Divina Commedia, Inferno, Canto 7 (VII): Riassunto ed Analisi del testo.

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Divina Commedia, Inferno, Canto 7 (VII): Riassunto ed Analisi del testo.

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  • Divina Commedia Inferno

    Canto VII , Analisi del testo Tema dapprofondimento:

    La Fortuna

    Nellimmagine: scultura del

    viso della dea Tyche (nella mitologia greca, la personificazione della fortuna)

    di Fausto Intilla WWW.OLOSCIENCE.COM

  • Indice 1 Premessa..................................................................................................3 2 Introduzione al Canto VII........................................................................4 3 Primo nucleo tematico:

    Lincontro con Pluto (vv. 1-15)...............................................................8 4 Secondo nucleo tematico:

    Nel quarto cerchio, tra avari e prodighi (vv. 16-66)..............................10 5 Terzo nucleo tematico: La Fortuna (vv. 67-99)...........................................................................14 6 Quarto nucleo tematico:

    Nel quinto cerchio, tra iracondi e accidiosi (vv. 100-130).....................24 7 Conclusione.............................................................................................28 8 Referenze bibliografiche / Sitografia.......................................................31

  • Premessa Questo lavoro, il risultato di una vasta (...ma forse un termine troppo pretenzioso) e approfondita ricerca sugli aspetti semiotici e semantici, nonch allegorici e per certi versi anche estetici, di tutto il pellegrinaggio dantesco allinterno del settimo canto dellInferno. Con particolare attenzione e quindi con un maggiore e dettagliato approfondimento, verr trattato, in questo canto assai pi mutevole dei precedenti (da un punto di vista stilistico), il tema centrale della Fortuna. Essenzialmente, due saranno i giganti sulle cui spalle mi appogger durante questo lungo cammino di ricerca: Anna Maria Chiavacci Leonardi e Antonino Pagliaro. Ma non saranno gli unici a venirmi in aiuto; in minor misura (ma non per questo perch meno autorevoli in materia), compariranno anche i nomi di Augusto Del Noce, di tienne Gilson, di Vittorio Sermonti, ed altri ancora. Per quanto riguarda le prime due indiscusse autorit, nel campo dellindagine dantesca, auspicabile ovviamente spendere qualche parola in pi, visto che saranno proprio queste due importanti figure del mondo della letteratura italiana a costituire lanima, la struttura portante di tutta la mia analisi, che andr presto ad esporre. La Chiavacci, per alcuni tempio vivente di sapienza dantesca, per altri semplicemente la Signora della Commedia, nasce il 22 settembre del 1927 a Camerino, nelle Marche, da madre senese e padre pistoiese, entrambi insegnanti. Molti anni dopo, presso lUniversit di Firenze, consegue la laurea in letteratura italiana con Giuseppe De Robertis. La tesi sul Paradiso di Dante. Da quel momento in avanti, la Chiavacci dedicher tutti i suoi studi alle opere dantesche. Dal 1972 insegna Filologia dantesca al Magistero di Arezzo, sede distaccata dellUniversit di Siena. Sempre ad Arezzo, nel 1980, vince il concorso di professore ordinario. Nel 2000 ha vinto il premio Feltrinelli dei Lincei per la critica letteraria. Da anni, collabora con riviste specializzate di critica dantesca e tiene conferenze e lezioni su Dante in tutta Italia. Attualmente presidente della sezione Studi e ricerche del Centro dantesco francescano di Ravenna. Antonino Pagliaro (1898-1973), stato un linguista, glottologo e filosofo italiano. considerato uno dei padri della Semiologia. Ordinario di Glottologia alla Sapienza di Roma, fu capo redattore dell'Enciclopedia Italiana dal 1925 al 1929. Fondamentale stata, come punto di riferimento nella stesura di questa mia analisi sul settimo canto dellInferno (in special modo per ci che riguarda il tema della Fortuna, ma non solo), la sua opera pi importante nel campo della critica dantesca, ovvero: Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, pubblicata nel 1967. Indubbiamente quindi, due figure autorevoli in relazione allargomento trattato e per cui, del tutto affidabili. Concludo questa breve premessa con un mio ringraziamento al Prof. Giovanni Croce, per i suoi consigli sulle opere di riferimento idonee a questo lavoro di analisi, sulle quali mi sono fiduciosamente appoggiato. Fausto Intilla, Cadenazzo, ottobre 2010

  • Introduzione al Canto VII1 In questo canto, Dante e Virgilio proseguono il loro cammino attraverso linferno e dopo lincontro con Pluto (il mostro a guardia del IV cerchio; nella mitologia greca era considerato il dio della ricchezza, figlio di Demetra e di Iasone), si inoltrano prima tra i prodighi e gli avari (nel quarto cerchio) e poi tra gli iracondi e gli accidiosi (nel quinto cerchio). Discente e Magister, giungono quindi tra i peccatori segnati da colpe pi gravi, rispetto ai dannati incontinenti dei cerchi precedenti. Nel quarto cerchio le anime impure di avari e prodighi, sono condannate a spingere in modo perpetuo dei grossi macigni lungo la sua circonferenza, scontrandosi tra loro ed insultandosi vicendevolmente. Vanit e brutalit, sono gli aspetti fondamentali di tutto il settimo canto. In termini allegorici, le anime condannate a spinger massi in eterno, rappresentano la cecit delluomo che in vita, si ostina a voler inseguire e accumulare a tutti i costi beni e ricchezze che in ultima analisi, risultano vani (li ben vani) ed ingannevoli. Il breve inganno di tali beni (la corta buffa), rappresenta, insieme alla figura della Fortuna (tema dapprofondimento della presente analisi, in seguito trattato in dettaglio attraverso varie digressioni legate al commento sul canto), il tema centrale di tutto il quarto cerchio. La dimensione fantastica che caratterizza la prima parte del settimo canto, traspare dal perfetto intreccio delle immagini allegoriche in esso contenute. La cupidigia delluomo, possiamo infatti identificarla con Pluto2 (il maledetto lupo); le due schiere degli avari e dei prodighi (che percorrono il quarto cerchio in senso opposto), rappresentano delle forze cieche della natura che si scontrano ciclicamente e che Dante associa per similitudine, sia allimpatto violento e fragoroso tra correnti marine3, sia, contemporaneamente, allantico ballo della ridda4. Limmagine ironica e grottesca di questa danza dal ritmo rapido ma al contempo armonioso, legata alla ciclicit della sorte, che a sua volta riflette la figura della Fortuna, voluta da Dio per amministrare e governare i beni del mondo5. Avarizia e prodigalit, per Dante, non rappresentano comunque dei vizi da condannare con estrema fermezza; in quanto, per egli, il vizio peggiore stava nella cupidigia e nellattaccamento alle ricchezze terrene. La cupidigia era quindi da considerarsi il peccato per eccellenza; poich in grado di ledere profondamente quei rapporti umani sereni e disinteressati, desiderabili in ogni tipo di convivenza civile. Il Sommo Poeta, ispirandosi a due famosi testi medievali (la Consolazione della Filosofia, di Boezio e LElegia della Fortuna, di Arrigo da Settimello), 1 Spunti ed elementi tratti dal seguente modello di riferimento: Anna Maria Chiavacci Leonardi, Canto VII, Introduzione, in Dante Alighieri, Commedia, Inferno, Zanichelli, Bologna, 1999, pp.120-122. 2 e disse: Taci, maledetto lupo!; Inf.,VII, v.8 3 In riferimento allo scontro delle acque del Mar Ionio con quelle del Mar Tirreno. Come fa londa l sovra Cariddi, che si frange con quella in cui sintoppa, Inf.,VII, vv.22-23. 4 cos convien che qui la gente riddi; Inf.,VII, v.24 5 Similemente a li splendor mondani / ordin general ministra e duce; Inf.,VII, vv.77-78. Dante identifica la Fortuna come la ministra di Dio, alla quale la mente umana non pu opporre resistenza: oltre la difension di senni umani; Inf., VII,v.81.

  • tratta e pone il tema della Fortuna (che da e toglie a suo piacimento), nel contesto di una realt storica, tragica e priva di valori morali. Ci che difficilmente appariva dai testi medievali citati pocanzi, in rapporto a determinati contesti sociali, in Dante emerge invece in modo forte e significativo. Una forza, questa, strettamente legata alla novit letteraria del poema dantesco. Nel girone degli avari e dei prodighi, secondo Dante, i principali condannati erano gli ecclesiastici, assai numerosi e sfrenatamente tirchi. Si tratta quindi di un canto che potremmo definire altamente anticlericale; Dante aveva individuato la radice fondamentale dei mali del suo tempo: l'ipocrisia di chi predica idee cristiane e conduce una vita pagana. Avari e prodighi compiono qualcosa che ricorda molto la punizione inferta a Sisifo, il promotore del commercio; cio colui che, stando ad Omero6, otteneva sempre qualcosa in cambio. Qui la legge del contrappasso, pi appropriata che altrove, in quanto riproduce, in forma allegorica, l'irrazionalit di una vita vissuta adorando il dio denaro. Il pensiero di Dante comunque, si spingeva oltre la dimensione sociale e spirituale delluomo; andando a toccare cos anche quella politica. Secondo Augusto Del Noce, politologo, filosofo e politico italiano di ispirazione cattolica (1910-1989), non che Dante intenda combattere la cupidigia del clero per salvare lautonomia dello Stato, ma la lotta contro la cupidigia,ossia lesigenza di permeare compiutamente di religione la vita pubblica, che porta lo Stato alla distinzione degli ordini. Lidea di base del pensiero di Del Noce, come egli stesso affermava, poggiava sulla concordanza tra laffermazione dellautonomia dellImpero, sino ad allora sostenuta da pensatori eterodossi, e quella della purificazione della Chiesa affermata dagli scrittori spirituali.7 In mancanza di tutto ci, la trasformazione della realt religiosa in potenza politica, non poteva far altro che innescare a livello sociale, una reazione di anticlericalismo cattolico. Interessanti sono inoltre le riflessioni di tienne Gilson (famoso storico e filosofo francese di ispirazione cattolica, 1884-1978), sui concetti di gerarchia di dignit e gerarchia di giurisdizione , allinterno del pensiero dantesco. Riflessioni riprese in seguito da Del Noce, in una presentazione del pensatore francese, scritta nel 1971 per lEnciclopedia dantesca; cos egli scrive: (...)Per san Tommaso ogni gerarchia di dignit al tempo stesso una gerarchia di giurisdizione, mentre per Dante tranne che per Dio una gerarchia di dignit non mai fondamento di una gerarchia di giurisdizione, e ci corrisponde al problema filosofico specifico di Dante, che non tanto quello di definire lessenza della filosofia, quanto di determinare delle funzioni e delle giurisdizioni. Il principio a cui obbedisce questa determinazione non assolutamente conciliabile col tomismo. San Tommaso non conosce che un solo fine ultimo: la beatitudine eterna, che non si pu attingere se non attraverso la Chiesa; inoltre la spiritualit del fine ultimo importa che tra il potere temporale e lo spirituale vi sia la subordinazione gerarchica del mezzo al fine. Per Dante, invece, luomo pu

    6 Omero, Odissea, libro XI, pp.593-600. 7 A. Del Noce, Dante e il nostro problema metapolitico, in LEuropa, V, 30 aprile 1971 (ora in A. Del Noce, Rivoluzione Risorgimento Tradizione, a cura di F. Mercadante, A. Tarantino, B. Casadei, Milano 1993, p. 323).

