

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sono come gli altri investigatori privati. I mieimetodi sono olistici e, nel senso proprio dellaparola, caotici. Io opero investigando lafondamentale interconnessione tra tutte le cose.»

Sally Mills non disse nulla, batté solo lepalpebre.

«Ogni particella dell’universo» continuò Dirkinfervorandosi e cominciando a mostrare un certosguardo spiritato «influisce su ogni altraparticella, per quanto debolmente o indirettamente.Ogni cosa è interconnessa con ogni altra cosa. Ilbattito delle ali di una farfalla in Cina può influiresul percorso di un uragano nell’Atlantico. Se iopotessi interrogare la gamba di questo tavolo in unmodo che avesse senso per me o per la gamba deltavolo, essa potrebbe darmi la risposta a ogniinterrogativo sulla natura dell’universo. Potreiporre a una persona qualsiasi, scelta a caso, tuttele domande che mi vengono in mente; e le suerisposte, o l’assenza di risposte, sarebbero inqualche modo pertinenti al problema di cui stocercando la soluzione. È solo questione di sapere

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come interpretarle. Anche lei, che ho incontrato inmodo del tutto casuale, probabilmente è aconoscenza di cose che hanno un’importanzafondamentale per la mia investigazione, se solosapessi cosa chiederle, cosa che non so, e se solome ne prendessi la briga, cosa che non voglio.»

Si interruppe e domandò: «Potrei riavere labusta e il coltello, per favore?».

«Dal suo tono, si direbbe che sia questione divita o di morte.»

Dirk abbassò lo sguardo per un momento.«Credo che per qualcuno sia proprio stata

questione di vita o di morte» disse. E per un attimofu come se una nuvola fosse passata su di loro.

Sally Mills si arrese e gli porse busta ecoltello. Parve che una scintilla vitale l’avesseabbandonata.

Il coltello non aveva il seghetto e lo strato discotch era troppo spesso. Dirk fece qualche inutiletentativo ma non riuscì a tagliarlo. Lasciò perdere,stanco e irritabile.

Disse: «Vado a sentire se hanno un coltello più

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affilato». E si alzò stringendo la busta.«Meglio che vada a farsi sistemare il naso»

suggerì dolcemente Sally Mills.«La ringrazio» disse Dirk con un lievissimo

inchino.Prese il conto, il suo e quello di lei, e si

accinse a visitare la mostra di camerieri allestitain fondo al locale. Incontrò una certa freddezzaquando si mostrò poco propenso a incrementarel’obbligatorio 15 per cento in più per il serviziocon un segno, volontario e tangibile, del suoapprezzamento; riguardo al coltello, gli disseroche no, quello era l’unico tipo di cui disponevano,punto e basta.

Dirk ringraziò e si diresse verso l’uscita.Seduto al posto che aveva appena lasciato,

intento a conversare con Sally Mills, c’era ilgiovanotto cui lei aveva sottratto il coltello. Dirkla salutò con un cenno, ma Sally era così assortanella conversazione col suo nuovo amico che nonse ne accorse.

«... in coma» stava dicendo «per portarlo in una

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clinica privata. Dio solo sa perché hanno sceltoquell’ora. Per rompere le scatole, credo. Mi scusise chiacchiero tanto, ma pensi che quel pazienteaveva un distributore di Coca-Cola personale e unmartello da fabbro, cose che andranno anchebenissimo in una clinica privata, ma che in unospedale pubblico con poco personale risultanomolto stancanti, e io quando sono stanca parlotroppo. Se dovessi improvvisamente cadere privadi sensi per terra, me lo faccia sapere, ledispiace?»

Dirk proseguì, e passando vide che Sally Millsaveva lasciato il libro che stava leggendo sul suotavolino originario. L’oggetto richiamò la suaattenzione.

Era un libro piuttosto voluminoso intitolatoCorri come il diavolo. Era anzi estremamentevoluminoso e con le orecchie alle pagine, esembrava più un grosso trancio di tortadiplomatica che un libro. La metà inferiore dellacopertina mostrava la solita donna-in-abito-da-sera-inquadrata-in-un-mirino-telescopico, mentre

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la metà superiore era completamente occupata dalnome dell’autore, Howard Bell, a lettere d’argentoin rilievo.

Dirk non sapeva cosa di preciso avesse attrattola sua attenzione; quella copertina aveva però fattoscattare qualcosa dentro di lui. Gettò uno sguardocircospetto alla ragazza cui aveva soffiato il caffèe alla quale aveva conseguentemente pagatocinque caffè e due cornetti, uno dei quali maiconsumato. Non stava guardando da quella parte,così che le soffiò anche il libro infilandoselo nellatasca del soprabito di pelle.

Uscì per strada, dove un’aquila scese inpicchiata su di lui facendolo quasi finire addosso aun ciclista, il quale lo maledisse e imprecò controdi lui dall’alto di quella superiore moralità chesolo i ciclisti sembrano possedere.

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Nel parco ben tenuto che si stendeva appena fuoriun ben tenuto paesino ai piedi delle ben tenutecolline dei Cotswolds, arrivò un’automobilepochissimo ben tenuta.

Era una scassata Citroën 2CV che aveva avutoun unico proprietario attento e ordinato oltre a treincoscienti e aspiranti al suicidio. L’automobileprocedeva lungo il viale di ingresso con estremariluttanza, come se tutto ciò che chiedesse dallavita non fosse altro che di finire in un fosso neiprati lì intorno e lì finalmente riposare inaggraziato abbandono, e non di essere costretta atrascinarsi lungo quell’interminabile viale di

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ghiaia che poi avrebbe dovuto senza dubbiopercorrere un’altra volta al ritorno, e per qualemotivo non si capiva proprio.

La macchina si fermò davanti all’ingresso inpietra del corpo principale dell’edificio, e quindiprese a indietreggiare finché la persona al volantenon tirò il freno a mano, la qual cosa strappò allamacchina una sorta di “iik” soffocato.

Una portiera si aprì, appesa perigliosamenteall’unico cardine, e dalla macchina fuoriuscironoun paio di gambe del tipo che chi fa le colonnesonore dei film non può vedere senza mettercisubito dentro un rauco assolo di sassofono, equesto per motivi che solo quelli che fanno lecolonne sonore conoscono. Nel nostro caso, però,il sassofono sarebbe stato ridotto al silenzio dallaprossimità del kazoo con cui lo stesso addetto allacolonna sonora avrebbe commentato il procederedel veicolo.

Seguì quindi la proprietaria delle gambe nelmodo consueto; chiuse piano la portiera ed entrònell’edificio.

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La macchina rimase ferma lì davanti.Qualche minuto più tardi uscì un portiere che,

dopo averla esaminata, assunse un atteggiamentodi riprovazione e, in mancanza di altre opzioni,ritornò dentro.

Poco dopo, Kate veniva fatta accomodarenell’ufficio di Ralph Standish, psicologo clinicononché direttore dell’ospedale privatoWoodshead, il quale stava in quel momentoconcludendo una conversazione telefonica.

«Sì, è vero» stava dicendo «che a volte deibambini eccezionalmente intelligenti e sensibilipossono apparire stupidi. Ma, signora Benson,anche i bambini stupidi possono certe volteapparire stupidi. Credo che lei debba tener contoanche di questa possibilità. Lo so che è moltotriste, sì. Buongiorno, signora Benson.»

Mise via il telefono dentro un cassetto dellascrivania e rimase per un paio di secondi ariordinare i suoi pensieri prima di alzare gli occhi.

«Ci ha dato un preavviso molto breve,signorina, ehm, Schechter» proferì infine.

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In realtà aveva detto: «Ci ha dato un preavvisomolto breve, signorina, ehm...» e quindi si erainterrotto e aveva sbirciato dentro un altro cassettodella scrivania prima di aggiungere: «Schechter».

A Kate sembrò molto strana l’abitudine ditenere i nomi dei visitatori dentro un cassetto, maevidentemente al dottor Standish non piacevaavere cose che ingombrassero il piano della suascrivania di frassino nero, bella ma dalle lineeaustere: infatti sopra non c’era proprio nulla. Eradel tutto vuota, come del resto ogni superficiepiana visibile nel suo ufficio. Non c’era nulla sultavolino di acciaio e vetro disposto a simmetricadistanza tra due sedie Barcellona. Non c’era nullasopra i due schedari, molto costosi ed eleganti avedersi, in fondo alla stanza.

Niente scaffali con i libri – se c’erano dei librierano, si presume, nascosti dentro i grandi armadia muro bianchi – e, sebbene appesa alla parete cifosse una semplice cornice nera, doveva trattarsidi un’aberrazione temporanea perché essa nonincorniciava nulla.

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Kate si guardava intorno un po’ stupita.«Ma non ha proprio nessun ornamento qui

dentro, dottor Standish?» domandò.Il dottor Standish rimase per un attimo senza

parole di fronte alla sua transatlantica schiettezza,prima di risponderle.

«Ce l’ho, un ornamento» rispose, e aprì un altrocassetto. Ne tirò fuori una statuina di porcellanaraffigurante un gattino che giocava con un gomitolodi lana che pose con decisione sul piano dellascrivania.

«In quanto psicologo sono cosciente del ruolofondamentale svolto dagli ornamentinell’arricchire lo spirito umano» dichiarò.

Rimise via il gattino di porcellana nel suocassetto e lo richiuse con uno scatto.

«E ora...»Giunse le mani sul piano della scrivania e la

fissò con aria inquisitiva.«Molto gentile da parte sua avermi voluto

ricevere con così breve preavviso, dottorStandish...»

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«Sì, sì, questo punto l’abbiamo già chiarito.»«... ma lei sa quanto nel mondo del giornalismo

ci si debba muovere in fretta.»«Del mondo del giornalismo so quanto basta,

signorina, ehm...»Riaprì il cassetto.«... signorina Schechter, ma...»«Questo è uno dei motivi che mi hanno spinto

ad avvicinarla» mentì Kate con disinvoltura. «Soche qui avete avuto della, come dire, dellapubblicità negativa, e ho pensato che forse leavrebbe fatto piacere poter parlare degli aspettipiù avanzati del lavoro che viene fatto alla clinicaWoodshead.» Sorrise con grande dolcezza.

«Solo perché lei mi è stata caldamenteraccomandata dal mio collega, nonché buon amico,il dottor, ehm...»

«Il dottor Franklin, Alan Franklin» gli venne inaiuto Kate per risparmiargli il disturbo di riaprireil cassetto. Kate era andata dal dottor Franklin perqualche seduta dopo la morte di suo marito. Luil’aveva avvertita che Standish era un tipo in

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gamba ma piuttosto originale – anche più di quantonon lo siano gli psicologi in generale.

«... Franklin,» continuò il dottor Standish «hoacconsentito a riceverla. Ma l’avverto che se aseguito di questa intervista dovessero tornare acomparire sui giornali altre bugie tipo “Cosestrane accadono alla clinica Woodshead”, io farò,io farò...»

«Io farò tali cose...»«... quali non so ancora, ma saranno...»«... Il terrore della terra» concluse Kate con

brio.Standish la guardò socchiudendo gli occhi.«Re Lear, atto secondo, scena quarta» disse

Standish. «E credo che nel testo si dica terrori enon terrore.»

«Lo sa che ha ragione?» replicò Kate.“Grazie, Alan” pensò. Sorrise al dottor

Standish, che si crogiolava soddisfatto nel suosenso di superiorità. Com’è strano, si disse Kate:le persone che hanno bisogno di sentirsi superiorisono le più facili da manovrare.

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«Dunque, che cosa le interessa di preciso,signorina Schechter?»

«Supponga» disse Kate «che io non sappianulla.»

Il dottor Standish sorrise, come a significareche nessuna supposizione avrebbe potuto fargli piùpiacere.

«Molto bene» disse. «Woodshead è in realtà uncentro di ricerca. Siamo specializzati nella cura enello studio di pazienti affetti da disturbi rari osconosciuti, in particolare nel campo psicologicoe psichiatrico. Sul piano finanziario ci muoviamoin varie direzioni. Una è quella, semplicissima, diaccettare pazienti a pagamento con rette esorbitanti– che loro sono ben lieti di pagare, o comunque dicui sono ben felici di lamentarsi. In realtà non c’ènulla di cui lamentarsi perché chi si fa ricoverareda noi privatamente sa bene perché la retta è cosìalta. Visto quello che sborsano hanno ogni dirittodi lamentarsi, certo – il diritto di lamentarsi è unodei privilegi per cui pagano. In certi casi sipattuiscono condizioni particolari: se la clinica

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diviene la sola beneficiaria del patrimonio di unpaziente, per esempio, noi garantiamo a quelpaziente ricovero e cure vita natural durante.»

«Quindi il vostro business consiste nel dareborse di studio a gente con malattieparticolarmente dotate?»

«Proprio così. Un’eccellente definizione. Ilnostro business consiste nel dare borse di studio agente con malattie particolarmente dotate. Bisognache me lo segni. Miss Mayhew!»

Aveva aperto un cassetto che evidentementeconteneva il citofono. In risposta alla suachiamata, uno degli armadi a muro si aprìrivelandosi non un armadio a muro ma la porta chedava in un altro ufficio – la trovata di qualchearchitetto che professava un’ideologiaprofondamente ostile alle porte. Da questo ufficioentrò obbediente una donnina magra suiquarantacinque anni con l’espressione piuttostoassente.

«Miss Mayhew,» annunciò il dottor Standish«il nostro business consiste nel dare borse di

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studio a gente con malattie particolarmentedotate.»

«Molto bene, dottor Standish» rispose MissMayhew ritirandosi subito nel suo ufficio echiudendo la porta dietro di sé. Kate si domandòse, dopotutto, non fosse per davvero la porta di unarmadio a muro.

«E di fatto abbiamo in cura alcuni pazientiaffetti da malattie molto notevoli» si entusiasmò lopsicologo. «Le interesserebbe vedere un paio deipiù notevoli?»

«Ma certo, dottor Standish. Lei è molto gentile»disse Kate.

«Bisogna essere gentili per forza, nel mioramo» rispose il dottor Standish, e fece un debolesorriso più o meno nella sua direzione.

Kate cercava di non mostrare quella certainsofferenza che iniziava a provare. Il dottorStandish non le era piaciuto, e cominciava apercepire in lui qualcosa di profondamenteestraneo, di marziano. Inoltre, l’unica cosa chedavvero la interessasse era di scoprire se alla

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clinica Woodshead era giunto un paziente alleprime luci dell’alba; e, in caso affermativo, divenire a sapere dove si trovava e se potevavederlo.

Per prima cosa aveva tentato l’approcciodiretto ma non era riuscita a superare nemmeno ilcentralino per il semplice motivo che nonconosceva il nome del paziente. Aveva chiesto seavessero per caso ricoverato un uomo alto,atletico e biondo, e ciò aveva fatto un’impressionedel tutto sbagliata. Ma certo, sbagliata, si eraripetuta più volte. Era poi bastata una telefonata adAlan Franklin per mettere in atto un approccio piùtortuoso ed efficace.

«Bene!» Un’ombra di dubbio passò per unattimo sul volto del dottor Standish, che subitorichiamò Miss Mayhew fuori dal suo armadio.

«Miss Mayhew, quella frase che le ho appenadetto...»

«Sì, dottor Standish?»«Immagino si sia resa conto che volevo mi

prendesse un appunto.»

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«No, dottor Standish, ma sarò ben lieta di farloora.»

«Grazie» disse lo psicologo mostrando un certonervosismo. «E per cortesia metta un po’ di ordinequi dentro. Questo posto sembra un...»

Avrebbe voluto dire che sembrava un porcile,ma l’atmosfera generale di sterilità ospedalieraglielo impedì.

«Faccia un po’ di ordine, insomma» concluse.«Sì, dottor Standish.»Lo psicologo annuì seccamente, tolse un

inesistente granello di polvere dal piano dellascrivania, rivolse un altro sorrisino più o meno indirezione di Kate e quindi le aprì una porta chedava su un corridoio ricoperto da una moquettebeige immacolata, di quelle che a camminarcisopra viene la scossa.

«Ecco, guardi» disse il dottor Standishindicando con un vago cenno della mano la pareteaccanto a loro, senza però chiarire che cosa Kateavrebbe dovuto guardare e cosa ricavarne.

«E questo» disse indicando, a quanto sembrava,

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il cardine di una porta.«Ah» aggiunse, quando la porta si aprì. Kate,

un poco allarmata, si scoprì a fare un piccolosobbalzo di anticipazione ogni volta che una portaqualsiasi si apriva. Non era quella la reazione chepiù si confaceva a una sofisticata giornalistanewyorchese, anche se in realtà non abitava più aNew York e scriveva solo articoli di viaggio perqualche rivista. Però non era normale checontinuasse a cercare con gli occhi omoni biondiogni volta che si apriva una porta.

Non c’era nessun omone biondo. C’era inveceuna bambina dai capelli biondi, sui dieci annid’età, che avanzava spinta su una sedia a rotelle.Era molto pallida, malaticcia e introversa avedersi, e mormorava qualcosa tra sé e sé. Quantoandava mormorando, sebbene incomprensibile,pareva fosse fonte per lei di agitazione e diangoscia, perché si dibatteva sulla sedia comecercando di sfuggire alle parole che le uscivano dibocca. Mossa da un improvviso senso dicompassione, Kate chiese all’infermiera che la

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spingeva di fermarsi.Si inginocchiò per guardare la bambina in

faccia, la qual cosa parve incontrare il favoredell’infermiera, ma non del dottor Standish.

Kate non cercò di attirare l’attenzione dellabambina; le sorrise soltanto per vedere cosaavrebbe fatto, ma la piccola non volle, o non poté,mostrare nessuna reazione. Continuò a muovereininterrottamente le labbra, che parevano avereun’esistenza indipendente dal resto del volto.

Ora che la vedeva più da vicino, a Kate nonparve tanto malaticcia e introversa quantopiuttosto abbattuta, tormentata e indicibilmentestanca. Aveva bisogno di un po’ di riposo, dipace, ma le labbra continuavano a muoversi perconto loro.

Per un istante i loro occhi si incontrarono, e ilmessaggio che Kate ne ricevette fu qualcosa deltipo “Mi spiace, ma mi deve scusare finché vaavanti questa faccenda”. La bambina fece un gransospiro, chiuse gli occhi rassegnata e continuò ilsuo ininterrotto mormorio.

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Kate si avvicinò per sentire meglio, ma nonriuscì a capire una sola parola. Perplessa, guardòil dottor Standish.

Lui disse soltanto: «Quotazioni di borsa».Un’espressione stupita apparve sul volto di

Kate.Il dottor Standish aggiunse con un’alzata le

spalle: «Quelle di ieri, purtroppo».Kate trasalì nel vedere così grossolanamente

fraintesa la sua reazione, e subito si voltò verso laragazzina, per cercare di dissimulare la suaconfusione.

«Lei vuol dire» chiarì Kate – cosa del tuttosuperflua «che se ne sta seduta lì a recitare lequotazioni di borsa?» La bambina distolse losguardo strabuzzando gli occhi.

«Sì» rispose il dottor Standish. «C’è voluto unospecialista di lettura delle labbra per capirlo. Noiin un primo momento ci siamo infervorati, ma poiesami più approfonditi hanno mostrato che si trattasolo delle quotazioni del giorno prima. Non lenascondo che ne siamo rimasti un poco delusi.

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Non è poi un caso così interessante.Comportamento aberrante, tutto qui. Sarebbeinteressante scoprire come fa, ma...»

«Un momento,» disse Kate cercando di parereinteressata e non profondamente scandalizzata «leiintende dire che la bambina non fa che ripetere lequotazioni di chiusura, ricominciando ogni voltada capo?»

«No. È proprio questo l’aspetto interessante. Labambina va di pari passo con i movimenti delmercato di tutta la giornata, ma con ventiquattroore di ritardo.»

«Ma è straordinario!»«Ah, sì, è brava.»«Brava?»«Be’, in quanto scienziato devo

necessariamente supporre che, dal momento che sitratta di informazioni disponibili a chiunque, lei sele procuri attraverso mezzi ordinari. In questo casonon è necessario ipotizzare una dimensionesovrannaturale o paranormale. È il rasoio diOckham. Gli enti non devono essere moltiplicati

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oltre il necessario.»«Ma qualcuno l’ha mai vista leggere il

giornale, o farsi dettare le quotazioni al telefono?»Kate guardò l’infermiera, che scosse bovina il

capo.«Be’, no, non si è mai fatta beccare» disse il

dottor Standish. «È brava, come ho detto. Ma dicerto un illusionista o uno mnemotecnicopotrebbero dirci come fa.»

«Ne avete interpellati?»«No. Non abbiamo rapporti con quel genere di

persone.»«Ma davvero lei crede che lei scelga

deliberatamente di farlo?» insistette Kate.«Mi dia retta, se lei conoscesse la natura umana

quanto la conosco io, signorina, ehm... leicrederebbe questo e altro» disse il dottor Standishcon il suo tono di voce più professionale erassicurante.

Kate guardò il visino stanco della bambina enon disse nulla.

«Lei deve capire» proseguì Standish «che è

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necessario adottare un punto di vista razionale. Sesi trattasse delle quotazioni di borsa di domanisarebbe tutt’altra cosa. Avremmo per le mani unfenomeno d’ordine completamente differente,meritevole delle indagini più approfondite. E nonincontreremmo nessuna difficoltà per finanziarel’attività di ricerca. Non avremmo il minimoproblema, gliel’assicuro.»

«Capisco» disse Kate, che aveva capitobenissimo.

Si alzò bruscamente, e si rassettò la gonna.«Dunque» chiese, e si vergognò di se stessa,

«chi è l’ultimo paziente che avete ricoverato? Chiè l’ultimo arrivato?» Dentro di sé rabbrividì perl’incongruenza di quel non sequitur, ma si disseche si era presentata come giornalista, e quindi lasua curiosità non sarebbe sembrata tanto strana.

Standish congedò con un gesto l’infermiera e lasedia a rotelle col suo triste carico. Kate gettò unaltro sguardo alla bambina e quindi seguì Standishattraverso le porte a molla, che davano in un’altrasezione del corridoio del tutto identica alla

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precedente.«Ecco, guardi» disse ancora Standish, questa

volta indicando una finestra.«E questo» fece, mostrando il lampadario.Evidentemente non aveva sentito la domanda, o

se l’aveva sentita non intendeva rispondere. Forse,pensò Kate, la considerava solo col disprezzo chemeritava.

A un tratto capì che senso avevano i vari“Ecco” e “Guardi” del dottor Standish:segnalavano alla sua ammirazione la qualitàdell’arredamento. La finestra, per esempio, era aghigliottina, con il telaio in legno pregiato; e illampadario di un metallo opaco e massiccio –forse satinato –, e così via.

«Molto raffinato» disse Kate, accomodante, masubito sentì il bisogno di aggiungere: «È proprioun bel posto» nella speranza di lusingarlo.

E lo lusingò, infatti. Il dottor Standish siconcesse un sorrisetto compiaciuto.

«Noi teniamo molto alla qualità» disse.«Chissà quanta gente vorrà essere ricoverata da

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voi» continuò Kate insistendo sullo stesso tasto.«Succede spesso che siano ricoverati nuovipazienti? Quando è arrivato l’ultimo...?»

Con la mano sinistra trattenne la mano destracon cui avrebbe voluto strangolarsi lì sui duepiedi.

Passarono accanto a una porta che era soltantoaccostata, e Kate cercò di sbirciarci dentro senzafarsi accorgere.

«Molto bene, diamo un’occhiata qui» proposesubito il dottor Standish, aprendo la porta chedava su una stanza molto piccola.

«Ah, sì» continuò, riconoscendo l’occupante efacendo passare prima Kate.

Nella stanza c’era un uomo che non era négrande e grosso né biondo. A Kate la visitacominciava ad apparire stressante sul pianoemotivo, e aveva l’impressione che, andandoavanti, le cose non sarebbero migliorate.

L’uomo che sedeva sulla poltrona mentre uninfermiere gli rifaceva il letto era arruffato nelmodo più inquietante che Kate avesse mai visto. In

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verità, di arruffato aveva soltanto i capelli, ma loerano in misura così estrema che parevanorisucchiare tutta quanta la faccia nel loro caosspaventoso.

L’uomo pareva contento di starsene sedutodov’era, ma questa sua contentezza aveva qualcosadi terribilmente vacuo – sembrava contento dinulla, letteralmente. A una quarantina di centimetridi là dal suo naso c’era uno spazio assolutamentevuoto: e quella sua contentezza, se avevaun’origine, ce l’aveva proprio nel fatto che luifissava quello spazio vuoto.

Dava anche l’impressione di essere in attesa diqualcosa. Se si trattasse di qualcosa che dovevaaccadere da un momento all’altro, o di qualcosache avrebbe avuto luogo entro la settimana, oanche di qualcosa che sarebbe avvenuto qualchetempo dopo che l’inferno si fosse coperto dighiaccio o quando la British Telecom avrebbefinalmente aggiustato i telefoni, questo proprio nonlo si capiva, perché per lui non faceva differenza.Quando quella tale cosa fosse accaduta, lui era

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pronto – e se non fosse accaduta, era contento lostesso.

Kate trovò questa sua contentezza inquietante inmodo insopportabile.

«Ma che cos’ha?» chiese, e di colpo si reseconto che aveva parlato come se l’uomo non fossestato presente, quando invece probabilmenteavrebbe potuto risponderle lui stesso. E in quelmomento infatti l’uomo parlò.

«Oh, ehm, ciao» disse. «Ok, sì, grazie.»«Ehm, salve» gli rispose Kate, sebbene non

c’entrasse molto. O, meglio, quello che avevadetto l’uomo non c’entrava molto. Con un gesto ildottor Standish le segnalò di non parlare.

«Sì, e magari un po’ di succo d’arancia»continuò l’uomo. «Ok, grazie.» Dopodiché tornò asprofondare in quella sua condizione di vacuavigilanza.

«Un caso molto insolito» spiegò Standish. «Oper meglio dire, unico. Non ne conosco nemmenouno che gli somigli neanche vagamente. Inoltre si èdimostrato impossibile verificare di là da ogni

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dubbio che si tratti proprio di ciò di cui sembratrattarsi, il che mi ha risparmiato il fastidio ditrovare un nome per questa psicopatia.»

«Vuole che aiuti il signor Elwes a tornare aletto?» chiese l’inserviente al dottor Standish. Luiassentì con un cenno del capo. Non perdeva tempoa scambiare parola con i sottoposti.

L’inserviente si chinò sul paziente.«Signor Elwes?» disse piano.Il signor Elwes parve strapparsi a fatica da una

profonda fantasticheria.«Hmmmm?» disse, e di scatto si guardò attorno

confuso.«Oh! Oh! Cosa?» disse debolmente.«Le do una mano per tornare a letto?»«Oh. Oh, grazie, sì. Sì, molto gentile.»Sebbene fosse confuso e disorientato, il signor

Elwes fu capace di rimettersi a letto da solo, el’inserviente non ebbe altro da fare che dirgliqualche parola di incoraggiamento. Quando ilpaziente fu a letto, l’inserviente salutò il dottorStandish e Kate con un cenno cortese e se ne andò.

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Il signor Elwes sprofondò subito nella suatrance, sostenuto da un cumulo di cuscini. La testagli cadde sul petto e lui rimase a fissarsi unginocchio ossuto che sporgeva da sotto le coperte.

«Mi dia New York» disse.Kate diede un’occhiata al dottor Standish

aspettandosi una spiegazione che non venne.«Oh, ok» disse il signor Elwes. «È 541

qualcosa. Aspetti un momento.» Pronunciò lerimanenti quattro cifre di un numero telefonico convoce piatta e priva di inflessioni.

«Ma che fa?» chiese infine Kate.«Ci è voluto parecchio per capirlo. L’abbiamo

scoperto solo per un caso improbabile. Iltelevisore era acceso...»

Indicò un piccolo televisore portatile accanto alletto.

«... e stavano trasmettendo un talk show, ed erain diretta. Una cosa straordinaria. Il signor Elwesera a letto e borbottava qualcosa – che odiava laBBC, o forse era uno di quei nuovi canali che cisono ora. Quindi espresse il suo parere riguardo il

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presentatore del programma paragonandolo a unano o cose del genere, aggiungendo che nonvedeva l’ora che la trasmissione finisse e che, sì,era pronto ad andare in onda, e poi a un trattoquanto andava dicendo il signor Elwes e il sonorodel televisore cominciarono a sincronizzarsi, oquasi.»

«Non capisco» disse Kate.«Sarei sorpreso del contrario» proseguì

Standish. «Ogni parola pronunciata dal signorElwes veniva un attimo dopo ripetuta in diretta TV

da un signore che rispondeva al nome di DustinHoffman. Pare proprio che il nostro signor Elwesconosca tutto ciò che il signor Hoffman sta perdire di lì a un secondo. Non credo che il signorHoffman apprezzerebbe molto la cosa se ne fosseal corrente. Qualche tentativo di avvisarlo è statofatto, ma il signor Hoffman si è rivelato piuttostodifficile da contattare.»

«Cosa cazzo sta succedendo qui?» chieseplacidamente il signor Elwes.

«Pare che, al momento, il signor Hoffman stia

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girando gli esterni di un film, da qualche partenella Costa Occidentale.»

Standish diede un’occhiata all’orologio.«Presumo che si sia appena svegliato nella sua

stanza d’albergo e che stia facendo le sue primetelefonate del mattino» aggiunse.

Kate fissava stupefatta ora Standish, ora lostraordinario signor Elwes.

«Da quanto tempo il poveretto è in questostato?»

«Oh, da un cinque anni, credo. È cominciato inmodo del tutto improvviso. Il signor Elwes eraseduto a tavola con la sua famiglia come tutti glialtri giorni quando a un tratto ha cominciato alamentarsi della sua roulotte. E poco dopo delmodo in cui lo stavano riprendendo. Per tuttaquella notte ha parlato nel sonno, ripetendo incontinuazione frasi che sembravano del tutto privedi significato e affermando anche che non loconvinceva molto il modo in cui erano scritte. Perla famiglia, come può facilmente immaginare, èstata un’esperienza difficile, vivere con un attore

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così perfezionista e non rendersene neanche conto.Ora sembra incredibile quanto tempo ci abbianomesso a capire cosa stava succedendo. Tanto piùche una volta il signor Elwes li svegliò tutti nelcuore della notte per ringraziare loro, il produttoree il regista per il suo Oscar.»

Kate, che non si era ancora resa conto chequeste erano solo le prime avvisaglie di quelloche la giornata teneva ancora in serbo per lei,commise l’errore di credere di aver già raggiuntoil colmo dello stupore.

«Povero cristo» disse a bassa voce. «In chepatetica situazione si trova! È un po’ come esserel’ombra di un altro.»

«Non mi sembra poi tanto afflitto.»Il signor Elwes appariva quietamente immerso

in un’accanita discussione relativa alla definizionedelle parole “punti”, “volgare”, “profitti” e“limousine”.

«Ma non le sembra che le implicazioni sianostraordinarie?» chiese Kate. «Non sta dicendoqueste cose un attimo prima di Dustin Hoffman?»

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«Be’, è solo una congettura, dopotutto. Solo inqualche occasione abbiamo avuto la prova di unaperfetta correlazione, e non abbiamo potutoeffettuare ricerche più approfondite. Dobbiamoammettere che i pochi casi di correlazione direttanon sono rigorosamente documentati e potrebberovenire spiegati come semplici coincidenze. Tuttoil resto potrebbe essere il prodotto di una fantasiaparticolarmente elaborata.»

«Sì, ma messo in relazione col caso dellabambina che abbiamo visto prima...»

«Ah, be’, questo non possiamo farlo, vede.Ogni caso va giudicato a sé.»

«Ma rientrano nello stesso ambito...»«Sì, ma in categorie diverse. Ovviamente, se il

nostro signor Elwes potesse dimostraresignificative capacità di precognizione per quantoriguarda ciò che passa per la testa, poniamo, delleader dell’Unione Sovietica, o meglio ancora delpresidente degli Stati Uniti, allora chiaramenteentrerebbero in gioco questioni che riguardano ladifesa nazionale, e in questo caso si potrebbe

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pensare di chiudere un occhio su quanto sia fruttodi coincidenza e quanto di fantasia; ma trattandosisoltanto di un attore cinematografico – cioè, di unattore cinematografico che non ha, come pare, mirepolitiche – ritengo che convenga attenersi aprincipi rigorosamente scientifici.

«Così» aggiunse, accingendosi a uscire etirandosi dietro Kate «penso che sia nel caso delsignor Elwes, sia nel caso di, ehm, come si chiamala cara bambina sulla sedia a rotelle...probabilmente non saremo in grado di essere loromolto d’aiuto, ragion per cui le loro stanze e lenostre attrezzature potrebbero servirci per casi piùpromettenti.»

Kate non riuscì a ribattere nulla e lo seguì muta,ribollendo dentro di sé.

«Ah, il caso che vedremo ora è ben piùinteressante e promettente» disse Standish aprendoun’altra serie di doppie porte e precedendola.

Per quanto Kate cercasse di controllare leproprie reazioni, non poté evitare che Standish,pur marziano e insensibile com’era, si accorgesse

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che la sua interlocutrice non era dalla sua parte.Un piccolo extra di acrimonia e di impazienza siinsinuò nel comportamento di lui, andando a daremanforte alle abbondanti dosi di acrimonia e diimpazienza già innate in lui.

Per qualche tempo percorsero il corridoio insilenzio. Kate cercava altri modi per introdurre inmaniera del tutto casuale l’argomento dei nuoviricoveri, ma fu costretta ad ammettere con sestessa che non si può farlo tre volte di fila senzacominciare a perdere l’aspetto essenziale dellaspontaneità. Kate cercava di sbirciare nel modopiù innocente possibile dentro a tutte le porte cheoltrepassavano, ma molte di esse eranodecisamente chiuse e quelle che non lo erano nonrivelavano nulla di interessante.

Mentre passavano davanti a una finestra, Kateguardò fuori e notò un furgone che svoltava in uncortile interno. Nel breve istante in cui le passòdavanti, il furgone attrasse la sua attenzione perchéera evidente che non si trattava né di quello di unpanettiere né di quello di una lavanderia. Infatti i

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furgoni dei panettieri o quelli delle lavanderiereclamizzano a grandi lettere la loro funzione, conscritte come “Panetteria” o “Lavanderia”, e inveceil furgone in questione era rigorosamente anonimo.Non aveva cioè assolutamente niente da dire anessuno, e lo diceva forte e chiaro.

Si trattava di un furgone così serio e grosso epesante da essere sul punto di sembrare un vero eproprio camion, ed era verniciato di un uniformecolore grigio scuro metallizzato. A Kate fecetornare in mente quegli smisurati furgoni mercicolor carro armato che partono dall’Albania epassano rombando attraverso la Bulgaria e laJugoslavia, con null’altro che la scritta Albaniaimpressa sulle fiancate. Ricordava di essersichiesta cosa gli albanesi potessero esportare inmodo così anonimo ma, quando a un certo puntoera andata a controllare, aveva scoperto chel’Albania esporta soltanto energia elettrica – cosache, se ricordava bene un po’ della fisica cheaveva studiato al liceo, era parecchio improbabilesi potesse trasportare su un furgone.

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Il camioncino dall’aria seria svoltò e cominciòa fare retromarcia in direzione di un’entrataposteriore della clinica. Qualunque cosa il furgonetrasportasse abitualmente, ora era di certo sulpunto di caricarla o scaricarla, rifletté Kateriprendendo a camminare.

Poco dopo Standish si fermò davanti a unaporta, bussò piano, mise dentro la testa con ariaindagatrice, e poi si rivolse a Kate facendolecenno di seguirlo dentro la stanza.

Questa era molto diversa dalle precedenti. Laporta si apriva su un’anticamera separata dallastanza vera e propria da una grande vetrata. I dueambienti dovevano essere insonorizzati, perchél’anticamera era dotata di una serie di monitor e dicomputer tutti rumorosamente in funzione, mentrela stanza più grande ospitava una donna in un letto,addormentata.

«La signora Elspeth May» annunciò Standishcon la solennità che si addiceva all’ospite chepagava la retta più alta. La stanza, come neconsegue, era imponente, confortevole e

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lussuosamente arredata. Ogni superficie libera eracoperta di fiori freschi, e il comodino su cui eraappoggiato il lavoro a maglia della signora Mayera di mogano.

La paziente era una signora piuttosto avantinella mezza età, coi capelli argentei e un aspettoanch’esso confortevole, e giaceva addormentata suuna pila di cuscini e abbigliata con un cardiganrosa. Kate ci mise qualche secondo a capire che,benché fosse addormentata, non era però inattiva.Aveva la testa serenamente appoggiata e gli occhichiusi, ma la sua mano destra stringeva una pennae scribacchiava furiosamente qualcosa su ungrosso foglio di carta accanto a lei. La mano,proprio come la bocca della bambina sulla sedia arotelle, sembrava avere una propria esistenzaautonoma e febbrile. Sulla fronte della signora,proprio sotto l’attaccatura dei capelli, eranoassicurati con dei cerotti dei piccoli elettrodi rosa,e Kate ne dedusse che da lì proveniva parte delmateriale che appariva sfarfallando sugli schermidei computer situati nell’anticamera dove lei e il

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dottor Standish si trovavano. Davanti agli schermisedevano due uomini e una donna in camicebianco, mentre un’infermiera stava di guardiaaccanto alla vetrata divisoria. Standish scambiòdue parole con loro per informarsi sulla salutedella paziente, che tutti convennero essere ottima.

