DOMENICA APRILE Il Dalai Lama segreto - La Repubblica.it...

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DOMENICA 24 APRILE 2005 D omenica La di Repubblica È il profeta della non-violenza, ma da piccolo guardava i western di John Wayne. Predica la serena accettazione della morte, ma quando sale su un aereo è terrorizzato e deve chiudere gli occhi durante il decollo. Non sa usa- re il computer però è capace di riparare un’automobile in panne. Scatti inediti della vita di un monaco eccen- trico. Il Dalai Lama è tutto questo: conoscitore dell’anima, studio- so di fisica quantistica, maestro dell’arte meditativa, uomo di bat- tute fulminanti e frequenti strappi al cerimoniale. Durante una ce- na alla Casa Bianca va a salutare i cuochi in cucina: «C’è un buon odore che arriva da queste parti...». In visita a Parigi, passeggiando con la ex first lady Danielle Mitterand, si ferma davanti alla statua di Budda: «Ecco, le presento il mio capo». Il Dalai Lama è un personaggio eccezionale, fuori dagli schemi, racconta Manuel Bauer, suo fotografo personale. Svizzero, nato a Zurigo nel 1966, è l’ombra del leader buddista. Insieme hanno fatto oltre trenta viaggi, dagli Stati Uniti al Giappone. I ritratti che ha con- segnato alle stampe per un nuovo libro in uscita offrono un’imma- gine nuova del capo spirituale e politico del Tibet. Un Dalai Lama se- greto, mai visto finora. Bauer è sempre al suo fianco. Anche quando il simbolo dell’armonia e della pace spirituale si arrabbia come qua- lunque viaggiatore a cui abbiano perso le valigie. «È successo l’anno scorso all’aeroporto di Madrid — ricorda il fotografo —. Era furioso con gli addetti ai bagagli. Un’ora dopo, quando si è pentito del suo comportamento, gli è venuto un attacco di gastrite». Da bambino Il fotografo svizzero, che non è buddista ma ha una «stima infi- nita» per il capo politico e spirituale del Tibet, è diventato custode di molte confidenze del Dalai Lama. «Mia mamma — ha spiegato il Dalai Lama a Bauer — è stata una donna affettuosa, molto dedi- ta alla famiglia». Il 6 luglio 1935 aveva già partorito sedici figli. Solo in sette erano sopravvissuti, nel villaggio di Takster, lungo quella che fu la Via della Seta, tra montagne alte seimila metri. (segue nella pagina successiva) con un servizio di RENATA PISU Il Dalai Lama segreto le storie Il gioco della politica al tavolo di scopone STEFANO BARTEZZAGHI e GIANNI MURA cultura La memoria spezzata di Cina e Giappone FEDERICO RAMPINI la memoria Ritorno in Vietnam trent’anni dopo CARLOTTA MISMETTI CAPUA e BERNARDO VALLI il racconto Il mito perduto delle hostess GABRIELE ROMAGNOLI e ARTURO ZAMPAGLIONE il corpo La primavera dell’omeopatia ANTONIO NEGRO e ALESSANDRA RETICO FOTO MANUEL BAUER/FOCUS/GRAZIA NERI ANAIS GINORI Il leader buddista raccontato dal suo fotografo, Manuel Bauer, con una serie di straordinarie immagini dietro le quinte

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DOMENICA 24 APRILE 2005

DomenicaLa

di Repubblica

Èil profeta della non-violenza, ma da piccolo guardava iwestern di John Wayne. Predica la serena accettazionedella morte, ma quando sale su un aereo è terrorizzatoe deve chiudere gli occhi durante il decollo. Non sa usa-re il computer però è capace di riparare un’automobilein panne. Scatti inediti della vita di un monaco eccen-

trico. Il Dalai Lama è tutto questo: conoscitore dell’anima, studio-so di fisica quantistica, maestro dell’arte meditativa, uomo di bat-tute fulminanti e frequenti strappi al cerimoniale. Durante una ce-na alla Casa Bianca va a salutare i cuochi in cucina: «C’è un buonodore che arriva da queste parti...». In visita a Parigi, passeggiandocon la ex first lady Danielle Mitterand, si ferma davanti alla statuadi Budda: «Ecco, le presento il mio capo».

Il Dalai Lama è un personaggio eccezionale, fuori dagli schemi,racconta Manuel Bauer, suo fotografo personale. Svizzero, nato aZurigo nel 1966, è l’ombra del leader buddista. Insieme hanno fattooltre trenta viaggi, dagli Stati Uniti al Giappone. I ritratti che ha con-

segnato alle stampe per un nuovo libro in uscita offrono un’imma-gine nuova del capo spirituale e politico del Tibet. Un Dalai Lama se-greto, mai visto finora. Bauer è sempre al suo fianco. Anche quandoil simbolo dell’armonia e della pace spirituale si arrabbia come qua-lunque viaggiatore a cui abbiano perso le valigie. «È successo l’annoscorso all’aeroporto di Madrid — ricorda il fotografo —. Era furiosocon gli addetti ai bagagli. Un’ora dopo, quando si è pentito del suocomportamento, gli è venuto un attacco di gastrite».

Da bambino

Il fotografo svizzero, che non è buddista ma ha una «stima infi-nita» per il capo politico e spirituale del Tibet, è diventato custodedi molte confidenze del Dalai Lama. «Mia mamma — ha spiegatoil Dalai Lama a Bauer — è stata una donna affettuosa, molto dedi-ta alla famiglia». Il 6 luglio 1935 aveva già partorito sedici figli. Soloin sette erano sopravvissuti, nel villaggio di Takster, lungo quellache fu la Via della Seta, tra montagne alte seimila metri.

(segue nella pagina successiva)con un servizio di RENATA PISU

Il DalaiLama

segreto

le storie

Il gioco della politica al tavolo di scoponeSTEFANO BARTEZZAGHI e GIANNI MURA

cultura

La memoria spezzata di Cina e GiapponeFEDERICO RAMPINI

la memoria

Ritorno in Vietnam trent’anni dopoCARLOTTA MISMETTI CAPUA e BERNARDO VALLI

il racconto

Il mito perduto delle hostessGABRIELE ROMAGNOLI e ARTURO ZAMPAGLIONE

il corpo

La primavera dell’omeopatiaANTONIO NEGRO e ALESSANDRA RETICO

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ANAIS GINORI

Il leader buddista raccontatodal suo fotografo, Manuel Bauer,con una serie di straordinarieimmagini dietro le quinte

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la copertinaLeader spirituali

Sta per uscire il libro fotografico di Manuel Bauersu Tenzyn Gyatso, l’Oceano di Saggezza, il quattordicesimoDalai Lama. Immagini scattate “dietro le quinte” nel corsodi una trentina di viaggi, che disegnano a tutto tondola straordinaria simpatia, ironia e umanità del capospirituale e religioso del Tibet

La sveglia suonaalle tre e mezzodel mattino,poi una giornatadi meditazione,studio e impegni.Alle nove di seraa letto e, subito,lo coglie un sonnoprofondo

I sogni nascosti del Dalai Lama(segue dalla copertina)

«Del padre invece —aggiunge Bauer —non ama parlare».Era un tempera-mento iroso, notoper non pagare le

tasse e rubare cavalli ai più poveri. Ave-va appena cinque anni quando fu inco-ronato a Lhasa come la quattordicesi-ma reincarnazione del Dalai Lama.«Entrai fendendo la folla, i tibetani ab-bassavano lo sguardo al mio passag-gio», ha raccontato Sua Santità. Un’an-tica tradizione proibisce di guardare ilnuovo dio-sovrano negli occhi. Fu cosìche il bambino Lhamo Thondup, di-venne Tenzyn Gyatso, «oceano di sag-gezza», ovvero il Dalai Lama.

«Sua Santità è cresciuto come tanti al-tri bambini» prosegue Bauer. Era irre-

quieto e indisciplinato. Si annoiavamolto quando, già a 12 anni, dovevapresiedere riunioni di governo e fre-quentare lezioni di filosofia buddista,logica, cultura tibetana, calligrafia,astrologia, metafisica, retorica. Ognitanto sgattaiolava e saliva fin sul terraz-zo del palazzo reale di Potala. Da lì lan-ciava grandi bolle di sapone, sputavaper vedere a che velocità la saliva cade-va nel cortile. Una volta prese di nasco-sto la macchina del tredicesimo DalaiLama: andò a sbattere contro un albero.Guardava Tarzan e i western di JohnWayne. Durante uno dei tanti viaggi, ilDalai Lama ha raccontato a Bauer unaneddoto di gioventù che pochi cono-scono. «Ero a Norbulingka, nella mia re-sidenza estiva. Volevo spaventare unfalco che minacciava gli uccellini nelmio giardino. Ho preso un fucile per al-lontanarlo, ma ho sbagliato mira e l’houcciso». Con la stessa naturalezza, laguida spirituale di una religione che ri-

sale a 2.500 anni fa, ha confessato di aversognato donne belle come divinità chesi avvicinavano a lui e di aver immagi-nato di combattere in una guerra. «Que-sto dimostra soltanto che sono un uo-mo normale», è stato il suo commento.

La vita quotidianaVivere al ritmo del Dalai Lama significamettere tutte le mattine la sveglia alle3.30. «A quell’ora è pronto per medita-re» spiega Bauer che ha scattato dellebellissime sequenze delle espressionidel Dalai Lama assorto in meditazione.Recita soprattutto mantra, ce n’è unoche conosce dall’età di dieci anni. Pre-ga per tutti gli esseri viventi, anche peri fratelli e le sorelle cinesi. Poi si ingi-nocchia e fa una serie di prostrazioni,per circa dieci minuti. Quindi sale sultapis roulant e continua a meditare.Anche in hotel, durante i suoi viaggi, iltapis roulant è una necessità. Kundun,la “presenza”, come viene anche chia-

mato il Dalai Lama, deve tenersi in for-ma. «Con una mano tiene il rosario, conl’altra va avanti ad allenarsi per almeno15 minuti». Poi, si fa il bagno e consumail primo pasto della giornata: orzo to-stato e porridge. Alle 5.30 ascolta le no-tizie su Voice of America in tibetano (laradio internazionale in onda lunga) op-pure sulla Bbc. «La sua emittente prefe-rita, la considera l’unica assolutamen-te imparziale».

L’abbigliamento è sempre lo stesso:la tonaca rossa e gialla. Cambiano lescarpe: se il tempo non gli permette diindossare le ciabattine infradito, in-dossa le sue vecchie Oxford di pelle.L’orologio al polso non manca mai: neha una collezione, tra cui un Rolex do-no di Franklin Roosevelt. Non è il lussoad affascinarlo, ma la meccanica cheregola minuti e secondi. «Se non fossidiventato il Dalai Lama, avrei fatto l’in-gegnere», ha risposto una volta a Bauer:«Era il mio sogno da ragazzo». Sua San-

“Reincarnato?Può darsi,non importa”

Sua Santità, il XIV Dalai Lama, Oceano di Saggez-za, vorrebbe essere un tibetano qualunque. Manon ci riesce, anche se ci prova. Parla libera-mente ma la gente lo ascolta con troppa serietà,e così gli passa la voglia di parlare perché ha l’im-pressione che non capiscano bene le sue paro-

le, e allora si sente «distanziato». Perché, lamenta, «c’ètroppo formalismo». È sicuro di essere la reincarnazionedel suo predecessore, quasi sicuro. Nel 1989, subito dopoaver ricevuto il Premio Nobel per la Pace, a un giornalistache gli chiedeva se riteneva di essere la vera reincarnazio-ne del XIII Dalai Lama, ha risposto: «Sembra che quandoero piccolo abbia dimostrato di riconoscere con grandeesattezza gli oggetti appartenuti al mio predecessore. Mavede, a parte ciò, penso che in cinquantaquattro anni di vi-ta sia riuscito a essere di qualche utilità al mio popolo. Que-sto è importante! Quindi, anche se non sono la vera rein-carnazione, poco importa».

Dice che la reincarnazione è cosa assai misteriosa. A luiè toccata questa, la prossima volta chissà se si reincarnerà,e chissà cosa farà. Perché può darsi che sia l’ultimo dei Da-lai Lama, se il popolo tibetano deciderà che, almeno perquanto riguarda il potere temporale, il capo dovrà esseredemocraticamente eletto. Sul futuro del Tibet nutre gran-di speranze, tutte progressiste. Sa benissimo che nel suopaese, quando fu invaso, ovvero “liberato” dai cinesi nel1950, c’erano molte ingiustizie e, se ne avesse avuto il tem-po, avrebbe fatto del suo meglio per cambiare le cose. Ma

il tempo non l’ha avuto, dal 1959 vive in esilio in India, aDharamsala. Oggi spera che il governo cinese riconosca al-meno l’autonomia del suo Tibet.

L’ho incontrato l’ultima volta tre anni fa, a Trento, ed eracome se fosse di casa tra quei monti. Era felice e rideva. Ri-de spesso il Dalai Lama, fragorosamente, contagiosamen-te: guardava gli affreschi della Sala Grande del Palazzo delBuonconsiglio, putti nudi che si rincorrevano beati, e ride-va. Ridendo ha dichiarato che provava una certa invidia perl’autonomia del Trentino «magari l’avessimo anche noi ti-betani». Volle sapere chi fossero Fabio Filzi e Cesare Batti-sti, fucilati nel cortile del Palazzo. Gli dissi che erano mar-tiri sfruttati dalla storia, dalla memoria di parte, e che ora iloro nomi sono soltanto degli indirizzi, strade e piazze del-le nostre città. E allora Sua Santità si è messo ancora a ride-re, ma più sommessamente: «Siamo tutti sempre usati…ma mica male se a Pechino vi fosse un giorno una stradacon il mio nome, via XIV Dalai Lama». E poi ha aggiunto:«Scherzo, sto scherzando. Voi occidentali pensate che inTibet la gente sia cupa, sempre a salmodiare preghiere. In-vece noi amiamo scherzare, troviamo sempre qualcosa dicui ridere, perché il senso dell’umorismo ci abbandonidobbiamo essere in condizioni davvero disperate».

Anche quando racconta la sua giornata-tipo, il Dalai La-ma lo fa con un certo umorismo: sveglia alle quattro, pre-ghiere, meditazione, una tazza di acqua calda, prostrazionidevote per circa un’ora — che, sottolinea, sono un ottimoesercizio fisico, meglio della cyclette — doccia, preghiera,

ANAIS GINORI

RENATA PISU

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 24 APRILE 2005

Da piccolodesiderava farel’ingegnere, oraspera di esseresepolto nella suaterra. Ma le visioni

che lo visitano

nel sonno evocanoanche la sensualitàe la guerra

tità si rilassa riparando macchine foto-grafiche, proiettori, automobili. È an-che appassionato di scienza. Parteciparegolarmente a incontri sulla fisicaquantistica, «perché nel mistero dellemolecole si nasconde una verità perl’essere umano».

Gli oracoli

I suoi riti di iniziazione sono spesso ac-compagnati da «cerchi luminosi, arco-baleni, tempeste di vento». Bauer giurache anche lui ha assistito ad alcuni diquesti strani fenomeni. Il fotografo haanche documentato gli incontri delDalai Lama con gli oracoli e la consul-tazione di antichi metodi di divinazio-ne. «Se deve prendere decisioni impor-tanti, il Dalai Lama si affida agli oraco-li: secondo lui sono molto affidabili».Tenzin Gyatso ha spiegato a Bauer chefu proprio un oracolo, la sera del 17marzo 1959, ad ordinargli di scappareda Lhasa. L’indomani era prevista una

cerimonia con le autorità cinesi: «Sarairapito» vaticinò. Il Dalai Lama lasciòimmediatamente il palazzo di Potalasotto la neve, coperto da un lungo cap-potto nero, fucile in spalla, insieme auna ventina di lealisti. «È stato il giornopiù brutto della mia vita».

Gli incontri

La fuga gli ha aperto le porte del mon-do. È il più longevo capo politico con-temporaneo, anche se il suo governo èin esilio a Dharamsala, nel nord del-l’India, da 46 anni. Ha frequentato i po-tenti del mondo dell’ultimo mezzo se-colo. Ha conosciuto tre Papi, i più im-portanti presidenti americani, da Roo-sevelt in poi. Dopo l’ultima visita allaCasa Bianca era entusiasta: «Abbiamopreso un tè con George W. Bush. Gli hochiesto di indicarmi quali erano i dol-cetti migliori. Lui me li ha indicati, enon ha sbagliato!». Con alcuni capi diStato ha fraternizzato. Quale uomo po-

litico stima di più? gli ha domandatouna volta Bauer. «Dovessi indicare ilpiù bravo, direi Willy Brandt. Mi colpìil ruolo che svolse durante la guerrafredda, da solo riuscì a costruirsi unbuon rapporto con Leonid Breznev.Jimmy Carter è stato un uomo politicoaffabile, chiaro e pratico. Tony Blair gliassomiglia molto». Per il suo nemicostorico, Mao Zedong, il Gran Timonie-re cinese che ha dichiarato guerra al Ti-bet e lo ha costretto all’esilio, non haparole di odio. «Era un uomo forte,molto convinto di sé, emanava energiacome un magnete. L’unica volta chel’ho incontrato, a Pechino nel 1953, eroterribilmente in soggezione».

I collaboratori

Dietro le quinte, il segretario personaleTenzin Geyche Tethong è onnipresen-te, organizza l’agenda del Dalai Lama,filtra ogni richiesta, fa da portavoce du-rante le interviste. «Nessuno si avvicina

a Sua Santità senza il suo consenso»,osserva Bauer che infatti spesso è sot-toposto alle sue scelte. L’entourage delDalai Lama è composto da poche altrepersone. C’è il consigliere spirituale, ilmonaco Tashi, inseparabile maestro dicerimonia durante i viaggi all’estero.Due altri monaci accompagnano SuaSantità nei piccoli gesti quotidiani, dal-la vestizione alla preparazione dellepietanze. Il cibo del Dalai Lama vienesempre controllato. Vari tentativi di av-velenamento sarebbero così stati sven-tati. La sicurezza del Dalai Lama è ga-rantita da due squadre di guardie delcorpo, una tibetana, l’altra indiana. «Lanuova sfida per il Dalai Lama sarà af-frontare la vecchiaia» prevede Bauer.«Non mi sembra spaventato. Mi ha det-to soltanto che vorrebbe vivere abba-stanza per poter tornare a morire nelsuo paese». Gli oracoli tibetani gli dan-no buone possibilità. Hanno predettoche vivrà fino a 112 anni.

colazione, passeggiata, notiziario della Bbc. Poi studio, di-sbrigo di pratiche, pranzo, preghiere, meditazione, il tè del-le cinque, la televisione se c’è qualche programma interes-sante, la meditazione, ancora un po’ di studio e preghiera,la cena, a letto alle nove e, subito, un sonno profondo.

Certo, ci sono delle varianti: quando viaggia, per esempio.L’aereo è il luogo ideale per la meditazione, a meno che nonci siano turbolenze, perché allora ha paura e basta. In mac-china non medita tanto bene, si distrae, forse perché l’auto-mobile lo affascina. È il primo oggetto della modernità chelo abbia colpito quando era bambino ma già Dalai Lama (lodivenne a quattro anni) e a Lhasa c’erano soltanto tre auto-mobili: due Austin del 1927 e una Dodge arancione, del 1931,portate fin sul Tetto del Mondo in groppa agli yak. Mai usa-te, lui moriva dalla voglia di rimetterle in funzione e, alla fi-ne, ci riuscì. Era affascinato dai meccanismi, dagli ingranag-gi precisi e razionali che si incastravano gli uni con gli altri,come quelli degli orologi, che apriva e smontava per capirecome funzionassero, e poi rimontava. Ma gli orologi digita-li, confessa ridendo, non l’hanno mai interessato.

Si diverte ma non ha vizi. Detesta soprattutto il fumo.Quando nel 1989 il neopresidente cecoslovacco Havel, re-duce dal carcere al quale era stato condannato per le sueidee politiche, lo invitò a Praga e, con un boccale di birra inuna mano e una sigaretta nell’altra, gli disse che si sentivamolto simile al Sesto Dalai Lama, noto per le sue passionimondane, Sua Santità auspicò una seconda rivoluzione inCecoslovacchia. Quale? Domandò Havel stupito. E il Dalai

Lama: Che non si fumi durante i pasti!E immagino che si sia messo a ridere. Come sa ridere sol-

tanto lui, anche quando dice cose serie. Quando perora, peresempio, un Parlamento mondiale delle religioni che, spe-cie in questi giorni di fondamentalismi trionfanti, è un’ideadi un candore davvero abbacinante. «Parlamento»: al DalaiLama questo termine piace perché, dice, «è intriso del sapo-re della democrazia». E poi gli piace il plurale, religioni nonreligione, perché implica la molteplicità delle fedi, punta aun sincretismo che a “questa” Sua Santità, non alla nostranuovissima, sembra l’unico sbocco possibile per gli uominidi buona volontà. Anche il relativismo, lo affascina.

A Roma, la prima volta che lo incontrai, mi disse: «Credoche il buddismo abbia qualcosa da insegnare a voi occi-dentali che di vostra scienza ne avete tanta, tanta da ven-dere anche a noi. Però voi occidentali siete portati a consi-derare che sempre un determinato effetto dipenda da unadeterminata causa, che vi sia una relazione diretta e stret-tissima. Così semplificate troppo il reale che a noi appareinvece frutto di una concatenazione molto più complessaperché le cause sono molteplici e varie, così pure gli effetti.La violenza, per esempio, di quali e quante cause può es-sere effetto? E, a sua volta, di quali effetti può essere cau-sa?». Obiettai: Così, tutto può essere relativo… e giustifica-bile. Rispose. «Relativo sì, nel senso che ogni fenomeno èin relazione con mille, centomila altri. Giustificabile an-che, ma non significa che quello che si giustifica sia il Giu-sto. La ruota gira, mi capisce? Non è soltanto una metafo-

ra, è la sostanza di quelle che noi chiamiamo apparenze».Si mise a ridere, al suo solito.

