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157 BERSAGLIO Le conseguenze economiche della pace di John M. Keynes Un dibattito a cura di Daniela L. Caglioti, con interventi di Charles S. Maier, Pier Francesco Asso, William R. Keylor, Patrick O. Cohrs, Sally Marks, Eric Bussière Charles S. Maier Conseguenze economiche della pace, conseguenze sociali della guerra Le conseguenze economiche della pace di Keynes: brillante, ingiusto, sbagliato, forse distruttivo nelle sue conseguenze... ma giu- sto per le ragioni sbagliate. Buttato giù nella concitazione dell’estate e dell’autunno del 1919 da un autore la cui opera principale, Teoria generale dell’occupazione, dell’inte- resse e della moneta 1 , diciassette anni dopo avrebbe rovesciato un’ortodossia econo- mica ed aperto la strada – almeno per una generazione – ad un’altra, il libro, a no- vant’anni dalla pubblicazione, resta proba- bilmente l’opera polemica di maggior suc- cesso del XX secolo. Keynes, fondamentalmente, affrontava un argomento cui non dava spazio nel titolo: le conseguenze economiche della guerra, lo sconvolgimento dei traffici e delle relazioni economiche di quel mondo globalizzato antecedente al 1914 che egli evoca con ef- ficacia nel primo capitolo. La guerra aveva mostrato che la politica o almeno le pas- sioni del nazionalismo avevano sovrastato il ragionamento economico ed è questo il motivo per cui la politica, anche se Key- nes poteva lamentarsene, alla conferenza di pace ebbe la tendenza a venire prima di tutto. L’impegno a far rivivere uno stato nazionale polacco con uno sbocco sul Mar Baltico significava dar vita ad uno stato che doveva costare alla Germania i tradizionali territori prussiani. L’autodeterminazione nel Baltico e negli ex domini degli Asburgo significava la creazione di nazioni fragili e 1 J.M. Keynes, Occupazione interesse e moneta: teoria generale, Torino, Utet, 1947 [London, 1936]. L’opera, nelle diverse edizioni italiane, ha conosciuto una variazione nel titolo che, dalla prima edizione qui citata, è passato ad una versione più aderente all’originale [NdR]. Contemporanea / a. XII, n. 1, gennaio 2009

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B E R S A G L I O

Le conseguenzeeconomiche della pacedi John M. KeynesUn dibattito a cura di Daniela L. Caglioti, con interventi di Charles S. Maier, Pier Francesco Asso, William R. Keylor, Patrick O. Cohrs, Sally Marks, Eric Bussière

Charles S. Maier

Conseguenze economiche della pace, conseguenze sociali della guerra

Le conseguenze economiche della pace di

Keynes: brillante, ingiusto, sbagliato, forse

distruttivo nelle sue conseguenze... ma giu-

sto per le ragioni sbagliate. Buttato giù nella

concitazione dell’estate e dell’autunno del

1919 da un autore la cui opera principale,

Teoria generale dell’occupazione, dell’inte-

resse e della moneta1, diciassette anni dopo

avrebbe rovesciato un’ortodossia econo-

mica ed aperto la strada – almeno per una

generazione – ad un’altra, il libro, a no-

vant’anni dalla pubblicazione, resta proba-

bilmente l’opera polemica di maggior suc-

cesso del XX secolo.

Keynes, fondamentalmente, affrontava un

argomento cui non dava spazio nel titolo:

le conseguenze economiche della guerra, lo

sconvolgimento dei traffici e delle relazioni

economiche di quel mondo globalizzato

antecedente al 1914 che egli evoca con ef-

ficacia nel primo capitolo. La guerra aveva

mostrato che la politica o almeno le pas-

sioni del nazionalismo avevano sovrastato

il ragionamento economico ed è questo il

motivo per cui la politica, anche se Key-

nes poteva lamentarsene, alla conferenza

di pace ebbe la tendenza a venire prima

di tutto. L’impegno a far rivivere uno stato

nazionale polacco con uno sbocco sul Mar

Baltico significava dar vita ad uno stato che

doveva costare alla Germania i tradizionali

territori prussiani. L’autodeterminazione

nel Baltico e negli ex domini degli Asburgo

significava la creazione di nazioni fragili e

1 J.M. Keynes, Occupazione interesse e moneta: teoria generale, Torino, Utet, 1947 [London, 1936]. L’opera, nelle diverse edizioni italiane, ha conosciuto una variazione nel titolo che, dalla prima edizione qui citata, è passato ad una versione più aderente all’originale [NdR].

Contemporanea / a. XII, n. 1, gennaio 2009

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più deboli. L’incapacità di reprimere i bol-

scevichi e/o il rifiuto di venire a patti con

essi comportava una terribile ambiguità sul

ruolo della Russia nell’Europa del dopo-

1918. Ma Keynes comprese che la tragedia

non giunse soltanto nel 1918, ma nel 1914.

La splendida biografia di Skidelsky chiari-

sce come Keynes, e l’intellighenzia liberale

britannica cui apparteneva, vivesse in un

mondo di cultura transnazionale che dif-

ficilmente avrebbe voluto disgregato, ma

che vide gradualmente distrutto2. Da un

certo punto di vista, Le conseguenze econo-

miche della pace è un cri de coeur contro

la distruzione di quel mondo. Keynes servì

il suo governo durante la guerra ma non

abbandonò mai il suo cosmopolitismo e la

sua speranza in un compromesso che po-

tesse ricomporre il continente. Quello che

egli lamentava nel suo pamphlet era il fatto

che gli statisti del 1919, alla fine, non erano

riusciti a superare la rottura.

La parte del libro che sembra aver più

spesso attirato l’attenzione è quella che con-

tiene i profili dei protagonisti. Ad eccezione

di sua madre – così racconta Skidelsky – i

suoi lettori adoravano questi ameni ritratti.

Essi continuavano la tradizione degli Emi-

nenti vittoriani del suo amico Strachey3.

Secondo Keynes, le caratteristiche che egli

metteva in risalto erano esplicative della

debolezza del trattato: un Lloyd George

troppo furbo, che chiedeva obblighi pe-

santi per la Germania per poi pentirsi della

sua demagogia; un Wilson preso dalla sua

rettitudine presbiteriana e rappresentante

di una grossolana cultura materiale i cui

esponenti politici non potevano guardare

oltre i loro interessi locali; un Clemenceau

cinico, con una sola idea in testa, deciso

ad asservire la Germania. Questi impie-

tosi ritratti (e Keynes alla fine autocen-

surò quello su Lloyd George e lo eliminò

dal libro) giocano un ruolo singolare nel

suo pamphlet. Si ha l’impressione che essi

siano stati inseriti per rendere interessante

un argomento presumibilmente noioso ad

una cultura che probabilmente avrebbe tol-

lerato l’economia politica solo se addolcita

dalla biografia. Essi mostravano che egli

era in grado di padroneggiare «una bella

scrittura». Se fosse stato meno impegnato

ad apparire uno scrittore accattivante, Key-

nes avrebbe potuto riflettere sul fatto che le

caratteristiche che egli si era divertito ad in-

dividuare in quei personaggi erano quelle

che avevano condotto in salvo le loro na-

zioni in condizioni disperate, conferendo la

spietatezza necessaria per mantenere Gran

Bretagna e Francia così risolute nei terribili

anni 1917-18 ed accordando a Wilson il fer-

vore morale per arruolare finalmente i suoi

concittadini per una causa lontana.

Keynes credeva davvero che il trattato di

Versailles fosse stato negativamente in-

fluenzato dal fatto che, secondo lui, le mani

di Woodrow Wilson «sebbene capaci e ab-

bastanza forti, difettavano di sensibilità e di

finezza» (p. 46)? Wilson «non aveva nessun

piano, nessun progetto, non idee costrut-

2 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, vol. 1, Speranze tradite 1883-1920, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 [London, 1983]. I riferimenti alle pagine, inseriti tra parentesi subito dopo le citazioni, di Le conseguenze eco-nomiche della pace sono tratti dalla più recente edizione italiana Milano, Adelphi, 2007 [London, 1919].3 G.L. Strachey, Eminenti vittoriani, Milano, Rizzoli, 1973 [London, 1918].

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tive di sorta per rivestire di carne viva i co-

mandamenti che aveva tuonato dalla Casa

Bianca» (p. 48). Si trattava semplicemente

di sciocchezze retoriche: per quanto imper-

fetti potessero essere i risultati, la Società

delle Nazioni e la costruzione di stati na-

zionali nell’Europa orientale seguivano le

indicazioni wilsoniane.

Anche Clemenceau, che tenne dal principio

alla fine le sue mani inguantate (Keynes è

affascinato dalle mani!), non poteva essere

accusato di ingenuità o di scarsa compren-

sione. Keynes coglieva nel segno. Secondo

Clemenceau lo stato naturale delle relazioni

franco-tedesche doveva essere di guerra

implicita, se non aperta, e la missione era

dunque quella di ridurre la potenza della

Germania, compresa quella economica.

«Con le perdite territoriali e altre misure si

doveva ridurre la sua popolazione; ma so-

prattutto bisognava distruggere il sistema

economico su cui si basava la sua novella

forza, la vasta struttura edificata sul ferro,

il carbone e i trasporti» (p. 43). La tesi di

Keynes è che questo atteggiamento doveva

portare inevitabilmente alla «pace cartagi-

nese». Ed è qui che il libro acquista forza,

nel sostenere, cioè, «che la pace cartaginese

è in pratica sbagliata e impossibile [...].

Non si può rimettere indietro l’orologio.

Non si può riportare l’Europa centrale al

1870 senza creare nella struttura europea

tensioni tali, e scatenare tali forze umane

e spirituali, da travolgere, oltrepassando

frontiere e razze, non solo noi e le nostre

“garanzie” ma le nostre istituzioni e l’or-

dine esistente della nostra società» (p. 44).

Era questa un’argomentazione di grande

momento. Keynes dedica la parte centrale

del suo libro ad illustrare come gli alleati

stessero lavorando a questo pericoloso ri-

sultato. Il suo pamphlet discuteva in primo

luogo tutte le riduzioni del territorio e della

popolazione tedeschi, lo spostamento delle

risorse carbonifere e gli ostacoli posti alla

marina mercantile: tutto studiato – egli

suggeriva – per mutilare economicamente

la Germania. Keynes passa quindi ad illu-

strare come l’accordo sulle riparazioni non

fosse solamente iniquo, ma anche imprati-

cabile. È su questo punto che la storiografia

degli anni Settanta ha trovato l’opera faci-

lissima da criticare. Come riconosceva lo

stesso Keynes, nell’autunno 1918 la politica

interna britannica fu un fattore decisivo

nello spingere alla richiesta di riparazioni

pesanti. Egli almeno è spietato verso i suoi

concittadini, che promettevano sconsidera-

tamente di spremere il limone tedesco «fino

a farne scricchiolare i semi». Quando Lloyd

George tentò di invertire il corso delle trat-

tative parigine, era ormai troppo tardi. Wil-

son era più facile da illudere che da disillu-

dere (p. 56).

Al momento in cui Keynes scrisse il libro,

la lista delle riparazioni finanziarie non era

stata ancora definita, tuttavia egli calcolava

che i danni che si sarebbero potuti addebi-

tare alla Germania sarebbero ammontati

forse a tre miliardi di sterline per quelli

fisici e ad altri cinque per le pensioni e le

indennità, per un totale di otto miliardi di

sterline.

La lista delle riparazioni ammontò effetti-

vamente a 6,6 miliardi di sterline (o quasi

trentatre miliardi di dollari, o 132 miliardi

di marchi-oro, l’unità di conto basata sul

valore prebellico del marco). Le condizioni

per riscuotere tale somma implicavano che

la Germania avrebbe ammortizzato una

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serie di obbligazioni che sarebbero state

emesse in serie differenti in sequenza ma col

risultato, secondo le valutazioni di Keynes,

che ci sarebbero voluti quarantotto anni di

pagamenti continuativi per oltre 3 miliardi

di sterline o quasi 60 miliardi di marchi-oro

l’anno. Keynes era «certo, nella misura in

cui può esserlo qualsiasi cosa» che la Ger-

mania non avrebbe potuto pagare questa

somma (pp. 133-138). Due miliardi di ster-

line – pari a 40-50 miliardi di marchi-oro

– rappresentavano il limite massimo della

capacità di pagamento tedesca (p. 162).

Reazioni e protesteIl libro di Keynes suscitò vive proteste tra i

tories ed i settori intransigenti dell’opinione

pubblica britannica mentre fu ovviamente

ben accolto in Germania. La storiografia re-

cente si è divisa. Per molti Le conseguenze

economiche della pace divenne rapida-

mente semplice buonsenso. Keynes aveva

affermato che i tedeschi non erano in grado

di pagare ed in gran parte non lo fecero,

una volta effettuato un pagamento iniziale

di un miliardo di marchi-oro ed una conte-

stata somma in natura entro il 1921. Keynes

aveva previsto una possibile inflazione, che

in effetti si verificò. La generazione di sto-

rici che circa trenta anni fa ha risollevato

la questione delle riparazioni è stata però

molto più critica. Stephen Schuker ha di-

mostrato efficacemente che i tedeschi elu-

sero dei pagamenti che erano in grado di

effettuare. L’accesso ai documenti francesi

ha permesso una ricostruzione più indul-

gente della posizione francese4. La do-

manda diveniva quella su cui avevano insi-

stito i francesi: non quali pagamenti fossero

possibili, ma quale indennizzo fosse giusto.

Chi scrive è stato più critico nei confronti

di Keynes negli anni Settanta e Ottanta che

dopo. La ricerca storica successiva ha teso

a ristabilire l’equilibrio ed a guardare meno

all’ingiustizia che alla miopia. Come Keynes

aveva capito, il prelievo forzato di risorse

da una nazione nemica era molto difficile

o richiedeva un più alto grado di controllo

(come quello che i tedeschi esercitarono sui

francesi tra il 1940 ed il 1944 o quello che

i sovietici ebbero sulla Germania orientale

dopo il 1945).

Il cuore del libro di Keynes era sicuramente

il problema economico: il conflitto sulle

riparazioni infiammò l’opinione nazionali-

sta in Germania, portò il paese ad una crisi

disperata nel 1923 e poi si calmò. I termini

in apparenza draconiani imposti nel 1921

furono differiti nel 1924. In effetti, la serie

continuativa di obbligazioni differenti sca-

glionate nel tempo diminuiva il valore at-

tuale del carico (come avrebbe riconosciuto

4 Cfr., tra gli altri, S.A. Schuker, The End of French Predominance in Europe: The Financial Crisis of 1924 and the adoption of the Dawes Plan, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1976; Id., Ameri-can «Reparations» to Germany, 1919-33, Princeton, Princeton University Press, 1988; M. Trachtenberg, Reparation in World Politics: France and European Economic Diplomacy, 1916-1923, New York, Columbia University Press, 1980. Sulla difficoltà di effettuare i pagamenti delle riparazioni cfr. P. Krüger, Das Repara-tionsproblem der Weimarer Republik in fragwürdiger Sicht: kritische Überlegungen zur neuesten Forschung, «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», 29, 1981; B. Kent, The Spoils of War: The Politics, Economics and Diplomacy of Reparation 1918-1922, Oxford, Oxford University Press, 1989. Z. Steiner ha tentato una rapida sintesi in The Lights that Failed. European International History 1919-1933, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 193-201. Altri contributi di Barry Eichengreen, dell’ultimo Gerald Feldman, di Carl Ludwig Holtfrerich e di Charles S. Maier, di Sally Marks hanno segnato questo dibattito ancora in corso.

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Keynes nel 1921), anche se sembrava so-

prattutto prolungarlo. Il sistema bancario

degli Stati Uniti, dal 1924 al 1929, giocò il

ruolo che Keynes avrebbe voluto che la po-

litica ufficiale americana giocasse nel 1919:

riconoscere, cioè, il legame tra i pagamenti

tedeschi ai loro ex alleati ed i pagamenti

di questi ultimi verso gli Stati Uniti. Ma

quando il sistema del credito collassò (ed

in effetti, una volta rivelate le sue debolezze

finì sotto tensione nel 1927 ben prima del

grande crollo) le riparazioni dovettero es-

sere nuovamente allentate. Esse infiamma-

vano ancora la Germania e mobilitavano

unitamente nazionalisti e nazisti. Ma la re-

cessione agricola, i mercati sconvolti erano

il motivo principale: al 1932 le riparazioni

sarebbero cessate. Keynes aveva ragione:

molto meglio aver evitato quel tremendo

inasprimento del sentimento revanchista in

Germania! Molto più saggio per l’America

essersi mossa per limitare l’escalation di ri-

chieste franco-britanniche negli ultimi mesi

della conferenza! Gli americani avrebbero

in effetti sostituito, dopo il 1945, i pagamenti

del piano Marshall alle riparazioni tedesche,

tuttavia, non potendo prevedere le conse-

guenze, dopo il 1919 non erano pronti per

assumersi questo onere. Ma quando negli

anni Venti gli Usa ebbero negoziato accordi

con ciascuna delle nazioni loro debitrici, ave-

vano condonato circa metà del valore cor-

rente di quanto era nominalmente dovuto.

Un libro saggio?Keynes diceva delle cose sagge, ma scrisse

un libro saggio? La sua argomentazione era

destinata a fomentare la resistenza tedesca

alle riparazioni e quasi sicuramente ad in-

coraggiare la Francia ad accettare una re-

visione. L’analisi di Keynes impressionava

per il peso apparentemente scientifico che

stava dietro i numeri. La Germania stava

sacrificando il 15% del suo territorio e la

sua struttura produttiva. Prima della guerra

essa aveva tenuto a malapena in equilibrio i

suoi conti internazionali. Come poteva mai

creare in questo ridotto territorio nazionale

l’eccedenza per l’esportazione necessaria

ad inviare i pagamenti all’estero?

Si tratta però di una singolare argomen-

tazione. Dal 1949 al 1989 la repubblica di

Bonn avrebbe raggiunto i suoi formidabili

risultati economici con un territorio di gran

lunga più piccolo di quello della repubblica

tedesca tra le due guerre. Più fondamental-

mente, Keynes scartava di fatto la possibilità

di crescita economica. Egli sapeva che la

Germania era «capace di un’altissima pro-

duttività» (p. 164), intendendo con questo

la crescita economica, e riconosceva «che

nel 1870 nessuno avrebbe potuto prevedere

la capacità della Germania nel 1910» (p.

165). Ciò nondimeno, egli scartava la pos-

sibilità della crescita, non avendo di fatto

sviluppato il problema. Innanzitutto, egli

sosteneva, il logoramento industriale del

tempo di guerra, i campi non fertilizzati,

la diminuzione del bestiame e il peso delle

pensioni avrebbero precluso, secondo i cal-

coli di Karl Hellferich, il raggiungimento

dei tassi di crescita prebellici (pp. 166-167).

In secondo luogo egli sollevò la questione

che sarebbe diventata rapidamente nota

come il problema del trasferimento: assu-

mendo pure che la crescita sarebbe potuta

riprendere, come avrebbe potuto la nuova

capacità essere trasformata in un’ecce-

denza disponibile per l’esportazione (p.

