Dissonanze

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In ogni esistenza c'è una lieve dissonanza pronta a esplodere con fragore, liberando il suo potenziale distruttivo...

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Proprietà letteraria riservata © 2012 Sogno Edizioni, Genova (GE)

Sede legale: Via Borgoratti, 41/9 – Genova Prima edizione Settembre 2012

© Collana “Fast Read” ISBN: 978-88-96746-34-9

Immagine di copertina:©chrisroll/Stockfresh

http://stockfresh.com Grafica copertina: Massimo Jr D’Auria

Stampato da Atena S.r.l.

Ai miei nonni perché per una volta sarei voluto essere io il narratore di una storia, seppur nera…

Dissonanze di

Massimo Jr D’Auria

Sogno Edizioni

Incontro al bivio Giacomo è seduto sul marciapiede. Mantiene con la mano destra un brick di vino, questo è l’unico divertimento che si può permettere con i pochi spicci che riesce a racimolare facendo l’elemosina tutta la giornata. Meno di cinquanta centesimi e ti passa la paura come dicono dalle sue parti. Svago alcolico da hard-discount, un sapore orribile, che la lingua si rifiuta di assaporare del tutto per evitare di stimolare conati che sarebbe meglio evitare. In quei brick sembra esserci di tutto tranne che alcool, la sostanza – qualunque essa sia – è terribilmente annacquata. Insieme a quei pochi centesimi riceve: sguardi compassionevoli, parole d'incoraggiamento, altre volte occhiate malvagie che lo fanno sentire un sub-uomo, qualcosa che la società dovrebbe cancellare, per permettere a eleganti uomini in doppiopetto e alle loro accompagnatrici di non pensare ai problemi che attanagliano le persone che non vivono nella bambagia. Un cancro da estirpare alla prima occasione, senza possibilità di rivalsa. Per i barboni non c’è appello, non ci deve essere. Vedere un mendicante ti riporta alla realtà delle cose, ti fa capire che tutto è caduco a questo mondo, ti lascia intendere

che a un certo punto della tua vita potresti finire anche tu così e questo è un pensiero che fa tremare un qualsiasi cittadino, figurarsi un affarista in doppiopetto con la labbra ancora sporca di scotch. Dire che non se la passa bene, vuol dire usare un eufemismo per non urtare i sentimenti che sembra non avere più. È un barbone, un senzatetto, ma la cosa non gli importa più, quasi gli è sfuggito dalla mente il ricordo della sua vita precedente. Come non gli interessa: la sporcizia incrostata nella barba e nei capelli, che da troppo tempo non vedono un lavaggio come si deve; la carne annerita che non sembra cambiare colore nemmeno quando viene detersa con l’acqua di una fontana pubblica. I denti stanno iniziando a ingiallire, da lì a poco potrebbero essere un pallido ricordo nei meandri della sua mente oramai estraniata dal resto del mondo. I vestiti sono sempre gli stessi da un paio di mesi e, nonostante qualche lavata nella fontana di poco sopra, emanano una puzza terribile che oramai è entrata nella stoffa e che probabilmente niente può eliminare. Forse, il fuoco. Giacomo a quarant’anni è un pezzo di carne che il mondo e la società hanno masticato e sputato via senza troppi complimenti. Non c’è stata nessuna pillola indorata per lui.

Non ha una famiglia, non più almeno: moglie e figlio morti in un incidente stradale, i freni di una macchina non hanno fatto il loro lavoro. Non ha un lavoro, non più almeno: era un impiegato in una banca, licenziato dopo aver aggredito un cliente, era anche lui un uomo in doppiopetto con le labbra sporche di scotch. Non possiede una casa, non più almeno: l’ha svenduta, sperperando subito tutto il denaro. Inizia a pensare anche lui di non essere nemmeno più un essere umano vero e proprio, ma un sub-uomo, qualcosa, nemmeno qualcuno, che i bambini meno sensibili additano ridendo e che le mamme non guardano neppure, lanciando così, senza troppa cura, qualche centesimo di euro, con la raccomandazione di non spenderli tutti in sigarette e alcool. Naturalmente a lui non interessa seguire quel consiglio, il cibo se lo procura in altro modo. I ristoranti buttano moltissimi avanzi ancora buoni, ancora commestibili e per un sub-uomo come lui queste cose vanno più che bene. Gli spiccioli gli servono per quel vino scadentissimo, le sigarette invece non le guarda nemmeno, non ha mai fumato. Le ha sempre considerate veleno per i polmoni. È già scesa la sera, un’altra giornata di merda sta volgendo al termine, molti nel mondo hanno fatto qualcosa d'importante, hanno scoperto nuove cure, nuove strade da battere; lui non si è