  • ottenere, attraverso lesercizio delle virt politiche, una felicit umana completamente distinta dalla beatitudine celeste, anche se questa rappresenta un fine pi alto. La tesi dei duo ultima legittima la completa distinzione dellordine politico dallordine religioso, ugualmente universale a quello della Chiesa, ma autonomo e perseguente un fine di felicit terrena8 Secondo Del Noce, questa confusione tra la gerarchia di dignit con la gerarchia di giurisdizione,che in ultima analisi rappresenta la via attraverso cui la cupidigia si afferma e trionfa nel mondo politico, ci che risultava a Dante nella sua esperienza diretta. La concezione che Dante ha di un fine naturale delluomo, affermato nella sua universalit grazie alla filosofia di Aristotele, in realt possibile solo a partire dallunificazione del mondo, operata dalla fede. Lunit della ragione naturale, diviene quindi il prodotto storico dellunit cristiana attuata mediante la Chiesa. Secondo Gilson, infatti: pur rifacendosi alla Roma di Augusto, la monarchia universale di Dante un calco temporale di quella societ universale che la Chiesa9. Collocato in questo orizzonte, lanticlericalismo dantesco veniva a incontrarsi, fuori da ogni naturalismo e laicismo, con la teoria delle libert moderne. La concezione tradizionale della Fortuna, ossia quella di origine pagana che ritroviamo nella letteratura classica e medievale (spesso raffigurata con limmagine di una dea bendata e senza scrupoli, nel dare e togliere a chiunque senza alcun criterio oggettivo di valutazione dei meriti), subisce qui una trasformazione ideologica imposta dal pensiero dantesco, il quale la vuole angelica e ministra di Dio. In questa nuova prospettiva, la Fortuna appare quindi perfettamente in linea con lidea cristiana della divina Provvidenza. In quanto rappresentante della volont di Dio, essa potr quindi prendere delle decisioni sicuramente incomprensibili per luomo (che molte volte le giudica del tutto assurde e crudeli), ma pur sempre atte a compiere il suo bene. Limmagine pagana di una dea crudele e indifferente, che volge la sua ruota ad occhi bendati, ossia in modo del tutto casuale e imprevedibile, viene qui sostituita dalla figura di una dea che volge la sua sfera celeste10, immersa nella sua beatitudine divina. Riprendendo le stesse parole della Chiavacci, possiamo tranquillamente affermare che questa potente invenzione, come tipico del poema dantesco, rimodella e cambia a misura del suo ordine gli antichi miti, le leggende, le figure che tutta una tradizione aveva consolidato, sconvolgendo, come gi nel canto di Francesca, un pacifico universo dove leredit pagana sopravviveva tranquilla sotto le nuove spoglie cristiane11. Il canto si svolge in tre tempi e con tre diversi tipi di linguaggio (si palesa quindi quella pluralit di stili, tipica della Commedia); la figura della Fortuna posta al

    8 A. Del Noce, Gilson tienne, in Enciclopedia dantesca, vol. III, Roma 1971, p. 33. 9 . Gilson, La citt di Dio e i suoi problemi, tr. it., Milano 1959, p. 153. 10 volve sua spera e beata si gode, Inf., VII, v.96 11 Anna Maria Chiavacci Leonardi, Canto VII, Introduzione, in Dante Alighieri, Commedia, Inferno, op. cit., p.121.

  • centro. Avremo cos un primo linguaggio dominante, assai duro e realistico, legato alla scena degli avari e dei prodighi. Il secondo, legato invece al tema della Fortuna, sar di tipo teologico e quindi rivolto verso unanalisi teorica dei concetti. Lultima tipologia di linguaggio, la terza, riporta la narrazione ad un livello medio. Si interrompe inoltre, quella struttura schematica seguita da Dante nei canti precedenti, dove ad ogni canto veniva associato un determinato cerchio o ambiente. Siamo quindi indubbiamente di fronte, come ha giustamente osservato la Chiavacci, ad una nuova inventivit compositiva12, che emerge proprio a partire da questo canto, il quale si conclude, con unattenta riflessione di Dante sulla miseria e la debolezza della natura umana.

    12 Anna Maria Chiavacci Leonardi, Canto VII, Introduzione, in Dante Alighieri, Commedia, Inferno, op. cit., p.122.

  • Lincontro con Pluto Il settimo canto, si apre con limprovvisa e assai dibattuta esclamazione di Pluto13: Pape Satn, pape Satn aleppe!, che costituisce lintero primo verso. Le parole di questo mostro, posto a guardia del quarto cerchio dellInferno, risuonano oscure e con voce apparentemente non umana (chioccia)14. Nei primi due versi, emerge gi il tono aspro e violento che caratterizzer tutto il cerchio degli avari. Secondo alcuni antichi commentatori, i due termini Pape e Aleppe pronunciati da Pluto allinizio del canto, rappresentano due esclamazioni distinte; la prima di meraviglia, la seconda di dolore. Il significato di queste due parole comunque, nonostante gli innumerevoli tentativi che sono stati fatti in ogni tempo al fine di riuscire a scoprirlo, rimane ancora, a tuttoggi, piuttosto oscuro. Domenico Guerri (famoso critico letterario italiano, 1880-1934), che fece una accurata ricerca nei glossari medievali nel 1908, le interpret come: "Oh Satana, oh Satana Dio"15; espressione intesa come un'invocazione contro i viaggiatori, ossia contro Dante e Virgilio. Alcuni studiosi, hanno addirittura supposto una probabile origine araba delle parole in questione; per questi ultimi la frase pronunciata da Pluto si tradurrebbe in: "La porta di Satana. La porta di Satana. Fermati". Per taluni, lipotesi dunque che Dante avesse tratto alcune ispirazioni da fonti arabe16. Egli infatti non disprezzava il mondo musulmano a priori; se relegava Maometto tra i dannati, egli nomin per ben tre musulmani tra gli Spiriti magni del Limbo: Saladino, Avicenna e Averro. Nellopera Vita, lautobiografia di Benvenuto Cellini (famoso scultore, scrittore e artista italiano del XVI secolo, 1500-1571), lautore stesso interpreta le parole in questione (Pape Satn, pape Satn aleppe!) come una traslitterazione dal francese; dichiarando di aver udito quella frase durante una lite a Parigi17. Secondo il Monti, le parole di Pluto dovevano considerasi voci bestiali, al tutto fuori dellumano concetto18. Il Castelvetro si era invece rassegnato a riconoscere lincomprensibilit di queste parole per luomo dotto o comune, ma comunque

    13 Pluto, nella mitologia greco-romana, il dio della ricchezza; spesso confuso e identificato con il fratello di Zeus, Plutone (divinit degli inferi e dei morti). Si diceva figlio di Demetra e di Iasione, nato a Creta. Il suo nome, indicante in origine la prosperit dei campi, si estese poi a indicare ogni forma di ricchezza e di benessere, che il dio largiva benigno (LUniversale, Enciclopedia Internazionale di Cultura ed Arte, Universal Press, Bologna, 1968, Vol.13, p.2942). 14 cominci Pluto con la voce chioccia, Inf., VII, v.2. Il termine chioccia sta ad indicare una voce stridente e rauca (dal lat. glocire, che indica il verso stridulo di alcuni uccelli). 15 Domenico Guerri, Di alcuni versi dotti nella "Divina Commedia", Citt di Castello, 1908. 16 Philip K. Hitti, Recent Publications in Arabic or Dealing with the Arabic World, Journal of the American Oriental Society, Vol. 54, No. 4 (Dec., 1934), pp. 435-438. 17 Vittorio Sermonti, Inferno, Rizzoli 2001, p.134 18 Antonino Pagliaro, Dialetti e lingue nelloltretomba in Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, Ed. G.DAnna, Firenze,1967, II vol., p.460.

  • non per Virgilio: adunque parlare diabolico, non inteso da ognuno, ma s da Virgilio, che seppe tutto e intese questo motto e savvide che Dante aveva bisogno di conforto e Pluto di rabuffo19. Come giustamente osserva il Pagliaro: Se le parole di Pluto non avessero avuto alcun senso, il poeta non avrebbe mancato di avvertirlo, cos come ha fatto per quelle pronunziate da Nembrot (...). Qui, invece, lascia intendere chiaramente che Virgilio le ha comprese, in virt della vastit del suo sapere. legittimo, dunque, cercare di determinare il significato del verso, accertando, per quanto possibile, il valore dei singoli segni20. Lidentificazione di Pluto nel dio greco della ricchezza, intuibile, per il Pagliaro, attraverso losservazione dellaccentazione delle parole pape e Satan. Ancora secondo il Pagliaro risulta quindi palese che Dante, abbia voluto evitare che il dio greco fosse confuso con Plutone (il signore degli Inferi, legato alla mitologia latina).21 Per quanto riguarda il termine aleppe, gli antichi commentatori riconobbero unanimi in questa parola, il nome della prima lettera dellalfabeto ebraico: Aleph. In quanto al suo significato per, non si trovarono di comune accordo. Spiega ancora il Pagliaro: molto probabile che Dante abbia tenuto presente il valore che la lessicografia, a lui nota, attribuiva ad aleph; e conformemente al carattere biblico di Satana, abbia voluto porre in bocca a Pluto tale parola di origine ebraica, come invocazione daiuto al principe dei demoni.(...)Nelle parole di Pluto il poeta ha fissato, dunque, la caratterizzazione del dio greco, scaduto a ministro del regno infernale, che riconosce Satana come suo capo.22 Virgilio, il sapiente per eccellenza (che tutto seppe), intuisce quindi la paura di Dante e cerca di rassicurarlo (vv.3-4). Per cui comunica ad egli che per quanto potere Pluto possa avere, non potr mai impedir loro di scendere il pendio roccioso che porta al quarto cerchio. Neppure se Satana rispondesse alla sua richiesta daiuto (vv.5-6). Il volto di Pluto (labbia) era colmo dira, per cui si presentava rigonfio (nfiata labbia). Il gonfiore era segno tipico dellira (v.7). Virgilio si rivolse quindi verso di lui e gli impose di tacere, chiamandolo maledetto lupo; questa la prima descrizione di Pluto allinterno del settimo canto (v.8). Secondo gli antichi commentatori, questa espressione di Virgilio, assai aspra e forte, si ricollega perfettamente alla lupa del primo canto; ossia a quella bestia che rappresenta lavidit umana, da cui originano tutti i mali del mondo e per questo motivo quindi, maledetta. Virgilio vuole che questo mostro, si roda dentro con la sua rabbia, senza poterla sfogare attraverso luso della parola, e glielo dice apertamente (v.9). Poi gli fa presente che la loro volont di spostarsi nella profondit dellinferno (landare al cupo), dettata da un motivo ben preciso; non quindi casuale e senza una ragione (v.10). Ed infatti poi, Virgilio parla di una scelta che stata loro imposta dallalto, voluta da qualcuno nei piani