167)? In questa argomentazione affiorano

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alcuni escamotage. Keynes sosteneva che

le possibilità di crescita non avrebbero giu-

stificato le idee più folli secondo cui la Ger-

mania avrebbe potuto pagare dieci miliardi

di sterline, ma la questione era se essa fosse

in grado di pagare, alla fine, un ammontare

di sette miliardi di sterline e non le richie-

ste più esagerate. E la crescita economica

tedesca fu resa insufficiente dal problema

del trasferimento? Su questo problema ci

sarebbe stata un’ampia discussione alla

fine degli anni Venti, ma alla fine si sarebbe

dimostrato che gli avanzi di bilancio pote-

vano diventare avanzi di parte corrente.

Quello che stupisce è che Keynes presup-

poneva una struttura malthusiana che la

crescita prebellica aveva smentito, proprio

quella struttura che egli stesso abbandonò

quando, nel 1930, scrisse il saggio Pro-

spettive economiche per i nostri nipoti, che

conteneva la visione di una futura abbon-

danza5. Tuttavia Keynes non era un econo-

mista della crescita; la sua analisi presup-

poneva i momenti di stasi economica: stasi

di abbondanza forse, ma comunque stasi.

La sua opera principale, la Teoria generale

del 1936, si sarebbe incentrata sul rista-

bilimento di una prosperità precedente e

non sull’assicurazione di una crescita eco-

nomica continua. Questa sfida teorica fu

lasciata ai suoi più giovani lettori angloa-

mericani dei tardi anni Trenta e degli anni

Quaranta.

Forse perché desiderava sottolineare la

difficoltà di esigere le riparazioni, Keynes

dipinse il mondo economico prebellico

come una rete di relazioni tese e precarie

che stavano scontrandosi con limiti mal-

thusiani. «Ho scelto di dare risalto a tre o

quattro dei maggiori fattori di instabilità»,

scriveva del 1914: «l’instabilità di una po-

polazione eccessiva dipendente per il suo

sostentamento da una organizzazione com-

plicata e artificiosa, l’instabilità psicologica

delle classi lavoratrici e capitalistiche, e

l’instabilità del flusso dei rifornimenti ali-

mentari del Nuovo Mondo» (pp. 34-35). Che

immagine fuorviante! Invece di mettere in

risalto quale ricchezza materiale era stata

raggiunta o come il settore manifatturiero

europeo esercitasse il suo impareggiabile

dominio sulla produzione agricola mon-

diale (che egli aveva evocato nove pagine

prima), egli sottolineava la fragilità malthu-

siana: una continuata pressione sui limiti

delle risorse. Un frenetico supersviluppo

aveva caratterizzato l’età dell’oro prima del

1914. Per di più, le due risorse più vinco-

lanti erano il grano, o il cibo, ed il carbone.

La scarsità di cibo rendeva certa la vulnera-

bilità rispetto all’America, le limitazioni sul

carbone rendevano sicura l’impraticabilità

degli immediati pagamenti tedeschi. In tutta

la sua argomentazione Keynes attribuiva

all’estrazione di carbone un modello deter-

ministico. Egli avrebbe potuto fornire altri

dati ma era ossessionato da una visione do-

minante di crollo e collasso. Non sto soste-

nendo che egli avesse torto: la grande de-

pressione si può dire abbia mostrato quanto

ben fondata fosse la sua immagine di fragi-

lità. Ma la crescita del 1925-29 in Europa,

per quanto breve, e sicuramente quella suc-

cessiva al 1945 ci porterebbe alla questione

5 Il testo della conferenza del 1930 si trova in J.M. Keynes, Esortazioni e profezie, Milano, Il Saggiatore, 1968 [London, 1931].

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se non esistesse una maggiore elasticità di

quella che egli decise di rappresentare.

Infine credo ci fosse un’altra ragione dietro i

suoi assunti malthusiani. Quello che preoc-

cupava Keynes nel 1919 era il futuro del ca-

pitalismo. E, ovviamente, non preoccupava

solo lui! Ma Keynes era preoccupato perché

temeva che la guerra rivelasse su quale esile

fondamento morale poggiava il capitalismo

ed invero quale esile fondamento morale

egli – assieme a tutto il gruppo di Bloom-

sbury – credeva meritasse. Le conseguenze

economiche della pace presuppone non solo

un mondo di economie nazionali rivali. Il

libro suggerisce che tutte le nazioni euro-

pee avevano interesse a non sovraccaricare

un ordine borghese costruito su una grande

disuguaglianza. «La società [europea] era

strutturata in modo da assoggettare gran

parte del reddito accresciuto al controllo

della classe che meno era incline a consu-

marlo. [...]. Qui stava, appunto, la principale

giustificazione del sistema capitalistico»

(p. 30). Solo il risparmio del surplus che i

proprietari ricevevano aveva reso l’accu-

mulazione borghese tollerabile e capace

di prosperità. Ma tale sistema poggiava

su «un duplice bluff». Le classi lavoratrici

erano persuase o costrette a lavorare tanto

duramente per così poco; le classi proprie-

tarie erano convinte della virtù del rispar-

mio. «E così la torta cresceva; ma a quale

scopo non era chiaramente lumeggiato» (p.

31). Inoltre la guerra poteva mangiarsi la

torta, ed anche se non l’avesse fatto, aveva

«rivelato la possibilità del consumo a tutti

e la vanità dell’astinenza a molti. Così l’in-

ganno è stato scoperto; ed è probabile che

le classi lavoratrici non siano più disposte a

tante rinunce e che le classi capitalistiche,

sfiduciate nel futuro, cerchino di godere più

ampiamente delle loro facoltà di consumo

finché durano, precipitando così l’ora della

loro confisca» (p. 32).

Lenin ed i suoi fanatici seguaci si muove-

vano furtivamente nei corridoi della storia.

La guerra mondiale, che Keynes definiva

una guerra civile europea (p. 19), aveva

già consegnato ai bolscevichi il controllo

di un paese sterminato. Egli non si faceva

illusioni sul fatto che la loro rivoluzione

rappresentasse un qualche progresso. Il

più grande danno che la guerra aveva pro-

vocato non era quello inflitto ai territori

francesi e belgi, ma quello alla finora docile

accettazione della disuguaglianza di classe.

Potevano gli europei e gli americani (cui

si chiedeva anche di cancellare le loro ri-

chieste finanziarie) non comprendere che

era in gioco una vecchia civiltà? Alla fine,

dobbiamo leggere questo testo non come

una semplice trattazione statistica relativa

alla realizzazione di una pace realistica, ma

come un ammonimento per l’ordine sociale

e culturale. Con uno sguardo retrospettivo

noi possiamo sapere che il capitalismo era

più robusto di quanto autorizzassero a cre-

dere i suoi assunti malthusiani: avrebbe

avuto ancora almeno quasi un secolo di

crescita.

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Con la pubblicazione di The Economic Con-

sequences of the Peace [d’ora in poi Ecp], un

giovane e brillante economista, allievo di

Alfred Marshall e già funzionario al Tesoro

e all’India Office, gettava le fondamenta per

costruire un nuovo modo di concepire la teo-

ria economica e l’uso che di essa ne avreb-

bero potuto fare i governi e i policy makers.

Ecp resta uno dei saggi più influenti scritti

da un economista nel XX secolo e bene ha

fatto l’editore Adelphi a riproporlo all’at-

tenzione dei lettori italiani1. I tre più au-

torevoli biografi di John Maynard Keynes

sono concordi nel definirlo un testo assai

importante nella formazione del suo pen-

siero e nel quale risultano chiaramente

espresse le sue poliedriche doti: in Ecp,

più che in altre sue opere, Keynes riveste

con grande disinvoltura il ruolo di intellet-

tuale impegnato e di raffinato scrittore, di

grande esperto della finanza e delle rela-

zioni economiche internazionali, di antici-

patore delle molte sciagure economiche e

politiche che sarebbero arrivate negli anni

successivi2.

La sua lettura a distanza di tanti anni dalla

pubblicazione ci permette di ascoltare una

voce autorevole e sempre attentamente va-

lutata dagli storici del trattato di Versailles

e della questione delle riparazioni tedesche.

Ma Ecp resta un vero e proprio manifesto di

un nuovo modo di concepire e praticare la

funzione sociale dell’economista. Inoltre, vi

si trovano riflessioni e spunti teorici ancora

utili su problemi che hanno spesso turbato

lo stato delle relazioni economiche interna-

zionali.

In questa nota vorremmo indicare alcune

delle ragioni della sua originalità e rappre-

sentare l’importanza di questo testo nello

sviluppo della successiva teoria keyne-

siana.

La fortuna dell’operaIl libro ebbe un clamoroso successo edito-

riale: nel giro di pochi mesi oltre centomila

copie vendute e ben undici traduzioni; l’im-

patto emotivo che suscitò nelle aule parla-

mentari e fra le grandi masse popolari fu

ancora più eclatante, contribuendo almeno

Ringrazio Piero Bini e Sebastiano Nerozzi per i loro commenti a una precedente versione di questo testo.

1 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi, 2007 [London, 1919]. Resta discu-tibile la mancanza di un’edizione critica comprensiva di indici analitici e di un saggio introduttivo, così come lascia perplessi il mancato inserimento del «frammento» del ritratto dedicato a Lloyd George. Poteva infine essere accolto il suggerimento di Roy Harrod di pubblicare in Appendice lo scritto biografico che Keynes avrebbe successivamente dedicato a Carl Melchior. Tutte le citazioni successive sono tratte da questa ultima edizione italiana.2 Si rinvia a R.F. Harrod, La vita di John Maynard Keynes, Torino, Einaudi, 1965 [London, 1951]; R. Skidel-sky, John Maynard Keynes, vol. I, Speranze tradite 1883-1920, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 [New York, 1983]; D.E. Moggridge, Maynard Keynes. An Economist’s Biography, London, Routledge, 1992.

Pier Francesco Asso

Su alcune conseguenze teoriche delle Conseguenze economiche della pace

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in parte alla mancata ratifica del trattato di

Versailles da parte del Senato americano e

alla conseguente decisione degli Stati Uniti

di non aderire alla Società delle Nazioni.

Grazie a esso, a soli 36 anni, dimessosi con

clamore dall’incarico ministeriale, Keynes

aveva acquisito una fama duratura, una

solida sicurezza finanziaria e una fervente

ammirazione da parte dei più elevati circoli

intellettuali che lo portò a sfiorare, nel 1920,

il premio Nobel per la pace. Come ebbe a

scrivere l’amico e scrittore David Garnett,

manifestando tutto il senso di gratitudine

degli esponenti del circolo di Bloomsbury

che pure così aspramente avevano criticato

l’ingresso di Keynes al Tesoro, l’economi-

sta di Cambridge divenne per molti «una

forza morale». Avendo imposto una pace

cartaginese, violato le regole della logica e

gli elementi più consolidati del diritto in-

ternazionale, il trattato «aveva offeso il suo

senso dell’onore, il suo senso di umanità,

il suo senso di ciò che era possibile»3. An-

che Joseph Schumpeter che, come molti

economisti del tempo, aveva accolto con

freddezza l’approccio iconoclasta con cui

il giovane Maynard ambiva a riporre in

soffitta i grandi classici dell’economia, non

restò insensibile allo sdegno con cui erano

stati esposti i risultati prodotti dalla con-

ferenza di pace e riconobbe che «le Con-

seguenze economiche della pace ebbero

una accoglienza tale per cui la parola “suc-

cesso” suona un luogo comune e riesce

insipida»4.

Il libro si affermò anche come un genere

letterario del tutto innovativo e su cui fino

ad allora i rappresentanti della scienza

economica si erano raramente messi alla

prova. La conoscenza approfondita con dati

di prima mano degli eventi narrati si abbi-

nava a una scrittura icastica, a una rico-

struzione accurata degli elementi giuridici

e geopolitici, a una brillante analisi intro-

spettiva della psicologia dei maggiori prota-

gonisti della conferenza, del loro linguaggio

corporale, dei loro tratti fisionomici, delle

personali tecniche di conduzione delle ri-

spettive strategie negoziali.

In effetti, una parte importante della noto-

rietà di Ecp fu sicuramente dovuta agli im-

pietosi e impareggiabili ritratti che Keynes

dedicò ai grandi potenti della terra: Woo-

drow Wilson, David Lloyd George e George

Clemenceau (il «G3»). Avendo avuto il pri-

vilegio di assistere personalmente alle riu-

nioni in cui i tre grandi decidevano tanta

parte del futuro del Vecchio Continente,

Keynes seppe smascherarne con efficacia

stilistica le meschinità e le ipocrisie, i cal-

coli politici e gli istinti vendicativi, gli atteg-

giamenti decadenti e le fragilità interiori. In

realtà, nella prima stesura di Ecp, la rabbia

di Keynes nei confronti del «G3» per il tra-

dimento dell’armistizio e per le condizioni

cartaginesi stabilite a Versailles, era emersa

con ancora maggior furore. Tuttavia, da en-

trambe le sponde dell’Atlantico, esponenti

di spicco della diplomazia internazionale e

del mondo accademico e finanziario erano

3 D. Garnett, Maynard Keynes as a Biographer, in M. Keynes (ed.), Essays on John Maynard Keynes, Cam-bridge, Cambridge University Press, 1975, p. 259.4 J.A. Schumpeter, John Maynard Keynes, 1883-1946, «American Economic Review», 1946, 4, pp. 495-518, poi ripubblicato anche in Epoche di storia delle dottrine e dei metodi. Dieci grandi economisti, Torino, Utet, 1971, pp. 416-445. La citazione è a p. 421.

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intervenuti, con successo, per convincere

Keynes a mitigare i tratti più aspri della sua

penna e a non calpestare oltremodo l’im-

magine di colui che maggiormente aveva

attirato l’attenzione degli osservatori e su-

scitato le speranze dei popoli: il presidente

americano Woodrow Wilson.

Nella versione consegnata alle stampe re-

stava comunque intatto il messaggio fon-

damentale di Ecp: una terribile minaccia

incombeva sulla civiltà occidentale a con-

trastare la quale l’azione dei governi e dei

leader delle maggiori potenze mondiali

sembrava, per ragioni molteplici, tragica-

mente inadeguata.

Una visione nuova dell’economiaAlcuni studiosi hanno, anche recente-

mente, sottolineato come i ritratti del «G3»

costituiscano un precoce esempio di appli-

cazione dei concetti della razionalità limi-

tata e dell’euristica cognitiva alle decisioni

politiche e ai meccanismi con cui opera la

diplomazia internazionale5. E tuttavia, al di

là di questi ardui collegamenti a distanza

con alcuni successivi contributi forniti dalla

teoria economica per meglio comprendere

i comportamenti effettivi dell’uomo, o di

gruppi di uomini, in società, sono molti gli

elementi del libro che mantengono una loro

freschezza e consentono di capire meglio

gli sviluppi teorici successivi di Keynes e di

altri protagonisti del pensiero economico

del XX secolo. È soprattutto su questi ele-

menti che vorremmo soffermare la nostra

attenzione.

L’analisi di Keynes era fondata su tre as-

siomi che, a suo modo di vedere, erano

completamente sfuggiti ai rappresentanti

del «G3» e alla folta comitiva di esperti di

diritto, di finanza e di politica internazio-

nale che li assistevano: 1. che soltanto un

razionale processo di ricostruzione econo-

mica poteva rappresentare la base su cui

fondare un nuovo ordine politico interna-

zionale e costituiva la principale barriera

contro il disordine, la disintegrazione, l’in-

stabilità delle relazioni fra gli stati; 2. che

l’ordine economico internazionale del XIX

secolo, fondato sul libero commercio, sulla

stabilità dei cambi e su un sistema di equi-

librio fra Europa e Stati Uniti, apparteneva

ormai a un’età dell’oro che ben difficil-

mente avrebbe potuto essere restaurata; 3.

che in nessun modo questo modello doveva

essere preso come guida per il futuro, men-

tre qualsiasi speranza di progresso doveva

essere costruita sull’instaurarsi di nuovi le-

gami di fiducia e di cooperazione a livello

internazionale, sulla diffusione dell’istru-

zione delle masse, sulla ripresa della libertà

d’iniziativa.

Questi principi erano stati decisamente

calpestati nel corso della lunga primavera

parigina per essere sostituiti da un trattato

ingiusto e dannoso. Un trattato che aveva

attribuito un valore sacro all’immagine di

colpevolezza della Germania e delle sue

genti per molte generazioni a venire; che

aveva preferito la vendetta alla magnani-

mità, rompendo l’inviolabilità di un con-

tratto e riconoscendo per valide clausole

estranee ai principi del diritto internazio-

5 W.P. Bottom, Keynes’ Attack on the Versailles Treaty. A Study of the Consequences of Bounded Rationality, Framing, and Cognitive Illusions, «International/Negotiation, vol. 8, n. 2 (2003)».

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nale. Ancor di più il trattato non aveva pro-

dotto evidenti vantaggi economici per i paesi

vincitori: aveva l’unico obiettivo di impove-

rire e deindustrializzare la Germania, ne-

gandole approvvigionamenti e prospettive

di crescita, senza rendersi conto che questo

intento, non solo avrebbe fomentato nuovi

risentimenti e nuovi conflitti, ma avrebbe

provocato l’impoverimento dell’intera Eu-

ropa e minacciato la sua stabilità.

La fine del «mondo di ieri»Dunque Ecp è, in primo luogo, un testo

cruciale per la visione del mondo che vi

si trova contenuta e che Keynes avrebbe

conservato intatta nei decenni successivi.

Con questo pamphlet, scritto di getto in po-

che settimane, si realizzò uno spostamento

radicale dal presupposto tardo ottocentesco

di un progresso economico automatico,

equilibrato, sorretto da istituzioni liberali,

fondato sui principi dell’integrazione inter-

nazionale, del rispetto dei contratti e della

corretta circolazione delle informazioni a

una visione del futuro in cui il benessere

avrebbe dovuto essere strenuamente con-

quistato e difeso palmo a palmo nelle cir-

costanze avverse create dalla guerra. Un

senso di minaccia pervade tutto il libro.

La guerra aveva definitivamente compro-

messo il delicato meccanismo economico

su cui poggiava l’Europa prima del 1914 e

il trattato ne aveva decretato la definitiva

distruzione.

Scrivendo Ecp, è stato notato6, Keynes si

candidò al ruolo di nuovo Machiavelli del

XX secolo, elaborando una visione sull’in-

stabilità del capitalismo e sull’imponente

estensione dei pubblici poteri necessari a

contrastarla, che gli terrà compagnia tutta la

vita. Terminata la sua stesura, Keynes aveva

maturato la convinzione che la fragilità del-

l’equilibrio postbellico non potesse essere

restaurata richiamandosi alla sacralità dei

principi su cui esso si fondava: il sistema

aureo, il libero commercio, l’equilibrio di

bilancio, la stabilità dei cambi rappresen-

tavano strumenti e obiettivi inadeguati al

nuovo stato del mondo. Occorrevano in-

vece nuove regole per riformare le relazioni

economiche internazionali che servissero

a favorire la ripresa degli investimenti e

l’assorbimento degli squilibri dei principali

indicatori macroeconomici. Occorreva una

radicale trasformazione degli obiettivi della

politica economica, che consentisse di dedi-

care maggiore attenzione ai problemi della

stabilità interna e alle misure di protezione

dagli shock esterni. Occorreva disegnare

nuovi modelli di cooperazione internazio-

nale che favorissero una attenuazione della

sovranità nazionale e un più incisivo uso

collettivo delle risorse. Occorreva, in ultima

analisi, abbandonare la visione nostalgica

del «mondo di ieri» e fare in modo che l’eco-

nomia, una nuova economia, strappasse il

predominio alla politica, dopo che quest’ul-

tima aveva clamorosamente fallito nel ga-

rantire qualsiasi prospettiva di stabilità, di

progresso e, quindi, di sicurezza e di pace.

