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CONSERVATORIO DI MUSICA “G. VERDI” – MILANO
SCUOLA DI DIDATTICA DELLA MUSICA
Dispensa di PSICOLOGIA
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
II)) LLaa ppeerrcceezziioonnee.. IIII)) SSiimmbboolliizzzzaazziioonnee ee lliinngguuaaggggiioo.. IIIIII)) IIll ppeennssiieerroo ccoommee aattttiivviittàà ssttrruuttttuurraannttee.. IIVV)) LL’’iinntteelllliiggeennzzaa.. VV)) LLaa
ccrreeaattiivviittàà.. VVII)) IIll ggiiooccoo.. VVIIII)) LLoo ssvviilluuppppoo ccooggnniittiivvoo,, aaffffeettttiivvoo,, ssoocciiaallee ee mmoorraallee.. VVIIIIII)) LL’’aapppprreennddiimmeennttoo.. IIXX)) LLaa ppeerrssoo--
nnaalliittàà.. XX)) LLee eemmoozziioonnii.. XXII)) IIll SSéé.. XXIIII)) GGrruuppppii,, ccoommppoorrttaammeennttoo ssoocciiaallee ee aabbiilliittàà ssoocciiaallii.. XXIIIIII)) LLaa vviittaa ssccoollaassttiiccaa ee llaa
ccoonndduuzziioonnee ddeellllaa ccllaassssee.. XXIIVV)) LL’’oorrggaanniicciittàà ddeellllee ccoonnoosscceennzzee ee iill ccuurrrriiccoolloo.. LL’’iinnsseeggnnaannttee..
Legenda:
BD = M. R. Baroni, V. D'Urso, Psicologia generale, Einaudi, Torino 2004
DV = N. Dazzi e G. Vetrone (cur), Psicologia. Introduzione per le scienze umane, Carocci, Roma 2000
F = D. Fontana, Psicologia per gli insegnanti, Zanichelli, Bologna, 1996 (nuova ed.: Erickson, Trento, 1996).
H = Aa. Vv., Hilgard's Introduzione alla psicologia, Piccin, Padova, 1999
L = G. R. Lefrançois, Psicologia per insegnare, Armando, Roma, 1999.
Pe = G. Petter, La preparazione psicologica degli insegnanti, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze), 1992.
Po = C. Pontecorvo (cur), Manuale di psicologia dell’educazione, Il Mulino, Bologna, 1999.
Questa dispensa è sussidio didattico alle lezioni tenute da Francesco Gatta.
La percezione
La percezione: ricostruzione interna, via d’accesso alla conoscenza.
Meglio dire attività di percezione: essa è il risultato dell'organizzazione mentale dei dati sensoriali.
Tre sono gli elementi indispensabili perché si abbia una percezione (catena psicofisica): 1. lo stimolo distale, un ogget-
to animato o inanimato da cui proviene un qualche tipo di energia che colpisce gli organi di senso; 2. lo stimolo pros-
simale, la modificazione che ha luogo in prossimità dell'osservatore provocata dall'azione dello stimolo distale sugli
organi di senso; 3. il percetto, la rappresentazione mentale che ne risulta a livello di consapevolezza. L'insieme dei
percetti costituisce il mondo fenomenico (si distingue dal mondo fisico perché è un prodotto della mente umana; è di-
verso per ciascuna delle specie viventi a causa del loro diverso sistema sensoriale).
La percezione è lo studio di come noi integriamo l'informazione sensoriale in percetti degli oggetti e di come poi usia-
mo questi percetti per spostarci nel mondo. Il sistema percettivo deve stabilire: a) di quali oggetti si tratta; b) dove so-
no questi oggetti. Nella visione, il determinare che cosa siano gli oggetti viene riferito come processo di riconoscimen-
to del modello (che avviene soprattutto grazie alla sua forma); il determinare dove sono gli oggetti visivi è riferito co-
me localizzazione spaziale (separazione, determinazione della distanza e del movimento). Tutto ciò presuppone la no-
zione di attenzione (che implica selettività). Un'altra funzione del nostro sistema percettivo è quella della costanza del-
la percezione. Queste tre funzioni sembrano applicarsi a tutte le modalità sensoriali.