    19 A. Pagliaro, Ibid.,p.460. 20 A. Pagliaro, Ibid.,p.460. 21 A. Pagliaro, Ivi., p.461. 22 A. Pagliaro, Ivi., p.463.

  • celesti (vuolsi ne lalto); ricordandogli inoltre che in quel luogo, alto e divino, larcangelo Michele pun la superba ribellione (superbo strupo)23 di Lucifero e degli angeli ribelli; sconfiggendo cos Satana e cacciandolo definitivamente dalla sfera celeste (vv.11-12). Il verso tredici, da avvio alla prima similitudine di questo canto, ben descritta dalla Chiavacci: le vele gonfie di vento, sono anchesse immagine della superbia irosa, immagine per cui Pluto ci appare immenso e insieme vuoto24. Queste vele, riavvolte intorno allalbero (caggiono avvolte), alla fine fan s che esso si spezzi e cada a terra (poi che lalber fiacca). Fiacca, inteso come verbo con valore intransitivo, e significa quindi: si spezza; continua la Chiavacci: Anche questo verbo rientra tra le rime aspre che caratterizzano il canto. Esso esprime con potenza labbattersi dellalbero, come fiaccato, dandogli una qualit quasi umana25(vv.13-14). Qui termina la figura della similitudine, che si conclude con il figurato del quindicesimo verso: tal cadde a terra la fiera crudele. Parafrasando: cos cadde a terra Pluto ; la fiera crudele quindi ancora il mostro a guardia del quarto cerchio, che impediva a Dante e Virgilio di proseguire il loro cammino tra gli inferi. Nel quarto cerchio, tra avari e prodighi Inizia a partire dal sedicesimo verso, la discesa verso la quarta lacca, ossia verso il quarto cerchio. Con il termine lacca, Dante intendeva un avvallamento, ossia una balza incavata nel pendio dellinferno che forma il quarto cerchio (v.16). Per poter comprendere al meglio il significato dei prossimi due versi, occorre eseguire una parafrasi del testo; per cui avremo: percorrendo un tratto in pi della discesa infernale che raccoglie come in un sacco tutto il male dellUniverso. La ripa (v.17), indica la china del grande abisso a forma dimbuto che forma linferno. Nellinterpretazione della Chiavacci: Linferno diventa cos come un grande sacco pieno di tutti i mali del mondo26 (v.18). Si entra dunque nella visione della terribile realt in cui vivono i dannati, la quale porta il viator , attraverso unesclamazione (Ahi giustizia di Dio!), ad appellarsi alla giustizia di Dio. La forma esclamativa, che appare come una costante stilistica attraverso tutta la cantica, esprime il rinnovarsi del dolore e dello stupore di fronte a tale condizione delluomo.(...)La stessa forma esclamativa si ritrover usata di fronte allincomprensibile felicit del Paradiso. Essa figura della sovrabbondanza del sentimento, che non riesce ad abituarsi a tali estremi di dolore e di gioia27.

    23 Il peccato di Lucifero, fu principalmente quello di superbia. La parola strupo, metatesi comune per stupro. Questa metafora, di origine biblica, indica la tentata violenza di Lucifero contro Dio. 24 A.M.Chiavacci L.,Canto VII, Commento in Dante Alighieri, Commedia, Inferno, op. cit., p.124. 25 A.M.Chiavacci L., Ibid., p.124. 26 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.125. 27 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.125.

  • Il pellegrino (vv.19-20), si chiede quindi (parafrasando i versi), chi in grado di accumulare, di ammassare tanti tormenti e pene, quanti egli ne vide (quantio viddi). Secondo il Tommaseo: lo stipar delle pene si contrappone allammucchiare delloro; e lo sciupo che fa la colpa (si ne scipa), alle ricchezze avare da prodighi sciupate28. solo nel ventunesimo verso quindi, che ritroviamo il senso dellinterpretazione del Tommaseo. Si ne scipa, nella sua parafrasi, sta a significare: cos ci sciupa; ossia, cos ci guasta, ci rovina. dunque in questo modo che i prodighi fecero scempio dei beni a loro affidati. Si arriva cos al ventiduesimo verso, dove comincia la seconda similitudine di questo canto. La figura data dallimmagine dello scontro delle acque del Mar Ionio con quelle del Tirreno, nello stretto di Messina (Come fa londa l sovra Cariddi)29; e prosegue con la sua descrizione, che definisce la violenza e il fragore degli urti e dei flutti che si susseguono ciclicamente (che si frange con quella in cui sintoppa). Il figurato (v.24), dato infine dallassociazione di queste forze cieche della natura, con lantico ballo della ridda30; ne emerge dunque unimmagine composta da due schiere di dannati, il cui movimento appare sincronico e da un punto di vista filologico, legato a quel senso ritmico della fatalit (landare e venire della sorte), che regge tutto il canto e culmina nella immagine della fortuna31. Il quarto cerchio, rispetto a quelli precedenti, agli occhi del viator appare il pi affollato di tutti (v.25). Avarizia e prodigalit, vengono quindi intesi e percepiti come i due vizi che pi dilagano nel mondo. In questo cerchio si trovano due schiere (duna parte e daltra) di dannati che urlando (vv.26-27), fanno rotolare dei grossi macigni (voltando pesi) spingendoli con il petto (per forza di poppa). Analogamente a quella mitologica di Sisifo, anche qui i dannati debbono scontare la loro pena; e lo fanno in base alla legge del contrappasso, per cui si ritrovano a compiere in eterno, le gesta fatte nella loro vita terrena. A met del cerchio,lungo la sua circonferenza, essi si scontrano, si urtano gli uni con gli altri e voltandosi indietro, gridano gli uni la seguente frase: Perch tieni? e gli altri questaltra: Perch burli? (vv.28-30). Nellinterpretazione comune, Perch tieni?, viene inteso nel senso di Perch conservi il denaro?; mentre Perch burli?, sta a significare: Perch getti via, sperperi?. Su queste due frasi di scherno reciproco, interessanti sono le considerazioni del Pagliaro: Con questa interpretazione la reciproca ingiuria viene a mancare di qualsiasi riferimento alla

    28 Cit. in A.M.Chiavacci L., Ivi., p.125. 29 Cariddi, nella mitologia greca, un mostro marino annidato sopra una rupe della costa siciliana del mare di Sicilia. Dallaltra parte dello stretto di Messina, su una rupe posta in prossimit di Reggio Calabria, si trova Scilla, un altro mostro latrante. Il mostro Cariddi impersonava, nellimmaginario collettivo medievale, un vortice formato dalle acque dello stretto di Messina. (LUniversale, Enciclopedia Internazionale di Cultura ed Arte, Universal Press, op.cit., Vol.3, p.734). 30 La ridda era una specie di ballo antico di pi persone che giravano in tondo tenendosi per mano e cantando (LUniversale, Enciclopedia Internazionale di Cultura ed Arte, Universal Press, op.cit., Vol.13, p.3165). 31 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.126.

  • pena, mentre proprio nel sarcasmo esercitato sulla rispettiva sofferenza attuale, che il ritornello viene ad assumere il carattere di ingiuria. In tieni e in burli vi un riferimento diretto alla natura della pena, perch i dannati nel fare rotolare i massi con il petto (...) sono costretti a spingere e, al tempo stesso, a tenere, affinch il masso non sfugga. Lingiuria che i prodighi rivolgono agli avari si riferisce allo sforzo del tenere, mentre quella che gli avari rivolgono ai prodighi coglie laspetto del rotolare. Si tenga presente che il significato di burlare proprio di rotolare(...). Non c, dunque, uso traslato del vocabolo, bens una allusione parabolica in relazione al fatto che, nella pena, il rotolare stato assunto come contrappasso dello scialacquare, mandare a rotoli le proprie sostanze, e il trattenere, invece, a contrappasso del conservare, tenere il pi possibile presso di s le proprie ricchezze. Concludendo infine con questa importante deduzione: Luso dei due vocaboli rende icasticamente limmagine, mediante il rotolare e il trattenere, dei due aspetti di un peccato, che sostanzialmente unico32. Le due schiere di dannati, si rinfacciano quindi i loro opposti peccati, ogni volta che si scontrano a met del cerchio. Ed ogni volta, in ambedue i punti di scontro lungo la circonferenza (vv.31-34), i dannati si gridano il loro offensivo ritornello (loro ontoso metro). Laltro punto di scontro (tra i due lungo la circonferenza), si identifica ne laltra giostra (v.35). Il termine giostra, secondo la Chiavacci corrisponde al senso coreografico di tutta la scena e la conclude. Come la danza, cos la giostra, sono immagini proprie delle occasioni di festa, usate qui per amara ironia33. A questo punto Dante (vv.36-39), con il cuore addolorato (quasi compunto), chiede al suo Magister, ossia a Virgilio, di fargli sapere che tipo di peccatori fossero quelli alla loro sinistra (a la sinistra nostra), tutti con la chierica (chercuti); e se in vita, fossero stati tutti degli ecclesiastici (e se tutti fuor cherci). Virgilio, prontamente gli risponde che tutti quei dannati, quanderano ancora in vita, erano tutti ciechi (tutti quanti fuor guerci). Questa cecit, per Virgilio, era da intendersi come uninnata incapacit della mente di vedere oltre; propria degli avari e dei prodighi, poich non in grado di scorgere il vero bene dalle cose futili e vane della vita terrena (vv.40-41). Egli, si riferisce quindi sia ai prodighi che agli avari. Il non fare alcuna spesa con misura (che con misura nullo spendio ferci), significa eccedere in un senso o nellaltro (v.42). Secondo il Buti infatti: non tennono misura in dare n in tenere34. Virgilio, spiega dunque al suo discente che quelle anime dannate con la tonsura (che non han coperchio piloso), furono chierici, papi e cardinali; nelle quali lavarizia esercita il suo eccesso (vv.43-48). Dante si chiede quindi se lui stesso, osservando tali peccatori, avesse potuto riconoscerne qualcuno (vv.49-51). Ma Virgilio, subito gli risponde che ogni suo sforzo sarebbe vano (Vano pensiero aduni), poich la loro vita priva di discernimento (sconoscente vita), che li rese 32 Antonino Pagliaro, Il linguaggio poetico in Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, op.cit., II vol., pp.618-619. 33 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.127. 34 Cit. in A.M.Chiavacci L., Ivi., pp.127-128.