Questa costruzione di una nuova visione

dello stato del mondo, insieme ad alcune

indicazioni di metodo che da essa discen-

devano, rappresentò uno fra i più rilevanti

6 Si veda il saggio introduttivo di Marcello De Cecco a J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983.

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e duraturi contributi delle denunce e del-

l’invocazione di giustizia contenute in Ecp.

Tuttavia, vi sono altre implicazioni teoriche

interessanti che emergono dalla lettura del

libro. Occorre dire che molti economisti

contemporanei di Keynes, fra i quali nuo-

vamente Schumpeter, hanno minimizzato

il valore analitico di Ecp. La parte teorica

del libro era «delle più semplici e non ri-

chiedeva alcuna tecnica raffinata»7. Si tratta

naturalmente di valutazioni condivisibili

se non persino pletoriche, se si pensa alla

natura dell’opera e al pubblico cui era de-

stinata. Eppure in questo testo si trovano

analisi e spiegazioni innovative sul funzio-

namento dei sistemi economici, la cui im-

portanza sarebbe emersa ben presto nella

nuova congiuntura internazionale prodotta

dalla crisi del 1929 e dalla successiva ca-

tena di eventi.

Ne vorrei, brevemente, esaminare tre: il

problema del trasferimento; il ruolo dell’in-

certezza; l’analisi dell’inflazione.

Le riparazioni e il problema del loro trasferimentoCominciamo dalla prima: è noto che una

delle denunce più vibranti contenute in Ecp

riguarda la violazione dei termini dell’ar-

mistizio e il mancato rispetto del principio

della capacità di pagamento della Germa-

nia. L’ammontare delle riparazioni non era

collegato alle effettive capacità economiche

della Germania o al livello della sua poten-

ziale produzione, ma comprendeva pretese

assurde e voci discutibili che avrebbero

inevitabilmente richiesto un’estensione dei

pagamenti al di là della generazione che

era stata effettivamente responsabile del

conflitto. In questa categoria rientravano

sicuramente gli indennizzi per i sussidi alle

famiglie dei combattenti e le pensioni per

cause di morte in guerra.

Tuttavia, Keynes pose al centro della sua

analisi e della sua denuncia, non tanto

l’entità delle riparazioni in valore assoluto,

quanto il meccanismo tecnico con cui si sa-

rebbe potuto realizzare il loro trasferimento

da un paese all’altro. Egli dimostrò le no-

tevoli complicazioni per l’economia euro-

pea prodotte da una nazione che avrebbe

dovuto far fronte alle proprie obbligazioni

internazionali trovandosi sprovvista di oro

o di altre attività patrimoniali verso l’estero,

essendo stata depredata della flotta e di

tutte le proprietà possedute dai suoi citta-

dini in altri territori, e impoverita dei propri

approvvigionamenti di materie prime e di

prodotti strategici. Su queste basi, il paga-

mento delle riparazioni dipendeva esclu-

sivamente dall’esistenza di un saldo an-

nuale positivo della bilancia commerciale

e quindi dalla possibilità che la Germania

fosse stata in grado di intraprendere rapi-

damente il cammino verso la ripresa delle

attività produttive e, soprattutto, delle pro-

prie esportazioni.

Avrebbe potuto la Germania trasformare

il suo sistema produttivo e di consumi in

modo da generare un cospicuo avanzo di

esportazioni e di entrate valutarie tale da

ripagare negli anni i propri debiti? Avrebbe

potuto farlo senza produrre conseguenze

nefaste sui sistemi economici di altri paesi

e, segnatamente, dei vincitori? Sono queste

alcune domande che il libro pose all’atten-

7 J.A. Schumpeter, John Maynard Keynes, cit., p. 423.

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zione degli studiosi di economia e più in ge-

nerale delle autorità di politica economica.

Keynes sottolineò l’esistenza di una diffi-

coltà aggiuntiva: nonostante la forza e le

punte di eccellenza produttiva conquistate

a cavallo dei due secoli, l’economia tede-

sca, come quella di tutti i paesi «centro»,

era ormai da decenni caratterizzata da un

disavanzo strutturale nella propria bilan-

cia commerciale. Questa condizione, da un

lato, le consentiva di alimentare la propria

sfera di influenza economica e politica con

i paesi che appartenevano alla propria «pe-

riferia», mentre dall’altro favoriva un in-

cremento del suo consumo interno grazie

al maggior reddito prodotto dagli investi-

menti esteri. Il problema del trasferimento

era dunque ulteriormente complicato: tra-

sformare un disavanzo strutturale in una

situazione di consistente avanzo in man-

canza di adeguate risorse umane, fisiche e

finanziarie avrebbe prodotto un cataclisma

sul sistema dei prezzi e dei redditi, da cui i

paesi vincitori non sarebbero restati esenti.

Qual era dunque il senso di pretendere che

la Germania pagasse un conto così salato?8

Fra le righe, nelle pagine finali, Keynes la-

scia chiaramente intendere come questa

problematica del trasferimento non fosse

soltanto un esercizio di technicalities su

cui aprire un confronto con altri esperti di

economia, ma avrebbe potuto produrre ter-

ribili conseguenze sullo scenario della geo-

politica del nuovo mondo. In una parola,

la sparizione della Germania dalla carta

dell’Europa centrale e la menomazione

del suo ruolo di paese centro in quella area

avrebbe presumibilmente aperto la strada

ad altre ambizioni provenienti dal fronte

orientale.

In ogni caso, di fronte a dimensioni delle

riparazioni fuori da ogni logica e di fronte

a un sistema di annualità così spalmato nel

tempo futuro, il transfer problem avrebbe

accentuato la tendenza allo squilibrio in-

ternazionale e contribuito alla destabiliz-

zazione dell’Europa intera, diffondendo i

germi della crisi attraverso il mercato dei

cambi, l’andamento delle ragioni di scam-

bio, gli inevitabili contraccolpi sulle bar-

riere tariffarie di nuova creazione. E pro-

blemi del genere si sarebbero ripresentati

tutte quelle volte in cui il debito estero di

un paese avesse raggiunto proporzioni

straordinariamente elevate rispetto all’an-

damento del suo commercio internazio-

nale o del prodotto interno. Ne conseguiva,

secondo Keynes, la necessità di rivedere

drasticamente le posizioni di credito e de-

bito internazionale che erano emerse dalla

guerra, favorendo un ritorno allo scambio

e all’integrazione che sarebbe stato vantag-

gioso per tutti:

se miriamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non si farà attendere. Niente potrà allora ritar-dare a lungo quella guerra civile finale fra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca svaniranno nel

8 L’ingente incremento delle esportazioni tedesche sarebbe potuto avvenire solo con la riduzione dei prezzi dei beni esportabili, producendo dunque un notevole peggioramento delle ragioni di scambio per la Germania e una ulteriore difficoltà a pagare i propri debiti. La deflazione interna e la forte contrazione delle importazioni non essenziali dai paesi vincitori avrebbero ulteriormente contribuito a diffondere la crisi economica negli altri paesi.

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nulla, e che distruggerà, chiunque sia il vin-citore, la civiltà e il progresso della nostra ge-nerazione9.

Queste parole cadranno nel vuoto. Torne-

ranno a essere un valido monito quando,

a partire dal 1941, Keynes sarà impegnato

a costruire meccanismi di aggiustamento

degli squilibri su basi cooperative, simme-

triche e sostenibili in modo da evitare le dif-

ficoltà imposte dal transfer problem. In ogni

caso, anche in presenza di un nuovo ordine

economico internazionale, l’esistenza di un

transfer problem continuerà a minacciare

crisi e disordini in occasione dei grandi

shock esterni che colpiranno le economie

avanzate a seguito di variazioni improvvise

nei prezzi di materie prime strategiche o

nei tassi di cambio.

Rischio e incertezzaIl trattato rappresentava dunque una spada

di Damocle sulla stabilità finanziaria del-

l’Europa, prolungando irrimediabilmente

il periodo della ricostruzione e della ri-

presa. In mancanza di una sua revisione si

sarebbero avute notevoli difficoltà tecniche

nel convertire le riparazioni tedesche nelle

valute dei creditori, provocando sconvolgi-

menti a catena sul mercato dei cambi, dei

commerci e delle strutture produttive dei

paesi vincitori.

Tuttavia, così come esposto, il problema

del trasferimento delle riparazioni presup-

poneva l’esistenza di condizioni di partenza

stabilite con certezza dalle varie clausole

del trattato, a cominciare dall’ammontare

complessivo delle riparazioni e dalle mo-

dalità del loro pagamento. Al contrario,

molte di queste clausole erano state lasciate

colpevolmente indeterminate, producendo

conseguenze ancora più funeste sulle pro-

spettive dell’economia europea. Una fra le

più rilevanti era dunque rappresentata dal-

l’incredibile aumento nello stato generale

di incertezza che questo documento era

riuscito a produrre.

Ecp pose al centro dell’attenzione di un va-

sto pubblico di lettori la distinzione fra ri-

schio e incertezza che Keynes aveva matu-

rato nel corso della propria tesi di dottorato

sulla teoria delle probabilità. Per ripristinare

condizioni di normalità e di progresso, ben

diverse erano le implicazioni di un incre-

mento di situazioni di rischio economico

di impresa – cioè di un fenomeno oggettivo

e formalmente assicurabile – rispetto a un

peggioramento delle condizioni generali di

incertezza, il cui impatto sull’attività di in-

vestimento e di accumulazione del capitale

era del tutto imprevedibile. Ora, secondo

Keynes, il trattato aveva enormemente ac-

cresciuto i sentimenti soggettivi – sia del

singolo individuo che di intere collettività

– di confusione, di paura e di incertezza

sullo stato futuro del mondo.

Nella puntigliosa analisi delle clausole del

trattato, a cui Keynes dedicò uno spazio

rilevante anche se forse meno conosciuto

rispetto ad altre parti di Ecp, si trovano

molte dimostrazioni di come i tre grandi,

con i loro compromessi e le loro sofistica-

zioni giuridiche, avessero compiuto il ca-

polavoro di creare una pace in cui il clima

di incertezza era ben più fosco rispetto a

9 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 212.

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quello prevalente negli anni della guerra.

La stessa frantumazione delle frontiere,

con la moltiplicazione dei segni monetari

e delle barriere tariffarie, avrebbe alimen-

tato la disgregazione e le potenzialità di

futuri conflitti, economici e non. Il trattato

era dunque riuscito nell’impresa di far tor-

nare nuovamente alla luce lo spettro mal-

thusiano, minacciando l’inizio di un’era di

ristagno secolare: l’irrefrenabile crescita

della popolazione insieme al timore di un

impoverimento generale avrebbe prodotto

nuovo caos e instabilità. La mancanza di fi-

ducia nelle prospettive future avrebbe for-

temente indebolito il valore classico della

parsimonia e la sua capacità di sostenere

effettivamente la ripresa degli investimenti

e dell’accumulazione del capitale. Ecco

dunque che emerge, sin da questo testo,

l’indicazione keynesiana che il compito

fondamentale della politica economica

debba essere soprattutto quello di ridurre

l’incertezza e gli eccessi di variabilità ne-

gli indicatori fondamentali, per i seri danni

che questi fenomeni provocano ai sistemi

economici, deprimendo lo spirito di intra-

presa, riducendo gli investimenti e la cre-

scita del reddito al di sotto del loro livello

ottimale.

Invitando il lettore a riflettere su questi temi,

la questione più eclatante, su cui Keynes

insistette a lungo, riguardava il «principio

di indeterminatezza» delle riparazioni che

era dovuto alla fertile mente creativa del

legal advisor di Wilson, John Foster Dul-

les. Dulles aveva elaborato il testo finale

di due fondamentali articoli, il 231 e il 232,

che, con molti equilibrismi, stabilivano: 1)

alla Germania dovevano essere imputati

i costi integrali della guerra; 2) la somma

iniziale dovuta era pari a venti miliardi di

marchi-oro; 3) che spettasse comunque

alla costituenda Commissione interalleata

per le riparazioni la determinazione della

somma finale. Si trattava, in definitiva, di

una open-end solution. Essa forniva al «G3»

un accettabile compromesso fra i punti di

vista contrastanti dei francesi che, con il

sostegno degli inglesi, richiedevano il mas-

simo, e degli americani che, avendo come

obiettivo un saldo più modesto, optavano

per una strategia del rinvio.

Keynes osservò lucidamente come questo

stato di indeterminatezza rappresentasse,

in assoluto, la soluzione peggiore per il fu-

turo dell’Europa:

c’è una grossa differenza fra fissare una

somma precisa, pur grande, che la Germania

abbia la capacità di pagare tenendo al tempo

stesso qualcosa per sé, e fissare una somma

molto superiore alle sue capacità, che poi può

essere ridotta a discrezione di una commis-

sione straniera, guidata dall’obiettivo di otte-

nere ogni anno il massimo consentito dalle

circostanze di quell’anno. La prima alterna-

tiva lascia alla Germania un qualche incen-

tivo all’iniziativa, all’energia e alla speranza.

La seconda la scortica viva anno per anno in

perpetuo, e per quanto abilmente e discreta-

mente sia condotta l’operazione, badando a

non uccidere il paziente sotto i ferri, rappre-

senta una politica che se fosse davvero con-

templata e deliberatamente attuata, sarebbe

condannata dal giudizio degli uomini come

uno degli atti più obbrobriosi di un crudele

vincitore nella storia del mondo civile10.

10 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., pp. 138-139.

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Con l’approvazione di questi due articoli

l’ammontare del debito tedesco restava

indeterminato, ponendo anche gravi que-

stioni di equità intergenerazionale, e arri-

vando a coinvolgere generazioni future di

cittadini incolpevoli per gli atti commessi

dai loro avi.

Dunque, come Keynes avrebbe scritto qual-

che anno più tardi, una delle più rilevanti

conseguenze teoriche del trattato, consi-

steva nel far venir meno alcuni dei principi

fondamentali che gli economisti ottocen-

teschi avevano posto a base della crescita

e dell’efficienza, e che richiamavano l’im-

magine eloquente della mano invisibile,

delle armonie economiche, dell’equilibrio,

della parsimonia. Nel nuovo mondo che era

sorto sulle ceneri del trattato di Versailles,

la «mano invisibile» smithiana era divenuta

uno strumento obsoleto e una speranza il-

lusoria: si era trasformata in qualcosa di più

terreno e sinistro, ovvero «nel nostro piede

insanguinato con cui ci muoviamo attra-

verso il dolore e il lutto per raggiungere una

direzione incerta e non profittevole»11.

L’inflazione e i suoi effettiL’analisi degli scenari futuri dominati dal-

l’incertezza lo portò naturalmente a dedi-

care molto spazio a discutere gli effetti di-

struttivi dell’inflazione.

In Ecp, ha scritto Roy Harrod, Keynes lan-

ciò un monito severo, quasi profetico, sui

mali dell’inflazione. In effetti, ci pare che

nelle pagine finali siano ben presenti in

Keynes le responsabilità che gli studiosi

della nuova economia dovevano assumersi

per riabilitare il connubio politica-econo-

mia. Difatti, le tensioni inflazionistiche che

si sarebbero prodotte nel dopoguerra non

avrebbero mancato di generare sconquassi

politici di vaste dimensioni. Inventandosi

di sana pianta una citazione di Lenin, che

da quel momento sarebbe divenuta patri-

monio comune di politici ed economisti,

Keynes mise in guardia il mondo moderno

contro le degenerazioni sistemiche prodotte

dalle violente fluttuazioni nei prezzi:

Lenin ha detto, pare, che la via migliore per distruggere il sistema capitalistico è svilire la moneta. Mediante un continuo processo di inflazione, i governi possono confiscare, segretamente e inosservati, una grossa parte della ricchezza dei loro cittadini. Con questo metodo non solo confiscano, ma confiscano arbitrariamente [...] Lenin aveva certamente ragione. Non c’è mezzo più sottile, più sicuro, dello svilimento della moneta per abbattere le basi esistenti della società12.

Innumerevoli erano i mali indotti da un pro-

cesso inflazionistico incontrollato e Keynes

li passò rapidamente in rassegna alla fine

di Ecp, aprendo la strada a quelle riflessioni

sul ruolo e sulla natura di un’economia

monetaria al cui approfondimento avrebbe

11 J.M. Keynes, Sir Oswald Mosley’s Manifesto, in Id., The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. XX, London-New York, Macmillan-Cambridge University Press for the Royal Economic Society, 1981, p. 474. 12 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., pp. 187-188. Il corsivo è nel testo originale. Moggridge attribuisce il pensiero di Lenin alla fertile mente inventiva di Keynes, anche se è probabile che questa notazione sia tratta da E.A. Preobraženskij che, insieme a N. Bucharin, pubblicò nel 1919 un’ope-retta divulgativa, ABC del Comunismo, Roma, Del Bosco Edizioni, 1973. Ringrazio su questo punto Luigi Cavallaro.

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dedicato i decenni più fecondi della sua atti-

vità scientifica: l’inflazione genera squilibri

fra creditori e debitori; alimenta manovre

speculative per acquisire extraprofitti; sco-

raggia la formazione di risparmio e distorce

i valori reali dei beni capitali; indebolisce

la posizione sociale degli imprenditori, cioè

dei soggetti economici da cui dipende in ul-

tima analisi il progresso economico; incrina

la fiducia dei cittadini nella loro moneta;

trasferisce indebitamente ricchezza dal

privato al pubblico e stimola la creatività

fiscale dei governanti. Come Keynes dirà

meglio in seguito, il progresso economico

e l’attività produttiva non potevano realiz-

zarsi in condizioni di instabilità monetaria,

di incertezza e di ignoranza ma, in presenza

di inflazione, assumevano i contorni di una

vera e propria lotteria.

L’instabilità monetaria generava una nuova

classe sociale, i profiteers, su cui i governi

cercarono di alimentare un’indignata rea-

zione dell’opinione pubblica, non sapendo

che in questo modo si sarebbero compiuti

passi da gigante nel processo di collasso del

sistema capitalistico indicato da Lenin: «di-

rigendo l’odio contro questa classe, perciò, i

governi europei portano un passo avanti il

fatale processo consapevolmente concepito

dalla mente sagace di Lenin. I profittatori

sono una conseguenza, non una causa del-

l’aumento dei prezzi»13.