Sviluppo percettivo
L'acuità visiva, fondamentale per il riconoscimento, aumenta rapidamente nei primi 6 mesi, poi aumenta più lentamen-
te. La percezione della profondità comincia a comparire a circa 3 mesi, ma non si stabilizza del tutto fino a 6 mesi. Le
costanze cominciano a svilupparsi già a 6 mesi. Gli studi fatti fanno a pensare all'esistenza, nei primi tempi della vita,
di un periodo critico, durante il quale la mancanza di stimolazione provoca la perdita di una capacità percettiva innata.
La coordinazione percettivo-motoria deve essere appresa (occorre movimento attivo).
Condizioni per una ricostruzione interna completa e fedele
Apparati sensoriali adatti: possiamo ricevere solo certi stimoli (qualità), che siano sufficientemente intensi (intensità).
Vi sono grandi differenze interindividuali (mondi percettivi diversi).
Nel percepire, cioè nell'attribuire spontaneamente caratteristiche di realtà al mondo fenomenico, possiamo compiere
due errori complementari: l'errore dello stimolo (non accogliendo il fenomeno, ma attribuendo allo stimolo distale le
caratteristiche fenomeniche che sappiamo essere del percetto) e l'errore dell'esperienza (attribuendo agli stimoli distali
o prossimali quello che è invece il prodotto fenomenico dell'organizzazione percettiva). Realismo ingenuo: credere che
il mondo sia effettivamente come ci appare (v. le illusioni ottiche, reali o costruite dagli studiosi).
Principi della percezione e fattori di organizzazione ad azione automatica
Presenza, nel nostro sistema nervoso centrale, di fattori di organizzazione che agiscono in modo automatico; ciò che
noi viviamo, normalmente, è solo il risultato di questo processo di organizzazione. Separazione degli oggetti (v. sopra:
localizzazione) = distinzione in figura e sfondo: il primo elemento che ci permette di vedere un oggetto esterno è la
presenza di un margine che lo contorna (il nostro sistema visivo è sensibile alla discontinuità della stimolazione). Co-
me funziona il margine nelle figure a tratto? Una linea chiusa diventa una forma definita (una figura), mentre il resto
2
dello spazio assume lo stato indifferenziato di sfondo (anche le immagini bidimensionali assumono una specifica strati-
ficazione; inoltre, nelle figure chiuse si osserva il fenomeno della funzione unilaterale dei margini: la discontinuità di
chiarezza che costituisce fisicamente il confine fra le due zone sembra segnare il confine soltanto della figura, mentre
lo sfondo appare sottostante e scorrere al di sotto; oltre alla chiusura, altri fattori che fanno sì che una parte del campo
visivo abbia più probabilità di emergere come figura rispetto a uno sfondo sono il colore, la convessità dei margini, la
minore grandezza). Vediamo non solo gli oggetti contro lo sfondo, ma anche un particolare raggruppamento di oggetti.
A Wertheimer, uno dei fondatori della Psicologia della Gestalt, dobbiamo il primo studio sistematico dei fattori di uni-
ficazione formale (1922) = Vicinanza (a parità di altre condizioni, elementi vicini tendono ad unirsi fra loro per costi-
tuire strutture di ordine superiore e a separarsi da altre); somiglianza (a parità di altre condizioni, tendono a unificarsi
in una struttura di ordine superiore elementi del campo percettivo che presentano qualità comuni); chiusura (a parità di
altre condizioni, tendono a unirsi fra loro elementi che danno origine a una figura chiusa); pregnanza (anche: massima
omogeneità, equilibrio, simmetria, buona forma; tendiamo a privilegiare, nella percezione, le figure equilibrate, sim-
metriche, regolari, rispetto ad altri tipi di figure); continuazione (anche: buona continuità di direzione, destino comune;
nella percezione di più segmenti, che potrebbero essere considerati incompleti o seminascosti, privilegiamo una inter-
pretazione che colleghi più tratti, conservando una direzione continuata, una forma completa) [v. esempi in AAppppeennddiiccee
11]. Nella realtà quotidiana, più complessa dei nostri schemi esemplificativi, solitamente ci troviamo di fronte a più fat-
tori che operano contemporaneamente [v. anche la Gestalt in musica; per es. in: Aa. Vv., La percezione musicale, Gue-
rini, 37-55: AAppppeennddiiccee 22; e I. Bent, W. Drabkin, Analisi musicale, Edt, 46-47: AAppppeennddiiccee 33].