  • sporchi (che i f sozzi), li rende ora oscuri (bruni) e quindi irriconoscibili (vv.52-54). Queste anime dannate, continua Virgilio (v.55), sono condannate a scontrarsi per leternit (in etterno) ai due estremi opposti del cerchio (a li due cozzi). Tra avari e prodighi, la colpa pi grande apparteneva agli avari (posti a sinistra del cerchio). Nella Commedia dantesca, appare in modo esplicito e in pi occasioni, che lavarizia corrisponde al peccato pi grave negli ecclesiastici. Nella sua dimensione storico-politica, tutta la Divina Commedia di fatto altamente critica nei confronti di questi ecclesiastici che, in quanto rappresentanti della Chiesa, dovevano apparire poveri (poich tale fu il suo fondatore, ossia Cristo). Lordine stabilito da Dio, veniva quindi meno a causa dei peccati davarizia commessi proprio da coloro che dovevano dare il buon esempio al popolo. Ecco quindi da dove traeva origine, per Dante, la rovina del mondo. Appare quindi evidente, per dirla con la Chiavacci: la terribile piaga della venalit del clero, che dai pi bassi ai pi alti gradi della gerarchia affliggeva la Chiesa, e di conseguenza lumanit35. E sono proprio questi ultimi, gli avari, coloro che si ritroveranno a svolgere per leternit, attraverso la risurrezione (questi resurgeranno), le stesse gesta compiute in vita allinsegna di un totale attaccamento ai beni materiali; dove solitamente, in tale dimensione dellanimo umano, difficilmente trovano spazio altruismo e generosit. Simbolo indiscusso di quella loro trascorsa condizione umana, sar una mano serrata a pugno (col pugno chiuso); eccellente metafora di coloro che nella vita, non hanno mai voluto farsi sfuggire nulla e che tutto, con forza, hanno voluto trattenere (vv.56-57). Assieme alla metafora del pugno chiuso, troviamo inoltre un riferimento (anchesso simbolico), ai capelli (crin mozzi); ossia, nellinterpretazione del Boccaccio, alle sostanze temporali, cio ai beni materiali, quelli terreni che hanno un tempo limitato, proprio perch in funzione della vita di ogni singolo essere umano. Stava quindi nel gesto della tonsura, limmagine simbolica della rinuncia ad ogni bene materiale (v.57). La critica verso i prodighi e gli avari (mal dare e mal tener), continua in seguito con una riflessione di Virgilio (vv.58-60) su ci che questi ultimi hanno sostanzialmente perduto; ovvero la possibilit di accedere al Paradiso, definito in questo caso come il mondo bello (mondo pulcro ha tolto loro). Il tutto si risolve quindi in una zuffa, sulla quale il Magister non vuole esprimersi con belle parole, in quanto ritenuta condizione di miseria etica, per cui non meritevole di particolari abbellimenti (parole non ci appulcro)36. A partire da questo momento, entriamo in una dimensione in cui prevale la riflessione morale; per cui, cambiano di conseguenza anche il tono e il linguaggio usati. Virgilio, si appresta dunque a chiarire al suo discente, dove risiede realmente linganno (la corta buffa) dei beni (di ben) materiali affidati alla Fortuna (commessi a la fortuna), che il destino ha posto in essere per queste anime or dannate e che in vita furono abbagliate dalla futile e inconsistente necessit di possesso (vv.61-62); necessit ingannevole per la quale luomo si azzuffa (per che lumana gente si rabuffa). La riflessione, dunque rivolta verso

    35 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.127. 36 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.129.

  • gli avari(v.63). Per Virgilio, tutto loro del mondo (ch sotto la luna), presente e passato (e che gi fu), non basterebbe a distogliere queste anime dannate e stanche per la fatica, dal loro eterno tormento (non poterebbe farne posare una). Ecco dunque dove risiede il vero inganno (la corta buffa), proprio nella perdita di ogni valore materiale, nel momento in cui termina la vita terrena (vv.64-66); valori che in ultima analisi, non potranno mai essere trasposti nel regno delleternit (costituito da Inferno e Paradiso). La Fortuna Gli ultimi versi del secondo nucleo tematico (dedicato ai prodighi e agli avari) e nei quali Virgilio da sfogo alle sue ultime riflessioni, ci introduce al tema centrale di tutto il canto, rappresentato dalla figura della Fortuna. Nella descrizione riportata dallEnciclopedia dantesca, proprio in questo canto, il settimo dellInferno, che Dante presenta la sintesi pi elevata della sua dottrina intorno alla Fortuna37. Si tratta di una sintesi nuova, personalissima38. La Fortuna, sotto queste nuove vesti, uno spirito angelico incaricato dalla Provvidenza di distribuire tra gli individui (...) i beni esterni (ricchezza, onori, bellezza, forza, potenza, gloria, ecc.) e di trasferirli di quando in quando secondo i disegni imperscrutabili di Dio. Appunto per questo risultano vane le opposizioni degli uomini, i quali, per non rendersi conto della natura divina della Fortuna, talvolta inveiscono ingiustamente contro di lei. Ma lei, incurante delle calunnie umane, anzi sempre lieta perch esegue la volont di Dio, continua a svolgere il compito che le stato assegnato39. La figura della Fortuna, come intesa dal Sommo Poeta, si accosta comunque pur sempre, per certi aspetti, alla concezione classica (e questo avviene a causa dello svolgimento poetico dellargomento); per cui la ritroviamo, nella Divina Commedia, con le sembianze di una dea bendata nellintento di far girare la sua sfera (termine pi appropriato alla dimensione divina e che Dante ha voluto porre al posto della parola ruota; volve sua spera e beata si gode, Inf., VII, v.96). In relazione a ci, la Chiavacci spiega: A tale figurazione letteraria, che traeva origine dalla concezione pagana del mondo e della storia, Dante oppone qui lidea cristiana che fa della Fortuna una ministra di Dio, cio uno strumento della sua Provvidenza che guida gli eventi umani.(...)Ma Dante crea qui qualcosa di nuovo, immettendo questa profonda idea teologica in una figurazione letteraria gi esistente40. Ad esercitare un notevole influsso sul pensiero dantesco, per ci che riguarda il concetto di Fortuna, furono indubbiamente questi due importanti autori cristiani: il

    37 Enciclopedia dantesca, Biblioteca Treccani, vol. IX, A. Mondadori Editore, Milano, 2005, p.249. 38 Ibid. 39 Ibid. 40 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.135.

  • filosofo romano Severino Boezio (476-525) e il filosofo, vescovo, nonch teologo romano, Agostino dIppona (354-430); conosciuto pi semplicemente come SantAgostino. Pi vicino al periodo storico di Dante, troviamo inoltre il poeta italiano Arrigo da Settimello (XII sec.), autore di un poema assai popolare nel Medioevo (De diversitate fortunae et philosophiae consolatione, noto anche col nome di Liber Henrici o Elegia, la cui data di composizione si pu fissare al 1193; nell'antica traduzione italiana: "Trattato contro all'avversit della fortuna") e al quale lautore della Divina Commedia si certamente ispirato nella formulazione del suo nuovo concetto di Fortuna. Ma prima di sottoporre a disamina i fondamenti filosofici, filologici ed etici contenuti in questi due modelli teorici (uno rappresentato dal pensiero di Boezio e St.Agostino, molto simili tra loro, e laltro identificabile nel pensiero di Arrigo da Settimello), opportuno compiere un piccolo passo indietro nella storia, per risalire alle origini del concetto di fortuna e quindi comprenderne alcuni aspetti e significati di natura etimologica e semantica. Per fare ci, far ricorso per la seconda volta al testo riportato nellEnciclopedia dantesca, sotto la voce Fortuna; il quale spiega che: Per i primi Latini, pare che la Fortuna fosse la divinit che presiedeva allelemento incalcolabile nella vita umana. La stessa parola fortuna era forse un epiteto esplicativo del sostantivo fors, col quale si trova quasi costantemente appaiata. (...) N perse forse mai interamente il significato di un potere che presiede al caso, e che pu essere propiziato dagli uomini e da loro aiutato. Sotto la Repubblica la fortuna appare connessa con la virtus e la pietas e significa per lo pi condizione prospera, significato che non perse mai interamente. (...)Anche in Plauto e Terenzio, dove fortuna e derivati significano caso, non si esclude lidea dello sforzo umano.(...)Bisogna arrivare alleclettico Cicerone per trovare il concetto (di provenienza greca) della fortuna volubile, incostante, cieca.(...) Sotto lImpero, e per influsso greco, fortuna ha comunemente il significato di caso 41 Gli autori a cui Dante si ispira nellelaborare le sue idee sulla fortuna, sono tutti di fede cristiana, i quali rigettano a priori il concetto pagano di fortuna, pur ammettendolo comunque come sinonimo di caso. Traendo ancora spunto dallEnciclopedia dantesca, possiamo prendere ad esempio, come modello di riferimento, alcuni aspetti del pensiero di SantAgostino; cos sintetizzabili: da rigettarsi come falsa la dottrina pagana della fortuna, specie se considerata come divinit cieca. (...)Il concetto di fortuna va distinto accuratamente dalla felicit: la fortuna, infatti, pu essere anche sfavorevole. La voce fortuna, (...) pu essere ammessa per indicare gli avvenimenti che a noi sembrano casuali perch ne ignoriamo le cause42. Alcuni elementi interessanti del pensiero di SantAgostino sul concetto di fortuna, li troviamo anche nei suoi famosi Discorsi, come ad esempio qui, dove si legge: (...)Quando uno comincia ad accusare la fortuna dicendo che essa lo ha costretto a peccare o che essa ha peccato in lui, quando comincia ad accusare il destino, gli si pu chiedere: "Ma la fortuna che cos'? Che cos' il destino?".