In conclusione, tre domandeChe cosa resta oggi di Ecp? Abbastanza

poco, almeno secondo una corrente piutto-

sto nutrita di storici contemporanei che, a

partire dagli anni Settanta, ha ridimensio-

nato la mitologia delle riparazioni anche

sulla base di un’estesa mole di fonti archi-

vistiche14. I calcoli di Keynes erano sbagliati

e approssimativi; fuorvianti le proiezioni

sull’effettivo impoverimento dell’economia

tedesca, che in termini di risorse umane e

materiali aveva subito danni assai inferiori

rispetto ai paesi vincitori; altrettanto discu-

tibili erano le previsioni sugli effetti prodotti

dal trasferimento delle riparazioni che po-

nevano troppa enfasi sulla ripresa del com-

mercio estero e delle esportazioni piuttosto

che su un incremento della pressione fiscale

o dei prestiti internazionali. Accusare poi il

«G3» di violazione del diritto internazionale

era operazione altrettanto controversa in

quanto il contratto sottoscritto dai vincitori

al momento dell’armistizio non era vinco-

lante, mentre Keynes, stranamente, aveva

accuratamente evitato di pronunciarsi sul

problema cruciale della sicurezza fran-

cese. Infine, non sarebbe stato impossibile

per la Germania ripagare le riparazioni e

il trattato rappresentò, anche grazie agli

articoli proposti da Wilson, uno strumento

flessibile che agevolò la significativa ri-

presa dell’economia europea dopo il 1924.

In definitiva, con la sua enfasi sulla puni-

zione e sulla pace cartaginese, il libro aveva

colpevolmente alimentato la propaganda

filotedesca – di cui Keynes stesso era una

probabile vittima – non mostrando alcuna

indulgenza nei confronti della logica e delle

ragioni politiche e finanziarie dei francesi.

13 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 188.14 Si vedano i numerosi saggi contenuti nel volume M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.), The Treaty of Versailles. A Reassessment after 75 years, Cambridge, Cambridge University Press, 1998.

Page 18: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

174

Non è questa l’occasione per intervenire su

questo tipo di critiche rivolte a Ecp. Tutta-

via, mi pare che nessuna di esse abbia in

qualche modo sminuito il peso attribuito

da Keynes all’indeterminazione delle ripa-

razioni e ai problemi di equità intergenera-

zionale che esse avrebbero inevitabilmente

provocato.

È possibile sostenere che Ecp riuscì a in-

fluenzare il corso degli eventi? Anche in

questo caso la risposta è negativa. Nella

sostanza, Ecp seguì il destino di tutti gli

scritti e di tutte le iniziative pubbliche e po-

litiche di Keynes, almeno fino alla seconda

guerra mondiale e agli accordi di Bretton

Woods: la sua «fortuna» non derivò tanto

dall’impatto immediato delle sue specifi-

che raccomandazioni, ma dall’influenza

che esse ebbero sul dibattito intellettuale

e pubblicistico e dalla sorprendente capa-

cità di cogliere la tendenza, se non proprio

l’entità, degli avvenimenti futuri. In effetti,

tutte le principali e più originali proposte di

Keynes non ricevettero grande attenzione

nel corso delle numerose conferenze che

seguirono alla firma del trattato e al suo

processo di revisione. Esse riguardavano la

cancellazione dei debiti interalleati, l’aboli-

zione della Commissione per le riparazioni,

l’attribuzione di maggiori poteri alla Società

delle Nazioni, la richiesta di ridefinire con

precisione e in limiti temporali accettabili le

somme da far pagare alla Germania, la ne-

cessità di coltivare strette relazioni econo-

miche con la Russia e di reintegrare al più

presto la Germania nel contesto europeo.

Ben diverso fu invece il destino delle pre-

visioni contenute in questo testo. Da quelle

più apocalittiche, che annunciavano tempi

brevi per il crollo della civiltà europea e dei

suoi antichi splendori; a quelle più tecni-

che e finanziarie, con cui Keynes anticipò

correttamente che, nel giro di pochi anni,

nessuno dei tributi o delle clausole imposte

a Versailles sarebbe sopravvissuto15.

E, infine, quali sono gli insegnamenti che

restano e rendono ancora utile la sua let-

tura?

Ecp rappresentò un grido di rivolta del-

l’economia nei confronti della politica. La

nazione, la patria, la retorica militarista, la

conquista di nuovi confini rappresentavano

falsi idoli ed era indispensabile che chi de-

teneva le leve del potere li riconvertisse

rapidamente verso i traguardi della ripresa

del progresso economico, della stabilità

finanziaria, della rinascita di uno stato so-

ciale. Da fedele suddito di Sua Maestà, Key-

nes mandò un messaggio che voleva toc-

care le corde profonde di una nazione che

aveva dato i natali a Richard Cobden e a

John Stuart Mill: «quale ben diverso futuro

l’Europa avrebbe potuto sperare se Lloyd

George o Wilson avessero capito che i pro-

blemi più gravi reclamanti la loro atten-

zione non erano politici o territoriali ma fi-

nanziari ed economici»16. Cominciò dunque

ad affermarsi con Ecp l’idea che gli uomini

che erano stati chiamati a guidare le sorti

di un paese dovessero prevalentemente

occuparsi dei meccanismi per favorire la

crescita del reddito e dei sistemi sociali in

modo da difendere il benessere collettivo e

individuare i possibili punti di contatto fra

15 Si veda, in proposito, il recente G. Dostaler, Keynes and His Battles, Cheltenham, Elgar, 2007.16 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 123.

Page 19: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

175

la sfera della produzione e la sfera della di-

stribuzione del reddito. Saranno idee a cui

Keynes dedicherà tutte le sue energie in-

tellettuali negli anni fra le due guerre ma

che acquisteranno un posto al sole soltanto

dopo il 1945. Basterà tuttavia ricordare che,

già negli anni Venti, personalità come Ezra

Pound e T.S. Eliot riconobbero la grandezza

di Keynes per aver alimentato nuovi inte-

ressi per l’economia, il funzionamento dei

sistemi monetari, i meccanismi di interdi-

pendenza commerciale e finanziaria dei

paesi, le relazioni fra progresso economico

e sicurezza.

Infine, al di là delle illuminanti considera-

zioni su inflazione e incertezza, Ecp rap-

presenta ancora un modello esemplare

su come si scrive un libro di economia.

In quell’occasione, l’economista dotato di

grandi competenze tecniche in materia di

cambi e di sistemi monetari si fuse mirabil-

mente con l’educatore dell’opinione pub-

blica, lo scienziato politico, il letterato. Con

esso si tratteggiò un prototipo ideale di eco-

nomista che, alla luce anche dei successi

professionali ottenuti in tempo di guerra,

affermava la propria capacità di svolgere

un’importante funzione sociale. Dopo la

fine dell’età dell’oro, la ricerca teorica fine

a se stessa, che aveva in larga parte domi-

nato gli sviluppi dottrinari dei precedenti

cinquanta anni, avrebbe dovuto essere ac-

cantonata: il nuovo economista doveva es-

sere in grado di miscelare sapientemente i

dati formali dei problemi e la logica della

loro rappresentazione con l’arte della reto-

rica, la conoscenza della storia e delle rela-

zioni fra popoli, l’introspezione psicologica

che gettava nuova luce sui meccanismi dei

processi decisionali. Il vero cultore di studi

economici, scriverà Keynes di lì a poco, do-

veva essere colui che possedeva una

rara combinazione di doti [...] e combinare capacità che non si trovano spesso assieme. Deve essere in certo modo matematico, sto-rico, statista, filosofo; maneggiare simboli e parlare in vocaboli; vedere il particolare nella luce del generale, toccare astratto e concreto con lo stesso colpo d’ala del pensiero. Deve studiare il presente alla luce del passato e in vista dell’avvenire. Non c’è parte della natura o degli istituti umani che possa sfuggire al suo sguardo. Dev’essere, contemporaneamente, interessato e disinteressato: distaccato e in-corruttibile come l’artista, e tuttavia, a volte, vicino alla terra come l’uomo politico17.

Sono parole appassionate che Keynes aveva

scritto nel 1924 dedicandole alla memoria

del maestro, Alfred Marshall, ma che po-

trebbero essere applicate alla sua persona

e alla trasformazione che fu avviata con la

stesura di Ecp.

Questo modello, anche letterario, sarebbe

progressivamente andato perduto nel corso

dei successivi decenni: non molti protago-

nisti nella storia delle idee economiche

riusciranno a eguagliare questo ideal-tipo

di economista e assai pochi sapranno pro-

durre opere semplici e allo stesso tempo

complete, realiste e analiticamente fondate

come Ecp. Tuttavia, con quest’opera avrà

inizio il percorso che porterà Keynes a

mettere da parte i vecchi strumenti del me-

17 J.M. Keynes, Essays in Biography (1933), ristampato in Id., The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. X, London, Macmillan, 1971, pp. 173-174.

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176

stiere per cercare di costruirne dei nuovi e

soprattutto per realizzare quegli obiettivi di

benessere sociale e di stabilità economica

che, rimasti a lungo assenti dalle riflessioni

dei suoi predecessori, sono diventati il pane

quotidiano per gli economisti di oggi.

William R. Keylor

Il libro del secolo (e oltre): la prolungata influenza di Le conseguenze economiche della

pace di John Maynard Keynes

Quando John Maynard Keynes si dimise

disgustato dalla delegazione britannica

alla conferenza di pace di Parigi del 1919

per protestare contro il trattato di pace che

essa aveva prodotto e che egli giudicava

disastroso, si precipitò a dare alle stampe

un libro scritto impetuosamente, che spe-

rava potesse orientare l’opinione pubblica

contro quella che egli definì ironicamente

la «pace cartaginese»1. Se si fosse riusciti a

mettere prontamente in guardia le élite po-

litiche ed il grande pubblico contro i cata-

strofici difetti del trattato di pace del 1919, i

danni fatti dai negoziatori a Parigi si sareb-

bero potuti neutralizzare. L’Europa e gran

parte del mondo avrebbe quindi potuto ri-

prendersi dai devastanti effetti economici

della Grande guerra e dal difettoso accordo

di pace che aveva posto termine ad essa.

In questa campagna personale contro il

trattato di Versailles Keynes riscosse un

successo che andava molto al di là delle sue

aspettative. Subito dopo la sua apparizione

nel dicembre 1919, il libro venne citato dai

senatori americani che avrebbero presto

rifiutato la ratifica legislativa dell’accordo

di pace che il presidente Woodrow Wilson

aveva portato a casa da Parigi2. Al momento

in cui il Senato, il 19 marzo 1920, espresse il

suo voto definitivo che respingeva il trattato

di Versailles, negli Stati Uniti erano state

vendute quasi settantamila copie del libro3.

Nel giro di pochi anni sarebbe stato tradotto

in undici lingue.

Nel decennio successivo il libro continuò

ad influenzare il pensiero dei leader poli-

tici, soprattutto negli Stati Uniti ed in Gran

Bretagna. L’insoddisfazione per l’accordo

di pace faceva passi da gigante, spingendo i

funzionari di entrambi i paesi a richiedere

ed ottenere alcune radicali revisioni delle

clausole finanziarie del trattato di Versail-

1 L’ampiezza della sua delusione per l’accordo di pace si riflette abbondantemente nella sua lettera di di-missioni al primo ministro britannico David Lloyd George: «Devo informarla che sabato dormirò lontano dalla scena di questo incubo. Non posso fare più nulla di buono qui. Ho continuato a sperare, anche in queste ultime terribili settimane, che lei trovasse qualche modo per rendere il trattato un documento giusto ed utile. Ma ormai sembra troppo tardi. La battaglia è persa», cfr. John Maynard Keynes a David Lloyd George, 5 giugno 1919, House of Lords Record Office, The Papers of David Lloyd George, F/7/2/32.2 «New York Times», 19 febbraio 1920.3 R. Skidelsky, John Maynard Keynes. vol. 1. Speranze tradite, 1883-1920, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 [London, 1983], pp. 381, 456.

Page 21: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

177

les. L’ammontare dell’obbligo di ripara-

zione della Germania verso gli Alleati euro-

pei vincitori – che avevano suscitato le pro-

teste più fragorose da parte di Keynes nel

suo libro – fu sistematicamente ridotto nel

corso di quel decennio. Al 1931, quando fu

accettato da tutte le parti in causa l’Hoover

Moratorium, che proponeva la sospensione

di un anno dei pagamenti del debito inter-

governativo, la Germania aveva cessato

completamente di pagare le riparazioni e

non avrebbe più ricominciato.

L’ammontare totale dei pagamenti ese-

guiti dalla repubblica di Weimar tra il 1919

ed il 1931 era inferiore a ventitre miliardi

di marchi-oro. Tale somma era ben lon-

tana dalle cifre stratosferiche discusse alla

conferenza di pace ed inferiore a quello

che Keynes suggeriva nel suo libro come

limite massimo della capacità di paga-

mento della Germania4. Inoltre, come ha

mostrato Stephen Schuker, dopo che la

Germania venne meno ai suoi debiti com-

merciali verso l’estero (soprattutto verso le

banche americane) durante la Grande de-

pressione, finì per non pagare neanche le

riparazioni nette. Gli investitori americani,

in realtà, avevano finanziato i pagamenti

delle riparazioni così come gran parte

della spesa interna cui si abbandonò la

repubblica di Weimar nella seconda metà

degli anni Venti5.

Dopo che, negli ultimi anni della repub-

blica di Weimar, venne abbandonata la

parte del trattato di Versailles relativa alle

riparazioni, le clausole territoriali e quelle

relative al disarmo furono progressiva-

mente demolite durante il periodo nazista

in conseguenza delle minacce diplomatiche

tedesche e dell’arrendevolezza degli alleati.

Una delle principali motivazioni che sta-

vano dietro alla politica di appeasement era

la convinzione che l’accordo di pace fosse

stato eccessivamente duro nei confronti

della Germania sconfitta. Questo senso di

colpa per il trattato di Versailles suscitò,

soprattutto in Gran Bretagna, la convin-

zione che, se legittime lamentele della Ger-

mania potessero essere risolte attraverso

le reciproche concessioni della trattativa

diplomatica, l’Europa avrebbe allontanato

l’orrore di un’altra guerra distruttiva. La

lucida e suggestiva denuncia keynesiana

della parte economica degli accordi di

pace aprì la strada a quegli opinionisti ed

a quei politici che – soprattutto nel mondo

di lingua inglese – erano desiderosi di ri-

vedere le clausole territoriali e di disarmo

del trattato di Versailles per facilitare l’ac-

cettazione, da parte della Germania, del-

l’assetto postbellico dell’Europa. Sebbene

la critica di Keynes a Versailles fosse limi-

tata agli aspetti economici del trattato, essa

contribuì all’idea diffusa in Gran Bretagna

(e, entro certi limiti, negli Stati Uniti) che

l’accordo del 1919 non meritasse di essere

mantenuto e che, sicuramente, non valesse

un’altra guerra europea6.

4 S. Marks, Reparations Reconsidered: A Reminder, «Central European History», 1969, 2, pp. 356-365; J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi, 2007 [London, 1919], pp. 207-208.5 S.A. Schuker, American «Reparations» to Germany, 1919-1933, Princeton, Princeton University Press, 1988.6 Sull’impazienza dell’amministrazione Roosevelt di rivedere gli accordi di pace cfr. A.A. Offner, American Appeasement. American Foreign Policy and Germany, 1933-1938, Cambridge (Ma), Harvard University

Page 22: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

178

Una lunga e contraddittoria fortunaL’impatto del libro di Keynes non si esaurì

però con la seconda guerra mondiale. Le

nuove edizioni che continuarono ad essere

pubblicate contribuirono ad influenzare i

giudizi sull’accordo di pace del 1919 anche

della generazione successiva al secondo

conflitto mondiale. Dopo il 1945 gli stu-

diosi si affannarono a rispondere ad uno

scomodo interrogativo: come ha potuto la

patria di Schiller, Beethoven, Goethe spro-

fondare nella barbarie del Terzo Reich?

Come ha potuto il continente che ha tra-

smesso al mondo le tradizioni umanisti-

che del Rinascimento e dell’Illuminismo

permettere un’aggressione ed uno sfrutta-

mento così scoperti? Uno dei modi possibili

per spiegare l’epoca più tragica nella storia

del continente fu attribuirne la responsabi-

lità all’accordo di pace che Keynes aveva

screditato in modo così argomentato alla

fine dell’ultima guerra. Questa analisi re-

trospettiva conduceva ad un’implicita affer-

mazione controfattuale, che contribuì a pla-

smare la storiografia sul trattato di pace per

molti anni a venire: se solo gli Alleati vinci-

tori, nel 1919, avessero dominato le loro an-

guste e provinciali ambizioni nazionali per

costruire una pace di riconciliazione con la

Germania sconfitta – proprio il genere di

pace che Keynes aveva caldeggiato in Le

conseguenze economiche della pace – gli or-

rori del recente passato si sarebbero potuti

evitare. Un biografo di Keynes lo ha detto

apertamente: «Se il programma di Keynes

del 1919 fosse stato attuato è improbabile

che Hitler sarebbe diventato cancelliere te-

desco»7. Se il trattato di Versailles rappre-

sentò – come recita il titolo di un libro pub-

blicato negli anni Sessanta – «il semenzaio

della seconda guerra mondiale»8, quanto

fu tragico allora che i leader mondiali non

ascoltassero i terribili ammonimenti di

questa chiaroveggente Cassandra e non

ponessero rimedio ai danni di Versailles

prima che fosse troppo tardi!

Keynes non era solo nella sua rumorosa

denuncia del trattato di Versailles in quanto

iniquo ed impraticabile. Altri membri de-

lusi delle delegazioni americana e britan-

nica alla conferenza di pace seguirono le

orme dello specialista del Tesoro britan-

nico con loro proprie geremiadi. Il gior-

nalista Ray Stannard Baker, che era stato

l’addetto stampa di Woodrow Wilson alla

conferenza di pace, pubblicò nei primi anni

Venti un’opera in due volumi che elogiava

a profusione il presidente americano per la

sua eroica battaglia per una pace di riconci-

liazione contro le trame ciniche degli avidi

e vendicativi statisti Alleati9. Nello stesso

anno in cui Hitler saliva al potere, Harold

Nicolson, un altro membro disilluso della

delegazione britannica a Parigi, riprese

molte delle critiche di Keynes ai difettosi

metodi della conferenza di pace. Come

Keynes e Baker, egli criticava aspramente

gli statisti europei per aver abbandonato il

nobile progetto di una pace moderata che

Press, 1969. Si veda, inoltre, il giudizio provocatorio di A. Lentin, Lloyd George, Woodrow Wilson and the Guilt of Germany. An Essay in the Pre-history of Appeasement, Leicester, Leicester University Press, 1984.7 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, cit., p. 473.8 R.J. Schmidt, Versailles and the Ruhr: Seedbed of World War II, Den Haag, Nijhoff, 1968.9 R.S. Baker, Woodrow Wilson and the World Settlement, Garden City, Doubleday, 1922-23.

Page 23: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

179

il presidente Woodrow Wilson si era sfor-

zato inutilmente di inserire nel trattato10.

Quantunque molti partecipanti alla confe-

renza si precipitassero a stampare libri per

difendere il proprio operato contro i pesanti

attacchi di Keynes, non riuscirono ad avere

un grande effetto sull’opinione pubblica

né sulla storiografia relativa all’accordo di

pace11. «Delle dozzine di analisi del trattato

pubblicate negli anni Venti – ha giusta-

mente osservato Skidelsky – è questa l’unica

che non sia sparita senza lasciare traccia»12.