Kate ebbe la netta sensazione che avrebbedovuto sapere chi fosse la signora Elspeth Mayma, poiché di fatto non lo sapeva, fu costretta achiedere informazioni.

«È una medium,» le rispose Standish un po’brusco «credevo lo sapesse. Una medium daipoteri prodigiosi. In questo momento è in trance,impegnata in una seduta di scrittura automatica. Stascrivendo sotto dettatura. Praticamente tutto ciòche le viene dettato è di inestimabile valore. Nonha mai sentito parlare di lei?»

Kate dovette ammettere di no.«Be’, avrà certo sentito di quella signora che

sosteneva che Mozart, Schubert e Beethoven ledettavano composizioni musicali.»

«Sì. È uscita parecchia roba su di lei qualche

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anno fa, sui supplementi a colori dei giornali.»«Bene, se uno ritiene interessante questo genere

di cose, quello che la signora faceva poteva esseresignificativo. La musica così ottenuta era certo piùsimile a quella che ciascuno dei tre signoriavrebbe potuto produrre in una rapida pausa dopocolazione che non a ciò che ci si può aspettare dauna casalinga di mezza età senza cognizionimusicali.»

Kate non poté non controbattere a tantasfrontatezza.

«Questo è un modo molto maschilista di vederele cose,» disse «anche George Eliot era unacasalinga di mezza età.»

«Sì, sì,» replicò Standish, stizzito «ma nonaveva Wolfgang Amadeus Mozart che gli dettavagli spartiti. È questo che sto cercando di dirle. Perfavore, cerchi di seguire il filo del discorso, senzaesulare dall’argomento. Se per un attimo avessipensato che l’esempio di George Eliot avrebbepotuto gettar luce sul nostro problema attuale,sarei stato il primo a introdurlo. Dov’ero

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rimasto?»«Non saprei.»«Mabel. Doris? Come si chiamava? Facciamo

Mabel. Il punto è che il modo migliore per trattareil problema di Doris era semplicemente diignorarlo. Non era nulla di così importante.Qualche concerto. Robetta. Qui, invece, qui citroviamo di fronte a qualcosa di ben diverso.»

Pronunciò le ultime parole a bassa voce e sivolse a guardare un monitor TV che si trovavaaccanto agli schermi dei computer. Mostrava unprimo piano della mano della signora May checorreva rapida sul foglio. La mano copriva buonaparte di quanto andava scrivendo, ma si capivache era matematica di un qualche tipo.

«La signora May, almeno stando a quel cheafferma, sta scrivendo sotto la dettatura di alcunidei fisici più illustri. Einstein, Heisenberg ePlanck. Ed è difficile mettere in dubbio le sueaffermazioni perché quello che qui viene prodottomediante scrittura automatica da questa... pocoistruita signora è, in effetti, fisica di alto livello.

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«Dal defunto Einstein stiamo ottenendo semprenuovi dettagli che ci permettono di farci un quadropiù preciso del modo in cui spazio e tempofunzionano a livello macroscopico, mentre grazieai defunti Heisenberg e Planck stiamo aumentandole nostre conoscenze sulle strutture fondamentalidella materia a livello quantistico. E non c’èdubbio alcuno che queste informazioni ciavvicinano sempre di più all’inafferrabileobiettivo di giungere a una grande teoria unificatadel campo del tutto.

«Ora tutto questo ha, per gli scienziati, unrisvolto molto interessante ma per qualche versoanche imbarazzante, perché il modo in cuil’informazione ci giunge sembra contraddire deltutto il significato dell’informazione stessa.»

«Proprio come lo zio Henry» esclamòall’improvviso Kate.

Standish la guardò inespressivo.«Lo zio Henry crede di essere una gallina»

spiegò Kate.Standish la guardò ancora, sempre

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inespressivo.«Dovrebbe averla già sentita» disse Kate.

«“Siamo molto preoccupati per lo zio Henry. Èconvinto di essere una gallina.” “E perché non lofate vedere da un dottore?” “Lo faremmosenz’altro, il fatto è che abbiamo bisogno delleuova.”»

Il dottor Standish la fissò come se dal naso lefosse spuntato un sambuco, piccolo maperfettamente formato.

«Può ripetere?» chiese con un tono di vocebasso e sconvolto.

«Cosa, tutto dall’inizio?»«Tutto.»Kate piazzò una mano sul fianco e ripeté la

storiella, rifacendo le voci con più brio edotandole di una più spiccata cadenzameridionale.

«Formidabile» esclamò il dottor Standishquando Kate ebbe finito.

«Dovrebbe averla già sentita» esclamò lei unpo’ stupita dalla reazione di Standish. «È una

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vecchia barzelletta.»«No» rispose lui. «Non l’avevo mai sentita.

Abbiamo bisogno delle uova. Abbiamo bisognodel le uova. Abbiamo bisogno delle uova. Nonpossiamo farlo vedere da un dottore perché‚abbiamo bisogno delle uova. Stupefacente. Unapenetrazione incredibile nel cuore dei paradossidella condizione umana e della nostra inesaustacapacità di costruire razionalizzazioni perspiegarli. Cavoli!»

Kate si strinse nelle spalle.«E lei sostiene che si tratta di una barzelletta?»

domandò incredulo Standish.«Sì, e molto vecchia per giunta.»«E sono tutte come questa? Non me ne ero mai

reso conto».«Be’...»«Sono stupefatto» disse Standish.

«Assolutamente stupefatto. Pensavo che lebarzellette fossero cose che degli imbecilliraccontano in televisione e perciò non sono maistato a sentirle. Mi sento come se mi avessero

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nascosto qualcosa. Infermiera!»L’infermiera, che per tutto il tempo aveva

sorvegliato di qua dalla vetrata la signora May,trasalì sentendosi apostrofare in quel modo.

«Ehm, sì, dottor Standish?» domandò. Erachiaro che lui la rendeva nervosa.

«Perché non mi ha mai raccontato dellebarzellette?»

L’infermiera lo fissò, costernata davantiall’impossibilità anche solo di sapere cosapensare di rispondere a una simile domanda.

«Ehm, be’...»«Prenda nota, per favore. Per il futuro desidero

che lei, e l’intero personale della clinica, miracconti tutte le barzellette di cui dispone. Sonostato chiaro?»

«Ehm, sì, dottor Standish...»Standish la fissò con uno sguardo che

esprimeva dubbio e sospetto.«Conosce qualche barzelletta, infermiera?»«Ehm, sì, dottor Standish, credo di sì, certo.»«Me ne dica una.»

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«Come, ehm, ora, dottor Standish?»«Seduta stante.»«Ehm, be’, uhm ... ce n’è una che è quella di un

paziente che si sveglia dopo aver, be’, cioè, vale adire... dopo che ha avuto, ehm, dopo che è statooperato, e si sveglia... non è un gran che, macomunque... è stato operato e dice al dottore,quando si sveglia: “Dottore, dottore, c’è qualcosache non va: non riesco a sentirmi le gambe”. E ildottore fa: “Sì, mi dispiace ma abbiamo dovutoamputarle le braccia”. Ecco perché. Ehm, vede,era questo il motivo per cui non poteva sentirsi legambe.»

Standish la guardò fisso per qualche secondo.«Infermiera, lei è a rapporto» disse.«Sì, dottor Standish.»Standish si rivolse a Kate.«Non ce n’è una su una gallina che attraversa la

strada, o qualcosa del genere?»«Sì, mi sembra» rispose Kate dubbiosa. Si

sentiva un tantino messa alle strette.«Be’, e come fa?»

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«Dunque,» rispose Kate «fa così: “Perché lagallina attraversa la strada?”»

«Sì, e poi?»«E la risposta è: “Per raggiungere l’altro

lato”.»«Capisco.» Standish considerò un attimo la

cosa. «E cosa fa la gallina quando raggiungel’altro lato della strada?»

«La storia non lo dice» rispose prontamenteKate. «Penso che questo esuli da ciò che sipropone la barzelletta, che riguarda solo il fattoche la gallina attraversa la strada e perché lo fa. Inquesto senso assomiglia un po’ a un haikugiapponese.»

Kate si scoprì improvvisamente divertita.Riuscì anche a far arrivare una strizzatina d’occhiall’infermiera, che proprio non riusciva araccapezzarsi.

«Capisco» ripeté Standish aggrottando lesopracciglia. «E, mi dica, queste, ehm, barzelletterichiedono un uso preventivo di stimolantiartificiali?»

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«Dipende dalle barzellette, e dipende a chi siraccontano.»

«Hum, bene, devo riconoscere che lei mi haaperto un ricco campo di indagine, signorina, ehm.Ho l’impressione che si possano ricavare grandibenefici da un’esplorazione immediata eapprofondita dell’intero campo dell’umorismo.Ovviamente bisognerà distinguere tra barzellette acontenuto genuinamente psicologico e barzelletteche incoraggino l’uso di sostanze stupefacenti, equindi da scartare. Bene.»

Il dottor Standish quindi si rivolse alricercatore in camice bianco che sorvegliava ilmonitor su cui appariva quello che la signora Mayandava scrivendo.

«Qualcosa di nuovo dal signor Einstein?»L’uomo non tolse gli occhi dallo schermo.

«Dice: “Come le vuoi le uova, in camicia osode?”»

Il dottor Standish fece un’altra pausa.«Interessante,» disse «molto interessante.

Continui a prendere accuratamente nota di tutto

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quello che scrive. Venga.» Rivolta quest’ultimaparola a Kate, Standish uscì dalla stanza.

«Strana gente, questi fisici» disse non appenafurono usciti. «Per mia esperienza, tutti quelli chenon sono morti sono comunque molto ammalati.Bene, il pomeriggio avanza, e sono sicuro che leisarà ansiosa di andarsene per mettersi a scrivere ilsuo articolo, signorina, ehm. Anch’io del resto hocose che richiedono urgentemente la miaattenzione e pazienti in attesa delle mie cure. Così,se lei non ha altre domande...»

«Una sola cosa ancora, dottor Standish.» Katesi decise, andasse pure tutto al diavolo.«Dobbiamo dimostrare che l’articolo è aggiornato.Forse, se lei potesse concedermi altri due minuti,potremmo andare a parlare con il pazientericoverato per ultimo.»

«Credo che sarebbe un tantino problematico.L’ultimo ricovero è stato effettuato un mese emezzo fa, e la paziente è morta di polmonite duesettimane dopo.»

«Oh, ah. In effetti, forse, la cosa non è molto

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esaltante. Dunque. Nessun nuovo ricovero negliultimi giorni? Nessun ricovero di qualcunoparticolarmente grosso, o biondo o di tiponordico, con un cappotto di pelliccia o magari unmartello? Tanto per fare un esempio.» Le venneun’improvvisa ispirazione. «Un secondo ricoveroeventualmente?»

Standish la guardò con sempre maggiorsospetto.

«Signorina, ehm...»«Schechter.»«Signorina Schechter, mi vado convincendo che

il suo interesse nei confronti di questa clinica nonè...»

Lo interruppe proprio in quell’istante il rumoredelle porte a molla che si aprivano nel corridoioalle loro spalle. Volse gli occhi per vedere di cosasi trattava, e i suoi modi cambiarono di colpo.

Fece bruscamente cenno a Kate di accostarsi almuro, mentre un grande letto a rotelle spinto da uninserviente passava attraverso le porte.

Lo seguivano in processione una suora e

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un’altra infermiera, che davano più l’impressionedi appartenere all’entourage del paziente che diessere nell’esercizio delle loro normali funzioni.

L’occupante del letto era un vecchio signoredall’aria delicata e fragile, con una pellefinemente venata, simile a sottilissima pergamena.

L’estremità superiore del letto a rotelle eraleggermente inclinata verso l’alto per permetterglidi osservare il mondo via via che gli passavadavanti, e il vecchio lo osservava con una sorta dicalmo, benevolo orrore. La bocca aperta glipendeva un po’ e la testa dondolava così che, aogni sobbalzo del letto, gli rotolava un poco orada una parte ora dall’altra. Eppure, nonostante lasua fragile indifferenza, il vecchio emanava, inmodo molto tranquillo e gentile, un’aria di perfettapadronanza della situazione.

Era il suo unico occhio a provocarequest’impressione. Su qualunque cosa esso siposasse, il paesaggio che si vedeva di là dallafinestra, l’infermiera che trattenevapremurosamente la porta in modo che il letto

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potesse procedere senza intralci, o il dottorStandish, che improvvisamente era tuttoossequiosa obbedienza, ogni cosa sembravaall’istante rientrare nel dominio incontrastato diquell’occhio.

Kate per un attimo si domandò come gli occhipotessero convogliare una tale quantità diinformazioni sui loro possessori. Dopotutto, nonsono altro che bianche sfere cartilaginose. Manmano che invecchiano gli occhi cambianopochissimo, facendosi solo un po’ più rossi e unpo’ più lagrimosi. L’iride si allarga o si stringe,ma questo è tutto. Da dove proviene, dunque,quella massa di informazioni che sono capaci didare? Soprattutto nel caso di un uomo dotato di ununico occhio e di due lembi di pelle congiunti alposto dell’altro.

La distolse da questi pensieri il fatto cheproprio in quel momento l’occhio in questione sispostò da Standish per fissarsi su di lei. La suapresa fu così impressionante che Kate per poconon si mise a guaire.

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Col più debole e impercettibile dei movimentiil vecchio fece cenno all’inserviente di fermarsi.Quando il letto si arrestò e cessò il rumore dellerotelle, per un attimo non si udì che il ronziolontano di un ascensore.

Poi l’ascensore si fermò.Kate restituì lo sguardo accompagnandolo con

un lieve e sorridente aggrottar di sopracciglia chesignificava: “Scusi, ma noi ci conosciamo già?” epoi si chiese se in effetti non fosse proprio questoil caso. C’era una qualche fugace familiarità inquel viso, ma Kate non riuscì a coglierla. La colpìil fatto che, sebbene quello in cui il vecchio sitrovava fosse un semplice letto a rotelle, lelenzuola su cui teneva appoggiate le mani erano dipuro lino, e lavate e stirate di fresco.

Il dottor Standish si schiarì la voce e disse:«Signorina, ehm, questo è uno dei nostri piùstimati e, ehm, amati pazienti, il signor...».

«Va tutto bene, signor Odwin?» lo interruppe lasuora venendo in soccorso del dottor Standish. Main questo caso il soccorso non occorreva. Era,

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questo, un paziente di cui Standish conoscevasenza dubbio il nome.

Odino la mise a tacere con un cennoimpercettibile.

«Signor Odwin,» disse Standish «questa è lasignorina, ehm...»

Kate stava per presentarsi per l’ennesima voltaquando fu colta assolutamente di sorpresa.

«So bene di chi si tratta» affermò Odino convoce tenue ma udibile, e nel suo occhio brillò perun attimo il lampo di complicità che può correretra un aerosol e una vespa.

Kate cercò di essere molto compìta e moltoinglese.

«Temo» disse piuttosto sostenuta «che lei abbiaun vantaggio su di me.»

«Già» rispose Odino.Poi fece un cenno all’inserviente, e tutti

ripresero a percorrere il corridoio. Ci fu unoscambio di occhiate tra la suora e il dottorStandish, e in quel momento Kate si accorsestupita di un’altra presenza, lì nel corridoio

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accanto a loro.L’uomo non doveva essere apparso per magia.

Se ne sarà rimasto fermo mentre il letto simuoveva, e la sua altezza, o per meglio dire la suabassezza, era tale che il letto l’aveva coperto deltutto.

Le cose andavano decisamente meglio quandonon era visibile.

Esistono persone che ci piacciono a pelle, altreche pensiamo che col tempo potremmo ancheriuscire a farci piacere, e altre ancora chevorremmo semplicemente tenere lontane con unforcone. Kate non ebbe il minimo dubbio su qualefosse la categoria in cui far rientrare la persona diMezza Calzetta. L’uomo fece un sogghigno e lafissò, o meglio parve fissare una mosca invisibilesvolazzante sulla sua testa.

Mezza Calzetta fece un balzo in avanti e, primache Kate potesse impedirlo, si impadronì della suamano destra e la scrollò selvaggiamente.

«Anch’io ho un vantaggio su di lei, signorinaSchechter» disse, e saltellò via tutto allegro lungo

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il corridoio.

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12

Il grosso e serioso furgone discese imperturbabileil viale, superò le colonne in pietra del cancello epacatamente si inoltrò nella strada asfaltata dopoaver abbandonato il viale di ghiaia. Ai lati dellastrada, un sentiero di campagna battuto dal vento,si stagliavano i profili invernali di querce e olmispogli e senza foglie. Grigie nubi si ammassavanoalte nel cielo simili a cuscini. Il furgone continuòil suo dignitoso percorso lungo il sentiero e prestosparì alla vista dopo una serie di curve e tornanti.

Pochi minuti dopo la Citroën gialla faceva unameno dignitosa apparizione attraverso lo stessocancello. Le ruote scalcagnate si orientarono

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seguendo la curva della strada e la macchina siavviò nella stessa direzione, tenendo un’andaturalenta ma faticosa.

Kate era sconcertata.Gli ultimi minuti erano stati decisamente

sgradevoli. Il dottor Standish, nei suoi momentimigliori, si era comportato in modo quanto menostravagante, ma dopo il loro incontro col signorOdwin era diventato ostile. Era il tipo diterrorizzante ostilità di chi è a sua voltaterrorizzato – di cosa, Kate proprio non sapeva.

Chi era lei? aveva insistito. Come era riuscita aestorcere delle referenze da Alan Franklin, unprofessionista rispettato nel suo campo? Cosaandava cercando? Cosa – e questo sembrava ilpunto più importante – aveva fatto per suscitare ladisapprovazione del signor Odwin?

Kate guidava truce l’automobile, che aveva ilsuo bel daffare a tenere le curve e qualchedifficoltà appena minore ad affrontare i rettilinei.Una volta la macchina era atterrata in tribunale,quando una delle ruote anteriori era salpata per

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una delle sue scappatelle solitarie e poco eramancato che causasse un incidente. Il poliziottoche aveva testimoniato alla corte aveva chiamatola sua amatissima Citroën «la presuntaautomobile», e il nome le era rimasto attaccato.Kate amava la sua presunta automobile per tanteragioni. Se, per esempio, una delle portiere sifosse staccata, lei sarebbe stata in grado dirimetterla a posto da sola, il che è più di quanto sipossa dire di una BMW.

Avrebbe voluto sapere se era pallida e sbattutacome si sentiva, ma il suo specchietto retrovisorestava sbatacchiando sotto il sedile e quindi questaconsapevolezza le fu risparmiata.

Anche il dottor Standish era diventato pallido etremante al solo pensiero che qualcuno avesseosato disturbare il signor Odwin, e aveva respintotutte le proteste di innocenza di Kate. Come potevanegare di sapere alcunché del signor Odwinquando questi aveva dimostrato di essereperfettamente al corrente di chi era lei? O forseosava sostenere che il signor Odwin era un

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bugiardo? Se era così, che stesse bene attenta.Kate non sapeva cosa pensare. L’incontro-

scontro col signor Odwin era per lei del tuttoinspiegabile. Non poteva però negare che l’uomopossedesse una sua energia. Quando ti fissava, nonpotevi fare altro che lasciarti fissare. Ma al di làdell’aria inquietante del suo sguardo, c’erano altrisottotesti ancora più inquietanti. E lo erano tantopiù in quanto rappresentavano altrettanti sottotestidi debolezza e di paura.

Quanto all’altra strana creatura...Doveva essere lui la causa delle voci che si

erano recentemente diffuse nei settori piùripugnanti dei rotocalchi circa la presenza di“Qualcosa di strano a Woodshead”. Questedicerie, piene com’erano di offese e di impietosainsensibilità, ovviamente erano state largamenteignorate da tutti, eccezion fatta per quei pochissimimilioni di persone che hanno un morboso interesseper questo tipo di cose.

Queste voci affermavano che la gente dellazona era terrorizzata da una creatura repellente e

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deforme simile a un goblin che regolarmentespuntava fuori da Woodshead e si metteva acompiere una serie incredibile di attiinqualificabili.

Come tanta altra gente, Kate aveva pensato, semai si era soffermata a pensarci, che qualchepovero malato di mente che si aggirava nella zonaavesse spaventato un paio di vecchiette, e che poigli zelanti scribacchini di Wapping avesseroaggiunto il resto. Ora era un po’ più scossa e untantino meno sicura.

Quel tale – quell’essere – conosceva il suonome.

Che conclusioni doveva trarne?Ciò che ne trasse fu di sbagliare strada. Turbata

com’era, mancò la svolta che doveva rimetterlasulla strada maestra per Londra, e quindi si pose ilproblema di come rimediare. Poteva fare unacurva a U, ma erano secoli che non innestava laretromarcia e, francamente, la cosa la preoccupavaun po’.

Tentò le due svolte a destra successive per

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vedere di riuscire a rimettersi sulla giusta via, masenza grandi speranze che la cosa funzionasse, einfatti non funzionò. Guidò ancora per due o tremiglia, ben sapendo di essere sulla stradasbagliata ma confortata dal fatto che, a giudicaredalla posizione del grigio più chiaro nel grigioscuro delle nuvole, stava almeno andando nelladirezione giusta.

Dopo un po’ si adattò a questo nuovo percorso.Un paio di segnali stradali incontrati lungo ilcammino le fecero capire che stava percorrendo latangenziale per Londra, cosa che era ben felice difare. Se ci avesse pensato prima, Kate avrebbescelto proprio questo itinerario alternativo,preferendolo alla strada principale troppotrafficata.

Il viaggio si era rivelato un completofallimento, e lei avrebbe fatto molto meglio astarsene immersa nella vasca da bagno per tutto ilpomeriggio. L’esperienza era stata decisamentesgradevole, se non addirittura allarmante, e uncompleto buco nell’acqua rispetto all’obiettivo

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che si era prefissa. Era già spiacevole avere unobiettivo che a malapena si osava confessare a sestessi, figuriamoci poi quando questo obiettivo sirivelava un totale fallimento. Si sentì avviluppareda un senso di scorata futilità che ben si intonavaal grigiore del cielo.

Si chiese se per caso non stesseimpercettibilmente diventando pazza. La sua vitanegli ultimi giorni sembrava aver preso una piegache le sfuggiva di mano, ed era angoscianteaccorgersi di quanto fragile fosse il proprioautocontrollo visto che bastava un fulminerelativamente piccolo, o un meteorite o qualunquealtra cosa fosse, a mandarlo in frantumi.

La parola “fulmine” le si era presentata nel belmezzo del pensiero senza il minimo preavviso elei, non sapendo bene cosa farne, la lasciò giacerein un recesso della mente come la salvietta che nonsi era curata di raccogliere giaceva sul pavimentodel bagno.

Anelava a un po’ di sole attraverso le nubi. Leruote macinavano un miglio dopo l’altro, le nuvole

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la opprimevano, e lei si scoprì a pensare semprepiù intensamente ai pinguini. Alla fine sentì chenon ce la faceva più e decise che una passeggiataera quello che ci voleva per scuoterla da quellostato d’animo.

Fermò l’auto al margine della strada, el’attempata Jaguar che l’aveva seguita dadiciassette miglia a quella parte le andò drittoaddosso, facendole comunque raggiungerel’obiettivo che si era prefissa.

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13

Percorsa da un delizioso brivido di rabbia e tuttarinvigorita, Kate si lanciò fuori dalla suaautomobile per apostrofare il conducente dell’altramacchina che, a sua volta, stava lanciandosi fuoridalla sua per apostrofare lei.

«Perché non guarda dove va?» strillò rivoltaall’uomo. Era un tipo piuttosto sovrappeso, cheaveva guidato con addosso un lungo e pesantesoprabito di pelle e un orribile cappellacciorosso, nonostante l’evidente disagio che entrambicomportavano. Kate si scaldò ancora di più.

«Perché non guarda dove vado io?» risposeanimatamente lui. «Non guarda nello specchietto

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retrovisore?»«No» disse Kate mettendosi le mani sui fianchi.«Oh» fece lui. «E perché mai?»«Perché è sotto il sedile.»«Capisco» osservò lui, feroce. «Grazie per la

sua franchezza. Ce l’ha un avvocato?»«Certo che ce l’ho» disse Kate. E lo disse con

vigore e con alterigia.«Com’è, è un buon avvocato?» domandò

l’uomo dal cappellaccio. «Credo che mi servirà unavvocato. Il mio è finito in galera per un po’.»

«Be’, di sicuro non può avere il mio.»«Perché no?»«Non dica assurdità. Ci sarebbe un evidente

conflitto di interessi.»Il suo avversario incrociò le braccia e si

appoggiò al cofano della macchina. Si guardòsenza fretta intorno. La strada cominciava a farsibuia via via che la precoce sera invernalescendeva tutt’intorno. Poi l’uomo si infilònell’abitacolo per azionare le luci di emergenza.Le lucine gialle posteriori ammiccarono

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graziosamente all’erba intristita del bordo dellastrada. Quelle anteriori, seppellite nel retro dellaCitroën di Kate, non erano nello stato d’animogiusto per farlo.

Poi si appoggiò ancora alla macchina e squadròKate con aria da intenditore.

«Lei è una guidatrice,» disse «e uso la parolanel suo senso più ampio, quello di persona cheoccupa il sedile di guida di quella che per ilmomento chiamerò – ma uso il termine in modopiuttosto spregiudicato – un’automobile dalmomento che procede su una strada... unaguidatrice, dicevo, di straordinaria, direi quasisovrumana, inettitudine. Ha capito cosa vogliodire?»

«No.»«Voglio dire che guida proprio male. Lo sa che

ha guidato in mezzo alla strada per le ultimediciassette miglia?»

«Diciassette miglia!» esclamò Kate. «Mi stavaseguendo?»

«Solo fino a un certo punto» rispose Dirk. «Ho

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cercato di tenermi su questo lato della strada.»«Vedo. Bene, anch’io la ringrazio per la sua

sincerità. Questo, non c’è bisogno che glielo dica,è un affronto. Credo che le convenga trovarsi unavvocato coi controfiocchi, perché il mio loinfilzerà con tanti spiedini arroventati.»

«Allora farei meglio a procurarmi del kebab.»«Lei dà l’impressione di averne mangiato anche

troppo, di kebab. Posso chiederle perché mi stavaseguendo?»

«Lei dava l’impressione di sapere dove stavaandando. Almeno all’inizio. Per i primi centometri o giù di lì.»

«Cosa diavolo le importava dove stavoandando io?»

«È una mia personale tecnica di navigazione.»Kate strinse gli occhi.Stava per chiedere una spiegazione istantanea

ed esauriente di un’affermazione tanto sibillina,quando una Ford Sierra bianca rallentòaffiancandosi a loro.

Il conducente abbassò il finestrino e si sporse

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fuori. «C’è stato un incidente, eh?»«Sì.»«Ah!» commentò, e ripartì.Qualche istante dopo si fermò una Peugeot.«Chi era quello là?» chiese il conducente,

alludendo all’automobilista precedente.«Non lo so» rispose Dirk.«Oh» fece l’uomo. «Sembra che ci sia stato un

incidente.»«Sì» rispose Dirk.«Mi era sembrato» concluse il conducente e

ripartì.«In questi giorni è difficile trovare passanti con

un po’ di stile, non trova?» chiese Dirk a Kate.«Anche lei non scherza» ribatté Kate. «Voglio

ancora sapere perché mi stava seguendo. Si rendeconto, spero, che per me è difficile non vederla nelruolo di una persona alquanto sinistra.»

«La spiegazione è facile» rispose Dirk. «Disolito lo sono. In questo caso, però, mi sonosemplicemente perso. Sono stato costretto aun’azione diversiva da un grosso furgone grigio

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che sembrava volersi accaparrare tutta la strada eche mi stava venendo addosso. Sono riuscito aevitarlo solo sgattaiolando in una stradina lateralenella quale era impossibile fare manovra. Un altropaio di svolte e mi sono perso del tutto. C’è unascuola di pensiero secondo la quale in questeoccasioni bisognerebbe consultare una cartinastradale, ma a persone così io mi limito arispondere: “E che fai se non hai una cartinastradale da consultare? O se hai solo quella dellaDordogna?”. La mia strategia personale consistenell’individuare una macchina, o un suo più vicinoequivalente, che abbia l’aria di sapere dove staandando e mettermi a seguirla. Raramente arrivodove avevo intenzione di andare, ma spessofinisco dove avevo bisogno di arrivare. Be’, cosane dice?»

«Scemenze!»«Una risposta assennata, non c’è dubbio.»«Stavo per dire che qualche volta faccio lo

stesso anch’io, ma poi ho pensato che non eraancora il caso di ammetterlo.»

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«Molto saggio» disse Dirk. «Lei ha deciso dinon scoprirsi troppo, per il momento. Le consigliodi comportarsi in modo enigmatico.»

«Non voglio i suoi consigli. Dov’è che cercavadi andare prima di decidere a un tratto che guidareper diciassette miglia nella direzione oppostal’avrebbe condotta a destinazione?»

«In un posto che si chiama Woodshead.»«Ah, il manicomio.»«Lo conosce?»«Me ne sono allontanata per diciassette miglia

e vorrei avercene messe molte di più tra me e quelluogo. In quale reparto si farà ricoverare? Hobisogno di sapere dove recapitarle il conto.»

«Non ci sono reparti» disse Dirk. «E penso chenon apprezzerebbero il fatto che lei lo chiamimanicomio.»

«Qualunque cosa non apprezzino loro laapprezzo io.»

Dirk si guardò intorno.«Bella serata» disse.«Assolutamente no.»

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«Capisco. Lei ha l’aria di una persona la cuigiornata non è stata fonte di gioia o arricchimentospirituale.»

«Proprio così, dannazione» esclamò Kate. «Hoavuto quel tipo di giornata che avrebbe indotto sanFrancesco d’Assisi a prendere a calci deibambini. Soprattutto se ci aggiunge anche lagiornata di martedì, l’ultima di cui abbiacoscienza. E ora, guardi. La mia bella macchina.L’unica cosa che posso dire di tutta questafaccenda è che almeno non sono a Oslo.»

«Capisco che la cosa la rallegri.»«Non ho detto che mi rallegra. Ho solo detto

che mi trattiene dal suicidarmi. Del resto nondovrei stare a preoccuparmi, quando esistonopersone come lei, così ansiose di risparmiarmiquesta fatica.»

«Lei mi ha abilmente assistito, signorinaSchechter.»

«Ora basta!»«Basta cosa?»«Il mio nome. Improvvisamente ogni estraneo

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che incontro conosce il mio nome. Gente, lavorreste piantare per un secondo di conoscere tuttiil mio nome? Come fa una ragazza a comportarsiin modo enigmatico in queste condizioni? La solapersona che oggi sembrava non conoscere il mionome era anche l’unica alla quale mi eroregolarmente presentata. D’accordo,» dissepuntando un dito accusatore contro Dirk «lei non èun essere soprannaturale, e allora mi dica come faa sapere il mio nome. Non le lascerò andare lacravatta finché non me lo dirà.»

«Lei non mi ha afferrato la...»«Ecco fatto, rompiscatole.»«Mi lasci!»«Perché mi stava seguendo?» insistette Kate.

«Come fa a conoscere il mio nome?»«La stavo seguendo proprio per le ragioni che

le ho detto. Quanto al suo nome, mia carasignorina, praticamente è stata lei a dirmelo.»

«Certo che no.»«Le assicuro che è così.»«La sto ancora tenendo per la cravatta.»

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«Se si sarebbe dovuta trovare a Oslo mal’ultimo giorno di cui abbia coscienza è martedì,allora si può supporre che lei si trovasse aHeathrow al momento dell’incredibile esplosionedel banco del check-in del Terminal 2. I giornaline hanno fatto un gran parlare. Immagino la cosa lesia sfuggita a causa del suo stato di incoscienza. Ame era sfuggita a causa di una sfrenata apatia, magli avvenimenti di oggi l’hanno imposta alla miaattenzione.»

Kate lasciò andare a malincuore la sua cravatta,ma continuò a fissarlo con aria sospettosa.

«Ah sì?» chiese. «Quali avvenimenti?»«Del tipo sgradevole» rispose Dirk

rassettandosi. «Se anche lei non mi avesse datoelementi sufficienti a identificarla, il solo fatto diessere andata a Woodshead oggi me l’avrebbeconfermato. A giudicare dal suo bellicososconforto, direi che non ha trovato l’uomo chestava cercando.»

«Cosa?»«Prego, se la tenga» disse Dirk togliendosi

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rapidamente la cravatta e offrendogliela. «Percaso, questa mattina, mi sono imbattuto inun’infermiera dell’ospedale in cui lei eraricoverata. Il mio primo incontro con questa donnaè stato di natura tale da indurmi, per una serie diragioni, a desiderare di porvi termine al piùpresto. È stato solo qualche minuto dopo, sulmarciapiede, mentre avevo il mio daffare adifendermi dalla fauna locale, che una delle paroleda lei pronunciate mi ha colpito con la forza, secosì posso dire, di un fulmine. L’idea eraviolentemente e fantasticamente improbabile. Ma,come molte idee violentemente e fantasticamenteimprobabili, era degna almeno di altrettantaconsiderazione quanto una più realistica alla qualei fatti si dovessero piegare per forza.

«Sono tornato a farle qualche altra domanda, ela donna mi ha confermato che all’alba un pazienteabbastanza fuori dal comune era stato portato viadall’ospedale per essere trasferito a Woodshead.

«Mi ha confidato anche che un’altra paziente siera mostrata curiosa fino all’indecenza circa la

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sorte di quest’uomo. Questa paziente era una certasignorina Kate Schechter, e lei vorrà convenirecon me, signorina Schechter, che i miei metodi dinavigazione danno i loro frutti. Può darsi che nonsia andato dove avevo intenzione di andare, mapenso di essere dove avevo bisogno di arrivare.»

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Dopo circa mezz’ora un vigoroso meccanicodell’autorimessa locale arrivò con un carroattrezzi, una fune da traino e un figlio. Esaminata lasituazione, rispedì figlio e carro attrezzi versoaltra destinazione, attaccò la fune alla ormaidefunta automobile di Kate, e con questa al trainoripartì per l’officina.

Kate tacque per un minuto o due, poi esclamò:«Non l’avrebbe fatto se non fossi stataamericana».

Il garagista aveva loro raccomandato unpiccolo pub nei dintorni dove li avrebbe raggiuntiuna volta effettuata la diagnosi sulla Citroën. Visto

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che la Jaguar aveva perso solo il fanalinoanteriore destro e che Dirk sosteneva checomunque lui non girava quasi mai a destra, i duepercorsero in macchina la breve distanza che liseparava dal pub. Quando Kate salì, con una certariluttanza, sulla Jaguar, trovò il libro di HowardBell che Dirk aveva sottratto a Sally Mills, e se neimpadronì. Qualche minuto dopo, entrando nelpub, stava ancora cercando di capire se l’avevagià letto o no.

Il pub combinava le caratteristichetradizionalmente inglesi delle medagliette dibronzo, della formica e della musoneria. Lamusica di Michael Jackson che provenivadall’altro bar si mescolava alla lugubreintermittenza della macchina lavabicchieri creandoun’atmosfera sonora che si intonava allaperfezione allo squallore dell’ambiente.

Dirk pagò due drink, uno per sé e uno per Kate,e la raggiunse al piccolo tavolo d’angolo doveaveva cercato rifugio alla grassa e sbracata ostilitàdel bar.

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«L’ho letto» annunciò Kate, che era riuscita asgualcire gran parte di Corri come il diavolo. «Oalmeno l’ho cominciato e ho letto un paio dicapitoli. Sì, sarà stato mesi fa. Davvero non soperché leggo ancora i suoi libri. È chiaro che ilsuo editore non lo fa.» Poi guardò Dirk. «Nonavrei mai immaginato che fosse il suo genere.Almeno dal poco che la conosco.»

«Non lo è» rispose Dirk. «Io, ehm, l’ho presoper sbaglio.»

«È quello che dicono tutti» affermò Kate. «Nonera niente male,» aggiunse «se a uno piace quelgenere di cose. Mio fratello, che lavoranell’editoria a New York, dice che Howard Bell èdiventato molto strano in questi ultimi tempi. Ho lasensazione che tutti siano un po’ intimoriti da lui, eche la cosa non gli dispiaccia. A quanto parenessuno ha il fegato di dirgli che dovrebbe tagliarei capitoli dal decimo al ventisettesimo compreso.E tutte quelle sciocchezze sulle capre. La miateoria è che lui vende milioni di copie solo perchénessuno legge mai i suoi libri. Se tutti quelli che li

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comprano li leggessero davvero, nessuno siprenderebbe mai il disturbo di acquistare ilsuccessivo, e la sua carriera finirebbe.»