    41 Enciclopedia dantesca, Biblioteca Treccani, vol. IX, op. cit., p.249. 42 Ibid.,p.249.

  • Quegli cercher di dire che al peccato lo hanno portato le stelle. Vedete come a poco a poco la sua bestemmia cammina verso Dio. Le stelle infatti chi le ha poste nel cielo? Non forse Dio, creatore di tutto? Se dunque lui vi ha posto queste stelle, ed esse ti costringono a peccare, non ti par che sia lui l'autore dei tuoi peccati? Vedi, o uomo, quanto sei perverso! (Serm. 16/B, 1-2, Sal. 40,5)43 Riferimenti alla figura della Fortuna, li ritroviamo inoltre nellopera: La citt di Dio (De Civitate Dei), scritta da SantAgostino in ventidue volumi tra il 412 e il 42644. Questopera, considerata la pi importante in assoluto del vescovo di Ippona, da ritenersi una vera e propria apologia del Cristianesimo; essa si propone di spiegare loperato di Dio nel mondo. Attraverso una simbiosi tra teologia e filosofia della storia, Agostino spiega al popolo pagano i motivi della caduta di Roma, inserendo in tale contesto , un discorso sulle leggi della Divina Provvidenza. Per egli quindi, la caduta della citt eterna non era da attribuirsi allabolizione del Paganesimo, come molti pagani sostenevano, bens ad una volont divina per luomo certamente imperscrutabile, ma indiscutibilmente ricca di significato.45 Lidea della Divina Provvidenza sta alla base di tutta la concezione cristiana della storia. Lintento del grande filosofo e teologo romano, non era comunque quello di innescare delle controversie tra il pensiero pagano e la fede cristiana, con lo scopo finale di affermare la religione cristiana; ma era semplicemente quello di unire, di avvicinare le due correnti di pensiero, per arrivare cos ad ununica dimensione spirituale in cui ogni uomo (a prescindere dal proprio credo) potesse rispecchiarsi.46 Come detto precedentemente, SantAgostino non fu lunico autore cristiano ad ispirare Dante sui concetti di fortuna e Divina Provvidenza; i quali, a ben guardare, sono strettamente legati tra loro e per certi aspetti anche simili. Un altro importante personaggio del Medioevo dunque (gi pi volte citato), che con la sua opera intitolata De consolatione philosophiae, riusc a diffondere ampiamente il nuovo paradigma del concetto di Fortuna, gi adottato da SantAgostino quasi un secolo prima, risponde al nome di Severino Boezio. In questopera, il filosofo romano, riprende quindi la logica della Divina Provvidenza, secondo cui non vi alcuna scelta casuale nel ripartire i beni che la Fortuna elargisce o toglie agli esseri umani sulla Terra. Tutto quindi prestabilito a monte da un disegno divino, per cui ogni essere umano, a prescindere dai meriti che egli stesso ritiene di avere o meno, potrebbe ricevere o dover dare (perdere), nelle rispettive interazioni con la dea della Fortuna. In tutto ci esiste sempre una logica fondamentale; ma si tratta di una logica divina, criptica, oscura, indecifrabile per qualsiasi soggetto umano. Lunico modo con cui luomo pu arrivare ad accettare questa logica quindi, visto che del tutto incomprensibile anche alle menti pi sottili, sta semplicemente nel compiere un atto di fede; ossia nellabbandonarsi ad una verit indimostrabile ma saldamente ancorata alla propria dimensione interiore (per tutti 43 La Santa Sede, sito web, http://www.vatican.va 44 Agostino dIppona, De Civitate Dei, vol.IV 33 e vol.V9. 45 Gaetano Lettieri, Il senso della storia in Agostino d'Ippona. Il Saeculum e la gloria nel De civitate Dei, Borla editore, 1988, p.142-156. 46 Joseph Ratzinger, Popolo e casa di Dio in SantAgostino, Jaca Book, Milano, 1971.

  • coloro che ovviamente hanno ritenuto opportuno lasciare aperta quella porticina del proprio cuore, dalla quale la fede ha il permesso di accedere).47 Per il grande filosofo romano, il Sommo Bene, ovvero il Bene perfetto oltre il quale non si poteva trovare pi nulla, era rappresentato dalla figura stessa di Dio. Ed proprio attraverso limpiego della ragione umana, che nasce la possibilit di ricercare e comprendere, per Boezio, tutta la bont di Dio nei confronti delluomo (anche quando tutti gli eventi negativi con cui a volte nella vita occorre confrontarsi, sembrerebbero dimostrare il contrario). Nel terzo libro della De consolatione philosophiae, infatti egli scrive: (...)la ragione dimostra che Dio buono in modo da poterci convincere che in lui vi anche il bene perfetto. Se infatti non fosse tale, non potrebbe essere l'origine di ogni cosa; vi sarebbe altro, migliore di lui, in possesso del bene perfetto, a lui precedente e pi prezioso; chiaro che le cose perfette precedono quelle imperfette. Pertanto, per non procedere all'infinito col ragionamento, dobbiamo ammettere che il sommo Dio sia del tutto pieno del bene sommo e perfetto; ma s'era stabilito che il bene perfetto sia la vera felicit: dunque la vera felicit posta nel sommo Dio48. Boezio scrisse questopera (De consolatione philosophiae) in cinque volumi, proprio nel momento in cui si trovava nel carcere di Pavia, con laccusa di praticare arti magiche. Durante la sua prigionia, tale accusa si tradusse in una condanna a morte. quindi in tale dimensione fisica e psicologica (altamente critica nella sua drammaticit), che egli matura la sua visione teologica sul concetto di caso (dal lat. casus, che significa caduta, ossia qualcosa che accade inaspettatamente), arrivando cos ad inserire le sue pene, ovvero la sua sventura, nellordine naturale delle cose. Un ordine che in ultima analisi, voluto e governato dalla Divina Provvidenza.49 Tale visione della realt, appare quindi perfettamente affine al contesto, relativo a quella che gli antichi stoici descrissero come la dottrina della predestinazione. In particolare: (...) gli Stoici teorizzavano il fato come il destino ineluttabile scritto dagli dei o meglio dal logos. Il logos per il panteismo stoico la ragione divina del cosmo nella sua globalit, concernente anche ogni singolo uomo.50 Sotto certi aspetti, nellantichit, tale dottrina implicava una predestinazione alla salvezza o alla dannazione, non influenzabile dalloperare umano. La sostanziale differenza quindi con la teologia cattolica, a cui si affida il pensiero di Boezio, si palesa proprio nel fatto che questultima, esclude rigorosamente ogni predeterminazione assoluta e indipendente dalla volont delluomo. Da un punto di vista teologico, il concetto di predestinazione include dunque due elementi: la prescienza (con la quale Dio conosce gli avvenimenti futuri) e la predeterminazione (con cui li dispone al conseguimento del fine voluto).51 Il problema della prescienza e della Provvidenza Divina, come del resto anche quello del libero arbitro, viene trattato da Boezio nel quinto ed ultimo volume 47 C. Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, Napoli, 1994, pp.96-99. 48 L. M. Baixauli, Boezio. La ragione teologica, Milano, 1997, pp.123-126. 49 L. M. Baixauli, op. cit.,p.68. 50 Enciclopedia Treccani, sito web: http://www.treccani.it 51 Ibid.

  • della De consolatione philosophiae. Il concetto di caso (casus), era gi stato da lui definito nel primo libro come: un evento inaspettato prodotto da cause che convergono in cose fatte per uno scopo determinato.52 Linterazione fra tutte queste cause, ossia il loro stesso intrecciarsi luna con laltra, per egli, dunque da intendersi come il prodotto di quell'ordine che, procedendo per inevitabile connessione, discende dalla provvidenza disponendo le cose in luoghi e in tempi determinati53. Vista in questi termini, la realt delle cose prende dunque forma attraverso una serie di eventi solo apparentemente casuali, poich in essi si cela la volont della Divina Provvidenza, la quale ha gi posto precedentemente le basi causali per poter giungere ad una determinata situazione, ossia ad un determinato evento. Con Provvidenza (ossia la facolt divina di conoscere a priori tutti gli eventi delluomo nel mondo), non si intende dunque un vedere prima, ossia una previdenza, bens un vedere nell'eterno presente tanto gli eventi necessari, come sono quelli regolati dalle leggi fisiche, che gli eventi determinati dalla libera volont dell'uomo54. A questo punto, sarebbe impensabile concludere questo breve excursus su alcuni temi centrali del pensiero di Boezio, senza far alcun riferimento a quellimmagine iconografica, la cui paternit generalmente viene attribuita proprio ad egli; ovvero: La Ruota della Fortuna. Nel secondo libro della De consolatione philosophiae, troviamo infatti una delle prime (se non la prima in assoluto) immagini iconografiche, rappresentante la Ruota della Fortuna; immagine che influenz buona parte dellimmaginario e della cultura medievale di quel periodo storico, per poi giungere in tutta la sua forza e solidit archetipica, attraverso i secoli, sino ai giorni nostri. Limmagine boeziana della Ruota della Fortuna, a partire dal Medioevo, si diffuse presto in ogni ambito delle arti figurative umane; arrivando persino a far parte di opere monumentali di grande valore e prestigio quali ad esempio le cattedrali. La Ruota della Fortuna della cattedrale di Amiens, in Francia, indubbiamente una delle pi belle del mondo (compreso il rosone nel suo centro). Al suo esterno, la superficie dellarcata superiore rivestita con una serie di cuspidi formanti diciassette festoni, in ognuno dei quali si trova un personaggio.55 Ma oltre alle opere monumentali, la Ruota della Fortuna, dal Medioevo in avanti, la ritroviamo anche nelloggettistica pi disparata; un esempio per tutti: le carte dei Tarocchi (il gioco dei Tarocchi nacque in Europa tra la fine del Medioevo e il Rinascimento; il loro uso divinatorio cominci a diffondersi solo dopo il XVIII secolo). La Ruota della Fortuna la decima carta degli arcani maggiori dei tarocchi. Nei tarocchi di Marsiglia la carta raffigura una ruota con tre figure: in alto vi una sfinge con una spada (simbolo della giustizia), sulla destra, in fase ascendente, una cane col collare (simbolo di sottomissione) ed infine sulla sinistra, in fase discendente, una scimmia (simbolo di decadenza). La carta

    52 C. Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, op. cit, p.65. 53 Ibid. 54 Enciclopedia Treccani, sito web: http://www.treccani.it 55 Pierre-Marie Pontrou, Notre-Dame d'Amiens, ditions Martelle, Amiens-Paris, 1997.

  • simboleggia il fato, l'equilibrio precario e la mutevolezza della sorte: tutto evolve e ci che sta in alto cadr e viceversa.56

    Tarocco di Marsiglia

    Ruota della Fortuna, (inizio XVIII sec.)

    Cattedrale di Amiens, Francia.

    Ruota della Fortuna della cattedrale dAmiens; rosone sud, particolare.

    56 G. Van Rijnberk, I Tarocchi. Storia, Iconografia, Esoterismo, Roma, Stile Regina, aprile, 1989.

  • Senza entrare ancora nel dettaglio di ogni singolo verso della seconda parte del settimo canto, interamente incentrata sul tema della Fortuna, possibile tutta via far appello a qualche altra riflessione di carattere generico, sugli aspetti teologici ed escatologici del pensiero dantesco. Per il Pagliaro, ad esempio: Il tema della Fortuna domina la coscienza di Dante, come di chi conscio di subire sofferenze e torti non meritati. Contro la sua avversit, di cui la povert conseguenza, non si ha altra difesa, se non quella di sottrarsi al suo imperio, riconoscendo la relativit, o, meglio, lutile relativo della vicenda che essa promuove; negando, cio, al possesso delle ricchezze, che costituiscono lo strumento principale del suo giuoco, ogni funzione e pregio, ai fini, sia della felicit, sia di una qualifica umana di nobilt57. Ecco dove risiede quindi il nocciolo della questione, per Dante; proprio nel relativismo di tutto ci che la Fortuna pu elargire o togliere alluomo. Un relativismo fatto di eventi apparentemente positivi o negativi, per colui che li esperisce, in funzione sia della brevit stessa della vita (che dovrebbe far riflettere chiunque, sulla futilit intrinseca di tutto ci che possediamo o perdiamo), sia delle conseguenze a lungo termine, del tutto imperscrutabili per qualsiasi essere umano, che tali eventi possono cristallizzare e quindi fissare in anticipo (grazie alla Divina Provvidenza, atemporale e quindi in grado di vedere oltre il passato e il presente, anche il futuro di ogni singolo uomo sulla Terra), durante il percorso evolutivo e spirituale dellindividuo chiamato in causa. Ed proprio dallimpossibilit di conoscere i risvolti fisici e spirituali di tali conseguenze (che si manifestano solo in un secondo tempo, molte volte assai distante dal momento in cui determinati eventi significativi hanno avuto origine e quindi modificato apparentemente in meglio o apparentemente in peggio, il percorso di vita del soggetto in esame), che il compito di dover discernere tra bene e male, diventa assai arduo e complicato. E questo vale sia per il diretto interessato, ossia per colui che deve confrontarsi con determinati eventi che modificano o hanno modificato il suo percorso di vita, sia per un eventuale osservatore esterno al sistema considerato (con sistema in questo caso si intende colui che viene osservato, in rapporto allambiente fisico e sociale in cui vive). Il Pagliaro, prosegue e conclude con queste ulteriori riflessioni: (...) il motivo della fortuna e della impassibilit, con cui un animo saggio e fiero subisce i suoi colpi, ha frequenti echi nellopera di Dante, quasi come riflesso di un atteggia-mento di coscienza definitivamente acquisito (cfr. Inf.XV 93 e 95, Par.XVII 26, Epist. III 5 e altrove). Frequente del pari la condanna della ricchezza come causa di infelicit, soprattutto perch allontana da Dio, sorgente di ogni beatitudine (Inf.XIX 112). Con questo giudizio complessivo intorno alla fortuna e alla ricchezza, attraverso cui essa esercita maggiormente il suo dominio, si coordina la conclusione, che la perdita delle ricchezze, comunque avvenga, debba essere causa di letizia e non di dolore e rimpianto.58 E dopo questa lunga digressione sugli aspetti filosofici e filologici pi importanti,