Il primo efficace attacco all’interpretazione

del trattato di pace del 1919 di Keynes uscì

dalla penna di un francese. Étienne Man-

toux, il figlio dell’interprete dei Quattro

Grandi alla conferenza di pace di Parigi

che fu ucciso in servizio attivo per le For-

ces françaises libres alla fine della seconda

guerra mondiale, scrisse un libro che fu

pubblicato postumo con il titolo provo-

catorio di La paix calomniée ou les con-

séquences économiques de M. Keynes 13. Ap-

profittando dei vantaggi del senno del poi,

Mantoux confutava le terribili previsioni di

Keynes sulle spaventose conseguenze del-

l’accordo sulle riparazioni per la Germa-

nia esaminando le statistiche commerciali

e finanziarie relative all’economia tedesca

durante il periodo di pagamento delle ripa-

razioni stesse. Egli dimostrò che la previ-

sione dell’economista britannico secondo

cui l’industria del carbone e dell’acciaio

tedesca sarebbe stata menomata dall’ob-

bligo delle riparazioni era eccessivamente

pessimista. Infatti, la produzione tedesca di

carbone e di acciaio si era ripresa consi-

derevolmente negli ultimi anni Venti. Egli

confutò l’affermazione di Keynes secondo

cui le obbligazioni delle riparazioni avreb-

bero distrutto il tasso di risparmio tedesco

mostrando che in Germania l’incremento

mensile dei depositi delle casse di rispar-

mio al 1928 era cresciuto di quasi due volte

e mezzo rispetto ai dati del 1913. L’argo-

mento più efficace di Mantoux contro le

disastrose previsioni di Keynes sulla mise-

ria tedesca fu il fenomenale primato della

spesa tedesca per la difesa sotto il regime

nazista, che superava di gran lunga la cifra

che Keynes sosteneva la Germania potesse

permettersi per pagare le riparazioni14.

Tuttavia, per quanto risultasse accurato

nella ricerca e ben argomentato, il libro

di Mantoux ebbe una scarsa influenza sul

giudizio del grande pubblico o sulla ricerca

storica. Il verdetto su Versailles che Key-

nes aveva formulato pochi mesi dopo che il

trattato era stato firmato era sopravvissuto

in gran parte integro.

L’apertura degli archivi e la nuova storiografiaLa situazione cominciò a cambiare negli

anni Settanta, quando una nuova genera-

zione di ricercatori ottenne ciò di cui né

10 H. Nicolson, Peacemaking, 1919, London, Constable, 1933.11 B. Baruch, The Making of the Reparation and Economic Sections of the Treaty, New York-London, Harper, 1920; A. Tardieu, La paix, Paris, Payot, 1921; D. Lloyd George, The Truth about the Peace Treaties, London, Gollancz, 1938, 2 voll.; G. Clemenceau, Grandeurs et misères d’une victoire, Paris, Plon, 1930. 12 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, cit., p. 473.13 Paris, Gallimard, 1946. Si fa qui riferimento alla traduzione inglese dal titolo The Carthaginian Peace, or The Economic Consequences of Mr. Keynes, Oxford, Oxford University Press, 1946.14 Ivi, in particolare pp. 163 ss.

Page 24: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

180

Keynes né Mantoux avevano potuto gio-

varsi: l’accesso agli archivi britannici e

francesi, che furono aperti, rispettivamente,

negli anni Sessanta e Settanta. Tale accesso

risultò importante per un aspetto cruciale

delle trattative alla conferenza di pace del

1919 che Keynes ed altri critici del trattato

di Versailles avevano trascurato: il divario

tra le dichiarazioni pubbliche dei leader al-

leati e le loro effettive posizioni negoziali in

privato. Gli statisti europei che elaborarono

il trattato con la Germania dipendevano dal

sostegno delle opinioni pubbliche e dei par-

lamenti dei loro paesi, i quali chiedevano

a gran voce una severa resa dei conti con

la Germania che avrebbe ricompensato i

vincitori per quattro anni di sofferenza e sa-

crificio. I leader alleati erano quindi portati

ad assumere posizioni esigenti ed intran-

sigenti nelle sessioni plenarie della confe-

renza, per evitare di essere rovesciati dai

loro parlamenti in eccitazione. Keynes non

ebbe accesso al santuario segreto dei Quat-

tro Grandi nell’appartamento parigino del

presidente Wilson, eccetto una breve appa-

rizione per discutere la capacità della Ger-

mania di pagare le riparazioni. Né egli fu

presente agli importanti scambi nelle com-

missioni specializzate ed a quelli tra singoli

in cui veniva discussa la questione delle ri-

parazioni. Egli dunque non si accorse che

l’insensibile retorica che si concedevano

i leader alleati mascherava quello che le

ricerche successive scoprirono essere un

approccio alla questione di gran lunga più

moderato, pragmatico e conciliatorio nelle

loro condotte private. Pubblicamente essi

chiedevano che la Germania fosse punita

severamente per le sue violazioni e che

le si facesse pagare tutta la sofferenza che

i suoi eserciti avevano causato. In privato

riconoscevano che la potenza sconfitta

era incapace di rialzarsi e di trasferire alle

sue vittime del tempo di guerra le enormi

somme che sarebbero state necessarie per

soddisfare le eccessive aspettative dei citta-

dini delle nazioni Alleate.

Questo spirito di moderazione era partico-

larmente autentico per la delegazione fran-

cese alla conferenza di pace, quella cioè che

Keynes considerava la principale responsa-

bile per quelle che denunciava come le non

realistiche richieste contenute nelle clausole

di riparazione del trattato di pace. Nessuno

dei plenipotenziari era più riservato del set-

tantottenne primo ministro francese Geor-

ges Clemenceau. Egli si rifiutò di rivelare

ai due rami del governo, al presidente della

repubblica e al parlamento, la sua posizione

ai negoziati perché essi stavano chiedendo

molto di più di quanto egli sapeva di poter

fornire. Egli invece si confidò quasi esclusi-

vamente con due fidati collaboratori, André

Tardieu (per i problemi della sicurezza) e

Louis Loucheur (sulle questioni finanziarie).

Nessuna di queste due autorevoli figure au-

torizzò l’accesso ai propri documenti privati

fino a molti decenni dopo. Analogamente,

l’unico resoconto completo dei riservatis-

simi incontri nell’appartamento parigino del

presidente Wilson non fu pubblicato prima

di trentasei anni dopo l’evento15. Keynes non

15 P. Mantoux, Les Délibérations du Conseil des Quatre, 24 mars-28 juin 1919, Paris, Cnrs, 1955. Le carte Tar-dieu sono conservate a Parigi, presso gli Archives du ministère des Affaires étrangères; le carte Loucheur alla Stanford University, presso la Hoover Institution of War, Revolution, and Peace.

Page 25: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

181

era quindi al corrente degli sforzi segreti

della delegazione francese per realizzare un

accordo moderato sulle riparazioni con la

Germania, proprio mentre essa formulava

richieste pubbliche esorbitanti per fini di po-

litica interna.

Lo storico Marc Trachtenberg, che esaminò

attentamente le carte private e i documenti

ufficiali relativi alle riparazioni, concluse

che la delegazione francese aveva insi-

stito privatamente per una somma relati-

vamente moderata e fissa per la lista delle

riparazioni. In questo tentativo di realizzare

un accordo praticabile, Clemenceau ed il

suo delegato Loucheur ricevettero il rifiuto

del primo ministro britannico David Lloyd

George, che riuscì ad aggiungere la voce

delle pensioni nella sezione del trattato re-

lativa alle riparazioni al fine di ottenere una

maggiore quota di pagamenti tedeschi per

il suo paese (che subì una quantità di danni

materiali da risarcire molto ridotta ma

contrasse una straordinaria obbligazione

finanziaria verso i veterani invalidi, le ve-

dove e gli orfani)16. Trachtenberg ha anche

messo in luce uno sviluppo che era sfuggito

del tutto a Keynes: la sincera speranza, nu-

trita dai funzionari francesi, che la Francia

e la Germania, dopo la guerra, avrebbero

potuto raggiungere un’intesa economica

reciprocamente vantaggiosa. Contatti in-

formali tra funzionari tedeschi e francesi

erano stati avviati durante la conferenza di

pace. Dopo la firma del trattato, Loucheur

ed il funzionario del ministero degli Esteri

francese Jacques Seydoux fecero sforzi de-

cisi per elaborare un accordo finanziario

attraverso negoziati bilaterali con i rappre-

sentanti tedeschi17.

In breve, questa documentazione d’archivio

ha rivelato che i funzionari francesi, dopo

la Grande guerra, riconobbero che il loro

paese mancava degli strumenti militari ed

economici per distruggere la Germania o

anche per evitare che essa riacquistasse il

suo status di grande potenza. Essi speravano

invece di utilizzare il vantaggio temporaneo

che avevano acquisito attraverso le clausole

del trattato di Versailles per ridurre la pre-

cedente supremazia economica del nemico

sulla Francia, lavorando intanto ad un’intesa

economica franco-tedesca sul continente.

Mentre essi cercavano invano sicurezza e

protezione dalla Gran Bretagna e dagli Stati

Uniti nel corso degli anni Venti, esploravano

simultaneamente la possibilità di riconci-

liarsi con l’ex nemico, prima con gli accordi

di Locarno del 1925 e poi con il piano Briand

per una Unione europea nel 193018.

La caricatura della Francia tracciata da

Keynes in Le conseguenze economiche della

pace come di una potenza avida, prepo-

tente, che sventra la Germania con il peso

schiacciante delle riparazioni è stata quindi

messa in discussione da monografie pro-

dotte da questa scuola revisionista e basate

16 Cfr. M. Trachtenberg, Reparation at the Paris Peace Conference, «Journal of Modern History», 1979, 1, pp. 24-55, in particolare pp. 40-41; Id., Reparation in World Politics. France and European Economic Diplomacy, 1916-1923, New York, Columbia University Press, 1980, in particolare il secondo capitolo.17 Cfr. G.-H. Soutou, The French Peacemakers and Their Home Front, in M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.) The Treaty of Versailles: A Reassessment after 75 Years, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 179-181; M. Trachtenberg, Reparation in World Politics, cit., pp. 86-87, 110-121, 158-191.18 M. Trachtenberg, Versailles Revisited, «Security Studies», 2000, 4, pp. 191-205.

Page 26: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

182

su documentazione d’archivio. Le loro con-

clusioni sono confluite successivamente in

due studi generali sull’argomento: quello di

M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser,

che raccoglie alcuni contributi che attac-

cano direttamente l’interpretazione key-

nesiana19, e quello di Margaret Macmillan,

che fonde i risultati della ricerca d’archivio

e le interpretazioni revisionistiche che ne

sono derivate in uno stile brillante grazie

al quale ha raggiunto un vasto pubblico20.

Mentre il XX secolo volgeva al termine ap-

pariva evidente che l’autorità quasi incon-

trastata dell’atto d’accusa di Keynes contro

l’accordo di pace del 1919 ed i successivi

giudizi secondo cui il trattato di Versailles

era responsabile di tutti i mali che afflissero

il mondo tra il 1933 ed il 1945 erano stati

finalmente rovesciati.

Skidelsky ha definito Le conseguenze econo-

miche della pace «uno dei libri più impor-

tanti del ventesimo secolo»21. Come però si

è rivelato, egli è stato fin troppo cauto nel

suo giudizio. Nonostante le confutazioni

della scuola antikeynesiana, l’influenza

del libro si è estesa anche al nostro secolo.

Una valutazione neokeynesiana del trattato

di Versailles è riaffiorata recentemente in

due studi molto ben accolti sulla pace e le

sue conseguenze. David Andelman ha giu-

dicato il trattato di Versailles responsabile

non solo della seconda guerra mondiale,

ma anche della guerra fredda, della guerra

del Vietnam, come pure dei recenti conflitti

nei Balcani e nel Medio Oriente22. Patrick

O. Cohrs ha elogiato i funzionari britan-

nici ed americani degli anni Venti per aver

tentato di smantellare la «pace incompiuta

del 1919» attraverso i piani Dawes e Young,

che riducevano l’insostenibile peso delle

riparazioni che erano state imposte alla

Germania nel 191923. La recente ri-tradu-

zione italiana di Le conseguenze economiche

della pace, seguita dalla decisione di questa

prestigiosa rivista di ospitare un forum per

discutere le sue ripercussioni di lunga du-

rata, dimostrano chiaramente che questo

notevole libro continua a provocare vivaci

discussioni e dibattiti ottanta anni dopo che

il giovane economista britannico, irritato,

abbandonò Parigi per prendere la penna in

mano e lanciare la sua crociata.

19 M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.) The Treaty of Versailles, cit.; cfr. soprattutto S. Marks, Smoke and Mirrors. In Smoke-Filled Rooms and the Galerie des Glaces, pp. 337-370.20 M. Macmillan, Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo, Milano, Mondadori, 2006 [London, 2001].21 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, cit., p. 456.22 D. Andelman, Shattered Peace. Versailles 1919 and the Price We Pay Today, Hoboken, Wiley, 2008.23 P.O. Cohrs, The Unfinished Peace after World War I. America, Britain and the Stabilisation of Europe, 1919-1932, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, p. 46.

Page 27: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

183

La critica di Keynes alle risoluzioni della

pace di Versailles contenuta nel suo cele-

bre Le conseguenze economiche della pace

non esercitò solamente, sin dalla sua pub-

blicazione nel 1919, un’ineguagliabile in-

fluenza sulle percezioni e valutazioni con-

temporanee del trattato di Versailles e dei

suoi limiti. Essa continua ad avere ancora

oggi un influsso notevole – e polarizzante

– sulle interpretazioni di Versailles e della

storia internazionale del periodo tra le due

guerre da parte degli studiosi.

L’opera di Keynes, le interpretazioni precedenti e le recenti rivalutazioni del trattato di VersaillesGli studi revisionisti più vecchi, che rie-

cheggiavano le critiche fondamentali di

Keynes, hanno perso negli ultimi anni la

loro predominante influenza nel dibattito

pubblico ed accademico su Versailles. Tut-

tavia alcune delle argomentazioni centrali

di Keynes si riflettono ancora in modo rile-

vante su questi dibattiti, specialmente le sue

tesi secondo cui: i vincitori del 1918 impo-

sero alla Germania una «pace cartaginese»;

trascurarono, altro loro errore fondamen-

tale, le esigenze nuove ed essenzialmente

economiche per realizzare la pace dopo la

Grande guerra; si preoccuparono, erronea-

mente, soprattutto di «frontiere e naziona-

lità», dell’«equilibrio di potere» e del «futuro

indebolimento di un nemico pericoloso».

Secondo quella che resta un’influente in-

terpretazione revisionista, il trattato di pace

e soprattutto le clausole relative alle ripara-

zioni che i vincitori imposero alla potenza

sconfitta erano destinate a corrodere la sta-

bilità tedesca e, di conseguenza, a minare

in ultima istanza quello che doveva essere

un «perno centrale» dell’ordine politico ed

economico dell’Europa postbellica1. Così

alcuni studiosi, seguendo l’analisi di Key-

nes, hanno persino collocato Versailles nel-

l’immediata preistoria della seconda guerra

mondiale, asserendo che il trattato piantò i

semi delle perturbazioni economiche del

periodo tra le due guerre, della successiva

ascesa del nazionalsocialismo in Germania

e, alla fine, di un’altra conflagrazione mon-

diale2.

1 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Treves, 1920 [London, 1919], e ora Milano, Adelphi 2007, cui si riferiscono i numeri di pagina, pp. 17 ss., p. 33. Per una visione d’insieme della ricerca sulla pace di Versailles cfr. M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.), The Treaty of Versailles. A Reas-sessment after 75 Years, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 4-10.2 Cfr. l’ancora stimolante A.J.P. Taylor, Le origini della seconda guerra mondiale, Bari, Laterza, 1961 [Lon-don, 1961] e la sua riconsiderazione in G. Martel (ed.), The Origins of the Second World War Reconsidered, Boston, Allen & Unwin, 1986.

Patrick O. Cohrs

Le conseguenze di Le conseguenze economiche della pace di Keynes.

Nuove ed originali prospettive della storia internazionale del primo dopoguerra

Page 28: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

184

Studi più recenti hanno avanzato un’in-

terpretazione degli accordi di Versailles

diversa e più favorevole, rivedendo così il

revisionismo keynesiano. Essi hanno sot-

tolineato i problemi e gli ostacoli scorag-

gianti con cui si scontrarono i negoziatori

della pace del 1919. Ed hanno sostenuto che

l’assetto forgiato da questi negoziatori equi-

valse al miglior compromesso possibile che

si potesse raggiungere nelle condizioni date

del primo dopoguerra – un compromesso

che si sarebbe dovuto rafforzare per impe-

dire i tentativi tedeschi di minare l’ordine

di Versailles3. In questo contesto bisogna

anche rilevare che una valutazione persino

più critica di Le conseguenze economiche

della pace – la critica «realista» – conserva

una considerevole influenza nei recenti di-

battiti. A lungo, secondo il principale argo-

mento «realista» i giudizi di Keynes ebbero,

in effetti, conseguenze molto dannose e,

fondamentalmente, incoraggiarono perico-

lose pressioni per la revisione del sistema di

Versailles. Secondo queste interpretazioni,

alla fine questo ostacolò ciò che sarebbe

stato necessario per stabilizzare l’Europa:

la creazione di un efficace sistema di equi-

librio tra le potenze garantito dalla Francia

e dalla Gran Bretagna, che avrebbero con-

tenuto le ambizioni revisioniste della Ger-

mania invece di rivitalizzare – come aveva

proposto Keynes – la potenza sconfitta4.

Verso una nuova storia internazionale del primo dopoguerra? Le nuove interpretazioni e la durevole influenza delle tesi di KeynesI contributi più significativi, tra quelli re-

centi, alla conoscenza del più ampio con-

testo della pace di Versailles e del periodo

immediatamente successivo hanno mo-

strato un rinnovato interesse per l’analisi

di Keynes ed hanno polemizzato con essa

in modo più costruttivo. Esaminando cri-

ticamente le sue conclusioni, questi con-

tributi le hanno infatti sotto certi aspetti

confermate. Fondamentalmente, però, essi

sono anche andati oltre i parametri keyne-

siani, offrendo nuove e diverse interpreta-

zioni non solo della conferenza di pace di

Parigi, ma anche dei processi di più lungo

periodo della storia internazionale europea

e transatlantica nell’epoca delle due guerre

mondiali. I nuovi studi si sono incentrati,

da diversi punti di vista, sulla rivalutazione

delle possibilità di rafforzare o di riformare

profondamente l’originario sistema di Ver-

sailles e di fare passi in avanti, tra il 1919 ed

il 1933, verso un regime di pace non più eu-

ropeo ma essenzialmente euro-atlantico5.

Le recenti rielaborazioni hanno prestato

particolare attenzione a tre problemi car-

dinali della costruzione della pace dopo il

primo conflitto mondiale, tre problemi che

3 Si vedano in particolare i contributi contenuti in M. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.), The Treaty of Versailles, cit.; A. Sharp, The Versailles Settlement, London-Basingstoke, Macmillan, 1991; M. Macmillan, Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo, Milano, Mondadori, 2006 [London, 2001].4 Cfr. S.A. Schuker, The End of French Predominance in Europe, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1976; S. Marks, The Illusion of Peace, New York, St. Martin, 1976; W. Keylor, The Twentieth-Century World and Beyond, Oxford, Oxford University Press, 2005.5 Cfr. Z.S. Steiner, The Lights that Failed. European International History, 1919-1933, Oxford, Oxford Uni-versity Press, 2005, pp. 15 ss., 182-255, 387-456, e P.O. Cohrs, The Unfinished Peace after World War I, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, pp. 46-67, 79-200, 287 ss., 477-571.