Quest’uomo che non è vicario di uno vissuto duemilaanni fa ma che ne è la «incarnazione» — dello stesso? Rela-tivisticamente parlando potrebbe anche darsi, ma non è ilcaso qui di andare oltre — mi ha detto anche che, se vedes-se dei lavoratori manifestare per la strada, si unirebbe alcorteo. Mi ha anche detto altre cose, tipo: possiedo diversiorologi preziosi, con la loro vendita potrei costruire ca-panne per i poveri, non l’ho ancora fatto. So anche che, sefossi vegetariano, non solo darei un buon esempio ma po-trei salvare la vita di molti animali innocenti. Dunque, de-vo ammettere che vi sono contraddizioni in me, ma la miaparola chiave è «faccio tanto quanto posso, senza arrivareai limiti estremi».

So di aver insistito, allora. Lo farei anche oggi. Gli do-mandai: ma se ci fossero libere elezioni in Tibet, lei, San-tità, per chi voterebbe? Non ebbe dubbio: per gli ecologisti.E mi descrisse il suo eden di ragazzo sul Tetto del Mondo:branchi di yak e asini selvatici che pascolavano liberi nellegrandi pianure, di tanto in tanto i branchi scintillanti delletimide gazzelle tibetane, e lui quindicenne che nelle salebuie del Potala, il Palazzo d’inverno di Lhasa, vedeva cala-re la sera e si struggeva per non potere esser assieme a queisuoi coetanei, mandriani e mandriane che cantavano e ri-devano. Forse per questo ride, ride sempre. Per consolarsie perché ha il senso dell’umorismo, l’unica salvezza, rela-tivisticamente parlando.

“JOURNEY FOR PEACE”

“Manuel Bauer è un mio caroamico, mi conosce molto bene”.Così il Dalai Lama del fotografosvizzero che lo segue dal 2001.“Journey for peace”, che per KoniNordmann esce il 29 aprilein inglese, francese e tedescoe sarà distribuito in tutto il mondo,è una raccolta delle più belle fotoscattate in questi annie un omaggio in vistadel 70° compleannodel Dalai Lama nel luglio prossimo

FOTO MANUEL BAUER/FOCUS/GRAZIA NERI

la memoriaVietnam oggi

Il 30 aprile di trent’anni fa cadeva Saigon. Un librofotografico di Philip Jones Griffiths racconta il lungodopoguerra e la “pace”. Una pace ambigua, racchiusaanche nelle storie parallele di Pham Xuan An, giornalistadi “Time” e colonnello vietcong, e di Cao Giao,giornalista di “Newsweek” e intellettuale ribelle

“Li conoscevo bene,erano le duepersonepiù informatenel Sud nazionalistache, nel giro di unanno, sarebbe statotravolto e assorbitodal Nordcomunista”

BERNARDO VALLI

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La guerra doppia di An e Giao

LPARIGI

a simpatia e il rispetto perCao Giao mi spinsero ungiorno a mangiare salsiccedi carne di cane. Fu una

grande prova di amicizia. Forse unadelle più sofferte. Non me ne pento.Cao Giao lo meritava. Era del Nord enel Nord Vietnam (come nel Sud dellaCina) si mangia carne di cane. La seradel Tète, il capodanno vietnamita, miinvitò a casa sua. Era un gesto raro farpartecipare uno straniero a una festatanto intima. Accettai, lusingato, quelprivilegio. Andammo alla pagoda e poia casa, o viceversa, a casa e poi alla pa-goda, non ricordo bene. Sono passatipiù di trent’anni. Ma ricordo che a ta-vola chiusi gli occhi e mangiai le sal-sicce senza fiatare, cercando di nonpensare al mio Happy, un dobermanndolce e sensibile, che quasi parlava, eche in quel momento mi aspettava aSingapore, dove allora risiedevo. Erocorrispondente del Corriere della Serain Estremo Oriente, e Singapore era lacittà ideale per raggiungere il Vietname la Cambogia in guerra, la Cina maoi-sta, il Giappone del miracolo e l’Indiadella povertà. Tra tutti quei luoghi pre-ferivo il Vietnam. In particolare Sai-gon. Non perché fosse bella. Anchecon gli esseri umani capita spesso diamare i più infelici, non i migliori.Quella passata con Cao Giao era la fe-sta del Tète del 1974. Anno, se non sba-glio, della Tigre.

Cao Giao era una delle due persone piùinformate del Sud Vietnam nazionalista,giunto al suo ultimo anno di sopravvi-venza. Nel 1975, in aprile, sarebbe statotravolto e assorbito dal Nord Vietnam co-munista. I soldati americani se ne eranoandati da un pezzo; erano rimasti soltan-to dei consiglieri; e l’esercito vietnamitastentava a contenere l’infiltrazione degliavversari. Cao Giao sapeva risolvereenigmi indecifrabili per noi corrispon-denti occidentali. Tutto ruotava attornoa un interrogativo: per quanto tempoavrebbe retto il Sud di fronte alla pressio-ne armata esercitata dal Nord? Il secon-do personaggio in grado di chiarirci concompetenza le idee era Pham Xuan An.

Cao Giao era più alla mano. PhamXuan An aveva più classe. Entrambi da-vano di solito notizie rare, fondate, ga-rantite. Le guerre sono immerse in unmare di bugie propagandistiche. Loroerano due fonti preziose, se non pro-prio di verità, perlomeno di onestà. Co-si ci sembrava. An era ponderato neigiudizi. Cao Giao sapeva arricchirli conbattute spiritose. Erano spesso insie-me. Li chiamavamo gli inseparabili.Avevano i loro uffici vicini, all’HotelContinental. Cao Giao lavorava perNewsweek, An per Time.

Meticcio corso-vietnamita

Le redazioni dei due magazines ameri-cani erano al primo piano. Appena arri-vavo a Saigon mi precipitavo da Philip-pe Franchini, il proprietario del Conti-nental, e gli chiedevo: «Dove sono? Lihai visti?» Non avevo bisogno di preci-sare i nomi. Erano scontati. Philippe sa-peva a chi mi riferivo. Anche lui era unamico. Lo è ancora, ma a Parigi, doveadesso viviamo entrambi, ci si vede dirado. A Saigon, a quei tempi, i rapportierano più facili. Le guerre li riscaldano.

Philippe è un pittore e uno scrittore. Èl’autore di molti romanzi e di una storiadel Vietnam, e i suoi quadri sono appe-si alle pareti di molti comuni amici spar-si nel mondo. È un meticcio vietnamita-corso, e sua moglie, Li-men, è cinese.Nata a Cholon, il quartiere cinese di Sai-gon. Il padre di Philippe si chiamavaMathieu ed io credo di ricordarlo sullaterrazza del Continental, epicentromondano durante la colonia francese,vestito di bianco come George Raft. Neilunghi anni di guerra, Philippe si occu-pava del suo albergo e dipingeva. Erascettico su tutto e su tutti. Ma aveva fi-ducia in Cao Giao e in Pham Xuan An.

Philippe mi mandava da Givral. E in-fatti il più delle volte ci trovavo i due ami-ci, seduti a un tavolo che parlavano a bas-sa voce. Givral era dall’altra parte di via TuDo (Libertà), che i francesi chiamavanorue Catinat (il nome di un maresciallo diFrancia) e i comunisti hanno poi ribat-tezzato Dong Khoi (Insurrezione genera-le). Da Givral si beveva un discreto caffe-latte, caldo o freddo, con latte condensa-to, e servito in un bicchiere. Cao Giao erail re di Givral. Quando entrava era accol-to da un silenzio rispettoso. I frequenta-

tori del bar, per lo più giornalisti vietna-miti, riconoscevano così il suo indiscus-so prestigio. L’autorità di An non era in-feriore. Ma l’atteggiamento nei suoi con-fronti era diverso. Lui intimidiva. An nondava confidenza. Era più distaccato. Piùcondiscendente che altero. Era più di-screto. Molto più tardi ho capito perchémisurasse le parole.

Non rammento quando, in quale occa-sione, incontrai per la prima volta An eCao Giao. Nella mia memoria le loro figu-re si confondono con il dramma del Viet-nam, che ha occupato almeno sette annidella mia vita, se addiziono i periodi che viho trascorso. Cao Giao è morto in esilio, inEuropa. An è un generale, a Città Ho ChiMinh. O almeno lo era fino a una decinadi anni fa. Poi ne ho perduto le tracce. Al-l’epoca in cui lo incontravo al Continen-tal o da Givral, insieme a Cao Giao, oltre adessere uno stimato redattore del settima-nale americano Time, era un colonnellodel Fronte di Liberazione Nazionale, os-sia del Vietcong, in guerra con gli ameri-cani. NeppureCao Giao, l’ami-co inseparabile,sapeva di quelsuo doppio gio-co. An era quelloche si chiama unagente segreto.

In DragonAscending (Ar-cade Publi-shing, NewYork, 1996),Henry Kammscrive giusta-mente che fuuna delle più au-daci spie diquella lungaguerra. Henryera allora un in-viato del NewYork Times. Ecome tanti altrigiornalisti è ri-masto senti-mentalmentelegato al Viet-nam. Il suo libroè «in lode al co-raggioso» popo-lo vietnamita.La cui capacitàdi sopravvivereè senza pari. Inquesto omaggiodedica alcunerispettose pagi-ne a Cao Giao ead An. Perchéessi hanno in-carnato, ap-punto, unaspetto deldramma di quelpaese.

L’ambiguitàdella vita di An èl’ambiguità del-la storia delVietnam. Nonla sua persona-le. È stato altempo stessoun buon gior-nalista, al puntoche la direzionedi Time lo as-sunse eccezio-nalmente nellostaff, come cor-rispondente,non come col-laboratore lo-cale. E fu un buon agente comunista,poiché a guerra finita, dopo un soggior-no in una scuola di rieducazione per pu-rificarsi dai contatti avuti con gli ameri-cani, il regime di Hanoi lo promosse ge-nerale di brigata.

Il padre di An era un proprietario ter-riero. Era rispettoso dei rigidi principiconfuciani; e quando An, adolescente,infranse le regole dell’obbedienza, lomandò in una regione povera dell’An-nam, la regione centrale dell’attuale Viet-nam, in un villaggio vicino a Hué, la vec-chia capitale imperiale, affinché impa-rasse la dura vita dei contadini. La mise-ria era tale che, al posto delle lampade aolio, c’erano degli stoppini infissi nelgrasso di topo. A tredici anni An reagì perla prima volta agli avvenimenti che scon-volgevano il paese. Dopo la resa dellaFrancia a Hitler (1940), il Giappone, al-leato della Germania, invase la penisolaindocinese allora colonia francese.

Durante l’occupazione accadevache i soldati giapponesi incatenassero i

coloni o i militari francesi e li lasciasse-ro al sole tropicale, sulle piazze, perumiliarli davanti ai vietnamiti. Nel suovillaggio, nel Delta del Mekong, An vi-de quei supplizi. I francesi avevanomaltrattato i vietnamiti nei decenniprecedenti; e lui non li amava; ma neebbe pietà. Non approvava la violenzadei giapponesi, anche se dicevano diadottare quei metodi contro gli euro-pei per restituire l’«Asia agli asiatici».

Ancora molti anni dopo, An non na-scondeva il suo fastidio quando evocavala crudeltà dei giapponesi; ed anchequella dei proprietari terrieri, come suopadre, che angariavano i contadini eabusavano delle loro figlie e delle loromogli. Per combattere il colonialismofrancese, restaurato dopo la sconfitta deigiapponesi a conclusione della Secondaguerra mondiale, e al tempo stesso le in-giustizie sociali, An si arruolò nel VietMinh, il movimento nazionalista arma-to, dominato dai comunisti. Nell’Indo-cina di quell’epoca il Viet Minh racco-

glieva moltecorrenti irre-dentiste. La piùimportante erarappresentatadal pc, al qualemolti aderiva-no giudicando-lo il più efficaceavversario delcolonialismo.

An fu manda-to dal Viet Minhnel suo villag-gio, ancora sot-to controllofrancese, affin-ché organizzas-se clandestina-mente manife-stazioni antico-loniali. Ma fu ar-ruolato di forzanel l ’esercitovietnamita che ifrancesi stava-no organizzan-do per combat-tere i l VietMinh. I comu-nisti colserol’occasione perfare di lui una“talpa”, unaspia. Nono-stante la rilut-tanza iniziale,An si scoprì ta-gliato per quel-l’attività. Quan-do gli america-ni cominciaro-no a sostituire ifrancesi scon-fitti e in parten-za (dopo la bat-taglia del 1954 aDiem BienPhu), e tentaro-no a loro volta dirafforzare il Sudnazionalista, difronte al Nordcomunista, Andiventò un al-lievo modelloper la Cia. Laquale scoprì inquel giovaneufficiale di col-legamento dotitanto eccezio-nali da renderlomeritevole di

una vera educazione americana.An fu mandato con una borsa di stu-

dio all’Orange Coast College, in Califor-nia, per seguire un corso di giornalismo.Due anni dopo, nel ‘59, prima di ritor-nare in patria, lavorò come reporter alSacramento Bee. Diventò insomma unvero giornalista americano. Ed anche, asuo dire, un sincero ammiratore dellasocietà americana, pur restando unasofisticata spia del Vietnam comunista.Suo figlio ha studiato nell’Unione So-vietica e poi negli Stati Uniti.

Anche la vita di Cao Giao è stata condi-zionata dalla tragica storia del Vietnam.Come tanti animi nobili e coraggiosi, luiaveva il gusto dell’irriverenza. Era indul-gente, gentile con gli umili, ma si distrae-va di rado dal confronto con i potenti delmomento. Le sue armi erano l’ironia, ilsarcasmo, la denuncia. Apparteneva aun’aristocrazia intellettuale che dete-stava la corruzione, la disciplina dei par-titi e il fanatismo ideologico. Il destinonon gli aveva riservato un’epoca ade-

guata al suo carattere. L’ha condannatoa un’eterna, rischiosa polemica. Non c’èregime che non l’abbia messo in prigio-ne. Fu incarcerato ventun volte.

Nel febbraio ‘75, tre mesi prima che inordvietnamiti conquistassero Saigon,lasciai la città convinto (e sbagliavo) chenon vi avrei mai più messo piede. ConCao Giao passai l’ultimo pomeriggio suuna terrazza, in cima a un minigrattacie-lo, da cui si vedeva il porto fluviale. Unvento fortissimo disperdeva le nostre pa-role. Parlavamo senza poterci ascoltare.Pronunciavamo soliloqui simultanei. Seci fossimo ascoltati non saremmo statitanto sinceri. Ci raccontammo le nostrevite, come può accadere, tra amici, allavigilia di avvenimenti che possono de-viarle o addirittura troncarle. Più di diecianni dopo, poco prima che Cao Giao mo-risse in Europa, Tiziano Terzani pub-blicò su Der Spiegel quel che io non eroriuscito ad ascoltare, per via del vento,sulla terrazza di Saigon. Il racconto auto-biografico di Cao Giao riassume decen-ni di storia del Vietnam.

Mandarini tonchinesi

Cao Giao apparteneva a una famiglia dieruditi mandarini tonchinesi, delNord Vietnam. Era nato nel ‘17, in unvillaggio a una sessantina di chilometria Sud di Hanoi. Ancora liceale, insoffe-rente al dominio coloniale francese,trovò in casa, sulla scrivania del padre,letture che assecondavano i suoi slan-ci nazionalisti. Si trattava di libri se-questrati dalla polizia e consegnati asuo padre, funzionario dell’ammini-strazione giudiziaria francese, incari-cato di indagare sulle attività clande-stine anticoloniali. Erano per lo piùscritti comunisti, dai quali il giovaneCao Giao trasse la convinzione che il pcvietnamita avrebbe sempre antepostol’indipendenza nazionale a una qual-siasi causa internazionalista.

I francesi furono i primi ad arrestar-lo. Insieme a tanti altri asiatici dellecolonie francesi, olandesi, britanni-che, egli collaborò poi con i giappone-si che promettevano di restituire l’A-sia agli asiatici. «E quella fu la primacausa perduta» diceva Cao Giao. Laprima di una lunga serie. Dopo la ca-pitolazione giapponese (1945) gli ca-pitò di lavorare con Pham Van Dong,poi primo ministro della RepubblicaDemocratica del Vietnam, quella co-munista. Ma i comunisti, venuti a co-noscenza dei suoi rapporti con i giap-ponesi, lo arrestarono e torturarono.Quando i francesi ripresero il control-lo del Nord, e ristabilirono la colonia,lo arrestarono a loro volta perché ave-va lavorato con Pham Van Dong, valea dire con i comunisti.

Emigrato nel Sud (dopo la spartizione,nel mezzo degli anni Cinquanta) fu arre-stato per le sue critiche al dittatore catto-lico Ngo Di Diem, protetto dagli ameri-cani. Siamo nel ‘58. E per Cao Giao co-minciano gli arresti a catena, con annes-se torture. Fino a che il settimanale New-sweek, scoperte le sue qualità intellettua-li, lo recupera come collaboratore. Eallora comincia l’amicizia con An e lafrequentazione di Givral, dove Cao Giaonon risparmia critiche a nessuno, e pre-para le prossime disgrazie. Americani?Ricchi e incapaci. Nazionalisti del Sud?Corrotti. Comunisti? Fanatici.

Dopo la vittoria comunista dell’apri-le ‘75, Cao Giao restò tre anni senza la-voro. Nessuno si curò di lui fino al ‘78,quando fu arrestato con altri intellet-tuali con l’accusa di avere lavorato perla Cia. Lo portarono via insieme ai suoilibri e alle sue carte. Un poliziotto dis-se alla moglie: «Non pianga, tanto nonserve a nulla». La signora Cao Giao ri-spose: «E chi piange? Noi siamo abi-tuati a queste cose». Abbracciò il mari-to e gli ficcò in tasca la tabacchiera euna pipa. Cao Giao aveva allora 61 an-ni. Nei tredici mesi successivi restò so-lo, in una cella buia, con i topi. Poi furinchiuso nella prigione di Chi Hoa,dove visse in compagnia di una settan-tina di detenuti per altri tre anni e mez-zo. Rifiutò di firmare tutte le autocriti-che che gli venivano proposte in cam-bio della liberazione. Nell’85, malato dicancro, ottenne il permesso di rag-giungere, insieme alla moglie, i figliemigrati in Europa.

Ai piedi dell’aereo, ad aspettarlo c’e-ra il vecchio collega di Time, il compa-gno del caffè Givral. Nei precedentidieci anni il generale An non aveva maipotuto farsi vivo con l’amico in disgra-zia. Nonostante i gradi, spiegò a CaoGiao, abbracciandolo, non era in buo-ni termini con le autorità.

STORIA PER IMMAGINILe foto della pagina, scattate daPhilip Jones Griffiths, sono trattedal libro “Vietnam at peace”pubblicato da Trolley inoccasione dei trent’anni dallacaduta di Saigon (30 aprile 1975)Qui sopra, bossoli di proiettilid’artiglieria ammucchiati lungo lastrada tra Dong Ha e Hue.A sinistra, dall’alto al basso:effetti del napalm sul volto diuna donna del villaggio di BinhKhanh; ultimi tocchi per ungrande manifesto pubblicitario;contadino al lavoro in un campo diriso; la scolara tredicenne Le Thi Ut,figlia di una donna vietnamita e diun soldato americano; operaio allavoro nella fabbrica Ford apertanel 1995 vicino ad Hanoi

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 24 APRILE 2005

IVENEZIA

soldati lo chiamavano Benny Hill,perché li faceva ridere. Sotto le bom-be, in mezzo alla giungla. Philip Jo-nes Griffiths, gallese, membro della

Magnum, e poi suo presidente, uno deigrandi fotoreporter del Vietnam, per seianni ha seguito le truppe americane colgrado ufficiale di maggiore in ogni missio-ne, in ogni villaggio, in ogni buca.Trent’anni dopo la caduta di Saigon è a Ve-nezia per controllare le stampe del suo ul-timo libro: Vietnam at peace(Trolley, 59.95euro, su Amazon) nel quale racconta in 550fotografie i vent’anni di un infinito dopo-guerra. Dalle sobrie celebrazioni per la vit-toria, alle risaie distrutte dal defoliante al-la diossina, fino all’oggi dove sulle banca-relle i turisti comprano come souvenir gliZippo che usavano gli americani. Dopoaver inseguito la guerra tutta la vita, dal-l’Indocina al Marocco, lavorando in 146paesi e vivendo a Bangkok e New York.Mentre passeggia per Venezia, Griffiths siferma una sola volta per guardare stupe-fatto due vecchi su una panchina in uncampo fuori mano: «Avrei voluto passaretutta la vita seduto su quella panchina» di-ce con il tono pensoso dei suoi settant’an-ni. Invece una Leika è stata la sua panchi-na, e il suo campo il mondo.

Come fa un ragazzino di un paesino del-la campagna inglese a diventare a 27 anniun fotografo della Magnum?

«La vita era così noiosa dove vivevo: poitutto, tutto ciò che vale, si fa con la passio-ne. A 16 anni lessi su un giornale un’inter-vista a Robert Capa che parlava della Ma-gnum: ricordo che m’entusiasmai perchédiceva che l’agenzia si occupava anchedella sua biancheria. La Magnum era ungruppo umanistico, con un’etica che affa-scinava un giovane comunista come me.Per entrare alla Magnum non basta farebelle foto, è la testa che conta».

Mentre eravate in Vietnam non avetevenduto quasi nessuna foto. Nel ‘71 inve-ce le foto che i giornali non avevano volu-to diventano Vietnam Inc., un libro cheebbe un grande impatto sull’opinionepubblica americana.