mosso di una virgola da quel marciapiede, solo una volta si è alzato per pisciare. Tutto quel vino ha un brutto effetto sulla vescica, questo è innegabile. Guarda il lampione davanti a lui, illuminazione a intermittenza che rischiara blandamente la zona circostante. Vede gli insetti che danzano intorno alla luce, quasi ne seguissero il ritmo. Li guarda e si sente come loro, inutile e fastidioso. Guarda il loro piroettare confuso e pensa di farla finita. Le loro movenze sembrano quasi ipnotizzarlo, ma è lucido, nonostante lo sguardo fisso. Riflette. Buttarsi dal ponte potrebbe essere una buona strada, una buona soluzione finale ai suo problemi a quella vita da sub-uomo, da insetto. Immagina per un attimo il contatto furioso con la terra dopo la caduta: le ossa rotte, le emorragie varie. Un brivido gli corre lungo la schiena, non è convinto di voler soffrire così tanto. Ha paura di non morire sul colpo e avvertire anche solo per un secondo tutto quel dolore. Distoglie lo sguardo dal lampione e dall’ipnotica danza degli insetti, avverte dei passi isolati, la strada è praticamente deserta, si gira verso la fonte del rumore. Mette a fuoco la figura in avvicinamento: è un uomo, sulla quarantina anche lui, ma di bell’aspetto, capelli e viso curati,

veste bene, indossa un lungo soprabito grigio, su un completo lievemente più chiaro, scarpe classiche nere, con stringhe molto sottili. Nonostante la vista leggermente annebbiata dall’alcool fa caso a queste cose, è sempre stato un tipo attento ai particolari. Il suo sguardo non si muove di un millimetro, anche perché quell’uomo sembra proprio voler andare verso di lui. Per un attimo un brivido gli percorre la schiena, facendo vibrare tutto il suo corpo sporco e rinsecchito. È un attimo, un istante, ma sembra essere molto più lungo. Non ha ancora scambiato una parola con quell’uomo, ma inizia a pensare che da un’eventuale chiacchierata non potrebbe uscire nulla di buono. Anzi. Oramai, distante qualche passo, incrocia i suoi occhi grigi come il fumo. Nota il lieve sorriso che gli increspa le labbra sottili. ‹‹Buonasera›› gli dice l’uomo. Giacomo tossisce, sente un pizzicore alla gola, probabilmente infiammata. Dopo qualche istante però gli risponde; l’aver perso tutto, non gli ha fatto dimenticare l’educazione: «Buonasera a lei.» Quel sorriso increspato sembra non voler lasciare le labbra di quell’uomo, la cosa inizia a irritare Giacomo, che non sorride da tanto, troppo tempo. «Bella serata, eh?» dice l’uomo. «Forse per lei…»