Impostazione soggettiva e esperienza passata come fattori di strutturazione
L’impostazione soggettiva si aggiunge ai fattori prima considerati; impostazione soggettiva, anche nel senso di sforzar-
si di realizzare una strutturazione percettiva diversa, ed anche nel senso di una capacità di analisi percettiva.
L’esperienza passata va ad aggiungersi a quanto visto sopra; una strutturazione percettiva che ha già avuto occasione di
realizzarsi almeno una volta (esperienza percettiva pregressa), si realizza più facilmente in seguito.
Importanza didattica della ripresentazione frequente di una stessa situazione percettiva [v. il principio metodologico
della continuità], naturalmente fornendo motivazioni specifiche ad ogni rivisitazione e centrando l’attenzione su aspet-
ti di volta in volta diversi [v. il principio metodologico della ricorsività].
Altri aspetti dell’attività percettiva didatticamente rilevanti
Gli isomorfismi
Particolari somiglianze strutturali fra diverse modalità percettive (per es. “tàkete/malùma” con figure appunti-
te/tondeggianti...). Importanza didattica dell’isomorfismo [v. W. Köhler , La psicologia della Gestalt, Feltrinelli, 148-
150: AAppppeennddiiccee 44].
Le qualità espressive e fisiognomiche
Non ci sono (più) qualità primarie (che non dipendono dall'osservatore: peso, grandezza...) e secondarie (che dipen-
dono in qualche misura dall'osservatore: colore sapore...), ma soltanto qualità fenomeniche che si presentano come ap-
partenenti agli oggetti. Si continua tuttavia a parlare di qualità "primarie" e "secondarie". Gli psicologi sono però ora
consapevoli anche dell'esistenza di una terza specie di qualità: le qualità espressive. Si tratta di qualità percettive (fon-
date in parte sugli isomorfismi) che hanno il potere di suscitare certe impressioni, e talvolta anche certe emozioni (a
volte vengono definite qualità terziarie). Certe qualità espressive hanno ricevuto da H. Werner la denominazione di
qualità fisiognomiche [fisionomiche in M. De Natale], cioè descrittive dell'indole, e riguardano l’impressione che un
oggetto «sia lì lì per fare qualcosa». Quanto detto, vale per gli oggetti, ma anche per gli eventi, e per i movimenti. Vi è
infine da considerare anche una espressività sociale: la distribuzione di stimoli statici nel campo visivo può cioè essere
veicolo delle relazioni interpersonali esistenti tra gli elementi del campo.
Le proprietà materiali e funzionali
Vanno poste accanto alle qualità espressive (imparentate con esse). Insieme alla forma di qualcosa, ne vediamo anche
certe proprietà materiali, e certi utilizzi.
Percezione e didattica
Innumerevoli situazioni in cui bambini e ragazzi vengono invitati ad osservare direttamente certi oggetti o eventi; al-
trettanto numerose situazioni in cui la percezione di un oggetto o evento è la fase iniziale di un processo psicologica-
mente più complesso; in molti altri casi la percezione è solo un avvio di un processo ancor più indiretto di conoscenza
della realtà. Gli insegnanti, oltre a conoscere le caratteristiche dei processi percettivi, dovrebbero riservare una posi-
zione di rilievo all’attività percettiva: utilizzarla proficuamente, favorirne lo sviluppo e l’affinamento.
Principali teorie sulla percezione visiva
L'idea che la percezione si limiti solo a riflettere la realtà esterna, così come essa oggettivamente è, risulta priva di fon-
damento. É viceversa necessaria una teoria per spiegare perché il mondo ci appare così come noi lo vediamo.
Teoria della Gestalt (primo Novecento; Germania 1922, Usa 1929, 1935...) = Nega una visione frammentaria, frutto di
giustapposizione di elementi distinti, per affermare al contrario la globalità della conoscenza del mondo esterno: si
percepiscono solo degli insiemi nei quali ogni singolo elemento acquista significato (il tutto è diverso dalla somma del-
le parti). L'esperienza è un processo dinamico per cui lo stimolo percettivo costituisce un campo di forze in movimento
(ogni elemento dello stimolo assume una funzione). Isomorfismo: la nostra percezione consapevole rifletterebbe i pro-
3
cessi cerebrali sottostanti; ciò che vedono i nostri occhi corrisponde (ha la "forma") di ciò che avviene nel nostro cer-
vello [per approfondire: v. anche B. Vicario, Psicologia generale. I fondamenti, Laterza 2001, 88-92]. Origine innata
dei principi di organizzazione del sistema visivo: se è vero che i principi di organizzazione del campo visivo sono ap-
plicati in modo diretto, non mediato da interferenze e deduzioni, allora tali principi dovrebbero essere innati.