Page 29: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

185

già Keynes aveva sottolineato nel 1919.

Esse hanno riaffermato la centralità della

questione tedesca durante e dopo Versail-

les, arricchendo di nuove prospettive l’ar-

gomentazione di Keynes secondo cui se

i vincitori e i vinti non avessero trovato

nuovi modi per impostare questa insoluta

questione, l’insufficiente pace del 1919 non

solo avrebbe eroso le fondamenta politiche

ed economiche della giovane repubblica te-

desca, ma avrebbe minato anche la stabilità

europea e del sistema capitalistico occiden-

tale in quanto tale6.

Le analisi recenti hanno anche nuovamente

enfatizzato un più fondamentale requisito

della pace che Keynes aveva già indivi-

duato: l’inedita necessità di creare – dopo

la sconfitta di Wilson nella «battaglia del

trattato» con il Senato americano – nuove

strade di cooperazione con gli Stati Uniti al

fine di «risistemare» i sistemi finanziari «del

Vecchio e del Nuovo mondo»7. Occorre sot-

tolineare, però, che, con un occhio puntato

su questo problema chiave, le nuove inter-

pretazioni hanno ampliato il fuoco di Key-

nes sulle dimensioni «economiche» della

realizzazione della pace nel primo dopo-

guerra. Esse hanno mostrato che il compito

fondamentale che gli strateghi dovettero af-

frontare dopo il 1918 fu quello di costruire

un nuovo sistema economico e politico in-

ternazionale, un sistema che doveva anche

prevedere una nuova struttura in grado

di gestire la questione cardinale della si-

curezza. Ed hanno sottolineato – anche se

partendo da premesse diverse – che, sotto

tutti questi aspetti, l’ordine internazionale

del dopo-Versailles non poteva più essere

eurocentrico se doveva inaugurare una sta-

bilità più duratura: doveva diventare un si-

stema di pace transatlantico, comprendente

la nuova potenza egemone degli Stati Uniti8.

In definitiva, la più recente ricerca ha com-

plessivamente confermato l’esattezza della

previsione di Keynes secondo cui il pro-

blema delle riparazioni sarebbe emerso

come la calamità più ostica e gravida di

conseguenze del dopoguerra. Esso infatti

finì per gettare un’ombra sull’Europa e sulle

relazioni tra le potenze europee e gli Stati

Uniti. Come è stato mostrato da diverse an-

golazioni europee e dalla prospettiva ame-

ricana, l’enigma delle riparazioni si collo-

cava in effetti al cuore della crisi postbellica

dei primi anni Venti, e la sua «soluzione»

era un presupposto fondamentale per la

pacificazione dell’Europa9. Gli studi recenti

hanno anche confermato che Keynes aveva

giustamente concluso che l’inestricabilità

del problema delle riparazioni derivava da

due questioni fondamentali che questo po-

neva. Da un lato, si trattava del problema di

chi avrebbe alla fine pagato i costi ed i som-

movimenti provocati dalla Grande guerra

e gli sforzi necessari per la ricostruzione.

Dall’altro, la controversia sulle riparazioni

6 Keynes ha anche messo in evidenza che i negoziatori, a Versailles, non riuscirono a venire a patti con la Russia bolscevica. Cfr. J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., pp. 229.7 Ivi, pp. 17, 33, 188.8 Cfr. Z.S. Steiner, The Lights that Failed, cit., pp. 182-255, 387-456; P.O. Cohrs, The Unfinished Peace, cit., pp. 79-200, 287 ss., 477-571.9 Cfr., per esempio, Z.S. Steiner, The Lights that Failed, cit., pp. 182 ss.; P.O. Cohrs, The Unfinished Peace, cit., pp. 79 ss., e, per un significativo approccio precedente, M. Trachtenberg, Reparation in World Politics: France and European Economic Diplomacy, 1916-1923, New York, Columbia University Press, 1980.

Page 30: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

186

era indissolubilmente legata alla questione

di chi avrebbe finalmente controllato la

maggior parte delle risorse chiave che tutti

gli stati consideravano indispensabili per

garantire la propria sicurezza: i vincitori

europei – soprattutto la Francia e la Gran

Bretagna –, una Germania rivitalizzata, o il

nuovo «creditore mondiale», gli Stati Uniti?10

Seguendo le orme di Keynes, le analisi re-

centi hanno sottolineato che, dal principio

alla fine, sia il conflitto sulle riparazioni che

tutti i tentativi di risolverlo avevano avuto

chiaramente una dimensione transatlan-

tica. Esse hanno anche messo in evidenza

come, sin dall’inizio, esistesse un legame di

fatto tra le riparazioni che Francia e Gran

Bretagna pretendevano dalla Germania ed

i debiti di guerra contratti con gli Stati Uniti

da quelle due potenze. E, quantunque le

successive amministrazioni repubblicane

di Washington continuassero a negare tale

legame – soprattutto per far fallire la forma-

zione di una coalizione tra i debitori euro-

pei –, tale nesso restò la sfida fondamentale

per tutti i politici ed i finanzieri che cerca-

rono di risolvere il problema delle ripara-

zioni dopo le originali proposte di Keynes

del 1919. Essenzialmente, come è stato

messo in evidenza di recente, se le princi-

pali figure chiamate a prendere le decisioni

avessero voluto erigere nuove fondamenta

per la pace, avrebbero dovuto superare

il circolo vizioso transatlantico che era

emerso nei primi anni Venti e che provocò

alla fine la grave crisi della Ruhr del 1923:

un circolo vizioso secondo cui il creditore

americano premeva su Gran Bretagna e

Francia (i suoi debitori europei) affinché ri-

pagassero interamente i debiti contratti du-

rante la guerra, e Gran Bretagna e Francia,

di conseguenza, facevano pressioni sulla

Germania di Weimar affinché pagasse con-

sistenti riparazioni in modo tale che le due

potenze potessero soddisfare le richieste di

Washington.

È ormai risaputo, e poco sorprende, che la

critica avanzata da Keynes in Le conseguenze

economiche della pace – di cui apparve una

traduzione tedesca qualche mese dopo la

sua edizione originale – divenne in Germa-

nia un popolare punto di riferimento per le

prime richieste di revisione e per la propa-

ganda11. Tuttavia, come hanno mostrato gli

studi più recenti, le preoccupazioni centrali

di Keynes furono successivamente fatte

proprie anche dai protagonisti della politica

di revisione pacifica filo-occidentale della

repubblica di Weimar, soprattutto dall’abile

ministro degli Esteri Gustav Stresemann.

Contrariamente alle interpretazioni prece-

denti che presentavano la sua politica come

quella che aveva preparato il terreno al suc-

cessivo attacco di Hitler all’ordine di Ver-

sailles, i nuovi studi hanno sostenuto che

Stresemann cercò fondamentalmente di

integrare la Germania in un nuovo e più le-

gittimo sistema di pace euro-atlantico. Essi

hanno sottolineato che, nel cercare di coo-

perare con la Gran Bretagna, la Francia e,

soprattutto, con gli Stati Uniti, egli sviluppò

10 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit. Cfr. anche N. Ferguson, La verità taciuta. La Prima guerra mondiale: il più grande errore della storia moderna, Milano, Corbaccio, 2002 [London, 1998], pp. 511-556.11 Cfr. King’s College Archive Center (Cambridge), Keynes Papers [d’ora in poi semplicemente Keynes Pa-pers], Ec 2/1/65-6, Paul Warburg a Keynes, dicembre 1919.

Page 31: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

187

proprio quegli interessi economici «intrec-

ciati» già evocati da Keynes nel 1919. Essi,

però, hanno anche mostrato che Streseman

non solo perseguì un approccio nuovo e

più cooperativo alla questione delle ripara-

zioni, ma riconobbe anche la necessità di

nuovi dispositivi di sicurezza e di norme

internazionali fondamentali che potessero

rendere più forte un accordo economico e

politico tra i vincitori ed i vinti della Grande

guerra12.

Deplorandola o sottolineandone gli effetti

positivi, la ricerca recente ha altresì messo

nuovamente e chiaramente in risalto l’in-

fluenza dell’analisi di Keynes non solo sul-

l’atteggiamento britannico nei confronti di

Versailles nel primo dopoguerra, ma anche

su quello americano13. In Gran Bretagna

l’argomentazione di Keynes secondo cui la

pacificazione dell’Europa avrebbe richiesto

una totale revisione della «pace cartagi-

nese» ed una nuova «obbedienza verso do-

veri economici» trovò molti sostenitori tra i

liberali internazionalisti nel Labour Party e

nei gruppi di pressione come la Union for

Democratic Control (Udc), ma anche tra i

finanzieri della City di Londra. Ed essa si

appellava a – e faceva pressione su – quei

protagonisti della politica estera britannica

che avrebbero voluto ridefinire l’ordine

postbellico: Lloyd George ed i suoi limitati

ed alla fine inutili tentativi di porre rimedio

ad alcune delle conseguenze di Versailles

nei primi anni Venti; il primo premier la-

bourista britannico, Ramsay Mac Donald,

e le sue successive aspirazioni a forgiare

con la Germania una nuova sistemazione

delle riparazioni ed un sistema di pace che

andasse oltre Versailles alla conferenza di

Londra del 1924; ed infine il ministro degli

Esteri conservatore Austen Chamberlain

ed il suo tentativo di rafforzare il patto di

sicurezza di Locarno del 1925 e di integrare

Francia e Germania in un nuovo concerto

europeo14.

Le conseguenze economiche della pace ebbe

un impatto altrettanto notevole negli Stati

Uniti. Qui i giudizi di Keynes influenza-

rono – o fondamentalmente confermarono

– le opinioni sulle carenze di Versailles dei

politici e dei finanzieri più influenti del pe-

riodo successivo alla presidenza di Wilson.

Anche se stimolarono la ricerca di nuove

soluzioni americane alla crisi postbellica

dell’Europa, essi ebbero un effetto meno

immediato sul contemporaneo riorienta-

mento delle politiche degli Usa verso l’Eu-

ropa, tanto nella sfera critica dei debiti di

guerra e delle riparazioni quanto nella più

ampia sfera di ciò che tutti quelli investiti

di responsabilità decisionali consideravano

indispensabile: una riforma completa o an-

12 La principale opera innovativa su questo punto è P. Krüger, Die Außenpolitik der Republik von Weimar, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 19932. Cfr. anche J. Wright, Gustav Stresemann, Oxford, Oxford University Press, 2002.13 Cfr., ad esempio, Keynes Papers, EC 2/1/7, 2/2/76, Austen Chamberlain a Keynes, 15 dicembre 1919 e Paul Warburg a Keynes, 17 gennaio 1920. L’opera di riferimento rimane R. Skidelsky, John Maynard Key-nes, 1883-1946. Economist, Philosopher, Statesman, London, Pan, 2003, pp. 217-336.14 Cfr. J.M. Keynes, A revision of the Treaty, London, Macmillan, 1922 [tr. it.: Roma, 1922], pp. 70 ss., 167 ss.; Id., Udc Policy Statement, London, 1919. Cfr. M.G. Fry, British Revisionism, in M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.) The Treaty of Versailles, cit., pp. 565-601; P.O. Cohrs, The Unfinished Peace after World War I, cit., pp. 70-1, 90 ss., 201 ss.

Page 32: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

188

che una revisione del sistema di Versailles,

che consegnasse alla storia tutti i tentativi

francesi e di altri europei di far rinascere

una politica di equilibrio delle potenze15.

L’influente segretario al Commercio e poi

presidente repubblicano degli Usa Her-

bert Hoover richiamò chiaramente Keynes

quando esortò le potenze europee a con-

centrarsi sui problemi economici e sulla

priorità di ricostruire un’Europa devastata

dalla guerra, Germania compresa, piuttosto

che impegnarsi in conflitti di politica di po-

tenza sulle riparazioni. Secondo Hoover, i

conflitti dell’Europa postbellica erano una

conseguenza di ciò che egli considerava il

tentativo della Francia, perseguito sotto il

suo premier Poincaré, di provocare la disin-

tegrazione della Germania e di affermare

un’egemonia sull'Europa continentale16.

Più significativamente, l’illustre segretario

di stato statunitense degli anni Venti, Char-

les E. Hughes, sviluppò in diversi modi un

approccio alla stabilizzazione dell’Europa

basato su premesse americane ma indiret-

tamente seguì anche le raccomandazioni

di Keynes del 1919. In breve, come ha sot-

tolineato la recente ricerca, fu Hughes che,

dopo la svolta della crisi della Ruhr, aprì la

strada alla «depoliticizzazione» della que-

stione delle riparazioni attraverso quello

che divenne noto come il piano Dawes e

che preparò così il terreno alla prima ricon-

ciliazione conclusa tra i vincitori e i vinti

della Grande guerra: il cruciale accordo di

Londra sulle riparazioni del 1924. Hughes,

non diversamente da Keynes, sosteneva

che il problema delle riparazioni dovesse

essere sottratto alla sfera dell’antagonistica

politica di potenza ed affrontato attraverso

commissioni transnazionali di esperti fi-

nanziari, sulle cui raccomandazioni i poli-

tici avrebbero poi potuto costruire17.

Volgendosi ai problemi fondamentali della

pacificazione dell’Europa individuati dalla

critica di Keynes a Versailles, la ricerca re-

cente ha tentato di gettare nuova luce sui

più significativi progressi verso una pace

più tollerabile e legittima all’indomani

della prima guerra mondiale. Secondo

un’interpretazione un notevole passo

avanti, particolarmente verso la ricostru-

zione dell’Europa occidentale, fu com-

piuto tra il 1919 e la fine degli anni Venti,

ma si verificò sostanzialmente nel quadro

del sistema di Versailles18. Al contrario, un

altro studio – attraverso un’analisi siste-

matica – ha avanzato un’altra prospettiva

interpretativa. Esso ha sottolineato che un

nuovo fondamento per la stabilizzazione

dell’Europa e per la rivitalizzazione e

reintegrazione internazionale di una Ger-

mania repubblicana non fu creato sulle

premesse di Versailles. Questo fu piuttosto

il risultato di un embrionale processo di

trasformazione che cominciò a mettere in

pratica i criteri indicati da Keynes per l’or-

15 Cfr. Ivi, pp. 79 ss., 296 ss.16 Hoover memorandum, Paris, July 1919, Hoover Papers, box 164; Hoover Presidential Library, West Branch, Iowa; Hoover a Hughes, 24 April 1922, US National Archives, Maryland, RG 59/800.51/316.17 Cfr. C.E. Hughes, New Haven Speech, 29 dicembre 1922, in United States Department of State, Papers relating to the Foreign Relations of the United States 1922, Washington, Us Government Printing Office, 1922, vol. II, pp. 199-202.18 Cfr. Z.S. Steiner, The Lights that Failed, cit., pp. 223 ss.

Page 33: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

189

dine postbellico e che, a metà degli anni

Venti, portò alla formazione di un primo

sistema di pace transatlantica le cui co-

lonne portanti erano l’accordo di Londra

sulle riparazioni del 1924 ed il patto di Lo-

carno del 1925. Secondo questa interpreta-

zione, le nuove politiche di stabilizzazione

britannica ed americana, ridefinite dopo la

crisi della Ruhr, si rivelarono cruciali per

dare inizio al processo di trasformazione

pacifica che aveva portato a questi accordi.

Mentre però fornivano nuovi meccanismi

per affrontare i due problemi principali,

i nuovi accordi internazionali che esse

produssero al di là dei criteri di Versailles

non avevano ancora composto il problema

delle riparazioni né risolto la questione te-

desca del periodo tra le due guerre19.

I limiti dei tentativi di affrontare le conseguenze economiche e politiche della paceL’originaria analisi di Keynes conserva la

sua pertinenza soprattutto nell’attuale di-

battito accademico relativo al perché, alla

fine, si rivelò impossibile affrontare le con-

seguenze economiche – e politiche – della

pace di Versailles. In questo quadro i re-

centi studi hanno ridefinito il centro d’in-

teresse della ricerca, chiedendosi il perché

gli accordi della metà degli anni Venti e la

riforma dell'assetto di Versailles cui essi

diedero avvio non poterono trasformarsi

in un più solido sistema di sicurezza, in un

accordo politico ed in una stabilizzazione

economica.

In breve, come hanno mostrato queste

nuove analisi, l’appello di Keynes per la

creazione di un sistema economico mon-

diale liberale dopo la Grande guerra, per

una ripartizione transatlantica degli oneri

e per una cooperazione nella ricostruzione

dell’Europa fu tenuto solo parzialmente

in considerazione dai politici e finanzieri

chiamati a vigilare sul regime del piano

Dawes e che alla fine lo sostituirono con il

piano Young del 192920. Il regime del piano

Dawes generò quello che rimase un ciclo

asimmetrico di stabilizzazione finanziaria:

la Germania continuava a dipendere dal ca-

pitale statunitense per pagare le riparazioni

alla Francia ed alla Gran Bretagna, che a

loro volta continuavano a dipendere dalle

riparazioni per far fronte ai debiti verso gli

Stati Uniti. Come Keynes, i principali finan-

zieri del periodo tra le due guerre, in par-

ticolare il partner della J.P. Morgan Tho-

mas W. Lamont, riconobbero la necessità

di un accordo sulle riparazioni e sui debiti

di guerra più globale e «permanente»21. Gli

studi recenti hanno posto una rinnovata en-

fasi su ciò che già Keynes anticipò nel 1919

quando sottolineava la necessità di ricali-

brare il sistema finanziario «del Vecchio e

del Nuovo mondo» – cioè che gli Stati Uniti

erano l’unica potenza che avesse i mezzi

per realizzare questi sforzi. Più fondamen-

talmente, si può anzi confermare che la

cooperazione dell’America era e restò in-

dispensabile per rimaneggiare il sistema di

Versailles e per rendere più stabile il nuovo

sistema di Londra e Locarno – prima che

19 Cfr. P.O. Cohrs, The Unfinished Peace, cit., pp. 129-295.20 Cfr. J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., pp. 17 ss., 33.21 Cfr. T. Lamont, The Final Reparations Settlement, «Foreign Affairs», 8, 1930.

Page 34: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

190

esso venisse colpito dalla crisi economica

mondiale dei primi anni Trenta22.

Alla fine, però, i governi americani degli

anni Venti fecero proprio l’assunto per cui

gli Stati Uniti non avrebbero pagato i costi

finanziari richiesti per affrontare le conse-

guenze di una guerra che le potenze euro-

pee avevano provocato. Anche il disperato

tentativo dell’amministrazione Hoover di

evitare un totale collasso del regime delle

riparazioni attraverso l’Hoover Moratorium

del 1931 non fu un’iniziativa di riforma

radicale del tipo immaginato da Keynes.