Allontanò da sé il libro.«Comunque sia,» disse «lei mi ha spiegato con

molta sagacia il motivo per cui io sono andata aWoodshead, ma non mi ha ancora detto cosa ciandava a fare lei.»

Dirk si strinse nelle spalle. «Per vederecom’era» rispose vago.

«Ah sì? Bene, le risparmierò la fatica. È unposto orribile.»

«Me lo descriva. Anzi, comincidall’aeroporto.»

Kate diede una vigorosa sorsata al suo BloodyMary e rimase qualche istante silenziosa arimuginare, mentre la vodka marciava a grandipassi nel suo stomaco.

«Vuole sapere anche dell’aeroporto?»«Sì.»Kate tracannò il resto del suo drink.«Ce ne vorrà un altro, allora» annunciò

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mettendogli davanti il bicchiere vuoto.Dirk affrontò con coraggio gli occhi da insetto

del barista e ritornò dopo un paio di minuti colrifornimento per Kate.

«Ok» disse Kate. «Comincerò con la gatta.»«Che gatta?»«La gatta di cui la mia vicina avrebbe dovuto

occuparsi in mia assenza.»«Che vicina?»«Quella che è morta.»«Capisco» disse Dirk. «Cosa ne direbbe se

stessi zitto e la lasciassi raccontare?»«Sì,» fece Kate «penso che sarebbe una buona

idea.»Kate raccontò gli avvenimenti degli ultimi

giorni, o almeno quelli di cui era consapevole,quindi proseguì con le sue impressioni suWoodshead.

Malgrado l’avversione che Kate manifestava,Woodshead sembrava a Dirk esattamente il tipo diluogo in cui gli sarebbe piaciuto andare a vivereuna volta in pensione, magari l’indomani stesso.

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Infatti, all’interesse per l’inspiegabile, che era ilsuo vizio costante (non poteva che chiamarlo così,e talvolta ribellarvisi con l’esasperazione di undrogato), Woodshead associava un soddisfattoautocompiacimento, che era un vizio cui Dirkavrebbe voluto aspirare se solo se lo fosse potutopermettere.

Infine Kate riferì del suo sgradevole incontrocon il signor Odwin e il suo ripugnante servo, e ilrisultato fu che Dirk cadde in un accigliato silenzioper un buon minuto. Gran parte di questo minuto,in effetti, fu impiegato in un’intima lottasull’opportunità o meno di cedere al desiderio difumarsi una sigaretta. Dirk aveva da poco fattosolenne giuramento di rinunciare al fumo, esosteneva regolarmente una solenne battaglia conse stesso che regolarmente perdeva, per lo piùsenza rendersene conto.

Decise, trionfante, che non avrebbe fumato, eallo stesso tempo tirò fuori una sigaretta. Frugarenelle capaci tasche del soprabito per cercarel’accendino comportava innanzi tutto la necessità

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di tirare fuori la busta che aveva preso nel bagnodi Geoffrey Anstey. Dirk la posò sul tavolo vicinoal libro e accese la sua sigaretta.

«L’impiegata al check-in...» disse infine lui.«Mi ha fatto diventare matta» lo interruppe

Kate. «Svolgeva il suo lavoro come una specie diautoma. Si rifiutava di ascoltare e si rifiutava dipensare. Davvero non so dove vadano a pescarecerta gente.»

«Infatti è stata la mia segretaria» commentòDirk. «A quanto pare, in questo momento nessunosa dove pescarla.»

«Oh, mi dispiace» disse subito Kate, e restò unattimo soprappensiero.

«Immagino che lei stia per dirmi che non eraproprio un tipo così, dopotutto» proseguì. «Be’, èpossibile. Probabilmente la sua era una forma didifesa dalle frustrazioni del suo impiego. Lavorarein un aeroporto deve rendere insensibile chiunque.Penso che avrei potuto simpatizzare con lei, se nonfossi stata frustrata a mia volta. Mi spiace, non losapevo. Allora è questo che lei sta cercando di

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scoprire.»Dirk fece un cenno col capo, senza sbilanciarsi.

«Tra le altre cose» disse. E poi aggiunse: «Sonoun detective privato».

«Ah!» esclamò Kate sorpresa e un tantinoperplessa.

«La cosa la sconcerta?»«Il fatto è che ho un amico che suona il

contrabbasso.»«Ah, be’, capisco» disse Dirk.«Ogni volta che la gente lo vede alle prese con

questo strumento gli dice sempre la stessa cosa,mandandolo in bestia: “Scommetto che tipiacerebbe suonare l’ottavino”. A nessuno vienemai in mente che questa è la cosa che gli diconotutti. Stavo appunto cercando di farmi venire inmente quello che chiunque direbbe a un detectiveprivato, in modo da evitare di dirlo.»

«No, quello che succede è che tutti per unattimo hanno l’aria molto perplessa, e a lei èriuscita benissimo.»

«Mi rendo conto.» Kate apparve delusa. «Bene,

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ha qualche indizio... insomma qualche idea su cosapuò essere capitato alla sua segretaria?»

«No.» rispose Dirk «nessuna idea. Solo unpensiero vago, di cui non so bene che uso fare.»Giocherellò assorto con la sua sigaretta, e poitornò con lo sguardo al tavolo e al libro che vi eraappoggiato.

Lo prese in mano e lo esaminò, chiedendosiquale impulso lo avesse indotto a prenderlo laprima volta.

«Non so assolutamente niente di questoHoward Bell» disse.

Kate fu piuttosto sorpresa, ma anche un tantinosollevata, dal suo modo di cambiareimprovvisamente discorso.

«So solo» proseguì Dirk «che vende un saccodi copie, e che tutti i suoi libri si assomigliano.Cos’altro dovrei sapere?»

«Be’, circolano strane storie sul suo conto.»«Per esempio?»«Per esempio quello che combina nelle suite

d’albergo di mezza America. Nessuno sa niente di

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preciso, naturalmente: si limitano a pagare i suoiconti senza fare domande. Si sentono più sicuri, anon sapere. Soprattutto dopo la faccenda deipulcini.»

«Pulcini?» chiese Dirk. «Quali pulcini?»«Ecco, pare» disse Kate abbassando la voce e

sporgendosi verso di lui «pare che voglia che gliportino sempre dei pulcini vivi nella sua stanzad’albergo.»

Dirk aggrottò le sopracciglia.«E che se ne fa?» domandò.«Nessuno lo sa. Nessuno sa neanche che fine

facciano i pulcini. Nessuno li rivede mai più.Nemmeno» aggiunse, avvicinandosi ancora di piùe abbassando ulteriormente il tono della voce«nemmeno una piuma.»

Dirk si domandò se per caso lui non fosseirrimediabilmente innocente e naïf. «Insomma, lagente cosa crede che ci faccia coi pulcini?»domandò.

«Nessuno» rispose Kate «ne ha la più pallidaidea. E neppure vuole averne la minima idea. Si

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limitano a non sapere.»Kate si strinse nelle spalle e prese in mano il

libro.«L’altra cosa che David – mio fratello – dice di

lui è che ha un nome perfetto per scriverebestseller.»

«Davvero?» chiese Dirk. «Come sarebbe adire?»

«David dice che questa è la prima cosa cui ognieditore bada, quando si tratta di un autore nuovo.Non si domanda “Quello che ha scritto è valido?”o “Vale qualcosa quello che ha scritto, una voltafatta piazza pulita di tutti gli aggettivi?” ma “Il suocognome è bello e corto, e il suo nome è un po’più lungo?”. Guardi qui. “Bell” è scritto in grandilettere argentate, e “Howard” è abilmente piazzatosopra, in caratteri appena più piccoli. Un marchiodi fabbrica perfetto. Questa è magia editoriale.Con un nome così, saper scrivere o no diventa unproblema marginale. Il che, nel caso di HowardBell, è un vantaggio non da poco. Eppure è unnome che non ha nulla di speciale se lo si scrive

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normalmente, come qui.»«Cosa?» domandò Dirk.«Qui, su questa busta.»«Dove? Mi faccia vedere.»«Non è il suo nome, questo qui, cancellato?»«Santo Cielo, ha ragione!» esclamò Dirk

esaminando con attenzione la busta.«Evidentemente non l’ho riconosciuto, scritto cosìa mano.»

«Allora si tratta di qualcosa che ha a che farecon lui?» chiese Kate, prendendo in mano la bustaed esaminandola da tutte le parti.

«Non so di cosa si tratti di preciso» risposeDirk. «Ha qualcosa a che fare con un contratto e,forse, anche con un disco.»

«Si vede che ha a che fare con un disco.»«Come si fa a vederlo?» chiese Dirk, punto sul

vivo.«Bene, questo nome qui è Dennis Hutch, non è

vero? Lo vede?»«Oh sì, sì, lo vedo» constatò Dirk, esaminando

a sua volta la busta. «Ehm, dovrei sapere di chi si

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tratta?»«Be’,» disse lentamente Kate «dipende se lei è

vivo o no, suppongo. È il presidente della AriesRising Record Group. Meno famoso del Papa,certo, ma... Sa chi è il Papa, vero?»

«Sì, sì» rispose impaziente Dirk. «Quel tiziocoi capelli bianchi.»

«Proprio lui. Pare quasi che sia l’unica personadi una certa importanza alla quale non sia stataprima o poi indirizzata questa lettera. Qui c’è StanDubcek, il presidente della Dubcek, Danton,Heidegger, Draycott. So che la ARRGH! è lorocliente.»

«La...?»«ARRGH! Aries Rising Record Group Holdings.

Questa società ha fatto la loro fortuna.»Kate guardò Dirk.«Lei ha l’aria» affermò «di uno che ne sa poco

di industria discografica o di agenziepubblicitarie.»

«Ho questo onore» rispose Dirk, chinandoelegantemente il capo.

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«E allora cosa ci fa con questa?»«Quando riuscirò ad aprirla lo saprò» rispose

Dirk. «Non ha per caso un coltello con sé?»Kate scosse la testa.«Allora, chi è questo Geoffrey Anstey?»

domandò. «È l’unico a non avere il nomecancellato. È un suo amico?»

Dirk impallidì un poco e non rispose subito.Poi disse: «Quello strano personaggio di cui mi haparlato, il tipo di “Qualcosa di strano aWoodshead”... Mi ripeta quello che le ha detto».

«Mi ha detto: “Anch’io ho un vantaggio su dilei, signorina Schechter”.» Kate tentò di farespallucce.

Dirk rimase un attimo perplesso, cercando dimettere ordine nei suoi pensieri.

«Penso che sia possibile» proclamò infine «chelei sia in qualche modo in pericolo.»

«Crede sia possibile che qualche mina vagantepossa scontrarsi con me per la strada? Questo tipodi pericolo?»

«Forse peggiore.»

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«Ah sì?»«Sì.»«E cosa glielo fa credere?»«La cosa non mi è ancora chiara» rispose Dirk

corrugando le sopracciglia.«Molte delle idee che ho in questo momento

hanno a che fare con cose che sono decisamenteimpossibili, così esito un po’ a comunicarle. Etuttavia, sono gli unici pensieri che mi vengono.»

«Io ne adotterei degli altri, invece» proposeKate. «Qual era il principio di Sherlock Holmes?“Quando hai scartato l’impossibile, alloraqualsiasi cosa ti rimanga, per improbabile che sia,deve essere la verità.”»

«Non sono assolutamente d’accordo» ribattéDirk con foga. «L’impossibile ha spesso in sé unasorta di integrità che manca a ciò che è soltantoprobabile. Quante volte le sarà capitato di trovarsialle prese con spiegazioni apparentementerazionali, che funzionano da tutti i punti di vistatranne uno, e cioè il fatto che la cosa èirrimediabilmente improbabile? Il suo istinto le

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dice: “Sì, ma lui o lei questo non lo farebberomai”.»

«Be’, in effetti mi è capitato oggi» disse Kate.«Ah sì!» esclamò Dirk, dando sul tavolo una

manata che fece tremare i bicchieri. «La suabambina sulla sedia a rotelle... un esempioperfetto. L’idea che lei possa ricevere dal nulla lequotazioni di borsa del giorno prima è una cosachiaramente impossibile, eppure deve essere così,perché l’idea che stia tessendo una laboriosamacchinazione che non le è di nessun vantaggio èirrimediabilmente improbabile. La prima ideaimplica che ci sono cose che non siamo in grado dicapire, e Dio solo sa quante ce ne sono. Laseconda, però, va contro qualcosa di fondamentalee di umano che siamo in grado di capire. Perciòdobbiamo considerarla con molto sospetto, lei e lasua capziosa razionalità.»

«Lei però non vuole dirmi quello che pensa.»«No.»«Perché no?»«Perché è ridicolo. Comunque, penso che lei

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sia in pericolo. Penso che stia correndo unpericolo spaventoso.»

«Magnifico! Allora che cosa mi suggerisce difare?» chiese Kate, bevendo un sorso del suosecondo drink, che fino a quel momento erarimasto praticamente intatto.

«Suggerisco» propose Dirk serio «che lei tornia Londra e che passi la notte a casa mia.»

Kate emise un riso strozzato e dovette cercarsiun fazzolettino per ripulirsi dal succo di pomodorocon cui si era tutta spruzzata.

«Mi scusi, ma cosa c’è di tanto strano?» chieseDirk, preso un po’ alla sprovvista.

«È il tipo di abbordaggio piùmeravigliosamente noncurante che mi sia maicapitato.» Kate gli sorrise. «Mi dispiace ma larisposta è un sonoro “no”.»

Kate trovava che lui fosse interessante edivertente nella sua eccentricità, ma ancheorrendamente poco appetibile.

Dirk si sentì molto goffo. «Temo ci sia stato unterribile equivoco» disse «mi permetta di

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spiegarle...»Fu interrotto dall’improvviso arrivo del

meccanico, che veniva dall’autorimessa portandonotizie dell’auto di Kate.

«Riparata» esclamò. «In effetti non c’era altroda sistemare che il paraurti. Niente di nuovo,voglio dire. Lo strano rumore che sentiva era soloil motore. Ma vedrà che andrà bene. Deve solofarlo imballare, innestare la frizione e poiaspettare un pochino più di quanto aspetterebbe disolito.»

Kate lo ringraziò, un po’ sostenuta, per il suoconsiglio e poi insisté sull’opportunità che fosseDirk a pagare i 25 dollari del conto.

Fuori, nel parcheggio, Dirk pressò di nuovoKate perché si convincesse a restare con lui, malei fu irremovibile. Tutto ciò che le occorreva,disse, era una buona nottata di sonno, e il mattinodopo tutto sarebbe stato luminoso, chiaro eaffrontabile.

Dirk volle che almeno si scambiassero i numeridi telefono. Kate accettò, a patto che Dirk trovasse

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un’altra strada per ritornare a Londra e smettessedi tallonarla.

«Sia molto prudente» le gridò dietro Dirkquando Kate con la sua macchina sferragliò vialungo la strada.

«Lo sarò,» gridò a sua volta Kate «e se succedequalcosa di impossibile, le prometto che sarà ilprimo a saperlo.»

Per qualche istante i gialli sobbalzidell’automobile baluginarono debolmente nellaluce che trapelava dalle finestre del pub e sistagliarono contro il gibboso grigiore del cielonotturno, che presto li ingoiò.

Dirk cercò di seguirla, ma la sua macchina sirifiutò di partire.

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Nuvole sempre più basse e pesanti avvolgevano ilpaesaggio ammassandosi in lugubri cumuli quandoDirk, allarmato oltre ogni dire, dovette chiamaredi nuovo il meccanico. Questa volta l’uomo cimise di più ad arrivare col suo carro attrezzi, equando infine lo fece era sbronzo e di cattivoumore.

Commentò la situazione di Dirkabbandonandosi a scoppi gutturali di risa,armeggiò per aprire il cofano e subissò Dirk disordi borbottii a proposito di collettori, di pompe,di alternatori e di storni, rifiutando con decisionedi pronunciarsi sulla possibilità o meno di riuscire

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a far ripartire la macchina per quella sera.Dirk non poté ottenere una risposta sensata, o

almeno comprensibile, su ciò che aveva causatoscompiglio nell’alternatore, disturbiall’alimentazione del carburante, rottura delmotorino d’avviamento e sregolamento della fase.

Alla fine capì che, secondo il meccanico, unafamiglia di storni, avendo fatto a un certo momentoil nido in una parte sensibile degli ingranaggi delmotore, era poi miserabilmente perita trascinandonella rovina anche alcune parti sensibili delmotore stesso, e fu a questo punto che Dirkcominciò a riflettere disperatamente per escogitareuna soluzione.

Notò che il carro attrezzi del meccanico eraparcheggiato lì vicino col motore acceso, e decisedi svignarsela con quello. Essendo un corridoreappena meno lento e scalcinato del meccanico,riuscì a rendere operativo il suo piano con unminimo di difficoltà.

Si immise caracollando sul sentiero, siallontanò nella notte e, dopo tre miglia, parcheggiò

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il veicolo lungo la strada. Lasciò i fari accesi,sgonfiò le ruote e si nascose dietro un albero.Dopo una decina di minuti la sua Jaguar uscì comeun bolide da una curva, superò il carro attrezzi,frenò bruscamente e fece un selvaggio dietrofront.Il meccanico aprì la portiera, e si lanciò fuori areclamare la sua proprietà, dando così a Dirkl’opportunità che aspettava di balzare fuori dadietro l’albero per reclamare la sua.

Dirk fece stridere significativamente le ruotedella Jaguar e si allontanò in una sorta di ferocetrionfo, tormentato tuttavia da un’ansia cui nonriusciva a dare un nome o una forma.

Kate, nel frattempo, aveva raggiunto la fiumanadi fioche luci giallastre che l’avrebbe portataattraverso i sobborghi occidentali di Acton eEaling fin nel cuore di Londra. Avanzò condifficoltà lungo il cavalcavia della Westway epoco dopo si diresse a nord in direzione diPrimrose Hill e di casa sua.

Le piaceva sempre molto guidare costeggiandoil parco, le nere sagome degli alberi nella notte la

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calmavano e le facevano desiderare la tranquillitàdel suo letto.

Parcheggiò nel posto più vicino a casa sua cheriuscì a trovare, a una trentina di metri di distanza.Scese dall’automobile ed evitò accuratamente dichiudere a chiave le portiere. Kate non lasciavamai oggetti di valore in macchina, e non lesembrava opportuno che qualcuno dovesserompere qualcosa prima di scoprirlo. L’auto erastata rubata due volte, ma in entrambi i casi erastata ritrovata una ventina di metri più in là.

Non andò dritta a casa e si diresse invece nelladirezione opposta per comprare un po’ di latte edei sacchetti della spazzatura al negoziettosull’angolo. Convenne col proprietario, unpachistano dalla faccia gentile, che, sì, avevaun’aria molto stanca e che avrebbe fatto bene adandare a letto presto, ma quando tornò sui suoipassi fece un’altra piccola deviazione perraggiungere il parco e, appoggiandosiall’inferriata, guardare dentro la sua oscurità perqualche minuto e respirare un po’ della fredda aria

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della notte.Alla fine si avviò verso casa. Svoltò nella sua

strada e, proprio mentre passava sotto il primolampione, la luce tremolò e si spense, lasciandolain una piccola pozza di oscurità.

Questo è il genere di cose che ti mettono incrisi.

Si dice che non ci sia niente di sorprendente nelfatto che, per esempio, qualcuno all’improvvisopensi a una persona a cui non ha pensato per anni epoi il giorno dopo scopra che questa persona èappena morta. C’è sempre un sacco di gente che daun giorno all’altro si ricorda di altra gente allaquale non ha pensato per anni, e c’è sempre unsacco di gente che muore. In una popolazione delledimensioni, poniamo, dell’America, statisticavuole che questa particolare coincidenza siverifichi almeno dieci volte al giorno, ma non perquesto è meno inquietante per chi ne fal’esperienza.

Allo stesso modo, ci sono sempre dellelampadine che si fulminano in qualche lampione

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stradale, e certe volte proprio mentre qualcuno stapassandoci sotto. Eppure questa cosa mette in crisila persona in questione, tanto più se le succedeesattamente la stessa cosa mentre passa sotto illampione successivo.

Kate rimase inchiodata al suolo.Se può capitare una coincidenza, si disse,

allora ne può capitare anche un’altra. E se succedeche una coincidenza capiti subito dopo un’altracoincidenza, allora si tratta di una puracoincidenza. Non c’era proprio nulla di cuiallarmarsi per il fatto che le lampadine di duelampioni si fossero fulminate. In fondo lei sitrovava in una strada perfettamente eamichevolmente normale, circondata da caseilluminate. Kate guardò la costruzione che le erapiù vicina, sfortunatamente nello stesso momentoin cui si spegnevano le luci della finestra sullafacciata. Questo doveva essere successo perchégli abitanti della casa avevano scelto proprio quelmomento per andarsene in un’altra stannza, maanche se questo serviva benissimo a dimostrare

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quanto straordinaria possa essere una coincidenza,non servì a sollevare il morale di Kate.

Il resto della strada era ancora immerso in unadebole luce gialla. Solo lo spazio immediatamenteintorno a lei era divenuto all’improvviso buio. Lapozza di luce successiva si trovava solo a qualchemetro di distanza, dritto davanti a lei. Kate tirò ungran respiro, cercò di riprendere il controllo di sestessa e fece qualche passo avanti, raggiungendo ilcentro della pozza di luce nell’attimo esatto in cuianch’essa si spegneva.

Anche gli abitanti delle due case che nelfrattempo Kate aveva superato avevanoevidentemente scelto proprio quel momento perlasciare le stanze che davano sulla facciata, e cosìgli inquilini delle case di fronte.

Forse era appena finita una trasmissione digrande richiamo. Doveva essere così. Tutti sistavano alzando e spegnevano la televisione e laluce nello stesso momento, e il conseguente sbalzodi tensione aveva fatto fulminare tre lampadine.

Quattro.

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Kate si fermò e restò assolutamente immobilesotto il lampione spento. In altre case si stavanospegnendo le luci. Ciò che le sembròparticolarmente allarmante fu che questosuccedeva nell’attimo preciso in cui le guardava.

Un’occhiata e pop.Provò ancora.Un’occhiata e pop.Ogni casa che guardava diveniva

improvvisamente buia.Un’occhiata e pop.Con un improvviso brivido di paura, Kate capì

che doveva smettere di guardare le case cheancora erano illuminate. Tutte le razionalizzazioniche aveva cercato di elaborare le giravanoimpazzite per la testa supplicando di essereliberate, e Kate le accontentò. Cercò di tenere gliocchi fissi a terra per paura di far restare al buiotutta la strada, ma non poté evitare di lanciarequalche minuscola sbirciatina per vedere se lacosa funzionava.

Un’occhiata e pop.

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Costrinse il suo sguardo a non spostarsi dallostretto sentiero ai suoi piedi. Ormai gran partedella strada era al buio.

Restavano ancora tre lampioni tra lei e ilportone di casa sua. Sebbene tenesse gli occhibassi, le sembrò di scorgere con la codadell’occhio delle luci accese nell’appartamentosotto il suo.

Lì abitava Neil. Non riusciva a ricordarsi comesi chiamava di cognome, ma era uno che part timesuonava il contrabbasso e part time faceval’antiquario, sempre pronto a darle consigli diarredamento non richiesti, e che per di più rubavail suo latte – ragion per cui i suoi rapporti con luierano rimasti a un livello abbastanza freddo. Inquel preciso momento, però, Kate avrebbe pagatoperché lui fosse lì a dirle cosa c’era che nonandava nel suo divano, e a rassicurarla che le sueluci non si sarebbero spente quando lei avessesollevato gli occhi dal selciato, con le sue trepozze di luce regolarmente intervallate lungo ilcammino che doveva percorrere.

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Provò un attimo a voltarsi per guardare lastrada già fatta. Tutto era oscurità, e sfumava nelletenebre del parco che ora le appariva non piùrassicurante ma minaccioso, e che la suaimmaginazione trasformava in un orrendoammasso di radici spesse e nodose e di neri esinistri rifiuti imputriditi.

Si girò di nuovo, sempre costringendosi atenere gli occhi bassi.

Ancora tre pozze di luce.Le lampadine dei lampioni non si spegnevano

quando le guardava, solo quando ci passava sotto.Kate serrò le palpebre e cercò di immaginare

esattamente dove sarebbe stata la lampadina dellampione successivo, in alto davanti a lei. Sollevòla testa e con decisione riaprì gli occhi, guardandodritto l’incandescenza aranciata che brillava dietrolo spesso vetro del lampione.

Con gli occhi sempre fissi sulla lampadina,tanto che il filamento incandescente si mise aballarle bruciante nella retina, Kate si spinsecautamente avanti, passo dopo passo, cercando di

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imporle con la propria volontà l’ordine dirimanere accesa mentre lei si avvicinava. La lucecontinuava a splendere.

Ancora un altro passo. La luce continuava asplendere. Ora vi si trovava praticamente sotto, eallungava il collo per tenerla a fuoco.

Mosse ancora un altro passo, e vide ilfilamento dentro il vetro prima tremolare e subitodopo spegnersi, lasciandole negli occhi unbaluginio impazzito.

Allora abbassò gli occhi e cercò di guardarefisso davanti a sé, ma forme selvagge sbucavanoda tutte le parti e Kate capì che stava perdendo ilcontrollo dei suoi nervi. Si diresse correndo versoil lampione successivo, e anche questa volta il suoarrivo coincise con un’improvvisa oscurità. Katesi fermò ansante, sbattendo le palpebre, cercandoancora una volta di calmarsi e di rimettere a fuocola vista. Guardando verso il successivo lampionele sembrò di vedere una figura ferma sotto di esso.Era una sagoma imponente, profilata da guizzantiombre arancioni, sulla cui testa si ergevano due

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grandi corna.Con febbrile intensità, Kate frugò con gli occhi

nella fluttuante oscurità e improvvisamente gridòrivolta alla figura: «Chi è là?».

Ci fu un momento di silenzio e poi una voceprofonda le rispose: «Ha qualcosa per tirarmi viaqueste schegge di pavimento dalla schiena?».

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Ci fu un’altra pausa, di tipo diverso e un po’ piùtesa.

Fu una pausa lunga. Una pausa che se ne stavalì sospesa, alla nervosa ricerca della direzione daprendere per poter essere interrotta. La stradaimmersa nell’oscurità assunse un aspetto dimessoe sulla difensiva.

«Cosa?» gridò Kate di rimando, rivolta allafigura. «Ho detto... cosa?»

L’imponente sagoma si mosse. Kate nonriusciva ancora a distinguerla bene perché nei suoiocchi danzavano ombre azzurrine, impresse dallaluce arancione.

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«Sono stato» disse la figura «incollato alpavimento. Mio padre...»

«Lei... è lei che...» Kate fremeva di rabbiaincoerente «è lei il responsabile... di tuttoquesto?» Con un gesto furibondo della manoindicò la strada, a testimoniare l’incubo che avevaappena vissuto.

«È importante che lei sappia chi sono.»«Ah sì?» esclamò Kate. «Bene, me lo dica

allora, così posso andare dritta alla polizia e farlaarrestare per violazione premeditata di una cosa...o dell’altra. Per intimidazione. Per interferenzacon...»

«Io sono Thor. Io sono il Dio del Tuono. Il Diodella Pioggia. Il Dio delle Nuvole torreggianti. IlDio del Fulmine. Il Dio dell’Acqua che scorre. IlDio delle Particelle. Il Dio delle Forze cheformano e costringono. Il Dio del Vento. Il Diodelle Messi che maturano. Il Dio del martelloMjollnir.»

«Ah sì?» esclamò Kate furibonda. «Bene, nondubito che se lei avesse scelto un momento

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migliore per illustrarmi il catalogo l’avrei anchetrovato interessante, ma ora mi fa solo una granrabbia. Riaccenda quelle maledette luci!»

«Io sono...»«Riaccenda le luci, ho detto!»Tutte le luci dei lampioni tornarono, timide, a

splendere e le finestre delle case e i televisori siriaccesero tutti dolcemente. Subito dopo, lalampadina sopra la testa di Kate si fulminò dinuovo. Lei gli scoccò un’occhiata minacciosa.

«Era vecchia e malandata» spiegò lui.Lei continuò a fissarlo.«Guardi,» disse quello «ho qui il suo

indirizzo». Le porse il pezzo di carta che lei gliaveva dato all’aeroporto, come se questospiegasse tutto e sistemasse ogni cosa.

«Io...»«Indietro!» gridò lui, sollevando le braccia

all’altezza del viso.«Cosa?»Con un sibilo acuto, un’aquila fendette l’aria

piombando dalle profondità del cielo notturno, con

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gli artigli sfoderati, pronti a ghermire. Thor reagìmenando colpi finché il grande uccello rinculò, sigirò, si abbatté quasi al suolo, poi si riprese, e congrandi e lenti battiti d’ala si librò nell’aria e siappollaiò in cima al lampione. Afferrandosi a essocon gli artigli vi si accomodò, facendo vibrare ilpalo sotto la sua stretta.

«Vattene!» gridò Thor all’aquila.Il rapace se ne stava sul lampione e lo fissava.

Una creatura mostruosa, resa ancora più mostruosadalla luce arancione sulla quale stava appollaiata,che proiettava grandi ombre fluttuanti sulle casecircostanti; sulle ali aveva strane macchiecircolari. Erano macchie, queste, che Kate aveval’impressione di aver già visto, forse solo in unincubo; del resto, non era affatto sicura che nonstesse vivendo un incubo in quel preciso momento.

Non c’era dubbio che avesse trovato l’uomoche stava cercando. La stessa figura imponente, glistessi occhi nordici, lo stesso sguardo di arroganteesasperazione e leggero smarrimento, solo chequesta volta i suoi piedi calzavano grandi stivali

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di cuoio, dalle spalle gli pendevano grandi pelli,cinghie e frange, e sulla testa aveva un grandeelmo cornuto; inoltre, questa volta la suaesasperazione non era rivolta all’addetta al check-in dell’aeroporto ma a una grande aquilaappollaiata su un lampione nel bel mezzo diPrimrose Hill.

«Vattene!» gridò ancora lui. «La cosa va al dilà dei miei poteri. Tutto quello che potevo farel’ho fatto. La tua famiglia è ben sistemata. Nonposso fare altro per te. Io stesso sono debole eimpotente.»

Kate vide con orrore che c’erano tre profondeincisioni sull’avambraccio sinistro dell’omone, làdove l’aquila aveva fatto penetrare i suoi artiglilacerandogli la pelle. Il sangue ne fuoruscivacopioso, come pane che lieviti fuori da una teglia.

«Vattene!» gridò ancora lui. Usando la manodestra a mo’ di spatola, l’uomo si deterse il sanguee lanciò le gocce contro l’aquila che si tiròindietro battendo le ali ma mantenendo nelcontempo la presa. Improvvisamente l’omone fece

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un balzo in aria e rimase aggrappato in cima alpalo che, per l’effetto combinato di quei due pesi,cominciò a dondolare pericolosamente. Con altestrida, l’aquila si avventò col becco contro di luiche cercava di scalzarla dalla presa con ampimovimenti dell’unico braccio libero.

Una porta si aprì. Era quella della casa di Kate,e un uomo con occhiali cerchiati di grigio e un belpaio di baffi si guardò intorno. Era Neil, il vicinodel piano di sotto, tutto incavolato.

«Insomma, credo davvero...» cominciò.Tuttavia fu subito chiaro che Neil non sapeva ineffetti cosa credere, per cui tornò a rintanarsidentro, insieme alla sua insoddisfazione e alla suaincavolatura.

L’omone si strinse nelle braccia, e dandosi unaforte spinta si librò nell’aria, atterrando, con unlieve ma controllato ondeggiamento, sul lampionesuccessivo, che si piegò appena sotto il suo peso.Vi si accovacciò fissando l’aquila, che lo fissò.

«Vattene!» gridò ancora, brandendo il braccioverso di lei.

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«Gaarh!» stridette l’aquila di rimando.Con un altro movimento del braccio, l’uomo

estrasse da sotto le sue pelli un grande martellocon un manico corto e prese a farlo rimbalzareeloquentemente da una mano all’altra. La testa delmartello era costituita da un pezzo di ferrorozzamente sagomato, delle dimensioni più o menodi una pinta di birra in un grande boccale di vetro,e il manico era un solido, tarchiato e stagionatopezzo di quercia in fondo al quale era assicuratauna cinghia di cuoio.

«Gaaarrrh!» stridette ancora l’aquila, maguardò il martello con occhi sospettosi. MentreThor cominciava a far ruotare il martello, l’aquilaspostava nervosa il suo peso da una zampaall’altra, al ritmo delle rotazioni del martello.

«Vattene!» ripeté Thor, più calmo ma anche piùminaccioso. Si drizzò in tutta la sua altezza sopraal lampione e fece ruotare il martello in grandicerchi, sempre più velocemente. All’improvvisolo scagliò contro l’aquila. Nello stesso istante unaformidabile scarica di elettricità ad alta tensione

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uscì dal lampione su cui questa era appollaiata, ela costrinse a levarsi in volo emettendo alte strida.Il martello atterrò innocuo sotto il lampione,rimbalzò in aria e sfrecciò via nell’oscurità delparco mentre Thor, liberato di quel peso, traballòe sgambettò in cima al suo lampione, ruotò su sestesso e ritrovò l’equilibrio.

Sbatacchiando all’impazzata le grandi alinell’aria, anche l’aquila riprese il controllo di sestessa, si levò in volo, effettuò un ultimo attacco inpicchiata contro Thor, attacco che il dio evitòchinandosi all’indietro sul lampione, e poi siallontanò sempre più nel cielo notturno, nel qualedopo poco divenne solo una macchia scura eindistinta prima di sparire definitivamente.

Il martello ricadde dal cielo, sprigionò scintillenell’attrito prodotto dal ferro contro il selciato,rimbalzò ancora due volte in aria e ripiombò conla testa per terra accanto a Kate, il manicodelicatamente appoggiato alla gamba di lei.

Una vecchietta che era rimasta in pazienteattesa insieme al suo cane nel cono d’ombra del

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lampione che si era spento, giudicando conragione che il putiferio fosse finito, riprese, comese nulla fosse, la sua passeggiata. Thor attesedocilmente che se ne andassero e quindi siavvicinò a Kate che, ferma e a braccia conserte, lofissava. Dopo tutto il casino degli ultimi due o treminuti, lui sembrava non avere la più pallida ideadi cosa dire, così si limitò a guardare davanti a sé,soprappensiero.

Kate ebbe la netta sensazione che pensare, perquell’uomo, fosse un’operazione del tutto distintadalle altre, un’attività che richiedeva un propriospazio, e che non poteva facilmente affiancarsi adaltre, come camminare, parlare o acquistare unbiglietto d’aereo.

«Sarà meglio che diamo un’occhiata al suobraccio» disse lei precedendolo sui gradini dicasa sua. Lui la seguì, docile.

Aperto il portone, Kate si trovò di fronte Neilche, la schiena appoggiata al muro, fissava conesplicita severità un distributore automatico diCoca-Cola collocato contro il muro di fronte, che

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ingombrava buona parte dell’atrio.«Non so proprio cosa ne faremo di questo

affare, davvero non lo so» disse Neil.«Cosa ci fa qui?»«Volevo chiederti la stessa cosa» rispose Neil.

«Non so davvero come potrai portarlo di sopra.Non vedo proprio come sia possibile, per esserefranco. E, diciamocelo chiaramente, non vedocome possa piacerti, se anche riuscirai a portarlodi sopra. D’accordo che è una roba molto modernae molto americana, ma pensaci: con quel beltavolo francese in ciliegio e col tuo divano – chediventerebbe una meraviglia senza quella foderaCollier Campbell, come io non smetto mai diripeterti, solo che non mi vuoi dar retta –,insomma io non vedo proprio come ci possa starbene, a buon conto. E non sono nemmeno sicuro dipotertelo permettere, voglio dire che è un oggettomolto pesante, e tu sai quello che ti ho sempredetto sui pavimenti di questa casa. Ci penserò su,capisci, bisognerà proprio che ci rifletta.»

«Sì, Neil, ma cosa ci fa qui?»

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«Be’, l’ha portata qui il tuo amico un’oretta fa.Non so dove si sia allenato, ma non midispiacerebbe fare una capatina nella sua palestra.Io gli ho detto che tutta la faccenda mi sembravamolto problematica ma lui ha tanto insistito che gliho anche dovuto dare una mano. Devo dire, però,che dovremo ripensare un momentino a tutta lafaccenda. Ho chiesto al tuo amico se gli piacevaWagner ma non mi ha dato una risposta moltochiara. Così, non so, che intenzioni hai perquest’affare?»

Kate fece un lungo respiro. Suggerì al suoingombrante ospite di salire le scale, dicendogliche l’avrebbe raggiunto subito. Thor si avviòpesantemente, goffa e assurda sagoma che saliva lescale.

Neil guardò Kate dritto negli occhi, cercando dicapire cosa stesse succedendo, ma Kate eraassolutamente impenetrabile.

«Mi dispiace, Neil» disse Kate, risoluta. «Cene sbarazzeremo. C’è stato un equivoco. Lo faròportar via domani.»