E lì, Giacomo vede scomparire per un attimo quel sorriso che lascia posto a un viso che mette inquietudine, ma è un momento quasi impercettibile, e Giacomo quasi accoglie con sollievo quel sorriso quando fa la sua ricomparsa. Gli verrebbe quasi voglia di cacciar fuori un sospiro. Ma non lo fa naturalmente. «Problemi?» «Spero lei mi stia prendendo in giro, pensa che uno come me, possa passarsela bene?» «Be’, chiedevo, mi scusi...» Resta in silenzio per alcuni istanti, poi alza di poco il capo, portando lo sguardo verso la strada dinnanzi a sé e chiede: «Mi saprebbe indicare la strada per Viale Matteotti, se possibile?» Giacomo si volta verso la sua destra, verso la strada che l’uomo sta cercando, lasciando il proprio interlocutore fuori dal campo visivo. Riflette un po’, poi dice: «Allora, deve proseguire a de…» Le parole gli muoiono in bocca, sente un pizzicore fortissimo al collo, sente che l’uomo gli è praticamente addosso. Lo guarda per un attimo, impaurito, incrociando di nuovo quegli occhi grigi. Poi più niente, il narcotico l’ha addormentato praticamente subito. ***

Vede Monica e Carlo. Stanno camminando tranquillamente diretti alla scuola elementare, parlottano tra di loro, sorridono e ridono più volte, scandendo con piacevolezza quella chiacchierata. Il tempo invece è tutt’altro che piacevole, piove, o meglio diluvia, ma basta un ombrello e passa la paura, avrebbe dovuto accompagnarli, ma il lavoro prima di tutto e quindi è andato in riunione, non poteva fare altro, no? Ma lui questa volta c’è, anche se a piedi, anche se a metri di distanza da loro. Tenta di avvicinarsi, ma a ogni passo fatto in loro direzione, la distanza aumenta. La strada gli si allunga davanti agli occhi. Nello stesso tempo, sembra che le gocce lo evitino, non ha gli abiti fradici, non avverte il suolo bagnato. Solo le grosse gocce che gli cadono davanti al volto gli fanno capire che piove. Mamma e figlio poi arrivano all’incrocio e Giacomo ha un tuffo al cuore, gli occhi gli si fanno lucidi. Quello è il loro ultimo incrocio. Quello dove accadde… Inizia a correre, anche se non ha la piena padronanza delle gambe, ne risulta qualcosa di buffo, quasi grottesco, movimenti scoordinati dovuti a troppa inerzia. Fortunatamente il suolo per lui non è scivoloso, altrimenti una rovinosa caduta non gliel’avrebbe levata nessuno. Grida: “Monicaaaa!”

Di nuovo: “Monicaaaa!” La moglie non lo sente, allora passa al figlio, sperando che almeno lui si accorga della presenza del padre, ma la strada, davanti ai suoi occhi si allunga, ancora di più. Con quanto fiato in gola grida: “Carloooo!” Poi di nuovo: “Carloooo!” Ma niente, nessuno sembra sentirlo, come se fosse un qualsiasi essere osservante non vivente. È la forte pioggia che copre le sue urla? O c’è dell’altro? Poi sente un rumore, quel rumore. Un motore che va fuori giri, un’auto che slitta. Inizia a piangere, ben conscio di quello che vedrà da lì a breve. Ma fortunatamente il buio avvince la scena. Non vedrà di nuovo quello strazio, non avrebbe potuto sopportarlo nuovamente. Certe cose non devono essere rivissute se si vuole mantenere la salute mentale. Solo nero, ora. *** Inizia a riprendere conoscenza.

Sente dei suoni, in modo ovattato, le orecchie sembrano tappate da un muro invisibile, almeno all’inizio. La vista è offuscata, non riesce a mettere a fuoco nulla dinanzi a sé. Allo stato attuale non riesce nemmeno a capire dove si possa trovare. Inizia a riprendere padronanza dei propri arti e del proprio corpo. È seduto, ma ha le mani legate, non troppo accuratamente, da qualcosa. Uno straccio di stoffa gli preme contro le labbra, l’hanno pure imbavagliato. Ma perché? Strizza gli occhi, vuole capire dov’è, man mano riesce a mettere a fuoco maggiormente l’ambiente, il suo corpo sta eliminando gli ultimi effetti del narcotico. È in quello che sembrerebbe una specie di scantinato, molto spoglio. Qualche mobile qua e là, mura grigiastre e ammuffite. Non si cura d’altro, conoscere l’arredamento del locale non rientra tra le sue priorità, gli farebbe maggiormente piacere sapere perché l’hanno portato lì, ma soprattutto perché l’hanno legato e imbavagliato in quel modo. Perché pensa al plurale? C’era solo quell’uomo. Cosa è successo? Ricorda solo quell’uomo, la siringa che gli ha iniettato, sicuramente un narcotizzante. Ricorda i suoi occhi grigi e un