    57 Antonino Pagliaro, La Fortuna in Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, op.cit., I vol., p.169. 58 Ibid., pp.169-170

  • legati al pensiero di grandi personaggi del Medioevo sulla figura della Fortuna, sul concetto di libero arbitrio e infine sullinterpretazione del significato della Divina Provvidenza, duopo tornare allanalisi vera e propria del testo poetico. Si riparte quindi dalla conclusione del primo nucleo tematico, con le ultime parole della lunga riflessione di Virgilio (v.66), per entrare nella parte centrale di tutto il canto; che come abbiamo gi appreso attraverso ben sette pagine di approfondimento, tratta il tema della Fortuna. Questultima parte della mia analisi o commento al canto, sar dunque strettamente legata ai versi che lo compongono; cercher quindi di evitare ulteriori approfondimenti e digressioni troppo dispersive sul tema della Fortuna, proprio per non appesantire troppo il presente lavoro e renderlo cos, di facile e scorrevole lettura. A questo punto Dante prende la parola e si rivolge a Virgilio (Maestro mio), chiedendogli una spiegazione sul significato della fortuna; significato che egli aveva appena accennato (di che tu mi tocche) al suo discente (vv.67-68). Una fortuna che, secondo il Sommo Poeta (v.69), tiene tra i suoi artigli (come un animale rapace) tutti i beni del mondo (che i ben del mondo ha s tra branche). Attraverso la parola branche (artigli), emerge il valore dispregiativo che il viator intende dare alla fortuna stessa; vista in tal senso come un rapace al quale non interessa nulla della condizione umana di felicit o miseria, di chi appunto possiede o non possiede.59 Ci viene indubbiamente inteso da Virgilio, il quale rimprovera presto Dante (Oh creature sciocche, quanta ignoranza quella che voffende) per il modo in cui considera la ministra di Dio (vv.70-71). La forma con cui viene espresso tale rimprovero, riporta immediatamente a quella usata dal Settimello nella sua Elegia della Fortuna (Oh quanto il lume della mente umana / accecato dalloscurit della notte); Elegia II 93-4.60 Poco o nulla si detto del poeta Arrigo da Settimello, nelle sette pagine di approfondimento sul tema della Fortuna. Le uniche informazioni biografiche che si hanno su questo chierico e poeta italiano del XII secolo, che nel 1193 compose un poemetto latino in distici elegiaci, il De diversitate fortunae et philosophiae consolatione, noto anche come Liber Henrici o Elegia della Fortuna. L'opera tratta dei capricci della fortuna e della consolazione che si pu invece ottenere attraverso la filosofia; in quanto non volubile ed imprevedibile come la fortuna. suddivisa in quattro distinctiones e un congedo composto da due distici, per un totale di mille versi. Essa rappresenta una compilazione di auctoritates sacre, classiche e mediolatine, la cui principale fonte dispirazione rintracciabile in Boezio. Ebbe grande fortuna e larga diffusione nel Medioevo, anche attraverso il volgarizzamento trecentesco noto come Lo libro d'Arrighetto, contenuto nel manoscritto Riccardiano del 1338.61 Ma torniamo al canto. Virgilio prosegue dunque con le sue riflessioni, palesando la volont di spiegare al suo discente ogni cosa; ovvero di imboccarlo (ne mbocche) con la sua sapienza (intesa come cibo per lintelletto umano) come si

    59 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.130. 60 Cit. in A.M.Chiavacci L., Ibid., p.130. 61 Enciclopedia Treccani, sito web: http://www.treccani.it

  • fa con un bambino (v.72). Le creature sciocche (v.70), non sono da intendersi come persone del tutto stupide e senza valore; bens come individui, la cui ingenuit, di fronte alle verit pi elevate ed assolute, paragonabile a quella di un bambino ancor privo di conoscenza sugli aspetti pi profondi e dunque filosofici, dellesistenza umana.62 Per meglio comprendere il significato dei prossimi versi (vv.73-76), sempre relativi al discorso di Virgilio, opportuno ricorrere alla parafrasi del testo, che a partire dal settantatreesimo verso cos recita: Colui il cui sapere sovrasta (trascende) ogni cosa (cio Dio), fece i cieli e assegn loro chi li guidasse (e di lor chi conduce; il riferimento alle intelligenze angeliche), cos che ogni coro angelico irraggia il suo splendore su uno dei cieli (s, chogne parte ad ogne parte splende), distribuendo in modo uguale la luce di Dio (distribuendo igualmente la luce). Nel commento della Chiavacci: (...) qui tutto cambia, come un improvvisso voltar di pagina, e subentra la lingua illustre degli argomenti maggiori. questo il primo esempio nel poema di grande discorso teorico affidato alle immagini, scandito in solenni terzine, quasi una visione dellintelletto.63 Ma mano che entriamo nel cuore del discorso di Virgilio, risulta sempre pi difficile poter commentare il testo, senza ricorrere necessariamente alla sua parafrasi. I prossimi versi si aprono dunque con una similitudine (vv.77-78), continuando in seguito sino alla completa descrizione che Virgilio fa della Fortuna. La parafrasi cos interpretabile (vv.77-84): Cos come ad ogni sfera celeste Dio assegn il suo coro angelico, cos ai beni del mondo (a li splendor mondani) assegn unintelligenza che li governasse; ossia la Fortuna (general ministra e duce) ; che a tempo debito,ossia definito dalla volont stessa della Divina Provvidenza, spostasse i beni terreni (li ben vani) da un popolo allaltro (di gente in gente) e da una famiglia allaltra (e duno in altro sangue), in modo da superare ogni possibile difesa dellintelletto umano (oltre la difension di senni umani) ; per cui un popolo comanda e laltro oppresso (per chuna gente impera e laltra langue), secondo il giudizio di costei (seguendo lo giudicio di costei), che nascosto come il serpente nellerba (che occulto come in erba langue). Li ben vani (o splendor mondani), ossia i beni terreni (nellaccezione pi comune che i due termini sottintendono, ovvero onori e ricchezze) , vengono considerati inutili (da cui il termine vani) per lo scopo ultimo delluomo, che dovrebbe sussistere nella ricerca del bene supremo, quello perfetto e spesso irraggiungibile poich definito dallimmagine stessa di Dio. Ecco dunque da dove sorgono, secondo il Sommo Poeta, tutti i mali del mondo; ed proprio a causa di questo fondamentale errore umano, che nasce il fardello dei deboli e degli oppressi (e laltra langue), in contrapposizione allinutile volont di possesso e di dominio di coloro che li governano (per chuna gente impera). Ma la sorte, rappresentata dalla dea Fortuna, sempre mutevole; per cui la felicit,una volta acquisita, non sempre duratura, anzi, spesso e volentieri, pu svanire nel nulla e lasciar posto alle avversit pi impensabili. E solitamente, ci accade quasi sempre in modo

    62 A.M.Chiavacci L., Ibid., p.130. 63 A.M.Chiavacci L., Ibid., p.130.

  • improvviso e inaspettato; da cui il paragone del tutto appropriato con lattacco del serpente, nascosto nellerba (che occulto come in erba langue). Paragone che trova, nellintuizione creativa del Buti, una migliore impostazione allegorica cos da egli espressa: cos lo giudizio della dispensatrice sta appiattato sotto la felicit, e punge luomo con lavversit quando li par star bene. Ma la descrizione che Virgilio da della Fortuna, non termina semplicemente con i suoi aspetti pi caratteristici e superficiali (vv.77-84); essa si addentra persino nei dettagli qualitativi e funzionali (ossia in rapporto a coloro con cui interagisce) della dispensatrice di buona o cattiva sorte (vv.85-96). Egli dunque prosegue il suo discorso affermando (parafrasi permettendo): Tutto il vostro sapere non pu combattere contro di lei (Vostro saver non ha contasto a lei): essa prevede, forma il suo giudizio (questa provede, giudica) ed adempie al suo compito divino (e persegue suo regno) come fanno gli altri angeli (come il loro li altri di). I suoi cambiamenti, ovvero i suoi passaggi di beni da uno allaltro (le sue permutazioni), non hanno soste (non hanno triegue): la necessit la rende veloce (necessit la fa esser veloce); perci spesso appare (s spesso vien) qualcuno che riceve un mutamento di condizione (chi vicenda consegue) ; Questa colei che spesso posta in croce (ch tanto posta in croce) proprio da coloro che dovrebbero lodarla (pur da color che le dovrien dar lode), biasimandola ingiustamente (dandole biasmo a torto) e parlando male di lei (e mala voce); ma essa rimane beata (ma ella s beata) e di tutto ci non sente nulla (e ci non ode): lieta insieme agli altri angeli (con laltre prime creature liete), gira la sua sfera e gode beata di se stessa (volve sua spera e beata si gode). In questultima terzina, la personificazione della Fortuna, seppur costantemente legata allimmagine classica della Ruota boeziana, si ritrova proiettata in una dimensione trascendentale (da cui lintuizione dantesca di sostituire la Ruota con la sfera), dove lo stretto legame con le terrene vicende umane, radicato nellideologia pagana di una dea ingiusta e sotto certi aspetti anche malvagia, nonch visualizzato appunto attraverso la classica immagine iconografica della Ruota boeziana, viene a mancare dando origine ad uninterpretazione pi sottile e complessa di quella popolare pagana. Per Boezio: Ella [la Fortuna] non ode i miseri n bada ai loro lamenti(Cons.II, 15)64, ma come ci ricorda la Chiavacci: Anche la Fortuna di Dante non ode, ma il contesto dellimmagine completa-mente diverso: essa non ode perch immersa nella sua beatitudine celeste, nella quale adempie un divino volere, mentre quella di Boezio non si cura del dolore che provoca.65 Ed proprio qui dunque che sta la sostanziale differenza, nel concetto di Fortuna, tra il modello dantesco e quello boeziano. Gli ultimi tre versi con cui si conclude questa lunga riflessione di Virgilio (vv.97-99), portano a termine il secondo nucleo tematico del settimo canto, che come abbiamo avuto modo di vedere e approfondire, rivolto esclusivamente verso linterpretazione del concetto di Fortuna. Il pensiero di Virgilio, a questo punto, si rivolge verso la dimensione infernale, dove occorre maggior piet, poich i dannati hanno colpe pi gravi e subiscono di conseguenza un maggior tormento.

