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DOSSIER ENEA

LE TECNOLOGIE PER I BIOCOMBUSTIBILI E I BIOCARBURANTI: OPPORTUNITÀ

E PROSPETTIVE PER L’ITALIA

A cura di Vito Pignatelli

W o r k s h o p

ENEA PER L’AGROINDUSTRIA E I BIOCOMBUSTIBILI

25 maggio 2006

Roma

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Il volume è stato redatto con la collaborazione di: Luca Castellazzi Chiara Clementel Nicola Colonna Emanuele Scoditti

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INDICE

Introduzione 5

1. Il contesto di riferimento 6

1.1. Caratteristiche strutturali dell’agricoltura italiana 6

1.2. Elementi per la fattibilità e sostenibilità economica di un distretto agroenergetico 6

1.3. Gli strumenti offerti dalla nuova Politica Agricola Comune 8

2. Biocombustibili e bioenergia 9

2.1. Tecnologie per la produzione di bioenergia 9

2.2. Biocombustibili solidi da residui e produzioni agricole, forestali e agroindustriali 11

2.3 Stato e prospettive delle tecnologie di combustione e gassificazione delle biomasse 13

3. Biocarburanti per i trasporti 21

3.1. Caratteristiche tecniche dei biocarburanti 22

3.2. Mercato potenziale e infrastrutture industriali 30

3.3. Il sistema agricolo 31

3.4. Le misure di incentivazione 34

3.5. I benefici ambientali 35

3.6 Il ruolo della ricerca 37

4. ENEA per la bioenergia 40

4.1. Finalità ed obiettivi delle attività ENEA 40

Bibliografia essenziale 44

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Introduzione Il problema della sicurezza e diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico, insieme alla consapevolezza degli effetti ambientali dell’uso delle fonti fossili di energia, spinge oggi le istituzioni e le industrie ad affrontare con rinnovato impegno la “questione energetica”. In questa prospettiva i biocombustibili possono costituire una risposta promettente, anche se parziale, alla richiesta di alternative ecologicamente sostenibili ai combustibili fossili. In particolare, per quel che riguarda il settore dei trasporti, i biocombustibili liquidi (biocarburanti) rivestono un ruolo importante nella definizione della nuova politica energetica ed ambientale europea e tale importanza è stata riconosciuta con l’emanazione della Direttiva n° 2003/30/CE dell’8 maggio 2003, che prevede il raggiungimento per ogni stato membro di obiettivi indicativi di sostituzione dei carburanti derivanti dal petrolio con biocarburanti per una quota pari al 2% nel 2005 e fino al 5,75% nel 2010. In quest’ottica, l’avvio di rilevanti iniziative a carattere dimostrativo, unitamente a programmi di ricerca e sviluppo di ampio respiro, sia nel campo della produzione delle materie prime agricole, sia in quello più propriamente tecnologico potrà offrire nuove e significative opportunità di sviluppo per l’intero comparto agricolo ed agro-industriale del nostro Paese.

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1. Il contesto di riferimento 1.1. Caratteristiche strutturali dell’agricoltura italiana Negli ultimi decenni La Superficie agricola utilizzata (SAU) complessiva italiana è diminuita significativamente e ora si è assestata vicino ad un valore pari a 12, 2 milioni di ettari. La superficie aziendale media effettivamente utilizzata e sottoposta a coltura è limitata e pari a circa 6,2 ha. (dato inferiore alla media europea). Nel nostro Paese prevalgono aziende di dimensioni piccole o piccolissime. Le aziende con una superficie utilizzata superiore a 50 ettari sono solo il 2% del totale (anno 2003). In Italia esistono circa 1.800.000 aziende agricole (2003 - Universo Statistico UE, che esclude le aziende piccolissime) ed oltre la metà di tali aziende si concentra in collina. Le aziende orientate esclusivamente al mercato sono circa 600.000 e sono localizzate prevalentemente in pianura e collina. L’estrema eterogeneità delle condizioni pedoclimatiche sulle quali viene esercitata l’attività agricola rende difficile da una parte proporre “ricette” valide per tutto il paese e dall’altra limita il numero di bacini o distretti agroenergetici sui quali avviare attività estese nel campo delle bioenergie. In Italia, ad oggi, al di là delle attività relative all’impiego dei residui agroforestali, che nelle regioni del Nord Italia (Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige) annoverano esperienze di rilievo specificamente indirizzate alla produzione di energia termica in impianti domestici o di teleriscaldamento, non ci sono esperienze su scala significativa in termini di ettari impiantati a colture energetiche dedicate. Esistono invece diversi impianti dediti alla esclusiva produzione elettrica a partire da legna e scarti agroindustriali (lolla di riso, sanse, paglie, chips di diversa origine), per una potenza installata superiore ai 100 MWe 1.2. Elementi per la fattibilità e sostenibilità economica di un distretto

agroenergetico Nell’attuale contesto di riferimento, rappresentato da un sistema agricolo come quello italiano, le filiere bioenergetiche realisticamente avviabili nel breve periodo sono le seguenti: - Filiera per la produzione di oli vegetali, da utilizzare direttamente a fini energetici o

revia trasformazione in biodiesel: colture potenzialmente estendibili in Italia poiché già coltivate per la produzione di oli per la filiera alimentare: Girasole, Colza.

- Filiera per la produzione di bioetanolo: colture cerealicole dedicate: Mais, Sorgo. - Filiera per la produzione di biocombustibili solidi (legna, pellet ecc.) per riscaldamento

e/o produzione di elettricità: colture arboree poliennali a breve ciclo di taglio (Pioppo Robinia, Eucalipto) o erbacee annuali (Sorgo, Canna ecc.)

Le colture indicate rappresentano o specie per le quali la tecnica colturale, l’adattamento pedoclimatico e la produttività sono note perché precedentemente coltivate per la produzione di alimenti o foraggio o perché esiste un patrimonio varietale ampio legato ad utilizzazioni industriali consolidate (pioppo da tondame o cellulosa) che ha consentito di selezionare varietà adatte ad un impiego energetico nel breve volgere di pochi anni di sperimentazioni. Nell’attuale contesto socioeconomico la strada da intraprendere per sviluppare le bioenergia passa per specifici accordi territoriali che consentano di concentrare la produzione agricola e l’offerta del prodotto trasformato.

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La produzione e la trasformazione delle materie prime agricole, elementi centrali nelle filiere del biodiesel e del bioetanolo - come descritto più diffusamente in seguito - richiedono delle superfici investite ampie, capaci di dare origine a notevoli quantitativi di prodotti che diano garanzia alle raffinerie di ricevere i quantitativi necessari per la miscelazione con i carburanti fossili. Un distretto agroenergetico deve pertanto avere le seguenti caratteristiche: - Estensione, che deve essere sufficiente in termini di superfici investite a una

determinata coltura bioenergetica (alcune migliaia di ettari), e nello stesso tempo concentrata in un’area di raggio limitato a poche decine di chilometri (indicativamente inferiore ai 50 km);

- Autonomia. Tutti gli operatori/attori della filiera devono essere presenti nel distretto; - Potenza o capacità produttiva. La potenza dell’impianto di produzione di energia

elettrica o termica e/o la capacità produttiva dell’impianto di trasformazione del prodotto agricolo in biocarburante deve essere dimensionata opportunamente alla luce sia dell’effettiva capacità di approvvigionarsi delle materie prime necessarie, sia di considerazioni tecnico-economiche che, per ciascuna tecnologia, determinano una taglia minima al di sotto della quale non si ha più convenienza economica (per un impianto di generazione di energia elettrica con ciclo Rankine almeno 5 MWe);

- Organizzazione, che presuppone un ruolo centrale delle associazioni di categoria: gli

operatori agricoli possono assumere in maniera consorziata anche le funzioni di produzione e vendita dell’energia anche alla luce delle novità della legge finanziaria 2005. La concentrazione consente di limitare i costi per unità di prodotto compresi quelli relativi alla certificazione del prodotto di cui bisogna assicurare la tracciabilità.

In ogni caso, l’effettiva praticabilità di una qualunque ipotesi di realizzazione di un distretto agro-energetico è legata al superamento di una serie di criticità, fra cui le principali sono: - Disponibilità e costo della biomassa. nel contesto attuale parte della legna utilizzata in

Italia negli impianti per la produzione di elettricità da biomasse è importata. Non si riesce a raccogliere e concentrare una parte rilevante delle risorse di scarto che provengono dall’agricoltura (potature, altri sottoprodotti), e questo fatto è dovuto alla difficoltà di mettere a punto un’adeguata organizzazione logistica di raccolta, trasporto e stoccaggio e alla frammentazione delle superfici agricole in migliaia di aziende. Sul mercato internazionale esiste di contro una disponibilità elevata di sottoprodotti agroforestali che può viaggiare su nave a costi competitivi. Un discorso per molti versi analogo può essere fatto per le materie prime destinate alla produzione dei biocarburanti. Assicurare nel breve tempo una produzione agricola sufficiente a coprire una frazione significativa dei fabbisogni introdotti dalla recente legge sull’obbligo dell’aggiunta dei biocarburanti alla benzina e al gasolio immessi al consumo (si veda in proposito il Capitolo 3) non è infatti per nulla scontato. E’ necessario rispondere rapidamente a questa domanda e lavorare fin da ora per limitare per quanto possibile i costi di produzione.

- Aspetti tecnici ed economici delle coltivazioni energetiche (Energy Crops). Pur se la

sperimentazione su alcune colture chiave ha dato risultati importanti, la mancata applicazione su vasta scala non consente oggi di disporre di tecniche di coltivazione consolidate per i diversi ambienti pedoclimatici italiani. Le rese attuali non sono sufficienti ad assicurare la redditività delle colture stesse. Tra gli input di ricerca di breve e medio periodo è necessario spingere sulla definizione dei modelli colturali per le diverse colture ed aree geografiche e sul miglioramento genetico delle colture più adatte al contesto italiano.

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- Normative ed incentivi. Pur in un quadro di rapida evoluzione sia dal punto di vista delle politiche agricole che di quello fiscale e normativo italiano, è necessario che ci sia la certezza che i diversi soggetti della filiera possano operare per autoorganizzarsi su base territoriale, sviluppando accordi che vedano tra i soggetti promotori anche le amministrazioni pubbliche.

1.3. Gli strumenti offerti dalla nuova Politica Agricola Comune L’ipotesi della coltivazione di terreni per produrre bioenergia deve essere inserita negli strumenti e possibilità aperti dalla Politica Agricola Comune, di cui si riporta di seguito un breve elenco: - SET ASIDE, Coltivazione su terreni a riposo

Art. 55 e 56 Reg. 1782/2003 Non è soggetto all'obbligo di ritiro dalla produzione l'agricoltore che utilizzi le superfici

ritirate per fornire materiale per la trasformazione all'interno della Comunità di prodotti non destinati principalmente per il consumo umano o animale. Gli Stati Membri sono autorizzati a pagare l'aiuto nazionale fino al 50% dei costi connessi con la creazione di colture pluriennali destinate alla produzione di biomassa sui terreni messi a riposo.

- Coltivazioni a destinazione energetica su terreni agricoli produttivi Art. 88 Reg. 1782/2003 È concesso un aiuto comunitario di 45 Euro per ha l'anno per le superfici seminate a

colture energetiche, alle condizioni specificate. Si intendono per colture energetiche le colture destinate essenzialmente alla produzione dei seguenti prodotti energetici: prodotti considerati biocarburanti, biomasse per la produzione di energia termica ed elettrica.

- Art. 33 Reg. 2237/2003 Qualsiasi materia prima agricola, ad esclusione della barbabietola da zucchero, può

essere coltivata sulle superfici oggetto dell’aiuto, purché formi oggetto di un contratto tra produttore e primo trasformatore e purché il richiedente consegni tutta la materia prima raccolta al primo trasformatore, che garantisce che un quantitativo equivalente di tale materia prima venga utilizzato nella Comunità per la fabbricazione di uno o più prodotti energetici.

- Autoconsumo energetico Art. 34 Reg. 2237/2003 In deroga all’art. 33, il richiedente può essere autorizzato a:

- Utilizzare tutti i cereali o tutti i semi oleosi raccolti come combustibile per il riscaldamento della propria azienda o per la produzione, nella propria azienda, di energia o di biocarburanti;

- Trasformare tutta la materia prima raccolta in biogas nella propria azienda. - Piani di Sviluppo Rurale Il Regolamento 1257/99 (modificato dal Reg. 1783/03), ha introdotto lo strumento del

Piano di Sviluppo Rurale (PSR). Il Reg. (CE) n. 1698/2005 contiene le disposizioni concernenti lo sviluppo rurale per il

periodo 2007/2013. I PSR costituiscono un ambito particolarmente favorevole per lo sviluppo di filere

agroenergetiche. I PSR hanno una durata di 7 anni e sono aggiornabili ogni anno. In Italia tale funzione spetta alle Regioni e alle Province Autonome che redigono i PSR. Ciascuna Regione o Provincia autonoma individua molteplici linee d’azione basate su analisi territoriali e socio-economiche, definisce le priorità di intervento e predispone un programma organizzativo e finanziario.

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2. Biocombustibili e bioenergia 2.1. Tecnologie per la produzione di bioenergia Attualmente la produzione di bioenergia, cioè l'utilizzazione a fini energetici di quel vasto insieme di materie prime di origine biologica che viene genericamente indicato con il nome di biomasse, soddisfa il 10,9% circa del fabbisogno energetico a livello mondiale con 1.117 Mtep l’anno, grazie soprattutto alle foreste e ai residui agricoli. L’utilizzo di tale fonte mostra però un forte grado di disomogeneità fra i vari Paesi. I Paesi in via di sviluppo, nel complesso, ricavano mediamente il 38% della propria energia dalle biomasse, con 1.074 Mtep all’anno, e in molti di essi tale risorsa soddisfa fino al 90% del fabbisogno energetico totale mediante la combustione di legno, paglia e rifiuti animali. Nei Paesi industrializzati, invece, le biomasse contribuiscono appena per il 3% agli usi energetici primari con 156 Mtep all’anno. In Europa, complessivamente, al 2004, il consumo di energia primaria da biomassa ha raggiunto gli oltre 50 Mtep, corrispondenti al 3,5% della domanda di energia, con punte del 20% in Finlandia, del 15% in Svezia e del 13% in Austria. L’impiego delle biomasse in Europa soddisfa, dunque, una quota ancora limitata dei consumi di energia primaria, rispetto alle sue potenzialità. All’avanguardia, nello sfruttamento delle biomasse come fonte energetica, sono i Paesi del Centro-Nord Europa, che hanno installato grossi impianti di cogenerazione e teleriscaldamento alimentati da biomasse. Nel quadro europeo dell’utilizzo energetico delle biomasse l’Italia, con il 2,5% del proprio fabbisogno energetico coperto da questa fonte, è al di sotto della media europea e si pone in una condizione di scarso sviluppo, nonostante l’elevato potenziale di cui dispone, che risulta non inferiore ai 21-23 Mtep/anno. Le difficoltà che si frappongono ad un maggiore sviluppo della bioenergia nel contesto europeo e nazionale (dove, nonostante l’elevata potenzialità, che risulta non inferiore i, le biomasse coprono attualmente solo il 2,5% circa del fabbisogno energetico) derivano dall’ampiezza e dall’articolazione dei problemi facenti capo alle varie “filiere” e riguardano la gestione dei materiali, gli usi finali, le tecnologie, l’impatto socio-economico, l’articolazione dei sistemi, le normative ecc. Con il termine biomasse si intendono, in senso più generale, tutte le sostanze di origine biologica in forma non fossile utilizzabili a fini energetici e, quindi, oltre alle biomasse di origine forestale e ai residui della lavorazione del legno, vengono incluse in questa categoria di prodotti le cosiddette “colture energetiche” (specie vegetali che vengono espressamente coltivate per essere destinate alla produzione di energia e/o combustibili), i residui agricoli, gli scarti di lavorazione e gli effluenti delle industrie agroalimentari, le deiezioni animali, la frazione organica dei rifiuti solidi urbani (RSU), i rifiuti domestici in raccolta differenziata, i reflui civili. Le biomasse si possono considerare risorse rinnovabili e quindi inesauribili nel tempo, purché vengano impiegate ad un ritmo non superiore alle capacità di rinnovamento biologico. In realtà, quindi, le biomasse non sono illimitate quantitativamente, ma per ogni specie vegetale utilizzata la disponibilità trova un tetto nella superficie ad essa destinata, nonché in vincoli climatici ed ambientali che tendono a limitare in ogni regione le specie che vi possono crescere convenientemente ed economicamente. L'utilizzo a fini energetici delle biomasse può essere vantaggioso quando queste si presentano concentrate nello spazio e disponibili con sufficiente continuità nell'arco dell'anno, mentre una eccessiva dispersione sul territorio ed una troppo concentrata stagionalità dei raccolti rendono più difficili ed onerosi la raccolta, il trasporto e lo stoccaggio.