brivido gli percorre la schiena, non ha mai visto uno sguardo simile. Ma la sua attenzione viene catturata da un tavolo poco distante da lui, sulla superficie lignea luccicano lame di tutti i tipi: dal coltello da macellaio al bisturi da chirurgo. Tutte sembrano pulite e lucidate, come se attendessero una grande occasione. Una grandiosa vetrina solo per loro. Giacomo sarà un barbone, avrà ancora i sensi, in parte, ottenebrati, ma certo non è stupido. Non è difficoltoso per lui fare due più due. Quelle lame e l’essere legato alla sedia, certo non fanno presagire nulla di buono, anzi. Gira il capo nervosamente, prima a destra poi a sinistra, cercando il suo carceriere, quell’uomo dagli occhi grigi che l’ha prima narcotizzato e poi trasportato in quel posto. Nessuna sagoma rientra nel suo campo visivo. Abbassa il capo rassegnato, sembra che per lui non ci sia altro che una brutta fine, o meglio una pessima fine. Ora sente una voce, quella dell’uomo dagli occhi grigi, alle sue spalle: «Toh, sta riprendendo i sensi finalmente.» Sente qualche passo dietro di sé, poi il suo sequestratore prosegue: «Non ce la facevo più ad aspettare.»

Gli passa davanti, fermandosi a guardarlo per qualche istante, nel frattempo Giacomo cerca di studiarlo, di capirne le intenzioni. Non ha più né il soprabito né la giacca, ha le maniche della camicia tirate su sino ai gomiti, come se dovesse darsi a qualche attività fisica da lì a poco. L’uomo dagli occhi grigi poi si dirige verso il tavolino dove sono poste quelle lame, iniziando a sfiorarle con l’indice, come a saggiarne durezza e affilatura, poi dopo un breve sospiro, riprende a parlare, non interrotto dall’ospite che imbavagliato si può lasciare andare solo a qualche mugolio. «Sa? Lei è il primo, la mia prima volta, dovrebbe esserne onorato. Non capita tutti i giorni.» Un uomo ha intenzione di ucciderlo e gli si rivolge dandogli del lei, gli dirà anche grazie dopo aver terminato l’opera? Il sequestratore impugna un coltello guardandolo per alcuni istanti, Giacomo a quel punto non ha più dubbi – non che prima ne avesse così tanti – sulle sue intenzioni, sarà la prima vittima di un pazzo squilibrato. Ma non può far nulla. Non vuole fare nulla, sente che non c’è più spazio in questo mondo, è convinto che la sua vita finirà quella notte, stroncata da un serial killer in erba dagli inquietanti occhi grigi. Ripensa allora alla sua vita passata; mentre quello che sarà il suo carnefice continua a parlare, lui è da tutt’altra parte.

È al primo incontro con Monica. Piacevolezza. È al loro matrimonio. Felicità. È alla nascita di Carlo. Estasi, il momento più bello della sua vita. Poi dopo altri piccoli, grandi, intermezzi arriva a quel giorno. La morte di Carlo e Monica. Gli occhi gli si fanno lucidi, scompaiono l’estasi e la felicità facendo strada alla morte del cuore, della voglia di vivere. Poi sente una voce, e non quella del suo sequestratore: “Papà!” È la voce di Carlo, la riconosce subito. Nonostante il tempo passato, un padre non potrà mai dimenticare la voce del proprio figlio, perché in parte è la sua. “Papà, sono qui!” Lo vede: indossa il grembiulino blu con cui se n’è andato, quel cappellino rosso dei Power Rangers che gli aveva comprato al suo onomastico, dicendogli che l’aveva avuto in quanto era una sorta di Power Ranger onorario, oramai in riposo. Ha sulla faccia quel sorriso furbetto che gli ha risparmiato tante punizioni dopo marachelle e dispetti. Suo figlio è lì davanti a lui e lo sta chiamando. Non capisce come sia possibile, quale assurdo meccanismo abbia potuto rendere possibile una tale cosa. Carlo ha una sua