«Tutti i media erano a favore della guer-ra, volevo far conoscere questo popolo dicui gli americani non sapevano nulla e chenon capivano. E infatti la guerra lo ha di-mostrato, i vietnamiti furono più intelli-genti, studiavano il nemico giorno e notte:d’altra parte cosa diamine fai ad Hanoi tut-to l’inverno? Capirono dell’America più diquanto capirono gli Americani stessi, li fe-cero vincere per due anni interi e poi, nelmomento psicologicamente perfetto,quando gli americani pensavano che erafinita, nel ’68 attaccarono l’Ambasciata. Ioero giovane, m’interessavano i meccani-smi del potere, ma capii che o lavoravo co-me Tim Page, dell’Associated Press, con lasperanza giorno per giorno che la tua fotofinisse in prima pagina, o dovevo racco-gliere pezzi, lentamente. Così raccontai lamia storia: l’attacco della potenza più tec-nologica del mondo contro la popolazionepiù semplice del mondo. Quando il libròusci, non mi fu più permesso di tornare inVietnam fino al ‘76».

Mentre scattavate sapevate che un’im-magine sarebbe diventata memorabile?

«Ad ogni singolo scatto. Sapevo che erolì per i posteri. C’erano giorni in cui dove-vo scegliere tra mangiare un piatto di risoe comprare un rullino. L’acqua con cuisviluppavo le foto era più pura di quellache bevevo. Non pensavo che ai negativi.Il difficile era capire come persuadere glialtri. Si può farlo in due modi: o scioccan-doli, ma rischi di disgustarli, o accenden-do la loro umanità. Ho sempre cercato illato caustico della vita, in cui c’è l’orrorema anche l’umanità. Ovviamente foto-grafavo gli attacchi, l’azione della guerra,ma erano le incongruenze che m’interes-savano: il cecchino che s’annoiava alla fi-nestra, il vietnamita che fa il bagno in uncratere lasciato da una bomba, il soldatoche punta il fucile alla testa di un ragazzi-no di sei anni e poi gli dà un piatto di risoe una pacca sulla spalla».

Nel suo libro cita una frase del filosofosocialista Jean Baudrillard: «La guerrafu vinta da entrambe le parti. I vietnami-ti hanno riportato la vittoria politica, glialtri hanno fatto Apocalypse Now». Cheimpressione le fece il film quando lo vi-de nel ‘79?

«Ottima, era un bellissimo film. Coppo-la ha saputo cogliere perfettamente quelsenso di follia che aveva invaso le truppe.La scena in cui Robert Duvall dà da beread un uomo che si tiene le budella collemani è tratta da una mia foto, le battutesono prese dalla didascalia del libro. Dal-la Magnum chiamarono Coppola chie-dendo i diritti, era una specie di plagio.“Fatemi causa” rispose Coppola, e misegiù la cornetta».

La guerra, per quanto tragica, per un fo-tografo è anche straordinariamente tele-genica. Lei ne ha fotografate tante: cos’èche l’attraeva?

«In guerra la verità emerge. Tesa tra la vi-ta e la morte la gente si rivela, getta la ma-schera, e si mostra con un’onestà che nonc’è altrove nella vita».

“Con le fotocercavo la vitanell’orrore”

Parla Philip Jones Griffiths

CARLOTTA MISMETTI CAPUA

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2005

il raccontoMestieri moderni

In un giorno di maggio di 75 anni fa dal portello di unbimotore cromato si affacciava, in mantello e gonna a metàpolpaccio, la prima sky-girl della storia del trasporto aereo.Nell’anniversario, una mostra a San Francisco ripercorrel’ascesa e il declino di una professione che ha significatoemancipazione per le donne e sogno sexy per gli uomini

“Ero laureata,parlavo tre lingue,ero in grado di farpartorire una donnaa diecimila metrid’altezza, ma ilmarketing siconcentrava sulnostro sorriso esulle nostre gambe.Ed era inevitabileche qualche clienteprovasse apalpeggiarci”

moderne, sexy, emancipate. In com-penso, anche per non allarmare i pas-seggeri, veniva passata sotto silenzio laloro funzione per la sicurezza del volo.

Furono assoldati celebri stilisti, a co-minciare da Emilio Pucci e Valentino,per concepire divise sgargianti (blu orosa shocking), avveniristiche (conuna visiera sferoidale tipo astronauta),o magari anche di carta, tipo usa-e-get-ta, come quella della britannica Boac.«Fly me», Vola con me, dicevano (epromettevano) le protagoniste mali-ziose di uno spot della americana Na-tional, mentre la Braniff internationallanciò la moda dell’“air-strip”, del se-mi-spogliarello d’alta quota. Alle ho-stess veniva richiesto di cambiarsi abi-to subito dopo il decollo.

«Si fece strada l’idea che i manageravessero un vero e proprio diritto a esse-re coccolati durante il volo da una don-na carina e compiacente», spiega Kath-leen Brown, che all’università di Cam-bridge studia la sociologia del trasportoaereo. Nell’immaginario collettivo la fi-gura della hostess si avvicinava semprepiù a quella della coniglietta di Playboy.E un libro pubblicato nel 1967 da TrudyBaker e Rachel Jones — Caffè, tè o me?—ha codificato questo stereotipo.

Prima i movimenti femministi, poi la

deregulation del trasporto aereo porta-rono a una svolta. Le hostess scesero inpiazza perché non volevano più essereconsiderate un «oggetto sessuale». Trale più agguerrite, Patricia Ireland, che la-vorò per sette anni sui voli PanAm primadi diventare presidente della Now (Na-tional organization for women). «Erolaureata, parlavo tre lingue, ero in gradodi far partorire una donna a diecimilametri d’altezza», ricorda la Ireland. «Mail marketing si concentrava sul nostrosorriso e le nostre gambe. Ed era inevita-bile che qualche cliente provasse a toc-carci, a palpeggiarci».

La stagione dei dirottatoriNel 1970 ci fu poi la rivoluzione lingui-stica: le hostess furono ribattezzate “as-sistenti di volo”. L’anno successivo, conl’assunzione dei primi uomini, venneinfranto un altro tabù. Era anche la fasecalda dei dirottamenti: gli assistenti divolo — uomini e soprattutto donne — siritrovarono sulla linea del fuoco. «Era-vamo noi ad affrontare per primi i dirot-tatori», ricorda T. C. Roberson, coinvol-ta in un brutto incidente a OklahomaCity nel 1971. «Dovevamo cercare di cal-marli, di isolarli, proteggendo al tempostesso i passeggeri».

La carriera, insomma, aveva già

CURIOSITÀ IN VOLO

AIR-STRIP

Negli anni Sessanta,affidatasi a EmilioPucci per ridisegnarele divise, la Braniffcercò di attirareil pubblico maschilechiedendo alle suehostess di cambiarsiil vestito in volo.Questa abitudinefu chiamata strip-teased'alta quota

"CAFFÈ, TÈ O ME?"

Così si intitolavail divertente librodel 1967, scrittoda due assistentidi volo, Trudy Bakere Rachel Jones.Il volume nasceva dallo stereotipodella hostess sexye disponbilee ne ha alimentatoa lungo il mito

IL MUSEO DELLE HOSTESS

Un ex-assistentedi volo della Klm,Cliff Muskiet, ha creatoun piccolo museodelle hostesse delle loro divise.E il suo sito internetha grande successoe riceve un migliaiodi visite al giorno(http://www.uniformfreak.com/index2a.html)

Hostess della compagniaaerea Lufthansa, 1972

Hostess della compagniaaerea Air India, 1973

Hostess della compagnia aereaSingapore Airlines, 1972

Hostess della compagniaaerea Air France, 1972

INEW YORK

l rito dell’ipocrisia e del rimpiantosi celebra ogni giorno in migliaiadi aeroporti del mondo. Al mo-mento di scendere dal Boeing o

dall’Airbus, dopo un tragitto tanto sco-modo quanto stressante, gli occhi del-l’assistente di volo e del passeggero si in-crociano per un attimo: «Grazie», «mer-ci», «thank you», «arigato gozaimas». Eabbozzano un sorriso.

In realtà, frastornata dal jet-lag, stan-ca per avere trascinato su e giù il carrel-lo delle bevande che pesa più di un quin-tale, irritata dalle richieste bizzarre e daicommenti impertinenti, l’assistente divolo non vede l’ora di liberarsi del pas-seggero. Segretamente lo disprezza,specie quello di classe economica, cheviaggia a prezzi stracciati e pretende —chissà perché? — un servizio a cinquestelle. E a sua volta il passeggero rim-piange, come milioni di altri dannati deltrasporto aereo, i «bei vecchi tempi»,quando le hostess si chiamavano ho-stess, ed erano belle, giovani, cortesi,eleganti, servizievoli e magari disponi-bili a una avventura.

Un mondo esclusivoIl mito delle hostess è duro a morire, an-che perché è intrecciato a doppio filocon la storia dell’aviazione civile, comericorda una mostra di fotografie, divise ealtri cimeli storici organizzata nell’aero-porto internazionale di San Franciscoper festeggiare i tre quarti di secolo del-la professione. In una foto della mostrasi vede una ragazza affacciarsi dal por-tello di un bimotore cromato. Indossauno strano mantello e una gonna che learriva quasi al polpaccio. Si chiama El-len Church. E sono passati esattamente75 anni — il compleanno è a metà mag-gio — da quando la United airlines la as-sunse per la rotta Chicago-Oakland. LaChurch, che oggi avrebbe 100 anni, fu laprima sky girl (ragazza dei cieli).

A quei tempi, e fino agli anni Ses-santa, erano in pochi a potersi per-mettere le altissime tariffe degli aereiad elica. Viaggiavano soprattutto vip euomini d’affari, trattati con vassoi diBeluga e calici di Moët-Chandon. Di-ventare una hostess (o stewardess) si-gnificava entrare in questo mondoesclusivo, fascinoso, chic. Di qui l’ef-fetto-calamita per migliaia di belle ra-gazze, che si sottoponevano a una du-ra selezione (un posto ogni duecentocandidate) e a un faticoso addestra-mento, pur di indossare la divisa.

Le prescelte erano sempre le più ca-rine e simpatiche, dovevano già avereuna professione, aver compiuto alme-no 21 anni, non potevano sposarsi, pe-na il licenziamento, e a 32 venivanomandate via senza tanti complimenti.I regolamenti erano severissimi: fisicoslanciato, pettinatura perfetta, unghiesmaltate, divisa impeccabile e sorrisoonnipresente.

Il clima cominciò a cambiare nei pri-mi anni Sessanta per effetto della cre-scente concorrenza nei cieli. Per attrar-re il pubblico maschile, le compagnieaeree pubblicizzavano, senza farsi trop-pi scrupoli, le loro hostess come donne

ARTURO ZAMPAGLIONE

FEMMINISTE IN CIELO

Una delle più notefemministe americane,Patricia Ireland,ha lavorato comehostess della Panamdal 1968 al 1975,prima di diventare e di rimanerea lungo presidentedella Nationalorganizationof women

Hostess della compagnia aereaCaledonian Airlines, 1972

preso una piega ben diversa daquella originaria. E i mutamentifurono accelerati nel 1986 dalladeregulation reaganiana, cheportò alla liberalizzazione delletariffe e all’esplosione del traffi-co aereo. Incapaci di reggere laconcorrenza, molte compagniechiusero i battenti, licenziando i di-pendenti. Per ridurre i costi, gli sti-pendi delle assistenti di volo subironouno stop. Intanto gli aerei diventava-no più capienti, specie in classe eco-nomica, con un aggravio del lavoro dicabina.

Nel 1978 lo sciopero duro degli assi-stenti di volo della PanAm, durato ben72 giorni, sancì il mutamento dell’im-magine professionale e dei rapporti in-terpersonali sugli aerei di linea. Sia i pas-seggeri che le dirette interessate capiro-no — non senza rimpianti — che i tem-pi romantici e a volte birichini delle sky-girls, delle ragazze del cielo, erano finitiper sempre. Chi viaggiava, si sarebbe ac-contentato del servizio anonimo e sbri-gativo delle waitress in the sky, le came-riere del cielo, dal titolo non lusinghierodella canzone dei Replacements. E daallora in poi le ex-hostess avrebbero na-scosto montagne di frustrazioni dietroall’ipocrisia di un sorriso.

Hostess, il mito perdutodelle ragazze del cielo

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SEXY ALL’ANTICA

Una piccolacompagniaamericana,la Hooters air,ha la figura dellahostess "all'antica",prevedendola presenza di dueragazze sexyin aggiuntaalle normaliassistenti di volo

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24 APRILE 2005

La santa patrona delle hostess di tutti i cie-li si chiama Ulrike (detta Uli) Dickerson.Durante un lungo dirottamento avvenu-

to vent’anni fa sopra il Medio Oriente salvòqualche passeggero dalla morte e se stessa dalmatrimonio con un terrorista musulmano.Successivamente, non potè salvarsi dal so-spetto, dai traumi di un’azione più grande del-la vita, dall’ineluttabilità del dolore.

Uli (1945-2005) nacque in Cecoslovacchiae crebbe nella Germania orientale. Visse l’in-fanzia tra macerie, ricordi di guerra e uomi-ni feroci. Appena potè emigrò in America perlasciarsi alle spalle un passato che non le ap-parteneva. La sua Samarcanda l’aspettavaall’imbarco una mattina di giugno (il 14) del1985, ad Atene. Il volo 847 della Twa era di-retto a Roma e trasportava 152 passeggeri.Non c’era un posto libero. Uli faceva partedell’equipaggio. Quel lavoro era una dellecose che l’America le aveva dato. Le altre era-no un marito di nome Russell, pilota Twa inpensione, un bambino di nome Matthew euna casa da telefilm nel New Jersey. Uli par-lava quattro lingue, aveva un carattere deci-so, nessuna fede religiosa. Notava tutto e nonpassava inosservata. Camminò tra le file del-la classe economica, lesse le solite istruzioniper l’uso della sciagura che nessuno ascoltamai veramente, tirò la tendina e scomparve.Il cielo era sereno, il volo breve, giusto il tem-po di servire qualche bevanda. Un calcio fe-ce volare il vassoio prima di col-pirla in pieno petto. Cadde a ter-ra e fu colpita ancora, e ancora,ai fianchi, alla testa. Trenta orepiù tardi, Mohamed Ali Hama-di, l’uomo che la stava picchian-do, affascinato dalla sua perso-nalità dominante, le avrebbechiesto di sposarla.

Per il momento la strattonò,rimettendola in piedi, e la tra-scinò verso la cabina di coman-do. Il suo complice teneva inmano una granata pronta aesplodere e stava abbattendo laporta che li separava dai piloti.Urlando in arabo e puntando pi-stole alla testa fecero capire unasola parola: «Beirut». Lì voleva-no dirottare l’aereo. Nessunodei due terroristi parlava ingle-se. Francese? Zero. Uli tentò, senza speranze,il tedesco. Lo sciagurato che l’aveva presa acalci sorprendentemente rispose. Era l’iniziodi un rapporto, di un’odissea durata 55 ore(più 17 giorni), della leggenda e della maledi-zione di Uli.

Hamadi la nominò interprete delle sue vo-lontà. Uli accettò, «a una condizione». Lui laguardò stupito: non era quel che da una donnasi aspettava. «Quando arriviamo a Beirut fatescendere i bambini e le donne». «Solo le vec-chie». «Va bene». Ottenne le prime 19 vite. Poil’aereo fu fatto ripartire per Algeri. «Adesso de-vi comunicare le nostre richieste. Siamo liba-nesi e vogliamo i settecento prigionieri detenu-ti da Israele. O ammazziamo i passeggeri. Vai dilà e prendi tutti i passaporti, poi fai due pile, inuna metti gli ebrei, cominceremo da loro».

Uli obbedì, in apparenza. I viaggiatori era-no, da ore, con la testa tra le ginocchia e lemani sopra, in quella che fu poi chiamata «laposizione 847». Lei raccolse i documenti etornò oltre la tendina. Non fece alcuna spar-tizione. «Nel passaporto non si dichiara la re-ligione», spiegò. «Capiscilo dai cognomi».Lei bluffò ancora. Continuò a rimescolare i

primi della pila finché il terrorista si spa-zientì, ci mise le sue mani e individuò, se nonaltro, tre americani, per di più soldati:Stethem, Suggs e Carlson. Lo prese un’esal-tazione infantile. Si fece dare il rossetto di Ulie scrisse per tutte le pareti dell’aereo morteagli Usa, tutto l’inglese che sapeva.

Ad Algeri chiesero di fare rifornimento. Inun ridicolo negoziato, le autorità locali prete-sero il pagamento del carburante. I terroristiminacciarono di saldare con qualche vita. Uliestrasse la sua carta di credito Shell e fece ilpieno. Il conto, seimila dollari, le arrivò a ca-sa. Se ne occupò la Twa. Decollarono di nuo-vo e di nuovo verso Beirut. Era un andirivienisenza senso né speranza. Israele respinse ilricatto. Hamadi, infuriato, svelse il bracciolodi una poltrona e lo usò per picchiare i treamericani. La cosa sembrò placarlo. Sedetteaccanto a Uli, nell’oscurità. Non dormivanoda ore, lei giocò l’ultima carta: si mise a can-tare una ninna nanna in tedesco, sperando difargli chiudere gli occhi e prendergli la pisto-la. Lui abbassò appena le palpebre e si con-cesse un sogno, ma a occhi aperti: «Quandoavremo vinto questa battaglia voglio che tuvenga via con me, sei straordinaria, sarai lamia donna, lotteremo insieme». Fu l’unicomomento in cui a Uli venne da piangere, l’u-nico destino a cui le parve preferibile la mor-te. Il terrorista vide le sue lacrime e si riscos-se. Si alzò in piedi, andò verso i tre americani.

Quando atterrarono a Beirut ap-poggiò la pistola alla testa delsoldato Stethem e gli sparò. Il ca-davere fu gettato sulla pista del-l’aeroporto. Poi si lanciò versogli altri due, arma alla mano. Ulisi frappose tra lui e le vittime de-signate. «Basta!», ordinò. L’uo-mo abbassò la pistola. Fu il suoregalo d’addio.

Sull’aereo vennero fatti salirealtri terroristi islamici e via versoAlgeri, stavolta in assoluto silen-zio. All’arrivo fu deciso il rilasciodell’equipaggio e di tutti i pas-seggeri, tranne i 39 di nazionalitàamericana. Il volo 847 rimbalzòdi nuovo a Beirut dove rimaseper 17 giorni, finché gli ostaggifurono scambiati con 31 prigio-nieri. A quel punto Uli era già

fuori della storia e dentro un personale incu-bo: venne accusata di complicità con i terro-risti, di aver scelto chi far scendere, di aver pe-nalizzato americani ed ebrei. Dovette aspet-tare la testimonianza dei rilasciati per otte-nere giustizia. Ma quando quelli ammisero didoverle la vita, ricevette minacce dai neona-zisti d’America.

Si trasferì dal New Jersey all’Arizona. L’uf-ficiale Kurt Carlson, al quale fece scudo, man-tenne i contatti al telefono: «Di tutti noi, era lapiù traumatizzata». Continuò a fare la ho-stess, tuttavia. Twa fallì, passò a Delta. Di-venne, anche, consulente per le situazionid’emergenza. L’11 settembre 2001 era sulloShuttle tra Washington e New York. Raccontòa Carlson che soltanto quella tragedia le con-sentì di venire a patti con la sua esperienza,ammettere l’esistenza di un male peggiore. Aquel punto, perse il marito e le fu diagnosti-cato un cancro. È morta a Tucson nel febbraioscorso. Hamadi sconta in Germania l’erga-stolo per l’omicidio del soldato Stethem. Perinchiodarlo con la sua testimonianza Uli pre-se l’ultimo volo per l’Europa. Non ha mai ri-sposto alle sue lettere dal carcere.

MOSTRA A SAN FRANCISCO

Fino al prossimosettembre nell'aeroportodi San Franciscosi potrà visitareuna mostra dedicataai 75 annidelle assistenti di volo,corredatada fotografie, divisee oggetti d’usoquotidiano a bordo degliaerei di linea

IL NOME E LA FUNZIONE

Le chiamavanohostess, sky girls,stewardesses.Ma dal 1970 il nomeufficiale è cambiato:assistenti di volo.Il loro compitoprincipale?La sicurezza a bordo,ma il grosso del lavoroè servire pastie aiutare i passeggeri

GIOVANI E NUBILI

All'inizio i requisitiper superarela selezionee diventare unahostess, eranoquelli di essereuna donna nubiledi meno di 25 anni,avere un diplomadi infermierae pesare menodi 55 chili

Hostess della British OverseasAirways Corporation, 1972

Hostess della compagniaaerea Japan Airlines , 1973

Hostess della compagnia aereaSingapore Airlines, 1972

GABRIELE ROMAGNOLI

PROTAGONISTAUlrike Dickerson, hostessnel giugno 1985su un volo Twa dirottatotra Atene e Roma

ELLEN LA PIONIERAAlcune foto della

mostra allestitaall’aeroporto

di San Franciscoper i 75 anni di vita

delle hostessIn quella a destra,

Ellen Church, assuntanel maggio 1930

dalla United airlinesper la rotta

Chicago-Oakland

Ulrike, eroe normalesul volo della paura

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Hostess della British OverseasAirways Corporation, 1972

CARICHI DI LAVORO

Secondo il modelloLufthansa, adottatoanche in Italia, lehostess hanno unmassimo di 14 oredi servizio al giorno:di media, 85 ore almese nel medio raggioe 95 sul lungo.Sul medio raggio,sono previste quattrohostess per volo

ETICHETTAQui accanto,l’immaginedi unahostessdisegnatada George Pettye utilizzatacome etichettaper i bagaglidallacompagniaaerea americanaTwanegli anniSessantae Settanta

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le storie/1Guide alternative

Si ingegnano per costruire gli utensili con cui cuocerei loro piatti, inventano le ricette più stranee fantasiose: sono i detenuti che si scoprono chefper sentire il sapore di casa e della libertà. Un libro,Il gambero nero, ora racconta e fotografa questostrano ristorante. Dove a trionfare sono i gusti etnici

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24 APRILE 2005

IFOSSANO (Cuneo)

l soffritto, quello è un vero pro-blema. Perché se tagli male leverdure, se le tagli grosse o gros-solane, poi viene uno schifo. E al-

lora gli omoni con le mani gentili usanoil coperchio dei pelati, non è propriouna mezzaluna ma ci si arrangia, ancheperché in cella mica puoi tenere lame ecoltelli. «Dopo lo buttiamo via, nonvorremmo mai che i secondini pensas-sero cose sbagliate, usi alternativi, di-ciamo così».