Teoria ecologica di James Gibson (metà Novecento; Boston 1960, 1979) = In generale la percezione consiste sempli-
cemente nella lettura diretta della realtà esterna (accento sull'ambiente esterno piuttosto che sul soggetto percipiente).
A differenza dell'impostazione gestaltista, secondo la prospettiva ecologica tutte le informazioni necessarie a percepire
la realtà sono già contenute nell'oggetto che presenta numerose disponibilità (affordances); queste vengono percepite
direttamente grazie alla luce, nello stesso modo diretto con cui si percepisce la luminosità. Questo principio poggia
sull'approccio filosofico del funzionalismo e della teoria evolutiva della specie: si assume che il processo evolutivo ab-
bia avuto come esito una modalità di conoscenza adatta all'ambiente circostante. Ogni sistema conoscitivo quindi può
essere compreso solo in un'ottica di adeguamento alle proprietà dell'ambiente, per cui la percezione umana risulta ade-
guata alle caratteristiche e agli scopi prevalenti della specie umana nel suo particolare ambiente.
Teoria computazionale di David Marr (San Francisco 1982) = L'attenzione è posta alle procedure: il processo di elabo-
razione visiva utilizza le conoscenze implicite del mondo fisico allo scopo di dare senso e concretezza all'immagine re-
tinica; questa conoscenza è innata e riguarda alcune proprietà generali del nostro mondo fisico. L'idea chiave del suo
approccio è il concetto di rappresentazione dell'immagine (rappresentazione = correlato mentale dello stimolo esterno,
immagine = insieme delle stimolazioni che colpiscono la retina; l'elaborazione di queste informazioni ha come risultato
la rappresentazione della scena percepita): l'informazione rilevante non è distribuita in modo uniforme sull'immagine, e
dunque il compito del processo percettivo è di usare le regolarità dell'immagine per costruire la rappresentazione. Co-
struire una rappresentazione significa mettere in relazione un'immagine bidimensionale con una rappresentazione tri-
dimensionale degli oggetti e dello spazio; gli elementi percepiti come simili (per colore, forma, luminosità...) tendono a
essere raggruppati in unità, mentre gli elementi dissimili vengono visti come separati (somiglianze con la Gestalt).
Si possono vedere anche la teoria cognitivista modulare (Neisser e altri, anni '60 e '70) e i geoni di Biederman (che ap-
profondisce Marr; fine anni '80).
La fenomenologia
Tre motivi per parlarne: I) un'intera comunità di studiosi, che fa capo idealmente ed anche istituzionalmente a Franz
Brentano (1838-1917), considera la fenomenologia il principale strumento di indagine; II) le spiegazioni dei fatti men-
tali presenti nella coscienza non si possono trovare nella descrizione degli stimoli e dei fatti fisiologici corrispondenti
(necessità di un approccio fenomenologico); III) esiste una importante metodologia di ricerca chiamata fenomenologia
sperimentale.
Diceva Husserl: «Si torni alle cose stesse!»; e Metzger (1941): «Lasciar parlare le cose stesse». 1) In primo luogo ab-
biamo l'analisi di un fatto, che procede secondo le modalità messe in luce da Koffka (1931): «scoprire quali parti date
in natura appartengono, in quanto parti, a degli interi funzionali, precisare le loro posizioni in questi interi, il loro gra-
do di indipendenza relativa e l'articolazione di interi più grandi in sottointeri». Sono qui caratteristici due aspetti com-
plementari: l'assunzione di quei soli elementi del fatto che sono direttamente esperibili, e il rifiuto implicito di prendere
in considerazione elementi estranei al fatto (come cose conosciute appartenenti a livelli gerarchicamente inferiori o su-
periori al fatto in esame). 2) In secondo luogo, l'attenta analisi di un fatto, se condotta senza pregiudizi, mostra non sol-
tanto le caratteristiche delle parti, ma anche la loro connessione, come se la spiegazione del fatto fosse lì, sotto gli oc-
chi, e si trattasse soltanto di coglierla al volo (come nel caso dell'insight: v. p.13).