    64 Cit. in A.M.Chiavacci L., Ivi., p.132. 65 A.M.Chiavacci L., Ibid., p.132

  • Egli dunque, parafrasi permettendo, cos si esprime e conclude: Scendiamo ora verso un tormento che desta maggior piet (Or discendiamo omai a maggior pieta); le stelle che salivano verso lalto del cielo quando io partii, gi cominciano a scendere verso lorizzonte (gi ogne stella cade che saliva quandio mi mossi), ed vietato fermarsi troppo a lungo (e l troppo star si vieta). Nellinterpretazione della Chiavacci: Allinizio del viaggio infatti scendeva la sera (II 1), ora passata appena la mezzanotte. La perifrasi astronomica, (...) ha una sua precisa funzione poetica. Nel quinto cerchio, tra iracondi e accidiosi I due pellegrini, avanzano lungo il girone infernale custodito da Pluto e giungono sulle sponde del fiume Stige. Come ben spiega il Pagliaro: (...) la palude stigia appare formata dall acqua buia, che scaturisce dalla fonte, la quale sgorga nellargine tra il quarto e il quinto cerchio.(...) Il rigagnolo, derivato dal Flegetonte e sua continuazione, lungo il cui argine i poeti procedono, sgorga dalla selva (XIV, v.76).66 Sullorigine terrena dei fiumi infernali, il Pagliaro spiega inoltre che non sempre tale dato di fatto riconducibile alla dottrina enunciata da Virgilio nel XIV canto; anzi, in molti casi sembrerebbe entrare in netto contrasto con essa. Nella descrizione fornita dal Porena: Le acque infernali sono... come un fiumicello che di tanto in tanto si dilata in lago di forma anulare, e poi torna fiume: una prima volta quel lago lAcheronte, poi lo Stige, poi il Flegetonte (che il primo girone del settimo cerchio), poi il Cocito; ed acqua nellAcheronte, fango nello Stige, sangue nel Flegetonte, ghiaccio in Cocito.67 Ebbene tale descrizione, secondo il Pagliaro, risulta in palese contraddizione con quanto detto dello Stige. Esso dovrebbe infatti nascere da una fonte che bolle (VII, v.101); oltre a ci, ricorda il Pagliaro, il contrasto emerge anche dallaffermazione di Dante in XIV,v.121, nella quale egli dice di non aver mai visto prima il presente rigagno. Ma questo non lunico caso in cui si trovino delle discordanze, in merito allinterpretazione della reale origine dei fiumi infernali. Le giustificazioni comunque, da parte del Porena stesso e di altri commentatori, non appaiono del tutto convincenti. Per il Porena, questa discordanza dovrebbe essere spiegata come una banale dimenticanza da parte del poeta di ci che aveva detto prima68; per il Chimenz invece: come unincongruenza di natura strutturale che deriverebbe dalla mutata concezione dellorigine dei fiumi infernali, con la quale il poeta trascur di accordare ci che aveva narrato nel canto VII.69 E dulcis in fundo, vi inoltre la teoria secondo la quale i tre fiumi (Acheronte, Stige e Flegetonte), si sarebbero formati da un unico

    66 A.Pagliaro, Simbolo e allegoria in Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Comme-dia, op.cit., II vol., p.516. 67 Cit. in A.Pagliaro, Ivi., p.517. 68 Cit. in A.Pagliaro, Ivi., p.517. 69 Cit. in A.Pagliaro, Ivi., p.517-518.

  • corso di lacrime che dallalto precipita nella valle infernale. I problemi che solleva il Pagliaro in relazione alloggettiva interpretazione della reale origine dei fiumi infernali, sono dunque molteplici, per cui non mi dilungher oltre su questa diatriba portata avanti nei secoli, dalle migliori menti della critica dantesca. Ci che sappiamo per certo, che il fiume Stige formato da acqua assai scura e paludosa, e che si estende tutto intorno alle mura della citt di Dite. Nelle sue acque si agitano le anime nude di iracondi e accidiosi; queste ultime immerse completamente e quindi impossibilitate a parlare, ma dalla cui bocca escono dei sospiri che determinano un gorgoglio sulla superficie dellacqua, che si propaga lungo tutto il corso del fiume. Ma torniamo ora allanalisi dei singoli versi. Il terzo ed ultimo nucleo tematico di questo canto, si apre con le prime descrizioni topografiche del viator, relative al loro percorso lungo la valle infernale. Nella parafrasi (vv.100-102): Attraversammo il cerchio (da un margine allaltro) fino allaltra sponda (Noi ricidemmo il cerchio a laltra riva), arrivando cos presso una sorgente che ribolle (sovruna fonte che bolle) e si estende sino a raggiungere un fossato ad essa collegato (e riversa per un fossato che da lei deriva). Come ci ricorda la Chiavacci: (...) il ribollire (cio formar bolle) in superficie proprio delle sorgenti in cui lacqua risale dal profondo; il senso di bollire da escludersi, in quanto questacqua paludosa e morta (cfr. VIII, v.31); il bollore ardente sar invece proprio del Flegetonte (XII, v.101)70. Il viator, continua dunque nella descrizione dei suoi ricordi (vv.103-108): Lacqua era totalmente oscura (Lacqua era buia assai pi che persa); e noi, andando nella stessa direzione di quelle onde scure (in compagnia de londe bige), scendemmo per una via aspra, difficoltosa a seguirsi (intrammo gi per una via diversa). Qui il termine diversa, riferito alla via che i due poeti avevano imboccato, non da intendersi nel senso comune di insolita, strana. Ma questo lo si scoprir solo in un secondo tempo. Questo triste ruscello confluisce nella palude chiamata Stige (In la palude va cha nome Stige questo tristo ruscel), dopo essere disceso ai piedi dei dirupi grigiastri del mondo degli inferi (quand disceso al pi de le maligne piagge grige). Per gli antichi commentatori, il nome Stige da collegarsi al significato di tristezza. Per lOttimo: Stige interpretato tristizia71, ed proprio alla tristitia, come ci ricorda la Chiavacci, che si riconducono infatti i peccatori che vi sono puniti.72 Per la Chiavacci, con il termine piagge, in tale contesto Dante si riferisce ai dirupi che costituiscono lintera valle dellInferno. A mio avviso comunque, tale interpretazione rimane un po in contrasto con lidea che il poeta da di questo termine, quando in Inf. I, v.29, parla di una piaggia diserta intesa come una strada in leggera pendenza che separa la pianura in cui egli si trovava dallinizio della collina vera e propria. Ma torniamo nuovamente alla parafrasi di questa ultima parte del settimo canto; i ricordi sono sempre quelli del viator (vv.109-114): Ed io, che stavo intento a

    70 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.133. 71 Cit. in A.M.Chiavacci L., Ivi., p.133. 72 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.133.

  • guardare (E io, che di mirare stava inteso), vidi in quel pantano persone piene di fango (vidi genti fangose in quel pantano), tutte nude e dallaspetto afflitto ed angosciato (ignude tutte, con sembiante offeso). Esse si picchiavano non solo con le mani (Queste si percotean non pur con mano), ma anche con la testa, col petto e con i piedi (ma con la testa e col petto e coi piedi), lacerandosi a brandelli con i denti (troncandosi co denti a brano a brano). Laspetto afflitto e tormentato di queste anime nude, caratteristica delliracondo. In questi ultimi versi, emerge dunque anche limmagine del contrappasso, ben descritta dal Buti: convenien-te che nellinferno si percotano coloro, che nel mondo snno percosso, e strac-cinsi con li denti a pezzo a pezzo... et ancora s medesimi.73 Nella parafrasi dei versi a seguire (vv.115-126), Virgilio prende la parola ed inizia a descrivere al suo discente, la differenza tra le anime nude visibili sullacqua fangosa, con quelle invece immerse completamente nella palude. Le prime saranno dunque identificate dal Magister come quelle degli iracondi, mentre le altre saranno quelle degli accidiosi ( i cui sospiri dei loro lamenti, come gi detto, determinano un gorgoglio sulla superficie dellacqua fangosa, che si propaga lungo tutto il corso del fiume). Il buon maestro mi disse: Figliolo, qui vedi le anime di coloro che sono stati vinti dallira (...or vedi lanime di color cui vinse lira); e devi credermi se ti dico (e anche vo che tu per certo credi) che sotto lacqua vi sono persone che sospirano (che sotto lacqua gente che sospira), e fanno ribollire questacqua in superficie (e fanno pullular questacqua al summo) , come ti dice il tuo stesso sguardo (come locchio ti dice), ovunque tu lo volga (u che saggira). Infilati profondamente nel fango dicono (Fitti nel limo dicon): Fummo tristi nellaria dolce (Tristi fummo ne laere dolce) che rallegrata dal Sole (che dal sol sallegra), portando dentro di noi un fumo accidioso (portando dentro accidioso fummo): ora ci rattristiamo nella nera fanghiglia (or ci attristiam ne la belletta negra). Questa cantilena gorgogliano in gola (Questinno si gorgoglian ne la strozza), dato che non possono parlare con parole chiare (ch dir nol posson con parola integra) . Il fitti nel limo del fondo l Infusus sum in limo profundo di Davide; ma anche il Requiescens Accidiosus in faecibus suis di Geremia. La pena della belletta negra, ossia del loto, quella di Salomone: In lapide luteo lapidatus est piger. Il Tristi fummo , assieme al ci attristiam degli accidiosi, corris-ponde al passo del Damasceno: Accidia est quaedam tristitia aggravans. Dante pun laccidia severamente, perch San Tommaso gliela fece considerare come leffetto di una diabolica influenza, che rende luomo restio al bene: Vaporatio-nes tristes et melancolici possunt moveri a demone interius: et ex hoc homo non incipit saepe bonum.74 Nellinterpretazione del Rossetti: Dante sapea che il sangue nella paura si raccoglie e ristagna nel cuore, per cui luomo divien pallido; onde nel parlar del pauroso ei si serv della frase lago del cuore. Dovea ei quindi saper anche che il sangue nellira ribolle dal cuore e si spande, ond

    73 Cit. in A.M.Chiavacci L., Ivi., p.134. 74 Gabriele Rossetti, La Divina Commedia di Dante Alighieri, vol.I, Londra, Dai torchi di C.Roworth, Bell Yard, Temple Bar, 1826, p.210.