Il carcere di Fossano era un conventodi suore. Davide Dutto, fotografo, abitaa duecento metri da lì. «Ci avevo fatto ilservizio militare, da giovane ho intuitoche mondo dev’essere la prigione. Poi,tre anni fa ho tenuto un corso di fotogra-fia per detenuti, ho visto come vivono,come cercano di cavarsela, come man-giano. Ecco, come mangiano e come cu-cinano. Allora ho proposto a mio cuginoMichele, giornalista enogastronomico,di farci un lavoro insieme. Abbiamo pas-sato un anno lì dentro, abbiamo guar-dato, ascoltato, assaggiato. Ed ecco, ab-biamo scritto un libro».

Si chiama Il gambero nero, ricette dalcarcere, edizioni DeriveApprodi. Vale adire la pecora nera del Gambero rosso, inun simbolico incrocio di colori, animalie metafore: «In ogni famiglia c’è una pe-cora nera. Per noi, all’Osteria del Gam-bero Rosso di Pinocchio corrispondequella del Gambero Nero, dietro le sbar-re». Ci sono stati, Davide e Michele, e so-no trascorsi sei mesi prima di scattareuna sola fotografia. «Perché altrimentisei un guardone».

I due cugini hanno scoperto che inprigione, a pranzo, si mangia quello chepassa lo Stato, aspettando il carrello chesferraglia sulle ruote, tipo ospedale, in-vece a cena si cucina in proprio, si desi-dera e si inventa. Per farsi da mangiarebisogna avere gli ingredienti, si compi-la la “domandina”, nulla sfugge alla bu-rocrazia. Ogni detenuto ha una speciedi conto corrente con una cifra disponi-bile, la spesa la fa così. Pomodori, pata-te, pesce, carne, chi se lo può permette-re ordina e compra cose fresche. Poi sitratta di cucinare, operazione laboriosae allegra che racconta di sensi reclusima in qualche modo liberati, e ricordi(«si pensa a casa mangiando le cose dicasa»), viaggi, paesi. Mentre il soffrittotagliato con un coperchio sfrigola, at-torno si muovono persone che arrivanodal quartiere Zen di Palermo, dai moto-scafi veloci del porto di Valona, da Cina,Romania, Maghreb, Croazia, Serbia,Sudamerica. Ognuno, insieme alla suastoria porta qualche ricetta, e allora ilproblema diventa pratico, arrangiarsiper non alienarsi.

Nelle celle che alle 19,30 vengonochiuse da chiavi enormi e lucenti, tuttoruota attorno al fornello a gas che in teo-ria sarebbe permesso solo per preparareil caffè, mentre poi diventa il motore del-la creazione. Accostandone un paio, sipuò far bollire un pentolone d’acqua perla pasta, anche se è un’impresa far ri-prendere il bollore, con poco fuoco sot-to, quando si buttano gli spaghetti.Neanche il frigo c’è. Si mettono i cibi nel-l’intercapedine tra finestra e inferriata —le uova, la salvia, il rosmarino, il pollo —oppure, d’estate, nello sciacquone delbagno, dentro sacchi di plastica perchénon passi l’acqua. Bisogna inventare, iltempo non manca, anzi il detenuto con-tabile (colui che aggiorna i registri con iconti correnti dei suoi colleghi) ha rifiu-tato il computer: «Altrimenti si fa troppoalla svelta, invece qui bisogna andarepiano per non sbiellare».

Tagliare senza coltelli, conservaresenza freezer, cuocere senza forno. Od-dio, «senza» in prigione è una parolagrossa, più che altro relativa. Perchéqualcos’altro si trova sempre, o quasi(non il burro, raramente l’olio extraver-gine, troppo costoso). Il forno, dunque:c’è chi usa il doppio fornello con cappadi stagnola, e chi preferisce uno sgabel-lo col panno bagnato, anche se il vero

L’arte di cucinare in carceremaestro d’arte è Bruno il calabrese, redella pasta al forno tirata col manico discopa (non c’è il mattarello). Il suo fornoricorda le officine meccaniche dell’Ot-tocento: «Si appoggia la teglia con la pa-sta, si copre con una cappa di carta sta-gnola che sembra un grosso cappello damuratore. Dentro la cappa di stagnolaarriva anche il calore di un altro fornel-letto con la bombola appoggiata in unrecipiente pieno d’acqua, per aumenta-re la pressione del gas e quindi la forzadella fiamma. Il calore prodotto dal fo-cherello è convogliato da una scatola dipelati vuota, senza coperchio, che fa datubo conduttore e porta il caldo dentrola cappa di stagnola». Ecco, appunto.

«Noi abbiamo la passione per lerealtà marginali e per le persone» rac-conta Michele Marziani, il giornalistache ha scritto i testi. «Il cibo è un lin-guaggio universale, è una lente perguardare dentro il carcere. Ma sia chia-ro che si tratta di cucina vera, non dimetafora, e niente retorica. Abbiamomangiato, tanto e bene, forse qualcosaabbiamo capito. Mi aspettavo personepiù arrabbiate, la prigione la immagi-navo più feroce. Loro cercano solo dicavarsela, e cucinare li aiuta».

Il gran cerimoniere della pizza sichiama ovviamente Ciro, la sforna fra-grante e succosa. Dosa a occhio, micac’è la bilancia. Non lo limitano i mezzidi fortuna, il forno consiste in due pa-delle chiuse una sull’altra. Ciro, haimai pensato di farlo di mestiere, la-sciando perdere le rapine? «Ma voi as-sumereste uno che nel curriculum haquasi tutta la vita passata in galera eneanche un mese in pizzeria?»

Pare che l’alta cucina abiti nella cellanumero sette, dove abitano Raffaele,Adalberto e Luciano. La creazione cheli assorbe da un po’ si chiama risotto allatte con le seppioline. Per avere il pe-sce fresco hanno presentato regolare“domandina”, dopo si sono divisi icompiti: uno cuoce le seppioline, l’al-tro controlla il brodo e il terzo tosta il ri-so nel latte. Poi si mangia insieme,compreso Hu che viene dalla Cina enon conosce nessuna lingua, neppurela sua. Invece la sua cucina la capisco-no tutti, ed è così che parla Hu.

«Molti detenuti mi hanno chiesto difotografarli, dopo l’iniziale diffidenza»racconta Davide Dutto. «Una foto dimo-stra che esistono, si può mandare a casa,è come dire aspettatemi che poi torno.Oppure si può tenere in mano, guardar-la e pensare ci sono, questo sono io». An-che maneggiando scolapasta e padelledi epoche remote accade qualcosa di si-mile, un riconoscimento, la forza fisicadel corpo prigioniero che chiede di sen-tire, annusare, toccare, guardare, gusta-re. «In galera è troppo crudele parlare didonne, visto che le donne non ci sono»dice Michele il giornalista. «Invece il ciboaiuta, unisce, è più neutro e non è un pia-cere proibito come tanti altri».

E allora si resiste cenando, organiz-zando rinfreschi senza vino, è un guaionon averlo per sfumare i sughi, menograve non poterlo bere, perché chi siubriaca combina casini e ci vanno dimezzo gli altri. Così si brinda al pollo ci-nese con un bicchierone d’acqua, tristema necessario. Pentole e padelle sonol’eredità di chi le ha usate ed è uscito, rac-contano storie passate ma così uguali. Lefotografie di Davide dicono più delle pa-role, sono un repertorio di oggetti e volti,corpi tatuati e mestoli, enormi pance epignatte mezze sfasciate. I prigionierihanno gli occhi di mamma quando cuci-na, e nel disegno delle mani si indovina-no movimenti delicati, attente carezzeper non guastare l’opera. Le stesse maniche hanno scritto le ricette con impegno,uno sforzo tremendo dove gli errori fan-no tenerezza, anche loro dicono chi sei,da dove vieni e la scuola che non hai fat-to. Ma i nomi dei piatti, quelli proprionon hanno segreti. “Risotto alla permet-tete” significa offrire, probabilmente.“Couscous con carne” dice solo che lacasa è lontana. Invece “spaghetti allaSanta Caterina”, “linguine alla duches-sa” e “tagliatelle all’illibata” una cosa so-la vogliono dire, cioè donna, e amore.

MAURIZIO CROSETTI

‘‘John CheeverQuella sera Farragut fece la coda per lacena tra Bumpo e Tennis. Mangiaronoriso, würstel, pane, margarina e mezzapesca in scatola. In fondo al braccio F

Tiny si preparava a consumare una cenafatta venire da fuori. Aveva su un piattouna bella bistecca alla griglia... sull’altro

un’intera torta di pasticceria

Da FALCONERFandango Libri

FOTO E RICETTELa copertina de “Il gambero nero”,foto di Davide Dutto e testi di Michele Marziani,e alcune immagini prese nel carcere di Fossano

Risotto alla permetteteTenete a bollore del brodovegetale. Fate cuocere in padella250 g. di seppioline a pezzetti inolio aglio e prezzemolo. Tostate400 grammi di riso con un po'd'olio e burro, poi aggiungete unbicchiere di latte. Aggiungetebrodo vegetale un po’ per volta e,a metà cottura, le seppioline. Allafine, mantecate il tutto con unanoce di burro

Carne alle prugneIn padella con olio e due cipolletagliate fini fate rosolare un chilodi spezzatino di vitellone. Salate,pepate, aggiungete una bustina dizafferano, mezza scatola di pelati,una manciata di olive nere, altredue cipolle. A parte, cuocete inolio 200 g. di mandorle spellate efate bollire una scatola di prugnesecche. A spezzatino quasi cotto,mescolate tutto

Tagliatelle all’illibataPreparate un ragù bianco facendosoffriggere in olio d’oliva e burrouna cipolla tritata finissima.Aggiungete tre etti di carne dimanzo macinata, rosolate,aggiungete un po' d'acqua e fatecuocere per 45 minuti, condendocon un po’ di noce moscata eorigano. Condite le tagliatelleall’uovo col ragù e spolverate congrana grattugiatoR

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le storie/2Non solo carte

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 24 APRILE 2005

Lo hanno celebrato Mario Soldati e Luigi Comenciniin un famoso film con Alberto Sordi e Bette Davis.La lista dei fan è lunghissima: da Giosuè Carduccia Michel Platini. Ma gli appassionati più incallitisono stati gli uomini della Prima Repubblicache ne avevano fatto una sorta di religione

Lascena è stata paragonata a un quadro di Cé-zanne. Mancano sul tavolo quattro bicchie-rozzi di rosso, però c’è la Coppa del mondo.

Sull’aereo presidenziale dalla parte del finestrinoci sono Pertini (con pipa) e Causio (in maniche dicamicia), all’interno con la giacca chiara della Na-zionale Zoff e (con pipa) Bearzot. La ricostruzionedi questa partita a carte è difficoltosa e non privadi contraddizioni. Certo è che la partita la propo-se Pertini. «Quand’era stato da noi in ritiro, ha vi-sto che giocavamo a carte», dice Causio. «Lo sco-pone è una tradizione juventina, il più bravo era ilmassaggiatore De Maria, unvero maestro, uno che al ta-volo insultava ferocementeTrapattoni, ma dandogli dellei che è peggio, quando ilTrap faceva coppia con lui.Alla sua scuola, direi braviFurino, Bettega, io e Zoff,ma anche Platini e Boniekavevano imparato».

«Facciamoci una partita»,dice dunque Pertini. Ma pre-tende che si scinda la coppiafissa Bearzot- Zoff, due cheper serietà e vicinanza di vedute erano fusi in un no-me solo (Bearzoff). È una coppia fissa, parla la stes-sa lingua strana, magari si fa pure i segni. Lo dice bo-nariamente, quindi i due furlani non se la prendo-no. Il capitano col presidente, e Bearzot convocaCausio. Gioverà ricordare che nel 1982 non c’eranotelefonini né playstation e dunque nei ritiri s’am-mazzava il tempo giocando a carte, in genere colmazzo da 40 (scopa, briscola, tressette a prendere ociapanò). Una leggenda metropolitana che circola-va subito dopo la partita diceva: 17-16 per la coppiaBearzot-Causio, Pertini mazziere s’è tenuto di palo

il settebello dispari. Non andò così. Ma il ricordo af-fettuoso che gli azzurri hanno di Pertini li porta anon premere molto su un tasto: il presidente era ilmeno allenato, o il più scarso, dei quattro. Che,sportivamente, decisero di non infierire.

L’unica cosa certa è che vinsero Bearzot e Causio.Per lancio della spugna, fa intendere il Vecio. Zoff,contromazzo, riesce finalmente a fare uno spari-glio, Pertini incautamente ripariglia e parte una va-gonata di scope. Incerto è il numero di carte in ma-no. «Dieci», garantisce Causio. «Nove e quattro aterra», replica Zoff. C’è una bella differenza, sono

quasi due scuole di pensiero,qui entra in ballo la correttaattribuzione di «scientifico»,sorvoliamo. Episodio deter-minante? Dice Causio: «Maz-ziere il presidente, io penulti-mo di mano. Come terzulti-ma carta gioco un sette brut-to, Pertini me ne fa due in ma-no e lascia girare, Bearzot hail settebello e ci salta sopra.Pertini s’incavola e mi diceche abbiamo fatto i segni, in-vece ho solo bluffato e m’è

andata bene. Non ricordo il punteggio finale, ab-biamo vinto noi perché eravamo più forti».

Anche Zoff non ricorda il risultato finale, ma vadetto che dopo la partita nessuno degli azzurri ave-va dormito. Il giorno dopo tutti sull’aereo di Pertini,atterraggio a Ciampino e pranzo al Quirinale. Per-tini disse che aveva perso per colpa di Zoff. «Lo so, eho lasciato che lo dicesse. Ma un giorno l’ho chia-mato e gli ho detto con tutto il rispetto possibile:presidente, lei era di mazzo e se non si fosse ostina-to a ballare sull’ultimo asso forse non avremmoperso il giro».

Il gioco della politicaal tavolo di scoponele tecniche dei segni clandestini fra com-pagni di partita, la necessità mnemoni-ca del mandare a mente tutte le mosse diuna partita, la stessa pretesa — che lostorico dei giochi Giampaolo Dossenadefinisce «ragionevole» — di esserechiamato “scientifico” consegnano in-fatti il formidabile gioco a un equilibriomai troppo ben definito fra razionalità eastuzia: in ciò dimostrandosi, se non “ar-retrato”, tipicamente italiano.

E non sarà allora un caso che propriolo scopone ha occupato il tempo liberodei migliori campioni della cosiddettaPrima Repubblica, ingenerando di fre-quente negli osservatori il dubbio che loscopone non fosse altro che la politicaproseguita con altri mezzi. Un giornali-sta navigato come Pasquale Nonno hadedicato allo scopone un capitolo fataledel suo libro autobiografico Per gioco(uscito nel 1997) dove narra partite con

Sandro Pertini, Paolo Mieli, e OscarMammì, che a sua volta ha descritto loscopone come «gioco della politica» inun suo libro. Aneddoti e stili di gioco ri-velatori che sono stati, naturalmente,rubricati con la solita divertita diligenzada Filippo Ceccarelli in diversi articolidedicati allo scopone fra politici.

Scoponi aerei, come quello celeberri-mo (e ora raffigurato nella controcoper-tina del libro di Tunno) fra Pertini, Bear-zot, Causio e Zoff sul volo che riaccom-pagnava a Roma la Nazionale vincitricedei mondiali del 1982. Ma anche un me-no noto, ma almeno altrettanto clamo-roso, scopone ad alta quota fra Pertini eAndreotti da una parte e Berlinguer eD’Alema dall’altra, diretti a Mosca per ifunerali di Andropov: la coppia comuni-sta vinse per 21 a zero, Pertini manifestòcon clamore la sua inevitabile stizza e ildiscreto Berlinguer si rammaricò con ilgiovane ma già ben caratterizzato D’Ale-ma: «Almeno qualche punto al Presi-dente della Repubblica potevi lasciar-glielo...».

Ciriaco De Mita ha sempre preferito iltressette, e la combinazione di tattica acarte e strategia politica in una domeni-ca a Nusco lo aiutò a stabilire un solidocanale di comunicazione con EugenioScalfari (che poi ebbe a raccontarlo nelsuo La sera andavamo in via Veneto). Mal’accanimento politico verso la vittoria siosservava anche in Ugo La Malfa, che giàal mattino presto voleva giocare e, tro-vando sveglio solo il nipotino, gli avevainsegnato la scopa a due: e lo batteva,senza fare sconti e anzi riducendolo adandare a svegliare in lacrime il padreGiorgio per farsi consolare.

Che si tratti dunque dell’arretratezzadenunciata da Gramsci — che però po-teva semplicemente riprodurre la tipicaincomprensione degli intellettuali versoi giochi — o al contrario di una formaavanzata, ancorché frivola, di pensieroastratto lo scopone sembra in grado dirappresentare alcune fondamentali ca-ratteristiche nazionali. Come sanno lecartomanti e come avevano intuito ItaloCalvino e Gianni Rodari, un mazzo dicarte contiene un’infinità di storie possi-bili, storie che raccontano i più basilarifatti della vita (la caccia, la presa, la so-pravvivenza, la morte). L’alleanza taci-turna fra i due compagni di dirimpetto,l’azzardo di uno scarto, il ragionamentoinduttivo e probabilistico, il calcolo sul-le mosse dell’avversario, l’obiettivo irri-nunciabile della vittoria: gli impulsi chesi liberano nel gioco hanno sempre rela-zione con quelli che appartengono allavita cosiddetta reale.

Sparigliate le carte nel confuso decen-nio che ha chiuso il secolo scorso, restada capire quale sia il gioco odierno dellapolitica: ammesso che i giocatori del-l’antico scopone abbiano realmentechiuso la loro partita, e che le qualità a lo-ro richieste, prima fra tutte il ripudio del-la fortuna a favore di una mescolanza pe-culiare di logica e scaltrezza, siano daconsiderarsi come definitivamente de-suete, in un mondo apparentemente inmano agli scommettitori.

«Batteva con impegnola carta in osteria»:nella memoria, lon-tana e struggente,del necrologio diGianni Brera per

Beppe Viola le parole compongono dueesatti settenari, come in un’ode. L’acca-nimento alle carte era uno dei dettagli diquel commosso ritratto che lo rendevanotanto più rivelatore per chi conoscevaBeppe Viola solo per i suoi servizi sportivie per i suoi pezzi su Linus. Che partita gio-cavano, Brera e Viola? Le ipotesi possonoandare dal tressette al poker, per quel checostano: ma viene piuttosto naturalepensare allo scopone scientifico, il piùnobile dei giochi popolari, e viceversa.

Lo scopone! Mario Soldati, che poi gliavrebbe dedicato un intero libro, lo cele-brava già nel suo giovanile America, pri-mo amore, quando al primo weekendpassato a New York deprecava i chili di in-serti che già negli anni Venti appesantiva-no i quotidiani americani, per la felicitàdei loro lettori: «E trascorrono il pomerig-gio nella tetra living rooma sfogliare, a leg-giucchiare coteste ebdomadarie enciclo-pedie di cretinismo, annoiati, desolati,ma convinti di godere il supremo benes-sere della nuova civiltà. Oh gli scoponi, itressette, le partite a voce, e i cori e i mezzidi buono che fanno la festa italiana! Qua-le gioia, quale sapienza e intelligenza alconfronto!». Detto che le «partite a voce»erano spartizioni di vino («mezzi di buo-no») in ragione della vincita o della perdi-ta al gioco, lo scopone si trova così instal-lato con il cantare in coro al centro dellaconcezione italianissima del tempo libe-ro. E installato stabilmente, se nel 1972darà il titolo a una commedia all’italianagirata da Luigi Comencini, con AlbertoSordi, Bette Davis e Silvana Mangano — el’americana vecchissima e maligna sivendica implicitamente di Soldati vin-cendo e mandando in rovina gli italiani.

Il libro che Mauro Tunno ha dedicatocon passione e affetto al gioco (Scoponearte antica, Priuli & Verlucca editori,pagg. 368, 19,90 euro) racconta curiositàstoriche e tecniche di gioco, rievocandoin ogni dettaglio partite con Michel Pla-tini, e giornalisti sportivi come SandroCiotti e Bruno Bernardi (che qui firma laprefazione), e reinfilando in una collanadi elogi del gioco perle come i pareri diGiosuè Carducci («Ditemi che non soscrivere versi, ma non mi dite che non sogiocare a scopone!»), del filologo Mana-ra Valgimigli («Logos, non tyche»; ovve-ro ragionamento, non caso o fortuna), diIndro Montanelli («Enzo Bettiza è ungiocatore di poker e con lo stesso azzar-do espresso nel gioco ribadisce le sueopinioni. Io sono invece un giocatore discopone scientifico e uso esporre le mieidee solo a seguito di debite considera-zioni»): mentre viene comprensibil-mente taciuta l’opinione di AntonioGramsci, che connette lo scopone alle«società arretrate economicamente, po-liticamente e spiritualmente».

La tattica del pariglio e dello spariglio,

STEFANO BARTEZZAGHI

Ugo La Malfa facevapiangere il nipotinobattendoloa “scopa a due”

GIANNI MURA

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La partita Mundial

i luoghiCittà politiche

Distano poche centinaia di metri, una sembra la tipicaabitazione inglese con tanto di giardino sul retro,l’altro un castello. I loro nomi sono famosi nel mondo:Downing street e Westminster, la residenzadel premier e il parlamento. Siamo andati a visitarlia due settimane dalle elezioni

ENRICO FRANCESCHINI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24 APRILE 2005

‘‘Winston Churchill“Io sono la carne. Ciò chevoglio da lei è che scacci

via le mosche”Il premier rivolto al suo

segretario personale, 1941

“Nessuno pretende chela democrazia sia perfetta.