[BD 59-85; DV 121-136; v. 121-173 per una sintesi delle teorie; H 153-188; Pe, 11, 18-36; G. B. Vicario, Psicologia generale. I fondamenti, La-
terza, 2001, 148-175, 307-319]
Simbolizzazione e linguaggio
I limiti della percezione vengono superati grazie all’attività rappresentativa.
La simbolizzazione
Molto spesso l’attività rappresentativa viene avviata e sostenuta dalla percezione di certi elementi della realtà che as-
sumono il ruolo di richiamarne alla mente altri non percettivamente presenti, o che non lo sono in forma piena; perce-
zione e rappresentazione mentale sono zone estreme di un continuum: 1. percezione; 2. percezione amodale (percezio-
ne che si "prolunga" in una attività rappresentativa); 3. presenza di indici (prime forme di simbolizzazione, indizi); 4.
presenza di significanti (che rimandano a significati) simboli (motivati) o segni (arbitrari)1 [v. AAppppeennddiiccee 11].
Distinzione fra simbolizzazione non linguistica e simbolizzazione linguistica (a sua volta distinguibile in significanti-
simboli e significanti-segni). Differenze fra simboli e segni: anche didatticamente (simboli più facili e diretti); distin-
zione comunque non rigida: dipende dal processo psicologico in gioco; crescente isomorfismo verbale e grafico.
Simbolizzazione e linguaggio
Simbolizzazioni non linguistiche: gioco simbolico [v. p.29]; fantasticheria; sogno.
1 Secondo Peirce, invece: segno iconico (rappresenta l’oggetto per similitudine o analogia), segno indexicale (legame causale, esistenziale tra segno
e interpretante; es.: banderuola, barometro, fumo che indica l’esistenza del fuoco), segno simbolico (rapporto convenzionale).
4
Simbolizzazione mediante il linguaggio: quando un significante viene intenzionalmente utilizzato, in modo sufficien-
temente stabile e anche generalmente condiviso, per esprimere o comunicare un certo significato.
Linguaggio e comunicazione
I linguaggi sono a loro volta inclusi nella più ampia area della comunicazione, termine che designa ogni scambio di in-
formazione sia fra esseri viventi sia fra sistemi più o meno complessi. Meglio allora parlare di linguaggi: verbale, gra-
fico, mimico, gestuale, sonoro, dei fiori, degli oggetti...; diversissimi per il numero dei significanti, per il grado di fles-
sibilità e analiticità, per il grado di standardizzazione.
Livelli
L'uso del linguaggio ha due aspetti: la produzione e la comprensione.
Il linguaggio è un sistema a più livelli (unità grammaticali, che comprendono sintagmi e frasi; parole, prefissi e suffissi;
suoni del linguaggio) per collegare il pensiero all'espressione verbale per mezzo di parole ed unità grammaticali
(Chomsky, 1965). Ogni linguaggio umano possiede due fondamentali proprietà: 1- è strutturato a molteplici livelli; 2-
è produttivo (le regole consentono di combinare le unità di un livello in un numero infinitamente più grande di unità al
livello successivo).
Unità e processi
Sembra che l'elaborazione del linguaggio implichi la riorganizzazione e l'integrazione del segnale fisico in entrata per
creare l'esperienza percettiva unificata che tutti conosciamo (infatti /d/ e /a/ esibiti separatamente sono percepiti diver-
samente dalla sillaba "da"). Sembrerebbe inoltre che la percezione dei suoni linguistici sia "categorica": un fonema
(l'inglese divide tutti i suoni della lingua parlata in circa quaranta) è una categoria, nel senso che suoni fisicamente di-
versi possono essere percepiti come uno stesso fonema (es.: la /p/ di "pin" e di "spin" in inglese, che però nella lingua
Hindi corrispondono a due fonemi diversi; in giapponese i suoni inglesi che corrispondono a /r/ e /l/ sono trattati con
uno stesso fonema). Quando i fonemi sono combinati nel modo giusto, formano delle parole. Queste sono portatrici di
un significato (ma anche suffissi o prefissi hanno un significato). Qualunque piccola unità linguistica che veicoli un si-
gnificato viene detta morfema. Alcune parole servono soprattutto per rendere grammaticalmente corrette le frasi; tali
parole grammaticali o morfemi grammaticali, includono ciò che passa comunemente sotto il nome di articoli e preposi-
zioni (anche alcuni prefissi e suffissi giocano soprattutto un ruolo grammaticale). Qualunque frase può essere scompo-
sta in sintagmi (nominali e verbali). Quando la gente sente una frase, sembra che per prima cosa la divida in sintagmi
nominali e verbali, e poi da questi sintagmi estragga delle proposizioni. Ogni sintagma agisce come un'unità nella me-
moria. L'analisi di una frase in sintagmi e successiva divisione in unità più piccole (nomi, verbi e aggettivi) si chiama
analisi sintattica.