  • che luomo iracondo divien di color s acceso che pu dirsi pi nero che rosso. (...) Diracondi qui si tratta, or bene: quella fonte che bolle e riversa immagine del cuore dell iracondo. Quel fossato che da lei deriva, immagine del maggior canale, onde il sangue si spande; e lacqua che bolle e si riversa, figura del sangue stesso che nelliracondo, al commuoversi dellatrabile, cotale appunto diviene.75 Per la Chiavacci, con accidioso fummo (v.123) si intende: una fitta nebbia che avvolge lanimo di questi peccatori, impedendo loro ogni moto, ogni azione76; e cita inoltre questa riflessione del Boccaccio: laccidia tiene gli uomini cos intenebrati e oscuri, come il fummo tiene quelle parti alle quali egli si avvolge77. Merita attenzione inoltre il seguente verso (v.125): Questinno si gorgoglian ne la strozza. Nel Trecento con il termine inno si intendeva il canto sacro proprio dellUfficio liturgico. La strozza indica invece la gola, termine chiaramente usato con valore spregiativo. Le parole degli accidiosi si trasformano dunque in un gorgoglio, a causa dellacqua nera e fangosa che riempie la loro gola. Il canto si conclude con gli ultimi quattro versi in cui la parola passa al viator, il quale descrive ci che i due pellegrini osservano e compiono nel prosieguo del loro cammino. Cos percorremmo un grande arco della sporca palude (Cos girammo de la lorda pozza grandarco), stando tra la riva asciutta e il pantano (tra la ripa secca e l mzzo), con lo sguardo rivolto a quelli che si ingozzano di fango (con li occhi vlti a chi del fango ingozza). Infine (al da sezzo) giungemmo ai piedi di una torre (Venimmo al pi duna torre).

    75 G.Rossetti, op.cit., vol.I, p.211. 76 A.M.Chiavacci L., Ivi., p.134. 77 Cit. in A.M.Chiavacci L., Ivi., p.134.

  • Conclusione Lantichit traspare s in questo mondo del poeta cattolico, ma solo come guida e modello di saggezza e formazione umana, perch,per quel che riguarda dottrine e dogmi, ad aver lultima parola solo la concezione della teologia e dellamore cristiani.

    G.W. Friedrich Hegel

    Aprire un discorso conclusivo sugli aspetti essenziali e fondamentali del pensiero dantesco, in rapporto al paradigma (di primigenia natura) su cui egli svilupp tutta la Divina Commedia, senza potersi (o peggio ancora volersi) appoggiare sulle spalle di coloro che con grande intelligenza e abilit, hanno saputo cogliere tutti gli aspetti pi importanti inerenti appunto a tale ricerca titanica, sarebbe indubbiamente sciocco e presuntuoso da parte di chiunque; persino per la mente pi geniale e sottile di questo mondo. Senza alcun timore o vergogna quindi, mi appiglier il pi possibile al pensiero di questi mostri sacri (siano essi appartenenti a tempi moderni, oppure contemporanei) della critica dantesca; riportando tra queste ultime pagine, pochi stralci opportunamente selezionati ed estrapolati da alcune loro importanti riflessioni. Per il Foscolo (1778-1827), ad esempio, il Sommo Poeta trovava il suo miglior termine di paragone nellimmagine di un grande uomo medievale che si sente investito di una missione profetica nei confronti dellItalia e della Chiesa, e di tutta lumanit.78 Nel primo articolo della Edimburgh Review del febbraio 1818 (cit. in Studi su Dante), egli cos scriveva: Egli [Dante] abbraccia lintera storia del suo tempo tutto ci che allora era conosciuto di arte, letteratura e scienza le abitudini e i costumi del suo tempo, e la loro origine nelle et precedenti, assieme alle opinioni teologiche e alla grande influenza che esse allora esercitavano sulla mente e sulle azioni degli uomini79, aggiungendo inoltre, qualche riga pi avanti: Egli descrive tutte le passioni umane, tutte le azioni, i vizi e le virt dei pi diversi episodi. Li colloca nella disperazione dellInferno, nella speranza del Purgatorio e nelle beatitudine del Paradiso. Egli considera gli uomini nella giovinezza, nella virilit, nella vecchiaia. Ha posto insieme le persone di entrambi i sessi, di tutte le religioni, di tutte le professioni, di ogni nazione e di ogni et; inoltre non le considera in massa, ma sempre le presenta come individui. Parla ad ognuno di essi, studia le loro parole, osserva le loro espressioni.80 Nella visione di Hegel (1770-1831), contemporaneo del Foscolo, la Divina Commedia appare come la massima espressione poetica della tradizione cattolica medievale, che in essa trova la sua forma epica, dove si esalta il valore della persona, presentando il fatto storico nella prospettiva delleterno.81 Hegel, riflettendo sugli aspetti fondamentali della realt allegorica dantesca, scriveva: (...) quali gli individui erano, nel loro fare e patire, nelle loro 78 Anna Maria Chiavacci Leonardi, Strumenti della Divina Commedia, Zanichelli, Bologna, 1999, p.32. 79 Cit. in A.M.Chiavacci L., Strumenti della Divina Commedia,op.cit.,p.33. 80 Ibid., p.33. 81 Ivi., p.38

  • intenzioni e nelle loro realizzazioni, cos sono qui per sempre, pietrificati come statue di bronzo. Il tal modo il poema abbraccia la totalit della vita pi oggettiva: la condizione eterna dellInferno, della Purificazione e del Paradiso; e su queste basi indistruttibili si muovono le figure del mondo reale, o piuttosto si sono mosse, secondo il loro carattere particolare, ed ora con il loro agire ed essere sono irrigidite nella giustizia eterna, eterne esse stesse.82 Il famoso filosofo, scrittore e politico italiano Benedetto Croce (1866-1952), quasi un secolo dopo il grande poeta Ugo Foscolo ed il filosofo tedesco Friedrich Hegel, si interrog sullessenza stessa dello spirito dantesco e sugli elementi costitutivi fondamentali della Divina Commedia, rappresentati dalle figure di pathos ed ethos; senza tutta via tralasciare ci che egli definiva la tonalit, dellopera dantesca. Riferendosi dunque allo spirito dotto e creativo del poeta fiorentino, egli osservava: Che questo spirito sia uno spirito austero, risponde al concetto che universalmente si ha di Dante, (...) perch colui che raffrena e domina le passioni austero, e, come tale, chiude in s una grande esperienza di dolore.83 Il filologo tedesco Erich Auerbach (1892-1957), vede la Commedia dantesca come un racconto collocato nella metastoria in cui si descrive in realt lesperienza terrena, cio storica. Egli riconosce cio espressa nelle forme del poema dantesco lidea cristiana per cui luomo storico si misura soltanto sulleterno.84 Assai importanti e significative sono indubbiamente queste sue considerazioni: Dante, con linventare un corpo di ombra, diede alle anime non solo la capacit di godere e soffrire coi sensi, ma soprattutto di apparire sensibilmente dinanzi a lui e dinanzi a noi, e di manifestare con la loro comparsa la loro condizione.(...) Le altre visioni escatologiche che ci sono state tramandate , sia del tempo antico che di quello cristiano, sono concepite in tuttaltro modo; esse immergono i morti tutti insieme nellesistenza incompleta delle ombre, che livella e annienta la personalit individuale, o almeno la priva di ogni forza.85 Ma il pi importante critico dantesco anglofono della storia contemporanea, sicuramente Charles S. Singleton (1910-1985); da molti considerato il discepolo dellAuerbach. Con queste parole, egli spiega lintrinseca interrelazione tra il pensiero dantesco e la dottrina cristiana: La forma del poema determinata dalla verit che esso deve contenere e rivelare nella sua struttura, e tale verit non frutto originale della mente del poeta. Dante vede da poeta, e da poeta realizza, quello che gi concettualmente elaborato e fissato nella dottrina cristiana. Al suo tempo, ormai, secoli di meditazione avevano determinato quale avrebbe dovuto essere nella sua essenza il percorso di un viaggio a Dio, che si compia nellanima e in questa vita. Non il poeta che formula tale concezione: egli vi aderisce, piuttosto, perch qualcosa di cos saldamente fissato al fondo della mente del suo lettore, che, senza dubbio alcuno, egli come poeta potr farvi

    82 Ivi., p.38 83 Ivi., p.48. 84 Ivi., p.49. 85 Ivi., p.50.

  • appello; in tal modo, dallo svolgimento del viaggio letterale attraverso la vita delloltretomba, pu gradatamente emergere la figura familiare del viaggio dellanima.86 A meritare tutta la mia attenzione, vi sarebbero tanti altri giganti della critica dantesca (come ad esempio Romano Guardini, Gianfranco Contini, Bruno Nardi, Giovanni Getto, ecc...); tutta via, pur riconoscendo la loro importanza, proprio con le ultime riflessioni del Singleton (esposte pocanzi), che intendo terminare il presente lavoro di ricerca. Lavoro che purtroppo, dal basso della mia scarsa competenza in tema dantesco, non ho avuto la forza ma soprattutto il coraggio (che sarebbe sicuramente sfociato in una sorta di patetica presunzione) di concludere, con delle poco autorevoli (e sicuramente anche troppo soggettive) considerazioni personali.

    86 Ivi., p.75.

  • Referenze bibliografiche - Anna Maria Chiavacci Leonardi,Dante Alighieri, Commedia, Inferno, Zanichelli, Bologna, 1999. - Omero, Odissea, libro XI. - A. Del Noce, Rivoluzione Risorgimento Tradizione, Milano,1993. - A. Del Noce, Gilson tienne, in Enciclopedia dantesca, vol. III, Roma ,1971. - . Gilson, La citt di Dio e i suoi problemi, Milano, 1959. - LUniversale, Enciclopedia Internazionale di Cultura ed Arte, Universal Press, Bologna, 1968. - Domenico Guerri, Di alcuni versi dotti nella "Divina Commedia", Citt di Castello, 1908. - Philip K. Hitti, Recent Publications in Arabic or Dealing with the Arabic World, Journal of the American Oriental Society, Vol. 54, No. 4 (Dic., 1934). - Vittorio Sermonti, Inferno, Rizzoli , 2001. - Antonino Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, Ed. G.DAnna, Firenze,1967. - Agostino dIppona, De Civitate Dei, vol.IV 33 e vol.V9. - Gaetano Lettieri, Il senso della storia in Agostino d'Ippona. Il Saeculum e la gloria nel De civitate Dei, Borla editore, 1988. - Joseph Ratzinger, Popolo e casa di Dio in SantAgostino, Jaca Book, Milano, 1971. - C. Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, Napoli, 1994. - L. M. Baixauli, Boezio. La ragione teologica, Milano, 1997. - Pierre-Marie Pontrou, Notre-Dame d'Amiens, ditions Martelle, Amiens-Paris, 1997. - G. Van Rijnberk, I Tarocchi. Storia, Iconografia, Esoterismo, Roma, Stile Regina, aprile, 1989. - Gabriele Rossetti, La Divina Commedia di Dante Alighieri, vol.I, Londra, Dai torchi di C.Roworth, Bell Yard, Temple Bar, 1826. - Anna Maria Chiavacci Leonardi, Strumenti della Divina Commedia, Zanichelli, Bologna, 1999.

    Sitografia - Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it - La Santa Sede, http://www.vatican.va