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«Sì, d’accordo, molto bene,» rispose Neil«ma... e io? Capisci il mio problema, non è vero?»

«No, Neil, non capisco.»«Be’, io ho portato questa... roba fin qui, tu

porti quella... persona di sopra, e tutto questocomporta un totale sconvolgimento.»

«Posso fare qualcosa per migliorare lasituazione?»

«Be’, non è così facile, non trovi? Voglio direche, secondo me, dovresti rifletterci un po’ sopra.Riflettere su tutto questo, dico. Tu mi hai detto chete ne andavi. Questo pomeriggio ho sentitoscorrere l’acqua del bagno. Cosa dovevo pensare?E dopo che ti eri data da fare per la gatta, e sai chenon voglio aver niente a che fare con i gatti.»

«Lo so, Neil. È per questo che ho chiesto allasignora Grey di occuparsene.»

«Già, e guarda cosa le è successo. È morta diinfarto. Il signor Grey è rimasto sconvolto,credimi.»

«Non penso che ci sia una relazione col fattoche ho chiesto loro di tenermi la gatta.»

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«Be’, tutto quello che posso dire è che il signorGrey è davvero sconvolto.»

«Certo, Neil, gli è morta la moglie!»«Be’, io non sto dicendo proprio niente. Dico

solo che dovresti rifletterci un poco. E cosadiavolo faremo di questa roba?» aggiunse,tornando a fissare la sua attenzione sul distributoredi Coca-Cola.

«Ti ho detto che mi occuperò di farlo portar viadomani mattina, Neil» rispose Kate. «Sareifelicissima di restarmene qui a gridare e adiscutere, se pensi che sia di qualche utilità, ma...»

«Senti, bellezza, sto solo cercando di fare ilpunto della situazione. E spero anche che nonfacciate troppo rumore, di sopra, perché staseradevo esercitarmi, e sai che quando faccio musicaho bisogno di silenzio per concentrarmi.» Neilscoccò un’occhiata eloquente a Kate da sopra isuoi occhiali e sparì nel suo appartamento.

Kate rimase immobile, contò fino a dieci –almeno per quel che riusciva a ricordare – e poicominciò a salire le scale sulla scia del Dio del

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Tuono, sentendo di non avere l’umore giusto néper la meteorologia, né per la teologia. La casacominciò a rintronare e a vibrare sotto le note delmotivo conduttore della Cavalcata delleValchirie, suonata da un contrabbasso FenderPrecision.

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Mentre avanzava lungo Euston Road, nel belmezzo di un ingorgo di un’ora di punta che,iniziato nei tardi anni Settanta, alle dieci meno unquarto di quel giovedì sera non dava il minimosegno di volersi decongestionare, Dirk ebbel’impressione di aver visto con la codadell’occhio qualcosa di familiare.

Era stato il suo subconscio a suggerirglielo –quella parte indisponente del cervello di unindividuo che non risponde mai alle domande, masi limita a dare significativi colpetti di gomito epoi si siede a borbottare per conto suo, senza dirnulla.

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“Be’, è ovvio che ho visto qualcosa difamiliare” mormorò Dirk al suo subconscio.“Percorro questa dannata strada venti volte almese. Saprei riconoscere ogni fiammifero spentobuttato per terra. Non potresti essere un po’ piùpreciso?” Il suo subconscio non accettòprovocazioni e restò in silenzio. Non aveva nienteda aggiungere. Del resto, probabilmente, la cittàera piena di furgoni grigi. Niente di significativo.

«Dove?» ruggì Dirk a se stesso, girandosi diqua e di là sul suo sedile. «Dove ho visto unfurgone grigio?»

Niente.Era talmente accerchiato dal traffico che non

avrebbe potuto andare in nessuna direzione, menoche mai in avanti. Schizzò fuori dall’auto ecominciò a farsi strada a gomitate in sensocontrario a quello di marcia tra le macchinebloccate nell’ingorgo, emergendo ogni tanto percercare di vedere dove, eventualmente, potevaaver scorto un furgone grigio. Se mai gli eracapitato di vederlo, ora quello si teneva alla larga.

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Il suo subconscio se ne stava seduto e non dicevanulla.

Il traffico era ancora fermo, cosicché Dirkcercò di spingersi ancora più indietro, ma fubloccato da un grosso pony express che avanzavafacendosi strada su una grintosa Kawasaki. Dirkingaggiò un breve alterco col corriere, ma perse lapartita perché quello non poté sentire la sua partedi contumelie; alla fine Dirk rinunciò a proseguiree ritornò sui suoi passi destreggiandosi attraversoil traffico che ora riprendeva pian piano amuoversi in tutte le corsie tranne in quella dove sitrovava la sua auto, priva di guidatore, immobile ebersagliata da colpi di clacson.

Improvvisamente esaltato da tutti quegli squilli,mentre tornando indietro si immergeva eriemergeva nel groviglio delle auto incolonnate,Dirk scoprì a un tratto di somigliare a certi mattiche aveva visto nelle strade di New York, capacidi gettarsi correndo in mezzo alla strada perarringare le auto in movimento sul giorno delGiudizio, l’imminente invasione degli alieni e

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l’incompetenza e la corruzione del Pentagono.Levò le braccia sopra la testa e cominciò agridare: «Gli Dei camminano sulla Terra! Gli Deicamminano sulla Terra!».

Questo non fece che esasperare gli animi dicoloro che strombazzavano con il clacson controla macchina ferma di Dirk, e presto il tuttoraggiunse un maestoso livello di cacofonia, sullaquale si levò la voce squillante di Dirk.

«Gli Dei camminano sulla Terra! Gli Deicamminano sulla Terra!» gridava. «Gli Deicamminano sulla Terra! Grazie!» ripeté Dirk e,infilatosi in macchina, mise in moto e ripartì,permettendo finalmente alle auto prigioniere delmostruoso ingorgo di rimettersi in moto ruggendo.

Si chiese da dove gli venisse quella certezza.Una “fatalità divina”. Un’espressione casuale enoncurante, che permette alla gente di sbarazzarsiopportunamente di fenomeni complessi, che nonammettono spiegazioni più razionali. Ma eraproprio questa casualità noncurante chesolleticava Dirk, perché sono appunto le parole

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usate con noncuranza, come se non avesserodavvero importanza, quelle che permettono a unaverità ben custodita di farsi strada fino a uscireallo scoperto.

Una sparizione inesplicabile. Oslo e unmartello: una coincidenza piccola piccola, chefaceva vibrare una nota piccola piccola. E tuttaviaera una nota che si levava sopra la confusioneincolore dei rumori quotidiani, e che suscitavaaltri accordi piccoli piccoli sulle stesse tonalità.Una fatalità divina, Oslo e un martello. Un uomocon un martello cerca di andare a Oslo, glieloimpediscono, si arrabbia e la conseguenza è una“fatalità divina”.

Se, pensò Dirk, ci fosse un essere immortale,oggi sarebbe ancora vivo. Questo, appunto,significa la parola.

E come potrebbe, un essere immortale, avere unpassaporto?

Già, come? Dirk cercò di immaginare cosasarebbe potuto accadere se – tanto per fare unnome – il Dio Thor, la divinità nordica dal grande

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martello, si fosse presentato all’ufficio passaportie avesse dovuto spiegare chi era e il motivo percui era sprovvisto di certificato di nascita. Non cisarebbe stato né shock, né orrore, né alteesclamazioni di meraviglia, solo pura e sempliceimpossibilità burocratica. Il problema non eraquello di essere creduto o meno, masemplicemente quello di esibire un certificato dinascita valido. Avrebbe potuto stare lì tutto ilgiorno a far miracoli, se così gli piaceva, ma senzaun certificato di nascita valido lo avrebberosoltanto invitato ad andarsene.

E le carte di credito.Se, per sostenere un attimo la stessa arbitraria

ipotesi, il Dio Thor fosse qui sulla terra e perqualche ragione libero di girare per l’Inghilterra,allora sarebbe probabilmente l’unica persona intutta la nazione a non ricevere il fuoco di fila diinviti a entrare in possesso di una carta di creditoAmerican Express o, con lo stesso giro di posta, diingiunzioni a non usare più carte di creditoAmerican Express, o ancora di cataloghi di

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vendite per corrispondenza pieni di oggettisontuosamente sgradevoli e generosamente avvoltiin un’anonima plastica marroncina.

Dirk trovò l’idea quasi mozzafiato.Sempre che si trattasse dell’unico dio in

circolazione – il che, una volta accettata la primastravagante ipotesi, era decisamente improbabile.

Ma poniamo il caso, per un momento, che unindividuo simile cerchi di lasciare il paese,armato di nessun passaporto, di nessuna carta dicredito, solo del potere di scagliare fulmini echissà cos’altro. Bisognerebbe immaginare unascena molto simile a quella di fatto svoltasi alTerminal 2 dell’aeroporto di Heathrow.

Ma perché poi un dio nordico dovrebbe averbisogno di un biglietto aereo per lasciare il paese?Non avrebbe a disposizione altri mezzi? Dirk eraportato a pensare che una delle prerogative di unadivinità immortale fosse la capacità di volare conmezzi propri. Per quel che poteva ricordare delleleggende norvegesi lette molti anni prima, gli deisvolazzavano dappertutto in continuazione, e non

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si faceva mai menzione di divinità che siaggirassero nella sala partenze di un aeroportomangiucchiando panini gommosi. È vero, però, chea quei tempi il mondo non pullulava di controlloridel traffico, di radar, di sistemi di controlloantimissile e cose del genere. E tuttavia un saltoveloce attraverso il Mare del Nord non dovevapoi essere un gran problema per un dio, inparticolare se il tempo era bello, il che, se uno è ilDio del Tuono, è il minimo che possa pretendere,e in caso contrario è qualcosa di cui chiedereconto, no?

Un’altra nota piccola piccola vibrò in unrecesso della mente di Dirk e poi andò perdutanella confusione generale.

Per un momento provò a immaginare come ci sidoveva sentire a essere una balena. Lui, rifletté,aveva il fisico giusto per guadagnarsi buoneintuizioni, ma di certo le balene erano più adatte auna vita da trascorrere scivolando nelle azzurreprofondità marine di quanto non lo fosse lui alleprese col traffico congestionato di Pentonville

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Road sulla sua vecchia e sfiatata Jaguar. Ma, ineffetti, era al canto delle balene che Dirk stavapensando. In passato le balene erano state capacidi trasmettere il proprio canto ai loro similiattraverso interi oceani, e perfino da un oceanoall’altro, perché i suoni, sott’acqua, possonoattraversare immense distanze. Ma ora, proprioper il modo in cui i suoni si trasmettono, non c’èangolo di oceano che non risuoni del rombo deimotori delle navi, ragion per cui è ormaivirtualmente impossibile, per le balene,trasmettersi canti o messaggi.

È in questo fottuto modo che la gente tende avedere il problema, ed è comprensibile, pensòDirk. Dopotutto, chi ha voglia di ascoltare unbranco di grossi pesci – pardon, mammiferi – chesi scambia dei rutti?

Eppure, per un momento, Dirk provò un sensodi infinita perdita e di tristezza al pensiero che, daqualche parte in mezzo al frenetico flusso diinformazioni che quotidianamente sommerge lavita degli uomini, avrebbe potuto percepire

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qualche segnale dei movimenti degli dei.Quando svoltò a nord, immettendosi in

Islington, e cominciò a veleggiare tra pizzerie eagenzie immobiliari, si sentì quasi impazzire alpensiero di come doveva essere, oggi, la loro vita.

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Sottili dita di lampi si sprigionavano da un capoall’altro delle grandi nubi che pendevano dal cielocome una pancia flaccida. Il crepitio di un tuonoinquieto brontolò contro le nuvole e da esse trassepoche insignificanti gocce di una pioggerellasporca.

Sotto il cielo si allungava un vasto assortimentodi aspre torrette, guglie deformi e pinnacoli che lopungolavano, lo incalzavano e lo infiammavano,finché parve che il cielo volesse esplodereseppellendoli sotto un diluvio di orrori purulenti.

Alte nella baluginante oscurità, figuresilenziose si misero sull’attenti dietro i lunghi

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scudi, draghi accovacciati spalancarono le faucicontro il torbido cielo quando Odino, il padredegli Dei di Asgard, si avvicinò ai grandi portalidi ferro che si aprivano sul suo dominio e sullegrandi sale a volta del Walhalla. L’aria era pienadegli ululati silenziosi di grandi cani alati chedavano il benvenuto al padrone di ritorno nella suareggia. Lampi si rincorrevano tra torri e torrette.

Il grande, antico e immortale Dio di Asgardstava rientrando nella sede del suo dominio in unmodo che avrebbe stupito lui stesso, secoli prima,quando era nel fiore degli anni – perché anche glidei immortali hanno i loro anni migliori, in cui illoro predominio è incontrastato ed essi alimentanoed esercitano il loro potere sul mondo degliuomini, quel mondo che ha sentito il bisogno dicrearli – ritornava infatti su un furgone Mercedesgrigio e senza scritte.

Il furgone si arrestò in uno spiazzo coperto.La porta della vettura si aprì e ne discese un

uomo incolore dall’espressione ottusa, inun’anonima uniforme grigia. L’uomo aveva

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ricevuto quell’incarico perché non era mai stato iltipo che fa domande – non tanto in grazia di alcunaparticolare dote di discrezione, quanto perché erasemplicemente incapace di pensare a unaqualunque domanda da fare. Uscendo con unmovimento rotatorio, come un cucchiaio di legnoquando lo si tira fuori dal porridge, raggiunse ilretro del furgone per aprire le portiere –procedura non semplice, che implicava lamanipolazione di parecchie leve e cursori.

Finalmente le porte si spalancarono e, se Katefosse stata presente, avrebbe probabilmentesussultato al pensiero che forse, dopotutto, ilfurgone stesse proprio trasportando elettricitàdall’Albania. Una nebbia luminosa salutò Hillow– l’uomo si chiamava appunto Hillow – senza chelui si scomponesse. Una nebbia luminosa eraproprio ciò che si aspettava di vedere ogni voltache apriva quelle portiere. La prima volta, avevasemplicemente detto a se stesso: “To’, una nebbialuminosa. Bene” e aveva lasciato le cose più omeno in questi termini, garantendosi così un

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regolare impiego vita natural durante, almeno finoa quando avesse avuto intenzione di vivere.

La nebbia luminosa si materializzò prendendole forme di un uomo molto, molto vecchio in unletto a rotelle, assistito da un ometto tozzo cheHillow avrebbe probabilmente giudicato lapersona più malvagia che gli fosse capitato diincontrare se mai si fosse preso la briga diricordarsi di tutta la gente che aveva visto nellasua vita e di paragonare ciascuno di loro concostui. Ciò, tuttavia, avrebbe comportato perHillow una fatica eccessiva. Al momento, la suaunica preoccupazione era quella di aiutarel’ometto a far scendere a terra il letto del vecchio.

L’operazione venne portata a termine. Legambe e le ruote del letto erano un vero miracolodi armoniosa efficacia tecnologica dell’acciaioinossidabile. Si sbloccavano, rotolavano eruotavano con movimenti così abilmentecoordinati da rendere la discesa dei gradini e isobbalzi parte integrante dello stesso fluido escorrevole movimento.

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Sulla destra dello spiazzo si apriva una largaanticamera rivestita di legno finemente intagliatocon grandi porta-torce di marmo appesi superbialle pareti. Da questo locale si accedeva allagrande sala a volta. Sulla sinistra, invece, siapriva l’ingresso alle stanze private, dove Odinosarebbe andato a prepararsi per lo scontro diquella notte.

Odino odiava tutto questo. Scacciato dal suoletto, brontolava tra sé, sebbene in verità il suoletto se lo portasse dietro. Obbligato ad ascoltareancora una volta i vani e intemperanti sproloqui diquella testa di legno del suo tempestoso figlioloche non voleva accettare, che non potevaaccettare, che semplicemente non aveval’intelligenza di accettare le nuove realtà dellavita. Se non le avesse accettate, ebbene, allorasarebbe stato soppresso e quella notte Asgardavrebbe assistito all’estinzione di un dioimmortale. E questo era tutto, pensò impermalositoOdino, troppo comunque per una persona della suaetà, un’età particolarmente avanzata, anche se non

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in una particolare direzione.Lui voleva solo rimanersene nella sua amata

clinica. Le condizioni pattuite per sistemarsi inquel luogo erano del tipo che gli andava più agenio anche se, ovviamente, non erano senza uncosto; ma quello era il prezzo da pagare perchétutto andasse come lui voleva. Il mondo eracambiato, e lui aveva imparato a adeguarvisi. Echi non si sapeva adattare avrebbe dovuto pagarnele conseguenze. Non si poteva avere nulla pernulla. E questo valeva anche per un dio.

L’indomani avrebbe potuto tornarsene alla suavita a Woodshead e rimanere lì indefinitamente, edera una bella cosa. Questo andava dicendo aHillow.

«Lenzuola bianche pulite» disse a Hillow, chesi limitò a un cenno inespressivo del capo.«Lenzuola di lino. Ogni giorno lenzuola pulite.»

Hillow spinse il letto sopra un gradino.«Essere un dio, Hillow,» continuò Odino «be’,

non era una cosa pulita, ascolti quello che stodicendo? Non c’era mai nessuno che si occupasse

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delle lenzuola. Che se ne occupasse veramente,dico. Ma ci pensi? In una situazione come la mia?Il Padre degli Dei? Non c’era nessuno,assolutamente nessuno, che entrasse e dicesse:“Signor Odwin” si diede un buffetto – là michiamano signor Odwin, sai. Non sanno con chihanno a che fare. Penso che non saprebbero comecomportarsi, non credi, Hillow?... Insomma nonc’è stato nessuno in tutto quel tempo che sia venutoa dirmi: “Signor Odwin, ho cambiato il suo letto,lei ora ha delle lenzuola pulite”. Proprio nessuno.Si faceva sempre un gran parlare di spaccare,devastare e fare a pezzi. Un gran ciarlare di cosepotenti, di cose distrutte, di cose fatte schiave dialtre cose, ma ben poca attenzione, me ne rendoconto solo adesso, alla lavanderia. Ti faccio unesempio...»

I suoi ricordi, tuttavia, venneromomentaneamente interrotti dall’arrivo del suoveicolo davanti a un grande arco, a guardia delquale stava una creatura immersa in una gran pozzadi sudore che, le mani sui fianchi, torreggiava

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immobile e sudata davanti a loro. Mezza Calzetta,che aveva fino ad allora mantenuto un intensosilenzio mentre a passi misurati apriva la strada alletto a rotelle, si lanciò in avanti e si rivolseconcitato alla creatura sudata che, rossa in viso,dovette chinarsi per ascoltarlo. Alloraimmediatamente la creatura sudata, con luccicanteossequiosità, si ritirò nella sua gialla tana, mentreil sacro letto faceva il suo ingresso nelle grandisale, camere e corridoi dai quali si sprigionavanoechi tempestosi e intensi fetori.

«Ti faccio un esempio, Hillow» continuòOdino. «Prendi questo posto, per esempio. Prendiil Walhalla...»

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Svoltare a nord era una manovra che di solitootteneva l’effetto di ridare un senso e una ragionealle cose, ma Dirk non riuscì a evitare un bruttopresentimento.

Per di più si mise anche un po’ a piovere, il chesarebbe andato pure bene, senonché era unapioggerellina così insignificante e miserabile perun cielo così cupo che non fece che aumentare ilsenso di claustrofobia e di frustrazione cheattanagliava la notte. Dirk azionò i tergicristalli,che emisero un brontolio corrucciato perché nonc’era abbastanza pioggia da detergere, e quindi lidisattivò. La pioggia riprese immediatamente a

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picchiettare sul parabrezza.Dirk rimise in funzione i tergicristalli, ma

questi si rifiutarono di ammettere che ne valesse lapena, e raschiarono e grattarono per protesta. Lestrade divennero pericolosamente scivolose.

Scosse la testa. Stava diventando decisamenteassurdo, si disse, e nel peggiore dei modi. Si eralasciato trascinare dall’immaginazione in manieravergognosa. Era esterrefatto dalle folli fantasieche aveva costruito sul più inconsistente insiemedi – be’, difficilmente potevano dirsi prove –semplici congetture.

Un incidente in un aeroporto. Probabilmente sipoteva trovare una semplice spiegazione.

Un uomo con un martello. E con ciò?Un furgone grigio che Kate Schechter aveva

visto alla clinica. Niente di strano in questo. Èvero che Dirk stava per scontrarsi con quelfurgone, ma anche questo rientrava nell’ordinariaamministrazione.

Un distributore automatico di Coca-Cola: ecco,questo non l’aveva preso in considerazione.

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Cosa c’entrava un distributore automatico diCoca-Cola con quelle folli fantasie riguardantiantiche divinità? La sola idea che gli veniva inmente era troppo ridicola per essere espressa inparole, e si rifiutò di ammetterla perfino con sestesso.

Fu a questo punto che Dirk si accorse che stavapassando davanti alla casa dove, proprio quellamattina, aveva incontrato un suo cliente la cui testatagliata era stata piazzata su un giradischi infunzione da una diabolica figura dagli occhi verdiche brandiva una falce e un contratto firmato colsangue e che poi si era dileguata.

Dirk aveva gli occhi fissi sulla casa, e quandouna grossa BMW blu scuro si staccò dalmarciapiede proprio davanti a lui, andò dritto asbatterci contro, e per la seconda volta in quelgiorno gli toccò balzare fuori dall’auto,sbraitando.

«Santo cielo, non potrebbe guardare dove va?»esclamò, deciso a prevenire ogni possibileobiezione dell’avversario. «Che razza di gente!»

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continuò, senza nemmeno fermarsi a prenderefiato. «Andarsene in giro a questa velocità! Cheguida spericolata! Questo è un assalto temerario!»Confondi il tuo nemico, pensò. Era un po’ cometelefonare a qualcuno e poi, quando il tiziorispondeva, dirgli: “Sì? Pronto?” in tonoaggressivo e risentito; questo, tra parentesi, erauno dei passatempi preferiti di Dirk nei lunghi,uggiosi e caldi pomeriggi d’estate. Si chinò aesaminare la vistosa botta sulla BMW che, manco afarlo apposta, era nuova di zecca. Morte edannazione, pensò Dirk.

«Guardi cos’ha fatto al mio paraurti!» esclamò.«Spero che abbia un buon avvocato!»

«Io sono un buon avvocato» rispose una voceflemmatica, subito seguita da un flemmatico clic.Dirk alzò gli occhi, allarmato. Il clic erasemplicemente il rumore della portiera dellamacchina che si chiudeva.

L’uomo indossava un completo italiano,flemmatico anch’esso. Aveva flemmatici occhiali,un flemmatico taglio di capelli e – sebbene il

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farfallino per sua natura non sia un oggettoflemmatico – il particolare farfallino cheindossava costituiva un esempio di cravattino apois particolarmente flemmatico. L’uomo estrassedalla tasca un sottile portafogli, e anche una sottilematita d’argento. Andò senza fretta dietro allamacchina di Dirk e prese nota del numero di targa.

«Ha un biglietto da visita?» chiese, continuandoa scrivere, senza alzare gli occhi. «Questo è ilmio» aggiunse, estraendone uno dal portafogli. Logirò e vi scrisse sopra qualcosa. «Il mio numero ditarga,» disse «e il nome della mia assicurazione.Forse sarà così gentile da volermi dare il nomedella sua. Se non l’ha con sé non importa, la faròchiamare dalla mia segretaria.»

Dirk sospirò, e decise che non era possibilelitigare con un tipo simile. Prese il suo portafogli ecominciò a passare in rassegna i vari biglietti davisita che sembravano accumularsi lì dentro non sisa bene come. Si trastullò per un momento conl’idea di essere il signor Wesley Arlott,originario, a quanto pareva, dell’Arkansas, esperto

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di yacht da navigazione oceanica, ma poi decise dinon farne niente. Dopotutto l’uomo aveva preso ilsuo numero di targa e, anche se Dirk non avevaparticolari ricordi di pagamenti assicurativieffettuati di recente, non aveva nemmenoparticolari ricordi di non aver effettuato pagamentiassicurativi, il che era un segno abbastanzapromettente. Con un leggero sussulto, consegnò ilproprio biglietto da visita. L’uomo lo guardò.

«Signor Gently» disse. «Investigatore privato.Oh, scusi, investigatore olistico privato. Ok.»

Ripose il biglietto da visita, noncurante.Dirk non si era mai sentito trattato con tanta

condiscendenza in vita sua. In quel momento ci fuun altro flemmatico clic, dall’altra portiera. Dirkalzò gli occhi e vide una donna dagli occhiali rossiche gli rivolgeva un semigelido sorriso. Era lastessa con la quale aveva parlato quella mattinadal muretto del giardino di Geoffrey Anstey, el’uomo, dedusse Dirk, doveva essere suo marito.Si chiese per un attimo se non era il caso dimetterli spalle a terra entrambi e di interrogarli

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sistematicamente e violentemente, ma di colpo sisentì stanchissimo e debolissimo.

Restituì il saluto alla donna dagli occhiali rossicon un impercettibile cenno del capo.

«Tutto a posto, Cynthia» disse l’uomo e lerivolse un rapido sorriso. «È tutto sistemato.»

Lei annuì, e poi entrambi risalirono sulla loroBMW e se ne andarono senza fretta, sparendo allasua vista. Dirk guardò il biglietto da visita cheaveva in mano. Clive Draycott. Avvocato pressoun avviato studio legale della City.

Riposto il biglietto da visita nel portafogli,Dirk rimontò scoraggiato in macchina e si diresseverso casa, dove trovò una grande aquila doratapazientemente seduta sui gradini davanti alportone.

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Kate aggredì il suo ospite non appena furonodentro l’appartamento, con la porta chiusa e laragionevole certezza che Neil non fosse inprocinto di sgattaiolare da casa sua per mettersi alanciare sguardi di disapprovazione dalla scala. Ilcontinuo strimpellio del suo contrabbasso eraalmeno una garanzia di privacy.

«Molto bene,» esclamò furiosa «si può sapere,insomma, cos’è questa storia dell’aquila? E iltrucchetto dei lampioni? Eh?»

Il Dio nordico del Tuono la guardòimbarazzato. Dovette togliersi l’elmo cornutoperché urtava contro il soffitto e graffiava

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l’intonaco. Se lo infilò sotto il braccio.«Cos’è questa storia del distributore di Coca-

Cola? E il martello? Che significa tutto questo?Eh?»

Thor non rispose. Aggrottò un attimo la frontein segno di irritazione, poi la aggrottò di nuovo inquello che sembrava un segno di imbarazzo, e poise ne rimase semplicemente fermo a sanguinaredavanti a lei.

Per qualche secondo Kate cercò di resistereall’imminente crollo della sua rabbia, ma poi sirese conto che stava già miseramente crollando eche non c’era niente da fare.

«Ok» borbottò. «Vediamo di fare un po’ dipulizia. Vado a prendere un disinfettante.»

Andò a rovistare nell’armadietto della cucina eritornò con una boccetta in mano solo per sentireThor che le diceva: «No».

«Cosa no?» domandò lei brusca, sbattendo laboccetta sul tavolo con un certo rumore.

«Quella» disse Thor, respingendo la boccettaverso di lei. «No.»

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«Qual è il problema?»Thor si limitò a stringersi nelle spalle e a

fissare imbronciato un angolo della stanza.Siccome non c’era nulla di interessante inquell’angolo, era chiaro che guardava da quellaparte per pura cattiveria.

«Senti, giovanotto,» disse Kate «se possochiamarti giovanotto, cosa...»

«Thor,» precisò lui «Dio del...»«Sì,» tagliò corto Kate «me le hai già dette tutte

le cose di cui sei Dio. Sto solo cercando didisinfettarti il braccio.»

«Sedra» disse Thor sollevando il braccioinsanguinato, ma non verso di lei, e guardandolocon apprensione.

«Foglie triturate di sedra. Olio di nocciolo dialbicocca. Infusione di fiori di arancia amara. Oliodi mandorle. Salvia e borragine. Non questo.»

Spazzò via dal tavolo la boccetta didisinfettante e tacque imbronciato.

«D’accordo!» esclamò Kate, raccogliendo laboccetta e scagliandola contro di lui. Lo colpì

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sulla guancia lasciandogli un segno rosso. Thorfece un balzo infuriato in avanti, ma Kate restòferma al suo posto, con un dito puntato contro dilui.

«Resta dove sei, giovanotto!» esclamò lei, eThor si bloccò. «Non vuoi nulla di particolare perquello?»

Thor sembrò interdetto.«Quello!» disse Kate, indicando il crescente

gonfiore sulla sua guancia.«Vendetta» rispose Thor.«Vedrò cosa si può fare» concluse Kate. Girò

sui tacchi e uscì dalla stanza.Dopo circa due minuti di attività invisibile,

Kate tornò nella stanza, avvolta da sbuffi divapore.

«Ok. Vieni con me.»Lo condusse in bagno. Lui la seguì facendo

mostra di gran riluttanza, ma la seguì. Kate avevaportato con sé una scia di vapori, perché la stanzane era del tutto intrisa. La vasca stessa traboccavadi bolle e di materia oleosa.

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C’erano numerose bottigliette e recipienti, perlo più vuoti, allineati su un piccolo scaffale soprala vasca. Kate li prese uno alla volta e glielimostrò.

«Olio di gheriglio di albicocca» spiegòrovesciando la bottiglietta all’ingiù per dimostrarecon enfasi che era vuota. «Tutto lì dentro»aggiunse, indicando l’acqua fumigante.

«Olio di Neroli,» disse afferrando la boccettasuccessiva «distillato di fiori di arancia amara.Tutto lì dentro.»

Prese un altro flacone. «Crema oleosa da bagnoall’arancio. Contiene olio di mandorle. Tutto lìdentro.»

Prese i vasetti.«Salvia e borragine,» disse indicandone uno «e

olio di sedra. Uno di questi è una crema per lemani, l’altro un balsamo ristrutturante per icapelli, ma sono tutti lì dentro, insieme alcontenuto di un tubetto di pasta per labbra all’aloe,un po’ di latte detergente al cocomero, purgantealla cera d’api e all’olio di jojoba, maschera per

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capelli di argilla marocchina, shampoo alle alghee alla betulla, crema da notte arricchita convitamina E e una gran quantità di olio di fegato dimerluzzo. Purtroppo non ho nulla che si chiamiVendetta, in compenso qui c’è un po’ diOssessione di Calvin Klein.»

Tolse il tappo a una boccetta di profumo e lagettò nella vasca.

«Mi troverai nella stanza accanto, quando avraifinito.»

Detto questo, marciò fuori dal bagno, sbattendola porta. Attese nell’altra stanza, leggendorisolutamente un libro.

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Per un minuto circa Dirk rimase immobile nellasua macchina a pochi passi dal portone,domandandosi quale dovesse essere la suaprossima mossa. Certamente una mossa piccola ecauta, pensò. L’ultima cosa che aveva intenzionedi fare era di battersi con un’aquila.

La studiò con attenzione. Il rapace se ne stava lìesibendo una splendida impudenza, gli artiglisolidamente ancorati al bordo del gradino. Ditanto in tanto si lisciava le penne col becco, e poisi metteva a perlustrare con occhio acuto la stradapalmo a palmo, facendo correre uno dei suoigrandi artigli lungo la pietra in un modo piuttosto

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preoccupante. Dirk ammirava profondamentequella creatura per le sue dimensioni, il suopiumaggio e per l’impressione generale dipossedere una straordinaria padronanza dell’aria,ma quando si chiese se gli piaceva il modo in cuila luce del lampione si rifletteva nel suo grandeocchio vitreo o sulla possente curva del suobecco, dovette francamente ammettere di no.

Il becco era un’arma ragguardevole.Era un becco che avrebbe intimorito qualunque

animale sulla terra, compreso uno già morto etrasformato in carne in scatola. Gli artigli avevanol’aria di poter sventrare una Volvo come se nullafosse. E se ne stava seduta sui gradini davanti alportone di Dirk, scrutando la strada con unosguardo a un tempo significativo e minaccioso.

Dirk si chiese se non fosse il caso diriaccendere il motore e lasciare il paese. Aveva ilpassaporto? No. Era in casa. Era dietro una portache si trovava dietro un’aquila, da qualche parte inun cassetto o, cosa ancor più probabile, perdutochissà dove.

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Poteva vendere la casa. In quella zona ilnumero degli agenti immobiliari era quasi pari alnumero di case. Uno di loro avrebbe potutooccuparsi della vendita. Lui ne aveva abbastanzadella sua casa, con i suoi frigoriferi, la sua fauna ela sua inesorabile permanenza negli indirizzaridella American Express.

Oppure, pensò con un piccolo brivido, potevasemplicemente andare a sentire cosa voleval’aquila. Ci pensò un attimo. Topi, probabilmente,o un cagnolino. Per quello che ne sapeva, Dirkaveva solo del riso soffiato e una vecchia brioche,cose che non gli sembrava si confacessero a quellamaestosa creatura alata. Ebbe l’impressione divedere del sangue fresco che andavarapprendendosi sugli artigli dell’uccello, ma sirimproverò per quel suo pensiero ridicolo.

Non gli restava che andare a spiegare comestavano le cose, dicendo che non aveva topi adisposizione e affrontandone le conseguenze.

Con circospezione, infinita circospezione, aprìla portiera dell’auto e uscì, tenendo bassa la testa.

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Sbirciò da sopra il cofano. L’uccello non si eramosso. Non aveva, cioè, lasciato il quartiere. Sistava ancora guardando attorno, se possibile conmaggiore attenzione. Dirk non sapeva in qualeremoto picco montano quella creatura avesseimparato a riconoscere il rumore della portiera diuna Jaguar che ruota sui propri cardini, ma di certonon era sfuggito alla sua attenzione.

Dirk avanzò cauto dietro la fila di macchine chegli avevano impedito di parcheggiare la Jaguardavanti a casa sua. Un paio di secondi dopo, solouna piccola Renault blu lo separava dallastraordinaria creatura.

E ora?Poteva semplicemente raddrizzarsi e, per così

dire, dichiarare la sua presenza. Avrebbe potutoannunciare, in effetti: “Eccomi, fa’ di me quelloche vuoi”. Qualsiasi cosa ne fosse seguita, magarila Renault avrebbe parato l’urto.

Era anche possibile, certo, che l’aquila fossecontenta di vederlo, che tutto quel suo affannarsiintorno a lui non fosse altro che il suo modo di

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essere cordiale. Sempre ammesso, ovviamente,che si trattasse della stessa aquila. Il che non erapoi una follia. Il numero di aquile dorate che siaggirano libere nei sobborghi settentrionalilondinesi non deve essere, giudicò Dirk, moltoalto.

Oppure il fatto che se ne stesse sui gradini dicasa sua poteva essere un puro e semplice caso,una breve pausa in attesa di un’altra rapida puntatanel cielo alla ricerca di quello per cui le aquileeffettuano rapide puntate nei cieli.

Qualunque fosse la spiegazione giusta, Dirkpensò che era giunto il momento di prendere unadecisione.

Si fece coraggio, fece un gran respiro e sbucòfuori da dietro la Renault, come uno spirito cheemerga dal profondo.

L’aquila in quel momento stava guardando inun’altra direzione, e ci mise un secondo o dueprima di tornare a rivolgere lo sguardo verso Dicke di scorgerlo; al che reagì con alte strida e arretròdi un passo. Una reazione, questa, che lasciò Dirk

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piuttosto sconcertato. Poi l’aquila battérapidamente gli occhi un paio di volte e assunseun’espressione impertinente che Dirk non seppeproprio come valutare.

Attese qualche secondo, finché ebbel’impressione che la situazione si fosse un po’calmata dopo tutta quella eccitazione, e mossequalche timido passo girando intorno al musodella Renault. Dei suoni gracchianti e interrogativisembrarono aleggiare incerti nell’aria, finchéDirk, resosi conto che era lui a emetterli, sicostrinse a smettere. Dopo tutto era con un’aquilache aveva a che fare, non con un pappagallo.

Fu a questo punto che commise l’errore.Tutto assorto nel pensiero delle aquile, delle

possibili intenzioni delle aquile, e degliinnumerevoli aspetti per cui le aquile differivanodai gattini, Dirk non si era concentrato abbastanzasu quello che stava facendo mentre saliva su unmarciapiede reso scivoloso dalla recentepioggerella. Portando in avanti il piede che stavadietro, urtò contro il paraurti dell’automobile;

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vacillò, scivolò e fece quello che nessuno devefare a una grande aquila dal carattere volubile,vale a dire gettarlesi addosso a braccia aperte.

La reazione dell’aquila fu istantanea.Senza un attimo di esitazione, si tirò con

eleganza da parte e lasciò a Dirk lo spazio perabbattersi pesantemente sui gradini di casa. Poi lofissò con una riprovazione che avrebbe gelato unapersona meno integerrima, o almeno una personache in quel momento avesse alzato gli occhi.