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L'impiego energetico delle biomasse presenta anche una indiscutibile rilevanza ambientale: oltre agli effetti positivi sul contenimento della CO2 atmosferica, la loro utilizzazione rappresenta spesso una buona soluzione a problemi di eliminazione di rifiuti, specialmente se solidi. Molte utilizzazioni, ai limiti della praticabilità se considerate esclusivamente sotto l'aspetto economico e/o della resa energetica, possono così risultare interessanti o convenienti se si considera anche il valore ambientale dell'intervento. Dal punto di vista tecnologico ed industriale, le alternative per la valorizzazione energetica delle biomasse già oggetto di realizzazioni industriali e con prodotti finali disponibili sul mercato sono sostanzialmente tre: - la combustione diretta, con conseguente produzione di calore da utilizzare per il

riscaldamento domestico, civile e industriale o per la generazione di vapore (forza motrice o produzione di energia elettrica);

- la trasformazione in combustibili liquidi di particolari categorie di biomasse coltivate

come le specie oleaginose (produzione di biodiesel, via estrazione degli oli e successiva conversione chimica degli stessi in miscele di esteri metilici e/o etilici) e specie zuccherine (produzione di etanolo via fermentazione alcoolica). Tali combustibili possono poi utilizzati, puri o in miscela con gasolio o benzina, come carburanti per autotrazione (biocarburanti) o, nel caso degli oli vegetali, direttamente in motori endotermici abbinati ad un generatore per la produzione di elettricità;

- la produzione di biogas mediante fermentazione anaerobica di reflui zootecnici, civili o

agroindustriali e/o biomasse vegetali di varia natura ad elevato tenore di umidità, e la successiva utilizzazione del biogas prodotto per la generazione di calore e/o elettricità. Il biogas può essere prodotto in impianti specificamente realizzati presso aziende agro-zootecniche o stabilimenti agroindustriali (distillerie etc,) o recuperato dalle discariche di rifiuti solidi urbani tramite appositi dispositivi di captazione. In quest’ultimo caso, l'aspetto energetico riveste un ruolo complementare rispetto a quello più propriamente ambientale, in quanto si evita la dispersione in atmosfera del metano, considerato uno dei principali gas responsabili dell’”effetto serra” (una singola molecola di metano ha un effetto 21 volte superiore a quello di una molecola di CO2).

Le tecnologie invece più vicine alla fase di pre-industrializzazione sono la gassificazione e la pirolisi. Nel primo caso, è possibile convertire materie prime quali legno, biomasse lignocellulosiche coltivate, residui agricoli o rifiuti solidi urbani, in un gas combustibile molto più versatile da utilizzare. Tale gas può infatti essere impiegato in motori a combustione interna (MCI), per l'alimentazione di turbine a gas o cicli combinati o anche, in prospettiva, per applicazioni più avveniristiche come l’alimentazione di fuel cells. La pirolisi è invece un processo termochimico che mira ad ottenere, sempre a partire da biomasse lignocellulosiche, combustibili liquidi più facilmente trasportabili (bio-oli), utilizzabili in primo luogo per la generazione di energia elettrica in co-combustione con combustibili fossili (olio combustibile, lignite ecc.) e, in prospettiva, come biocarburante per l’alimentazione di motori a combustione interna. Ancora lontani dall’applicazione commerciale sono invece altri processi di tipo più propriamente biotecnologico, come la produzione di etanolo via idrolisi enzimatica di materiali cellulosici e fermentazione (successiva o contemporanea) degli idrolizzati zuccherini. In ogni caso, è opportuno sottolineare che un elemento decisivo per il successo di qualsiasi filiera per la produzione di bioenergia che voglia essere considerata effettivamente “sostenibile” è la necessità di garantire la completa chiusura del ciclo produttivo, in modo da assicurarne la piena compatibilità ambientale. Questo vuol dire che le ceneri di combustione, le borlande di distillazione o i fanghi risultanti dalla digestione anaerobica devono essere “puliti”, cioè privi di contaminanti chimici o biologici che ne impediscano il reimpiego in

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agricoltura, diretto o dopo un trattamento di compostaggio, e che si deve evitare negli impianti di trasformazione qualsiasi commistione, accidentale o meno, con materie prime di altra natura. A livello nazionale, i principali settori di utenza per la bioenergia sono, nell’ordine, il riscaldamento domestico, la produzione di calore di processo, la produzione di energia elettrica in impianti centralizzati a partire da legna, residui agroindustriali, rifiuti solidi urbani (RSU) biogas da liquami e i biocarburanti liquidi che sono l’unica fonte rinnovabile in grado di sostituire direttamente la benzina ed il gasolio. 2.2. Biocombustibili solidi da residui e produzioni agricole, forestali e

agroindustriali Da quanto detto in precedenza, è evidente che le biomasse e i combustibili da esse derivati possono essere classificate in modi differenti a seconda dei criteri di volta in volta adottati (origine, composizione chimica o tipologia principale di utilizzo). Con specifico riferimento all’uso delle biomasse per la produzione di energia con processi termochimici (combustione, gassificazione e pirolisi), il termine correntemente adottato è quello di “biocombustibili solidi”, corrispondenti a specifiche tipologie di prodotti con caratteristiche e proprietà ben definite (Tabella 1). Infatti, la biomassa solida utilizzata come combustibile negli impianti per la produzione combinata di energia elettrica e calore dovrà sottostare alla disciplina delle caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi rilevanza ai fini dell’inquinamento atmosferico riportata nel DPCM 8 marzo 2002 e successiva modifica in data 8 ottobre 2004, rispettando al tempo stesso la classificazione prevista dalle norme UNI CEN/TS 14961/2005, pubblicate in lingua inglese il 1° luglio 2005. Tabella 1 – principali tipologie di biocombustibili solidi

Tipologia di biocombustibile Dimensioni tipiche Metodo di preparazione

Briquettes diametro > 25 mm compressione meccanica

Pellets diametro < 25 mm compressione meccanica

Polvere combustibile < 1 mm macinazione fine

Segatura 1 - 5 mm taglio

Legno sminuzzato (chips) 5 - 100 mm taglio

Legno spezzettato varie frantumazione

Legno in tronchetti 100 - 1.000 mm taglio

Legno intero > 500 mm taglio

Paglia in balle prismatiche

Paglia in balle prismatiche grandi

Paglia in rotoballe

0,1 m3

3,7 m3

2,1 m3

compressione e imballatura

compressione e imballatura

compressione e imballatura

Fascine varie raccolta e legatura dei fusti

Corteccia varie scortecciamento della legna

Paglia trinciata 10 - 200 mm trinciatura durante la raccolta

Granaglie o semi varie nessuna preparazione

Gusci e noccioli di frutti 5 - 15 mm nessuna preparazione

Panelli di fibra varie disidratazione di residui fibrosi

Fonte: Elaborazione ENEA su documentazione UNI CEN 2005

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Alcuni esempi di biocombustibili solidi derivati da residui legnosi sono mostrati di seguito in Figura 1.

Figura 1 Esempi di chips e pellets da residui agro-forestali e/o scarti della lavorazione del legno

Le biomasse comunemente utilizzate in Italia per la produzione di energia termica e/o elettrica sono costituite da residui forestali, agricoli e agroindustriali; per queste biomasse, composte da scarti e prodotti di risulta di attività produttive eterogenee, è assente una quantificazione precisa della loro disponibilità e di conseguenza delle potenzialità produttive per alimentare il crescente mercato della bioenergia. Il rapporto 2003 dell’ITABIA stima la disponibilità di biomasse in Italia a circa 20-22 milioni di tonnellate: di queste, circa 6 milioni provenienti da residui dell’industria del legno, circa 1,5 milioni da residui agroindustriali, circa 6 milioni da residui forestali e circa 7,5 milioni da residui di colture erbacee ed arboree. Per quanto riguarda, invece, la potenziale diffusione delle coltivazioni dedicate alla produzione di biomassa, anche in questo caso i fattori da considerare sono numerosi (strutturali, geografici, economici, sociali ecc.) e di non facile interpretazione. Una possibile stima fa ammontare a 1 milione di ha il territorio che potrebbe essere destinato alla riconversione a colture annuali o poliennali per la produzione di biomassa da energia. Ipotizzando una produttività media dell’ordine delle 10 t/anno di biomassa, si raggiunge un potenziale globale di 10 Milioni di t/anno, da aggiungere alla residuale già evidenziata. Nella produzione di energia termica da biomassa, l’apporto di gran lunga più importante proviene dall’utilizzo della legna da ardere nelle abitazioni (oltre 46.000 TJ nel 2003) e nelle industrie (quasi 40.000 TJ), mentre si stima una produzione con impianti a cogenerazione di quasi 13.000 TJ; più limitata la produzione di calore da impianti di teleriscaldamento (circa 1200 TJ). Sansa, carbonella e gusci di mandorle e nocciole rivestono un ruolo secondario e il loro uso si concentra nelle relative zone di produzione: l’Abruzzo è caratterizzato da consumi elevati di sansa e gusci di mandorle/nocciole, la Puglia consuma ingenti quantitativi di sansa e il Lazio di gusci di mandorle/nocciole. Questi biocombustibili presentano comunque un grande interesse per il riscaldamento domestico, in quanto si vanno a confrontare con combustibili fossili gravati da un notevole carico fiscale, quali gasolio o gas naturale, e comportano quindi una sensibile convenienza economica nell’utilizzo. Un simile vantaggio viene però pagato con la necessità di un maggio r lavoro manuale nelle fasi di caricamento del combustibile e di rimozione delle ceneri. Negli ultimi anni si stanno diffondendo impianti di tipo innovativo, con un elevato grado di automazione, alimentati con legno sminuzzato (chips) o compresso in pastiglie (pellets). Nel

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caso dei pellets, si tratta di materiali a basso contenuto di ceneri (per quelli di buona qualità minore dello 0,7 %) e, soprattutto, trattabili dal punto di vista della movimentazione come combustibili liquidi. Ciò comporta sia la possibilità di automatizzare il sistema di alimentazione della biomassa, sia quello di scarico delle ceneri, nonché di ottimizzare i rendimenti di combustione con risultati confrontabili con le convenzionali caldaie a combustibili fossili. Ad oggi, il consumo complessivo di pellet in Italia sembra attestarsi sulle 250.000 tonnellate annue. Tutto il pellet prodotto in Italia viene venduto interamente all’interno dei confini nazionali, soprattutto nelle regioni del Nord Italia, principale area di concentrazione non solo produttiva, ma anche di consumo. Nella quasi totalità dei casi, inoltre, il pellet viene fornito direttamente dai produttori di stufe a pellet ai clienti nei propri punti vendita, al fine di incentivare la vendita degli impianti il cui costo è superiore rispetto ai classici camini o stufe a legna, evitando al consumatore i disagi di reperire il combustibile necessario. Infine, non si hanno flussi di esportazione di tale prodotto, mentre il livello di importazione è risultato nel 2004 pari a oltre 100.000 tonnellate (di cui 25.000 dalla sola Austria). 2.3. Stato e prospettive delle tecnologie di combustione e gassificazione delle

biomasse Combustione Tra i vari processi per la conversione termochimica della biomassa, la combustione diretta è senza ombra di dubbio la più vecchia e matura. Nonostante ciò sono continuamente in corso ricerche volte allo sviluppo di sistemi sempre più efficienti e con minore impatto ambientale. Il processo di combustione permette la trasformazione dell’energia chimica intrinseca alla biomassa in energia termica, mediante una serie di reazioni chimico-fisiche. Quando la biomassa viene immessa in una camera di combustione subisce inizialmente una essiccazione; successivamente, man mano che la temperatura aumenta, si hanno processi di pirolisi, di gassificazione e, infine, di combustione. Con appropriati rapporti combustibile/aria, la biomassa si decompone e volatilizza, lasciando un residuo carbonioso (ceneri) costituito principalmente dai composti minerali inerti. Il composto volatile, che costituisce circa l’85% della biomassa iniziale, consiste in: - una frazione gassosa contenente, oltre all’anidride carbonica (CO2), l’ossido di carbonio

(CO), alcuni idrocarburi (CxHy) ed idrogeno (H2), che vengono ulteriormente ossidati mediante le seguenti principali reazioni esotermiche:

2 CO + O2 = 2 CO2 CxHy + (x + 0,25 y) O2 = x CO2 + (0,5 y) H2O 2 H2 + O2 = 2 H2O

- una frazione condensabile, contenente acqua e composti organici con basso peso molecolare, come le aldeidi, gli acidi, i chetoni e gli alcool che, con l’aumentare della temperatura, tendono a frammentarsi in composti più leggeri dando, per esempio, nel caso dell’acido acetico e dell’aldeide acetica:

CH3COOH = CH4 + CO2 CH3CHO = CH4 + CO2

I prodotti di queste reazioni subiscono un ulteriore processo di ossidazione con le stesse modalità indicate nel punto precedente;

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- una frazione carboniosa che può reagire con l’ossigeno per dare CO e CO2; - infine fumo, composto da sottili particelle di carbone e catrame. Il risultato ultimo delle suddette reazioni è la produzione di calore che viene recuperato mediante scambiatori di calore in cui si trasferisce l’energia termica ad altri fluidi vettori, quali aria o acqua. La quantità di energia termica contenuta dalla biomassa è funzione del tipo, della quantità di ceneri e del contenuto di umidità ed è definita generalmente dal “Potere Calorifico Inferiore”. Tale valore esprime il calore sviluppato dalla completa combustione di 1 kg di combustibile, non considerando il calore latente dei componenti condensabili. Normalmente, il P.C.I. delle biomasse oscilla tra le 2.500 e le 4.500 kcal/kg (circa 10.500 e 19.000 kJ/kg). I principali problemi di impatto ambientale connessi con la combustione della biomassa sono legati alla natura particolare del “combustibile solido”, quali la sua composizione chimica, il contenuto delle sostanze volatili, il tasso di umidità, la disomogeneità fisica, il contenuto ed il comportamento delle ceneri. Le diverse tecnologie di combustione utilizzate sono: - a griglia (fissa o mobile), elemento fondamentale oltre che per la reazione termica,

anche per la rimozione delle ceneri; i sistemi fissi sono generalmente usati per i combustori di piccola taglia. Per gli impianti industriali si adoperano le griglie mobili che facilitano la movimentazione, il rimescolamento del combustibile e la rimozione delle sue ceneri; tali griglie possono essere di vario tipo, vibranti orizzontalmente e/o verticalmente, a nastro, rotante, a gradini, a rulli, ecc., ed in alcuni casi vengono raffreddate con aria o con acqua per consentirne un carico termico specifico maggiore;