In effetti è la formadi governo peggiore,a eccezione di tuttele altre sperimentate

fino ad ora”Discorso alla camera

dei Comuni, 1947

DLONDRA

istano poche centinaiadi metri, e non potreb-bero essere più diversi.Uno sembra la tipica ca-

setta inglese di città, due piani, can-celletto di ferro battuto, portoncinonero: un cubo di mattoni scuri, co-mignoli sul tetto, un’aria modesta,polverosa, fatiscente. L’altro vienetalvolta confuso con un castello (lofu) o una chiesa (quella che gli sorgeaccanto, che ha lo stesso nome). En-trambi, per opposti motivi, sono ina-deguati al ruolo che ricoprono, il pri-mo perché troppo piccolo, il secon-do perché troppo grande. Tutti, dalturista più sprovveduto a chi non hamai visitato Londra, ne conoscono inomi: Downing street e Westmin-ster. La residenza ufficiale del primoministro e il parlamento. I luoghi fi-sici che costituiscono la posta in pa-lio alle elezioni del cinque maggio.L’opinione dominante è che, dopo ilverdetto delle urne, non cambieran-no inquilino: Blair continuerà a oc-cupare Downing street, e il suo par-tito, il Labour, manterrà la maggio-ranza al parlamento di Westminster.Ma se l’esito del voto appare sconta-to, la storia dei due edifici che sim-

boleggiano il potere britannico, e incerta misura rappresentano la culladella democrazia moderna, non lo èaltrettanto.

I malumori di Cherie

«La casa sopra la bottega»: così CherieBlair definì l’appartamento riservatoal primo ministro e alla sua famiglia, al10 di Downing street. Era un terminedispregiativo da parte della first lady,che giudicava la nuova residenza «to-talmente inadeguata a una coppiacon tre figli piccoli» (nel frattempogliene è arrivato un quarto), ma comeespressione calzava a pennello. Nel1680, sir George Downing, avventuro-so aristocratico vissuto a lungo nellecolonie americane (fu il secondo alaurearsi alla neonata università diHarvard), acquistò un pezzetto di ter-ra nel cuore nobile di Londra, all’om-bra dei palazzi di Whitehall, e vi co-struì una schiera di case (oggi ne so-pravvivono quattro) in una stradasenza uscita. Nel 1732, morto Dow-ning e battezzato il vicolo col suo no-me, re Giorgio II assegnò la casetta alnumero 10 di Downing street a RobertWalpole, il primo premier del RegnoUnito. Ognuno dei suoi successori haabitato, e lavorato, lì dentro. In tre se-coli, l’edificio non ha subito grandimodifiche. L’austera facciata in mat-toni è la stessa del 1766 (e si vede).

L’interno fu rifatto nel 1825. Durantela seconda guerra mondiale, un paiodi bombardamenti danneggiarono ilprimo piano. Per il resto, la struttura èpiù o meno immutata.

Al pianterreno ci sono gli uffici delprimo ministro, della sua segreteria,di consiglieri e collaboratori. Al primopiano, le stanze di rappresentanza,per incontri, cene, ricevimenti, confe-renze stampa. Al secondo piano, la re-sidenza privata. C’è un giardinetto re-cintato, sul retro, come sogna ogni in-glese che si rispetti. Da fuori, l’aspettoè piuttosto deprimente: probabil-mente nessun capo di governo almondo, di certo in Occidente, ha unaresidenza tanto dimessa. In tal senso,Downing street è il perfetto esempiodi “understatement” inglese, la carat-teristica nazionale di sminuire, atte-nuare, ridurre: e dire che il primo mi-nistro risiedeva a Downing street an-che quando il British Empire era il piùgrande del mondo, allargandosi su unquarto della terra. Dentro, bisogna di-re, l’edificio è assai meglio, ma è co-munque uno spazio angusto, scomo-do, ristretto. Poiché è catalogato co-me monumento nazionale, purtrop-po non lo si può ampliare. Passi perWalpole, il premier del 1732, che locondivideva con una decina di servi-tori e funzionari; ma Margaret That-cher, nel 1979, ne aveva settanta; e

Blair, accusato di volere emulare laCasa Bianca di Clinton e Bush, ne hacentocinquanta. Ci stanno pigiati co-me in un sommergibile.

Ad accrescere il senso di claustrofo-bia ha contribuito il problema della si-curezza. Un tempo, un placido “bob-bie” disarmato passeggiava dinanzi alportone con il numero 10, per la gioiadei turisti che lo bersagliavano di scat-ti; a causa della minaccia terroristica,invece, da qualche anno una grandecancellata impedisce il passaggio al-l’angolo con Whitehall e poliziotti ar-mati di mitra pattugliano il vicolo 24ore su 24. I turisti devono acconten-tarsi di guardare da lontano, dietro lacancellata: sebbene una volpe — percombinazione nei giorni in cui Blairfece approvare il divieto di caccia — fufotografata l’autunno scorso mentresi pavoneggiava davanti al suo porto-ne di casa.

Ogni premier ha il suo stile, e Dow-ning street lo riflette. Il conservatoreEdward Heath e il laburista Wilsonamavano ritmi tranquilli: andavano aletto presto e si alzavano tardi, né vo-levano essere disturbati troppo dasvegli. La Thatcher, viceversa, dormi-va appena quattro ore per notte: co-stringendo il consigliere o segretariodi turno a farle compagnia fino a tardanotte, con un whisky, per ascoltare lesue tirate politiche nello studio al pri-

Londra, nella casa dellaIL NUMERO 10 DI DOWNING STREET IL PORTONE VISTO DALLA STANZA D’INGRESSO LA SCALA CHE CONDUCE AL PRIMO PIANO

L’ENTRATA PRINCIPALE DI WESTMINSTER LA GALLERIA REALE DELLA CAMERA DEI LORD PEERS STAIRCASE, LA SCALA DELLA CAMERA DEI LORD

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 24 APRILE 2005

‘‘Bernard Levin“Una volta,

quando un primoministro britannicostarnutiva, mezzomondo si buscava

il raffreddore.Oggi, quando il primo

ministro britannicostarnutisce,

non c’è nemmenoqualcuno che gli dica

salute!”

Giornalista parlamentare, 1976

mo piano. La prima novità introdottada Blair è stato un trasloco: visto chealla moglie Cherie non piaceva la «ca-sa sopra la bottega», il primo ministroha chiesto al suo vicino, il cancellieredello Scacchiere ossia ministro delleFinanze Gordon Brown, che ha comeresidenza ufficiale l’11 di Downingstreet, di far cambio, poiché casa suaera più grande. Brown, all’epoca an-cora scapolo, accettò.

Le due casette sono collegate da uncorridoio interno, servito dallo stes-so minuscolo ascensore: sicchè Blairs’alza ogni mattina alle sei, legge igiornali, sbriga la corrispondenza,consulta al telefono gli stretti consi-glieri, fa un bagno, e alle nove in pun-to scende in ascensore passandodall’11 al 10 di Downing street periniziare la giornata di lavoro. La me-desima routine, da otto anni: e po-trebbe continuare per altri quattro.«È un mestiere fantastico, goditelo»,scrisse nel ‘97 John Major, il prede-cessore da lui travolto alle urne, sulbigliettino che gli fece trovare sullascrivania, insieme a una bottiglia dichampagne. Il mattino seguente,quando Cherie aprì il portone per ri-cevere un mazzo di fiori e fu beccatadai paparazzi, spettinata, stralunatae in vestaglia dopo la prima notte aDowning street, i coniugi Blair nonne erano più così sicuri.

Se la residenza del primo ministrosi può paragonare a un soffocantesottomarino, il parlamento di West-minster è una corazzata in cui per-dersi. Ci sono dedali di stanze, pas-saggi segreti, scale a spirale, stranegallerie, misteriosi corridoi. Si rac-conta di deputati che, volendoesplorarlo sino in fondo, non sonopiù ricomparsi. È un labirinto, un al-veare di porte che si aprono su altreporte, finché all’improvviso un com-messo in calzamaglia e livrea nonsbarra il passaggio: di lì, per qualcheoscuro motivo, non si passa. «Ci sisente», raccontò un neoeletto al po-litologo Anthony Sampson, «comenovellini in un collegio, con il suo ce-rimoniale e i suoi precetti, col suosubstrato di antiche convenzioniche generano un complesso d’infe-riorità e di apprensione in chi neignora le regole. Perfino l’odore, l’o-dore di scale di pietra umida, fa veni-re in mente il collegio. Di vostro nonpossedete che un armadietto, pro-prio come in collegio. Non sapetedove si può e non si può andare; ave-te sempre timore d’infrangere qual-che norma, o di finire per sbaglio incasa dello Speaker (il presidente del-la camera dei Comuni, ndr), che aWestminster ha un barocco apparta-mento in cui soltanto pochi eletti so-no ammessi a prendere il tè». È uno

splendido posto, sostengono alcunisuoi colleghi, per giocare a nascon-dino, o per sottomettersi, anche invirtù degli eccentrici orari di lavoro,ai due vizi supremi della vita a West-minster: l’alcol e l’adulterio.

Le guglie e la torreCon le sue guglie neo-gotiche, sor-montato dalla torre del Big Ben, l’o-rologio diventato sinonimo di Lon-dra e dell’intera Gran Bretagna, ilparlamento viene spesso scambiatodai turisti per un castello, e vi somi-glia certamente di più di Buckin-gham Palace. Fu quella, del resto, lasua designazione originaria, quandonel 1042 Edoardo il Confessore eres-se il palazzo di Westminster, in riva alTamigi, sulle rovine di abbazie, forti-ficazioni e templi di secoli addietro,trasferendovi la residenza reale. Tut-ti i re successivi vi si stabilirono finoa Enrico VIII, nel 1529, e lì continua-rono a essere incoronati fino a Gior-gio IV, nel 1820. Dal 1544 vi si riuni-scono la camera dei Lord e poi anchequella dei Comuni, dove nel 1642Carlo I entrò per arrestare cinque de-putati ribelli, respinto con cortesiama fermezza dallo Speaker. Da allo-ra nessun sovrano ha più avuto ac-cesso ai Comuni: a tutt’oggi, quandola regina Elisabetta inaugura a ogninovembre le sedute del parlamento

in una solenne cerimonia, il GranCiambellano la accoglie con un in-chino, ma nella camera dei Lord.

Nell’aula dei Comuni, rivestita dipoltroncine di pelle verde, siedono ideputati eletti dal popolo; in quella deiLord, rivestita di pelle rossa, sedevano iPari del Regno, fino alla riforma di Blairche ha messo fine (eccetto che perun’esigua minoranza di seggi) al dirittoereditario, trasformandolo in nominea vita. Dal 1989 le sedute dei Comunisono trasmesse in televisione: unospettacolo di democrazia in diretta al-tamente istruttivo, che varrebbe la pe-na tradurre ed esportare, anche in altre— più esagitate — democrazie. Lo stileoratorio di Westminster, tuttavia, eragià un mito ben prima dell’arrivo dellativù. Senza torcersi un capello, chia-mandosi uno con l’altro «onorevolecollega», i deputati conducono duelli incui l’ironia è tagliente come una lama.L’elenco di battute indimenticabiliriempirebbe un libro, ma per averneun’idea basta citarne una telegrafica diChurchill. «È proprio obbligatorio ad-dormentarsi, mentre io parlo?», lo re-darguì un giorno un parlamentare av-versario, seccato che il premier seguis-se il suo interminabile discorso a capochino, braccia conserte e occhi chiusi.E il grande Winston, pronto, senzanemmeno riaprire gli occhi: «No, è pu-ramente facoltativo».

I PALAZZI DEL POTERE

Nel disegno qui a sinistra,Westminster e Downing streetnella mappa del centro di Londra.Sono i luoghi che ospitanoil parlamento (Camera dei Comunie Camera dei Lord) e il primo ministrodella Gran Bretagna

CABINET ROOM, LUOGO DELLE RIUNIONI PIÙ IMPORTANTI THE WHITE ROOM, LA STANZA PREFERITA DA WINSTON CHURCHILL

L’AULA DOVE SI SVOLGONO LE SEDUTE DEI LORD LA ROBING ROOM, LUOGO DI IMPORTANTI CERIMONIE LA PRINCE’S CHAMBER DELLA CAMERA DEI LORD

democrazia più antica

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Un viaggio da Tokyo a Pechino, dal museo della guerra al museo di storiamilitare, per guardare da vicino le due versioni del Novecento asiatico:i massacri e le atrocità delle spedizioni di conquista in Corea e Manciuria

negate dal revisionismo giapponese, le verità rimosse o addomesticate della leadershipcinese dalla Lunga marcia a Tienanmen. Un viaggio che chiarisce come il rapporto tra questipopoli non potrà essere normale finché non saranno capaci di leggere gli stessi libri di storia

AsiaLa memoriaspezzatadi Cina e Giappone

TTOKYO - PECHINO

okyo. Siamo in piena fiori-tura dei ciliegi e il parco delYasukuni Jinja è uno spetta-colo soave, un’armonia di

toni dal bianco al rosa pallido al rosa in-tenso. In questi giorni i giardini pubbli-ci sono la più squisita attrazione delGiappone, qui tra i visitatori si incro-ciano scolaresche ridenti, coppie di fi-danzati, turististranieri e perfinouna squadra di lot-tatori di sumo. Inmezzo al tripudiodegli alberi in fioreaffiora il tempioshintoista Yasuku-ni. È l’immaginedella sobria ele-ganza giapponese,un’architetturaleggera di legnochiaro, linee rette,tende di lino e ca-napa, il paralleloestetico di quel cheaccade al suo in-terno: riti discreti,essenziali, gestilenti e semplici,cerimonie sussur-rate che ispirano ilraccoglimento.

Si stenta a crede-re che questo è “il”tempio: quello chescatena passioni furiose, provoca ma-nifestazioni violente in Cina e in Corea,sconquassa le relazioni diplomatichetra il Giappone e i vicini asiatici. Da an-ni il premier giapponese Junichiro Koi-zumi viene qui a pregare in memoriadei soldati caduti. Vorrebbe che i suoipellegrinaggi fossero rispettati, comele visite che un presidente americano faal cimitero di Arlington, gli omaggifrancesi e italiani al milite ignoto. Ma aYasukuni si onora anche il ricordo digenerali condannati come criminaliper gli orrori commessi nel secondoconflitto mondiale. Per le vittime le vi-site di Koizumi equivalgono a un can-celliere tedesco che andasse ogni annoa pregare sulle tombe di Goering,Goebbels, Himmler e i capi delle Ss na-ziste. Molti giapponesi rifiutano que-sto paragone, e non riescono a vederelo scandalo. Takashina Shuji, professo-re emerito all’università di Tokyo, invi-ta lo straniero a capire la religiosità na-zionale: «Nel tempio Yasukuni non visono i resti dei morti, si rende omaggiosolo alla loro idea. E nella visione tradi-zionale giapponese i morti perdono laloro individualità, si fondono in un uni-co spirito collettivo degli antenati».

Tra la dolcezza dei ciliegi fioriti e laserenità dei riti shintoisti, il visitatoreoccidentale è tentato di credere a que-sta visione purificata e apolitica. Fino almomento in cui si imbatte in un altroedificio a poche decine di metri daltempio: il museo della guerra. Qui lafinzione si dissolve. Nell’atrio d’ingres-so si è accolti da un autentico caccia Ze-rosen, il celebre aereo dell’attacco aPearl Harbor, con un cartello che nevanta le prodezze. Prima dell’offensivacontro gli americani, spiega la didasca-

lia, «ebbe il battesimo di fuoco nel set-tembre 1940 in Cina sul cielo di Chong-qing: tutti gli aerei cinesi furono abbat-tuti, nessuna perdita fra i giapponesi,una vittoria perfetta».

Il museo vende bandiere imperiali,repliche di uniformi della secondaguerra mondiale. Il negozio dei souve-nir offre in bella vista i libri dell’estremadestra che esaltano l’espansionismogiapponese degli anni Trenta e Qua-ranta. C’è il best-seller tradotto anchein inglese The Alleged Nanking Massa-

cre, “Il presuntomassacro di Nan-chino”. Contestache quella stragenella città cinesesia mai avvenuta,ignorando ampietestimonianze diosservatori ancheoccidentali (inclu-so un celebre uo-mo d’affari tede-sco di simpatie na-ziste) che hannodocumentato lacarneficina di300mila personecompiuta dai giap-ponesi nell’inva-sione del 1937.

Lo stordimentoè totale. Siamo nelcentro di Tokyo,nel cuore della se-conda potenzaeconomica e tec-nologica mondia-

le, e sembra una visita a Predappio, maben più sinistra, se si pensa che questopaese soggiogò gran parte dell’Asia. Lasala dedicata alla Corea spiega che allafine dell’Ottocento quel paese è con-trollato dai cinesi, quindi minaccia lasicurezza del Giappone e va neutraliz-zato. Cioè invaso. La guerra sino-giap-ponese del 1894-95 è giustificata con leviolenze commesse dai cinesi contro

gli stranieri, mentre le truppe nipponi-che vittoriose occupano Pechino gua-dagnandosi la stima della popolazionelocale. Alla fine degli anni Venti si mol-tiplicano gli attacchi dei comunisti ci-nesi contro cittadini e imprese giappo-nesi in Manciuria, costringendo letruppe di Tokyo a intervenire per pro-teggerli. Il 1936 e il 1937 sono descritticome un susseguirsi di attentati terro-

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24 APRILE 2005

I CONFLITTI

1900

Il Giappone intervienecontro Pechino, a fiancodell’Occidente, per sedarela rivolta xenofoba enazionalista dei Boxer:Tokyo ottiene così ilriconoscimento dellegrandi potenze, mentre allaCina viene imposta unapesante indennità di guerra

1894

Scoppia la guerra tra Cinae Giappone per il controllodella Corea, fino ad allorarimasta sotto l’influenzacinese: lo scontro siconclude, nel 1895, con lasconfitta della Cina, checede ai giapponesi Taiwan,le isole Pescadores e lapenisola di Liao-tung

ristici perpetrati dai comunisti controla presenza giapponese, finché lo stes-so leader nazionalfascista cineseChiang Kai-shek si convince ad allearsicon il Giappone.

Se si inaugurasse un’esposizione nelcuore di Berlino per negare l’Olocaustoe giustificare l’invasione di mezza Eu-ropa, prima ancora delle protesteisraeliane francesi inglesi americanerusse e polacche, un simile museo sa-rebbe travolto dall’indignazione dei te-deschi: socialdemocratici, verdi, de-mocristiani eredi dell’antifascistaKonrad Adenauer. Ma il Giappone nonha mai fatto con il proprio passato unaresa dei conti paragonabile a quelladella Germania. Già nel 1948 il grandeintellettuale giapponese Masao Ma-ruyama fece un paragone spietato tra ilprocesso di Norimberga e il tribunalecontro i crimini di guerra nipponici,concludendo che l’élite politico-mili-tare di Tokyo si era comportata peggiodei tedeschi, rifiutando fino all’ultimodi assumersi delle responsabilità. IlGiappone visse la sconfitta come una

vergogna, non la guerra come una col-pa, e quell’ambiguità pesa ancora.

Sessant’anni dopo, il revisionismopenetra anche in ambienti colti e co-smopoliti. Un altro intellettuale giap-ponese, Kei Ushimura, ora è in auge peril suo saggio Oltre il giudizio di civiltà. Èuna reinterpretazione dei tribunali diguerra che ribalta le accuse contro gliamericani: nel 1948 secondo lui i diri-genti giapponesi non finirono sottoprocesso per le atrocità contro le nazio-ni occupate, ma perché avevano osatosfidare l’imperialismo occidentale, ildominio dell’uomo bianco sull’Asia.

In questi giorni la Corte suprema diTokyo ha respinto il ricorso dei pochicinesi sopravvissuti a un altro orrore: i“test” della famigerata Unità 731, il re-parto giapponese che nella Cina set-tentrionale sterminò 250mila civili persperimentare l’efficacia delle armi bat-teriologiche. Nei manuali scolastici re-visionisti intanto scompaiono le noti-zie delle “prigioniere sessuali”, decinedi migliaia di donne asiatiche ridotte inschiavitù nei bordelli per i soldati.

FEDERICO RAMPINI

L’atrio del museocelebra“il battesimodel fuocoe la vittoriaperfetta” nel cielodi Chongqingdel caccia Zerosen,il celebre aereodell’attaccoa Pearl Harbor

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Qui dentro tuttoè sovrumano:un grandioso Maodi marmo accantoalla sculturaciclopicadi una manoin granitoche impugnaun fucile sullo sfondodi una bandierarossa

All’uscita del museo passo a fianco atre vecchi in sedia a rotelle, immobilidavanti a un podio dove sono esibiticannoni e mitragliatori della secondaguerra mondiale. I tre anziani non tra-discono nessuna emozione, stanno lìcon lo sguardo perso nel vuoto, in si-lenzio, come inebetiti. Sembrano l’im-magine del loro Giappone, inchiodatodavanti a un passato senza ragione.

Pechino. A tre ore di volo da Tokyo,nella capitale cinese il museo di storiamilitare sul vialone Fuxing Lu è la piùspettacolare introduzione all’“altraversione” del Novecento asiatico. Èuna visita obbligata per capire come ilpartito comunista ha plasmato in mez-zo secolo l’identità di un miliardo e tre-cento milioni di cinesi, con il naziona-lismo come collante ideologico — or-mai l’unico — di una società in preda aun frenetico cambiamento. Le colonnedi pullman delle scuole medie sul piaz-zale, insieme con i gruppi di giovanisoldati in viaggio-premio, confermanoche l’aria “retrò” non deve ingannare: il

museo è tuttora frequentatissimo, unatappa nel curriculum scolastico e nel-l’educazione del buon patriota.