Dirk gemette.Si era preso una botta alla tempia sbattendo sul

bordo del gradino, una botta, lo sentiva, di cuiavrebbe potuto fare benissimo a meno per quellasera. Rimase disteso un attimo cercando diriprendere fiato, poi rotolò pesantemente su sestesso, portandosi una mano alla fronte e l’altra alnaso e, preoccupato, alzò gli occhi sul granderapace, facendo amare riflessioni sulle condizioniin cui gli sarebbe toccato lavorare.

Quando capì che per il momento sembrava nondovesse temer nulla da parte dell’aquila, che si

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limitava a guardarlo con un’espressione di dubbiomisto a perplessità, Dirk si mise a sedere e poilentamente si tirò su in piedi e cominciò aspazzolarsi via un po’ di polvere dal soprabito.Quindi si frugò in tasca per cercare le chiavi dicasa e aprì il portone, che gli sembrò un po’rovinato. Aspettò per vedere cosa avrebbe fattol’aquila.

Con un lieve fruscio d’ali, l’animale balzò sullasoglia ed entrò nell’ingresso. Si guardò intorno eparve accogliere ciò che vide con leggerodisgusto. Dirk non aveva idea di cosa siaspettassero le aquile dagli ingressi delle case, madovette ammettere con se stesso che l’aquila nonera la sola a reagire così. Non che ci fosseeccessivo disordine, ma l’atmosfera era talmentecupa da avvolgere il visitatore in una cappafunebre alla quale, si vede, non era immunenemmeno l’aquila.

Dirk raccolse una busta larga e piatta chegiaceva sul suo zerbino, ci sbirciò dentro pervedere cosa ci si aspettava che lui facesse, e in

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quel momento si accorse che dalla parete mancavaun quadro. Non che fosse un gran bel quadro, solouna piccola stampa giapponese che aveva trovatoa Camden Passage e che gli era piaciuta, ma ilpunto era che ora non c’era più. Il gancio sullaparete non reggeva più niente. Si accorse chemancava anche una sedia.

Gli venne in mente una possibile spiegazione ditutto questo, e corse in cucina. Molti dei suoiutensili mancavano. La sua collezione di coltelliSabatier quasi intonsi, il tritarifiuti e la sua radiocon mangianastri incorporato erano scomparsi maaveva, in compenso, un frigorifero nuovo.Dovevano averlo portato gli scagnozzi di NobbyPaxton, per cui gli sarebbe toccato compilare ilsolito elenco.

Comunque aveva un frigorifero nuovo e questoera un bel pensiero in meno. Già l’atmosfera incucina era più distesa. La tensione si era allentata.C’era un nuovo senso di leggerezza e diprimaverilità nell’aria che si era comunicato anchealla pila di vecchi cartoni per pizza, che ora

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sembravano pendere con un’inclinazione non piùopprimente ma gioiosa.

Dirk aprì allegro lo sportello del suo nuovofrigorifero e fu con entusiastica soddisfazione chelo trovò interamente e completamente vuoto. Lasua lucina interna brillava sulle immacolate paretibianche e azzurre e sulle lucide cromature deiripiani. Gli piacque così tanto che deciseall’istante che l’avrebbe tenuto sempre così. Nonci avrebbe messo dentro nulla. I suoi cibisarebbero rimasti in piena vista.

Molto bene. Richiuse lo sportello.Uno scricchiolio e un battito d’ali dietro di lui

gli ricordarono che aveva un’aquila per ospite. Sigirò e trovò l’uccello che lo fissava appollaiatosul tavolo di cucina.

Ora che cominciava ad abituarcisi, e che nonera stato ancora proditoriamente attaccato come inun primo tempo aveva temuto, l’aquila gli sembròun po’ meno terribile. Era sempre un bel pezzod’aquila, ma forse un’aquila era più gestibile diquanto non avesse pensato all’inizio. Si rilassò un

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po’ e si tolse il cappello, poi si sfilò il soprabito eli gettò su una sedia.

A questo punto l’aquila parve avvertire cheDirk si stava facendo delle idee sbagliate inproposito e stese una zampa verso di lui.Allarmato, Dirk si accorse che sugli artigli avevadavvero qualcosa che assomigliava a sangueraggrumato. Rinculò precipitosamente. Alloral’aquila si levò in tutta la sua altezza e cominciò aspalancare le sue grandi ali, sempre di più,battendole molto lentamente e sporgendosi inavanti quasi a mantenere l’equilibrio. Dirk fecel’unica cosa che, date le circostanze, gli venne inmente: si diede alla fuga sbattendo la porta dietrodi sé e bloccandola con il tavolo di ingresso.

All’istante si levò da dentro una terribilecacofonia fatta di strida, raspamenti e tonfi. Dirkrimase con la schiena appoggiata al tavolo,ansimando e cercando di riprendere il respiro, epoi dopo un po’ cominciò a nutrire seriepreoccupazioni per le intenzioni dell’uccello.

Gli sembrò che l’aquila si stesse lanciando in

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picchiata contro la porta. A intervalli di qualchesecondo il copione si ripeteva: prima un grandesbattere di ali, poi una corsa precipitosa e infineuno schianto sordo. Dirk era convinto che l’aquilanon sarebbe riuscita a sfondare la porta, matemeva che si ferisse mortalmente in queltentativo. La creatura sembrava in preda allafrenesia per qualcosa, ma per cosa Dirk nonriusciva assolutamente a immaginare. Cercò dicalmarsi e di riflettere per stabilire una strategia.

Avrebbe potuto telefonare a Kate e assicurarsiche stesse bene.

Ueeen, sbam!Avrebbe potuto finalmente aprire la busta che

si era portato dietro tutto il giorno ed esaminarneil contenuto.

Ueeen, sbam!Per farlo gli serviva un coltello affilato.Ueeen, sbam!Tre pensieri, tutti sgradevoli, gli attraversarono

il cervello in rapida successione.Ueeen, sbam!

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Primo, tutti i coltelli affilati, ammesso che iragazzi di Nobby gliene avessero lasciato uno,erano in cucina.

Ueeen, sbam!Questo non era poi un gran problema, perché‚

frugando nel resto della casa avrebbe potutotrovare qualcosa che andasse bene.

Ueeen, sbam!Il secondo pensiero fu che la busta in questione

stava nella tasca del suo soprabito che avevabuttato su una sedia in cucina.

Ueeen, sbam!Il terzo pensiero assomigliava moltissimo al

secondo e riguardava l’ubicazione del pezzo dicarta su cui aveva scritto il numero di telefono diKate.

Ueeen, sbam!Oh Cristo.Ueeen, sbam!Dirk cominciava a sentirsi molto, molto stanco

per il modo in cui andavano le cose quel giorno.Si sentiva in preda a un senso di calamità

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imminente, ma non era in grado di indovinare dacosa dipendesse.

Ueeen, sbam!Bene, sapeva cosa doveva fare...Ueeen, sbam!... e dunque temporeggiare non serviva a nulla.

Con calma, scostò il tavolo dalla porta.Ueeen...Si chinò e aprì la porta con uno strattone,

passando facilmente sotto l’aquila che, rimastasenza l’ostacolo, andò a sbattere contro la paretedi fronte. Dirk si affrettò a chiudersi con violenzala porta della cucina dietro le spalle, tolse ilsoprabito dalla sedia e piazzò lo schienale abloccare la maniglia.

Ueeen, sbam!Il danno prodotto su quel lato della porta era

notevole e impressionante, e Dirk cominciò apreoccuparsi seriamente di quello che un similecomportamento denunciava sullo stato mentaledell’uccello, o di quello che lo stato mentaledell’uccello sarebbe potuto diventare se avesse

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mantenuto a lungo un simile comportamento.Ueeen... Gratt...Lo stesso pensiero sembrò aver attraversato

anche la mente dell’uccello, perché‚ dopo unabreve raffica di strida, di tonfi e di raspamenticontro la porta, parve che l’aquila cadesse in unsilenzio scoraggiato e bisbetico che, quando siprolungò per oltre un minuto, divenne altrettantoinquietante quanto lo strepito che l’avevapreceduto.

Dirk si chiese cosa stesse facendo.Si avvicinò quatto quatto alla porta e con molta

ma molta cautela spostò appena lo schienale dellasedia per poter guardare attraverso il buco dellaserratura. In un primo momento gli sembrò di nonriuscire a vedere nulla, come se fosse ostruito daqualcosa. Poi, un breve guizzo e uno scintillio cheveniva dall’altra parte gli rivelarono lasconvolgente verità: anche l’aquila aveva unocchio incollato al buco della serratura e lo stavafissando. Dirk per poco non cadde all’indietro,tanta fu la sua sorpresa, e si allontanò dalla porta

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con un lieve senso di orrore e repulsione.Questo era un comportamento piuttosto

intelligente per un’aquila. O no? Come potevascoprirlo? Non gli veniva in mente nessunornitologo a cui telefonare. Tutti i suoi libri diconsultazione si trovavano in altre stanze, e Dirknon riteneva di poter ripetere impunemente il suoscherzetto, certo non se aveva a che fare conun’aquila che era riuscita a capire a cosa servono ibuchi delle serrature. Sotto il lavandino trovò untovagliolo di carta. Lo appallottolò, lo bagnò equindi si tamponò prima la tempia sanguinante, chesi stava graziosamente gonfiando, e poi il naso cheera ancora molto sensibile e che aveva assunto nelcorso della giornata dimensioni ragguardevoli.Forse l’aquila era una creatura così sensibile edelicata che aveva reagito male alla vista dellafaccia di Dirk nelle sue condizioni attuali, moltopeste, e aveva semplicemente perso la testa. Dirksospirò e si sedette.

Quando telefonò a Kate, cosa a cui avevasubito dopo rivolto la sua attenzione, aveva

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risposto la segreteria telefonica. La voce di lei loinvitava con molta dolcezza a lasciare unmessaggio dopo il segnale acustico, ma loavvertiva che lei ascoltava di rado i messaggiregistrati e che quindi era molto meglio parlarecon lei direttamente, solo che, siccome ora nonc’era, era meglio che richiamasse dopo un po’.

Grazie tante, pensò Dirk, e buttò giù la cornetta.Capì che la verità era che per tutto il giorno

aveva rinviato l’apertura della busta per paura discoprire cosa conteneva. Non che fossesconvolgente l’idea in sé, sebbene lo fosse il fattoche qualcuno potesse vendere la sua anima a unuomo dagli occhi verdi armato di falce, o almenoquesto era ciò che le circostanze inducevanoesplicitamente a pensare. Il fatto davverosconvolgente e deprimente era che il tizio inquestione avesse venduto la propria anima a unuomo dagli occhi verdi armato di falce in cambiodelle royalties della vendita di un disco.

Così almeno sembrava che fossero andate lecose. O no?

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Dirk prese in mano l’altra busta, quella cheaveva trovato ad attenderlo sullo zerbino, che gliera stata mandata per corriere da una grossalibreria di Londra dove aveva un conto aperto.Conteneva una copia del testo e della musica diPatata bollente, scritta da Colin Paignton, PhilMulville e Geoff Anstey.

I versi erano, be’, molto alla buona. Emanavanoun senso insieme di minaccia e di stolidainsensibilità che l’estate precedente, col loro ritmocadenzato e sostanzialmente ripetitivo, avevanoincontrato il favore popolare.

Dicevano così:

Patata bollente,non prenderla tu, prenderla tu, prenderla tu.Passala, passala, passala presto.Non farti beccare, beccare tu.Mollala a un altro. A chi? A chi vuoi tu.Non farti beccare dal Grande e GrossoCon la patata bollente addosso.Ti ho detto mollala, è meglio per te.

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Patata bollente, ecco cos’è.

E così via. Le frasi rimbalzavano a turnodall’uno all’altro dei due membri del complesso,la percussione aumentava di intensità, e neavevano ricavato anche un video.

E questo era tutto? Sai che bell’affare. Unabella casa a Lupton Road con i pavimenti inpoliuretano e un matrimonio andato a monte?

Di certo le cose erano parecchio scaduterispetto ai tempi gloriosi di Faust e Mefistofele, incui a prezzo della propria anima si potevaacquistare la conoscenza dell’universo intero,soddisfare ogni ambizione della mente e ognipiacere della carne.

E ora bastavano un pugno di diritti d’autore,qualche mobile di design, un aggeggio daappendere a una parete del bagno e, oplà, titagliavano la testa.

Come stavano esattamente le cose? In cosaconsisteva il contratto “Patata”? Chi ottenevaqualcosa e perché?

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Dirk frugò in un cassetto alla ricerca delcoltello da pane, tornò a sedersi, prese la bustadalla tasca del soprabito e ruppe i molti stratisovrapposti di nastro adesivo che la tenevanochiusa.

Ne cadde fuori un gran fascio di fogli.

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22

Nel momento esatto in cui il telefono si mise asquillare, la porta del soggiorno di Kate si aprì. IlDio del Tuono tentò di fare il suo ingresso inmodo maestoso, ma fece solo un ingressopuzzolente. Era chiaro che si era impregnato benbene di tutte le sostanze che Kate aveva buttatonella vasca e poi, rivestitosi, aveva strappato unacamicia da notte di Kate e l’aveva usata perbendarsi il braccio. Con fare noncurante buttò inun angolo della stanza una manciata di schegge diquercia. Kate decise di accantonare, per ilmomento, sia le due deliberate provocazioni, sia iltelefono. Alle prime avrebbe provveduto lei, al

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secondo ci avrebbe pensato la segreteriatelefonica.

«Ho cercato informazioni su di te» annunciòKate in tono di sfida al Dio del Tuono. «Che fineha fatto la tua barba?»

Lui prese il libro, un’enciclopedia compatta,dalle mani di lei, gli diede un’occhiata e lo gettòvia sprezzante.

«Bah,» disse «me la sono tagliata. Quando eronel Galles.» Si accigliò al ricordo.

«Si può sapere cosa ci facevi nel Galles?»«Contavo i sassi» rispose stringendosi nelle

spalle, poi andò a guardare fuori dalla finestra.Il suo comportamento rivelava una grande e

scorata ansietà. Con un brivido non troppodissimile dalla paura, Kate rifletté che qualchevolta la gente diventa così quando si fa influenzaredalle condizioni meteorologiche. Con un Dio delTuono la cosa doveva funzionare al contrario.Fuori, il cielo aveva un aspetto decisamenteinquieto e scontento.

Le sue reazioni cominciarono a diventare un

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po’ scomposte.«Perdonami se la domanda ti sembra stupida,»

riprese Kate «ma sono un po’ frastornata. Il fatto èche non sono abituata ad avere ospiti tantoimportanti da dare il nome a un giorno dellasettimana. * Che sassi contavi nel Galles?»

«Tutti» rispose Thor con un sordo grugnito.«Tutti, da quelli così...» avvicinò il polliceall’indice fin quasi a toccarlo «a quelli così.»Allargò le mani fino a una distanza di un metrocirca, poi le lasciò ricadere.

Kate lo guardò inespressiva.«Be’, e quanti erano?» le sembrò educato

chiedere.«Vai a contarli, se vuoi saperlo!» gridò lui. «A

che scopo avrei passato anni e anni a contarli peressere l’unica persona a saperlo, se poi vado adirlo a qualcun altro?»

Tornò davanti alla finestra.«Comunque» continuò «è stata una bella gatta

da pelare. Credo di aver perso il conto da qualcheparte nel Mid Glamorgan. Ma non ho nessuna

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intenzione» gridò «di farlo un’altra volta.»«Be’, e allora perché diavolo hai fatto una cosa

simile?»«Si trattava di una punizione di mio padre. Un

castigo. Una penitenza.» Si rabbuiò.«Tuo padre?» chiese Kate. «Intendi dire

Odino?»«Il Padre di Tutti» spiegò Thor. «Il Padre degli

Dei di Asgard.»«Mi stai dicendo che è vivo?»Thor si girò a guardarla come se fosse una

ritardata.«Noi siamo immortali» disse con semplicità.Al piano di sotto, Neil scelse proprio quel

momento per concludere la sua tempestosaesecuzione al contrabbasso, e la casa parve diconseguenza risuonare di un inquietante silenzio.

«Gli immortali sono ciò che voi avete voluto»disse Thor, con voce bassa e incolore. «Gliimmortali sono come voi li avete fatti. E questo èun po’ duro per noi. Avete voluto che noiesistessimo per sempre, e così noi esistiamo per

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sempre. Poi vi siete dimenticati di noi. Ma noicontinuiamo a esistere per sempre. Ora, però,molti di noi sono morti, e molti altri stannomorendo» aggiunse nello stesso tono incolore «maquesto richiede uno sforzo particolare.»

«Non riesco proprio capire di cosa staiparlando» disse Kate. «Tu stai dicendo che io, chenoi...»

«Tu puoi capire,» ribatté Thor adirato «ed èper questa ragione che sono qui. Lo sai che moltagente a malapena mi vede? A malapena si accorgedi me? E non è che noi ci nascondiamo. Noi siamoqui. Ci muoviamo tra di voi. Il mio popolo. Ivostri dei. Voi ci avete dato la vita. Voi avetevoluto che fossimo ciò che non osavate essere. Eora non volete più riconoscerci. Se cammino peruna strada di questo vostro... mondo che voi visiete fatti per voi senza di noi, la gente a malapenami degna di un’occhiata.»

«Per caso ti capita quando hai in testa l’elmo?»«Soprattutto quando indosso l’elmo!»«Bene...»

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«Tu ti stai prendendo gioco di me!» ruggì Thor.«Tu me lo stai rendendo molto facile» disse

Kate. «Non so cosa...»Di colpo parve che la stanza si scuotesse e poi

trattenesse il respiro. Tutta la mobilia di Katevacillò, e poi si immobilizzò. Nell’improvviso,orribile, silenzio una lampada di porcellana blucadde lentamente giù dal tavolo, picchiò sulpavimento, e strisciò verso un angolo buio dellastanza, dove rimase raggomitolata in posizionedifensiva e anche un po’ preoccupata.

Kate la fissò, e cercò di mantenere la calma. Sisentiva come se una gelatina molle e fredda lecolasse giù per la pelle.

«L’hai fatto tu, questo?» biascicò.Thor apparve furioso e confuso. Borbottò:

«Non devi farmi arrabbiare. Sei stata moltofortunata». Guardò altrove.

«Che cosa stai dicendo?»«Sto dicendo che desidero che tu venga con

me.»«Cosa? E di questo cosa mi dici?» indicò lo

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spaurito gattino sotto il tavolo che fino a pocoprima era una lampada di porcellana blu.

«Per quello non c’è nulla che io possa fare.»Di colpo Kate si sentì così stanca, confusa e

spaventata che si scoprì sul punto di scoppiare apiangere. Restò immobile a mordersi il labbro,cercando di essere più arrabbiata che poteva.

«Ah sììì?» esclamò. «Credevo di dovertiritenere una divinità. Spero che non ti siaintrodotto in casa mia sotto falso nome, io...» Siinterruppe di colpo e poi riprese, cambiando tono:«Intendi forse dire» proseguì con un filo di voce«che voi siete stati qui, sulla terra, per tuttoquesto tempo?».

«Qui e ad Asgard» rispose Thor.«Asgard» ripeté Kate. «La dimora degli dei?»Thor rimase silenzioso. Era un silenzio assorto,

che sembrava pieno di qualcosa che lo rendevamolto perplesso.

«Dov’è Asgard?» chiese Kate.Anche questa volta Thor non rispose. Era un

uomo di poche parole e di lunghissime pause.

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Quando infine replicò, non era affatto chiaro sefino allora aveva continuato a riflettere o se si eralimitato a starsene lì fermo.

«Asgard è anche qui» spiegò. «Tutti i mondisono qui.»

Estrasse dalle pelli che gli pendevano dallespalle il suo grande martello e ne studiò la testacon pensosa intensità e strana curiosità, come sefosse qualcosa di molto imbarazzante. Kate sichiese perché trovasse tanto familiare un similegesto. Scoprì che le metteva un desiderio istintivodi scansarsi. Fece cautamente qualche passoindietro e restò sul chi vive.

Quando lui alzò di nuovo lo sguardo, nei suoiocchi brillava una nuova energia e un nuovo fuoco,come se si stesse preparando a scagliarsi controqualcosa.

«Questa notte devo trovarmi ad Asgard» disse.«Devo affrontare mio padre Odino nella grandesala del Walhalla, per chiedergli conto di ciò cheha fatto.»

«Per averti fatto contare i ciottoli del Galles?»

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«No!» disse Thor. «Per aver reso i ciottoli delGalles non meritevoli di essere contati!»

Kate scosse la testa esasperata. «Non riescoproprio a capirti» disse. «Probabilmente sonotroppo stanca. Torna domani. Domani mattina mispiegherai tutto.»

«No» disse Thor. «Devi vedere Asgard coi tuoiocchi, e allora capirai. Devi venire a vedere,questa notte.» La afferrò saldamente per unbraccio.

«Non voglio venire ad Asgard» esclamò lei.«Non voglio andare in località mitologiche conuomini strani. Vacci tu. Telefonami domani mattinaper raccontarmi come è andata. Fagliela pagareper quei ciottoli.»

Liberò il braccio dalla sua stretta. Capì molto,molto chiaramente che, se ci era riuscita, era statocol suo consenso.

«Ora per favore vattene e lasciami dormire!»Lo guardò minacciosa.

In quel momento la casa parve entrare ineruzione, mentre Neil lanciava il suo contrabbasso

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in una tumultuosa esecuzione del Viaggio sul Renodi Sigfrido nel primo atto del Crepuscolo degliDei, tanto per dare una prova dimostrativa. Lepareti tremarono, i vetri tintinnarono. Da sotto iltavolo il miagolio spaventato della lampada era amalapena percepibile.

Kate cercò di mantenere uno sguardominaccioso che, date le circostanze, non riuscì aconservare a lungo.

«Ok,» si arrese «come ci si arriva in questoposto?»

«Ci sono tanti modi quante sono le coseminuscole.»

«Scusa?»«Cose minuscole.» Ancora una volta avvicinò

pollice e indice per indicare qualcosa di moltopiccolo. «Molecole» aggiunse, pronunciando laparola con un certo disagio. «Ma per prima cosaandiamocene di qui.»

«Ci vorrà un cappotto ad Asgard?»«Se credi.»«Be’, io lo prendo. Aspetta un attimo.»

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Kate decise che la soluzione migliore peraffrontare il rebus incomprensibile che eradiventata la sua vita negli ultimi tempi era farlo inmaniera metodica. Trovò il cappotto, si pettinò,lasciò un nuovo messaggio nella segreteriatelefonica e con fermezza mise una tazzina piena dilatte sotto il tavolo.

«Bene» disse e lo precedette fuori di casa,chiudendo scrupolosamente a chiave la porta efacendo cenno a Thor di tacere mentre passavanodavanti alla porta di Neil. Nonostante tutto ilrumore che stava producendo, Neil era quasicertamente in ascolto, pronto a cogliere il minimofruscio per precipitarsi fuori a lamentarsi deldistributore di Coca-Cola, dell’ora tarda,dell’inumanità degli uomini nei confronti deglialtri uomini, del tempo, degli schiamazzi e delcolore del cappotto di Kate, che era di unasfumatura di blu che per qualche misteriosaragione non gli andava a genio. Riuscironofelicemente a svignarsela, chiudendosi dietro ilportone col più sommesso dei clic.

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* Il giovedì. In inglese Thursday, cioè giorno di Thor.(NdT)

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23

I fogli che caddero fuori dalla busta sul tavolodella cucina di Dirk erano di carta spessa, piegatiinsieme, e si vedeva che erano stati toccati damolte mani.

Dirk li smistò, li separò l’uno dall’altro, lilisciò col palmo della mano e li mise in fila sullatavola, facendosi spazio, quando ciò si resenecessario, tra vecchi giornali, portacenere escodelle con residui di cornflakes che Eleonora, ladonna delle pulizie, lasciava sempre dov’erano,sostenendo, davanti alle sue rimostranze, chepensava che lui le avesse messe lì apposta.

Studiò quei fogli per parecchio tempo,

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passando dall’uno all’altro, confrontandoli,esaminandoli con grande attenzione, pagina dopopagina, paragrafo dopo paragrafo, riga dopo riga.

Non riuscì a capirci una parola.Avrebbe potuto arrivarci, rifletté, a capire che

il gigante peloso dagli occhi verdi con la falce inmano poteva essere diverso da lui non solonell’aspetto e nelle abitudini, ma anche in altrecose come, per esempio, l’alfabeto che usava.

Si buttò a sedere su una sedia, scontento efrustrato, e cercò una sigaretta, ma il pacchetto cheaveva nel soprabito era vuoto. Prese una matita ela picchiettò come se fosse una sigaretta, ma nonriuscì a produrre lo stesso effetto.

Dopo un minuto o due divenne del tutto consciodel fatto che molto probabilmente l’aquila lo stavaancora spiando attraverso il buco della serratura, epensò che questo gli rendeva molto difficileconcentrarsi sul problema che gli stava davanti,soprattutto senza una sigaretta. Se la prese con sestesso. Sapeva che c’era ancora un pacchetto disopra, vicino al letto, ma temeva di non essere in

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grado di gestire il problema ornitologico chel’andare a prenderlo comportava.

Provò a guardare ancora i fogli per un po’. Lascrittura, a parte il fatto che era vergata in unasorta di piccoli, contorti e indecifrabili caratterirunici, si ammassava soprattutto nella partesinistra del foglio, come se vi fosse stata sospintadalla marea. La parte destra era per lo più vuota,salvo per qualche occasionale raggruppamento dicaratteri allineati uno sotto l’altro. Il tutto, a parteun’indefinibile impressione di familiarità nelladisposizione, gli risultava del tuttoincomprensibile.

Spostò di nuovo la sua attenzione sulla busta ecercò ancora una volta di esaminare qualcuno deinomi che erano stati cancellati con tanto vigore.

Howard Bell, l’incredibilmente ricco autore dibestseller, che scriveva brutti libri che sivendevano a vagonate nonostante il fatto, o forseproprio per il fatto che nessuno li leggeva.

Dennis Hutch, magnate di una casadiscografica. Ora che aveva un contesto in cui

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inserire quel nome, Dirk non aveva problemi ariconoscerlo. Quell’Aries Rising Record Groupche, fondato sugli ideali degli anni Sessanta oalmeno su ciò che si spacciava per gli ideali deglianni Sessanta, si era sviluppato negli anni Settantae poi aveva abbracciato il materialismo degli anniOttanta senza mai perdere un colpo, era ormaidiventato un colossale business sulle due spondedell’Atlantico. Dennis Hutch era arrivato allapoltrona di presidente quando il fondatore dellasocietà era morto per overdose di muro di mattoni,assunto sotto l’influenza di una Ferrari e di unabottiglia di tequila. ARRGH! era anche l’etichettadella casa discografica che aveva prodotto Patatabollente.

Stan Dubcek, uno dei dirigenti di quella famosaagenzia di pubblicità dal nome idiota che orapossedeva gran parte delle agenzie di pubblicitàd’Inghilterra e d’America che non non si eranotrovate nomi altrettanto idioti, e che perciò eranostate fagocitate.

E qui ecco che c’era un altro nome

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istantaneamente riconoscibile, ora che Dirk eraentrato in sintonia col tipo di persone che avrebbepotuto trovare. Roderik Mercer, il più grandeeditore al mondo dei giornali più inconsistenti delmondo. Dirk all’inizio non aveva riconosciuto ilnome, con quel poco familiare “-erik” dopo il“Rod”. Bene, bene, bene...

Ecco qui della gente, pensò Dirk, che avevafatto fortuna sul serio. Certo, avevano ottenutomolto più che una bella casa a Lupton Road conqualche fiore rinsecchito intorno. Avevano ancheil grande vantaggio di ritrovarsi ancora una testasulle spalle, sempre che a Dirk non fosse sfuggitoqualche grosso fatto di cronaca sui quotidiani.Cosa significava tutto ciò? Cos’era questocontratto? Come mai tutti quelli che l’avevanoavuto tra le mani avevano ottenuto un successostrepitoso, tutti tranne Geoffrey Anstey? Tutti neavevano tratto vantaggio, eccetto l’ultimo a cui eraarrivato. E che l’aveva tenuto.

Era una patata bollente.Non farti beccare dal Grande e Grosso con la

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patata bollente addosso.All’improvviso a Dirk venne in mente che

poteva essere capitato proprio a Geoffrey Ansteydi cogliere una conversazione su una patata chescottava, una patata bollente della quale liberarsial più presto, passandola a qualcun altro. Sericordava bene, nell’intervista che aveva letto,Pain non aveva detto di aver udito personalmentela conversazione.

Non farti beccare dal Grande e Grosso con lapatata bollente addosso.

L’idea era spaventosa e più o meno di questotenore: Geoffrey Anstey era stato di una pateticaingenuità. Aveva ascoltato quella conversazione,tra... – chi? Dirk riprese la busta ed esaminòancora una volta la lista dei nomi – e avevapensato che se ne poteva ricavare un buon ritmo.Non si era minimamente reso conto che stavaascoltando una conversazione che l’avrebbeportato a fare una fine spaventosa. Lui ne avevaricavato un disco di successo e, quando la patatabollente gli era stata passata davvero, lui l’aveva

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presa.Non prenderla tu, prenderla tu, prenderla tu.E invece di seguire il consiglio aveva messo in

musica le parole...Passala, passala, passala presto.... e l’aveva appesa alla parete del bagno,

dietro al disco d’oro.Non farti beccare dal Grande e Grosso.Dirk aggrottò la fronte e tirò una lunga, lenta

boccata dalla matita.Tutto questo era ridicolo.Doveva procurarsi delle sigarette se voleva

riflettere con un minimo di rigore intellettuale. Siinfilò il soprabito, si schiacciò in testa il cappelloe si diresse alla finestra.

La finestra non veniva aperta da... be’, non eramai successo da quando abitava lì, e strillò e siribellò davanti all’improvvisa e inopinatainvasione del suo spazio e della sua indipendenza.Quando Dirk ebbe la meglio e riuscì ad aprirla asufficienza, si issò sul davanzale, drappeggiandosiintorno al corpo le falde del soprabito. Dal

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davanzale al marciapiede c’era un bel salto,perché la casa aveva anche un piano interratocollegato alla porta di ingresso da una serie discalini. Una ringhiera di ferro separava i gradinidal marciapiede, e Dirk doveva superarla al volo.

Senza un attimo di esitazione, Dirk spiccò ilsalto e solo quando fu a mezza strada si ricordò diaver lasciato le chiavi della macchina sul tavolodella cucina.

Mentre veleggiava sgraziato nell’aria si chiesese non fosse il caso di effettuare una mezzagiravolta e tentare con un disperato colpo di renidi riaggrapparsi al davanzale ma, dopo attentariflessione, decise che un errore a questo puntopoteva essergli fatale, mentre una passeggiatapoteva fargli solo bene.

Atterrò pesantemente oltre la ringhiera, ma lecode del soprabito vi rimasero impigliate e, perriprendersele, Dirk dovette strappare un pezzo difodera. Quando il tremito delle ginocchiacominciò a calmarsi e Dirk ebbe ritrovato queltanto di compostezza che gli avvenimenti della

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giornata gli avevano lasciato, si rese conto cheormai era ben più tardi delle undici e mezza, che ibar dovevano essere chiusi e che, dunque, pertrovare delle sigarette avrebbe dovuto fare un giropiù lungo del previsto.

Rifletté sul da farsi.L’attuale stato d’animo dell’aquila era un

fattore da prendere in attenta considerazione.L’unico modo per arrivare alle chiavi dellamacchina era tornare davanti al portone, nel suoingresso infestato dall’aquila.

Muovendosi con grande circospezione, Dirkrisalì in punta di piedi i gradini, si accoccolò suicalcagni e, augurandosi che il dannato affare non simettesse a cigolare, sollevò lo sportellino dellacassetta per la posta per guardare dentro.

In quell’istante un artiglio gli uncinò il dorsodella mano, e un grande becco gracchiante siavventò contro il suo occhio, mancandolo dipochissimo ma assestandogli uno sfregio sul nasogià tanto provato.

Dirk urlò di dolore e barcollò all’indietro,

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senza riuscire a fare molta strada perché aveval’artiglio ancora ben piantato nella mano. Si misea colpire disperatamente l’artiglio lancinante, maottenne l’effetto di farlo penetrare ancora più afondo nella carne e di produrre un grossotrambusto dall’altra parte della porta, movimentiche si ripercuotevano entrambi pesantemente sullasua mano.

Con la mano libera si afferrò all’artigliocercando di estrarlo dalla sua carne. Eraimmensamente forte, e tremava della furiadell’aquila, che era intrappolata quanto lui. Allafine, fremente di dolore, riuscì a liberarsi e atirare via la mano ferita, accarezzandola ecullandola con l’altra.

L’aquila ritrasse bruscamente la zampa, e Dirkla sentì svolazzare via nel suo ingresso, stridendoe ululando in modo spaventoso, urtando le grandiali contro le pareti.

Dirk si gingillò con l’idea di bruciare la casadalle fondamenta, ma quando il dolore pulsantedella mano cominciò un poco a diminuire si calmò

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e cercò, se possibile, di vedere le cose dal puntodi vista dell’aquila.

Non gli fu possibile.Non aveva la più pallida idea di come le aquile

potessero vedere le cose, men che mai questa, chesembrava un esemplare parecchio degenere.

Dopo essersi cullato la mano ancora per unminuto o due, la curiosità – alleandosi allaconvinzione che l’aquila si fosse definitivamenteritirata all’altra estremità dell’ingresso – prevalse,e Dirk si chinò ancora una volta sulla cassettadelle lettere. Questa volta usò la matita per alzarelo sportellino, e si mise a osservare l’ingresso dauna distanza di sicurezza di qualche centimetro.

L’aquila era bene in vista, appollaiata sulcorrimano, e lo guardava con un risentimento e undisgusto che a Dirk parvero un tantino eccessivi,considerando il fatto che solo qualche momentoprima l’uccello aveva cercato di staccargli unamano.

Poi, quando l’aquila fu certa di aver catturatol’attenzione di Dirk, si levò lentamente in tutta la

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sua altezza e sempre lentamente aprì le grandi ali,muovendole piano per mantenersi in equilibrio.Era stato proprio questo gesto a spingere inprecedenza Dirk a battere in ritirata. Questa volta,tuttavia, si trovava al sicuro dietro un bel po’ dicentimetri di solido legno e quindi restò – omeglio, si accovacciò – in prima linea. Dal cantosuo, l’aquila allungò il collo, fece vibrare lalingua nell’aria ed emise un gracchiante lamentoche sorprese Dirk.

Fu allora che notò un’altra cosa sorprendente aproposito dell’aquila, e cioè che le sue aliportavano impressi dei segni strani e decisamentepoco aquilosi. Erano grandi cerchi concentrici. Ledifferenze di colorazione erano minime, e solol’assoluta regolarità geometrica dell’insiemepermetteva di notarli. Dirk ebbe la nettaimpressione che l’aquila gli stesse mostrando queicerchi, e che proprio a questo scopo avessecercato fino ad allora di attirare la sua attenzione.Ogni volta che l’uccello si era slanciato contro dilui, rifletteva ora ripensandoci, l’aveva fatto con

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una strana sorta di rituale di apertura e di chiusuradelle ali che comportava la loro completaestensione. Però, ogni volta che questo si eraverificato, Dirk era stato troppo occupato a batterein ritirata per prestare alla cosa la dovutaattenzione.

«Hai una monetina per un caffè, amico?»«Ehm, sì grazie» rispose Dirk. «Non ho

bisogno di niente.» Era concentrato interamentesull’aquila, così non si guardò subito intorno.

«No, volevo dire, puoi darmi uno scellino odue, solo per un caffè?»

«Cosa?» A questo punto Dirk si girò, irritato.«O anche solo una siga, amico. Ce l’hai una

siga da darmi?»«No, stavo giusto andando a procurarmene»

rispose Dirk.L’uomo sul marciapiede dietro di lui era un

barbone di età indefinibile. Se ne stava lì,ondeggiando piano, con uno sguardo di feroce eperpetuo disappunto che gli vagava negli occhi.

Non ottenendo un’immediata risposta da Dirk,

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l’uomo abbassò gli occhi a terra, a un metro circadavanti a sé, oscillando un poco avanti e indietro.Teneva le braccia in fuori, leggermente aperte,appena distanziate dal corpo, e oscillava. Poi,all’improvviso, fissò a terra uno sguardo pieno diriprovazione. Poi, sempre con aria schifata,guardò a terra da un’altra parte. Poi, tenendosirigido mentre eseguiva un quasi completoriallineamento della testa rispetto al corpo, guardòcon riprovazione tutta la strada.

«Ha perso qualcosa?» domandò Dirk.La testa dell’uomo oscillò mentre si voltava

verso di lui.«Se ho perso qualcosa?» esclamò con querulo

stupore. «Se ho perso qualcosa?»Sembrava non avesse mai sentito una domanda

tanto stupefacente. Guardò altrove per un po’, eparve cercare un quadro generale di riferimentonel quale collocarla. Alla fine sembrò venire acapo di qualcosa che poteva valere come unarisposta di qualche genere.