- in sospensione, indicata per le biomasse polverulenti e leggere tipo la lolla di riso, la

segatura, la polvere di legno e la paglia triturata, in cui la biomassa viene alimentata nella parte superiore del combustore e brucia mentre cade sulla griglia sottostante, avente principalmente la funzione di scarico delle ceneri;

- a tamburo rotante, utilizzata per applicazioni in cui il combustibile ha caratteristiche

termo-fisiche particolarmente povere e contenente elevati carichi di inquinante. La biomassa in combustione è continuamente rimescolata dalla lenta rotazione del tamburo ed il percorso dei prodotti di combustione può essere in equicorrente o in controcorrente con la direzione di avanzamento della biomassa;

- a doppio stadio, in cui si verifica preliminarmente la gassificazione e la pirolisi del

materiale in una prima camera, ed una completa combustione dei prodotti gassificati in una seconda, costituente il corpo principale del trasferimento dell’energia al fluido vettore;

- a letto fluido, in cui si possono trattare vari tipi di biomassa, inclusi i materiali carboniosi

“difficili” quali ligniti, torbe, rifiuti solidi urbani selezionati, fanghi di varia natura, anche ad elevata percentuale di umidità (> 40%). La camera di combustione è parzialmente riempita con materiale inerte, quale la sabbia o l’allumina, che viene fluidificato dall’aria di combustione primaria in modo da costituire il “letto bollente” o, nel caso di maggiore velocità dell’aria e di trascinamento del materiale, il cosiddetto “letto ricircolato”, il quale viene recuperato e reimmesso nella camera di combustione. Oltre al materiale inerte può essere immesso anche del materiale che permette di variare le condizioni dell’ambiente nel quale si verifica la combustione: infatti, nel caso di combustibili inquinati con composti acidi o contenenti ceneri basso-fondenti, si può usare del calcare o della dolomite per abbattere gli inquinanti acidi e per evitare la fusione delle ceneri nelle condizioni operative del combustore.

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Le apparecchiature adoperate per la combustione puntano a recuperare la massima parte dell’energia sviluppata durante il processo. Tale recupero può avvenire in modo diretto tramite le pareti del dispositivo (stufe), oppure in modo indiretto per mezzo di fluido vettore (caldaie). La presenza della sezione di recupero del calore non solo è conveniente dal punto di vista energetico ed economico, ma si rende necessaria per ridurre la temperatura dei fumi in uscita della camera di combustione (si può arrivare a 1200 °C) a livelli tali da rendere possibile il loro trattamento (non superiore a 300 °C). I dispositivi di combustione delle biomasse presentano delle caratteristiche costruttive differenti a seconda che il loro impiego sia destinato al settore civile, agricolo o industriale. I principali dispositivi per il settore civile (riscaldamento degli ambienti) che vedono numerosi modelli in commercio sia a livello nazionale che europeo, possono essere così raggruppati: - termocucine a legna, di uso prettamente mono-familiare, adibite sia al riscaldamento di

ambienti sia per la cottura dei cibi, aventi un rendimento globale di circa il 70-75%; - termocamini a legna, anch’essi per uso mono-familiari, con scambiatori ad acqua o ad

aria, aventi una efficienza media pari a circa il 50%; - caldaie a legna di piccola-media potenza (20-300 kWt), aventi una efficienza media

variabile tra il 60-80%, in grado di garantire il riscaldamento di singole unità abitative o di piccoli complessi residenziali, dotati nel caso delle taglie più piccole di griglia fissa e di caricamento manuale del combustibile, mentre per le potenzialità maggiori sono presenti tramogge di carico, sistemi di alimentazione, griglie fisse o mobili, sistemi di evacuazione delle ceneri e abbattitori di polveri prima dello scarico dei fumi al camino. Le caldaie per il riscaldamento dell’acqua sono del tipo a tubi di fumo, in cui i gas caldi di combustione attraversano i fasci tubieri immersi nell’acqua a cui trasferiscono il calore.

Per il settore agricolo sono particolarmente interessanti i combustori a larga camera e a griglia mobile, dotati di opportuni sistemi per l’alimentazione di paglia in balle, dei residui di potatura degli alberi, residui della lavorazione agro-industriale, ecc. I combustori devono essere progettati opportunamente per garantire il buon funzionamento con biomasse caratterizzate da un elevato contenuto in ceneri, anche basso fondenti, e con un grado di umidità variabile in un ampio intervallo. Le applicazioni più frequenti, ed in molti casi più convenienti economicamente, che vengono registrate in questo settore, sono l’essiccazione dei prodotti agricoli ed il riscaldamento di serre e di stabulaggi per l’allevamento dei suini e del pollame, oltre agli usi domestici normali. La potenza dei dispositivi termici è generalmente compresa tra 200 e 2.000 kWt. Anche in questo caso lo scambiatore di calore è del tipo a tubi di fumo, già descritto precedentemente. Nel settore industriale sono presenti numerosi impianti di combustione diretta delle biomasse di tipo agro-forestale o agro-industriale, dei RSU o dei rifiuti industriali. Tali applicazioni consentono la produzione di calore utilizzato per il ciclo produttivo, di energia elettrica o di cogenerazione (produzione simultanea di energia elettrica e termica). L’impianto è costituito dalle sezioni: - stoccaggio delle biomasse, che può avere dimensioni tali da garantire la fornitura del

combustibile per alcuni giorni o per periodi molto più lunghi (anche alcuni mesi) nel caso si trattino biomasse a carattere stagionale;

- eventuale pretrattamento consistente nella riduzione della pezzatura e dell’umidità della

biomassa alle specifiche richieste dal sistema di combustione;

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- linea di alimentazione dotata degli opportuni controlli di flusso; - combustore con le caratteristiche descritte in precedenza; - recupero energetico, mediante sistemi a tubi di fumo se il fluido vettore è acqua calda a

bassa pressione o aria, a tubi di acqua nel caso sia necessario avere acqua in pressione surriscaldata o vapore, ad olio diatermico ed eventuale scambiatore a vapore se si vuole evitare l’obbligo del conduttore patentato, soprattutto per impianti di potenza non elevata.

Nel caso di impianti destinati alla produzione di energia elettrica, è necessario introdurre ulteriori componenti quali, per esempio, la turbina a vapore e l’elettro-generatore ad esso collegato, il condensatore del vapore, il degasatore e vari recuperati termici per l’ottimizzazione del ciclo termico. L’azionamento delle turbine a vapore richiede la generazione di vapore surriscaldato a media-alta pressione. Le potenze degli impianti che producono solo energia termica possono variare da alcune centinaia di kW ad alcune decine di MWt: il limite della taglia superiore degli impianti industriali a biomasse è sia di carattere tecnico sia organizzativo-gestionale della filiera legno o altri tipi di biomasse. Anche il numero delle ore di funzionamento annue è spesso un limite al ritorno economico degli investimenti, se confrontato con impianti alimentati a combustibile convenzionale, in quanto questi ultimi presentano generalmente bassi costi di investimento a fronte di elevati costi energetici. La realizzazione di impianti per la produzione di energia elettrica o di cogenerazione dalla combustione della biomassa è tanto più economicamente vantaggiosa quanto maggiore è la sua disponibilità in grosse quantità localizzate geograficamente e distribuite nel tempo, in quanto la biomassa ha una bassa densità energetica, circa dieci volte inferiore a quella del petrolio. Ciò avviene in seguito alla riduzione considerevole dell’incidenza del costo di trasporto e di stoccaggio delle notevoli quantità necessarie al funzionamento di una centrale, la cui potenzialità “tipica” è generalmente nel range di 3 - 10 MWe. Per dare un’idea del fabbisogno della biomassa per realizzazioni di questo tipo, si deve considerare che occorre circa 1 kg di biomassa per produrre 1 kWh di energia elettrica. Il principale parametro energetico che si impiega per valutare gli impianti è il rendimento netto globale, che è dato dal rapporto percentuale tra l’energia disponibile per le utenze esterne e quella introdotta dal combustibile nell’imp ianto di produzione dell’energia, espresse con le stesse unità di misura, al netto dei consumi necessari al funzionamento dell’impianto stesso. Gassificazione Il processo di gassificazione consiste nella trasformazione di un combustibile solido, nel caso specifico la biomassa, in combustibile gassoso, tramite la reazione con l’ossigeno. La gassificazione è un processo da cui si ottiene un gas a basso potere calorifico (variabile tra 900 e 1.200 kcal/Nm3) per reazione della biomassa stessa con una quantità di aria tale da non consentire completa ossidazione. I componenti combustibili presenti nel gas prodotto sono: il monossido di carbonio (CO) e l’idrogeno (H2), sono presenti anche piccole quantità di idrocarburi. I componenti non combustibili del gas prodotto sono l’azoto (N2) presente nell’aria comburente, gli ossidi di azoto (NOx) derivanti dalla ossidazione dell’azoto legato alla biomassa, l’anidride carbonica (CO2) e il vapor d’acqua. La proporzione tra i vari componenti del gas varia notevolmente in funzione dei diversi tipi di gassificatore, dei diversi tipi di combustibile ed il loro diverso contenuto di umidità.

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Oltre alle sostanze organiche, le biomasse contengono anche sali minerali che non vengono gassificati, ma trasformati in ceneri e polveri. Praticamente, per mezzo della gassificazione, la biomassa viene trasformata in gas combustibili utilizzabili in motori a combustione interna o in caldaie per la produzione di energia meccanica o elettrica, più pregiate della semplice energia termica, per alimentare impianti energetici esistenti (il così detto “retrofitting”) o essere utilizzato in forni per la produzione, per esempio, di cemento o di laterizi. I dispositivi di gassificazione, tranne che per alcuni particolari costruttivi e di processo, hanno le stesse caratteristiche di quelli impiegati per la combustione della biomassa, differenziandosi per il fatto che l’ossidazione del combustibile avviene in difetto di ossigeno. Nella successiva Tabella 2 sono riportati i principali tipi di gassificatori e le loro caratteristiche peculiari. Tabella 2 - Principali tipi di gassificatori

Sistema di contatto e principali caratteristiche

Vantaggi Limitazioni

Letto fisso downdraft (equicorrente) - solido e gas verso il basso - semplice, costruzione robusta - limitata possibilità di scale-up - livelli molto bassi di catrame - alta conversione del carbonio - bassa capacità specifica - moderato livello di particolati - basso trascinamento di ceneri - alta umidità della biomassa - alto tempo di residenza solidi - deposito di ceneri sinterizzate Letto fisso updraft (controcorrente) - solido verso il basso, gas verso l’alto

- semplice, costruzione robusta - bassa capacità specifica

- livelli molto alti di catrame - buone possibilità di scale-up - alta umidità della biomassa - moderato livello di particolati - alta efficienza termica - deposito di ceneri sinterizzate - alto tempo di residenza solidi Letto fluido bollente - il gas passa attraverso un letto bollente

- buon controllo della temperatura - scarsa versatilità nella scelta della biomassa

- solido inerte nel reattore - buone possibilità di scale-up - perdita di carbonio nelle ceneri - basso livello di catrame - alta capacità specifica - alto livello di particolati - possibile uso di catalizzatore nel

letto

Letto fluido circolante - particolati separati e riciclati - buon controllo della temperatura - non possibile uso di catalizzatore

nel letto - basso livello di catrame - buone possibilità di scale-up - alto livello di particolati - aumentato range di particolato - alte portate di reazione - alta conversione del carbonio - costruzione semplice Letto fluido trascinato - alimentazione fine trasportata da gas ad alta velocità

- molto buona la possibilità di scale-up

- pretrattamento costoso

- niente inerti solidi - alta conversione del carbonio - pratico solo oltre 10 t/h - basso livello di catrame - scorie di ceneri utilizzabili come

materiali di costruzione - livello di particolati molto alto - scarsa versatilità nella scelta della

biomassa Doppio letto fluido - pirolisi nel primo reattore - medio potere calorifico del gas

usando solo aria - progetto complesso e costoso

- combustione del catrame nel 2° reattore che riscalda il letto del 1°

- possibile uso di catalizzatore nel letto

- pratico solo oltre 5 t/h

- alto livello di catrame - scale-up possibile, ma complesso - alto livello di particolati

Tralasciando i gassificatori a letto fisso, che si prestano bene per basse-medie potenze, attualmente l’interesse industriale verte soprattutto verso i letti fluidi.

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Esaminando più dettagliatamente la gassificazione di biomasse in un letto fluido, si possono distinguere i tre stadi fondamentali di essiccamento, pirolisi e processi ossido-riduttivi, con la differenza sostanziale che tali operazioni si svolgono rapidamente in un reattore quasi isotermico e con tempi di permanenza estremamente brevi. Le condizioni si isotermicità sono garantite dalla fluidizzazione di sabbia, e l’agente gassificante usato normalmente è l’aria, ma è possibile utilizzare anche ossigeno o vapore. Le biomasse in genere hanno un tenore elevato di umidità (sino al 30-40%), per cui l’H2O viene liberata rapidamente assieme ad altre sostanze volatili all’ingresso nel letto fluido, a temperature tra i 500 e gli 800 °C. Il combustibile viene inizialmente trasformato in anidride carbonica, sostanze catramose, idrocarburi, residui carboniosi e vapor d’acqua. Parte delle sostanze volatili sviluppate subiscono un successivo processo di trasformazione con l’aria di gassificazione e con la materia carboniosa, con formazione di un gas grezzo finale costituito da 20-35% di CO + H2, 2-4% di CH4 (resto CO2 e N2), veicolante una quantità non trascurabile di materiale particellare carbonioso e di inerti (ceneri). Il letto fluido si presta bene per la gassificazione di combustibili a basso potere calorifico, in quanto è caratterizzato da una rapida ed uniforme distribuzione del calore, con un controllo della temperatura relativamente facile. Nel letto di inerte le particelle carbonizzate si accumulano fino a raggiungere una certa frazione, che può essere definita di equilibrio, che varia da biomassa a biomassa in funzione della granulometria della stessa e della sua reattività. A questo punto tanta biomassa entra nel gassificatore quanta ne esce come prodotto gassificato, catrame trasportato dal gas (tar) e residuo carbonioso presente nelle ceneri (char). Alcune delle reazioni che hanno luogo nel letto sono:

C + ½ O2 = CO (1) CO + H2O = CO2 + H2 (2) CH4 + H2O = CO + 3 H2 (3) H2 + ½ O2 = H2O (4)

Le reazioni sopra riportate possono influenzare il potere calorifico del gas, in quanto dipendente essenzialmente dalla concentrazione finale in CO, H2, CxHy. Il metano e gli idrocarburi superiori provengono dalle reazioni di pirolisi della biomassa. Nel bilancio generale del processo assumono importanza rilevante le seguenti variabili: - portata oraria della biomassa; - portata oraria dell’aria; - temperatura del letto; - contenuto di umidità della biomassa; - tempo di residenza della biomassa e dei gas nel letto inerte. A loro volta queste variabili sono influenzate dai parametri determinati per progettare un gasogeno a letto fluido: - granulometria ottimale del materiale inerte costituente il letto fluido; - velocità minima del vettore utilizzato per la fluidificazione (più alta quanto più bassa è la

densità e la viscosità del fluidificante); - altezza ottimale del letto (tale da dar luogo a perdite di carico non eccessive, per ridurre

il consumo di energia della soffiante); - dimensioni del reattore e delle apparecchiature accessorie (cicloni, ugelli, tubazioni,

ecc.).