Washington si rifiutava ancora di rinun-

ciare a o anche di limitare le sue richieste

di debito nei confronti di Gran Bretagna e

Francia, e quest’ultima insisteva ancora per

ottenere le riparazioni. Nel 1932, non solo il

regime del piano Young, ma anche la Ger-

mania di Weimar ed il giovane ordine di

pace euratlantico della fine degli anni Venti

erano quasi disintegrati.

In conclusione, sembra opportuno sotto-

lineare che le tesi fondamentali di Le con-

seguenze economiche della pace di Keynes

non hanno solamente esercitato una pos-

sente influenza su generazioni di studiosi e

di analisti che hanno cercato di affrontare e

comprendere la pace di Versailles e le sue

ripercussioni nel XX secolo. Esse hanno in

effetti riacquistato importanza in anni re-

centi, stimolando la ricerca di nuove inter-

pretazioni degli sforzi europei ed americani

per ricostruire un ordine internazionale e

per creare una cornice ad un sistema di

pace più durevole e legittimo all’indomani

del 1918. In definitiva, dunque, i giudizi di

Keynes non hanno perso il loro potere di

stimolare il dibattito e di provocare polemi-

che. Essi continueranno a sollecitare tutti

coloro che cercano di valutare – e rivalu-

tare – l’eredità e le lezioni di Versailles e

della storia internazionale del primo dopo-

guerra.

22 J.M. Keynes, Le conseguenze, cit., pp. 188 ss. Cfr. le diverse interpretazioni proposte da Z.S. Steiner, The Lights that Failed, cit., pp. 387-493, e P.O. Cohrs, The Unfinished Peace, cit., pp. 287 ss. Cfr., inoltre, B. Kent, The Spoils of War. The Politics, Economics and Diplomacy of Reparations 1918-1932, Oxford, Clarendon, 1989.

1 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Treves, 1920 [London, 1919], e ora Milano, Adelphi, 2007.

Sally Marks

Le conseguenze politiche di Maynard Keynes

Ogni rassegna essenziale delle polemiche

più influenti del Novecento includerebbe

senza dubbio Le conseguenze economiche

della pace1. Scritto in due mesi e pubblicato

il 12 dicembre 1919, un mese prima che

entrasse in vigore il trattato di Versailles, il

libro per quasi cinquant’anni ha condizio-

nato significativamente la storia del trattato

e l’approccio degli storici ad esso. Ed in

realtà li condiziona ancora. L’ultima tratta-

Page 35: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

191

zione delle riparazioni, che lamenta «il peso

schiacciante di un sistema di riparazioni

opprimente», è in gran parte ispirata diret-

tamente da Keynes2. Si sarebbe portati a

credere che la penetrante analisi di Étienne

Mantoux, l’inestimabile raccolta documen-

taria di Philip Burnett, i tre minuziosi vo-

lumi di Étienne Weill-Raynal, le rivelazioni

sull’accordo del 1921 di Gaston Furst e le ri-

cerche condotte da diversi studiosi negli ar-

chivi, che furono aperti negli anni Sessanta

e Settanta, non meritino di essere letti3.

Poiché la gran parte di questi studiosi del

tardo Novecento è giunta alla conclusione

che Keynes semplicemente si sbagliò nel

sostenere che il peso delle riparazioni

avrebbe schiacciato la Germania e con-

dotto alla miseria di massa, ci si deve al-

lora chiedere perché l’influenza di questo

libro è stata così duratura. I vecchi miti

sono duri a morire. E questo in particolare

venne rafforzato dalla prolungata pro-

paganda anglo-tedesca. Keynes scriveva

estremamente bene ed in modo persua-

sivo. Inoltre egli scriveva di questioni eco-

nomiche, che solo in pochi, quindi, erano

in grado di capire. Poiché la maggioranza

sapeva di non comprenderle, accettò la pa-

rola dell’esperto. Per due decenni non eb-

bero scelta perché i documenti non erano

accessibili agli studiosi. Keynes realizzò un

autentico Blitzkrieg fatto di statistiche che

nessuno era in grado di confutare, sebbene

in diversi casi si trattasse di stime conte-

state da altri esperti alla conferenza di pace.

L’analisi era resa difficile dalla mancata

distinzione, da parte di Keynes, tra marchi

di carta e marchi-oro o tra i debiti degli

Alleati nei confronti degli investitori pri-

vati americani e quelli, dopo l’aprile 1917,

verso il governo degli Stati Uniti. Egli sem-

plificò molto ed omise di più, costruendo

un modello relativamente comprensibile.

E fino ad un certo punto, ma solo fino ad

esso, Le conseguenze economiche della

pace sembrò una profezia che si autorea-

lizza. Keynes diceva che la Germania non

era in grado di pagare e la Germania non

pagò. Ma il mancato pagamento non dice

nulla della capacità tedesca di effettuarlo.

Poiché la soluzione ideale di Keynes era

quella che avrebbe garantito il totale domi-

nio tedesco sul continente europeo – pro-

prio la situazione per evitare la quale era

stata combattuta la guerra – ci si deve chie-

dere perché egli fosse così ardentemente

schierato. Dato che la gran parte dei suoi

biografi ha assunto come valida la sua ana-

lisi, in pochi hanno indagato questo pro-

blema. Si possono solamente avanzare delle

ipotesi plausibili. Egli era stato educato ad

essere magnanimo ed osteggiò duramente

la guerra totale condotta dal primo ministro

David Lloyd George allo scopo di vincere

invece di raggiungere la pace negoziata so-

stenuta da Keynes. Nel dicembre 1917 egli

scrisse ad un amico: «Lavoro per un go-

verno che disprezzo e per fini che ritengo

2 D.A. Andelman, A Shattered Peace, Hoboken, Wiley & Sons, 2008. Il capitolo 9½, Setting Up a Global Eco-nomy, cui si fa riferimento, è reperibile anche su http://www.ashatteredpeace.com/chapter9.html.3 É. Mantoux, La paix calomniée ou les conséquences économiques de M. Keynes, Paris, Gallimard, 1946; P.M. Burnett, Reparation at the Paris Peace Conference from the standpoint of the American delegation, New York, Columbia University Press, 1940; É. Weill-Raynal, Les réparations allemandes et la France, 3 voll., Paris, Nouvelles Éditions latines, 1947; G.A. Furst, De Versailles aux experts, Paris, Berger-Levrault, 1927.

Page 36: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

192

criminali»4. Sebbene non fosse completa-

mente un pacifista, Keynes era profonda-

mente contrario alla guerra. I suoi amici del

circolo di Bloomsbury lo punzecchiavano

continuamente per la sua collaborazione,

di cui si sentiva in colpa, con il ministero

del Tesoro durante la guerra. Keynes era

brillante e lo sapeva, era anche arrogante

e totalmente intollerante verso chi criticava

le sue idee. Egli conveniva col suo amico di

Bloomsbury, Lytton Strachey, sul fatto che

«non è bello fingere di non essere un indi-

viduo eccezionale»5. Ma un altro dei blooms-

berries, Leonard Woolf, osservava «una

certa vena di ostinazione intellettuale e di

arroganza che spesso lo portavano a giudizi

sorprendentemente errati e contradditori»6.

Il fatto che egli passò la guerra a Whitehall

e non sul fronte occidentale può essere im-

portante, così come lo è il suo disprezzo per

i politici e per le questioni politiche.

Keynes condivideva la diffusa ostilità bri-

tannica verso la Francia, alleata per quindici

anni e nemica per cinquecento. I negoziati

finanziari del tempo di guerra approfondi-

rono la sua avversione. Indubbiamente egli

fraintendeva sia la figura di Georges Cle-

menceau che la sua collocazione nel pano-

rama politico francese. Il suo vivo interesse

per il consulente tedesco per le riparazioni

Carl Melchior ne fu probabilmente una

causa così come, probabilmente, lo furono

anche due istitutrici tedesche durante l’in-

fanzia. In ogni caso, Keynes temeva il caos,

la rivoluzione ed il sovvertimento dell’in-

tero ordine sociale, comprese le classi pri-

vilegiate britanniche, cui egli apparteneva.

Nulla di tutto ciò avvenne, né si verificò

quella fame di massa che lui ed i leader po-

litici di Weimar avevano predetto.

Nel valutare la polemica di Keynes s’in-

contrano due immediate difficoltà. Bisogna

sapere esattamente ciò che egli conosceva.

Gli storici, giustamente, rabbrividiscono

di fronte a frasi come «avrebbe dovuto sa-

pere...», tuttavia è difficile provare quello

che sembra ovvio. Keynes era il più alto

rappresentante del ministero del Tesoro a

Parigi ed il più illustre nel piccolo gruppo

di britannici incaricati di discutere la que-

stione delle riparazioni e che lavorarono al

fianco dei loro omologhi americani. Sem-

bra inconcepibile che egli possa esser stato

ignaro di alcune questioni largamente note,

ma manca spesso la prova. L’altro pro-

blema deriva dalla tattica di Lloyd George,

che creava soluzioni di breve periodo che

producevano problemi a lungo termine.

Per risolvere le difficoltà politiche egli no-

minò Lord Cunliffe ed il primo ministro

australiano Billy Hughes membri di una

commissione britannica sulle riparazioni

che presentò delle cifre astronomiche, e

successivamente designò questa avida

coppia e Lord Sumner alla commissione

sulle riparazioni della conferenza di pace,

dove essi non furono presi seriamente, co-

stituendo invece un ostacolo all’intesa. Lo

stesso Lloyd George caratterizzò tutte le

dichiarazioni pubbliche relative alle ripa-

4 R. Skidelsky, John Maynard Keynes, vol. 1, Speranze tradite, 1883-1920, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 [London, 1983], p. 414. 5 D. Gadd, The Loving Friends. A Portrait of Bloomsbury, New York-London, Harcourt-Brace-Jovanovich, 1974, p. 114.6 Ivi, p. 19.

Page 37: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

193

razioni con il riferimento alla capacità di

pagamento tedesca e richiese una somma

moderata, come facevano gli esperti alleati;

tuttavia la sua tattica negoziale tendeva

ad un’estrema sinuosità. Come risultato,

si diede risalto ad alcune accuse di Key-

nes mentre in effetti i Quattro Grandi della

conferenza di pace ed i tecnici su cui essi

facevano affidamento erano preoccupati

che la stima delle riparazioni apparisse

grande, non che lo fosse. Dato che i tede-

schi compresero questo, è probabile che lo

abbia compreso anche Keynes. Visto che le

attese popolari erano enormi in tutti gli stati

europei vincitori, il problema era quello di

adattare le realtà economiche con le neces-

sità politiche. Non essendosi presentata an-

cora alcuna soluzione, il trattato rimandò la

fissazione di una somma precisa, una solu-

zione questa soddisfacente sia per i politici

Alleati che per la repubblica di Weimar, i

cui leader concordavano sul fatto che l’am-

montare successivo sarebbe stato proba-

bilmente più basso e, comunque, volevano

rimandare il più possibile la stima.

Keynes asserì che «un esame scientifico

della capacità della Germania di pagare fu

escluso fin dall’inizio dei lavori»7. In effetti

una sottocommissione dedicata a tale que-

stione si riunì trentadue volte in più di due

mesi senza raggiungere risultati (a causa

di Lord Cunliffe), dopo di che un sottoco-

mitato speciale, composto da tre persone

– comprendente il consigliere di Keynes ed

il suo omologo americano –, stimò rapida-

mente in 40-60 miliardi di marchi-oro per

trent’anni la capacità tedesca, stima condi-

visa anche da Keynes, sebbene per il suo

termine più basso8.

Keynes dichiarò anche che l’esistenza di

cartamoneta tedesca in Belgio era la prova

che gli avidi belgi traevano profitto dalla

guerra. Dal momento che lo stesso pro-

blema si manifestò altrove, che egli era

molto interessato ai problemi finanziari

belgi e che accettò l’invito a pranzo del mi-

nistro degli Esteri belga, durante il quale

venne sicuramente sollevato l’argomento,

è inconcepibile che egli non sapesse che

i belgi erano stati costretti ad acquistare i

marchi ad un tasso di cambio sfavorevole.

Keynes s’indignò sempre di più per il

fatto che Lloyd George chiedesse i costi

della guerra, adempiendo una promessa

elettorale. Non aggiunse che il presidente

Woodrow Wilson rifiutò categoricamente

questo. Keynes, come molti da allora, cri-

ticò l’inclusione delle pensioni e delle

indennità di separazione, senza notare

che, poiché l’ammontare totale delle ri-

parazioni si sarebbe basato sulle capacità

di pagamento della Germania, la loro in-

clusione avrebbe riguardato unicamente

la suddivisione degli introiti, come la sua

controparte americana disse ai Quattro

Grandi. Egli menzionava appena i danni

alle miniere di carbone francesi ma non

aggiungeva che, durante le trattative per

l’armistizio, la Germania allagò tutte le mi-

niere nella zona occupata, facendo perdere

7 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 125.8 Ci volevano quattro marchi-oro per un dollaro e venti per una sterlina. Il piano di pagamenti di Londra, del 1921, imponeva il pagamento di 50 miliardi di marchi-oro sotto l’apparenza volutamente ingannevole di 132 miliardi di marchi-oro.

Page 38: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

194

alla Francia la metà della sua produzione

di carbone, e che si pensava che il lungo,

costoso e pericoloso ripristino avrebbe ri-

chiesto dieci anni.

In modo più sorprendente, le stime di Key-

nes della riparazione dovuta per i danni

civili contemplavano solamente la devasta-

zione dei campi di battaglia. La sua accusa

secondo cui, in Belgio, i combattimenti

avevano interessato un’area abbastanza

limitata è corretta ma la sua conclusione

– che, cioè, «fra tutti i belligeranti, ad ec-

cezione degli Stati Uniti, il Belgio è quello

che ha fatto relativamente meno sacrifici»9

– non lo è. Egli omise del tutto il fattore spo-

liazione. Per tutta la durata della guerra e

soprattutto verso la fine, la Germania s’im-

pegnò in una guerra economica di lungo

termine; di qui le miniere francesi allagate.

Il Belgio era stato spolpato, come fu ampia-

mente documentato dai tecnici dell’esercito

americano. Intere industrie, compresa l’in-

dustria tessile della Francia settentrionale,

del Belgio e della Polonia finirono in Ger-

mania, lasciando solamente quattro mura e

blocchi di cemento, essendo svaniti anche

i soffitti di rame. Le foreste non esistevano

più. Gli americani, nel viaggio verso Spa

per una commissione per l’armistizio, fu-

rono testimoni dei trasferimenti su vasta

scala di quasi tutto il bestiame, degli attrezzi

agricoli e delle sementa. Le rotaie furono

sradicate dalla linea dell’armistizio verso

est, mentre il materiale rotabile e le loco-

motive finirono in Germania. Pressappoco

lo stesso accadde in Polonia. Keynes deri-

deva la clausola del trattato che assegnava

bestiame al Belgio, ma il totale chiesto per

sei stati Alleati era in realtà minore delle

perdite del solo Belgio.

Nell’aprile del 1919 Keynes propose, meno

cautamente che nel suo libro, che la mano-

dopera tedesca eliminasse i danni. Come

quello francese, il consiglio dei ministri

belga, che era appena riuscito a ridurre il

tasso nazionale di disoccupazione al 75%,

rifiutò che gli odiati occupanti tedeschi (che

avevano spogliato la nazione, rifiutato il

cibo ai suoi abitanti e preteso lavoro servile)

fossero pagati e nutriti per lavorare mentre

i belgi, disoccupati ed affamati, sarebbero

rimasti a guardare. La non considerazione

dei fattori politici, nazionalistici e psicologici

da parte di Keynes è sorprendente. Egli si

lamentava della preoccupazione dei Quat-

tro Grandi per i confini, non comprendendo

che l’autorità governativa, reprimendo l’il-

legalità e i saccheggi e prevenendo quel

bolscevismo che egli temeva, era indispen-

sabile per la distribuzione del cibo. Keynes

sperava che i debiti interalleati venissero

cancellati a spese degli americani anche se,

come affermava Wilson, non c’era alcuna

possibilità che il Congresso acconsentisse.

Egli era profondamente interessato, come

altri da allora, alla ricostruzione economica

tedesca, quantunque questa economia fosse

integra mentre quelle dei paesi vincitori sul

continente non lo erano, e qualcuno doveva

pagare per la loro ricostruzione. Ed in defi-

nitiva è quello che fecero i vincitori.

Anche in un senso più profondo la noncu-

ranza di Keynes per le questioni politiche

ebbe un effetto notevole sulle circostanze

prevalenti al momento in cui pubblicò Le

conseguenze economiche della pace. È, in-

9 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 108.

Page 39: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

195

fatti, il suo impatto politico che conferisce

al libro la sua autentica importanza e ne

spiega i durevoli effetti. Keynes ignorava

completamente la sconfitta militare della

Germania in una lunga ed aspra guerra. In

fondo egli voleva la pace negoziata senza

vittoria che aveva caldeggiato nel 1917.

La sua critica di fondo al trattato di Ver-

sailles è che esso rappresentava una pace

del vincitore, anche se relativamente mo-

derata (e, di fatto, il trattato più mite della

risistemazione del 1919-20). Questo aspetto

del libro di Keynes sembrava giustificare,

e sicuramente rafforzò, la reazione tede-

sca al trattato, come pure gli atteggiamenti

anglo americani, e contribuì, pertanto, a dar

forma al decennio postbellico.

Uno degli aspetti insoliti della prima guerra

mondiale fu che essa venne combattuta

quasi interamente sul territorio dei vinci-

tori: questi furono devastati, la Germania

no. Quando l’esercito tedesco era sul punto

di dissolversi, Berlino chiese un armistizio,

nella speranza di riprendere i combatti-

menti dopo averlo riorganizzato. Le condi-

zioni di resa poste da Wilson lo impedirono,

tuttavia il termine «armistizio» rimase, a

suggerire un cessate il fuoco ma non una

disfatta. Gli Alleati occuparono la parte più

occidentale della Renania ma, per il resto,

invece di mettersi a scrivere la pace del

vincitore sotto l’impressione che il verdetto

militare fosse evidente, non fecero nulla

per ricordare al popolo tedesco la sconfitta.

Intanto per i tedeschi iniziava quello che

Ernst Troeltsch definì «il paese dei sogni

del periodo dell’armistizio»10, in cui molti

di loro si convinsero presto del fatto che la

guerra era finita con un pareggio e non con

la resa tedesca. La pace giusta che Wilson

aveva promesso avrebbe perciò signifi-

cato: nessuna perdita di territorio eccetto

l’eventualità di qualche regione di confine

in favore della Polonia, l’acquisizione del-

l’Austria e, forse, di altre aree e nessun ca-

rico finanziario. Questa confortante visione

avrebbe significato il dominio tedesco sul

continente. I termini del trattato di Versail-

les piovvero così come un enorme choc.

La maggioranza dei tedeschi, così come i

loro politici, lo ritenne profondamente in-

giusto. La reazione tedesca al trattato e la

sua lunga durata possono aver contribuito

più del trattato stesso a spaccare l’Europa

postbellica.

Keynes contribuì molto a rafforzare questa

reazione tedesca. In realtà egli diceva quello

che i tedeschi volevano sentire. Egli ignorò

il verdetto militare, omise o minimizzò co-

stantemente i danni e dichiarò che il trat-

tato era profondamente ingiusto. La sua

visione acuì un risentimento già ardente e,

agli occhi dei tedeschi, costituì una prova.