«Il cielo?» domandò, sfidando Dirk a trovarla

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una risposta abbastanza pertinente. Levò gli occhiin alto, con prudenza, per non perdere l’equilibrio.Sembrò non apprezzare ciò che vide nel debole,aranciato pallore che l’illuminazione stradaleriverberava sulle nuvole, e lentamente spostò losguardo in basso, fino a fissare un punto proprio difronte ai suoi piedi.

«La terra?» domandò, con grande e profondainsoddisfazione, e poi fu scosso da un pensieroimprovviso.

«Le rane?» disse, facendo oscillare lo sguardoper incontrare quello piuttosto stravolto di Dirk.«Un tempo mi piacevano... le rane» aggiunse, erimase a fissare Dirk, come se ormai avesse dettotutto quello che aveva da dire, e adesso toccasseall’altro fare la sua parte.

Dirk era completamente frastornato. Sentivauna profonda nostalgia dei tempi in cui la vita erastata facile e spensierata, dei tempi indimenticabilitrascorsi con un’aquila che era semplicementeomicida, e che ora gli sembrava una compagnatanto amabile e alla buona. Poteva affrontare un

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attacco dall’aria, ma non questo ruggente eanonimo senso di colpa che lo assaliva urlante daogni parte.

«Cosa vuole?» chiese con voce strozzata.«Solo una siga, amico,» rispose il barbone «o

qualche soldo per una tazza di tè.»Dirk schiaffò una moneta da una sterlina in

mano all’uomo e si precipitò giù per la strada inpreda al panico, oltrepassando, una ventina dimetri dopo, la sagoma del suo vecchio frigoriferoche lo guatava minacciosa.

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Scendendo dai gradini di casa sua Kate notò che latemperatura si era bruscamente abbassata. Lenuvole incombevano pesanti e minacciose sullaterra. Thor si mosse senza indugio in direzione delparco, e Kate gli trotterellò dietro.

Mentre Thor avanzava, figura singolare nellestrade di Primrose Hill, Kate dovette dargliragione. Incontrarono tre persone lungo ilpercorso, e lei si accorse benissimo di come i lorosguardi evitassero di fermarsi su di lui, benchédovessero fare i conti con la sua imponente molequando lui li oltrepassava. Non che fosseinvisibile, niente di tutto questo. Era

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semplicemente fuori posto.Il parco era chiuso per la notte, ma Thor

scavalcò in un baleno l’appuntita inferriata e poisollevò lei con la stessa facilità con cui avrebbemaneggiato un mazzo di fiori.

L’erba era umida e molle, ma conservava unsuo magico fascino per dei piedi cittadini. Katefece quello che faceva ogni volta che entrava nelparco, e cioè affondò per un attimo il palmo dellemani nell’erba. Non aveva mai capito bene perchélo facesse, e di solito prendeva a pretesto unascarpa da allacciare o qualcosa da raccogliere daterra, ma quello che davvero voleva era sentirel’erba e la terra bagnata tra le mani.

Il parco in quel punto era uno scuro dosso chesi ergeva davanti a loro, chiudendo la visuale.Salirono per quel pendio fermandosi in cima escrutando nell’oscurità il resto del parco che più asud, in lontananza, sfumava nella luce indistintadel centro di Londra. Sgraziate torri e casermoniemergevano rozzamente stagliati sull’orizzonte,dominando il cielo, il parco e la città.

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Un vento umido e freddo percorreva l’aria,sferzandola di quando in quando come la coda diun meditabondo cavallo nero. C’era, in questovento, un che di nervoso e di turbato. In effetti, ilcielo notturno ricordava a Kate un corteo diirrequieti cavalli neri le cui redini sbattessero eschioccassero nel vento. Le sembrò anche chequeste redini si disponessero a raggiera in ognidirezione partendo da un unico punto centrale, equel punto sembrava molto vicino. Si accusò diessere troppo suggestionabile, e tuttavia continuòad avere l’impressione che tutti gli elementi sifossero radunati intorno a loro e li circondassero,come in attesa.

Thor estrasse ancora una volta il suo martello,e lo tenne davanti a sé con lo stesso fare pensoso eassente che Kate gli aveva visto poco prima incasa sua. Corrugò la fronte e parve intento atogliere qualche minuscolo frammento di polvere.Somigliava un po’ a uno scimpanzè che spulcia ilsuo compagno, oppure – ecco cos’era! il paragoneera peregrino, ma spiegava l’impressione che Kate

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aveva avuto quando lo aveva visto fare la stessacosa in precedenza – sembrava Jimmy Connorsquando sistemava con estrema meticolosità lecorde della sua racchetta subito prima di effettuareun servizio.

Thor guardò in alto con grande attenzione,spostò il braccio all’indietro, fece un girocompleto su se stesso una, due, tre volte, ruotandopesantemente i calcagni nel fango, e quindi scagliòil martello con incredibile forza nel cielo.

L’aggeggio sparì istantaneamente nella scuracaligine. Fitti rovesci di pioggia si sprigionaronodalle nuvole, mostrando la traccia di una lungaparabola attraverso la notte. Alla sommità dellaparabola, il martello uscì ruotando dalle nubi,minuscola capocchia di spillo che ora si muovevalentamente, raccogliendosi e man manorecuperando velocità per il volo di ritorno. Kateosservò col fiato sospeso il puntolino chescivolava dietro la cattedrale di St Paul. Poi essosembrò arrestarsi quasi del tutto e rimaneresilenziosamente e improbabilmente sospeso

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nell’aria, prima di ricominciare in maniera quasiimpercettibile a ingrandirsi man mano che tornavaaccelerando verso di loro.

Poi, sulla via del ritorno, prese a deviareruotando dalla sua traiettoria, descrivendo non piùuna semplice parabola, ma un tracciato che parevacorrere lungo il perimetro di un gigantesco nastrodi Moebius, e che lo fece girare dietro allaTelecom Tower. Quindi, sempre ruotando, puntòdritto contro di loro, uscendo fuori dalla notte conun peso e una velocità impossibili, come unpistone in un cilindro di luce. Kate si piegò perevitarlo e fu lì lì per svenire, mentre Thor facevaun passo avanti e lo afferrava con un grugnito.

La terra vibrò una sola volta per ilcontraccolpo, poi il martello rimase inerte nellastretta di Thor, il cui braccio ebbe un piccolofremito e poi rimase immobile. A Kate girava latesta. Non sapeva esattamente cosa fosse appenaaccaduto, ma sapeva con certezza che era il generedi cose che sua madre non avrebbe apprezzato,almeno a un primo appuntamento.

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«È qualcosa che ci serve per andare adAsgard?» domandò. «O ti stai solo dando allapazza gioia?»

«Andremo ad Asgard... ora» rispose lui.In quell’attimo Thor sollevò una mano come se

dovesse cogliere una mela, ma fece invece unpiccolo e rapido movimento rotatorio. L’effetto fucome se avesse fatto ruotare il mondo intero di unmiliardesimo di miliardesimo di grado. Tuttoruotò, divenne per un attimo sfocato e poi tornò adapparire di scatto come un mondoimprovvisamente diverso.

Questo mondo era molto più scuro, e anchemolto più freddo.

Vi soffiava un vento pungente e nauseabondo,che strozzava in gola ogni respiro. Il terreno sotto iloro piedi non era più la soffice erba inzaccheratadel parco, ma una superficie puzzolente emelmosa. Ovunque era oscurità, salvo, sparso quae là in lontananza, qualche piccolo fuococircoscritto e una grande vampa di luce a una odue miglia di distanza, verso sudest.

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In quel punto grandi e fantastiche torritrafiggevano la notte; immensi pinnacoli e torrionibrillavano debolmente alla luce del fuoco deicamini che illuminavano migliaia di finestre. Eraun edificio che sfidava la ragione, ridicolizzava larealtà e beffava ferocemente la notte.

«La reggia di mio padre» disse Thor. «IlGrande palazzo del Walhalla, dove siamo diretti.»

Kate aveva già sulla punta della linguaun’osservazione sul fatto che quel luogo lesembrava stranamente familiare, quando giunseloro attraverso il vento un rumore di zoccoli dicavallo che trottavano sul terreno fangoso. A metàstrada tra il luogo dove si trovavano e il palazzodel Walhalla, un certo numero di torce avanzavatremolando verso di loro.

Ancora una volta Thor studiò con grandeinteresse la testa del suo martello, la ripulì conl’indice e la strofinò col pollice. Poi lentamenteguardò in alto, ancora una volta girò su se stessouna, due, tre volte e infine lanciò il proiettile nelcielo. Questa volta però non lasciò la presa e

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continuò a tenere il martello nella destra, mentrecon l’altro braccio stringeva Kate per la vita.

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Quella sera le sigarette avevano chiaramentedeciso di costituire un grave problema per Dirk.

Per gran parte della giornata, salvo quando siera svegliato, e salvo poco dopo che si erasvegliato, e salvo quando aveva incontrato la testarotante di Geoffrey Anstey, il che eracomprensibile, e salvo ancora quando si eratrovato nel bar con Kate, Dirk non aveva avutonemmeno una sigaretta.

Nessuna. Erano uscite dalla sua vita, ripudiatecompletamente. Lui non aveva bisogno disigarette. Poteva farne a meno. Lo facevanoimpazzire e gli rendevano la vita un inferno, ma

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Dirk aveva deciso che ce la poteva fare.Ora però, avendo improvvisamente stabilito a

mente fredda, per risoluzione razionale econsapevole e non per vile cedimento aldesiderio, che dopotutto una sigaretta l’avrebbefumata volentieri, il problema era: riuscivaprocurarsene una? No.

Tutti i bar, a quell’ora, erano belli che chiusi. Ilproprietario del negozio all’angolo, che dovevarestare aperto fino a tardi, aveva evidentemente unconcetto di “tardi” diverso da quello di Dirk e,benché Dirk fosse sicuro di riuscire a convincerlodella correttezza delle sue argomentazioni facendosfoggio della propria abilità retorica e sillogistica,il miserabile non si fece trovare.

Un miglio più avanti c’era una stazione dirifornimento aperta ventiquattr’ore su ventiquattro,ma risultò che aveva appena subito una rapina amano armata. Il cristallo della vetrina era tuttoincrinato attorno a un piccolo foro, e il localebrulicava di poliziotti. Il commesso non sembravaferito gravemente ma stava ancora perdendo

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sangue da un braccio, in preda a una crisi istericae sotto shock, e non c’era nessuno che fossedisposto a vendere delle sigarette a Dirk. Nonerano in vena.

«Anche durante la guerra si potevano comprarele sigarette» protestò Dirk. «La gente ne faceva unpunto d’onore. Anche sotto i bombardamenti,quando tutta la città era in fiamme, riuscivi aprocurartele. Trovavi sempre un omino, chemagari aveva appena perso due figlie e una gamba,pronto a domandarti “Col filtro o senza?” se glielechiedevi.»

«Immagino che lei gliele avrebbe chieste»borbottò un giovane poliziotto pallido.

«Era nello spirito del tempo» rispose Dirk.«Vaffanculo» ribatté il poliziotto.E questo, pensò Dirk, è lo spirito del nostro

tempo. Se ne andò via, offeso, e decise di batterele strade per un po’, mani in tasca.

Camden Passage. Vecchi orologi. Vecchivestiti. Niente sigarette.

Upper Street. Vecchi edifici sventrati. Nessun

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segno di tabaccai insediati da quelle parti.Chapel Market. Una desolazione, di notte.

Rifiuti fradici che svolazzavano disordinatamente.Scatole di cartone, contenitori di uova, sacchetti dicarta, pacchetti di sigarette – vuoti.

Pentonville Road. Sinistri monoliti di cementoche adocchiavano gli spazi vuoti in Upper Streetsperando di diffondervi la loro orrida progenie.

La stazione di King’s Cross. Lì dovevanoesserci per forza sigarette, per Dio. Dirk si affrettòin quella direzione.

La vecchia facciata della stazione dominava lazona, un grande muro di mattoni gialli con la torredell’orologio e due grandi archi che si aprivano incorrispondenza delle ampie pensiline dei treni. Difronte, facendogli ombra e rovinando tutto,sorgeva il nuovo atrio, a un piano, molto piùsquallido del vecchio edificio che aveva almenocent’anni di più. Dirk immaginò che, presentando iprogetti per il nuovo atrio, gli architetti avesseroparlato di uno stimolante ed eccitante rapportodialettico che si sarebbe stabilito tra l’edificio

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vecchio e quello nuovo.King’s Cross è una zona in cui accadono cose

terribili alla gente, alle case, alle automobili, aitreni, generalmente quando si è lì in attesa, e senon si sta più che attenti si rischia come niente difinire male, in uno stimolante ed eccitante rapportodialettico con se stessi. Mentre sei lì in attesa, puòcapitare che ti installino una radio da poco prezzosulla macchina, e che, se ti giri un attimo, te laasportino con altrettanta facilità, sempre mentresei lì in attesa. Altre cose che possono portarti viamentre sei lì in attesa sono la valigia, gli organiinterni, l’equilibrio mentale e la voglia di vivere.Borseggiatori, spacciatori, papponi e venditori dihamburger, per citare alla rinfusa, sono bravissimia fare queste cose per te.

Ma riuscissero a trovarti un pacchetto disigarette!, pensò Dirk con crescente nervosismo.Attraversò York Way, declinando un paio diincredibili offerte col pretesto che non avevanonessuna attinenza, almeno in un modoimmediatamente evidente, con le sigarette,

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oltrepassò lesto la libreria chiusa e si infilò dentrol’atrio nuovo, lontano dalla vita delle strade edentro il più sicuro regno delle FerrovieBritanniche.

Si guardò intorno.Qui c’era una strana atmosfera che Dirk non si

soffermò ad analizzare perché si stava chiedendose avrebbe potuto trovare da qualche parte untabaccaio aperto, ma nulla da fare.

Si lasciò assalire dallo sconforto. Gli sembravadi aver giocato a nascondino col mondo per tuttala giornata. La mattina era iniziata nel modo piùdisastroso possibile, per un inizio di mattinata, enon era più riuscito a tenere le cose sottocontrollo. Si sentiva come uno che cerca didomare un cavallo imbizzarrito, con un piede nellastaffa e l’altro che striscia ancora speranzoso perterra. E ora anche una cosa semplice come unasigaretta diventava un problema più grande di lui.

Sospirò e si cercò una panchina, o almeno unposto su una panchina.

Anche questa non era una cosa tanto semplice.

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La stazione era molto più affollata di quanto siaspettasse di trovare alle – vediamo un po’, cheore erano? Diede un’occhiata all’orologio –all’una di notte. Cosa ci stava facendo, in nome diDio, alla stazione di King’s Cross all’una di notte,privo di sigarette e di una casa nella quale potertornare senza essere beccato a morte da un uccelloomicida?

Decise di provare compassione per se stesso.Questo gli avrebbe permesso di far passare iltempo. Si guardò intorno e dopo un po’ l’impulsoad autocommiserarsi svanì, e Dirk riprese aosservare ciò che gli stava intorno.

Quello che c’era di strano era che un luogo cosìfamiliare apparisse tanto diverso. C’era labiglietteria, ancora aperta, ma con l’aria tetra eassillata di chi vorrebbe aver già chiuso i battenti.

C’era l’edicola, chiusa per la notte. Nessuno,ormai, avrebbe più avuto bisogno di quotidiani odi riviste tranne che per dormirci sopra, ma perquesto uso i giornali vecchi andavano altrettantobene.

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I papponi, le prostitute, gli spacciatori e ivenditori di hamburger erano tutti fuori per lestrade e nei fast-food. Se volevi proposte oscene,sesso a pagamento o, Dio ti perdoni, unhamburger, era lì che dovevi andare a cercarli.

Qui c’era gente da cui nessuno volevaassolutamente nulla. Era qui che queste personevenivano a cercare riparo fino a quandoperiodicamente non le scacciavano. C’era una solacosa, in effetti, che tutti volevano da loro: la loroassenza. Era questo che tutti chiedevano a granvoce, ma accontentarli non era facile. Uno devepur stare da qualche parte.

Dirk girò lo sguardo sugli uomini e sulle donneche si trascinavano lì intorno o che se ne stavanoseduti tutti rannicchiati o che cercavano in tutti imodi di addormentarsi sulle panchineappositamente progettate per impedirglielo.

«Hai una siga, amico?»«Cosa? No, mi dispiace. Non sono riuscito a

trovarne nemmeno una» rispose Dirk, frugandosiimbarazzato e goffo nelle tasche del soprabito,

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quasi a mimare una ricerca che sapeva sarebbestata infruttuosa. Quelle parole l’avevanobruscamente distolto dai suoi pensieri.

«To’, allora.» Il vecchio gli offrì una sigarettastazzonata da un pacchetto stazzonato.

«Cosa? Oh. Oh... grazie, grazie mille.» Benchépreso alla sprovvista, Dirk accettò con gratitudinela sigaretta, e la accese dal mozzicone di quellache il vecchio stava fumando.

«Che ci fai qui?» chiese il vecchio, percuriosità, non per provocazione.

Dirk cercò di guardarlo senza avere l’aria disquadrarlo da capo a piedi. L’uomo eravistosamente privo di denti, aveva i capelliarruffati e irti e molti strati di vecchi vestitiaddosso, ma gli occhi che gli sporgevano dallafaccia erano paciosi e tranquilli. Non gli potevacapitare niente di peggio di quanto gli era giàsuccesso.

«Be’, cercavo proprio questa, in effetti»rispose Dirk, rigirandosi fra le dita la sigaretta.«Grazie, non ne trovavo da nessuna parte.»

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«Oh ah» disse il vecchio.«A casa mi è capitato un uccello impazzito»

raccontò Dirk. «Mi è saltato addosso.»«Oh ah» fece il vecchio, annuendo con aria

rassegnata.«Un vero uccello, dico,» fece Dirk «un’aquila.»«Oh ah.»«Con delle grosse ali.»«Oh ah.»«Mi ha artigliato attraverso la cassetta delle

lettere.»«Oh ah.»Dirk si chiese se fosse il caso di proseguire la

conversazione. Rimase silenzioso e si guardò ingiro.

«Fortuna che non ti si è avventata addossoanche col becco» disse dopo un po’ il vecchio.«Un’aquila furibonda fa anche di queste cose.»

«L’ha fatto!» disse Dirk. «L’ha fatto! Guardi,proprio qui, sul naso. Anche questo attraverso lacassetta delle lettere. Da non crederci! Che presa!Che grinfie! Guardi cosa mi ha fatto alla mano!»

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La tirò fuori, in cerca di empatia. Il vecchiodiede un’occhiata competente.

«Oh ah» fece, e sprofondò nei suoi pensieri.Dirk tirò via la sua mano ferita.«Si intende parecchio di aquile?»L’uomo non rispose, e sembrò invece trarsi

ancora più in disparte.«C’è un sacco di gente qui stanotte» tentò

ancora Dirk, dopo un po’.L’uomo si strinse nelle spalle. Tirò una lunga

boccata dalla sigaretta, strizzando gli occhi per ilfumo.

«È sempre così? Voglio dire, c’è sempre tantagente la notte?»

L’uomo si limitò a guardare a terra, rilasciandolentamente il fumo dalla bocca e dal naso.

Ancora una volta Dirk si guardò attorno. Apochi passi di distanza un uomo, non tanto vecchioquanto il compagno di Dirk ma parecchio male inarnese, era stato fino ad allora a dondolarefebbrilmente la testa sopra una bottiglia di brandyda cucina. Poi pian piano smise di dondolarla,

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tappò con molta fatica la bottiglia e la infilò nellatasca del vecchio e lacero cappotto. Una donnaattempata e grassa che aveva fino ad allora frugatoin modo spasmodico nel rigonfio sacco nero diplastica che conteneva i suoi averi, cominciò adavvicinarne i bordi per chiuderlo.

«Verrebbe da pensare che stia per succederequalcosa» disse Dirk.

«Oh ah» fece il suo compagno. Puntò le manisulle ginocchia, si sporse in fuori e si alzòfaticosamente in piedi. Sebbene fosse curvo elento e i suoi vestiti fossero sporchi e stazzonati,c’era nel suo portamento un che di forte e diautorevole.

L’aria che mosse alzandosi era impregnata diun odore proveniente dalle pieghe della sua pellee dei suoi vestiti, fin troppo acuto perfino pernarici intorpidite come quelle di Dirk. Era unodore che continuava a penetrarti – proprioquando Dirk pensava dovesse diminuire tornò adaggredirlo con tanta intensità che credette che glisi sarebbe vaporizzato il cervello.

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Cercò di non tossire, anzi tentò di sorriderecortesemente e di impedire ai suoi occhi dilacrimare, quando l’uomo si voltò verso di lui egli disse: «Metti in infusione dei fiori di aranciaamara. Aggiungici un pizzico di salvia quandol’acqua è ancora calda. È ottimo per le ferited’aquila. C’è chi ci aggiunge olio di albicocca e dimandorla e anche, Dio lo perdoni, sedra. Ma gliesagerati ci sono sempre. E qualche volta sononecessari anche loro. Oh ah».

Detto questo, si girò di nuovo e raggiunse laschiera sempre più numerosa di corpi patetici,ingobbiti e malandati che si dirigevano versol’uscita della stazione. Ciascuno sembravaandarsene separatamente, ognuno per le proprieassolutamente indipendenti ragioni, senza seguiretroppo da vicino chi lo precedeva; eppure non eradifficile dire, per chiunque si fosse preso la brigadi osservare questa gente che nessuno sipreoccupava di osservare o di vedere, che stavanouscendo tutti insieme e in schiera.

Dirk si fumò religiosamente la sua sigaretta per

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un buon minuto, continuando a osservare uno dopol’altro coloro che uscivano. Quando fu certo chenon era rimasto più nessuno, e che gli ultimi due otre erano giunti alla porta, buttò a terra la sigarettae la schiacciò col piede. Allora si accorse che ilvecchio aveva lasciato lì il suo stazzonatopacchetto. Dirk lo ispezionò e vide che c’eranorimaste due sigarette inzaccherate. Si infilò ilpacchetto in tasca, si alzò in piedi, e senza fretta simise a seguirli a una distanza che gli parveadeguata.

Fuori, in Euston Road, l’aria notturna eraturbata e lamentosa. Indugiò sulla porta, attentoalla direzione che prendevano: ovest. Tirò fuoriuna sigaretta dal pacchetto, la accese e poi sidiresse pigramente anche lui a ovest, intorno alparcheggio dei tassì e verso St Pancras Street.

Sul lato occidentale di St Pancras Street,appena superata Euston Road verso nord, unascalinata porta allo spiazzo antistante il vecchioGrand Hotel Midland, quell’imponentefantasmagoria gotica che, vuota e desolata, si erge

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di fronte all’ingresso della stazione ferroviaria diSt Pancras.

In cima alla scalinata, in lettere dorate sbalzatesu ferro battuto, campeggia il nome della stazione.Senza fretta, Dirk seguì gli ultimi di quella fila direlitti e derelitti umani su per quegli scalini, cheterminavano proprio accanto a un tozzo e piccoloedificio in mattoni adibito a rimessa. Sulla destra,la grande e scura carcassa del vecchio albergo siergeva nella notte, il tetto profilato da un vastoassortimento di aspre torrette, guglie deformi epinnacoli che sembravano pungolare e incalzare ilcielo notturno.

Alte nell’indistinta oscurità, silenziose figure dipietra stavano sull’attenti dietro lunghi scudi,raggruppate intorno a pilastri dietro a grate diferro battuto. Draghi di pietra accovacciatispalancavano le fauci verso il cielo mentre DirkGently, nel suo svolazzante soprabito di pelle, siavvicinava ai grandi portali di ferro che siaprivano sull’albergo e sulla grande pensilinadella stazione di St Pancras. Dalla sommità dei

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pilastri, cani alati di pietra si chinavano verso ilbasso.

Qui, nello spiazzo coperto tra l’entratadell’albergo e la biglietteria della stazione, eraparcheggiato un grosso furgone Mercedes grigio esenza scritte. Un rapido sguardo bastò a Dirk perriconoscerlo: era lo stesso che poche ore prima,nei Cotswold, l’aveva quasi fatto uscire di strada.

Dirk raggiunse la biglietteria, un ampio localecon pareti a pannelli lungo le quali, a intervalliregolari, si ergevano grosse colonne di marmo aforma di porta-torce.

A quell’ora della notte gli sportelli dellabiglietteria erano chiusi – i treni non partono dinotte da St Pancras – e, più oltre, la grandepensilina vittoriana della stazione era avvoltanell’ombra e nell’oscurità.

Dirk si fermò in disparte all’entrata dellabiglietteria, seguendo con gli occhi i vecchivagabondi e le donne coi sacchi di plastica che,entrati nella stazione attraverso la porta principaledallo spiazzo, tornavano a radunarsi nell’oscurità.

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Ora ce n’erano ben più di due dozzine, forseaddirittura un centinaio, e da tutti emanava un’ariadi tensione e di eccitazione repressa. Osservandolimentre si aggiravano lì intorno, dopo un po’ Dirkebbe l’impressione che il loro numero fossenotevolmente diminuito anche se poco prima glierano sembrati tanti. Spiò nell’oscurità, cercandodi capire cosa fosse successo. Lasciò il suosolitario punto di osservazione all’ingresso dellabiglietteria ed entrò sotto la volta principale,tenendosi comunque il più possibile rasente ilmuro mentre si avvicinava a quegli individui.

Ormai ne rimanevano davvero pochi, solo unamanciata. Ebbe la netta sensazione che la gentesparisse nell’ombra senza più riapparire.

Corrugò la fronte.L’oscurità era grande, ma non assoluta. Si

slanciò in avanti, rinunciando a ogni cautela, perraggiungere il gruppetto rimasto. Quando giunse alcentro dell’atrio, dove prima c’era quella piccolafolla ora non c’era più nessuno, e si trovò adaggirarsi solo e confuso nel mezzo di una grande e

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buia stazione vuota.

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L’unica cosa che impedì a Kate di urlare fu la purae semplice pressione dell’aria che le si riversò neipolmoni mentre partiva a razzo verso il cielo.

Quando, di lì a qualche secondo, l’accecanteaccelerazione diminuì un poco, si trovò a tossiremezzo soffocata, con gli occhi che le bruciavano ele lacrimavano tanto da non riuscire quasi adaprirli, mentre praticamente ogni muscolo del suocorpo fremeva per lo shock ogni volta che unafolata d’aria la investiva, strappandole i capelli e ivestiti e facendole sbatacchiare gli uni contro glialtri denti, ginocchia e giunture.

Dovette combattere con se stessa per farsi

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passare la voglia di opporsi. Da una parte eraassolutamente certa di non voler essere lasciataandare. Per quello che riusciva a capire di ciò chele stava succedendo, sapeva che non voleva esserelasciata andare. Dall’altra, lo shock fisicoeccitava in lei una forma di ostinata opposizioneche nasceva dalla rabbia di essere stata trascinatain cielo in un modo così repentino e senza alcunpreavviso. Il risultato di tutto questo fu un modoassai poco convinto di opporsi, e una gran rabbianei propri confronti. Andò a finire che si aggrappòal braccio di Thor nel modo più abietto e menodignitoso.

La notte era buia, e questo – pensava – era unbene, perché le impediva di guardare la terrasottostante. Le luci che prima aveva vistoocchieggiare qua e là in lontananza ora ruotavanovia sempre più distanti sotto di lei dandole unsenso di nausea, ma non riusciva a capire serappresentassero o no la terra. Anche i fuochi chepochi istanti prima aveva visto baluginaredall’edificio follemente trapuntato di guglie,

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torrette e pinnacoli ora smorivano via a unadistanza sempre maggiore.

Stavano ancora salendo.Non poteva più lottare, non riusciva più a

parlare. Tutto quello che avrebbe potuto fare,volendo, era colpire il braccio di quello stupidobruto, ma preferì accontentarsi di immaginarequesta cosa piuttosto che realizzarla.

L’aria era cattiva, e le irritava i polmoni. Ilnaso e gli occhi colavano, rendendole impossibileguardare davanti a sé. Quando ci provò, una voltasola, ebbe una confusa visione della testa delmartello che sfrecciava nell’oscurità davanti aloro, e della mano di Thor aggrappata al suomanico, trascinato nella sua corsa. L’altra manoera saldamente avvinghiata alla vita di Kate. Lastretta di lui superava ogni immaginazione, ma nonper questo la irritava di meno.

Aveva la sensazione che ormai stesserorasentando le nubi. Ogni tanto venivanoschiaffeggiati da un vento umido e freddo, erespirare diventava sempre più difficile e nocivo.

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Quest’aria umida era gelida e sapeva di amaro, e icapelli bagnati e gocciolanti le sbatacchiavano sulviso, sferzandolo.

Kate si convinse che il freddo l’avrebbesicuramente uccisa, e poco dopo decise che stavaper perdere conoscenza. Alla fine capì che stavacercando di perdere conoscenza, senza riuscirci. Iltempo comunque scivolò in un grigiore uniforme, elei divenne meno cosciente di quello che stavasuccedendo.

Finalmente cominciò ad avere l’impressioneche stessero iniziando a curvare verso il basso.Ciò le procurò nuove ondate di nausea e didisorientamento, e la sensazione che lo stomaco lesi riducesse in poltiglia.

L’aria, se possibile, diventava sempre piùirrespirabile. Aveva un odore peggiore, un saporepiù acre e si faceva via via più turbolenta. Adessostavano davvero rallentando, e avanzare diventavasempre più difficile. Ora il martello eravisibilmente puntato verso il basso, anziché versol’alto.

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Continuarono a scendere, facendosi strada afatica tra le nubi sempre più fitte che turbinavanointorno a loro, fino a coprire, almeno così pareva,tutta la distanza da lì al suolo.

La loro velocità adesso era tanto diminuita cheKate ritenne di poter riaprire gli occhi, ma l’ariaera così pungente che riuscì a dare solo unasbirciatina. Proprio in quell’attimo Thor lasciòandare il martello. Kate non riusciva a credere aipropri occhi. Lo lasciò solo per una frazione disecondo, giusto il tempo necessario per cambiarela presa, di modo che ora penzolavano aggrappatial manico che avanzava lentamente verso il basso,e non erano più trascinati in alto come prima.Mentre ridistribuiva il proprio peso assumendoquesta nuova posizione, Thor sollevò Katerimettendola dritta con la stessa facilità con cui sisarebbe riavviato i capelli. Intanto continuavano ascendere, giù, sempre più giù.

Portato dal vento, nel frattempo, giunse loro ilsuono di un grande fragore, ed ecco Thorprecipitarsi in avanti, balzare tra rocce e sabbia,

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danzare tra cespugli nodosi, e infine battere epuntare i piedi fino ad arrestarsi.

Finalmente erano fermi, benché ancoratremanti, ma il terreno sotto i loro piedi era solido.

Kate restò un po’ ad ansimare, piegandosi inavanti per cercare di riprendere fiato. Finalmentesi rimise in posizione eretta ed era sul punto didare voce a tutto ciò che pensava della situazione,quando all’improvviso e con un senso di allarmesi accorse di dove si trovava.

Sebbene la notte fosse buia, il vento che lesferzava il viso e l’odore aspro che portava con sérivelavano chiaramente l’immediata vicinanza diun mare di qualche tipo. Un violento frangersi dionde le fece capire che il mare era, in effetti,proprio sotto di lei, e che dovevano trovarsi sulciglio di una scogliera. Strinse con forza il bracciodi quel dio insopportabile sperando, vanamente, difargli male.

Quando i suoi sensi scossi si furono un po’calmati, si accorse che una pallida luce brillava inlontananza davanti a lei, e che questa luce veniva

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dalle onde.Tutto il mare ribolliva come un’infezione. Si

levava alto nella notte, scartando e girando su sestesso in un folle turbine per poi andare ainfrangersi in mille rivoli contro la scogliera confrenetico autolesionismo. Mare e cielo siconfrontavano con disperata violenza.

Kate rimase a bocca aperta a guardare, poi fuconscia della presenza di Thor alle sue spalle.

«Ci siamo incontrati in un aeroporto» disse lui,con la voce che si perdeva nel vento. «Io cercavodi tornare a casa, in Norvegia, con un aereo.» Feceun gesto in direzione del mare. «Volevo farticapire perché non potevo tornare in questo modo.»

«Dove siamo? Cos’è questo?» chiese Katespaventata.

«Nel vostro mondo, questo è il Mare del Nord»rispose Thor, dirigendosi a passi pesanti versol’interno e tirandosi dietro il martello.

Kate si strinse nel cappotto fradicio e gli corsedietro.

«E perché non te ne sei tornato in volo a casa

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tua come abbiamo fatto adesso, ma, be’, ecco, nelnostro mondo?»

Il problema di scegliere i termini adeguatiaveva momentaneamente messo in secondo pianola sua rabbia.

«Ci ho provato» rispose Thor continuando acamminare.

«Be’, e cosa è successo?»«Non voglio parlarne.»«Dove diavolo sta il problema?»«Non intendo discuterne.»Kate fece spallucce, esasperata. «È un

comportamento da dio, questo?» gridò. «Ti dà cosìfastidio parlarne?»

«Thor! Thor! Sei proprio tu?»Queste parole venivano da una vocina sottile,

portata dal vento. Kate aguzzò gli occhi.Attraverso l’oscurità, una lanterna oscillava versodi loro, dietro a un piccolo rialzo.

«Sei proprio tu, Thor?» Si profilò davanti aloro una vecchietta che, tenendo una lanterna soprala testa, trotterellava estasiata verso di loro.

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«Avevo ragione di pensare che fosse tuo ilmartello che ho visto! Benvenuto!» esclamòbattendo le mani. «Oh, ma giungi in tempi tristi.Stavo giusto mettendo su l’acqua per bermi unatazza di qualcosa e poi magari uccidermi ma, misono detta, aspetta ancora qualche giorno,Tsuliwa... Tsuwila... Swuli... Tsuliwaënsis – nonriesco mai a pronunciare il mio nome quandoparlo con me stessa, e questo mi fa impazzire dirabbia, come penso tu capisca benissimo, unragazzo intelligente come te, io l’ho sempresostenuto e non importa se qualcuno la pensadiversamente – insomma Tsuliwaënsis, mi sonodetta, sta’ a guardare se arriva qualcuno e poi, senon viene nessuno, be’, allora potrebbe essere ilmomento buono per suicidarti. E guarda! Ora seiqui! Oh, tu sia il benvenuto! Benvenuto! Ma vedoche hai portato con te un’amichetta. Non me lapresenti? Salve, mia cara, piacere. Il mio nome èTsuliwaënsis e di certo non mi offenderò se nonsaprai pronunciarlo.»

«Io, ehm, sono Kate» fece Kate, completamente

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disorientata.«Sì, certo, vedrete che andrà tutto bene» tagliò

corto la vecchia. «Ma ora venite dentro, se volete.Se invece avete intenzione di ciondolare qua fuoriper tutta la notte, allora tanto vale che io miammazzi subito e che voi prendiate il vostro tèquando vi farà comodo. Venite!»

Affrettò il passo e, percorsi pochi metri,raggiunsero il peggior esemplare in assoluto disgangherato tugurio di legno e fango, che avevatutta l’aria di essersi arrestato a metà propriomentre era sul punto di crollare. Kate spiò il visodi Thor, sperando di trovarvi una qualche reazioneche le permettesse di capire cosa stavasuccedendo, ma lui era immerso nei propripensieri, e si vedeva benissimo che non eradisposto a condividerli con lei. A Kate, tuttavia,sembrò di cogliere una differenza nel suoatteggiamento. Per quel poco che lo conosceva,l’aveva sempre visto in preda a una specie dirabbia trattenuta e compressa, che ora sembravaattenuata. Non scomparsa, ma almeno attenuata.

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Thor si fermò accanto alla porta della baracca perlasciare entrare Tsuliwaënsis e poi fece un bruscogesto a Kate perché anche lei si affrettasse aentrare. Dopo essersi soffermato un istante aguardarsi intorno, per quel poco che si potevavedere, entrò anche lui, piegandosi assurdamentein avanti.

L’interno era minuscolo. Delle assi coperte dipaglia a mo’ di letto, un pentola piena d’acquabollente appesa sopra il fuoco, e una cassasistemata in un angolo a fare da sedia.

«E questo, vedete, è il coltello che pensavo diusare» disse Tsuliwaënsis, affaccendandosi ingiro. Lo stavo proprio arrotando come si deve,vedete? Viene bene se lo si affila sapientementecon una pietra, e io stavo pensando che questosarebbe il posto adatto, vedete? Qui, sul muro.Posso infilare il manico in questa crepa in modoche resti ben fermo, e poi, semplicemente, unoslancio! Mi ci slancio contro. Uno slancio, capite?Mi chiedo se non dovrei metterlo un pochino piùin basso, cosa ne pensi, cara? Te ne intendi di

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queste cose?»Kate spiegò che non se ne intendeva, e cercò di

apparire calma.«Tsuliwaënsis,» disse Thor «non siamo venuti

per rimanere ma per... Tsuli, ti prego, posa quelcoltello!»

Tsuliwaënsis era in piedi davanti a loro ecicaleggiava allegra, ma in mano aveva ancora ilcoltello, con la grande e pesante lama sagomatapuntata sul polso sinistro.