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Chiaramente, poiché nel gasogeno a letto fluido si devono contemperare ragioni fluido-dinamiche con altre di tipo cinetico, l’uso di date velocità piuttosto che altre si ripercuote sulla qualità del gas e sul grado di gassificazione della biomassa. Un parametro che diversifica i gassificatori è la pressione di esercizio, infatti si hanno gassificatori che operano sotto pressione oppure a pressione atmosferica; di seguito si elencano i principali punti che li caratterizzano. - Gassificatori pressurizzati:

- il sistema d’alimentazione è più complesso e costoso; - a parità di dimensioni richiede investimenti più alti; - non è richiesta la compressione del gas prodotto, permettendo più alti contenuti di

catrame nel gas e la depurazione dello stesso; - l’efficienza è più alta, dovuta alla ritenzione del calore sensibile e all’energia

chimica del catrame nel gas. - Gassificatori atmosferici:

- per le applicazioni alle turbine a gas richiede bassi livelli di catrame nel gas prodotto a una relativamente bassa temperatura prima della compressione del gas;

- le caratteristiche della qualità del gas per impieghi nei motori a combustione interna non richiede impegni onerosi e non è richiesta pressione;

- i costi di investimento sono potenzialmente inferiori a più basse potenze (sotto i 30 MWe);

- la composizione del gas ed il potere calorifico non sono significativamente diversi per i due sistemi.

Un altro parametro fondamentale che diversifica i gassificatori a letto fluido è l’agente gassificante. I più semplici utilizzano aria, ma a causa dell’effetto di diluizione dell’azoto il potere calorifico del gas prodotto è normalmente basso (circa 5.400-7.100 KJ/Nmc). Nella Figura 2 è mostrato un gassificatore a letto fluido ad aria ricircolante realizzato dall’ENEA nella Repubblica Popolare Cinese, accoppiato ad un motore a combustione interna da 160 KWe, con un potere calorifico del gas prodotto pari a circa 6.100 KJ/Nmc.

Figura 2 Gassificatore a letto fluido realizzato dall’ENEA in Cina

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Per incrementare il potere calorifico del gas, invece dell’aria è possibile utilizzare come agente gassificante ossigeno o vapor d’acqua. In quest’ultimo caso aumenta anche il tenore di idrogeno nel gas, e ciò rende particolarmente interessante in prospettiva questa tecnologia per l’accoppiamento con fuel cells o per la produzione di idrogeno da biomasse. Nella Figura 3 è mostrato un gassificatore pilota a letto fluido ricircolante, realizzato presso il Centro ENEA della Trisaia (Rotondella, Matera), con le zone di combustione e di gassificazione separate tra loro e trasporto di energia termica dall’una all’altra per effetto della circolazione di materia (sabbia). Questo accorgimento permette di compartimentare la zona di gassificazione, con immissione di energia termica dal combustore al gassificatore, senza immissione di aria e utilizzando come agente gassificante vapore. Ciò rende possibile ottenere un gas ad alto tenore di idrogeno, utilizzabile per l’alimentazione di fuel cells a carbonati fusi per la produzione distribuita di energia elettrica e calore. Il gas prodotto dall’impianto in questione ha un tenore di idrogeno di circa il 45 -50 % e un potere calorifico di circa 11.500 KJ/Nmc.

Figura 3 Gassificatore pilota a letto fluido (Centro Ricerche ENEA Trisaia)

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3. Biocarburanti per i trasporti Negli ultimi anni, sull’onda dei continui aumenti del prezzo del petrolio e del riacutizzarsi dei problemi ambientali legati all’uso crescente e pressoché esclusivo dei combustibili fossili nel settore dei trasporti, si è assistito ad una crescente ripresa di interesse per la produzione e utilizzazione, anche nel nostro Paese, dei cosiddetti “biocarburanti”, carburanti liquidi o gassosi ottenuti da processi di trasformazione chimica o biologica di biomasse di varia natura (prodotti agricoli, residui e reflui agroindustriali e zootecnici ecc.). La produzione di biocarburanti rappresenta in molti Paesi europei ed extraeuropei una realtà diffusa e consolidata da molti anni, ed alimenta un mercato in continua espansione (basti pensare ai recentissimi accordi commerciali per la vendita di bioetanolo dal Brasile al Giappone o alla crescita dell’industria europea del biodiesel, evidenziata nel grafico di Figura 4 (Fonte: EurObserv’ER, Biofuels Barometer), che nel 2004 ha raggiunto una produzione complessiva di quasi 2 milioni di tonnellate).

Figura 4

Produzione di biodiesel in Europa (UE15/25) - Anni 1998 - 2003 (kton)

Migliaia di t

0100200300400500600700800900

100011001200

1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004

Francia

Germania

Italia

Altri

In particolare, fra i Paesi dell’Unione Europea, La Germania, grazie anche ad una legislazione favorevole, è divenuta la maggiore produttrice di biodiesel con oltre 1 milione di t nel 2004 ed una crescita del 45% rispetto al 2003. Dopo la Germania, la seconda nazione nella produzione di biodiesel, nonostante un calo del 2,5% fatto registrare rispetto al 2003, è la Francia con quasi 350.000 t nel 2004. La maggiore crescita percentuale nel corso del 2004 è stata fatta segnare dalla Spagna che passa tra il 2003 e il 2004 da 6.000 a 13.000 t con quasi il 120% di incremento. I motivi che hanno portato a questa situazione sono certamente molteplici, ma è fuori di dubbio che, oltre alle motivazioni di carattere ambientale e a quelle, quanto mai attuali, legate alla sicurezza e alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico, un fattore importante è rappresentato dalle nuove prospettive che la produzione di biocarburanti apre per il settore agricolo. Per quel che riguarda l’Unione Europea, infatti, i temi della produzione e dell’impiego dei biocarburanti rivestono un ruolo importante nella definizione della nuova politica energetica ed ambientale comune. L’importanza del settore è stata riconosciuta con l’emanazione della Direttiva n° 2003/30/CE dell’8 maggio 2003, che prevede il raggiungimento per ogni Stato membro di obiettivi

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indicativi di sostituzione dei carburanti derivanti dal petrolio con biocarburanti e/o altri carburanti da fonti rinnovabili per una quota pari al 2% (sulla base del contenuto energetico) nel 2005 fino al 5,75% nel 2010. L’Italia ha recepito questa Direttiva con il decreto legislativo n° 128 del 30 maggio 2005 stabilendo, in un primo momento, obiettivi indicativi nazionali più bassi (pari rispettivamente all’1% entro il 31 dicembre 2005 e al 2,5% entro la fine del 2010) che sono stati successivamente riportati a valori sostanzialmente uguali a quelli della Direttiva Europea con la legge 11 marzo 2006, n. 81 che obbliga i distributori di carburante a immettere sul mercato benzina e gasolio contenenti percentuali crescenti di biocarburanti (fino al 5% nel 2010) a partire dal 1 luglio 2006. 3.1. Caratteristiche tecniche dei biocarburanti Sia la direttiva europea, sia il decreto legislativo n° 128/2005 precedentemente citati contengono un lungo elenco di prodotti potenzialmente utilizzabili come biocarburanti (Tabella 3), ma, allo stato attuale della tecnologia, gli unici realmente prodotti e impiegati su larga scala sono il biodiesel, l’etanolo e l’ETBE, etere etil ter-butilico, ottenuto a partire da etanolo ed isobutene (in modo del tutto analogo all’etere MTBE, prodotto a partire da metanolo di sintesi), considerato come biocarburante per il 47% in peso, corrispondente al contenuto in etanolo.

Tabella 3 - Prodotti potenzialmente utilizzabili come biocarburanti citati nella Direttiva n° 2003/30/CE e nel decreto legislativo n° 128/2005

Bioetanolo Biodiesel Biogas Biodimetiletere Bio-ETBE (basato sul bioetanolo, il 47% è considerato rinnovabile) Biocombustibili di sintesi derivanti da biomasse (FT-liquids) Bioidrogeno Oli vegetali puri

Rispetto ai carburanti derivati dal petrolio, i biocarburanti contengono una maggiore percentuale di ossigeno, ed hanno di conseguenza un minor contenuto energetico (potere calorifico inferiore), come mostrato in Tabella 4. La differenza è molto più evidente per il bioetanolo, nel quale l’ossigeno rappresenta una percentuale significativa dell’intera molecola (che ha oltretutto caratteristiche chimiche significativamente diverse dagli idrocarburi che costituiscono la benzina), che per il biodiesel. Di conseguenza, quest’ultimo può essere impiegato anche puro, in sostituzione del gasolio, per l’alimentazione degli autoveicoli diesel senza dover modificare i motori, mentre l’uso dell’etanolo puro o miscelato alla benzina in percentuali elevate (>20-25%) richiede interventi specifici di adattamento del motore e/o del sistema di alimentazione del carburante.

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Tabella 4 - Contenuto energetico dei carburanti per autotrazione

MJ / kg MJ / m3 Benzina 43,96 Gasolio 42,50 GPL 45,55 Gas naturale 34,12 Biodiesel 37,70 Metanolo 19,80 Etanolo 27,00 MTBE 35,28 ETBE 36,00

Le diverse modalità di utilizzazione del biodiesel e del bioetanolo in alcuni Paesi europei ed extraeuropei sono riportate nella Tabella 5. Tabella 5 - Utilizzazione del biodiesel e del bioetanolo

Biocarburante Uso Paese Veicolo

modificato Biodiesel Biodiesel puro Germania, Austria No Additivo fino al 5% senza etichettatura Francia, Italia No Additivo fino al 5% con etichettatura Regno Unito No Miscele fino al 30% con distribuzione

extra rete Italia No

Miscele al 30-40% con etichettatura Repubblica Ceca No Bioetanolo Etanolo puro (95,5%) Brasile Si Miscele fino all’85% di etanolo (E85) Nord America, Svezia Si Additivo fino al 24% in volume Brasile No Additivo al 5-10% in volume Nord America No ETBE (3,6-4,4% etanolo) Francia, Spagna No

Caratteristiche e utilizzazione del biodiesel Il biodiesel è costituito, per almeno il 98%, da esteri metilici di acidi grassi e viene prodotto tramite transesterificazione di oli vegetali, in primo luogo di colza ma anche di girasole o altri semi oleosi. Lo schema generale della reazione di transesterificazione degli oli vegetali è il seguente:

1 molecola trigliceride

+

3 molecole metanolo

3 molecole metilestere

+

1 molecola glicerina

R–CO–O–CH2 |

R–CO–O–CH |

R–CO–O–CH2

CH3–OH

CH3–OH

CH3–OH

R–CO–O–CH3

R–CO–O–CH3

R–CO–O–CH3

CH2–OH |

CH–OH |

CH2–OH

100 kg olio vegetale

11 kg

metanolo

100 kg

metilestere

11 kg

glicerina Il biodiesel può efficacemente essere utilizzato tal quale oppure in miscela (generalmente in percentuali dell’ordine del 20-30%) come combustibile per riscaldamento nelle tradizionali caldaie. Per quanto riguarda l’impiego nei motori a ciclo Diesel, dopo le numerose esperienze effettuate in tutta Europa e negli USA, l’orientamento generale (con le rilevanti eccezioni di

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Germania ed Austria, dove il biodiesel puro viene distribuito liberamente in rete) è verso l’utilizzazione in miscela con il gasolio in percentuali non particolarmente elevate (fino al 25-30%), in quanto l’impiego al 100% ha evidenziato l'esistenza di alcuni problemi di carattere tecnologico, come ad esempio: - Incompatibilità con alcuni materiali plastici (elastomeri) presenti nei motori come

costituenti di tubi di passaggio del combustibile e guarnizioni. Questi inconvenienti hanno una loro rilevanza quando il biodiesel viene utilizzato puro in quanto possono, deteriorando i materiali plastici, provocare l'intasamento degli iniettori e dare luogo a depositi nella camera di combustione. L'utilizzo di opportuni materiali (viton o teflon), negli autoveicoli di costruzione più recente permette di superare questo problema.

- Contenuto in acqua. Può raggiungere in alcuni casi 500 ppm provocando, nei tempi

lunghi, limitati fenomeni di corrosione nei serbatoi di stoccaggio. Pertanto lo stoccaggio del biodiesel deve essere effettuato con opportune cautele.

- Punto di scorrimento e filtrabilità a freddo. Il biodiesel puro ha un pour point (punto di

scorrimento) a -12 °C e mantiene una normale filtrabilità fino a -9 °C. Al di sotto di questa temperatura si possono avere problemi di scorrimento nei condotti di adduzione del combustibile e problemi di intasamento dei filtri. L'aggiunta di additivi permette di portare il punto di scorrimento a -20 °C e il punto di filtrabilità a -15 °C.

Un altro punto importante a favore della miscelazione con il gasolio anche in piccolissime percentuali è dato dal fatto che in questo modo si migliorano alcune caratteristiche del gasolio, con particolare riferimento all’incremento della lubricity (capacità lubrificante) nei gasoli a basso contenuto o senza zolfo. In realtà, quella dell’incorporazione di percentuali limitate di biodiesel nel gasolio distribuito liberamente in rete è già da diversi anni la via preferenziale di utilizzazione del biodiesel nel nostro Paese, come mostrato in Figura 5 (Fonte: Assobiodiesel).