L’edificio è imponente e massiccio,stile Urss anni Cinquanta. Da lontanosi distingue la gigantesca stella rossasul tetto, e un’immensa statua cherappresenta un gruppo di soldati, ope-rai e contadini in posa marziale. Nel-l’atrio d’ingresso, che da solo potreb-be contenere una stazione ferroviaria,c’è un grandioso Mao di marmo.Un’altra scultura ciclopica rappre-senta una mano in granito che impu-gna un fucile, su sfondo di bandierarossa. Tutto qui dentro è sovrumano,ha dimensioni eccessive — saloni piùgrandi che a Versailles, soffitti da han-gar per Boeing, quadri e bassorilieviper cui non basterebbero le pareti delLouvre — quasi a rappresentare fisica-mente una visione eroica e titanicadella storia. Le spiegazioni, anchequelle tradotte in inglese ad uso del tu-rista straniero, sono fiumi straripantidi retorica. La pomposità fa sorrideresolo il visitatore occidentale, per i ci-

nesi è lo stesso linguaggio con cui par-lano di storia i manuali scolastici, lastampa e i tg.

Un salone illustra la tragedia del1894: «Vile e premeditata aggressionedei militaristi giapponesi. I patriotticisoldati e civili cinesi s’impegnarono aresistere fino alla morte» (fu in realtàuna tremenda sconfitta che precipitò ildeclino della Cina). Intere sale sono de-dicate al mito fondatore della legitti-mità maoista, la Lunga Marcia: la di-sperata impresa dei centomila parti-giani che Mao guidò dal 1934 al 1935per le montagne verso lo Shaanxi, dovearrivarono solo ottomila sopravvissutiagli stenti e ai combattimenti. Qui vie-ne rappresentata con un Mao alto,slanciato e bellissimo, dal sorriso ange-lico e sempre circondato da giovani edonne in armi; viene spiegata comeuna offensiva dei comunisti verso ilNord contro le truppe giapponesi d’oc-cupazione, mentre di fatto fu una fugasotto la pressione incalzante dell’eser-cito nazionalista del Kuomintang.

L’intero secondo piano è intitolato“La Guerra di Resistenza contro ilGiappone”, con un salone su cui cam-peggia la scritta “Selvaggi Atti di Ag-gressione delle Truppe Giapponesi inCina”. Il massacro di Nanchino è do-cumentato da cumuli di ossa, foto dicorpi nudi maciullati, di bambini mu-tilati. Il lieto fine arriva nel salone de-dicato alla “Vittoria Finale della Guer-ra di Resistenza contro il Giappone”.Lì si spiega che nel giugno del 1945 ilpartito comunista chiamò il popolo asollevarsi per cacciare le truppe di oc-cupazione. Gigantografie del territo-rio nazionale illustrate con selve difrecce rosse e blu indicano l’avanzataimplacabile dell’Esercito di Libera-zione Popolare e la ritirata dell’inva-sore. Qui il collasso della formidabilemacchina da guerra giapponese nontrova altre spiegazioni. Alle scolare-sche in visita non è svelato il misteroche fu l’America a sconfiggere il Giap-pone, liberando così la Cina oltre aCorea Indocina e Filippine.

Alle accuse cinesi contro il negazio-nismo dei nuovi manuali di storia “ma-de in Japan”, i giapponesi reagisconorinfacciando la malafede di Pechino. Ilregime comunista chiede prove di un«pentimento sincero» da Tokyo, e taceai suoi cittadini di avere incassato 3.300miliardi di yen di aiuti giapponesi. IlGiappone revisionista minimizza lesofferenze inflitte agli altri popoli del-l’Asia, però in nessun angolo del museomilitare di Pechino c’è traccia dell’ag-gressione che l’Esercito Popolare sca-tenò contro i “compagni” del Vietnamnel 1979, facendo migliaia di vittime tra

soldati e civili, per punire Hanoi di ave-re estromesso dalla Cambogia il san-guinario regime filo-cinese di Pol Pot.L’invasione del Tibet (1950) e l’attaccocontro l’India (1962) scompaiono nel-l’amnesia, per non contraddire la reto-rica sulla «pacifica ascesa» della Cina.

Di menzogna in omissione il più va-sto “buco nero” nella storia ufficialedella Cina sono i 40 milioni di vittimedel maoismo: tra i gulag e le carestie dimassa provocate dalla disastrosa po-litica del Grande balzo in avanti(1958-59), poi le persecuzioni dellaRivoluzione culturale (1966-75), il bi-lancio supera le vittime dell’occupa-zione giapponese (35 milioni di mor-ti). Non ve n’è traccia nei libri di testo,nei discorsi pubblici o nei musei. Per-fino quando ormai esistevano la Cnne i satelliti, la leadership cinese è riu-scita a coprire con il segreto di Stato ilbilancio della repressione militarecontro gli studenti nel 1989. Un medi-co dell’esercito ha rivolto inutilmenteuna lettera aperta ai capi del partitoperché pubblichino l’elenco dei mor-ti (centinaia? migliaia?) di Piazza Tie-nanmen. Eppure le famiglie di queglistudenti sanno. Anche i figli o i nipotidelle vittime degli anni Cinquanta eSessanta, nel loro intimo hanno cu-stodito qualche spezzone di ricordo.La memoria negata è un male che ilprogresso economico della Cina dioggi non basta a curare.

Il rapporto con il Giappone è tor-mentato dalle ambiguità. Un’altra pa-gina di storia avvolta nella reticenza èquella sul collaborazionismo cinese.Non ci fu solo il «tradimento del fasci-sta» Chiang Kai-shek che poi vennesconfitto dai comunisti e si rifugiò aTaiwan nel 1949. In realtà, ancor piùdei francesi con Pétain a Vichy, unaparte importante della élite cinese eracosì disgustata dalla caotica decaden-za del proprio paese che simpatizzòper il Giappone, moderno, efficiente edisciplinato. Molto più tardi, ancoraalla fine degli anni Settanta, quandoDeng Xiaoping avviò la Cina verso ilcapitalismo, il modello da emulareera il Giappone, l’unica nazione asia-tica ad aver raggiunto e superato laricchezza occidentale. Oggi i rapportisi sono invertiti, il Giappone decli-nante assiste con timore all’irresisti-bile rafforzamento della Cina. Il rap-porto tra le due potenze dell’EstremoOriente sembra maledetto: è come sel’una dovesse salire a scapito dell’al-tra. È un rapporto che non potrà esse-re normale finché i popoli dell’Asianon avranno ritrovato tutta la loromemoria, e saranno capaci di leggerefinalmente gli stessi libri di storia.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 24 APRILE 2005

1904

Il Giappone entra inconflitto con gli interessirussi in Asia: inizia così unaguerra che termina l’annodopo con una durasconfitta delle forze zariste.Il Giappone ottiene ilprotettorato su Corea,Manciuria meridionale e suparte dell’isola di Sakhalin

1914

Durante la prima guerramondiale, il Giapponeinterviene a fianco dellepotenze dell’Intesa conl’obiettivo di impadronirsidelle terre tedesche inCina: nel ‘15 i giapponesiconsegnano a Pechino le“21 domande”: la Cina è incondizione di vassallaggio

1919

In segno di protesta controil trattato di pace diVersailles, che assegna alGiappone i territoritedeschi in Asia,scoppiano in Cina unaserie di motiantigiapponesi: è il“Movimento del 4 maggio”che si diffonde nel paese

1931

Un gruppo di estremadestra provoca incidentinel sud della Manciuria,sotto il controllo delGiappone: l’armatagiapponese invade laManciuria instaurando ungoverno fantoccio. Nel1932 gli aerei nipponicibombardano Shanghai

1937

Dopo anni di ostilità difatto, scoppia una vera epropria guerra tra Cina eGiappone, destinata adurare 8 anni: i nipponicioccupano Pechino,risalgono la valle delloYangsi, conquistano il sud,Shanghai e Nanchino,creando governi fantoccio

BATTAGLIESopra, cerimoniadi soldatigiapponesidavanti al tempioYasukunia TokyoA sinistra,turistie scolarescheal museo di storiamilitaredi PechinoNella stampaa centro pagina,una battagliatra gli eserciticinesee giapponese

I PROTAGONISTI

Nelle foto, da sinistra, il primo ministrogiapponese Junichiro Koizumi e il presidentecinese Hu Jintao. Dopo le tensioni che nelleultime settimane si erano acuite ieri si sonoincontrati a Giakarta per dare inizio al disgelodelle relazioni fra i rispettivi paesi. I due leaderhanno concordato di risolvere in futuro i problemi diplomatici fra Cina e Giappone con il dialogo

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Il successo non è più eterno, le star si appannano sempre più in fretta,il pubblico chiede volti freschi. E così una nuova generazione di attorie attrici si sta rapidamente imponendo, candidandosi a diventare

padrona dell’industria del cinema. Sono gli under 30, giovani e belli, ambiziosi e decisi,corteggiati dai produttori e adorati dagli spettatori. Il futuro è nelle loro mani.Ma saranno capaci di costruirsi una fama all’altezza dei grandi miti del passato?

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24 APRILE 2005

Il disegno di una sala delle esecu-zioni con al centro una sedia elet-trica circondata da figurine nume-rate vestite da galeotti apparvequalche anno fa sull’edizione ame-ricana di Première. Nella didascalia

i numeri svelavano i nomi dei “condan-nati”, tra i quali Kathleen Turner, Jeff Da-niels, Jill Clayburgh, Val Kilmer, mentrealtri disegni mostravano altri gruppetti adistanze diverse dalla sedia secondo «ilgrado di giudizio in attesa della sentenzadefinitiva», come spiegava la didascalia, etra loro c’erano Kevin Costner, SylvesterStallone, Madonna, Cher, Ryan O’Neil,Demi Moore. I toni del disegno e dell’ar-ticolo erano scherzosi, ma alcuni dei per-sonaggi citati non apprezzarono.

Lo scherzo forse era esagerato, però ri-specchiava la realtà di Hollywood sul de-clino di personaggi che avevano vissutolampi di effimera gloria. Una realtà sem-pre attuale, anzi ancora più dura visto chei tempi del tramonto si fanno sempre piùstretti. Oggi è impossibile pensare che daHollywood emergano personaggi comeMarlon Brando, Marilyn Monroe, JamesDean, miti possenti, in grado di sopravvi-vere a se stessi. E poi dove sono quegli uo-mini e quelle donne che per decenni han-no rappresentato modelli di bellezza e dicomportamento per gli spettatori di tan-ta parte del mondo? Erano donne che fa-cevano sognare generazioni, con la sedu-zione ironica e implacabile di Mae West, ilfascino irresistibile di Rita Hayworth, il ri-chiamo della bionda morbidezza di JeanHarlow, di Grace Kelly, di Kim Novak, era-no uomini simbolo di brusca virilità comeClark Gable e Humphrey Bogart, o di av-volgente tenerezza come Gary Cooper oCary Grant. Pochi resistono, Sean Con-nery forse, che nessun altro eroe dell’av-ventura, né Harrison Ford né Pierce Bro-snan, ha scalzato nella fantasia popolare.

Lo star system creava i miti, li protegge-va dai media, soffocava pettegolezzi ecomportamenti che avrebbero potutoturbarne l’immagine, imponeva regoleprecise, a volte feroci. Negli anni Settantaè finito, spazzato via dall’affermazione deiregisti autori come Scorsese, Coppola, Lu-cas, Spielberg e dalla diffusione del cine-ma indipendente e ribelle alle regole degliStudios, cineasti che cercavano storie nel-la realtà quotidiana, i loro set erano le stra-de, gli interpreti avevano facce più comu-ni. I volti dello schermo erano quelli di per-sonaggi come Jack Nicholson, Robert DeNiro, Dustin Hoffman, Al Pacino, MerylStreep, Jodie Foster, Jessica Lange e tuttiquegli attori e attrici che cercavano non ildivismo ma la grande interpretazione.

Nello stesso tempo trattenere il suc-cesso per decenni è diventato semprepiù difficile, soprattutto da quando l’in-dustria ha scoperto che il box office di-pendeva in gran parte dal pubblico gio-vane e ha assunto come sacro principiola necessità di fare film per teenagers. AHollywood, insieme alla qualità dei pro-dotti, si è abbassata l’età degli interpreti,il cambio delle generazioni è diventatosempre più rapido. Per i cinquantenni di

Cruise a George Clooney. Ad incalzarli c’èun folto gruppo di under 30, ciascuno conuna storia e un percorso diverso, tutti uni-ti dallo stesso sogno del cinema e del suc-cesso e determinati a realizzarlo. Alcuni cisono già riusciti. A Scarlett Johansson peresempio sono bastati un paio di film daprotagonista, Lost in translation e La ra-gazza con l’orecchino di perla, per conqui-stare premi e copertine. È stata definita«colei che sostituirà Sharon Stone nel cuo-re di chi ama le bionde», e se pure non hala femminilità morbida dell’attrice di Ba-

sic istinct, la Johansson ha un vantaggio:non ha ancora compiuto 21 anni.

Natalie Portman di anni ne ha 25 e unacarriera di una ventina di titoli, a comin-ciare da Léon, in cui era una piccola orfa-na che voleva imparare il mestiere di kil-ler da Jean Reno. Nata a Gerusalemme,laureata ad Harvard, considera il 2005l’anno della notorietà internazionalecon il personaggio della spogliarellista inCloser e con i due film in uscita, il terzoepisodio di Guerre Stellari La vendettadei Sith (è Amidqala) e Free Zone, il film

dell’israeliano Amos Gitai inconcorso a Cannes.

Tra le etichette più frequenticon cui si identificano i giovaniattori, almeno all’inizio dellacarriera, c’è quella del sex sym-bol. È stata attribuita a MaggieGyllenhaal, newyorkese, 27 an-ni, grandi occhi, lo sguardo soloapparentemente soave, cono-sciuta finora per film come Se-cretary in cui si concedeva al-l’avvocato che l’aveva assuntacon giochi sadomaso tutt’altroche innocenti e Criminal dovementiva e tramava, partecipan-do attivamente ad un complot-to di dubbia moralità. Nel gene-re sexy rientra Ashton Kutcher,27 anni, finora noto soprattuttoperché fidanzato di Demi Moo-re e per The Butterfly Effect, unodei film della stagione più mas-sacrati dalla critica americana,ma pronto ad un salto di qualità

con Guess Who, il remake al contrario diIndovina chi viene a cena. Kutcher è il fi-danzato bianco che affronta i pregiudizidella famiglia di colore della ragazza. È unfilm molto atteso, sia perché l’originale èrimasto nella memoria del pubblico ame-ricano sia per il rischio di polemiche daparte degli afroamericani.

Con la sua faccia irregolare e gli enormiocchi nocciola e con la memoria dellaspaventosa bambina Wednesday che in-terpretava in La famiglia Addams, Chri-stina Ricci si è qualificata per i ruoli del-l’inquietudine e della paura, non a caso èprotagonista dell’horror di Wes CravenCursed. Una possibile concorrente è Sa-rah Michelle Gellar, protagonista di filmcome Buffy, l’ammazzavampiri e Thegrudge, un film del maestro dell’horrorgiapponese Takshi Shimizu. Al maschile,Elijah Wood, con la sua faccia stralunatae lo sguardo diretto giusto per l’impavidoFrodo de Il signore degli anelli, si avvicinaal genere e la conferma definitiva sarà trapoco, quando uscirà Sin city di Miller eRodriguez.

Se non c’è più lo star system, a Hol-lywood è però sempre viva la necessità dialimentare il sogno con la magia di un vol-to. La magia di Elizabeth Taylor per esem-pio. Inimitabile, anche se ogni tanto siparla della “nuova Liz”, di recente a pro-posito di Audrey Tautou. Il paragone è as-surdo, non c’è somiglianza, a conquista-re Hollywood è stato il sorriso di Amélie,la bizzarra ragazza, generosa ingenua eun po’ pazza, del fortunato film francese.Il segno dell’attenzione di Hollywood perla Tautou è nella decisione di affidare a lei,

KEIRA KNIGHTLEYVent’anni appena compiuti,ha esordito nel ’94 con “AVillage Affair”. I successi:“Sognando Beckham”, “Lamaledizione della primaluna” e “The Jacket”

ELIJAH WOODHa 24 anni e ha debuttatonel 1989 con “Ritorno alfuturo II”. È stato FrodoBaggins nella saga de “Ilsignore degli anelli” e sarànelle sale con “Sin City”

NATALIE PORTMANÈ nata a Gerusalemme il 9giugno ‘81. Esordio nel ‘94in “Léon”. Ha partecipatoagli episodi I, II e III di “StarWars”. Protagonista di“Garden State” e “Closer”

MAGGIE GYLLENHAALVentisette anni, debutta nel1992 in “Waterland,memorie d’amore”. Tra lesue apparizioni più note“The Secretary”, “TheCriminal” e “Donnie Darko”

KIRSTEN DUNSTA giorni compirà 23 anni.Ha esordito da bambina nel1989 in “New York Stories”.Ha girato, fra gli altri,“Ragazze nel pallone” e“Spider-Man” 1 e 2

KERRY WASHINGTONHa 28 anni e ha iniziato nel2000 con “Our Song”. Hapartecipato a “La macchiaumana”, poi il successo in“Ray”. La vedremo ne “Ifantastici quattro”

SCARLETT JOHANSSONHa 20 anni. Debutto nel ’94in “Genitori cercasi”. Famacon “Lost in translation” e “La ragazza con l’orecchinodi perla”. È attualmente nellesale con “In Good Company”

La posta in giocoè l’ereditàdi icone immortalicome Clark Gablee James Dean

Tutto il potere ai ventennioggi, se non hanno la mostruosa bravu-ra di Tom Hanks o di Denzel Washingtonoppure la capacità di reinventarsi nuovestagioni come John Travolta, ottenereruoli importanti non è facile.

Non sarà facile resistere neanche per iquarantenni, eppure è una generazioneche non solo ha interpretato il cinema piùinteressante degli anni Novanta, ma ha ri-trovato l’elemento estetico, ha impostosimboli di fascino, da Kim Basinger a JuliaRoberts, da Michelle Pfeiffer a Nicole Kid-man, da Brad Pitt a Johnny Depp, da Tom

Hollywood

DIVI DI IERI E DI OGGINelle foto, tre generazionidi divi a confronto: a sinistraClark Gable, morto il 13novembre 1960 all’etàdi 59 anni. Nella foto quisotto, Robert De Niro, 62anni. Sopra, Johnny Depp,che invece ha 42 anni

MARIA PIA FUSCO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 24 APRILE 2005

contro illustri concorrenti, il ruolo diSophie in Codice da Vinci, il film che RonHoward ha tratto dal best seller più letto ediscusso degli ultimi anni.

La ricerca della magia apre le porte diHollywood ad attori di ogni paese (Moni-ca Bellucci, l’ultima italiana) anche se ar-rivano dalla Cina e se sono belle come ZiyiZhang, amata dai maestri cinesi, daZhang Yimou (Hero) a Wong Kar Wai(2046), pronta ad un esordio americanograndioso, è la protagonista di Memorie

di una geisha, del quale già si parla comeuno dei sicuri candidati all’Oscar 2006.Magia e mercato — in gran parte della Ca-lifornia e degli Usa abita una nuova po-polazione di lingua spagnola — sono sta-ti il richiamo per Penelope Cruz e per An-tonio Banderas e lo sono per il messicanoDiego Luna, 24 anni, lanciato da Y tu ma-ma tambiene già nel cast di una decina difilm hollywoodiani, affiancato a TomCruise in Collateral, protagonista delprossimo, ennesimo, remake del Ritratto

di Dorian Gray. Tra tanti nuovi interpretie nuove facce ci sarà qualcuno con il de-stino della star? Improbabile, secondoLauren Bacall che di star system se ne in-tende: «Dietro una vera star c’è fatica, la-voro, fortuna, ma anche una dose di mi-stero. Gli attori di oggi si muovono, parla-no, si espongono troppo, non sannoneanche cos’è il mistero. L’unico che for-se ha ricevuto in dono il destino da star èLeonardo Di Caprio. Altri possono esserebellissimi, bravissimi, ma mai icone».

DA WILDE ALLE CROCIATE

Orlando Bloom, 28 anni, è nato aCanterbury. Ha esordito nel ’97in “Wilde”, poi ha interpretato itre film del ciclo de “Il signoredegli anelli”, “La maledizionedelle prima luna” e “Troy”. Èprotagonista de “Le Crociate”

l’intervista

Orlando Bloom, presto nelle sale con “Le Crociate”

LLOS ANGELES

egolas nella trilogia del Signore degli anelli, Paride inTroy, Will Hunter in La maledizione della prima luna,Balian di Ibelin nel nuovo Le Crociate, che in Italiauscirà il 6 maggio. I film in costume si addicono al gio-

vane Orlando Bloom, classe 1977. Inglese di Canterbury, sex sym-bol senza artifici, sarà presto sugli schermi anche in Elizabeth-town di Cameron Crowe, finalmente in set contemporaneo. Lecronache lo vogliono legato all’attrice americana Kate Bosworth.

Orlando, al tempo di La maledizione della prima luna di-ceva che Johnny Depp, la sua controparte in quel film, per leiera un mito. Lo è tuttora?

«Certo, e lo è per tutti gli attori della mia generazione. Chie-dete in giro: è l’attore modello. Lavorarci insieme per tuttiquei mesi è stata una lezione impagabile».

Depp le ha dato consigli?«Mi diceva: non correre mai appresso al denaro e ricordati

le ragioni per cui hai iniziato a recitare». Altri modelli professionali? «Paul Newman, la cui interpretazione in Lo spaccone ha ac-

ceso la fiamma della mia passione per la recitazione. Ammiromolto Marlon Brando e Daniel Day-Lewis. Ma anche gli atto-ri di strada che vedevo da ragazzino».

Da dove viene il suo nome, Orlando?«È il personaggio di Shakespeare in Così è se vi pare, che pia-

ceva tanto a mamma, e da Orlando Gibbons, compositore deldiciassettesimo secolo. No, non è per la città in Florida dove sitrova Disney World».