materialità, non sembra un sogno, non un pensiero. Ma qualcosa di fisico, qualcosa che c’è e si vede. Cerca di parlare, ma gli esce solo qualche mugolio sommesso, quel bavaglio sembra una barriera difficilmente superabile. “Papà, non te ne devi andare adesso.” Giacomo lo guarda attonito, non comprendendo bene il senso di quelle parole, il bambino sembra capirlo perché dice: “È troppo presto.” Scuote la testolina vigorosamente, poi continua: “Devi combattere, altrimenti che Power Ranger sei?” Le lacrime si fermano. Nel frattempo Carlo inizia a perdere fisicità e oramai è quasi scomparso quando dice: “Ti voglio bene, papi!” Fa ciao con la manina e poi più niente. In quella squallida cantina, ci sono nuovamente solo Giacomo e l’uomo dagli occhi grigi, che pare aver smesso di parlare, forse accorgendosi che il suo ospite non gli prestava attenzione. Ma ora Giacomo sa cosa fare. Ha cambiato idea, la sua vita gli appartiene ancora, non se la lascerà sfuggire per le manie di un pazzo squilibrato. Suo figlio gli ha indicato la strada, ora sta a lui seguirla nel modo giusto. La prima cosa da fare è salvarsi. Non vuole subire un’autopsia da vivo. Le mani iniziano a muoversi alacremente, vogliono sciogliere quel nodo che non sembra poi così imbattibile; dopotutto Giacomo è il primo, l’aspirante omicida sembra non avere altre

vittime sul groppone. L’inesperienza in certi casi può giocare pessimi tiri. Abbassa un po’ le palpebre, cercando di far intendere al padrone di casa che gli effetti del narcotico non siano ancora svaniti del tutto. Inizia anche a singhiozzare, cercando di essere il più convincente possibile, vuole dare l’impressione del disperato, di chi non può più salvarsi e prega Dio affinché la sua fine venga presto e nella maniera meno dolorosa possibile. Nemmeno per un attimo gli viene in mente che potrebbe uscire ucciso da un eventuale scontro, perché, davanti agli occhi, ha sempre il viso del figlio e le sue parole “è troppo presto”. L’uomo dagli occhi grigi pare aver scelto finalmente l’arma con cui ucciderà la sua prima vittima. Ha perso tanto tempo, puntando poi su un’arma tutto sommato banale, un coltellaccio da macellaio. È assurdo come Giacomo possa pensare a certi dettagli in un momento come quello. A questo punto la procedura di scioglimento della corda accelera ancora di più, le mani iniziano a sudare per la tensione. Giacomo non si muove di un millimetro, guardandolo attraverso gli occhi semichiusi mentre il sequestratore gli si avvicina. Nei suoi occhi riesce a notare il baluginare di una piccola luce, quasi una fiammella, sembra che si stia per far prendere dalla contentezza, che la sua massima aspirazione sia uccidere un barbone narcotizzato e portato a casa.

Ma, forse, quella sera non avrà inizio nessuna carriera criminale. Giacomo muove lentamente le gambe, in modo da appoggiare solo la parte finale del piede, pronto a scattare contro l’aspirante omicida che non sembra notare nulla, forse, perché troppo elettrizzato da quello che sta per compiere. E Giacomo se ne vuole approfittare, anzi se ne approfitta quando finalmente le mani risultano libere da ogni impedimento. La corda è sciolta. Quando il sequestratore è a un braccio di distanza da lui, scatta con quanta forza ha in corpo, lasciandosi cadere la sedia alle spalle. Non ha voglia di morire, non più perlomeno. L’uomo dagli occhi grigi non riesce nemmeno a comprendere bene cosa stia succedendo; carambolano a terra entrambi, lui sotto, Giacomo sopra, il quale, nonostante qualche acciacco per la caduta, inizia a colpirgli il volto con pesanti pugni, inframmezzati da morsi che gli torturano la faccia. Si girano e rigirano, scambiandosi più volte posizione e colpi. Il sequestratore riesce poi a riprendersi quando è nuovamente poggiato con la schiena verso la superficie, spingendo via Giacomo e rimettendosi, anche se a fatica, in piedi. Cerca con gli occhi, ombrati dal sangue e dalle lacrime, il coltello, ma non lo vede, non subito almeno, lo adocchia poi a un paio di metri di distanza, alla sua sinistra. Dimentica in quel momento che ha