Figura 5 Utilizzazione del biodiesel in Italia negli anni 1999 - 2004 (kton)

Migliaia di t

0

50

100

150

200

250

300

350

1999 2000 2001 2002 2003 2004

Additivo fino al 5%

Additivo fino al 30%

100% per riscaldamento

Totale

Le caratteristiche merceologiche del biodiesel da impiegare nei settori dei trasporti e del riscaldamento sono stabilite dal decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 252 del 25 luglio 2003, che adotta la normativa europea sulla standardizzazione del biodiesel (EN 14213 - Heating fuels. Fatty acid methyl esters (FAME). Requirements and test methods e EN 14214 - Automotive fuels. Fatty acid methyl esters (FAME) for diesel engines. Requirements

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and test methods) e stabilisce esplicitamente che possono essere avviati all’esterificazione oli vegetali senza alcun vincolo riguardo l’origine dei semi oleosi di provenienza. Tale precisazione è estremamente importante in quanto permette alle industrie di produrre biodiesel a partire da miscele di oli di diversa natura (colza, girasole, palma ecc., ma anche oli vegetali esausti di recupero), purché vengano rispettati, per ciascuna caratteristica, i limiti fissati dalla normativa. Le caratteristiche merceologiche del biodiesel da impiegare come carburante o combustibile da riscaldamento (che hanno anche una valenza fiscale in quanto il loro rispetto è necessario per poter conseguire l’esenzione di accisa, come precisato nel seguito) sono riportate nella Tabella 6. Tabella 6 - Caratteristiche merceologiche del biodiesel (Art. 2, comma 2 del DM256/2003)

Valore Caratteristiche Unità di misura min max

Metodo di prova

Aspetto Limpido Esame visivo Metilesteri % m/m 96,5 EN14103 Monogliceridi % m/m 0,80 EN14105 Digliceridi % m/m 0,20 EN14105 Trigliceridi % m/m 0,20 EN14105 Metanolo (2) % m/m 0,20 EN14110 Estere metilico di acido linoleico (3) % m/m 12,0 EN14103 Numero di iodio g I2/100 g 120 EN14111 (1) Le caratteristiche e i metodi di prova sono ricavati dalle norme UNI 10946 e 10947 (o loro modifiche EN14213-2002) che sostituiscono la precedente norma UNI 10635 (2) (3) Le caratteristiche non si applicano per il biodiesel destinato al riscaldamento (4) Nel caso del biodiesel destinato al riscaldamento il limite è di 135 g I2/100 g Caratteristiche e utilizzazione di etanolo ed ETBE L'uso di alcool etilico anidro (etanolo) come additivo nelle benzine non è una novità. Anche senza considerare il fatto che l'etanolo venne impiegato direttamente come carburante, in modo del tutto analogo alla benzina, nei primi motori a ciclo Otto alle origini dell'industria automobilistica, basti ricordare che in Italia, prima della seconda guerra mondiale, l'alcool etilico veniva impiegato come additivo in percentuali che arrivavano fino al 20%. Una simile percentuale di aggiunta (fino al 24% in volume) viene oggi raggiunta in Brasile (dove circolano anche numerosi autoveicoli modificati per l'alimentazione con semplice etanolo idrato), mentre negli U.S.A. si impiega correntemente una benzina al 10% di etanolo (gasohol) con un consumo annuo che è grosso modo pari a quello di tutta la benzina consumata in Italia nello stesso periodo. L'aggiunta di etanolo alle benzine fu suggerita in Italia subito dopo la crisi petrolifera del 1973 come un possibile contributo alla diminuzione del pesante deficit energetico del Paese. In realtà, la successiva caduta e sostanziale stabilizzazione del prezzo del greggio ridussero fortemente, nel giro di pochi anni, l'importanza di simili motivazioni (che sono però ritornate drammaticamente attuali con l’ultima, fortissima impennata dei prezzi del greggio), ma l'emergere di nuove esigenze legate alla tutela dell'ambiente, e in particolare alla necessità di contenere l'inquinamento prodotto da un numero sempre maggiore di autoveicoli, ha portato ad un rinnovato interesse nei riguardi dell’etanolo, e dei biocarburanti in generale, da parte di importanti settori del mondo scientifico e dell'apparato produttivo. Negli ultimi anni sono state prese numerose misure per ridurre l’inquinamento da traffico, tra le quali, solo per citare le più importanti, l’obbligo, per le case automobilistiche, di dotare, dal 1 gennaio 1993, tutti gli autoveicoli a benzina di dispositivi per l’abbattimento delle principali

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emissioni inquinanti (catalizzatore), l’obbligo di sottoporre tutti i veicoli a revisioni periodiche ravvicinate, la fissazione di limiti sempre più bassi per queste emissioni e per il contenuto di sostanze particolarmente pericolose, come il benzene, nei carburanti e, infine, la decisione di togliere dal mercato - a partire dal 1 gennaio 2002 - la benzina super additivata con composti a base di piombo. Ovviamente, i composti a base di piombo (piombo tetraetile o altri alchilati) sono stati introdotti nella benzina per un preciso motivo, che è quello di mantenere il cosiddetto numero di ottano (che è un indice della capacità antidetonante delle benzine) sufficientemente elevato da evitare l’accensione spontanea della miscela aria/benzina nella fase di compressione all’interno dei cilindri. L’eliminazione di questi composti richiede pertanto un aggiustamento della composizione del carburante, che viene effettuato sostanzialmente in due diversi modi: - modificando opportunamente, all’interno della benzina, i rapporti fra le diverse

componenti; - aggiungendo alla benzina additivi con un elevato numero di ottano, come alcuni

composti organici ossigenati (alcoli ed eteri). In quest’ultimo caso, la modifica di composizione delle benzine porta ad alcuni indubbi vantaggi dal punto di vista ambientale. Infatti, l’elevato numero di ottano degli ossigenati organici consente di ridurre apprezzabilmente (anche fino al 10-15%) il contenuto di idrocarburi aromatici e di olefine nel carburante, senza modificare la curva di distillazione della benzina - e quindi senza alcuna conseguenza negativa in termini di prestazioni -, ma diminuendo sensibilmente le conseguenze negative sull’ambiente e la salute umana delle emissioni per evaporazione, che rivestono un ruolo importante nella formazione dello smog fotochimico (il cosiddetto ozono). Cosa ancor più importante, la presenza di ossigeno all’interno del carburante ne migliora la combustione, riducendo la formazione di CO e idrocarburi incombusti. E’ evidente che, per poter essere applicata su larga scala, qualsiasi modifica di composizione della benzina deve tenere comunque conto della necessità di equivalenza e interscambiabilità dei nuovi carburanti nei confronti degli attuali e, soprattutto, non deve avere conseguenze negative sulle prestazioni, l’affidabilità e le emissioni degli automezzi che la utilizzano. Di conseguenza, nel caso specifico degli additivi ossigenati, la Comunità Europea emise già nel 1985 una specifica direttiva (Dir. CEE n° 536/85), che stabiliva sia il tenore massimo ossigeno nelle benzine, fissato al 2,5% in peso con facoltà dei singoli Stati membri di arrivare fino al 3,7%, sia il tenore massimo ammissibile dei singoli ossigenati permessi nei due diversi valori di concentrazione di ossigeno totale. Questa direttiva è stata recepita dall’ordinamento italiano con il decreto legislativo 18 aprile 1994 n° 280, che definisce i composti organici ossigenati ammissibili quali componenti e/o stabilizzanti di carburanti e, per ciascuno di essi, le percentuali massime di aggiunta, riportate nella Tabella 7. La normativa vigente offre quindi un ampio ventaglio di possibilità, mettendo in concorrenza per l'acquisizione di nuovi spazi di mercato diversi prodotti, alcuni di derivazione petrolchimica ed altri, come l’etanolo e l’ETBE (etere etil ter-butilico, ottenuto per sintesi chimica a partire da etanolo ed isobutilene), ottenibili in tutto o in parte da materie prime rinnovabili. Dal momento che l’impiego diretto dell’etanolo da materie prime agricole (bioetanolo) in miscela con la benzina - sull’esempio di quanto avviene negli Stati Uniti e in Brasile - pone una serie di problemi di natura tecnica, come l’aumento della volatilità di alcune componenti

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dannose della benzina stessa per formazione di azeotropi bassobollenti o la separazione in presenza di acqua, con perdita di capacità antidetonante della miscela, la conversione di questo prodotto in ETBE rappresenta, per lo meno nel breve-medio periodo, l’unica alternativa realisticamente praticabile per una sua utilizzazione su larga scala. Tabella 7 - Percentuali di aggiunta degli additivi ossigenati nelle benzine stabilite dalla Direttiva CEE n° 536/85 e dal decreto legislativo n° 280/1994

A B Metanolo, con aggiunta obbligatoria degli agenti stabilizzanti adeguati

3% vol. 3% vol.

Etanolo, se necessario con aggiunta di agenti stabilizzanti

5% vol. 5% vol.

Alcol isopropilico 5% vol. 10% vol. Alcol ter-butilico (TBA) 7% vol. 7% vol. Alcol isobutilico 7% vol. 10% vol. MTBE o altri eteri contenenti 5 o più atomi di carbonio per molecola (ETBE, TAME ecc.)

10% vol. 15% vol.

Altri ossigenati organici (1) 7% vol. 10% vol. Miscele di ossigenati organici (2) 2,5% in peso di ossigeno,

senza superare i singoli valori limite fissati in tabella per ogni componente

3,7% in peso di ossigeno, senza superare i singoli valori limite fissati in tabella per ogni componente

(1) Monoalcoli il cui punto finale di distillazione è compreso nella curva di distillazione delle benzine (2) L’acetone è ammesso fino allo 0,8% in volume quando è presente come coprodotto di fabbricazione di taluni

composti ossigenati organici La normativa vigente offre quindi un ampio ventaglio di possibilità, mettendo in concorrenza per l'acquisizione di nuovi spazi di mercato diversi prodotti, alcuni di derivazione petrolchimica ed altri, come l’etanolo e l’ETBE (etere etil ter-butilico, ottenuto per sintesi chimica a partire da etanolo ed isobutilene), ottenibili in tutto o in parte da materie prime rinnovabili. Dal momento che l’impiego diretto dell’etanolo da materie prime agricole (bioetanolo) in miscela con la benzina - sull’esempio di quanto avviene negli Stati Uniti e in Brasile - pone una serie di problemi di natura tecnica, come l’aumento della volatilità di alcune componenti dannose della benzina stessa per formazione di azeotropi bassobollenti o la separazione in presenza di acqua, con perdita di capacità antidetonante della miscela, la conversione di questo prodotto in ETBE rappresenta, per lo meno nel breve-medio periodo, l’unica alternativa realisticamente praticabile per una sua utilizzazione su larga scala. Infatti, per quel che riguarda l’uso dell’ETBE che, essendo chimicamente molto più simile dell’etanolo alla benzina, non presenta i problemi sopra citati, non esiste alcuna riserva da parte delle compagnie petrolifere, che sono perfettamente in grado di inserire il prodotto, come un qualsiasi altro additivo di sintesi e, in particolare, l’omologo MTBE (etere metil ter-butilico), all’interno dei propri cicli produttivi. L’ETBE e l’MTBE (etere metil ter-butilico) sono due eteri, appartengono cioè ad una classe di composti organici che contengono un atomo di ossigeno legato con due atomi di carbonio (il cosiddetto gruppo funzionale –C–O–C– ). Le loro formule grezze sono rispettivamente C5H12O e C6H14O, e le strutture, come si può vedere dal disegno riportato alla pagina seguente, che schematizza la reazione di sintesi, differiscono solo per un gruppo –CH2–. Entrambe gli eteri si ottengono facendo reagire un alcool (metanolo nel caso dell’MTBE ed etanolo per l’ETBE) con l’isobutene, un idrocarburo insaturo ottenuto per isomerizzazione e deidrogenazione del n-butano o come sottoprodotto di altri processi dell’industria petrolchimica, incluso il cracking catalitico di idrocarburi pesanti (un processo largamente utilizzato in raffineria per aumentare le rese in carburanti leggeri di maggior pregio).

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Reazioni di sintesi di MTBE ed ETBE

CH3-OH

+

CH3 � | C=CH2 � | CH3

CH3 � | CH3-O-C-CH3 � | CH3

Metanolo Isobutene MTBE

CH3-CH2-OH

+

CH3 � | C=CH2 � | CH3

CH3 � | CH3-CH2-O-C-CH3 � | CH3

Etanolo Isobutene ETBE

La reazione di sintesi viene effettuata in presenza di resine scambiatrici a carattere acido, che fungono da catalizzatore, e in condizioni di assoluta mancanza d'acqua per evitare la parallela formazione di alcool ter-butilico (TBA). Le rese di conversione dell’isobutene sono più o meno elevate a seconda della purezza del substrato di partenza (i valori più bassi si ottengono quando si usa l’isobutene derivato da processi di cracking catalitico), e, in condizioni ottimali, possono raggiungere il 98-99%. L’ETBE può essere prodotto negli stessi impianti industriali che producono l’MTBE (anzi, partendo da miscele di etanolo e metanolo, si può ottenere come prodotto finale una miscela dei due eteri). Ovviamente, per massimizzare le rese produttive, nel caso specifico della produzione di ETBE le condizioni di reazione devono essere modificate, non solo per quel che riguarda pressione e temperatura, ma anche prestando particolare attenzione al rapporto etanolo/isobutene, in quanto in presenza di un eccesso di alcool si formano acqua ed etere etilico, mentre un eccesso di isobutano porta alla formazione di di-isobutile. La formazione di questi prodotti secondari deve essere evitata non solo perché si riflette negativamente sulla resa finale, ma soprattutto perché etere e di-isobutile formano con l’ETBE azeotropi di difficile separazione, che creano problemi nella fase successiva di purificazione del prodotto. Infatti, per poter essere utilizzato come additivo della benzina, l’ETBE (come, d’altronde, l’MTBE), deve possedere caratteristiche di elevata purezza, soddisfacendo le specifiche riportate nella seguente Tabella 8. Tabella 8 - Specifiche di mercato per l’ETBE da utilizzare come additivo ossigenato della benzina

Componente

% in peso p.p.m.

ETBE 97,5 min. Etanolo + TBA 2,5 max. Acqua 500 max. Antiossidante 50 min. Colorante 60 max.

Fonte: Ecofuel – 1993

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Dal punto di vista delle proprietà chimiche, i due prodotti sono molto simili e, cosa determinante per quel che riguarda la loro utilizzazione come additivi della benzina, si comportano per molti versi in modo analogo agli idrocarburi. Il contenuto energetico (potere calorifico) ed il calore latente di evaporazione, infatti, sono decisamente simili a quelle della benzina e, di conseguenza, l'aggiunta di quantità anche notevoli di questi prodotti non porta ad aumenti di consumo, né crea problemi in caso di partenza a freddo dell’autoveicolo. Inoltre, essendo gli eteri composti non polari, sono perfettamente miscibili con la benzina e insolubili in acqua, cosa che permette di effettuare la miscelazione in raffineria e consente il trasporto via mare del combustibile additivato, nonché la sua distribuzione in rete senza dover prendere particolari accorgimenti per evitare la presenza anche di tracce di acqua nei serbatoi di depositi e stazioni di rifornimento. Alcune proprietà chimico-fisiche di MTBE ed ETBE, comparate con quelle di altri additivi ossigenati (alcoli) e della benzina, sono riportate in Tabella 9. ETBE ed MTBE presentano tutti i vantaggi degli additivi ossigenati: hanno un effetto positivo sul numero di ottano (MON e RON) e riducono significativamente le emissioni inquinanti, migliorando la combustione. A differenza, però, degli alcoli, che formano con alcuni componenti della benzina degli aggregati (azeotropi) particolarmente volatili, la loro influenza sulla volatilità della benzina, evidenziata dai valori della pressione di vapore Reid, è praticamente nulla, cosa che permette di contenere entro i limiti stabiliti le perdite di carburante per evaporazione. Tabella 9 - Proprietà chimico-fisiche di alcuni composti ossigenati in confronto alla benzina

Numero di ottano Motor (MON)

Numero di ottano Research (RON)

Pressione di vapore Reid

(kPa)

Punto di ebollizione

(C°)

Eteri MTBE 101 118 55 55 ETBE

102 118 28 72

Alcoli Metanolo 99 133 414 65 Etanolo

96 130 124 78

Benzina 82 - 88 92 - 98 70 - 100 26 - 230 Fonte: ARCO Chemical Europe - 1996 La differenza sostanziale fra i due eteri - che è poi, per molti versi, all’origine dell’attuale interesse per l’ETBE - è data dal fatto che, mentre per la produzione dell’MTBE viene utilizzato il metanolo, ottenuto per sintesi chimica a partire da combustibili fossili, l’alcool utilizzato per la sintesi dell’ETBE è l’etanolo, che si può ottenere dalla fermentazione di amidi e zuccheri contenuti in prodotti vegetali (biomasse) e può quindi essere considerato a tutti gli effetti una fonte energetica rinnovabile. Anche se L’ETBE viene preso in considerazione in quanto additivo ossigenato della benzina, e non come un vero e proprio carburante di sostituzione, la definizione di biocarburante è comunque da ritenersi corretta, in quanto l’etanolo presente nell’ETBE, che costituisce la componente rinnovabile, nella percentuale del 47% in peso sul totale, sostituisce effettivamente una certa percentuale di combustibile fossile (4-6% in peso a seconda della percentuale di aggiunta dell’etere). La scelta di considerare l’ETBE come un additivo è però importante in quanto il confronto, in termini ambientali, energetici ed economici, va effettuato non con la benzina, ma con il prodotto di sintesi realmente concorrente, l’MTBE.