Lei ha una predilezione per i film in costume, per le gran-di storie del passato.

«Da piccolo ero un po’ dislessico e ho studiato malissimo ascuola. Non disdegno questi ruoli ma devo purtroppo am-mettere che è stata tutta una coincidenza.

Anche La maledizione della prima luna?È stato il produttore Jerry Bruckheimer, per il quale avevo

lavorato in Black Hawk Down di Ridley Scott, recitavo il pic-colo ruolo del marine che cade dall’elicottero all’inizio delblitz di Mogadiscio, a pensare a me per Will».

Ridley Scott si è ricordato di lei e l’ha dunque voluta perLe Crociate?

«Esatto, da cosa nasce cosa». Lei è il protagonista: Balian di Ibelin. Ce ne parla?«È un fabbro di Gerusalemme, che segue il padre, il cavalie-

re Goffredo di Ibelin, interpretato da Liam Neeson, e diventa asua volta cavaliere per difendere la sua città dagli invasori altempo delle prime crociate. Abbiamo girato in Spagna e nel de-serto del Marocco, un paese che adoro».

Si dice che lei sia uno spericolato, è vero? «Sì, mi considero un adrenalina-dipendente. Mi piacciono

gli sport estremi, paracadutismo, surfing, motocross. Ma ul-timamente mi sono un po’ calmato».

Cosa farebbe se non recitasse?«Scultura. A scuola era la materia in cui eccellevo, meglio

che negli studi teatrali. Mamma mi diceva sempre: continuaa scolpire, darling. È ancora convinta che un giorno sfonderò.Come scultore».

“Amiamo Brando e Newmanma il modello è Johnny Depp”

SILVIA BIZIO

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il corpoTerapie alternative

A 250 anni dalla nascita del tedesco Hahnemann, fondatore del metodo, nel nostro Paese continuaa diffondersi l’utilizzo di globuli, granuli e tintureper curarsi. Sono ormai undici milioni i pazienti che sirivolgono agli omeopati per risolvere problemi allergici,malattie croniche o per mantenersi in salute

ALESSANDRA RETICO

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24 APRILE 2005

OmeopatiaC’

èdottore che ti cura apezzi, come se il maleavesse a che fare conqualcosa di straniero ate, un intruso nel corpo.E c’è quello che ti acco-

glie intero, perché la sofferenza che pati-sci ti assomiglia. Una differenza non solotecnica tra allopatia e omeopatia, ma di vi-sione dell’essere umano. Da una parte loscopo è guarire, eliminando. Dall’altro lamalattia convivendo si trasforma lenta insalute. Similia similibus curentur dicevaSamuele Hahnemann, padre dell’omeo-patia moderna, recuperando un princi-pio ippocratico: le malattie possono esse-re curate con piccolissime dosi di sostan-ze che, ad alte dosi, provocano i sintomi

della malattia in individui sani. In breve,quello che fa male può anche guarire.

Terapia ma anche filosofia dell’esisten-za. Che attrae sempre più consensi in unasocietà che anestetizza il malessere colmito della buona forma: in Italia oltre un-dici milioni di persone, il 13% (nel ‘92 era-no un milione e mezzo), soprattutto don-ne, istruzione medio alta, vanno dai nostriottomila omeopati. In Europa il popolodei granuli conta 70 milioni di persone, nelmondo 200. La scienza respinge: apprez-zabile effetto placebo ma non di più inmancanza di prove provate. Interminabi-le il dibattito. Di recente il comitato dibioetica italiano, che ha bocciato meno diun anno fa tutte le medicine alternative,ha diffuso un documento in cui dice che ibambini non possono essere curati conl’omeopatia o altre terapie non conven-

zionali. Ma non la pensano così tutti i ge-nitori: risulta che al 19,6% dei piccoli ven-gono somministrati i rimedi.

Ancora: alla commissione Affari socialidella Camera si discute da anni un disegnodi legge per inserire l’insegnamento dellemedicine alternative nel curriculum distudi dei futuri medici. Il Gruppo 2003, cheraduna 50 scienziati italiani citatissimi dal-la letteratura internazionale, alza barrica-te: per nessuna delle “alternative” c’è pro-va certa. Una crociata che neanche l’Orga-nizzazione mondiale della sanità si sentedi perseguire: non è tutto effetto placebo eper alcune patologie funziona (le allergie,per esempio) dice l’Oms. E infatti in pri-mavera — che arriva portando insieme abatticuori allergie varie per un italiano sutre — molti scelgono l’omeopatia per cu-rarsi. E ai granuli sempre più si ricorre per

mal di gola e raffreddore, problemi ga-strointestinali, ansia, nervosismo.

Quelli che possono permetterselo ver-rebbe da dire facendo due conti. In Fran-cia, sede dei giganti dell’industria farma-co-omeopatica, Boiron e Dolisos, paghi1.80 euro una confezione, per esempio, diArnica. Da noi per lo stesso prodotto 5 eu-ro, il 180% in più. Perché? Il Ssn franceserimborsa il 35%. Noi no. Costa importaree distribuire, l’Iva qui è 5 volte più pesan-te. In farmacia i consumi dei rimedi tocca-no i 290 milioni. Dalle tasche dei pazientiper una cura medica omeopatica delladurata di circa due mesi escono dai 30 ai120 euro. Ma i costi lievitano perché sulmercato ci sono medicinali definiti omeo-patici ma privi delle caratteristiche perdirli tali, innanzitutto la sperimentazionesu uomo sano.

L’idea è curareusandopiccolissime dosidi quelle sostanzeche provocanoi sintomidella malattiain individui sani

DAPHNE MEZEREUMDella famiglia delleTimelacee, è detta anchefior di stecco. Manifestaun’attività soprattuttosu cute (prurito), mucose(bruciori) e ossa(nevralgie). Utilizzataper l’eczema e la sinusitemascellare

ANEMONE PULSATILLADella famiglia delleRanuncolacee, dettoanche “fiore di Pasqua”per la sua stagionalitàIl rimedio è indicato permanifestazioni catarralidelle prime vie aeree,congestioni venosee disturbi digestivi

ACONITUM NAPELLUSDella famiglia delleRanuncolacee, crescenei luoghi umidi emontagnosi. Il nomederiva da Aconis cittàdell’Asia minore. È usatoper la febbre elevataimprovvisa, le nevralgiee i disturbi vasomotori

LA LEGGE DEI SIMILI

L’omeopatia si basa sul principiodi cura delle malattie attraversosomministrazione di unasostanza, farmacologicamenteattiva, in grado di produrre nellapersona sana gli stessi sintomiche presenta il paziente. Questoprincipio è noto come “principiodei simili”. Fu il medico tedescoS. F. Hahnemann (1755–1843) a coniare il termine omeopatiadalle due parole greche omoios(simile) e patos (malattia) e aformularne i principi. In omeopatiala malattia viene vista come ilrisultato delle attività di autodifesadell’organismo che vannopotenziate e non soppresse

SULFURICANormolineo o inferiore alla media,tozzo e tendente al grasso, dotatodi forte sviluppo muscolare; facciaquadrata, capelli scarsi, occhi piccoli,naso convesso e grosso, collo taurino,torace largo, arti corti. Ha una granderesistenza allo sforzo e fameeccessiva, teme il caldo. Tende amalattie infettive acute e a suppurazionia livello respiratorio, infartoipertensione, angina pectoris, edemapolmonare, allergie

FOSFORICAMagro, longilineo, con peso spessoinferiore alla media. Viso di formatriangolare, fronte spaziosa; dentistretti e lunghi, capelli abbondanti macalvizie precoce, naso affilato aduncino, collo lungo e sottile, toracestretto, spalle cadenti, addomeincavato, arti lunghi. I suoi movimentisono armonici e rapidi, si stanca marecupera facilmente. Ipersensibilee stravagante. Ha un’intelligenza“astratta”, dotato di immaginazione.Soggetto a paramorfismi della colonna(scoliosi, cifosi, lordosi), ipertiroidismo,ipotensione, malattie nervose

LE TRE COSTITUZIONI

CARBONICAIl “soggetto carbonico” è brevilineocon tendenza a svilupparsi più inlarghezza che in altezza. Ha pesosuperiore alla media. Viso quadro otondo, denti larghi, mani tozze,occhi poco vivi, naso concavo,collo grosso e corto, toracesvasato alla base, addome globoso,muscoli ipotonici, genitali ipoplasici.Metodico e freddoloso, ma suda appenasi muove; si stanca facilmente, ordinato,non ama parlare molto. È soggetto apatologie tipo gotta, diabete, artrosi

Il boom della medicina su misura

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 24 APRILE 2005

Duecentocinquanta anni fa, il 10 Aprile del1755, nasceva in Sassonia, nella piccola cit-tadina di Meissen, Samuele Hahnemann,

fondatore della medicina omeopatica. Quest’uo-mo, certamente segnato da Dio, riscoprì in campomedico, con intuito eccelso, quel principio già for-mulato oltre duemila anni or sono dal veggente diCoo, Ippocrate, quando enunciò il famoso similasimilibus curentur, i simili si curino con i simili.

Hahnemann sin dalla sua fanciullezza desideròconoscere tutto ciò che poteva arricchire l’uomonel suo continuo divenire persona umana unica eirripetibile. Nutrendo la sua intelligenza alla co-noscenza del “bello intellettuale”, trovò sostegnonella madre, che, vedendo in lui un figliolo dotato,lo condusse, anche di nascosto dal padre, a dive-nire studente liceale e poi medico. A dodici anni in-segnava, su incarico dei suoi maestri, le lingue an-tiche del latino e del greco. All’età di ventidue annigià conosceva alla perfezione l’inglese, l’italiano, ilfrancese, lo spagnolo, l’ebraico, il siriano, l’araboed in parte il caldeo. Fu questo per lui un meravi-glioso tesoro di conoscenze che gli consentì di vi-vere una vita degna, quando, diventato medico epadre di una numerosa famiglia, ebbe il coraggiodi compiere, direi, il più eroico atto di intelligenzae di cuore dicendo, con forza e dignità, ai suoi giànumerosi pazienti: «Andatevene a casa, perchécome medico io non vi conosco e conosco ancormeno le sostanze con cui vi curo». Povertà e sacri-ficio furono allora le sue prove.

Ma il giorno bello doveva sorgere e come direb-be padre Dante, parva favilla gran fiamma secon-da. Nel tradurre un libro di materia medica delCullen, famoso farmacologo dell’epoca, si sof-fermò sul capitolo della China, farmaco nuovo inoccidente nella cura della malaria. Da profondoconoscitore della chimica egli studiò attentamen-te l’argomento, interessato in particolare alla si-militudine tra la febbre malarica e le febbri inter-mittenti a cui andavano incontro gli addetti alla la-vorazione della corteccia di China. Provò su séstesso il medicinale e verificati gli stessi effetti feb-brili dopo averlo diluito e dinamizzato, esclamòdentro di sé: «Qui si racchiude la legge di Ippocra-te, similia similibus curentur». Dal continuo espe-rimento farmacologico su uomo sano e dallo stu-dio dei dati da esso ricavati alla luce della metodo-logia dell’observatio et ratio, Hahnemann derivò,così, i principi fondamentali dell’omeopatia, fis-sandoli in modo indelebile nell’Organon dell’Artedi Guarire.

Questa è in sintesi la storia della nascita dell’o-meopatia. Una medicina neoippocratica che daoltre due secoli viene praticata in ambito clinico-medico con serietà etica e scientifica, da mediciesperti nello studio individualizzato dell’uomo.Una medicina della personalizzazione del mala-to, sia nella diagnosi che nella terapia, ponendosempre in rilievo, in ogni situazione clinica, l’u-nicità e l’irripetibilità dei personali processi fisio-patologici.

L’omeopatia fa parte del tronco annoso di quel-la medicina che definirei eterna e la cui storia sisviluppa intorno al nodo gordiano dell’uomo chesoffre. Hahnemann precorse le moderne scoper-te del meraviglioso mondo atomico-fisico, rico-nobbe il valore sintropico dei processi vitali ed in-segnò con rigore scientifico la ultra-diluizione di-namizzata del rimedio, condannando ogni com-plessismo o pluralismo terapeutico, sicuro di po-ter guarire il malato con la prescrizione del rime-dio unico capace di convibrare con l’unitariarealtà del malato. In questo sta la ragione del-l’ampio sviluppo dell’omeopatia nel mondo, nonultima l’Italia.

Ma in questa nostra epoca di grandi cambia-menti ed incertezze, tocca al medico omeopaticopuro, formato a raccogliere la ricca eredità scien-tifica hahnemanniana, denunciare anche i rischidi una omeopatia falsa e bugiarda che avanza. Es-sa utilizza, chiamandoli “omeopatici”, farmaciche, pur diluiti e dinamizzati, non sono mai statisperimentati su uomo sano e che per ciò non so-no la dimostrazione scientifica della vera realtàomeopatica. Di fronte al dato di oltre 11 milioni dicosiddetti pazienti omeopatici in Italia, c’è da do-mandarsi: è omeopatia seria? Mai come oggi ri-suona nelle menti dei veri omeopatici il monitodell’illustre clinico statunitense J.T. Kent, quandonel 1900 scrisse: «L’omeopatia è oggi largamentediffusa nel mondo, ma strano a dirsi, la sua dottri-na non è mai stata tanto malintesa dai mediciquanto dai suoi cosiddetti discepoli».

Rispettare i dettami della vera omeopatia signi-fica rispettare innanzi tutto i malati e corrispon-dere a quanto lo stesso Hahnemann scrisse in unanota dell’Organon: «...Fino a che un giorno lo Sta-to, a raggiunta comprensione della indispensabi-lità delle medicine omeopatiche preparate allaperfezione, le lascerà approntare tramite una per-sona idonea e imparziale, per lasciarle consegna-re gratuitamente ai medici omeopatici, affinché ilmedico possa darli senza pagamento ai suoi ma-lati, ricchi e poveri».

L’autore è presidente della Scuola Italiana diMedicina Omeopatica Hahnemanniana

(S.I.M.O.H.)

Un unico rimedioper un malato unico

L’intuizione di Hahnemann

ANTONIO NEGRO

ATROPA BELLADONNADella famiglia delleSolanacee, il suo nomericorda l’uso da partedelle dame delRinascimento. Indicatanella febbre, nellefaringiti, nella cefalea

Sono le sostanze vegetali,animali, minerali o chimicheutilizzate per la produzione deimedicamenti omeopatici

50mila

È il tempo che occorre perrealizzare una tintura madre12 invece i giorni perfabbricare un globulo

21giorni

Tanti sono gli italiani che sicurano omeopaticamente,una fetta consistente ècostituita da bambini

11milioni

HYPERICUM PERFORATUMDella famiglia delleIpericacee, è noto come“scaccia diavoli” perchéusato negli esorcismi. Èindicato per nevralgie diorigine non traumatica,ferite da punta, cicatrici,dolori post-chirurgici

I RIMEDI

Origine vegetaleL'omeopatia fa uso per le sue preparazionidi piante selvatiche fresche, raccolte nelloro habitat nel momento di maggiorricchezza di principi attivi. Esistonominuziose farmacopee omeopatiche doveè codificato il periodo, il clima e il terrenonel quale la pianta deve essere raccolta

Origine animaleIl regno animale entra a pieno titolonell’omeopatia attraverso i rimedi preparati,mediante macerazione alcolica, a partire daprincipi tratti da insetti, veleni, escreti e secretidi serpenti e componenti di altre specie.La tintura madre animale deve corrispondere a20 volte il peso della sostanza utilizzata

Origine mineralePer la preparazione dei rimedi omeopaticisi utilizzano anche metalli, metalloidi, salie minerali complessi.La loro azionesperimentale e terapeutica risulta piuttostolenta ma duratura e profonda.Moltidei rimedi costituzionali appartengonoa questo gruppo

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i saporiGolosità contadine

Il nostro artigianato norcino ha conquistatoi palati più esigenti con produzioni “integre”. Salsicce,lonze e soppressate perfette che saranno in degustazionea Cagli il prossimo weekend. La kermesse peri buongustai si replicherà tra quindici giorni in AltoAdige dove sarà di scena il tradizionalissimo speck

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 24 APRILE 2005

SalumiG

ià il nome vale ilviaggio: “Distintisalumi”. Il sottotito-lo potrebbe essere:“Tutto quello cheavreste voluto sape-

re su salsicce & co. e non avete maiosato chiedere”. Nel prossimo finesettimana, infatti, Cagli — comu-ne marchigiano di 10.000 abitantia metà strada fra Gubbio e Urbino— ospita la prima edizione di unatre giorni a dir poco golosa, perchémonodedicata all’artigianatonorcino (informazioni su www.distintisalumi. it). Il tutto con lozampino — dato l’argomento, sa-rebbe più consono l’accrescitivo— dello Slow Food, ormai forgia-tissimo nell’organizzazione dimanifestazioni etico-gourmand.

Se qualcuno ha mai fatto l’espe-rienza mistica di “Cheese” — la su-perfiera di Bra dedicata ai formag-gi con cadenza biennale, in pro-gramma quest’anno dal 19 al 22settembre — può ben immagina-re presente e so-prattutto futurodi un evento in-teramente vota-to alle produzio-ni suine.

Perché nessu-no quanto gli ita-liani ha nel pro-prio Dna il piace-re e la cultura deisalumi: non a ca-so, il panino consalame è cele-brato come lamerenda piùbuona del piane-ta. Certo, i dieto-logi non posso-no sponsoriz-zarlo tout court:il colesterolo in-combe, le speziedisturbano, lacarne di maialefa storcere il na-so. Ma se è veroche è l’eccesso anuocere, più delsingolo alimen-to, non sarà unsandwich benimbottito unatantum a farci appesantire il fega-to.

Il prosciutto crudo merita un di-scorso a parte. Nobile, nobilissi-mo, dalla scelta della materia pri-ma al luogo e alla durata della sta-gionatura, è da tempo collocato inuna nicchia bipolare — Parma eSan Daniele — con feste, convegnie disciplinari a sé stanti. Né le altreproduzioni certificate — Modena,Veneto Berico-Euganeo, Carpe-gna, Toscano, Norcia — sembra-no poter scalfire un duopolio in-ternazionalmente riconosciuto,pur con qualche scricchiolio do-vuto in parte a disciplinari che sivorrebbero più rigorosi e in partealla poderosa avanzata delle pro-duzioni spagnole.

Ai prosciutti, e ai salumi “altri”— ovvero quelli realizzati a partireda carni di oca, capra, pecora,struzzo — saranno garantite quel-le che in linguaggio tennistico so-no battezzate wild card: ospiti gra-diti, insomma, ma marginali ri-spetto ai veri protagonisti, consi-derati (a torto) dei parenti poveri:soppressate e salsicce, mortadellee sanguinacci, giù giù fino alla ven-tricina e alla salama da sugo, verocibo-culto della cucina ferrarese.

Se il Montefeltro è terra storica-mente vocata per la norcineria,anche in Alto Adige non scherza-no. Così, in un’ideale staffetta go-losa, dal 13 al 16 maggio Bolzanoospiterà la Speck Fest (www.speckfest. it). Anche qui, protago-nista un salume di tradizione con-solidata e fama meritata, cheuscirà non solo idealmente dallimbo della stagionatura (sei mesi)per il debutto sul mercato.

A Cagli come a Bolzano, insiemeai salumi, per una volta, saliranno

in passerella iproduttori. Chein molti casi sonosemplicementecontadini coc-ciuti e artigianiconvinti di nonaver sbagliatomestiere, norci-nai da generazio-ni e figli della cittàriconvertiti allacampagna.

Tutta gentemeritevole. Per-ché scegliere diallevare razze au-toctone, menofacili da gestire —pensate alla dif-ferenza tra unastalla chiusa e unpezzo di boscopiù o meno re-cintato — e piùdifficili da lavora-re — carni mu-scolose, o al con-trario con unabella quota digrasso, garanziadi inebriantemorbidezza del-

la parte magra — richiede una bel-la determinazione. Senza contarel’integrità delle tecniche di lavora-zione: niente conce (il mix di aro-mi con cui impastare la carne) in-dustriali, niente coloranti chimici,niente muffe aggiunte ad arte pervelocizzare la stagionatura.

Per fortuna, supportati da qual-che consorzio “verace” e dai presì-di di Slow Food, norcini temerariesistono e resistono, Con i risulta-ti che sappiamo: salumi fuori daicircuiti dell’alimentazione massi-ficata, sani, appetitosi, saporitissi-mi. Da affettare con un coltello a la-ma seghettata, afferrare con le ma-ni per farcire un panino morbido.Quando lo addenterete, il mondovi sembrerà migliore.