un tavolino dietro di lui, sulla cui superficie, certo, non mancano coltelli da usare. Giacomo, nonostante lo squilibrio, riesce a mantenersi in piedi, anche se barcollante, la voglia di lottare lo avvince più che mai. Non sente il dolore del volto tumefatto, non avverte nulla oltre la voglia di rivalsa. Vede che l’aspirante omicida si sta gettando verso il coltello, ma animato da sovrannaturale forza – che il figlio lo stia aiutando da lassù? – si lancia nuovamente contro di lui, pronto a terminare la propria opera. Caracollano di nuovo a terra entrambi, ma il sequestratore gli assesta un forte colpo al viso e poi lo spinge via verso destra. L’uomo dagli occhi grigi si rialza e sorride perché Giacomo pare aver accusato il colpo, perché resta immobile, rimanendo alla mercé del suo rivale, che recupera finalmente il coltellaccio da terra. Lo guarda alcuni istanti rigirandoselo tra le mani, sicuro della sua vittoria, poi inizia a coprire la poca distanza che lo separa da quella che vorrebbe come sua prima vittima. «Uhuh, sto arrivando!» Ma quando è a meno di un braccio di distanza, nuovamente Giacomo lo attacca e nuovamente lo sorprende. Con innaturale sveltezza tira, con entrambe le braccia, la gamba del suo antagonista, che cade per terra e batte forte la testa. Giacomo poi si rialza, facendo forza sulle braccia sovraeccitate.

Senza perdere tempo, inizia a riempire di calci l’uomo dagli occhi grigi riverso sul fianco, a terra. Pedate gli arrivano alla testa, alla schiena, ovunque i piedi possano arrivare. Ma non serve più a niente; dopo un po’ si accorge dell’immane perdita di sangue che fuoriesce dalla tempia poggiata per terra. Con cautela la mano va a tastare il polso: nessun battito. È finalmente morto. L’uomo dagli occhi grigi non fa più parte di questo mondo, non ha potuto svezzare il suo animo da serial killer, non potrà farlo mai più. Giacomo lo guarda alcuni istanti e gli occhi gli si fanno lucidi, è stato davvero per pochissimo che non ci ha lasciato le penne. Si era rassegnato alla morte, a essere ucciso, avrebbe accettato con remissione che quel coltellaccio venisse affondato nelle sue carni, avrebbe accettato che gli provocasse gravi e mortali ferite, senza far nulla, senza muovere neppur un dito. Solo Carlo poteva salvarlo, ed è contento che l’abbia fatto, perché quel bambino è, è stato e sarà sempre un pezzo del suo cuore, quindi di riflesso è anche merito suo se si è riuscito a salvare. È come se nel suo animo fosse scattata una molla che ha scelto la vita, rigettando la morte. Scegliere la via più difficile non è da tutti, ci vuole coraggio e voglia di vivere. Quest’ultima, Giacomo l’ha riacquistata stasera. Si guarda per qualche istante intorno, scuote il capo.

Sale le scale che lo porteranno al piano superiore, ha spezzato una vita, ma per il mondo non sarà una gran perdita, anzi. Deve riprendere a vivere, da domani potrà iniziare a farlo, ora però sente proprio il bisogno di una doccia. Per eliminare le ultime impurità, gli ultimi dubbi. Per tornare a essere un uomo, lasciando la sub-umanità, pronto a lottare per la vita, comunque e ovunque essa vada.