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L’opportunità di utilizzare o meno l’ETBE al posto dell’MTBE va quindi valutata non tanto dal punto di vista tecnico - dal momento che non sussistono problemi né per quel che riguarda la produzione industriale, né per l’utilizzazione - quanto da quello economico. Il fattore limitante per la diffusione dell’ETBE è infatti il costo dell’etanolo, decisamente più elevato di quello del metanolo, e, pertanto, il successo di questo prodotto dipenderà da un lato dallo sviluppo di tecnologie e dalla messa a punto di modelli produttivi in grado di fornire etanolo a costi minori degli attuali. 3.2. Mercato potenziale e infrastrutture industriali In Italia, il consumo annuo stimato di carburanti liquidi per autotrazione è pari a circa 15 milioni di tonnellate (Mt) di benzina e 25 Mt di gasolio. Per quel che riguarda il contenuto energetico, 1 t di biodiesel corrisponde a circa 0,9 t di gasolio, mentre 1 t di etanolo equivale a 0,6 t di benzina. Di conseguenza, le dimensioni potenziali dei rispettivi mercati, nell’ipotesi conservativa di voler conseguire solo gli obiettivi della legge 11 marzo 2006, n. 81, sono pari a circa 280.000 t/anno di biodiesel e 250.000 t/anno di bioetanolo per sostituire l’1% dei carburanti fossili e a 1.400.000 t/anno di biodiesel e 1.250.000 t/anno di bioetanolo per il 5%. Nel nostro Paese, la produzione industriale di biodiesel (miscela di esteri metilici ottenuti per trasformazione chimica di oli vegetali) è stata avviata a partire dal 1993 e gli impianti oggi in funzione hanno una capacità produttiva stimata in circa 700.000-1.000.000 di t/anno, ben superiore alle produzioni attuali (320.000 t nel 2004) e all’entit à del contingente che può essere immesso al consumo con la totale esenzione dell’accisa sui carburanti (200.000 t nel 2004), e sufficiente a coprire, almeno per i prossimi due-tre anni, anche l’eventuale richiesta connessa al raggiungimento degli obiettivi sopra citati. E’ però importante notare che l’attuale produzione di biodiesel deriva per la quasi totalità da materie prime (oli o semi oleosi) importate, e la constatazione del limitato contributo delle materie prime agricole nazionali era una delle principali ragioni per cui gli obiettivi indicativi di immissione al consumo di biocarburanti stabiliti dal citato decreto legislativo n° 128/2005 erano stati praticamente dimezzati rispetto a quelli previsti dalla Direttiva europea di riferimento. Per quel che riguarda invece il bioetanolo, sono attualmente in fase di avvio iniziative industriali di rilevanti dimensioni per la sua produzione e trasformazione in ETBE, tenuto conto che anche per questi prodotti era già prevista una defiscalizzazione fino ad un tetto massimo corrispondente ad una produzione di circa 75-80.000 t/anno di etanolo, anche se la mancata emanazione del decreto interministeriale attuativo per la produzione e commercializzazione di bioetanolo in esenzione di accisa ha fatto sì che nello scorso anno solo 8.000 t circa di questo prodotto siano state effettivamente immesse sul mercato. E’ difficile fornire una stima attendibile dell’effettiva capacità produttiva di bioetanolo da parte del sistema industriale nazionale, in quanto non tutte le distillerie presenti in Italia (circa 60) dispongono degli impianti necessari per la produzione di etanolo anidro, utilizzabile per l’incorporazione diretta nella benzina o per la trasformazione in ETBE. A puro titolo di riferimento, nel corso del 2004 sono state prodotte circa 120.000 t di etanolo di diversa qualità, parte delle quali utilizzate come biocarburante fuori dei confini nazionali. La capacità produttiva degli impianti per la conversione di etanolo in ETBE presenti sul territorio nazionale, di proprietà della società Ecofuel del Gruppo ENI e attualmente utilizzati per la produzione dell’MTBE, è valutata intorno alle 300-350.000 t/anno (corrispondenti a 140-170.000 tonnellate di bioetanolo). In sostanza, nel nostro Paese esistono infrastrutture industriali, adeguate per dimensioni e

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spesso all’avanguardia dal punto di vista delle tecnologie, per la trasformazione dei prodotti agricoli in biodiesel o bioetanolo, unitamente alla disponibilità, da parte dei produttori di carburanti, a distribuire il biodiesel miscelato con il gasolio e la benzina additivata con ETBE, ma manca quasi del tutto la parte iniziale della filiera, cioè la produzione delle materie prime agricole da destinare alla conversione in biocarburanti, in quanto l’industria trova più conveniente utilizzare materie prime di importazione rispetto a quelle prodotte dal sistema agricolo nazionale perché, allo stato attuale della tecnologia, i costi di produzione della materia prima in Italia sono ancora troppo elevati rispetto a quelli di analoghe produzioni di provenienza estera. 3.3. Il sistema agricolo Nei primi anni ’80, l’agricoltura europea e, in misura minore, quella nazionale, si trovarono a dover fronteggiare il problema di una sovrapproduzione di cereali che, non più collocabile sul mercato internazionale per la presenza di concorrenti più agguerriti, rischiava di mettere in crisi l’intero comparto produttivo. Prese allora corpo l’ipotesi di utilizzare queste materie prime - in modo del tutto analogo a quanto accadeva negli Stati Uniti con il mais e pur nella consapevolezza dei maggiori costi rispetto all’uso della fonte fossile - per una produzione su larga scala di bioetanolo da utilizzare direttamente nella benzina (nella misura del 5% in volume stabilita al termine di un lungo e faticoso negoziato fra la Commissione Europea, l’industria automobilistica e quella petrolifera) come additivo altootanico della benzina, anche in considerazione della necessità di dover procedere in tempi rapidi all’eliminazione degli additivi a base di piombo. Tale ipotesi, sostenuta da grandi gruppi agroindustriali, fu presa in considerazione anche in Italia e l’allora Ministero dell’Agricoltura e Foreste affidò all’ENEA il compito di coordinare un gruppo di esperti per valutare la reale fattibilità di una simile scelta. Lo studio in questione mise in evidenza da un lato la fattibilità tecnica della produzione e impiego su larga scala del bioetanolo (ribadendo peraltro l’opportunità di diversificare le possibili materie prime in relazione alle peculiarità dei sistemi agricoli e alle condizioni pedoclimatiche dei diversi Paesi), dall’altro la necessità, da parte dello Stato, di intervenire con adeguate misure di incentivazione per rendere economicamente sostenibile tale impiego. Successivamente, con il venir meno dell’emergenza eccedenze in seguito all’introduzione massiccia della messa a riposo obbligatoria dei terreni agricoli - il cosiddetto set-aside - e la concomitante scelta, da parte dei produttori di carburanti, di seguire altre vie per l’eliminazione del piombo dalla benzina, l’argomento perse di interesse e l’impiego delle miscele benzina/etanolo si limitò ad alcune, anche se significative, prove di flotta (ad esempio i taxi di Bologna nella stagione invernale 1990-’91), ma non divenne mai oggetto di iniziative industriali. La situazione attuale è profondamente diversa in quanto oggi esiste, a livello europeo e nazionale, la volontà politica di sostenere la crescita di un mercato dei biocarburanti, volontà che si esplicita nell’obiettivo della progressiva sostituzione di percentuali limitate, ma non trascurabili, di carburanti fossili con quelli di origine agricola. In questo senso, la competizione economica non è quindi più quella etanolo/benzina, ETBE/MTBE o biodiesel/gasolio ma, una volta stabilito il fatto che tali prodotti debbano essere comunque incorporati in qualche misura nei carburanti convenzionali, quella fra le diverse materie prime da utilizzare per la produzione dei predetti biocarburanti. Come si è detto in precedenza, però, l’industria del settore trova e potrebbe trovare in futuro più conveniente utilizzare materie prime (semi oleosi, oli vegetali, melasso, cereali ecc.) di importazione rispetto a quelle prodotte dal sistema agricolo nazionale, dal momento che, per poter collocare sul mercato i propri prodotti in un regime di concorrenza, deve ovviamente

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ridurre il più possibile i costi di produzione (che, a seconda dei casi, dipendono per il 70-80% da quelli delle materie prime). Questo è oggi il principale ostacolo che si frappone alla realizzazione di una filiera produttiva completa dei biocarburanti nel nostro Paese in quanto è evidente che, allo stato attuale della tecnologia, i costi di produzione della materia prima in Italia sono ancora troppo elevati rispetto a quelli di analoghe produzioni di provenienza estera. E’ importante sottolineare il fatto che, in realtà, sull’entità di tali diseconomie esistono solo stime, in quanto i dati disponibili sono scarsi e limitati per lo più alla produzione di oleaginose per il biodiesel in regime di set-aside produttivo, su un arco di tempo di pochi anni. E’ evidente che l’impiego di varietà specificamente selezionate e adatte ai diversi areali produttivi o, in prospettiva, di colture diverse da quelle tradizionali (topinambur, sorgo zuccherino, cicoria per il bioetanolo, girasole ad alto tenore di acido oleico, brassicacee diverse dal colza per il biodiesel), finora oggetto solo di prove sperimentali, potrebbe migliorare l’economicità complessiva della filiera, ma è altrettanto evidente che solo passando dalla sperimentazione alla produzione sarà possibile ottenere dati realmente attendibili. Ma quanta materia prima occorre per soddisfare la prevedibile richiesta di biocarburanti in Italia nel prossimo futuro? La risposta a questa domanda dipende ovviamente sia dai prodotti agricoli utilizzati, sia dalle tecnologie di conversione. Considerando che le tecnologie di produzione di biodiesel da colza e di etanolo da cereali e barbabietole sono ormai consolidate, è facile ricavare con semplici calcoli delle stime attendibili. La situazione è invece diversa se si vuole partire da altre specie vegetali, anche se oggetto di sperimentazione da molti anni e in contesti differenti. Qualunque sia la materia prima, i quantitativi in gioco sono decisamente rilevanti, dell’ordine delle centinaia di migliaia, e probabilmente superiori al milione di tonnellate/anno. Questo si traduce, ovviamente, nella necessità di destinare centinaia di migliaia (e, in prospettiva, milioni di ettari) alla produzione di colture dedicate, e, in questo caso, la variabilità delle stime è ancora più grande, in quanto legata a dati di produttività che, nella maggior parte dei casi, provengono da attività sperimentali o da colture praticate in altri Paesi (grano tenero in Francia, colza in Germania ecc.). Per citare, a puro titolo di esempio, un dato in qualche modo ufficiale, nel 1999 il Programma Nazionale per la Valorizzazione delle Biomasse Agricole e Forestali (PNVBAF) del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (MiPAF) prevedeva per quest’anno un impegno di superficie agricola pari a 140.000 ha per colture da etanolo (produzione stimata 490.000 t) e 160.000 ha per colture da biodiesel (340.000 t), con una progressiva crescita delle aree coltivate - e della resa unitaria per ettaro -, come mostrato nei grafici delle Figure 6 e 7. In realtà, simili previsioni si sono rivelate in passato abbastanza inattendibili, e non si può ragionevolmente pensare che, nella situazione attuale, possano realizzarsi nel breve periodo, se non in misura molto limitata. Infatti, negli ultimi anni, le superfici coltivate a oleaginose per la produzione di biodiesel non hanno mai superato (sul finire degli anni 90) i 60.000 ha/anno e sono state caratterizzate da rese medie in olio - e, quindi, in biodiesel - inferiori ad 1 t/ha. Più recentemente, si è parlato diffusamente, soprattutto da parte di rappresentanti delle Confederazioni agricole, di un milione di ettari potenzialmente destinabili alla produzione di biocarburanti in sostituzione di colture alimentari non più remunerative a causa della riduzione delle integrazioni al reddito degli agricoltori prevista dalla nuova politica agricola comune (PAC), compresi i 120 - 150.000 ha circa non più utilizzabili per la coltivazione della barbabietola in seguito al forte ridimensionamento della produzione di zucchero conseguente alla recente riforma dell’OCM del settore bieticolo-saccarifero europeo.

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Figura 6 Previsioni di sviluppo della filiera bioetanolo in Italia

Migliaia di t (quantità) o ha (superfici)

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Bioetanolo

Colture per bioetanolo

Figura 7 Previsioni di sviluppo della filiera biodiesel in Italia

Migliaia di t (quantità) o ha (superfici)

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1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

Biodiesel

Colture per biodiesel

La reale praticabilità di simili proposte è comunque tutta da verificare in quanto, anche se questi terreni fossero realmente disponibili, la produzione di materia prima da convertire in bioetanolo e/o biodiesel richiede la sottoscrizione di contratti di fornitura pluriennali con l’industria di trasformazione, ed è difficile pensare che un gran numero di coltivatori siano interessati ad impegnarsi in tal senso in mancanza di accordi chiari e di ampio respiro e di un quadro legislativo certo e stabile che assicuri un’equa ripartizione di costi e benefici fra tutti i soggetti interessati allo sviluppo della filiera produttiva.

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3.4. Le misure di incentivazione Quando si parla di biocarburanti, al di là degli aspetti di natura più propriamente tecnica, il discorso finisce sempre col richiamare la necessità, per lo meno nel breve-medio periodo, di una qualche forma di incentivazione, citando le esperienze di tutti gli altri Paesi che hanno già da tempo intrapreso questa strada. Se tutti concordano sulla necessità di un simile intervento, esiste una notevole confusione sulla sua entità, modalità e durata. In sostanza, le soluzioni proposte sono sostanzialmente le seguenti: - L’esenzione totale o parziale dall’imposta di fabbricazione sui carburanti (accisa),

soluzione adottata da Francia, Germania, Svezia e, limitatamente a un contingente prefissato per il biodiesel, dal nostro Paese. Questa soluzione, rendendo i biocarburanti più convenienti rispetto agli analoghi prodotti di origine fossile, stimola la crescita del mercato, ma comporta una riduzione delle entrate fiscali via via più sensibile man mano che aumenta la quota di mercato dei biocarburanti. Per ovviare a questo problema, sono stati proposti meccanismi flessibili che legano l’entità della defiscalizzazione al prezzo del barile di petrolio o ne stabiliscono la progressiva riduzione in un certo numero di anni, nell’ipotesi ottimistica che il progresso tecnico-scientifico porti alla diminuzione, se non all’azzeramento, del differenziale di costo rispetto carburanti derivati dal petrolio (o in quella pessimistica che il prezzo del petrolio continui a crescere costantemente fino a livelli signific ativamente più alti di quelli attuali).

- L’incorporazione obbligatoria, interpretando in senso cogente le prescrizioni della

Direttiva Europea 2003/30/CE, con sanzioni per le compagnie petrolifere che immettono sul mercato carburanti non additivati con prodotti rinnovabili. Questo genere di misure obbliga l’industria petrolifera ad approvvigionarsi di biocarburanti, ma, ovviamente, non può evitare che detta industria vada ad acquistare biodiesel o etanolo dove costa meno cioè, in sostanza, da paesi terzi o da produttori nazionali che utilizzano materie prime a basso costo di provenienza estera. Inoltre, l’obbligo ad immettere comunque in commercio miscele contenenti una certa percentuale di biocarburanti o additivi da essi derivati (ETBE) più costosi rispetto agli analoghi prodotti di origine fossile rischia di tradursi - se non controbilanciato da altre misure - in un aumento di prezzo dei carburanti alla pompa del distributore.