«Non ci badate, cari,» rispose lei «non ci sonoproblemi. Posso morire in qualsiasi momento iovoglia. Felice di farlo. Questi non sono tempi incui vivere. Oh, no. Andatevene e siate felici. Nonvoglio disturbare la vostra felicità con le mie urla.Neanche un gridolino farò, con questo coltello,quando ve ne andrete.» Stava in piedi davanti aloro, fremente, in atteggiamento di sfida.

Con cautela, quasi con gentilezza, Thor siavvicinò e le sfilò il coltello dalla mano tremante.La vecchia sembrò improvvisamente raggrinzirsi,e tutta la sua spavalderia scomparve. Si buttò a

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sedere sulla cassa, come un sacco. Thor siaccovacciò sui calcagni accanto a lei e laabbracciò. Pian piano la vecchia sembròriprendersi e infine lo respinse dicendogli di nonfare lo stupido e dandosi un gran da fare a lisciarsil’abito nero, irrimediabilmente liso e sporco.

Quando si fu ricomposta, tornò a guardare Katesquadrandola da capo a piedi.

«Sei una mortale, non è vero, cara?» proruppeinfine.

«Be’... sì» ammise Kate.«Si vede subito da come sei vestita. Da come

sei elegante. Oh, sì. Bene, ora lo vedi com’è ilmondo dall’altra parte, non è vero, cara? Allora,cosa ne pensi?»

Kate spiegò che ancora non sapeva cosapensarne. Thor si mise a sedere sul pavimento eappoggiò il suo testone contro la parete,socchiudendo gli occhi. Kate ebbe l’impressioneche stesse preparandosi per qualcosa.

«C’è stato un tempo in cui le cose eranodiverse» continuò la vecchia signora. «Un tempo,

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qui, le cose erano belle, sai, tutto era bello.Qualche piccola questione tra noi. Terribilibaruffe, certo, e lotte spaventose, ma tutto eradavvero bello. E ora?» Si lasciò sfuggire un lungoe stanco sospiro, e grattò via un inesistentegranello dalla parete.

«Oh, le cose vanno male,» continuò «le cosevanno veramente male. Ogni cosa influenza l’altra,sai. Il nostro mondo influenza il vostro, il vostroinfluenza il nostro. Qualche volta è difficile capiredi preciso cosa ne salta fuori. E molto spesso, tral’altro, quello che salta fuori non è propriopiacevole. Certi giorni sono difficili, spaventosi.Eppure, da tanti punti di vista, i nostri mondi sonomolto simili. Quando sul vostro mondo sicostruisce un nuovo edificio, anche nel nostrospunta qualcosa. Può essere semplicemente unmonticello fangoso, o un alveare, o un’abitazionecome questa. Qualche volta è qualcosa di un po’meglio, ma qualcosa spunta sempre. Va tutto bene,Thor caro?»

Il Dio del Tuono chiuse gli occhi e fece un

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cenno d’assenso. Aveva i gomiti appoggiati sulleginocchia. Il bendaggio sull’avambraccio sinistro,ricavato dalla camicia da notte di Kate, erafradicio e sfilacciato. Con un gesto distratto Thorse lo tolse.

«E quando c’è qualcosa di non proprio benfatto nel vostro mondo» continuò a ciarlare lavecchia «con ogni probabilità finirà per emergerenel nostro. Nulla scompare. Nessun colpevolesegreto. Nessun pensiero inespresso. Può essere lanascita di un dio nuovo e potente, o di un semplicemoscerino, ma qualcosa compare sempre nelnostro mondo. E direi che il più delle volte, diquesti tempi, sono moscerini e non dei nuovi epotenti. Oh, ci sono tanti più moscerini e tantimeno dei immortali, oggi, rispetto al passato!»

«Ma come possono esserci meno immortali?»chiese Kate. «Non vorrei sembrare pedante, ma...»

«Be’, c’è immortale e immortale, mia cara. Sesolo potessi assicurare bene questo coltello e poiprendere un bello slancio, vedremmo subito chi èimmortale e chi no.»

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«Tsuli...» la ammonì Thor, senza nemmenoaprire gli occhi.

«Uno dopo l’altro, ce ne stiamo andando tutti,comunque. È così, Thor. Tu sei uno dei pochi cheancora ci tiene. Ormai ce ne sono rimasti pochiche sono scampati all’alcolismo o all’onx.»

«Cos’è? Una malattia?» chiese Kate. Sentivache stava tornando di cattivo umore. Essere stataprima strappata da casa contro la propria volontàe trascinata attraverso tutta l’Anglia orientaleappesa al manico di un martello per poi esserelasciata tutta sola a chiacchierare con una vecchiapazza dagli istinti suicidi la irritava; tanto più cheThor se ne stava lì seduto con l’aria soddisfatta elasciava che su lei ricadesse tutto il peso di unaconversazione per la quale non era dell’umoregiusto.

«È una malattia che solo gli dei possonoprendere, cara. Consiste nel fatto che non si puòpiù continuare a essere dei, e questo è il motivo,come puoi ben capire, per cui solo noi possiamoaverla.»

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«Capisco.»«Nello stadio finale ti ritrovi sdraiato per terra,

e dopo un po’ ti spunta un albero dalla testa.Allora è tutto finito. Ti ricongiungi alla terra,penetri nelle sue viscere, scorri nelle sue arterie e,alla fine, riemergi sotto forma di un torrented’acqua pura, e con tutta probabilità ti ritrovipieno zeppo di pesticidi. È un brutto affare essereun dio oggigiorno, anche un dio morto.»

«Be’» disse poi, battendo le mani sulleginocchia. I suoi occhi si posarono su Thor cheaveva aperto gli occhi, ma solo per guardarsi ledita e le nocche. «Allora, Thor, mi hanno detto chehai un appuntamento stanotte.»

«Hmm» grugnì lui, senza muoversi.«Dicono che vi dovete trovare al Palazzo per

l’Ora della Sfida, è vero?»«Hmm» fece Thor.«L’Ora della Sfida, eh? Be’, so che da un pezzo

le cose tra te e tuo padre non andavano moltobene. Eh?»

Thor non si lasciò indurre a rispondere e

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mantenne il suo mutismo.«Ho sempre pensato che l’affare del Galles

deve essere stato parecchio duro» continuòTsuliwaënsis. «Non so come hai fatto a resistere.Naturalmente mi rendo conto che è tuo padre e ilPadre-del-Tutto, e questo rende difficili le cose.Ma Odino, Odino... lo conosco da tanto di queltempo! Sai che una volta ha fatto un patto col qualesacrificava un occhio in cambio della saggezza?Ma certo che lo sai! Sei suo figlio. Be’, ho sempresostenuto che avrebbe dovuto sporgere reclamo echiedere indietro il suo occhio. Capisci cosaintendo, Thor? E quell’orribile Mezza Calzetta.Con lui bisogna andarci piano, Thor, propriopiano. Bene, spero che mi racconterai tutto domanimattina, vero?»

Thor fece scorrere la schiena sulla parete finoad alzarsi in piedi. Prese affettuosamente le manidella vecchia tra le sue, le rivolse un sorriso tiratoma non disse una parola. Avvertì Kate con ungesto che era ora di andare. Visto che andarseneera la cosa che desiderava di più, Kate resistette

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alla tentazione di esclamare: “Ah, sììì?” e dipiantare una grana sul modo in cui la si trattava.Docilmente, quindi, salutò molta compita lavecchia signora e uscì fuori nella notte tenebrosa.Thor la seguì.

Lei incrociò le braccia e disse: «Be’, e ora?Quali altri fantastici eventi mondani hai in serboper me, questa sera?».

Thor vagò un poco attorno, esaminando ilterreno. Tirò fuori il suo martello, e lo soppesòcon occhio clinico. Scrutò il buio e fece ruotarel’attrezzo un paio di volte, oziosamente. Giròanche su se stesso un paio di volte, ma senzatroppa convinzione. Il martello gli scappò dimano, sfrecciò via nella notte, colpì un masso chesi trovava per caso sul suo cammino a unacinquantina di metri di distanza, lo scheggiò equindi tornò indietro. Thor lo riprese facilmente,lo buttò in aria e anche questa volta lo riprese confacilità.

Poi si voltò verso di lei, e la guardò dritto negliocchi per la prima volta.

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«Ti piacerebbe vedere una cosa?»

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27

Una raffica di vento percorse l’immensa voltadella stazione deserta quasi strappando a Dirk unululato di frustrazione davanti a quella repentinascomparsa. Un freddo chiaro di luna ammantava lelunghe file di vetrate che correvano per tutta lalunghezza del tetto della stazione di St Pancras.

La luce della luna cadde sulle rotaie vuote,illuminandole. Cadde sul tabellone delle partenzedei treni e sulla scritta che annunciava che quelloera un “Giorno di favolosi sconti sui biglietti”,illuminando entrambi.

Incorniciate nella grande volta formatadall’estremità più distante del tetto della stazione,

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si stagliavano le forme fantastiche di cinque grandigasometri, le cui strutture di supporto sembravanoaggrovigliarsi improbabilmente tra loro come glianelli di un illusionista in un gioco di prestigio. Laluce della luna illuminò anch’essi; solo Dirk nonriuscì a illuminare.

Aveva assistito alla sparizione di più di uncentinaio di persone in un modo che era del tuttoimpossibile. La cosa, in sé, non costituiva unproblema. L’impossibile non lo preoccupava piùdi tanto. Infatti se una cosa non può realizzarsi inun modo possibile, be’ allora si realizza in unmodo impossibile. Il problema era come.

Percorse quella zona della stazione nella qualeerano spariti tutti, cercando un indizio,un’anomalia, qualsiasi cosa gli permettesse diinfilarsi in quella roba non meglio identificatanella quale, come se nulla fosse, si era già infilatoun centinaio di persone. Aveva come la sensazioneche nelle immediate vicinanze si stesse svolgendouna grande festa, alla quale solo lui non era statoinvitato. Disperato, cominciò a correre in giro a

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braccia spalancate, poi decise che si trattava di ungesto assolutamente futile e si accese una sigaretta.

Si accorse, tirando fuori il pacchetto, di averlasciato cadere un fogliettino che, dopo essersiassicurato dell’accensione della sigaretta,raccolse da terra.

Non era niente di eclatante, solo il conto cheaveva pagato alla petulante infermiera in quelcaffè. “Vergognosa” pensò Dirk di ogni voce diquel conto, scorrendolo da cima a fondo, e stavaper appallottolarlo e buttarlo via quando qualcosanella disposizione delle voci attirò la suaattenzione.

Ogni voce della ricevuta era elencata, incolonna, sulla sinistra, col relativo prezzo sulladestra.

Anche lui quando presentava il suo conto,quando cioè aveva dei clienti, cosa piuttosto raraal momento, visto che quando anche li trovavapareva che costoro non riuscissero a restare viviabbastanza a lungo per ricevere il suo conto e perindignarsene, di solito curava molto le varie voci

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di spesa. Ne faceva veri e propri trattati, articolatiin paragrafi. Ci teneva che i suoi clienti avesserol’impressione di aver speso bene i loro soldi,almeno su questo punto.

Insomma, le ricevute che presentava lui aipropri clienti avevano notevoli analogie formalicon il mucchio di fogli coperti da un’indecifrabilescrittura runica che lui, un paio d’ore prima, avevavanamente cercato di interpretare. Voleva direqualcosa tutto questo? Non sapeva. Se quel fasciodi fogli rappresentava non un contratto ma unconto, di che conto si trattava? Quali servizi eranostati resi? Di sicuro dei servizi complicati. O,almeno, descritti in modo complicato. A cheprofessione si potevano riferire? Se non altro,c’era abbondante materiale su cui riflettere.Appallottolò il conto del caffè e fece per andare agettarlo in un cestino dei rifiuti.

Questo atto, puramente casuale, si rivelòsignificativo.

Infatti fece sì che Dirk non si trovasse al centrodello spiazzo, bensì rasente un muro contro il

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quale poté addossarsi senza rumore quando,all’improvviso, sentì lo scalpiccio di due paia dipiedi che attraversavano il cortile davantiall’atrio.

Pochi secondi dopo, quando questi piedientrarono nella stazione, Dirk era perfettamentenascosto dietro l’angolo.

Essere perfettamente nascosto, però, sortì ancheun effetto indesiderato, e cioè che per un certotempo non fu in grado di vedere i proprietari deisuddetti piedi. Quando riuscì a dare un’occhiata, idue avevano raggiunto il punto esatto in cui,qualche minuto prima, una piccola folla di personeera svanita come se nulla fosse.

Dirk rimase sorpreso davanti agli occhiali rossidella donna e al flemmatico completo italianodell’uomo, nonché davanti alla rapidità con laquale entrambi sparirono.

Ci rimase di stucco. Proprio quei due maledettiindividui che per tutto quel giorno gli avevanoavvelenato l’esistenza (si perdonò la piccolaesagerazione giustificandolo con la gravità della

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provocazione) ora erano spariti davanti ai suoiocchi, in modo flagrante e deliberato.

Quando fu certo che erano svaniti in modoassolutamente definitivo e che non si limitavano anascondersi alla sua vista, provò ancora una voltaad avventurarsi nello spiazzo misterioso.

Il luogo era ingannevolmente normale. Normalepavimentazione, normale aria, normale tutto.Eppure un numero di persone capace di fare lafelicità dell’industria del triangolo delle Bermudaper almeno dieci anni era sparita proprio lì, nelgiro di cinque minuti.

Si sentiva parecchio irritato.Si sentiva così irritato che pensò che gli

sarebbe piaciuto dividere questa irritazione conqualcuno, telefonandogli e irritandolo a propriavolta – cosa indubbia all’una e venti del mattino.

Non era poi un’idea così peregrina, visto cheera davvero preoccupato per quella ragazzaamericana, Kate Schechter, e che non l’aveva perniente rassicurato il fatto che quando l’avevachiamata gli avesse risposto la segreteria

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telefonica. A quest’ora era di sicuro tornata a casae dormiva, ed essere svegliata da una telefonataimportuna a quell’ora di notte l’avrebbe mandatadeliziosamente in bestia.

Trovò un paio di monete, un telefonofunzionante, e compose il numero. Ancora unavolta gli rispose una segreteria telefonica.

La voce diceva che Kate quella notte avrebbefatto una gita ad Asgard. Non sapeva per certo inquale parte di Asgard stessero andando ma disicuro più tardi, se la notte era propizia,avrebbero fatto un salto nel Walhalla. Se luivoleva lasciare un messaggio, lei avrebbeprovveduto a richiamarlo in mattinata, sempre chefosse viva e in vena. Seguirono alcuni bip, cherisuonarono ancora un poco nell’orecchio di Dirk.

«Oh» disse lui, accorgendosi allora che lamacchina stava registrando le sue parole. «SantoCielo. Be’, se non mi sbaglio eravamo rimastid’accordo che mi avresti chiamato prima di farequalcosa di impossibile.»

Mise giù la cornetta, scuotendo rabbiosamente

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la testa. Walhalla, eh? Era questo il posto doveandavano tutti, quella notte, con la sua solaeccezione? Aveva una mezza idea di tornarsene acasa e andare a dormire per svegliarsi la mattinadopo impegnato nell’attività di droghiere.

Walhalla.Si guardò intorno, con quel nome che gli

ronzava nelle orecchie. Non c’era dubbio che unospazio di quelle dimensioni si prestava benissimocome salone delle feste per divinità e antichi eroi,e che il deserto Grand Hotel Midland potevameritare addirittura una trasvolata dalla Norvegia.

Si chiese se avere cognizione di dove si stavaandando potesse fare qualche differenza.

Camminò nervoso, per tentativi, dentro e fuorilo spiazzo in questione. Non accadde nulla. Ah,bene. Si voltò e rimase a guardarsi intorno perqualche istante, mentre dava un paio di tiri allasigaretta che aveva preso al barbone. Non videalcuna differenza.

Tornò ancora indietro, questa volta a passilenti, un po’ meno incerti e più decisi. Ancora una

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volta non accadde nulla, ma proprio mentre stavaper uscire dallo spiazzo ebbe la mezzaimpressione di aver mezzo sentito per un mezzosecondo un suono rauco di qualche sorta, similealle scariche di una radio non ben sintonizzata.Tornò di nuovo indietro e rientrò nello spiazzo,muovendo cautamente la testa per cercare dicogliere il più piccolo rumore. Per un po’ nonriuscì a sentire nulla, poi all’improvviso unframmento di suono vibrò nell’aria e scomparve.Un movimento e un altro frammento. Si spostòmolto, molto lentamente, e con la massimacircospezione. Col più impercettibile e lievemovimento, cercando di cogliere il suono, Dirkruotò la testa di un miliardesimo di miliardesimodi grado, scivolò dietro una molecola escomparve.

Dovette immediatamente piegarsi su se stessoper evitare una grande aquila che fendeva il vastospazio circostante piombando in picchiata controdi lui.

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28

Era un’altra aquila, un’aquila diversa. E lasuccessiva era un’aquila ancora diversa, e cosìquella dopo. L’aria sembrava gremita di aquile, edera evidentemente impossibile entrare nelWalhalla senza essere assaliti da almeno unadozzina di esemplari. Le aquile stesse eranoincalzate da altre aquile.

Dirk alzò le braccia sopra la testa per ripararsida quella selvaggia aggressione, si girò, inciampòe cadde dietro un grande tavolo su un pavimento diterra battuta e paglia fradicia. Il cappello rotolòsotto. Andò strisciando a riprenderselo, se localcò bene in testa e, con circospezione, alzò gli

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occhi al di sopra del tavolo.La sala era immersa in un’oscurità ravvivata

dal fuoco di alcuni grandi falò.L’aria era impregnata di rumori e di fumo di

legna, dell’odore di maiali arrostiti, cinghialiarrostiti, agnelli arrostiti, sudore, vino puzzolentee ali di aquila bruciacchiate.

Il tavolo dietro il quale era rannicchiato era unadelle innumerevoli assi di quercia rette dacavalletti che si allungavano in ogni direzione,apparecchiate con enormi forme di pane, fumantipezzi di carne, grandi coppe di ferro traboccanti divino e candele a forma di montagnole di cera.Massicce figure sudate sedevano intorno a esse esopra di esse, mangiando e bevendo e azzuffandosiper le pietanze, azzuffandosi dentro le pietanze,azzuffandosi con le pietanze.

A un metro o poco più da Dirk, un guerriero inpiedi su un tavolaccio stava combattendo con unaporchetta che era stata arrostita per più di sei ore,e stava chiaramente perdendo, ma perdendo conspirito e con vigore, incitato da altri guerrieri che

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gli gettavano addosso il vino contenuto in unmastello.

Il tetto, almeno per quel poco che si potevascorgere a quella distanza e in quell’oscurità rottasolo dalla luce tremolante dei falò, era fatto discudi legati gli uni agli altri.

Dirk si strinse in mano il cappello, abbassò latesta e si mise a correre cercando di raggiungereuna parete della sala. Mentre correva, sentendosipraticamente invisibile in grazia del fatto che erasobrio e – almeno a suo modo di vedere – vestitonormalmente, ebbe l’impressione di aver avutomodo di assistere al soddisfacimento di ogni sortadi necessità fisiologica e di attività corporaleimmaginabile, con la sola eccezione del lavarsi identi.

Il fetore, simile a quello del vagabondo allastazione di King’s Cross che certamente dovevatrovarsi lì dentro, era del tipo che non smettevamai di penetrarti. Aumentava sempre di intensità,fino a quando avevi l’impressione che la testa ti sidovesse gonfiare sempre di più per riuscire a

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contenerlo. Lo strepito di spade che cozzavanocontro altre spade, di spade contro scudi, di spadeche penetravano carni, di corpi contro altri corpiera tale da far tremare, vacillare e piangere anchei timpani. Dirk fu preso a pugni, fatto inciampare,spintonato, sgomitato e annaffiato di vino mentrecorreva a perdifiato in mezzo a quella folle calca,ma alla fine riuscì a raggiungere una parete –tavole di legno massello e lastre di pietra rivestitedi cuoio.

Ansimando, si fermò per un attimo, e si volse aguardare stupefatto la scena.

Era il Walhalla.Al di là di ogni dubbio. Non poteva certo

essere un’imitazione organizzata da un’agenzia dicatering. Tutto quel mucchio selvaggio di dei e dieroi gozzoviglianti, con i loro scudi, i loro falò e iloro cinghiali e con le loro gozzoviglianti signore,sembrava occupare uno spazio che aveva più omeno le dimensioni della stazione di St Pancras. Ilpuro calore animale prodotto da tuttoquell’ammasso di corpi era tale da far pensare che

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avrebbe soffocato persino lo stormo di aquile chesvolazzavano instupidite e senza meta sopra leloro teste.

E non era escluso che le cose stessero propriocosì. Dirk non era affatto sicuro che uno stormo diaquile furibonde e convinte di finire soffocate sisarebbe comportato in modo diverso da quelle chestava appunto osservando.

C’era qualcosa che lui aveva momentaneamenteaccantonato mentre si sforzava di fendere quellacalca, ma su cui ora era il caso di riflettere.

Cosa pensare, si chiese, dei Draycott?Cosa mai potevano farci da quelle parti? E

dove potevano trovarsi ora, in tutto quelbailamme?

Strinse gli occhi e aguzzò la vista in mezzo aquella massa montante per cercare di individuareun paio di occhiali rossi firmati o un flemmaticocompleto italiano in mezzo al cozzare di corazzemetalliche e pellami puzzolenti, con la sensazioneche fosse inutile ma che dovesse farlo ugualmente.

No, decise, non riusciva a vederli. E quella non

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era nemmeno, rifletté, una festa adatta a loro. Ogniulteriore riflessione in proposito fu bruscamenteinterrotta da un’ascia che, fendendo l’aria, andò aconficcarsi nella parete con un rumore sordo esconvolgente, a meno di tre centimetri dal suoorecchio sinistro, scacciando per un attimo ognialtro pensiero.

Quando si fu ripreso dallo shock e ricominciò arespirare, Dirk rifletté che probabilmente l’ascianon gli era stata lanciata contro con intentimalevoli, ma per puro divertimento da guerrieri.Lui comunque non si sentiva dell’umore adatto, edecise di spostarsi. Continuando a rasentare laparete, si mosse nella direzione che, se si fossetrovato nella stazione di St Pancras invece che nelWalhalla, l’avrebbe portato alla biglietteria. Nonsapeva cosa ci avrebbe trovato, ma sentiva chesarebbe stato qualcosa di diverso, il che era unabuona cosa.

Riteneva che, in quel luogo più periferico, lecose dovessero essere un po’ più tranquille.

Il divertimento maggiore e il colmo dell’euforia

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sembravano concentrarsi nella parte centrale delsalone, mentre invece i tavoli accanto ai qualipassava in quel momento sembravano popolati dipersone giunte a quello stadio della propria vitaimmortale in cui si preferisce ricordare i bei tempiin cui si lottava contro i maiali arrostiti, escambiarsi commenti sulla tecnica dicombattimento e sui punti più adatti dove colpire imaiali medesimi, piuttosto che rimettersi a farloper davvero.

Proprio in quell’istante udì un commento aproposito del fatto che per non piombare in untotale sopore al momento cruciale fossefondamentale una stretta decisa effettuata con tredita della mano sinistra contro lo sternodell’avversario; affermazione che vennecommentata con un benevolo: «Oh ah».

Dirk si fermò di botto, si guardò intorno eritornò sui suoi passi.

Piegato in atteggiamento pensoso sul propriopiatto di ferro e pesantemente avvolto in strati estrati di pelli e fibbie se possibile più arruffate e

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stazzonate dei vestiti che indossava durante il loroultimo incontro, sedeva l’amico di Dirk, ilvagabondo della stazione di King’s Cross.

Dirk si chiese quale fosse l’approccio migliore.Una possibilità era una bella pacca sulla spalla eun “Ehi! Bella festa. Un sacco di energia” ma nongli parve un’idea brillante.

Mentre rifletteva sul da farsi, dall’alto piombòun’aquila che, con un gran trapestio di zampe emolto frullio d’ali, andò a piazzarsi sulla tavolaproprio di fronte al vecchio, ripiegò le ali eavanzò verso di lui in cerca di cibo. Con grandesemplicità, il vecchio staccò un pezzo di carne daun osso e lo tese all’uccellaccio, che lo presedalle dita di lui con un colpo di becco rude mapreciso.

Dirk pensò che questo poteva essere il sistemagiusto per un approccio amichevole. Si chinò sullatavola, prese un pezzetto di carne e lo offrì apropria volta all’uccello. L’aquila gli si avventòcontro mirando al collo, obbligandolo a cercare discacciare l’animale col suo cappellaccio.

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«Oh ah» fece il vecchio, cacciò via l’aquila esi spostò di un paio di centimetri sulla panca.Sebbene non fosse un invito esplicito, era pursempre un invito. Dirk si arrampicò sulla panca esi sedette.

«Grazie» disse, ansimando.«Oh ah.»«Non so se si ricorda, noi...»In quell’istante tutto il Walhalla rintronò del

più tremendo e tonante dei suoni. Era un colpo ditamburo, ma di un tamburo di gigantescheproporzioni, per riuscire a farsi sentire al di sopradi tutto quel tumulto. Il tamburo batté tre volte, trecolpi lenti e imponenti, come il battito del cuoredella sala.

Dirk alzò gli occhi per vedere da doveprovenisse quel suono. Si accorse allora per laprima volta che all’estremità sud del salone, versola quale si stava spostando, una grande balconatacorreva per la maggior parte della sua lunghezza.Lassù si intravedevano delle figure, a malapenadistinguibili nell’aria resa fosca dal calore e dalle

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aquile, ma Dirk ebbe la sensazione che chi sitrovava là dominasse coloro che si trovavano disotto.

Odino, pensò Dirk, Odino il Padre-del-Tuttodoveva trovarsi su quella balconata.

Il frastuono e lo strepito della festa cessaronoin fretta, ma sempre qualche secondo dopo che sierano fermate le vibrazioni del tamburo.

Quando ovunque ci fu un silenzio carico diaspettative, una voce profonda risuonò dallabalconata fin giù nella sala.

La voce disse: «Il tempo dell’Ora della GrandeSfida è quasi scaduto. L’Ora della Sfida è statavoluta dal grande Dio Thor. Per la terza volta,dove è Thor?».

Un mormorio corse per tutta la sala attestandoche nessuno sapeva dove fosse Thor e perché nonfosse venuto all’appuntamento.

La voce proseguì: «Ciò costituisce un graveaffronto alla dignità del Padre-del-Tutto. Se allospirare dell’ora la sfida non avrà avuto luogo, ilcastigo per Thor sarà altrettanto grave».

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Il tamburo batté ancora tre volte, e lacosternazione nella sala aumentò. Dov’era Thor?

«È con una ragazza» disse una voce levandosisopra le altre, e ci furono grandi scoppi di risa eun ritorno del cicaleccio generale.

«Sì,» confermò Dirk tranquillamente«probabilmente è così.»

«Oh ah.»Dirk, convinto di aver parlato tra sé e sé,

rimase stupito di aver sollecitato una risposta daparte del vecchio, ma nient’affatto meravigliatodal tipo di risposta.

«Thor ha fissato l’incontro per questa sera?»gli chiese Dirk.

«Oh ah.»«Poco carino da parte sua non presentarsi.»«Oh ah.»«Immagino che tutti siano un po’ seccati.»«Non fino a quando ci sono maiali a

sufficienza.»«Maiali?»«Oh ah.»

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Dirk non seppe bene come proseguire, a questopunto.

«Oh ah» disse, rassegnato.«Vedi, l’unico a cui frega ancora qualcosa è

Thor» spiegò il vecchio. «Continua a lanciaresfide ma poi non è capace di sostenerle. Non saragionare. Si confonde e si arrabbia, fa qualchestupidaggine e finisce per farsi punire. Tutti glialtri vengono solo per i maiali.»

«Oh ah.» Dirk stava imparando una nuovatecnica di conversazione ed era stupefatto di comefunzionava bene. Guardò il vecchio con un nuovorispetto.

«Sai quanti sassi ci sono nel Galles?» chieseall’improvviso l’uomo.

«Oh ah» disse Dirk prudentemente. Non laconosceva, questa barzelletta.

«Neanche io. Non vuole rivelarlo a nessuno.Dice che se li contino da soli e mette il broncio.»

«Oh ah» fece Dirk. La barzelletta non gli erasembrata un granché.

«E così questa volta non è nemmeno venuto.

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Non posso biasimarlo. Però mi dispiace, perchépotrebbe avere ragione.»

«Oh ah.»L’uomo rimase in silenzio.Dirk attese.«Oh ah» disse ancora, speranzoso.Nulla.«Così, hmm,» disse Dirk, cercando di dargli

una piccola spinta «lei pensa che potrebbe avereragione, eh?»

«Oh ah.»«Ah sì. Il vecchio Thor potrebbe aver ragione,

eh? È questa la storia» continuò Dirk.«Oh ah.»«In che senso» chiese Dirk, finendo per

spazientirsi «lei pensa che abbia ragione?»«Oh, in tutti i sensi.»«Oh ah» fece Dirk, sconfitto.«Non è un segreto che gli dei stanno

attraversando tempi difficili» disse tetro ilvecchio. «È chiaro a tutti, anche a quelli a cuiimportano solo i maiali, vale a dire la maggior

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parte. E quando capisci che non servi più anessuno, può diventare difficile vedere più in làdel prossimo maiale, anche se eri abituato adavere tutto il mondo ai tuoi piedi. Tutti laprendono come una cosa inevitabile. Tutti tranneThor, cioè. E ora lui ha dato forfait. Non si ènemmeno preso il disturbo di venire a farsi unmaiale con noi. Ha rinunciato alla sfida. Oh ah.»

«Oh ah» disse Dirk.«Oh ah.»«Be’, hmm, allora questa sfida di Thor...»

riprese Dirk, cercando di tastare il terreno.«Oh ah.»«In cosa consisteva?»«Oh ah.»Dirk perse del tutto la pazienza e incalzò

l’uomo.«Insomma, cos’era questa sfida di Thor a

Odino?» insistette con stizza.L’uomo lo guardò con stolida sorpresa,

esaminandolo coi suoi grandi occhi sporgenti.«Sei un mortale, non è vero?»

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«Sì,» rispose Dirk rabbioso «sono un mortale.Ovvio che sono un mortale. Cosa c’entra il fatto diessere mortale con questa storia?»

«Come hai fatto a venire qui?»«L’ho seguita.» Dirk tirò fuori lo stazzonato

pacchetto ormai vuoto e lo mise sulla tavola.«Grazie» disse. «Le sono debitore.»

Era una scusa decisamente debole, pensò, maera la migliore che gli fosse venuta in mente.

«Oh ah.» L’uomo guardò altrove.«Qual è la sfida di Thor a Odino?» chiese Dirk,

sforzandosi di non tradire l’impazienza nella voce,questa volta.

«Che te ne importa?» chiese amaramente ilvecchio. «Tu sei un mortale. Perché dovrebbeinteressarti? Hai ottenuto quello che volevi, tu e latua gente, per quel poco che vale, ormai.»

«Ottenuto cosa da cosa?»«L’accordo» rispose il vecchio immortale. «Il

contratto che Odino ha stipulato, secondo Thor.»«Contratto?» chiese Dirk. «Che contratto?»La faccia dell’uomo assunse un’espressione di

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fredda collera. I fuochi dei falò del Walhalladanzavano nelle profondità dei suoi occhi quandofissò Dirk.

«La vendita» rispose cupamente «di un’animaimmortale.»

«Cosa?» esclamò Dirk. Aveva già pensato aqualcosa del genere, ma poi aveva scartato l’idea.«Intendi dire che un uomo gli ha venduto lapropria anima? Che uomo? No, la cosa nonavrebbe senso.»

«No,» disse l’uomo «non avrebbe alcun senso.Ho parlato di un’anima immortale. Thor sostieneche Odino abbia venduto la propria animaall’Uomo.»

Dirk lo guardò inorridito e lentamente alzò gliocchi verso la balconata. Là stava accadendoqualcosa. Il grande tamburo suonò ancora unavolta, e di nuovo la sala del Walhalla cominciò azittirsi. Ma non ci fu né un secondo né un terzocolpo di tamburo. Sembrava stesse avvenendoqualcosa di imprevisto, e le figure sulla balconatasi muovevano in una certa confusione. L’Ora della

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Sfida stava giusto per spirare, ma una sfida diqualche sorta sembrava si stesse comunquesvolgendo.

Dirk si batté la fronte col palmo delle mani ericadde a sedere, mentre un’improvvisa ondata diconsapevolezza lo avvolgeva.

«Non all’Uomo,» disse «ma a un uomo, e a unadonna. Un avvocato e una pubblicitaria. L’ho dettosubito che era tutta colpa sua, dalla prima voltache l’ho vista. Solo che non sapevo di avereragione.» Si rivolse al suo compagno, con un tonodi estrema urgenza nella voce: «Devo andarelassù. Per amore degli dei, mi aiuti».

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29

«Odiiiiiinoooo!!!!!»Thor ruggì con un grido di rabbia tale da far

tremare il cielo. Le grosse nuvole emisero unbrontolio di tuono, in seguito al puro e semplicespostamento d’aria provocato dal suo grido. Katefece un balzo indietro, tutta rintronata e bianca perla paura.

«Mezza Calzetta!!!!!»Thor scagliò il martello proprio ai suoi piedi,

usando entrambe le mani. Lo lanciò da tanto brevedistanza e con tale incredibile forza che il martellotoccò terra e rimbalzò nel cielo per qualcosa comequattrocento metri.

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«Ggggrrrraaaaaaaaah!!!!!!» Con un’immensaesplosione di aria dai polmoni, Thor si slanciò nelcielo dietro al martello, lo afferrò proprio mentrestava per ricadere, e lo scagliò di nuovo a terra,riafferrandolo dopo che ebbe rimbalzato e ruotatoviolentemente a mezz’aria per lanciarlo infine contutta la sua forza verso il mare, prima di cadere asua volta sulla schiena e cominciare a tempestaredi pugni, calci e gomitate la terra, in unospaventoso parossismo di rabbia.

Il martello partì come un proiettile sfiorando ilmare con una traiettoria molto bassa. La testaplanò sull’acqua e penetrò in essa mantenendo unaprofondità costante di una quindicina di centimetri.Lenta ma regolare, una netta increspatura apparvesulla superficie del mare, allungandosi per oltre unmiglio via via che il martello solcava l’acqua,dividendola in due come il bisturi di un chirurgo.Le pareti interne della fenditura divenivano piùripide lungo la scia, dividendosi in virtù dellaspaventosa spinta del martello, fino a quando ungrande avvallamento non si aprì sulla superficie

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del mare. Le pareti dell’avvallamento vacillarono,si inclinarono incerte, poi si piegarono su se stessee cozzarono in ribollente tumulto. Il martellosollevò la testa e sfrecciò alto verso il cielo. Thorsi levò in punta di piedi e lo seguì con lo sguardo,dondolandosi sulle gambe come un pugile, macome un pugile che sta per provocare unospaventoso terremoto. Quando il martello ebberaggiunto il culmine della sua traiettoria, Thorabbassò la mano come un direttore d’orchestra, eil martello tornò a slanciarsi nella massaribollente del mare.

Questo sembrò calmare le acque per qualcheistante, proprio come uno schiaffo in faccia servea calmare un’isterica. Quel momento passò.Un’immensa colonna d’acqua si levò incorrispondenza di quel punto e poco dopo ilmartello schizzò verso l’alto dal suo centro,sollevando un’altra enorme colonna d’acqua dalcentro della prima.

In cima alla sua parabola, il martello sobbalzò,si capovolse, ruotò su se stesso e si precipitò

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verso il proprio padrone come un cucciolosovreccitato. Thor lo prese al volo ma, anzichéfermarlo, lasciò che il martello lo spingesseall’indietro, così che rotolarono l’uno sull’altroper un centinaio di metri tra le rocce, fin quandonon si fermarono su un terreno morbido.

Thor si rimise in piedi all’istante. Girò e rigiròsu se stesso, saltando da un piede all’altro conbalzi di tre metri l’uno, facendo ruotare il martellocol braccio teso. Quando lo lasciò andare,l’arnese sfrecciò ancora verso il mare, questavolta però fendendo la superficie in un immensosemicerchio, creando per un attimo un gigantescoanfiteatro d’acqua lungo tutta la sua circonferenza.Quando infine ricadde, si infranse con grandefragore come l’onda di una mareggiata, e siscagliò furibonda contro la bassa parete del picco.

Il martello ritornò da Thor, che prontamente loscagliò ancora lontano con una formidabile spintadel braccio. Volò contro una roccia, facendonescaturire una grossa e irosa scintilla. Poi rimbalzòsu un’altra roccia e un’altra ancora, producendo

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scintille ovunque. Quindi Thor si buttòginocchioni, e si mise a dare grandi pugni per terrafacendo sollevare su in aria ogni scheggiaprovocata dagli urti del martello. Da ogni roccia sisprigionava una scintilla. Il martello colpiva insuccessione le rocce con sempre maggiore forza,finché una di queste scintille non provocò unaminacciosa lingua di fuoco tra le nubi.