Viaggio italianonei segreti del maiale

SALAME

DI TROTA

Tipico delCuneese, si ottiene daifiletti di trota salmonatadi acque di montagnamessi in salamoia peralcuni giorni, insaccati inun budello e affumicati afuoco caldo. Dal saporeparticolare

SALAME

DI STRUZZO

La prerogativadella carne di struzzoè il basso tenore dicolesterolo. Da qui, lapreparazione di salumialternativi, perfettinelle diete poveredi grassi e per soggettiintolleranti al suino

SALAME

D’OCA

Carne magrae pelle dell’oca tagliatea coltello e insaccateutilizzando la pelle delcollo cucita a manoinsieme a sale espezie. Quello d’ocaecumenico è il vero“salame kasher”

Le tonnellatedella produzionedi salumi in Italia

1,148mln

Testa in cassetta di Gavi Inventata per recuperare le partidel maiale rimaste dopola lavorazione dei salumi nobili,è stata ingentilita negli annicon l'aggiunta di vari taglibovini. I piccoli pezzi di carnesono mischiati a una conciadi spezie, infilati nel budellodi manzoe pressati

Lardo di Colonnata Il grasso di maiali selezionati.Viene tagliato a parallelepipedoe massaggiato con sale, pepe,rosmarino, aglio fresco (piùspezie a piacere, purchénaturali). È impilato per lastagionatura nelleconche dimarmoalmeno seimesi

Biroldo della GarfagnanaUn sanguinaccio ottenuto dallevarie parti della testa del maiale,bollite per tre ore, disossate,impastate con spezie d’Orientee tradizionali toscane e un pocodi sangue, poi cotto per altre treore e pressato. Simangia tagliatosottilecon il panedi castagne

LICIA GRANELLO

Salama da sugo Un salume di Ferrara: difficileda preparare e complessoal palato. Fatto con diverse partidel maiale macinate con speziee vino rosso. La carneè insaccata, legata e stagionatafino a due anni. Bollita in unatasca di lino, si serve con purèedi zucca o patate

‘‘Emile ZolaLisa gli apparve

al di sopra dei cibisul banco. Davantia lei erano esposti,

in piatti di porcellanabianca, i salami

di Arles e di Lione giàintaccati, le lingue e i salsicciotti lessi,una testa di maiale

affogata nella gelatinaDa IL VENTRE DI PARIGI

Lucanica trentinaÈ un macinato a base di carnemagra e lardo di maiale,addizionato di aglio, salee pepe, insaccato nel budelloin file lunghe fino a quattrometri, legate in salaminidi 10, 15 cm. Si consumasia fresca che stagionata. Ognivallata trentinaha la sua ricetta

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 24 APRILE 2005

Una razza salvatadall’estinzione, la MoraRomagnola, dà risultatieccellenti nella produzionedei salumi più pregiati,Culatello in primis. Occhi amandorla, mantello scuro ezanne lunghe, carni morbidee saporite.

DOVE DORMIRE

ALBERGO CAPPELLOVia IV Novembre 41 Tel. 0544-219813.Camera doppia da 110 euro.

DOVE MANGIARE

ANTICA TRATTORIA AL GALLO 1909Via Maggiore 87 - Tel. 0544-213775. Chiusodomenica sera, lunedì e martedì, menù da 30 euro.

DOVE COMPRARE

LE DELIZIE DEL BUONGUSTAIOVia Foro Boario 33, Lugo - Tel. 0545-31602

Ravenna

Ventricina del VasteseIl colore aranciato derivadall’aggiunta di polvere di peperone dolce ai dadini di carne pregiata di maiali locali.La stagionatura dura anche ottomesi, l’insaccatura in vescicasciacquata con acqua allearancecomunicaun frescoprofumoagrumato

Il consumo annuopro capite di salumie insaccati

È la produzione, intonnellate, di prosciuttocotto, leader dei salumi

285mila

Salame di FabrianoUn salame nobilissimo, perché fatto con la carne del prosciutto, coscia e spalla,insieme a dadini di lardodi schiena, preferibilmenteda maiali pesanti (quasi duequintali). L’asciugatura avvienesopra il camino, la stagionaturadura due mesi

Salame casalìn Due ricette concorrenti agli opposti della provinciamantovana, tra chi utilizza tuttoil meglio del maiale, prosciuttoe culatello compresi, e chisi accontenta di una selezionemeno nobile. La pasta ècomunque soda, morbida eprofumatissima

EmanuelaStucchiPrinetti è unadelle più bravevignaioleitaliane. Vive

a Badia a Coltibuono,nel comune di Gaiole,dove produce ChiantiClassico ed olioextravergine con i metodidella biodinamica.Èautricedi libri di cucina

Il parco naturale dell’areamontana tra le province diMessina, Enna e Catania,punteggiato di faggi equerce, è l’habitat ideale del“suino nero dei Nebrodi”. Ditaglia piccola, le carnireggono lunghestagionature

DOVE DORMIRE

SCILLA E CARIDDI B&BViale Annunziata C/da CitolaTel. 090-357849. Camera doppia da 70 euro

DOVE MANGIARE

HOSTERIA ETNEAVia Cannizzaro 155 - Tel. 090-718040. Chiusodomenica sera e lunedì a pranzo, menù da 20 euro

DOVE COMPRARE

SALUMERIA FRANCESCO DODDIS Via Garibaldi 317 - Tel. 090-40257

MessinaIn tutta la provincia sialleva, allo statosemibrado, una razza-cultodella norcineria: la “cintasenese”, chiamata così perla fascia chiara che necinge il torace. Si ciba dierbe e ghiande, ha carnesaporita, profumata.

DOVE DORMIRE

IL GIARDINO Via Peruzzi 33 - Tel. 0577-28529.Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

TRATTORIA PAPEIPiazza del Mercato 6Tel. 0577-280894. Chiuso lunedì, menù da 25 euro.

DOVE COMPRARE

PIZZICHERIA MORBIDIVia Banchi di sopra 75 - Tel. 0577-280268

Sienaitinerari

PROSCIUTTO

DI PECORA

L’idea è nata 20anni fa in Sardegna, laricetta ricalca quella deiprosciutti di maiale(mondatura della coscia,salatura in asciutto,asciugatura all’aria aperta)ma a partire da pecorelocali. Il gusto è netto

Uno su cinque. Delle trecentoventisette specialitàcensite nell’Atlante de “I salumi”, testé ristampato daAgra-RaiEri, quasi settanta sfuggono alla cinghial-

suineria. Si tratta di bovini o di equini, di volatili o di ovica-prini. O di selvatici, visto che la bresaola più autentica è quel-la di cervo, con la sua radice bhre che ritroviamo puntual-mente anche nel nome della città di Brindisi, la quale ha, ap-punto, per emblema, quel gentile portatore di corna.

L’oca è lo storico contraltare del maiale, colpito daltabù che lo vieta ad ebrei e musulmani. Ma un contralta-re che ne è, insieme, l’ultima frontiera: una fonte di ispi-razione, un metro per giudicare la bontà dei succedanei.Salami di puro palmipede — ma anche prosciuttini, pet-ti, speck e persino ciccioli — furono approntati per dimo-strare ai figli di Mosè che la rinuncia al suino non era poicosì tragica. Ancora oggi una piccola cittadina lombarda,Mortara, un tempo sede di comunità israelitica produceun salame di pura oca, definito ecumenico perché offer-to alle bocche di ogni religione monoteista. A nome di Ve-nezia e Trieste, altri centri di vivacità ebraica, Pordenonerisponde con un salame di nonna Sara. Ed anche con un“porcaloca” che ribadisce il modello da perseguire.

Accanto all’oca la pecora. E la capra. Fino a qual pun-to il maiale continui a rappresentare la meta a cui ten-dono i produttori di insaccati ovicaprini è abbondante-mente sottolineato dalle salamelle di tratturo prodotteda Nunzio Marcelli ad Anversa degli Abruzzi, il paese do-ve D’Annunzio ambientò La fiaccola sotto il moggio. Aiconcorsi di degustazione le salamelle ottengono un pie-no diploma di maialeria.

Ben diversa l’esperienza sarda di Antonello e Miche-langelo Salis con “La genuina” della loro Ploaghe, dovela Cna ha tenuto una importante assise per il rilancio del-la salumeria isolana. Essi non nascondono, esaltano an-zi, l’odore un po’ ferino della materia prima che la loroarte trasforma in profumo. La salamella del tratturo di-ce che con la pecora si possono fare cose stupende. Lalezione di Ploaghe, invece, è che ad essere stupenda è lapecora: o magari la capra se qualcosa deve essere con-cessa alla gentilezza. Questo diverso atteggiamento di-pende dal diverso retroterra economico. L’ultimo cen-simento agricolo, quello del 2000, attribuisce nemmenotrecentomila ovicaprini all’Abruzzo, oltre tre milioni al-la Sardegna. Sono dunque i milioni di capi sardi a tra-durre l’economia in ideologia e l’ideologia in sapore. Laquantità tende a farsi qualità, diceva Marx.

Antichi succedanei si mescolano ai nuovissimi. Di unsalame di mulo, venduto in borsa nera, parla già Procopioa proposito dell’assedio di Roma da parte dei Goti, allametà del secolo VI. Anticipo di quella salumeria equinacosì diffusa tra Genova e la laguna di Venezia, dove ha percapitale Saonara. Ma la tendenza all’innovazione è sor-prendente. Gli struzzi hanno fatto appena in tempo ad es-sere rilevati dal censimento e già si sono fatti salami. In lo-ro onore si celebrano sagre. Dissero di San Cipriano, elet-to vescovo di Cartagine da semplice neofita, che «la treb-biatura prevenne la semina». Lo struzzo è dunque il SanCipriano dei salumi.

L’autore è presidente dell’Istituto Nazionaledi Sociologia Rurale

Oca, pecora, struzzo per aggirare i divieti

Sono quasi settanta gli insaccati, vecchi e nuovi, prodotti senza carni suine

CORRADO BARBERIS

Soppressata di GioiSi sminuzzano le carni nobili del maiale, si aggiungono salee pepe, si lascia riposare unanotte. Al momento di insaccare,nel budello si infila un filettodi lardo, per mantenerela morbidezza durante il tempodella leggera affumicatura

Capocollo di Martina Franca Si utilizza la parte del maiale tracollo e costata, macerata sottosale per due, tre settimane, poilavata con vino cotto speziato,asciugata in panni sopra le assie affumicata delicatamente concorteccia di fragno. Il salume siconsuma al meglio dopo alcunesettimane

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l’incontroMiti della musica

GIUSEPPE VIDETTI

PMILANO

rima di lui, il Ramazzotti più fa-moso d’Italia era un amaro.Poi è arrivato Eros, da Roma-Cinecittà, con la sua storia di

ragazzo di periferia e, complice Sanremo,quello è diventato un cognome da hit pa-rade. «Eros Ramazzotti è il sublime delpop, provo un’attrazione quasi fisica perlui», ha detto una volta Jovanotti. «Anchealle donne faccio lo stesso effetto, ma or-mai non sono più un pezzo facile», scher-za Eros, sprofondato nel divano del salot-to milanese, davanti a un maxischermoche rimanda bellissime immagini di unfestival blues con Eric Clapton e B. B. King.Ha 41 anni, il berretto calato sugli occhirende più misteriosa la bellezza imbron-ciata dell’eterno ragazzo che è ancora ilpiù forte sex symbol della nostra canzone.E quando se lo sfila, i capelli brizzolati ag-giungono un tocco di piacevole maturitàall’immagine da manifesto che ha riem-pito le stanze delle teen ager.

La sua storia di artista è tutta racconta-ta dalle foto messe in mostra sui bei mo-bili, qualcuna anche con Tina Turner eCher. «Dallo zero che ero a quello che so-no adesso, beh ne è passata di acqua sot-to i ponti», borbotta. E non sta lì a contarei trofei, si limita ad accarezzare l’immagi-ne più cara fra le tante, un tenero disegni-no di Aurora, la figlia di otto anni avuta daMichelle Hunziker, con due pupazzi chesi tengono per mano e la scritta tremo-lante: «Mamma e pappà». Il gatto di Au-rora, Toni, un randagio raccattato nellacampagna brianzola, gironzola per casa:«Credevamo fosse un maschio, lo aveva-mo chiamato Anthony. Quando abbia-mo scoperto che era una gatta, abbiamooptato per un nomignolo unisex».

Ricorda i vecchi tempi: dopo il trionfosanremese del 1984 (Terra promessa) edel 1986 (E adesso tu, un inno popolare:Nato ai bordi di periferia / Dove i tram non

vanno avanti più / Dove l’aria è popolare /È più facile sognare / Che guardare in fac-cia la realtà), lo invitarono a New York, al-la trasmissione della Carrà in trasferta ne-gli Usa, in una puntata in cui c’era ancheElla Fitzgerald. «Raffaella mi trattò malis-simo. Vai a cantare, mi disse senza quasisalutarmi». Ora, dopo 40 milioni di dischivenduti nel mondo, può permettersi diapparire dove vuole, quando vuole. Lesue canzoni si ascoltano in tutta Europa ein America latina, ha tenuto concerti alRadio City Music Hall di Manhattan e al-lo stadio Galatasaray di Istanbul, in Rus-sia e in tutta l’Europa dell’Est. Nelle ex re-pubbliche sovietiche è un idolo. In Uz-bekistan, a Samarcanda, quattro anni fa,le ragazze cantavano Più che puoi, il suoduetto con Cher, in un italiano perfetto.

Ma nelle suonerie dei cellulari le suemelodie, stranamente, non ci sono. «Ene vado fiero. Mi hanno offerto 500milaeuro, ho rifiutato. Mi bastano gli introitidi dischi e serate, ho ridimensionato lamia vita, la barca non ce l’ho, le ville sonostate vendute. La mia grande voglia, og-gi, è chiudere con i contratti discograficie avere la massima libertà. Riuscire final-mente a vivere in serenità, magari suun’isola deserta, lontano da tutto. Si stamale in Italia, la gente è fredda, incazza-ta. Che succederà quando tutta questatensione esploderà? Perché esploderà,vedrà che esploderà. Quelli che dicono:“Che ti frega? Tu stai bene, sei ricco”, noncapiscono che un artista è il primo a ri-sentire del malessere che c’è nel paese.Fino a pochi anni fa l’Italia era un postodove stavano tutti più o meno bene,adesso invece stanno tutti più o menomale. Che posso dare, cosa posso fare senon rifugiarmi nella musica e comuni-care positività? Il nuovo cd (uscirà a otto-bre, per il suo quarantaduesimo com-pleanno, ndr) sarà sicuramente positi-vo, non come 9, il precedente, concepitonel periodo più nero della mia vita».

Problemi economici, intoppi legali, ilmatrimonio con la Hunziker andato amonte: il ragazzo d’oro del pop italianoha cominciato a ricostruirsi una vita al-l’alba dei quaranta. Cosa l’ha fatto dera-gliare, il delirio di onnipotenza che primao poi colpisce tutti i divi? «Sì, e ho sbaglia-to. Dal 1995 al 2000 ho trascorso cinqueanni in cui dentro di me avevo un caos chegli altri neanche intuivano: scelte sbaglia-te, decisioni affrettate che mi hanno pro-curato guai e sacrifici». Di solito il deliriodi onnipotenza colpisce agli esordi, è unpeccato di gioventù delle popstar. «Il mioinvece è stato tardivo. Mi sono detto: fir-mo un nuovo contratto, mi strapagano,mi sposo, faccio un figlio, voglio una me-gavilla. Sembravano calcoli leciti e inveceavevo messo la colla sull’acceleratore.Non ero abituato a gestire un patrimonioe non mi rendevo conto che non è una co-sa che si può fare con leggerezza. Ed ec-comi qua, ancora costrettoa dover porta-re dei risultati. Tra qualche giorno partoper Los Angeles, dove registrerò ventinuove canzoni. In quest’Italia canorasquattrinata a fare progetti siamo ormai

sembra assurdo? No, no, succede. Da metutte pretendono un certo tipo di rappor-to. Non sono Vasco Rossi, spericolato perdefinizione. A lui non fanno domande,non chiedono amore e passione. Da mevogliono quello che canto, l’amore che favenire i brividi. Da Eros non accettanosesso e basta. Qualcuna mi chiede: canta-mi una canzone. Ma come, non eri venu-ta per fare l’amore?».

«Tre anni fa — continua Eros — dopola fine del mio matrimonio, ero senti-mentalmente arido, ora va un po’ meglio,ma l’idea di un nuovo amore... lungi dame. Il mio istinto, ora, è solo quello di fa-re sesso. Animalesco? Forse, ma non sia-mo anche animali? Fin da ragazzo il ses-so è sempre stato tabù. Non ne parlavo nécon mia madre né con mio padre. Non èmai stato chiaro per me cosa fosse unadonna, un rapporto, perché sono cre-sciuto ai margini, dove non c’era nean-che un libro da cui imparare le cose».

Dicono che i romani siano malati dicampanilismo. Eros invece, juventinodoc, da Roma fuggì determinato a nontornare indietro. «Sono nato a Cinecittà,quando lì non c’era proprio niente, nécentri commerciali né metropolitana,un’ora di macchina da San Giovanni. C’e-rano i fascisti e i comunisti che si spran-gavano. E il coprifuoco che mio padrem’imponeva, sorvegliandomi come si facon le ragazze. Protettivo e rompicoglio-ni, ma almeno mi ha tenuto lontano daiguai. Poter venire fuori da una situazionein cui droga e scippi erano all’ordine delgiorno fu solo un privilegio. Arrivare a Mi-lano con le basi giuste è stato fondamen-tale. Ero timido, lo sono ancora, ma moti-vato. Sa cosa vuol dire vergognarsi discendere a comprare il latte? Volevo for-temente fare il cantante, era l’unica stra-da aperta che vedevo di fronte a me».

Nella immensa libreria del salotto ci so-no cd, dvd e enormi volumi sui Beatles.Nessun oggetto che ricordi la sua infan-zia, nessun cimelio della sua adolescen-za. «Ecco, se mio padre mi avesse incul-cato l’amore per la letteratura insieme aquello per la musica, ora sarei un divora-tore di romanzi. O magari un pallosissi-mo cantautore. Invece non ho metodo,dei libri leggo qualche pagina poi li ab-bandono. Lui mi metteva una chitarra inmano e accendeva il Revox per registrarequel che facevo. Era il 1977. Quello sì mi èrimasto, io ancora oggi non mollo mai lachitarra. M’imponeva di fare i vocalizzi, liodiavo. Feci un esame al conservatorio,non mi presero. Allora mi costrinse a fre-quentare per due anni il Verrazzano, unistituto commerciale. Che inferno, erouna sega totale. Il primo anno se la presea morte, il secondo si rassegnò e mi disse:dai, andiamo da Gianni Ravera (con luiRodolfo Ramazzotti aveva preso parte aun Cantagiro, nel ’65)». E la mamma? «Erauna casalinga all’angolo, non giudicava.Non le era consentito. La mia era una fa-miglia patriarcale. Ma lasciamo stare,guardare il passato può far male, non èuna cosa che si può fare ogni giorno».

Il presente è tutto a Milano, dove i pa-

rimasti solo Vasco e io». Adesso la sua giornata si consuma in

città, per la megalomania non c’è più po-sto, la “tana” è in un condominio in cui vi-vono agiati ma comuni mortali. Dal por-tone déco, è vero, escono con frequenzaimbarazzante ragazze mozzafiato, nes-suna più bassa di uno e ottanta. Non arri-vano dall’appartamento della star, ma daun’agenzia di modelle al piano rialzato.«Pensava davvero che avessi un harem?No, io con le donne ho chiuso, o almenocon i sentimenti. Sono convinto che nonriuscirò più a avere una storia normale. Esa perché? Perché già al primo incontrosanno chi sono e immancabilmente sicreano delle aspettative. Per questo fac-cio fatica a aprirmi, a dare fiducia. Sareb-be bello, nel momento in cui una donnami piace, azzerare il mio passato e essereuno sconosciuto che incontra una scono-sciuta. Ho avuto un’esperienza talmentebrutta, che solo il pensiero di ricomincia-re mi terrorizza. E così ora le donne non letratto neanche tanto bene. Qualcuna, èvero, mi seduce e mi abbandona... Le

parazzi sono meno aggressivi, i fan menoassillanti. Eros passeggia per corso Ver-celli con Aurora e riesce a non subire nem-meno un’aggressione. «Non c’è proble-ma se anche firmo un autografo, la bam-bina sa chi sono i suoi genitori. Qui riescoa sentirmi normale, anche quando leggosui giornali scandalistici storie pazzeschesulla mia vita. I dettagli sulla fine del miomatrimonio sono finiti in pasto a tutti e ionon ho reagito, mi sono solo chiuso in ca-sa. Col passare del tempo tutto questo di-venta logorante e l’istinto è sempre quel-lo di fuggire. Se non ci fosse stata Aurora,sarei già sparito all’orizzonte, avrei fatto lemie cose senza stare nell’occhio del ciclo-ne. Io non riesco ancora a vedermi comeEros l’artista, io sono Eros il ragazzo».

Suonano alla porta. Toni, che si era ap-pisolata sulle sue ginocchia, scatta versol’ingresso. È il ragioniere con un mucchiodi carte da leggere e firmare. Il tramontofiltra dal finestrone, Eros accende unadozzina di candele, l’atmosfera si fa calda.Manca solo Aurora che fa domande acreare un vero focolare domestico. «Lamia priorità oggi è il futuro della bambi-na. A vent’anni non te ne frega niente diniente, a trenta cerchi di sistemarti e aquaranta ti accorgi che hai toppato e deviricominciare da capo. Certezze? Le can-zoni e mia figlia. Vorrei fare quello che nonho mai fatto in vita mia: studiare. Io sonoun autodidatta di merda. Mi piacerebbeessere un chitarrista provetto e in una se-rata tra amici suonare di getto venti can-zoni dei Beatles. Invece per quel maledet-to metodo che non ho... Un po’ di disci-plina in più mi avrebbe fatto bene».

«Ormai — conclude — sono quello chesono e però le cose sono cambiate. È diffi-cile, ad esempio, che io dorma fuori. Sto acasa con mia figlia. Quando lei è con me,il mercoledì e i fine settimana, non escomai. Mi guardo Arbore e Cronache mar-ziane. I reality hanno rotto, il calcio, conquesta Juventus superfavorita dagli arbi-traggi, mi annoia. Questo per me è un mo-mento di malinconica serenità».

E l’isola deserta? «Ci sto lavorando...».

Le donne? Io nonsono spericolatocome Vasco Rossi:a lui non fannodomande, nonchiedono passione,da me voglionoquello che canto,l’amore che fa

venire i brividi

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‘‘Sex symbol per le fan di mezzo mondo,40 milioni di dischi venduti, concertiaccanto a star planetarie. Ma oggiil ragazzo di borgata che ha sfondatonel pop, dopo un matrimonio

in frantumi e un lungoisolamento, raccontala sua “malinconicaserenità”. “Ho vissuto

col caos dentro, in undelirio di onnipotenza,avevo messo la collasull’acceleratore.

Adesso voglio pensare a mia figlia ealle mie canzoni e vorrei fare quel chenon ho mai fatto nella vita: studiare”

Eros RamazzottiF

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