- Meccanismi analoghi a quello dei certificati verdi, che premino chi produce i

biocarburanti e/o le relative materie prime in modo diretto o indiretto, tramite agevolazioni fiscali, stabilendo nel contempo un obbligo di acquisto da parte delle compagnie petrolifere. Un tale meccanismo, per molti versi simile a quello in vigore in diversi Paesi, Italia compresa, per incentivare la produzione di elettricità da fonti rinnovabili, comporta comunque un esborso da parte dello Stato, giustificabile solo in conseguenza dei vantaggi ambientali diretti e indiretti legati alla produzione e uso dei biocarburanti, che devono essere in qualche modo monetizzati.

La situazione italiana Per quel che riguarda in particolare l’Italia, la soluzione finora prescelta è stata quella dell’esenzione dall’accisa per un determinato contingente di biodiesel (la cui entità è variata nel tempo oscillando fra le 125.000 e le 300.000 t/anno) e, più di recente, di bioetanolo, ma è evidente che la pura e semplice defiscalizzazione del biocarburante non è di per sé in grado di promuovere l’uso di materie prime nazionali piuttosto che di importazione. Una soluzione proposta per questo problema è quella di vincolare l’effettiva erogazione degli incentivi alla realizzazione di specifici accordi di filiera che, con riferimento ad uno specifico contesto territoriale più o meno esteso, impegnino tutti i soggetti interessati, dagli agricoltori

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agli utilizzatori dei biocarburanti e, in tale direzione, la Legge Finanziaria 2006 presenta, rispetto al passato, alcune significative novità, fra le quali il fatto di aver vincolato l’immissione al consumo di una frazione significativa del contingente defiscalizzato del biodiesel (20.000 tonnellate su un totale di 200.000) alla sottoscrizione di appositi contratti di coltivazione, realizzati nell’ambito di contratti quadro, o intese di filiera. Un’altra importante novità della Legge Finanziaria 2006 è costituita dalla decisione di impiegare i fondi residui, originariamente destinati alla defiscalizzazione del bioetanolo nel 2005 e non utilizzati allo scopo (pari a circa 42 M€), per incentivare la produzione, legata alla sottoscrizione di accordi di filiera, di altre 20.000 tonnellate di biodiesel in aggiunta al contingente di 200.000 t, mediante la costituzione di un fondo per la promozione e lo sviluppo delle filiere bioenergetiche, anche attraverso l’istituzione di certificati per l’incentivazione, la produzione e l’utilizzo di biocombustibili da trazione. E’ auspicabile che le modalità di emissione di tali certificati siano tali da premiare, per quanto possibile, le cosiddette filiere corte, che minimizzano le conseguenze ambientali negative dei mezzi di trasporto (consumo di energia, inquinamento ecc.) e favoriscono la produzione e l’uso della bioenergia e dei biocarburanti in uno specifico contesto territoriale. Indipendentemente dall’esistenza e dall’entità del contingente defiscalizzato, gli sviluppi più recenti, legati all’entrata in vigore della legge 11 marzo 2006, n. 81, vanno comunque nella direzione di un deciso sostegno alla produzione di biocarburanti da materie prime agricole nazionali. Infatti, il decreto legge obbliga i produttori di carburanti ad immettere sul mercato benzina e gasolio additivati con percentuali progressivamente crescenti di biocarburanti, a partire dal 1 luglio 2006 e fino al 30 giugno 2010, sino a raggiungere il 5% del totale. E’ importate sottolineare che tali biocarburanti dovranno essere prodotti nell’ambito di un’intesa di filiera, o di un contratto quadro, o di un contratto di programma agroenergetico, che saranno prevedibilmente stipulati in primo luogo con i produttori agricoli del contesto territoriale di riferimento. Per garantire il reale rispetto di tale disposizione, è prevista l’introduzione di uno specifico sistema di certificazione di provenienza (analogamente a quanto stabilito per i prodotti alimentari) delle materie prime agricole a destinazione energetica. 3.5. I benefici ambientali E’ opinione comune che l’uso dei biocarburanti comporti indubbi benefici di carattere ambientale, sia per quel che riguarda la riduzione delle emissioni inquinanti dei veicoli che li utilizzano sia, più in generale, perché sostituiscono quantitativi corrispondenti di combustibili fossili, contribuendo a ridurre la produzione di gas climalteranti, in primo luogo CO2. Nella realtà dei fatti, pur esistendo una vasta letteratura tecnico-scientifica che documenta il minor impatto ambientale dei motori endotermici e dei bruciatori per caldaie alimentati a biodiesel rispetto a quelli alimentati a gasolio, non si possono purtroppo trarre conclusioni di carattere generale valide per i diversi tipi di inquinanti, perché ogni risultato è strettamente influenzato dalle condizioni di prova: tipo di impiego, ad esempio urbano o extraurbano, tipo di motorizzazione, anzianità del motore e stato di manutenzione ecc. I dati disponibili per il biodiesel concordano generalmente nel mostrare, nell’utilizzazione di biodiesel puro, una consistente diminuzione del monossido di carbonio e degli idrocarburi incombusti e un aumento delle emissioni di aldeidi e particolato. L’analisi del particolato mostra che l’uso del biodiesel comporta un incremento percentuale della frazione volatile del particolato (PM), che può però essere ossidata nei filtri anti-particolato recentemente introdotti, ed una conseguente diminuzione della frazione carboniosa. I dati relativi alle emissioni di miscele biodiesel/gasolio sono ancora insufficienti, nonostante

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anni di sperimentazione, per trarne conclusioni definitive. E’ comunque evidente che, andando verso miscele con contenuti di biodiesel ridotti (5% o meno), le differenze rispetto al gasolio puro diventano praticamente inesistenti. Partendo da simili considerazioni - e tenuto conto anche del fatto che un gasolio con un elevato contenuto di biodiesel (>30%) o il biodiesel puro possono causare inconvenienti in veicoli con guarnizioni in materiali polimerici non compatibili - il decreto legislativo n° 128/2005 fissa il limite massimo del 5% di aggiunta nel gasolio per l’immissione delle miscele diesel/biodiesel alla libera distribuzione presso le stazioni di servizio della rete stradale e autostradale, mentre le miscele con tenori di biodiesel più elevati e biodiesel puro possono essere utilizzati solo su veicoli di flotte, pubbliche o private, previa omologazione degli stessi. L’eventuale decisione di autorizzare in futuro la distribuzione in rete anche di miscele con un tenore in biodiesel superiore al 5%, dipenderà dai risultati di un apposito programma per la valutazione del bilancio ecologico dei biocarburanti e degli effetti ambientali derivanti dall’uso, da parte di veicoli non specificamente adattati, di tali miscele, in particolare ai fini del rispetto delle normative in materia di emissioni. Il discorso è invece diverso per quel che riguarda le miscele benzina/etanolo o benzina/ETBE. In questi casi, infatti, l’aggiunta di ossigeno, anche in piccole percentuali, migliora la combustione e comporta una riduzione significativa delle emissioni di monossido di carbonio e composti organici volatili (COV), che sono i principali responsabili dell’inquinamento urbano nelle condizioni climatiche tipiche della stagione invernale. E’ questo il motivo per cui, a partire dal 1995, sono state introdotte negli Stati Uniti le cosiddette benzine riformulate (dove per riformulazione si intende un intervento mirato e articolato di variazione della composizione del carburante, dove all’aggiunta di un additivo ossigenato si accompagna una corrispondente riduzione di composti aromatici ed olefinici), che devono contenere obbligatoriamente una percentuale di ossigeno pari al 2% in peso. L’aggiunta generalizzata di una percentuale del 10-15% di ossigenati alla benzina porterebbe quindi ad una sensibile diminuzione dell’inquinamento da traffico, migliorando l’efficacia e la durata dei dispositivi catalitici di abbattimento delle emissioni inquinanti della auto a benzina, come si può vedere dai dati riportati in Tabella 10. Tabella 10 - Diminuzione di alcune emissioni inquinanti in conseguenza dell’utilizzazione di benzina riformulata con aggiunta del 10-15% di ossigenati CO (monossido di carbonio) 20-25% HC (idrocarburi incombusti) 10-15% Benzene 20-30% NOx (ossidi di azoto) 5% Formaldeide 6-8% Emissioni evaporative 15% Fonte: ARCO Chemical Europe - 1996 Nel decreto legislativo n° 128/2005 non vengono citati limiti minimi e/o massimi per l’additivazione delle benzine con etanolo o con l’ETBE, ma è opportuno rammentare che tali limiti sono stati fissati a suo tempo dalla Direttiva CEE n° 536/85, recepita dall’ordinamento italiano con il decreto legislativo 18 aprile 1994 n° 280, che definisce i composti organici ossigenati ammissibili quali componenti e/o stabilizzanti di carburanti e, per ciascuno di essi, le percentuali massime di aggiunta (5% in volume per l’etanolo e 15% per l’ETBE, come mostrato precedentemente in Tabella 7). In ogni caso, per valutare appieno i benefici ambientali connessi all’uso dei biocarburanti,

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bisogna tener conto di tutte le fasi del ciclo di produzione/trasporto/ utilizzazione degli stessi, a partire dalla coltivazione della materia prima agricola, e comparare i risultati ottenuti con quelli relativi ai corrispondenti prodotti da fonte fossile (gasolio, benzina ed MTBE). Questo tipo di valutazioni, basate sul cosiddetto Life Cycle Assessment (LCA), sono ovviamente tanto più accurate e attendibili, quanto più specifica è la filiera produttiva presa in esame. Nella realtà dei fatti, la letteratura scientifica sull’argomento è estremamente ampia, e riguarda sia i bilanci energetici (con risultati anche molto diversi a seconda di come vengono considerati i co-prodotti a destinazione mangimistica), sia le emissioni di CO2, sia il complesso degli aspetti ambientali, che tiene conto del maggior numero possibile di fattori: dal consumo di acqua alla produzione di polveri, dall’effetto sull’acidità delle precipitazioni atmosferiche ai fenomeni di eutrofizzazione e così via. In qualche caso, come ad esempio la stima della riduzione delle emissioni di CO2 conseguenti all’uso del biodiesel (circa 2,5 t di CO2 evitata per tonnellata utilizzata), il risultato, frutto di un gran numero di valutazioni indipendenti, si può considerare acquisito. Ciò detto se, ad esempio, si vuole incentivare l’uso di una determinata materia prima agricola di produzione nazionale rispetto ad una importata, legando l’incentivo al parametro della distanza fra il luogo di produzione e l’impianto di trasformazione, è necessaria una valutazione puntuale dell’effettiva incidenza del trasporto sull’impatto ambientale complessivo. Infine, fra i vantaggi ambientali dei biocarburanti, si deve considerare la loro biodegradabiltà, particolarmente importante nel caso di impiego in contesti ecologicamente sensibili (aree montane, parchi naturali ecc.). Per quel che riguarda in modo specifico il biodiesel, in caso di sversamento accidentale nell’ambiente, il 98% circa si degrada nelle prime tre settimane e il resto nelle 5 settimane successive. 3.6. Il ruolo della ricerca Come si è detto precedentemente, la produzione e utilizzazione dei biocarburanti è in molti Paesi, e in qualche misura anche in Italia, una realtà consolidata, corrispondente a un sistema produttivo agro-industriale di dimensioni anche rilevanti che si avvale di tecnologie sostanzialmente mature. La diretta conseguenza di tutto questo è che, una volta presa a livello politico la decisione di promuovere l’uso di questi prodotti, i fattori determinanti sono quelli di tipo logistico (dove e come ci si approvvigiona della materia prima, dove finiscono i co-prodotti ecc.) e, ancor più, quelli economico-normativi, soprattutto per quel che riguarda gli strumenti di incentivazione. Nella situazione attuale, quindi, attività di ricerca e sviluppo tecnologico in questo campo possono avere ricadute importanti in termini di ottimizzazione delle filiere esistenti. Questo tipo di attività, ad esempio, possono riguardare: - la ricerca agronomica e genetica, mirata sia all’ottimizzazione delle pratiche colturali

(riduzione degli input di acqua, fertilizzanti, pesticidi ecc.), sia all’individuazione e selezione di piante tradizionali e/o nuove specie - e, successivamente, alla costituzione di nuove varietà - a più alta resa e meglio adattabili ai diversi ambienti;

- l’LCA delle diverse filiere produttive, al duplice scopo di ric avarne gli elementi necessari

per un corretto confronto fra le varie possibili opzioni (ad esempio nell’approvvigionamento della materia prima) e, più in generale, di individuare i punti critici dove si registrano i più sensibili effetti negativi e intervenire per apportare le necessarie correzioni;

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- le emissioni prodotte dall’uso di miscele ad elevato tenore di biodiesel da parte di autoveicoli dell’ultima generazione nelle condizioni reali di traffico delle nostre città e, nell’immediato futuro, quelle dei veicoli dual fuel alimentati con miscele etanolo/benzina fino all’85% di etanolo, che cominciano ad affacciarsi sul mercato, con uno sforzo per la definizione di metodologie e sistemi di misura in grado di fornire risultati il più possibile riproducibili;

- alcuni aspetti specifici dei processi industriali, come ad esempio la selezione di lieviti

migliorati rispetto a quelli attualmente utilizzati per la produzione di etanolo, in grado di tollerare concentrazioni più elevate di zuccheri e/o di etanolo nel fermentatore in modo da ridurre i tempi e inviare alla distillazione un prodotto più concentrato.

Per quel che riguarda in particolare le materie prime (che, allo stato attuale della tecnologia, costituiscono il principale fattore di costo dei biocarburanti), la legge 11 marzo 2006 n. 81 prevede esplicitamente che le pubbliche amministrazioni stipulino contratti o accordi di programma con i soggetti interessati al fine di promuovere la produzione e l’impiego di biomasse e di biocarburanti di origine agricola, la ricerca e lo sviluppo di specie e varietà vegetali da destinare ad utilizzazioni energetiche. L’importanza di rafforzare le attività di ricerca e sviluppo sui biocarburanti e le relative tecnologie di produzione ed utilizzo viene sottolineata anche dal citato decreto legislativo n° 128/2005, che sottolinea il fatto che tali attività dovranno costituire uno degli obiettivi generali di uno specifico accordo di programma quinquennale da stipulare con l’ENEA, e che debbano essere svolte dall’Ente (con evidente riferimento a quelle relative agli effetti sui motori e sulle emissioni) in collaborazione con la Stazione Sperimentale per i Combustibili del Ministero delle Attività Produttive. In ogni caso, è evidentemente compito esclusivo del mondo della ricerca, pubblica e privata, quello di contribuire all’individuazione e allo sviluppo di nuove vie, nella prospettiva del superamento dei limiti della situazione attuale, che non sono solo di carattere economico. Infatti, pur nella consapevolezza della diseconomia determinata dai maggiori costi di produzione delle materie prime agricole rispetto alle fonti fossili (petrolio, gas naturale, ma anche - e questo viene quasi sempre sottaciuto - carbone, dal quale è possibile ottenere benzina e gasolio sintetic i in quantità con processi ben conosciuti e utilizzabili su scala industriale), è evidente che, in attesa della maturità tecnologica della produzione di idrogeno da fonti rinnovabili e del suo impiego diffuso negli autoveicoli, i biocarburanti rappresentano oggi l’unica alternativa realisticamente praticabile per ridurre le emissioni di CO2 nel settore dei trasporti. L’attuale tendenza ad incorporare percentuali crescenti (ma, tutto sommato, limitate) di questi prodotti in benzina e gasolio va incontro all’esigenza del sistema produttivo agricolo di diversificare le proprie produzioni e di utilizzare grandi estensioni di terreni non più destinabili alla produzione di risorse alimentari. Ovviamente, questa convergenza di interessi è valida solo fino ad un certo punto, corrispondente ad un livello di sostituzione stimabile intorno al 10-15%. Se però, in un contesto di nuove e più forti esigenze di diversificazione delle fonti energetiche e di contenimento delle emissioni di gas responsabili dell’effetto serra, si dovesse decidere di introdurre sul mercato quantitativi di biocarburanti maggiori, allora la duplice esigenza di ridurre significativamente i costi di produzione e di ottimizzare l’uso del territorio, in modo da non dar vita ad un possibile conflitto con le produzioni alimentari, imporrebbe lo sviluppo di filiere produttive alternative alle attuali per ottenere quelli che, in ambito internazionale, si comincia ad indicare con il nome di biocarburanti di seconda generazione. I principali esempi di questi biocarburanti sono:

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- l’etanolo ottenuto da processi biotecnologici di idrolisi enzimatica della cellulosa, oggetto di ricerca e sperimentazione, fino alla realizzazione di impianti dimostrativi, già dalla seconda metà degli anni ’70 e attualmente al centro di un rinnovato interesse da parte della comunità scientifica, per il quale si ritiene (Fonte: 14° Conferenza Europea sulle Biomasse, Parigi, ottobre 2005) che la competitività economica rispetto ai processi attualmente in uso possa essere raggiunta intorno al 2015-2020;

- il dimetil-etere (DME) e il gasolio sintetico da biomassa (FT liquids), ottenuti via

gassificazione di biomasse lignocellulosiche e condensazione catalitica del syngas prodotto (miscela di CO e H2) con processi analoghi alla sintesi di Fischer-Tropsch, utilizzata per la produzione di carburanti sintetici da carbone, attualmente oggetto di sperimentazione a livello di laboratorio o impianti di piccola scala.