E poi il cielo cominciò a muoversi, lentamente,come un grande animale infuriato che si avventurafuori dalla sua tana. Scintille sempre più lunghe sisprigionavano dal martello, saette sempre piùestese si inarcavano dal cielo fino a incontrarle, ela terra intera cominciò a tremare in una sorta ditrepida eccitazione.

Thor alzò i gomiti sopra la testa e poi li picchiòa terra con violenza, lanciando un altro sonorogrido verso il cielo.

«Odiiiiiinoooo!!!!!»Il cielo sembrò sul punto di spalancarsi.«Mezza Calzettaaaaaaa!!!!!»Thor ricadde giù, sollevando due veri e propri

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zampilli di terra e sassi. Era scosso da una furiasempre maggiore. Con un immane scricchiolio,tutto un versante del picco cominciò a inclinarsilentamente verso il mare, sotto le scosse e i colpidi Thor. Pochi secondi dopo la parete rocciosaprecipitò pesantemente nel tormento ribollentedelle onde mentre Thor balzava all’indietro,afferrava un masso delle dimensioni di unpianoforte e lo sollevava sopra la testa.

Per un fugace momento tutto sembrò arrestarsi.Thor scagliò il masso nel mare.Afferrò nuovamente il martello.«O...!» ruggì.«... diiiiiinooooo!!!!!!!!!»Il martello si schiantò al suolo.Un torrente d’acqua fuoruscì dalla terra e il

cielo esplose. Creando una bianca muraglia diluce, fulmini saettarono per miglia e miglia lungola costa in tutte le direzioni. Il tuono rimbombòcome per l’impatto di mondi che si scontrano, e lenuvole vomitarono una pioggia che sferzò la terracon estrema violenza. Thor rimase immobile ed

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esultante sotto quel torrente d’acqua.Dopo qualche minuto la furia degli elementi

diminuì. Una pioggia forte e fitta continuava acadere. Le nuvole andarono diradandosi e i deboliraggi di luce del nuovo mattino cominciarono apenetrare attraverso la spessa coltre.

Thor fece qualche passo indietro, scuotendosivia il fango dalle mani. Afferrò il martello, quandoquesto volò verso di lui.

Trovò Kate immobile che lo fissava, tremandodi stupore, di rabbia e di paura.

«Cos’è stato tutto questo?» gridò.«Avevo bisogno di arrabbiarmi come si deve»

rispose lui. Visto che lei non sembrava convinta,aggiunse: «Un Dio potrà anche sfogarsi ogni tanto,o no?».

La figura rattrappita di Tsuliwaënsis liraggiunse correndo sotto la pioggia.

«Sei un ragazzo turbolento, Thor,» lorimproverò «proprio turbolento.»

Ma Thor se n’era andato. Quando alzarono gliocchi, credettero di scorgerlo in quella minuscola

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capocchia di spillo che sfrecciava verso nord nelcielo che schiariva.

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30

Cynthia Draycott, dall’alto della balconata,guardava la scena che si svolgeva di sotto con ariadi disapprovazione. Il Walhalla era ripiombatonella confusione.

«Odio tutto questo,» disse «non voglio che lamia vita prenda questo andazzo.»

«Non devi preoccuparti, mia cara» risposeflemmatico Clive Draycott dietro di lei, la manosulla sua spalla. «Tutto sta per essere sistematonel migliore dei modi, e le cose stanno andando ameraviglia. In effetti, non potrebbero andaremeglio. Vanno esattamente come volevamo noi.Sai che sei fantastica con questi occhiali? Ti

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stanno che è una bellezza. Davvero. Sono propriomolto chic.»

«Clive, a quest’ora le cose dovevano già esseresistemate. L’accordo era che non dovevamo esseredisturbati: dovevamo farlo, sistemare le cose, edimenticarcene. Tutto qui. Ne ho avuta abbastanza,di merda, nella mia vita. Volevo solo che tuttoandasse bene, al cento per cento. Non così.»

«Appunto. È proprio questa la ragione per cuitutto è perfetto per noi. Evidente rottura dicontratto. Ora potremo ottenere tutto quello chevorremo, senza obblighi da parte nostra. Perfetto.Ne usciamo puliti, e abbiamo una vita perfetta alcento per cento. Cento per cento. E senzaun’ombra. Proprio come la volevi tu. Davvero, pernoi non potrebbe andare meglio. Credimi.»

Cynthia Draycott si strinse nelle spalle, irritata.«Sì, e di quella nuova... persona, cosa mi

dici?»«Sarà tutto così facile. Così facile. Ascolta, non

è niente. Possiamo tirarlo dalla nostra parte o farlosubito fuori. Sistemeremo tutto prima di

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andarcene. Potremmo comprargli qualcosa. Unsoprabito nuovo, per esempio. Può darsi che gli sidebba comprare una nuova casa. Sai cosa cicosterebbe?» scoppiò in un’affascinante risata.«Una cosa da nulla. Non mette neanche conto dipensarci. Non mette neanche in conto di pensare dinon pensarci. È... così... facile. D’accordo?»

«Hmm.»«Ok. Torno subito.»Si girò e si diresse nell’anticamera della sala

del Padre-del-Tutto, sorridendo per tutto il tempo.«Dunque, signor...» riguardò con ostentazione il

biglietto da visita «... Gently. Lei intenderappresentare questa gente, dice?»

«Questi dei immortali» precisò Dirk.«Dei, d’accordo» disse Draycott «Molto bene.

Forse lei riuscirà a fare un lavoro migliore di quelfrenetico piccolo pazzoide e ruffiano con cui hoavuto a che fare la prima volta. Davvero unamacchietta il nostro signor Calzetta, signorCalzetta. Sa, quel tizio è stato davverosorprendente. Ha fatto di tutto, ha utilizzato ogni

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vecchio, classico trucchetto per darmi una bellafregatura. Lo sa lei come mi comporto con gentesimile? Semplice. La ignoro. Mi limito aignorarla. Se ha voglia di fare i suoi show, diminacciare e di strillare, di accumularecinquecentodiciassette codicilli con cui si illudedi prendermi in castagna, faccia pure. Sta soloprendendo tempo, e con ciò? Io di tempo ne ho. Houn mucchio di tempo, per gente come il signorCalzetta. Perché sa la cosa davvero pazzesca? Sache cosa è davvero pazzesco? Il giovanotto non èin grado di redigere un vero contratto nemmeno sene andasse della sua vita. Davvero. Nemmeno se...ne andasse... della sua vita. E le dirò, che a me vabenissimo così. Senta. Io mi occupo di contratti incampo discografico. Questi, in confronto, sonopesci piccoli. Sono dei selvaggi primitivi. Non èvero forse? Come i pellirosse. Non sannonemmeno quello che hanno. Mi creda, questa genteè stata fortunata a non incontrare un veropescecane. Dico davvero. Sa quanto costal’America? Sa, dico, quanto costano realmente

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tutti gli Stati Uniti d’America? Lei non lo sa, e nonlo so neanche io. E vuole sapere perché? È unasomma così trascurabile che anche se qualcuno cela dicesse due minuti dopo ce la saremmo giàbella che dimenticata. Ci sarebbe già uscita dimente.

«Ora, rispetto a questo, mi lasci dire che iosono uno che i patti li mantiene. Sono davverogeneroso, io. Una suite privata nella clinicaWoodshead? Ogni sorta di attenzioni, ottimi pasti,incredibili quantità di lenzuola di lino.Sensazionale. Praticamente ci si potrebbecomprare tutti gli Stati Uniti al loro prezzoeffettivo, con quello che costa questo genere dicose. Ma vuole saperlo? Io ho detto, se vuolelenzuola, lasciate che abbia lenzuola. Proprio così,lasciategliele avere. È giusto. Il nostro uomo se leè meritate. Può avere tutte le lenzuola... che...vuole. Basta che non mi si vengano a rompere icoglioni.

«Ora, lasci che glielo dica, quest’uomo fa unabella vita. Una bella vita. E questo è quello che

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vorremmo tutti, non le pare? Una bella vita.Quest’uomo l’ha ottenuta, sicuro. E non aveva lapiù pallida idea di come fare per procurarsela.Nessuno di questi ragazzi ce l’aveva. Loro sonoproprio persi nel mondo d’oggi. È molto dura perloro, e io sto appunto cercando di dargli una mano.Mi lasci dire quanto sono ingenui, e dico proprioingenui.

«Lei ha conosciuto Cynthia, mia moglie, e lasciche glielo dica, lei è la migliore. Guardi, il miorapporto con Cynthia è così bello...»

«Non mi interessa il rapporto con sua moglie.»«Ok. Benissimo. Dico, benissimo. Pensavo

solo che valesse la pena metterla al corrente di unpaio di cose. Ma come vuole lei, per me vabenissimo. Ok. Cynthia lavora nella pubblicità.Lei questo lo sa. È socio di maggioranza in unagrande agenzia. Grande. Qualche anno fa, hannofatto una grossa, ma veramente grossa campagnapubblicitaria nella quale c’è un attore cheinterpreta un dio. Reclamizza un qualche prodotto,non so bene, un soft drink o un anticarie per

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bambini.«E Odino, in quel periodo, è ridotto alla

miseria. Vive nelle strade. Non combina niente peril semplice fatto che non riesce a adattarsi alnostro mondo. Ha tutto quel potere, ma non sacome utilizzarlo per sé, qui e oggi. E a questopunto viene la cosa pazzesca.

«Odino vede questa pubblicità alla televisionee dice a se stesso “Ehi, questo potrei farlo io, iosono un dio”. Pensa che potrebbe farsi pagare perfare della pubblicità. E lei sa cosa significa. Pagheancora più basse di quel che costano gli Stati Unitid’America, mi segue? Pensi un po’. Odino, caposupremo e fonte di ogni potere delle divinitànorrene, pensa che potrebbe riuscire a farsipagare per mostrarsi in televisione areclamizzare un soft drink.

«E quest’uomo, questo dio, va davvero allaricerca di qualcuno che gli assegni una particina inuno spot televisivo. Semplicemente patetico. Maanche avido, non lo dimentichiamo, avido.

«In qualche modo, finisce per conoscere

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Cynthia. A quel tempo lei è una sempliceimpiegata, e chiaramente non gli presta nessunaattenzione, convinta com’è che sia solo unimpostore, ma resta in qualche modo colpita dallasua stranezza e me lo fa conoscere. E sa cosa? Cirendiamo conto che non ci sta prendendo in giro. Ilnostro uomo non sta raccontando balle. È proprioun vero dio, con tutto il suo corredo di poteridivini. E non un dio qualunque, ma il più grande ditutti. Quello da cui deriva il potere di tutti gli altri.E vuole girare uno spot. Vogliamo ripetere questaparola? Uno spot.

«L’idea era stupefacente. Il nostro eroe nonsapeva cosa aveva in mano? Non si rendeva contodi tutto ciò che i suoi poteri potevano procurargli?

«Evidentemente no. Devo confessarglielo,quello è stato il momento più sbalorditivo dellanostra vita. Sba-lor-di-ti-vo. Lasci che glielo dica,Cynthia e io abbiamo sempre saputo di essere, be’,persone speciali, e che ci sarebbe capitatoqualcosa di speciale, e ora ce l’avevamo davvero,qualcosa di speciale.

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«Ma, creda, noi non siamo degli avidi. Noi nonlo vogliamo tutto quel potere, tutta quellaricchezza. Voglio dire, sappiamo come va ilmondo. Questo... sporco... mondo. Potevamo avereil mondo intero, volendo. Ma chi ha voglia dipossedere il mondo? Pensi quanto disturbo. Nonvogliamo nemmeno un’enorme ricchezza, con tuttigli avvocati e gli amministratori con cui bisognaavere a che fare, e lo lasci dire a me che sono unavvocato. D’accordo, si può pagare della genteperché stia dietro agli avvocati e agliamministratori, ma chi sarebbe poi questa gente?Altri avvocati e altri amministratori. E, sa che ledico?, noi non volevamo nemmeno questa noia. Ètroppo, per noi.

«E allora mi viene l’idea. È come quando unocompra una grande proprietà, e tutto quello chenon gli interessa lo rivende. In questo modo, uno sitiene solo ciò che vuole tenere, e un sacco di altragente ottiene quello che vuole, solo che per farlodevono passare da te, e si sentono un tantinoobbligati nei tuoi confronti, e si ricordano con chi

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hanno questi obblighi perché firmano un pezzo dicarta in cui dicono quanto si sentono obbligati neituoi confronti. E te ne viene tanto denaro, con cuipagare le cure mediche private molto, molto,molto salate del signor Odino.

«Così, signor Gently, noi non possediamomolto. Un paio di case moderatamente belle. Unpaio di automobili moderatamente belle. Facciamouna vita molto bella. Molto, molto bella davvero.Non ci occorre molto, perché tutto ciò che ci servel’abbiamo sempre a disposizione, e c’è anche chise ne occupa. Tutto quello che chiedevamo incambio, e date le circostanze era una richiestamolto ragionevole, era che di questa storia nondovessimo più saperne niente. Soddisfiamo inostri moderati bisogni e ci tiriamo fuori. Nonchiediamo altro che pace assoluta, quiete assolutae una vita tranquilla, perché Cynthia, qualchevolta, è un tantino nervosa. Ok.

«E poi cosa ti va a capitare questa mattina?Proprio davanti a casa nostra? Puah. È disgustoso.Voglio dire che è stato proprio un disgustoso tiro

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mancino. E sa come è successo?«Ecco com’è successo. Ancora una volta c’è lo

zampino del nostro amico Mezza Calzetta, chetenta di fare l’avvocaticchio vudù da strapazzo. Ècosì patetico. Si diverte a farmi sprecare tempocon tutti i suoi trucchetti e scherzi e prese in giro, ealla fine cerca di confondermi presentandomi unconto per il tempo che ha perso. E questo è niente.Lo fanno tutti gli avvocati. Ok. Così, gli dico,prenderò il tuo conto. Lo prenderò e basta, nonm’interessa di cosa si tratta. Tu mi dai il tuo contoe io vedrò che te lo saldino. Va bene. Così lui melo dà.

«Solo dopo mi accorgo che c’è il trucco. Cosaè successo? Che lui ha cercato di fare il furbo. Miha passato una patata bollente. Sa, l’ambientediscografico è pieno di patate bollenti. E tu fai inmodo che qualcuno se ne occupi. Si trova sempredella gente che è felice di occuparsene al postotuo, quando ha voglia di fare carriera, di salire igradini della scala. E se si meritano il posto chehanno su quei gradini, bene, vuol dire che in

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cambio si occupano di risolverti il tuo problema.Ti arriva una patata bollente e tu la passi di mano.Io l’ho passata. Mi creda, c’è stata un sacco digente che è stata ben felice di occuparsene per me.E sa cosa? È stato davvero divertente vedere comee con che rapidità questa particolare patata èpassata di mano. E mi ha aiutato molto a capire chiera furbo e chi non lo era. Ma poi finisce che lapatata atterra nel giardino di casa mia e questo, mispiace, si configura come rottura di contratto.L’affare Woodshead si è rivelato parecchio caro,e suppongo che i suoi clienti mi abbiano allungatola patata per questo motivo. Però ora abbiamo ilcoltello dalla parte del manico. Possiamo mandarea monte tutto. Mi creda, ora ho tutto quanto èpossibile desiderare.

«Ma ascolti, signor Gently. Penso che leicapisca la mia situazione. Siamo stati moltofranchi l’uno con l’altro e ho apprezzato molto lacosa. Lei capisce, ci sono delle questioni sensibiliin gioco, naturalmente, e inoltre si dà il caso cheio sia in condizione di realizzare un mucchio di

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cose. Così, forse, potremmo pervenire a unaccomodamento di qualche genere. Qualsiasi cosalei voglia, signor Gently, possiamo fare in modoche si realizzi.»

«Solo vederla morto, signor Draycott,» disseDirk Gently «solo vederla morto.»

«Bene, vada a farsi fottere anche lei.»Dirk Gently girò sui tacchi e lasciò la stanza

per andare a dire al suo nuovo cliente che temevaci sarebbe stato qualche problema.

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Pochi minuti dopo, una BMW blu uscì dal piazzaledeserto antistante la stazione di St Pancras e siallontanò per le strade silenziose.

Un Dirk Gently piuttosto abbacchiato si calcòin testa il cappello e lasciò il suo cliente appenatrovato e già perso, che sosteneva di volerrimanere solo e che forse si sarebbe trasformato inun topo o qualcosa di simile, come aveva già fattoqualcuno di sua conoscenza.

Richiuse dietro di sé le grandi porte e raggiunselentamente la balconata, guardando dall’alto lavasta sala a volta degli dei e degli eroi, ilWalhalla. Arrivò proprio nel momento in cui gli

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ultimi straccioni ritardatari svanivano nel nulla,per ricomparire presumibilmente nel medesimoistante sotto la grande pensilina della stazione diSt Pancras. Rimase un poco a fissare la saladeserta, nella quale i fuochi dei falò erano ormairidotti a braci che andavano spegnendosi.

Gli bastò un’impercettibile torsione della testaper effettuare la stessa transizione, e si ritrovò inun malandato corridoio pieno di spifferidell’abbandonato Grand Hotel Midland. Fuori, nelgrande atrio buio della stazione, vide di nuovo gliultimi ritardatari di ritorno dal Walhallaallontanarsi a passi strascicati e uscire nellefredde strade di Londra alla ricerca di pancheappositamente progettate per non farci dormire lagente, sulle quali buttarsi proprio per cercare didormire.

Dirk sospirò e cercò di trovare il modo diuscire dall’albergo abbandonato, operazione cherisultò più difficile del previsto, tanto il luogo eraimmenso e labirintico e buio. Finalmente trovò unagrande e tortuosa scalinata gotica, che scendeva

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fino a raggiungere le imponenti arcatedell’ingresso, decorate da draghi e grifoni scolpiti,e da pesanti fregi in ferro battuto. Il portonedell’entrata principale era chiuso ormai da moltianni, e alla fine Dirk trovò un passaggio lateraleche conduceva a un’uscita presidiata da unomaccione sudato e puzzolente che aveva ilcompito di sorvegliarla durante la notte. L’uomovolle sapere come avesse fatto Dirk a entrare nelvecchio albergo abbandonato, ma nessuna dellespiegazioni di Dirk lo soddisfece. Alla fine,dovette lasciarlo andare, perché c’era poco altroche potesse fare.

Dirk percorse la strada che da questa portaconduceva alla biglietteria della stazione, e da quientrò nella stazione vera e propria. Restò un pocofermo a guardarsi attorno, poi uscì dall’ingressoprincipale e scese i gradini che portavano in StPancras Road. Quando si affacciò in quella stradarestò tanto meravigliato dal fatto che non cifossero aquile in picchiata pronte ad aggredirloche inciampò, cadde e venne conseguentemente

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investito dal più mattiniero dei corrieri in scooter.

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Con un gran fracasso, Thor irruppe attraverso laparete di fondo nella grande sala del Walhalla, esi accingeva a proclamare davanti all’assembleadegli dei e degli eroi che finalmente era riuscitoad arrivare in Norvegia e a trovare, ben nascostanel fianco di una montagna, una copia del contrattofirmato da Odino, ma non poté farlo, perché tutti sene erano andati e non era rimasto più nessuno.

«Qui non c’è più nessuno» disse a Kate,liberandola finalmente dalla sua stretta. «Se nesono andati via tutti.»

Si accasciò per la disperazione.«Co...» cominciò a dire Kate.

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«Cercheremo nelle stanze del vecchio»annunciò Thor, e scagliò il martello verso labalconata, con loro al rimorchio.

Perlustrò le grandi stanze ignorando leobiezioni di Kate, le sue proteste e i suoi insulti.

Odino non c’era.«È qui da qualche parte» disse rabbiosamente

Thor, trascinandosi dietro il martello.«Co...»«Attraverseremo lo spartiacque dei mondi»

disse Thor, e afferrò di nuovo Kate. Volando,passarono dall’altra parte.

Si trovarono in una grande camera da lettodell’Hotel Midland.

Il pavimento era coperto di rifiuti e di brandellimarci di tappeto. Le finestre erano nere di unasporcizia accumulata negli anni. C’erano cacche dipiccioni ovunque e le pareti con la vernicesquamata davano l’idea che ci fossero esplosesopra tante piccole famiglie di stelle marine.

In mezzo al pavimento c’era un letto a rotelleabbandonato, nel quale un vecchio dentro lenzuola

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perfettamente stirate piangeva con l’unico occhiorimastogli.

«Bastardo, l’ho trovato, il tuo contratto» gridòThor sventolandoglielo in faccia. «Ho trovato ilpatto che hai firmato. Hai venduto tutti i tuoi poteria... a un avvocato e a una... una pubblicitaria, e aun sacco di altra gente. Hai rubato il nostro potere!Non hai potuto rubare tutto il mio perché sonotroppo forte, ma sei riuscito a disorientarmi e aconfondermi, e a far succedere un mucchio di cosebrutte ogni volta che mi arrabbiavo. Mi haiimpedito di ritornare in Norvegia con ogni mezzoperché sapevi che sarei riuscito a trovare questo.Tu e quel nano velenoso di Mezza Calzetta. Haiapprofittato di me e mi hai umiliato per anni, e...»

«Sì, sì, tutto questo lo sappiamo» disse Odino.«Bene... bravo!»«Thor...» fece Kate.«Bene, ormai mi sono liberato da tutto questo!»

gridò Thor.«Sì, lo vedo...»«Sono andato in un posto dove mi sono potuto

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sfogare in pace, in un momento in cui ti sapevooccupato in altre cose e in cui ti aspettavi che iofossi qui, e me la sono spassata un mondo, mi sonosfogato a urlare e a mandare tutto in pezzi, eadesso sto proprio bene. E tanto per cominciarestraccerò quest’affare!»

Strappò il contratto in tanti pezzettini, li buttò inaria e li incenerì con lo sguardo.

«Thor» disse Kate.«E ho intenzione di rimettere a posto tutte le

cose che hai fatto succedere per farmi pentire diessermi arrabbiato. La povera impiegata al check-in dell’aeroporto, trasformata in un distributoreautomatico di Coca-Cola. Vuff! Dang!Ricomparsa. Il caccia che ha cercato di abbattermimentre volavo verso la Norvegia! Vuff! Dang!Ricomparso. Guarda, ho ripreso il controllo di mestesso!»

«Cos’è questa storia del caccia?» volle sapereKate. «Non me ne hai mai parlato.»

«Ha cercato di abbattermi sopra il Mare delNord. C’è stata una zuffa e nell’eccitazione del

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momento io, be’, l’ho trasformato in un’aquila, cheda allora mi perseguita. Così ora anche questo èsistemato. Non guardarmi in quel modo. Ho fattotutto quello che potevo. Ho aiutato la moglie delpilota del caccia facendole vincere dei soldi a unalotteria. Guarda,» aggiunse rabbioso «che tuttoquesto è stato molto difficile per me. D’accordo,che altro?»

«La mia lampada» disse placida Kate.«E la lampada di Kate! Non sarà più un gattino!

Vuff! Dang! Così Thor dice e così avviene! Cos’èstato questo rumore?»

Un bagliore rossastro si era acceso nel cielo diLondra.

«Thor, tuo padre ha qualcosa che non va.»«Me lo auguro proprio, dannazione. Oh. Cosa

c’è che non va? Papà, stai bene?»«Sono stato tanto, ma tanto sciocco e

scriteriato,» piangeva Odino «sono stato tantocattivo e malvagio, e...»

«Sì, be’, questo è quello che penso anch’io»disse Thor, sedendosi sulla sponda del letto. «E

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allora, cosa hai intenzione di fare?»«Non credo che riuscirei a vivere senza le mie

lenzuola, e la mia Suor Bailey, e... È stato così pertanto, tanto tempo, e io sono così vecchio, cosìvecchio. Mezza Calzetta sosteneva che dovevoucciderti, ma io... piuttosto... mi sarei ucciso io.Oh, Thor...»

«Oh» disse Thor. «Capisco. Be’. Non soproprio cosa fare, ora. Distruggere. Distruggeretutto.»

«Thor...»«Sì, sì, cosa c’è?»«Thor, è molto semplice quello che puoi fare

con tuo padre e la clinica Woodshead» proposeKate.

«Ah sì? E cosa?»«Te lo dico a una condizione.»«Davvero? E quale?»«Che tu mi dica quanti sassi ci sono nel

Galles.»«Cosa!» ruggì Thor, furibondo. «Lungi da me!

Lo sai che stai parlando di anni e anni della mia

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vita?»Kate si strinse nelle spalle.«No!» affermò Thor. «Qualsiasi altra cosa ma

non questa! E, del resto,» aggiunse di malumore«te l’ho già detto.»

«Ma no.»«Sì, invece. Ti ho detto che ho perso il conto

nel Mid Glamorgan. Be’, non vorrai mica chericominci, vero? Ragiona, ragazza, ragiona!»

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Battendo un sentiero che attraversava l’accidentatoterritorio a nordest del Walhalla – un intrico disentieri che sembravano condurre soltanto ad altrisentieri che a loro volta riconducevano al primosentiero per ricominciare tutto da capo –avanzavano due figure, una delle quali era unacreatura grossa, stupida e violenta dagli occhiverdi e con una falce appesa alla cintura chespesso gli intralciava il cammino, l’altra unacreaturina piccola e folle che stava aggrappata allaschiena della prima, e che la incitavafreneticamente a proseguire, di fattoimpedendoglielo.

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Giunti infine davanti a un edificio lungo, bassoe puzzolente, vi si precipitarono dentro chiedendoa gran voce dei cavalli. Il vecchio stalliere capo sifece avanti, riconobbe i due e, poiché gli era giànoto che erano caduti in disgrazia, si mostrò in unprimo momento poco incline a ubbidire ai loroordini. La falce saettò nell’aria e la testa dellostalliere capo, colta di sorpresa, fece un balzo inalto, mentre il resto del suo corpo fece un offesopasso indietro, oscillò incerto, e poi, in mancanzadi ulteriori istruzioni, si rovesciò lentamente aterra. La testa rotolò nella paglia.

I suoi aggressori legarono due cavalli a uncarro e, usciti dal cortile, imboccaronorumorosamente la strada maestra dirigendosi versonord.

Procedettero velocemente per un miglioabbondante, Mezza Calzetta incitandoselvaggiamente i cavalli con una lunga frusta.Dopo qualche minuto, però, i cavalli cominciaronoa rallentare e a guardarsi l’un l’altro a disagio.Mezza Calzetta li frustò ancora più

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selvaggiamente, ma i cavalli divennero sempre piùnervosi finché, all’improvviso, persero ilcontrollo e si impennarono terrorizzati,rovesciando il carro e sbalzando a terra glioccupanti, che si rialzarono subito, furibondi.

Mezza Calzetta imprecò contro i cavalliterrorizzati e poi, con la coda dell’occhio, vide lacosa che tanto li aveva spaventati.

Non era poi tanto terrificante. Si trattava solodi un grosso scatolone bianco di metallo chegiaceva rovesciato su un mucchio di rifiuti, e chevibrava.

I cavalli continuavano a impennarsi e a cercaredi scappare lontano da quella grande cosa chevibrava, ma finirono per avvilupparsiinestricabilmente nelle loro briglie, eccitati alpunto da schiumare di panico. Mezza Calzetta sirese presto conto che non sarebbe mai riuscito acalmarli se prima non avesse risolto il problemadello scatolone.

«Qualunque cosa sia,» urlò rivolto alla creaturadagli occhi verdi «uccidila!»

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Occhiverdi estrasse ancora una volta la falcedalla cintura e si arrampicò sul mucchio di rifiutisopra il quale il grande scatolone continuava avibrare. Gli diede un piccolo calcio, che servìsoltanto a farlo vibrare di più. Vi appoggiò soprail piede e con una bella spinta lo fece rotolare giùdal mucchio. La grande scatola bianca scivolò perqualche centimetro, poi si capovolse e cadde aterra. Restò ferma per un momento, quindi ilcoperchio, finalmente libero, si spalancò. I cavallinitrirono terrorizzati.

Mezza Calzetta e il suo losco compare dagliocchi verdi si avvicinarono alla cosa con un mistodi curiosità e preoccupazione, poi arretraronopieni di orrore quando una nuova e possentedivinità emerse con prepotenza dalle sue viscere.

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Quella stessa mattina, a un confortevole lasso ditempo dagli avvenimenti fin qui narrati, e a unaconfortevole distanza da un’ampia finestra dallaquale entrava la fredda luce mattutina, un vecchiocieco da un occhio giaceva su un letto bianco.Accanto al letto, sul pavimento, c’era un giornaleche pareva una tenda da campeggio mezza crollata;ce l’aveva gettato il vecchio due minuti prima.

Il vecchio era sveglio, e per niente contento diesserlo.

Aveva una pelle delicatissimamente vecchia,simile a una sottile pergamena trasparente moltotesa, e dolcemente cosparsa di lentiggini. Le mani

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eleganti e fragili erano appena piegate sullelenzuola del bianco più puro, e tremavanolievemente.

Gli si attribuivano vari nomi: signor Odwin, oWodin, o anche Odino. Era – è – un dio, e per dipiù un dio confuso e allarmato.

Era di pessimo umore per via di quello cheaveva letto sul giornale, e cioè che un altro dio erascappato e si era messo a farne di tutti i colori.Non è che il giornale dicesse le cose proprio inquesti termini, naturalmente, semplicementedescriveva quello che era accaduto la notteprecedente, quando un caccia a reazione dato perdisperso era misteriosamente e prepotentementeemerso a tutto gas da una casa dei sobborghisettentrionali di Londra, all’interno della quale,logicamente, non poteva essere stato contenuto.Aveva subito perso le ali, era finito rombando inpicchiata su una strada maestra ed era esplosonell’impatto. Il pilota, nei pochi secondi di volo,era riuscito ad azionare l’eiettore e a catapultarsifuori, atterrando scosso e ferito ma per il resto

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illeso, farfugliando qualcosa a proposito di straniuomini armati di martello che attraversavano ilMare del Nord.

Fortunatamente, data l’ora in cui l’inspiegabiledisastro aveva avuto luogo, le strade erano deltutto deserte e, a parte i notevoli danni alle cose,le uniche vittime da registrare erano gli occupanti,non ancora identificati, di un’automobile che siriteneva dovesse essere stata una BMW,probabilmente di colore blu, ma data la naturaeccezionale dell’incidente non era possibileesserne certi.

Odino era molto, molto stanco e non avevavoglia di pensare a questa storia, né di pensare acosa era successo la notte precedente, non volevapensare ad altro che alle lenzuola pulite e a comeera delizioso quando Suor Bailey le tendeva e lerimboccava come aveva appena fatto, così comecinque minuti prima e come dieci minuti ancoraprima.

La ragazza americana, Kate qualchecosa, entrònella stanza. Lui sperò che lo lasciasse dormire.

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Kate stava dicendo qualcosa tipo che tutto erastato sistemato. Si congratulò con lui perché avevala pressione altissima, tassi di colesterolospaventosi e un cuore decisamente malandato,ragioni per cui la clinica era stata ben lieta diaccoglierlo come degente a vita in cambio di tutti isuoi beni. Non si era nemmeno preoccupata distabilire a quanto questi beni ammontassero, vistoche avrebbero certamente coperto le spese per unperiodo che presumibilmente sarebbe stato breve.

Lei aveva l’aria di aspettarsi che la cosa lorallegrasse, così Odino le sorrise gentile e laringraziò vagamente, prima di sprofondare lietonel sonno.

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Quello stesso pomeriggio Dirk Gently si svegliò,anche lui in un ospedale, sofferente per i postumidi una lieve commozione cerebrale, graffi vari,ammaccature e un braccio rotto. Aveva avutoenormi difficoltà a spiegare, al momento delricovero, che la maggior parte delle ferite glieleavevano procurate un ragazzino e un’aquila, e che,davvero, essere investiti da un corriere inmotocicletta era un’esperienza relativamenteriposante, visto che gli avrebbe permesso di staremolto a letto e di non essere assalito da aquile inpicchiata ogni cinque minuti.

L’avevano tenuto sedato – in altre parole,

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aveva dormito – per la maggior parte dellamattina, tormentato da terribili sogni in cui MezzaCalzetta e un gigante dagli occhi verdi armato difalce fuggivano dal Walhalla verso nordest, dovevenivano affrontati e distrutti da un dio appenacreato, un immenso Dio della Colpa che eraimprovvisamente spuntato fuori da qualcosa cheassomigliava in maniera inquietante a unfrigorifero capovolto.

Fu un sollievo per lui essere svegliato da unallegro: «Oh, è lei? Si è fregato il mio libro».

Aprì gli occhi per trovarsi di fronte SallyMills, la ragazza che l’aveva energicamenteaffrontato il giorno prima in quel bar, solo per ilfatto che lui, prima ancora di averle fregato illibro, le aveva fregato il caffè.

«Bene, sono contenta di vedere che ha seguitoil mio consiglio di farsi sistemare il naso» disselei, affaccendandosi intorno al suo letto. «Sembrache abbia scelto una strada un po’ lunga perarrivarci, ma ora è qui ed è questo che conta. L’hapoi trovata, la ragazza che cercava? Strana

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coincidenza, questo è proprio il letto dove stavalei. Se la rivede, dovrebbe darle questa pizza cheaveva ordinato prima di farsi dimettere. Ormai èfredda, ma il corriere ha insistito sul fatto che leivoleva che le fosse consegnata a tutti i costi.

«Comunque, non mi importa se mi ha fregato illibro, davvero. Proprio non so perché li compro,non sono un granché, solo che tutti li comprano,no? Qualcuno mi ha detto che corre voce che luiabbia fatto un patto col diavolo o qualcosa delgenere. Per me sono tutte balle, invece ho sentitoun’altra storia su di lui che mi è piaciuta molto dipiù. A quanto pare riceve sempre misterioseforniture di pulcini nelle sue stanze d’albergo, enessuno osa chiedergli e nemmeno immaginare acosa gli servono, visto che dei pulcini non rimanenemmeno un brandello. Bene, ho conosciuto unoche sa a cosa gli servono. Questo tizio una voltaaveva appunto l’incarico di portare fuori dinascosto i pulcini dalla sua stanza. Howard Bell ciguadagna la reputazione di persona eccentrica edemoniaca, e così tutti comprano i suoi libri. Un

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bel lavoretto, se capisce cosa voglio dire.Comunque, immagino che lei non si aspetti che mene stia qui a chiacchierare tutto il pomeriggio, eanche se così fosse io ho di meglio da fare. Lasuora dice che probabilmente la dimetterannoquesta sera, così potrà tornare a casa a dormire nelsuo letto, cosa che sicuramente le farà piacere. Aogni modo, le auguro di rimettersi. Le lascio unpaio di giornali.»

Dirk prese i giornali, felice di rimanerefinalmente solo.

Per prima cosa andò a vedere cosa aveva dadire il Grande Zaganza per quel giorno. Il GrandeZaganza scriveva: “Sei molto grasso e stupido, e tiostini a portare un ridicolo cappello di cuidovresti vergognarti”.

Dirk grugnì tra sé, e andò a cercare l’oroscoposull’altro giornale.

L’oroscopo diceva: “Questo è il giorno adattoper godersi la tranquillità della casa”.

Sì, pensò, gli avrebbe fatto piacere tornare acasa. Si sentiva ancora stranamente sollevato

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all’idea di essersi disfatto del suo vecchio frigo, epregustava di godersi una nuova era di possesso difrigorifero, con il nuovo modello super chetroneggiava nella cucina di casa sua.

C’era ancora il problema dell’aquila, ma se nesarebbe occupato più tardi, una volta tornato acasa.

Passò alla prima pagina, per vedere se c’eraqualcosa di interessante.

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Questo libro è stato scritto e stampato su un AppleMacintosh II e una Apple LaserWriter II NTX. Ilprogramma di scrittura che ho usato era ilFullWrite Professional creato da Ashton Tate.Delle bozze finali e dell’impaginazione si èoccupata la Last Word di Londra.

Vorrei rivolgere un enorme “grazie” alla miafantastica e straordinaria editor, Sue Freestone,che con il suo aiuto, le sue critiche, le sue paroled’incoraggiamento, il suo entusiasmo e i suoisandwich è stata insuperabile. Devo inoltre unringraziamento e le mie scuse a Sophie, James e

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Vivian, che nelle ultime settimane di lavoropraticamente non l’hanno vista quasi mai.

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La lunga oscura pausa caffè dell’animadi Douglas AdamsCopyright © 1988 by Serious Productions, LtdOriginally published in Great Britain by William Heinemann LtdAll rights reservedTitolo originale dell’opera: The Long Dark Tea-Time of the Soul© 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., MilanoTraduzione di Marco e Dida Paggi su licenza RCS Rizzoli Libri S.p.A.Ebook ISBN 9788852031250

COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO |PROGETTO GRAFICO: WANDA LAVIZZARI |GRAPHIC DESIGNER: MANUELE SCALIA |ILLUSTRAZIONE DI MANUELE SCALIA