Quando Keynes lamentava che fosse ingiu-

sto obbligare la Germania a consegnare il

materiale rotabile, omettendo che la mag-

gior parte di esso apparteneva ai vincitori,

i tedeschi concordavano con lui. Quando

egli protestava per il fatto che la Germania

venisse obbligata a concedere agli Alleati,

senza reciprocità, il trattamento della na-

zione più favorita per cinque anni – senza

10 Cfr. K. Schwabe, Germany’s Peace Aims and the Domestic and International Constraints, e F. Klein, Between Compiègne and Versailles, entrambi in M.F. Boemeke, G.D. Feldman e E. Glaser (eds.), The Treaty of Versailles. A Reassessment after 75 Years, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, rispettivamente pp. 42 e 205.

Page 40: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

196

spiegare che lo scopo era quello di evitare,

in stati devastati, un’invasione di prodotti

industriali tedeschi che avrebbe soffocato

la rinascita delle loro economie –, i tede-

schi chiamavano in causa l’ingiustizia. E

la propaganda tedesca trasse il massimo

profitto da brani come questo: «La politica

di ridurre la Germania in servitù per una

generazione, di degradare la vita di milioni

di esseri umani e di privare un’intera na-

zione della felicità dovrebbe essere odiosa

e ripugnante»11, proprio mentre, nel 1925-

26, una fiorente Germania si avvicinava

all’egemonia economica. La lista effettiva

delle riparazioni del 1921 per cinquanta

miliardi di marchi-oro rientrava nelle ca-

pacità di pagamento della Germania, ma,

grazie agli errori degli Alleati sul finire del

1918 ed al libro di Keynes dell’anno suc-

cessivo, era politicamente impraticabile

nel contesto di Weimar.

Il best-seller polemico di Keynes ebbe un

certo ruolo nella definitiva bocciatura del

trattato di Versailles da parte del senato

americano e, ancor di più, nell’inclina-

zione anglo-americana alla sua graduale

revisione, che, a loro volta, alimentarono

la tenace determinazione verso quella che

un ufficiale tedesco definì «la continuazione

della guerra con altri mezzi»12.

Negli anni Venti, accanitamente, conferenza

dopo conferenza, la repubblica di Weimar

contrastò le riparazioni con ogni mezzo a

sua disposizione, compresa la distruzione

della sua propria moneta, ignorando com-

pletamente il fatto che il Secondo Reich

aveva progettato di imporre condizioni

molto più rigide agli Alleati se avesse vinto.

Questa campagna, incoraggiata dalla Gran

Bretagna e talvolta dagli Stati Uniti, era an-

cora in corso quando Adolf Hitler ottenne

il suo trionfo elettorale del 1930. È impos-

sibile stabilire quanto Keynes abbia contri-

buito a questo trionfo, tuttavia egli fornì cer-

tamente un bel po’ di benzina al bruciante

risentimento verso il trattato di Versailles

cui Hitler diede così tanto risalto.

Keynes, che ammetteva raramente gli er-

rori, alla fine si rese conto di questo. L’il-

lustre giornalista (e poi storica) britannica

Elizabeth Wiskemann ricordò che, nella pri-

mavera del 1936, dopo la rimilitarizzazione

della Renania, «incontrai Maynard Keynes

durante una qualche riunione a Londra.

“Vorrei che non avesse mai scritto quel li-

bro”, mi sorpresi a dire (riferendomi a Le

conseguenze economiche, che i tedeschi non

smettevano mai di citare) e dopo avrei voluto

che la terra m’inghiottisse. Ma lui, semplice-

mente e gentilmente, rispose: “Anch’io”»13.

11 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, cit., p. 180.12 K.-H. Harbeck (ed.), Das Kabinett Cuno, Akten der Reichskanzlei, Boppard am Rhein, Harald Boldt, 1968, p. 192.13 E. Wiskemann, The Europe I Saw, London, Collins, 1968, p. 53.

Page 41: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

197

Quando viene pubblicata l’edizione fran-

cese dell’opera di Keynes1, il pubblico

francese vi scorge innanzitutto una conte-

stazione dei lavori della conferenza di Pa-

rigi e del trattato di Versailles, che l’analisi

dell’economista britannico descrive come

un atto nazionalista d’ispirazione francese.

Tuttavia, Keynes non si limita ad esprimere

una critica nei confronti di quest’ultimo, ma

avanza un progetto di portata europea. Le

due visioni – guerra economica perpetua

da un lato, unità economica europea dal-

l’altro – sono diametralmente contrapposte,

e il futuro sembra dare ragione a Keynes.

Non il futuro del 1951, del 1957 o del 1992,

bensì quello che si prospetta alla metà de-

gli anni Venti quando – sotto l’influenza del

briandismo e dei movimenti europeisti, ma

anche del fallimento dell’occupazione della

Ruhr – il governo francese adotta delle ini-

ziative che si traducono nei primi tentativi

di organizzazione economica dell’Europa.

Possiamo dunque considerare Keynes

come un precursore del progetto europeo o,

per lo meno, di un progetto europeo? Senza

dubbio, ma si tratta di definire la natura di

tale progetto, ed è quanto ci proponiamo di

fare nelle pagine seguenti.

Le analisi di Keynes partono da una con-

statazione basilare, a cui egli attribuisce un

ruolo fondante nel processo di unificazione

europea, e cioè che l’interdipendenza eco-

nomica delle diverse componenti dell’Eu-

ropa istituisce una reciproca solidarietà2.

Per certi versi, la dimostrazione proposta

da Keynes esprime una reductio ad ab-

surdum: le contrapposizioni economiche

generate dalla guerra e la costituzione di

blocchi economici antagonisti, che negano

l’interdipendenza, hanno gettato alcuni

paesi europei nella carestia, evidenziando

in negativo e in tutta la sua violenza la realtà

dell’interdipendenza. Rendere perenne un

tale sistema in tempi di pace equivale a pro-

lungare ed aggravare la miseria. Pertanto,

occorre riorganizzare il continente tenendo

conto dei dati di fatto.

Siccome la dimostrazione di Keynes mira

in primo luogo a correggere la situazione

imposta alla Germania, è attorno a questo

paese che egli organizza la propria argo-

mentazione. L’indebolimento di una com-

ponente essenziale dell’economia europea

non può che indebolire quest’ultima nel

suo insieme. Allo scopo di dimostrare gli

effetti nocivi dei diversi aspetti del trattato

di Versailles, l’analisi di Keynes si articola

a vari livelli, focalizzandosi da un lato sul

Eric Bussière

Le conseguenze economiche della pace, ovvero le ambiguità di un progetto per l’Europa

1 Edita nel novembre del 1919 e destinata «principalmente a lettori inglesi (e americani)», l’opera viene pubblicata dalla «Nouvelle Revue Française» nel marzo del 1920. Com’è noto, suscita la risposta di uno dei principali collaboratori di Georges Clemenceau, André Tardieu, che nel 1921 pubblica per i tipi di Payot un libro dal titolo La Paix. I riferimenti alle pagine, inseriti tra parentesi subito dopo le citazioni, sono tratti da J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Milano, Adelphi, 2007.2 Il termine «solidarietà» è usato a p. 231.

Page 42: DOC - C. Maier Su Le Conseguenze Economiche Della Pace Di Keynes

198

peso delle coercizioni esercitate complessi-

vamente sull’economia tedesca, e dall’altro

sulle probabili conseguenze delle modifi-

cazioni delle frontiere, analizzate secondo

una logica territoriale. Tale analisi viene

svolta in riferimento al ritorno dell’Alsazia-

Lorena alla Francia – indicando i rischi che

esso comporta per gli scambi minerari di

ferro e carbone e per la siderurgia nel ver-

sante occidentale del continente europeo

– e in riferimento al caso della Slesia (pp.

87 ss.). Di fatto, la solidarietà s’impone agli

europei a prescindere dalla natura delle

relazioni politiche esistenti tra le varie na-

zioni: il rifiuto di tenerne conto equivale ad

una condanna per ognuna di esse e, soprat-

tutto, per l’Europa nel suo insieme. Questa

visione – confermata dalla realtà degli anni

Venti e degli anni Cinquanta – è al centro

dei progetti europei degli anni Venti e, in

maniera simbolica, della dichiarazione

Schuman che altro non è che una procla-

mazione – trent’anni dopo Keynes – delle

interdipendenze economiche in Europa.

La vita economica dell’Europa è quella di

una «delicata e complessa organizzazione»

(p. 17) che rischia di essere distrutta dalla

guerra. Quest’ultima è dunque contro na-

tura e viene assimilata ad un conflitto con-

tro sé stesso, ad un conflitto in seno alla fa-

miglia, ad una guerra civile. L’Europa del-

l’immediato dopoguerra offre lo spettacolo

delle «paurose convulsioni di una civiltà

morente» (p. 18).

Di fatto, il discorso di Keynes si inserisce

in una prospettiva abbastanza diffusa alla

fine del conflitto. Affrontandone la dimen-

sione economica, egli alimenta il dibattito

sulla questione del declino dell’Europa.

Con Le conseguenze economiche della pace

Keynes si pone in linea con Spengler3 e con

Demangeon4, che a loro volta avevano dato

nuova linfa a delle analisi emerse a cavallo

tra Otto e Novecento. Come numerosi con-

temporanei, Keynes sa che la dominazione

economica dell’Europa sul mondo non è

che un episodio della storia, di cui gli euro-

pei devono prendere coscienza: «Conside-

riamo naturali, permanenti, sicuri, alcuni

dei più singolari e temporanei nostri van-

taggi recenti» (p. 13). Ma le premesse per

un rivolgimento sono anteriori alla guerra.

Keynes illustra questo dato focalizzando

lo sguardo sui problemi del momento e

punta il dito sull’approvvigionamento di

risorse naturali che, sin dall’inizio del se-

colo, «le popolazioni moltiplicantisi di altri

climi e ambienti» – in primis gli Stati uniti

d’America, la cui capacità di alimentare

l’Europa si va riducendo – rischiano di

disputare alle «civiltà storiche del Vecchio

Mondo» (p. 33). Tale realtà viene accelerata

e rivelata ad opera della guerra, durante la

quale l’«Europa dipendeva interamente dai

rifornimenti alimentari degli Stati Uniti; e

finanziariamente la sua dipendenza era an-

cora più assoluta» (p. 45). All’indomani del

conflitto, l’«Europa, se vuol sopravvivere ai

suoi guai, avrà bisogno di tanta magnani-

mità da parte dell’America, che è bene co-

minci a praticarla lei» (p. 124): l’Europa si è

posta in una relazione di prolungata dipen-

3 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Milano, Longanesi, 1957 [Wien-München, 1918-1922].4 A. Demangeon, Le déclin de l’Europe, Paris, Payot, 1920.

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denza nei confronti dell’America e ne deve

assumere le conseguenze. Discutendo il

ruolo e il posto dell’Europa nel mondo, sot-

tolineando l’ascesa di altri popoli e di altre

regioni, Keynes contribuisce a far emergere

una visione del mondo di tipo regionalista.

Ma questa rimane poco elaborata e pre-

senta delle serie ambiguità.

L’immagine che l’economista inglese dà

dell’Europa del 1870 è quella di un’Europa

economicamente autonoma rispetto al re-

sto del mondo e i cui equilibri sono essen-

zialmente interni. I decenni che precedono

la guerra sono caratterizzati da un’immer-

sione massiccia dell’economia europea nel

mondo, messa in moto dai flussi migratori,

da quelli di materie prime, dalle reti di tra-

sporto e dai flussi di capitale. Alla vigilia

della grande guerra, il processo è quasi

completato: Keynes evoca una «vita sociale

ed economica, la cui internazionalizza-

zione era in pratica pressoché completa»

(p. 25). Keynes illustra il fenomeno po-

nendosi nell’ottica dell’abitante di Londra

che, se ne ha i mezzi, è inserito nei flussi

internazionali e per il quale si può effetti-

vamente parlare di globalizzazione (p. 25).

I termini del dibattito suscitato dalla de-

scrizione di Keynes non si situano tanto tra

internazionalizzazione e globalizzazione,

ma tra internazionalismo, universalismo e

regionalismo europeo. In realtà, in Keynes

i tre concetti tendono a confondersi: esiste

un’economia internazionale, che però è

centrata sull’Europa e che obbedisce a delle

regole definite in Europa, il cui valore tende

di fatto a diventare universale. Dato che

l’Europa proietta le proprie regole sul resto

del mondo, l’universalismo è il termine che

meglio si confà alla realtà così descritta: da

questo punto di vista c’è una confusione.

Ma Keynes suggerisce che tale situazione è

precaria e che, in parte, è già stata rimessa

in questione dall’ascesa di altre regioni. In

questo modo, Keynes ha già imboccato il

sentiero del regionalismo, quando soprag-

giunge la guerra e divide il destino dell’Eu-

ropa – di cui dimostra l’unità – da quello

del resto del mondo e, in particolare, da

quello dell’America. L’ambiguità emerge

nel momento in cui Keynes disarticola la

sua visione dell’Europa. Di fatto, essa è al

contempo incompleta e squilibrata. Il caso

inglese costituisce il problema principale

ed è al centro del dibattito sull’internazio-

nalizzazione. Descrivendo l’Europa del

1914 dall’abitazione o dall’ufficio di un

londinese, Keynes sembra piazzare l’In-

ghilterra al centro dell’Europa e l’Europa al

centro del sistema economico internazio-

nale. Ma allo stesso tempo, egli sottolinea

che l’«Inghilterra è ancora fuori d’Europa.

[...] L’Europa sta a sé e l’Inghilterra non è

carne della sua carne» (p. 18). Di fatto, l’Eu-

ropa di Keynes corrisponde al continente

– un continente vasto che si estende fino in

Russia – e «fa corpo con sé stessa» (p. 18).

Tuttavia, la descrizione di Keynes è essa

stessa deformata dall’oggetto della sua ana-

lisi. Egli descrive, infatti, un’Europa cen-

trata sulla Germania e organizzata attorno

ad un’economia tedesca che, prima della

guerra, era in piena crescita. Si pongono

dunque varie questioni. Quale forma dare

ad un continente organizzato attorno a Lon-

dra e, al contempo, polarizzato sull’econo-

mia tedesca? E quale posto assegnare alla

Francia, ripetutamente indicata da Keynes

come l’organizzatrice della pace di Versail-

les e dei suoi misfatti?

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Un progetto europeo ambiguo e contraddittorioLe soluzioni proposte non fanno che con-

fermare le ambiguità della descrizione.

Cos’è questa «unione di libero scambio»

evocata da Keynes e da lui definita – in

maniera molto vaga – come insieme di

«paesi che s’impegn[a]no a non imporre

tariffe protezionistiche di sorta sui pro-

dotti di altri membri dell’unione» (p. 210)?

Collocando l’Inghilterra in questa unione,

Keynes pare scartare l’ipotesi di farne

un’unione doganale. E cosa fare delle sue

relazioni con il mondo esterno e, in parti-

colare, con gli Stati Uniti? Indubbiamente

si tratta di promuovere la ricostituzione di

un’economia aperta su sé stessa e sul resto

del mondo, senza che i suoi rapporti con

quest’ultimo siano chiaramente definiti.

Le incertezze insite nella descrizione del-

l’Europa del 1914 inquinano il progetto per

il dopoguerra. Tali incertezze sono quelle

del collocamento della Gran Bretagna in

quell’Europa che Keynes desidera riorga-

nizzare.Ma Keynes suggerisce anche altri elementi di risposta al problema che si pone. Si tratta di indicare delle istituzioni permanenti (la Società delle Nazioni) come quadro neutrale per i necessari arbitraggi, sostituendo le or-ganizzazioni previste dal trattato, tra cui la commissione delle riparazioni e la commis-sione per il carbone, in considerazione del fatto che tali arbitraggi non devono tenere conto del solo ambito doganale, ma anche della dimensione settoriale.

Quando alla fine della sua opera Keynes si

appella ad un’opinione pubblica e ad una

«nuova generazione» che «non ha parlato

ancora» (p. 233), evidenzia l’incapacità

della classe politica di risolvere i problemi

posti.

In questo modo, l’expertise contrasta chia-

ramente il mandato politico. È a proposito

della questione delle riparazioni che Key-

nes esprime il proprio giudizio più severo,

contrapponendo un «esame scientifico

della capacità della Germania di pagare»

alle «esigenze della politica» e alle «falsità»

(p. 125). In realtà, la soluzione proposta da

Keynes consiste in un tentativo di riconsi-

derare le basi della pace, depoliticizzando

la questione attraverso la Società delle Na-

zioni e sostituendo l’expertise dell’organiz-

zazione internazionale ai classici arbitraggi

tra interessi nazionali ad opera dei politici.

Anche se, ammonisce Keynes, si deve tener

conto che «nelle mani del consumato diplo-

matico europeo la Società può diventare un

impareggiabile strumento ostruzionistico e

ritardatario» (p. 206).

Il modello di governance economica euro-

pea suggerito da Keynes mira dunque ad

allontanare i politici dalle decisioni rela-

tive all’avvenire economico del continente.

La realtà dell’interdipendenza economica

si opporrebbe alle ambizioni nazionaliste

portate avanti dai politici e converrebbe

dunque rimuovere costoro dalle scelte da

fare in questo ambito. Le analisi di Keynes

si inseriscono così nell’ascesa del ruolo de-

gli esperti, iniziata alla fine dell’Ottocento,

catalizzata dalla prima guerra mondiale e

consolidatasi ampiamente nel secondo do-

poguerra, tanto a livello nazionale, quanto

a livello europeo.

Pertanto, il modello proposto da Keynes

si contrappone al modello comunitario,

iniziato dalla dichiarazione Schuman e

rinsaldato nel corso degli anni Cinquanta

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ad opera degli stessi politici: una dichiara-

zione secondo la quale il ravvicinamento

delle economie deve suscitare il ravvicina-

mento politico.

Ma si contrappone in misura anche mag-

giore agli orientamenti europeisti emersi

sul continente a partire dal 1925. Gli stessi

uomini che, durante la guerra furono dei

fautori del nazionalismo economico, assu-

mono la gestione delle iniziative sviluppate

in seno alla Società delle Nazioni o all’Uf-

ficio internazionale del lavoro e le condu-

cono verso il regionalismo europeo. Per co-

storo la pace economica, la pace sociale e il

ravvicinamento politico sono strettamente

connessi. Gli accordi della siderurgia sono

per l’industria ciò che Locarno è per la si-

curezza europea. Lo schema keynesiano si

contrappone dunque a quello sviluppato

dai continentali, fondato sull’esistenza di

legami tra i diversi campi dell’attività in-

ternazionale. L’Europa in costruzione con-

divide, in larga parte, le stesse aspirazioni

di Keynes, ma segue altri metodi. Essa

diverge nella sua concezione dei legami

tra economia e politica: le stesse forze e le

stesse interdipendenze possono agire nei

due sensi. Nel 1919, l’intellettuale Keynes,

segnato dalle trattative di Parigi, aveva

probabilmente sottostimato la capacità dei

politici di modificare le loro prospettive. Il

suo libro, illuminante rispetto al 1919, non

consente dunque di comprendere le evolu-

zioni successive dell’Europa.

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