Denominatore comune di queste filiere è l’utilizzazione, come materia prima, di substrati lignocellulosici, che possono essere indifferentemente biomasse residuali o colture dedicate. Nel caso specifico delle colture da biomassa, è noto che già oggi la produttività per ettaro è molto più elevata rispetto a quella dei cereali o delle oleaginose e che, in ogni caso, i processi in questione consentono di utilizzare una frazione maggiore della biomassa prodotta o addirittura l’intera pianta. Parallelamente allo sviluppo e alla promozione dei biocarburanti che possono essere già prodotti dall’attuale sistema agricolo e industriale, è quindi evidente che l’avvio di programmi di ricerca e sviluppo tecnologico di ampio respiro su queste nuove filiere (materia prima e tecnologia) dovrebbe esser attentamente valutato nella prospettiva di un ulteriore crescita di questo settore produttivo, che potrà offrire nuove e significative opportunità di sviluppo per il comparto agricolo ed agroindustriale del nostro Paese e dell’intera Unione Europea.

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4. ENEA per la bioenergia Il ruolo dell’ENEA per lo sviluppo e la diffusione della bioenergia (e, più in generale, dell’intero settore delle fonti rinnovabili di energia) si articola su diversi livelli e con diverse modalità avvalendosi delle competenze e delle esperienze sviluppate in molte aree della ricerca in campo economico e scientifico e della sperimentazione di nuove tecnologie. Il modello di intervento dell’ENEA si caratterizza in modo peculiare per la capacità di integrare capacità di analisi e valutazione dei principali fattori connessi ai processi di gestione delle risorse energetiche e ambientali, con l’analisi e il monitoraggio di sistemi energetici e ambientali complessi e con la capacità di progettare, sperimentare e realizzare sistemi impiantistici innovativi. Nel caso delle fonti energetiche rinnovabili il modello si realizza affrontando sia sul piano generale che nello specifico territoriale questioni connesse, da una parte con la conoscenza del territorio e con i meccanismi di utilizzo delle sue risorse e, dall’altra, con lo sviluppo di tecnologie per la produzione e l’uso ambientalmente sostenibile dell’energia. Tra le modalità di intervento dell’ENEA si sottolineano: - la realizzazione di studi sul sistema energetico e ambientale nazionale e il monitoraggio

dei processi in atto attraverso l’analisi di indicatori utili per la valutazione delle politiche e misure adottate, la realizzazione di scenari a supporto delle politiche di intervento pubblico;

- lo sviluppo di tecnologie e metodologie per la conoscenza e il monitoraggio del sistema

energetico-ambientale, per la formulazione di programmi a scala nazionale e territoriale diretti alla mitigazione e all’adattamento agli effetti dei cambiamenti del clima, per la valutazione del potenziale energetico delle fonti rinnovabili di energia;

- la ricerca e la sperimentazione, anche di concerto con altri centri di ricerca e imprese

industriali, di nuove soluzioni tecnologiche per ampliare l’offerta di know how a disposizione del sistema produttivo nazionale nel suo complesso;

- l’attività di supporto tecnico alla promozione di iniziative a livello territoriale, di concerto

con gli enti locali, per favorire la scelta delle migliori soluzioni tecnologiche, per superare le barriere alla diffusione, stimolare le proposte, monitorare i risultati, valutare l’andamento delle iniziative ed effettuare analisi statistiche affidabili;

- l’attività di supporto alle PMI attraverso i propri laboratori di prova per qualificare e

certificare componenti e sistemi (in particolare i laboratori del Centro di Ricerca della Trisaia per i dispositivi solari a bassa temperature e per la produzione di energia dalle biomasse, del Centro di Ricerca di Portici per i componenti fotovoltaici e del Centro di Ricerca di Saluggia per la qualificazione di dispositivi per il riscaldamento a biomasse).

Nel contesto più generale dello sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, l’impegno dell’ENEA si concentra principalmente sull’energia solare e sulle bioenergie perché in Italia possono avere un grande sviluppo e diffusione, presentano un grado minore di maturità tecnologica e risultano commercialmente meno competitive. 4.1. Finalità ed obiettivi delle attività ENEA Le attività di ricerca, sviluppo e dimostrazione nel settore della bioenergia sono state avviate in ENEA nei primi anni ’80 nell’ambito di un programma più generale sulle fonti rinnovabili.

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Per quel che riguarda in modo più specifico le attività relative alla produzione di biomasse a destinazione energetica (energy crops), queste sono state svolte a partire dai primi anni ’90 nell’ambito di specifici programmi di ricerca nazionali (Progetto PRISCA del MIPAF) o Networks europei di ricerca su particolari colture (miscanto, cardo, panìco ecc.). Attualmente, le attività di Ricerca, Sviluppo e Dimostrazione dell’ENEA nel campo della bioenergia riguardano principalmente: - La selezione e la valutazione della produttività e della durata nel tempo di coltivazioni

sperimentali di piante potenzialmente utilizzabili a fini energetici e/o come materie prime per l’industria cartaria (miscanto, panìco etc.), con l’obiettivo primario di individuare le specie e le varietà a più alta resa e meglio adattabili ai diversi ambienti e condizioni climatiche del nostro Paese;

- Lo sviluppo di tecnologie innovative e di prototipi di impianti di piccola e media taglia

per la gassificazione di legna e/o residui agro-forestali e la successiva produzione di energia elettrica per usi locali (aziende agricole, piccole industrie per la lavorazione del legno etc.);

- Lo sviluppo di processi basati sull’applicazione della steam explosion e di biotecnologie

avanzate per la produzione di etanolo da materiali lignocellulosici o “materie seconde” provenienti dalle lavorazioni delle industrie agro-alimentari;

- Lo studio e la valutazione della fattibilità tecnico-economica di sistemi integrati di

produzione-utilizzazione di biocarburanti liquidi e di energia elettrica/termica, con particolare riferimento all’individuazione delle materie prime disponibili e/o producibili nel contesto locale di riferimento.

Gli obiettivi delle suddette attività - e di quelle in programma -, svolte in collaborazione con una molteplicità di partner pubblici e privati a livello sia nazionale, sia internazionale, si collocano su un orizzonte temporale che va dal breve al lungo periodo (2020 e oltre) e sono i seguenti: Obiettivi nel breve periodo (2010): - Aumento della produzione media per ettaro mediante: ottimizzazione delle tecniche

agronomiche (riduzione delle richieste idriche e degli input energetici) e selezione varietale delle colture più idonee (pioppo, robinia etc);

- Sviluppo delle filiere di trasformazione delle biomasse (biocombustibili, steam explosion

/ idrolisi enzimatica della cellulosa, BTL - Biomss to liquid per la produzione di gasolio sintetico);

- Supporto metodologico e di know how agli organismi centrali e regionali per l’attuazione

pratica delle politiche di incentivazione nel quadro della nuova PAC; - Supporto alla diffusione di tecnologie mature di riscaldamento a biomassa

(teleriscaldamento, cogenerazione e riscaldamento domestico), basate prevalentemente sull’uso di biomasse residuali, e di quelle per la produzione di energia elettrica a livello di azienda agricola (digestione anaerobica di reflui zootecnici in miscela con biomassa “verde” ad elevato contenuto di umidità).

Obiettivi nel medio periodo (2015): - Sviluppo di colture da biomassa: Short Rotation Forestry (SRF) ed erbacee perenni;

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- Sviluppo di tecnologie avanzate per la gassificazione di biomasse cellulosiche con l’obiettivo di produrre un syngas dall’utilizzo flessibile: motori, microturbine, celle a combustibile, produzione di biocarburanti (BTL) e chemicals via sintesi di Fischer-Tropsch. Le attività relative saranno rivolte in particolare verso: - lo sviluppo di gassificatori di piccola taglia flessibili ed affidabili per la produzione

su scala locale (generazione distribuita) di elettricità e calore da biomasse residuali e colture energetiche;

- i grandi gassificatori a letto fluido con caratteristiche innovative anche per quel che riguarda le sezioni di purificazioni del gas, in modo da realizzare sistemi flessibili e modulari che permettono di variare le caratteristiche del gas prodotto e il suo successivo utilizzo a seconda dell’alimentazione;

- Processi avanzati per produzione di chemicals per l’industria. Obiettivi nel lungo periodo (>2020): - Produzione di bioetanolo da biomasse lignocellulosiche: sviluppo e industrializzazione

del processo di idrolisi enzimatica per la produzione del bioetanolo con la messa a punto e ottimizzazione dei singoli step (steam explosion, produzione dell’enzima ecc.) e impiego dell’etanolo prodotto in convertitori avanzati (fuell cell, microturbine, nuove tipologie di motori ecc.);

- Biogas e Syngas per Fuel cell: la diffusione dipende dallo sviluppo delle FC e dai treni di

pulizia dei gas (problematiche biogas: purificazione da composti solforati e siloxani; problematiche syngas: purificazione dal tar);

- Produzione di H2 da biomasse: con processi fermentativi avanzati (fotobioreattori) e da

processi di gassificazione mediante opportune tecniche separative. Un quadro riepilogativo dei punti di forza e di debolezza, delle opportunità e delle minacce relativi alle attività ENEA nel campo della bioenergia (SWOT analysis) è riportato infine in Tabella 11.

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Tabella 11 - SWOT analysis delle attività ENEA nel campo della bioenergia

Gassificazione di biomasse Lignocellulosiche

Energy Crops Biocarburanti

Punti di forza

• Disponibilità di diversi gassificatori operativi, tra cui due a letto fluido con relativo sistema di trattamento del gas

• Rapporti consolidati con diverse Università e soggetti industriali

• Contatti e contributi alla elaborazione di norme per l’utilizzo di biomasse e la qualificazione dei relativi componenti impantistici

• Disponibilità di laboratori ben attrezzati

• Partecipazione ai Networks Europei di Ricerca sulle principali colture da biomassa erbacee

• Rapporti di collaborazione consolidati con le associazioni di produttori agricoli

• Competenze qualificate e facilities sperimentali per la ricerca agronomica e genetica

• Prove colturali di lunga durata in atto (C.R. Trisaia)

• Know how sviluppato direttamente per le colture di interesse dell’ambiente Mediterraneo

• Disponibilità di impianti pilota per il processamento delle biomasse (Steam explosion)

• competenze rilevanti anche in ambito internazionale su produzione di etanolo da materiali lignocellulosici,

• Disponibilità di laboratori ben attrezzati

• Rapporti consolidati con soggetti europei operanti nella RST&D

• Esperienza nella valutazione della fattibilità tecnico-economica di sistemi integrati di produzione-utilizzazione di biocarburanti da filiere mature (etanolo e biodiesel)

Punti di debolezza

• Carenza di personale tecnico per

la conduzione di impianti pilota • Costi elevati di realizzazione e

upgrading degli impianti sperimentali

• Disponibilità effettiva di biomassa in ambito nazionale

• Scarsità delle risorse umane impegnate nel settore specifico

• Difficoltà del passaggio di scala (dalla parcella al pieno campo) e costi elevati delle relative sperimentazioni, specie se protratte nel tempo

• Mancanza di dati sufficienti per molti ambienti e comprensori produttivi italiani

• Non sono disponibili impianti sperimentali di pirolisi e produzione BTL

• Processo di produzione di etanolo da lignocellulosici realizzato solo parzialmente su scala pilota

• Carenza di personale tecnico per la conduzione di impianti pilota

• Disponibilità effettiva di materie prime idonee in ambito nazionale

• Competenze insufficienti nel campo dei processi biotecnologici

Opportunità

• Legislazione favorevole allo

sviluppo del settore • Forte domanda di tecnologia

anche da paesi in via di sviluppo • Possibili sinergie tra diverse Unità

dell’Ente • Molti istituti di ricerca con cui

costituire reti transnazionali

• Condizioni climatiche favorevoli • Disponibilità di terreni agricoli non

più utilizzabili per colture alimentari

• Nuove filiere produttive agro-industriali

• Forte domanda di biocarburanti liquidi con obbligo di incorporazione in percentuali crescenti

• Buone opportunità di finanziamento di progetti di RST&D in ambito Europeo e nazionale

• Possibili sinergie tra diverse Unità dell’Ente

• L’ENEA è stato individuato come soggetto promotore della filiera biocarburanti

Minacce

• Molteplicità di operatori in ambito

internazionale • Mancato sviluppo o perdita di

know how proprio

• Convenienza economica delle biomasse di importazione

• Sviluppo e diffusione di altre fonti energetiche concorrenti

• Mancato sviluppo o perdita di know how proprio

• Importazione di biocarburanti da Paesi in via di sviluppo

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Bibliografia essenziale [1] ENEA - Rapporto Energia e Ambiente 2005, gennaio 2006. [2] ENEA - Le Fonti Rinnovabili 2005. Lo sviluppo delle rinnovabili in Italia tra necessità e

opportunità, novembre 2005. [3] Commissione Europea - Piano d’azione per la Biomassa. COM (2005) 628, dicembre

2005. [4] International Energy Agency - Renewables Information 2005, marzo 2006. [5] IEA Bioenergy Implementing Agreement - Biofuels for Transport, gennaio 2004. [6] IEA Bioenergy Implementing Agreement - Handbook of Biomass Combustion and Co-

Firing. Sjaak van Loo and Jaap Koppejan eds. ISBN 9036517737, 2002. [7] Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio / ITABIA - Rapporto 2003: Le

Biomasse per l’Energia e l’Ambiente, marzo 2005. [8] Ministero per le Politiche Agricole e Forestali - Programma Nazionale per la

Valorizzazione delle Biomasse Agricole e Forestali, luglio 1999.