Fonetica e fonologia
La fonetica studia i suoni linguistici intesi come eventi fisici e psicologici (proprietà acustiche del linguaggio, rapporti
di queste e il modo in cui l'essere umano percepisce ed ha esperienze del linguaggio stesso; modo in cui i suoni lingui-
stici vengono prodotti dall'apparato fonatorio); la fonologia si occupa invece delle rappresentazioni astratte e delle re-
golarità contrastive dei suoni linguistici (studia il modo in cui i suoni linguistici interagiscono tra di loro all'interno di
specifiche lingue). Alcuni sostengono che la fonologia non dovrebbe esistere come disciplina a sé e che le generalizza-
zioni scoperte dai fonologi devono essere spiegate esclusivamente in termini fisici e psicofisici (approccio epigenetico:
v. p.9); altri sostengono che la fonologia costituisca un livello di analisi completamente indipendente, le cui leggi non
possono essere ricondotte a nessuna combinazione di eventi fisici (approccio nativista: v. p.9)
Semantica
Si occupa dello studio del significato e viene suddivisa tradizionalmente in semantica lessicale (studia i significati as-
sociati ai singoli elementi lessicali) e semantica proposizionale (si occupa delle relazioni di significato che si stabili-
scono fra le parole all'interno di una frase).
Grammatica
Tradizionalmente si divide in due parti: morfologia (la cui unità di analisi è il morfema) e sintassi (l'insieme dei princi-
pi che governano il modo in cui le parole e altri morfemi sono ordinati per formare una frase possibile in una data lin-
gua). Chomsky e i suoi seguaci hanno definito la Grammatica Universale come l'insieme di possibili forme che la
grammatica di una lingua naturale può assumere. Chomsky ha sempre sostenuto (1957, 1965) che la Grammatica Uni-
versale è innata in una forma peculiare propria del linguaggio; ma nel corso degli anni ha cambiato idea circa il modo
in cui queste conoscenze innate si realizzano in lingue specifiche. Oggi (1988) egli ritiene che i bambini nascano con
un insieme di opzioni innate che definisce il modo in cui gli oggetti linguistici come nomi e verbi possono essere messi
insieme. Il bambino non impara realmente la grammatica, ma l'ambiente linguistico funge da "innescatore" che permet-
te di scegliere alcune opzioni e fa sì che altre vengano meno; questo processo viene chiamato "fissazione dei parame-
tri" (diverso dall'apprendimento, che svolgerebbe un ruolo limitato, forse addirittura marginale, nello sviluppo della
grammatica). Gli empiristi però sostengono che la fissazione dei parametri non è altro che una forma comune di ap-
prendimento (cioè, i bambini ricevono nuove cose dall'ambiente, non semplicemente scegliendo tra le opzioni innate).
I sostenitori dell'approccio epigenetico, infine, pensano che alcune combinazioni di caratteristiche grammaticali sono
più convenienti da elaborare rispetto ad altre (v. p.9).
5
Pragmatica
Studia i meccanismi che permettono a parlanti ed ascoltatori di interpretare il linguaggio nel contesto verbale e non
verbale. Sono aspetti pertinenti di quest'area di studi: la deissi (il modo in cui le diverse lingua fanno riferimento al
contesto: le persone, il tempo e il luogo, il discorso precedente); gli atti linguistici (gli atti socialmente riconosciuti che
compiamo attraverso una enunciazione linguistica: v. p.6); le presupposizioni (le informazioni implicite necessarie
perché un determinato atto linguistico funzioni); i postulati e le implicature conversazionali (i principi che governano
la conversazione come attività sociale: v. p.6). La pragmatica include anche lo studio del discorso che, a sua volta,
comprende lo studio dei tipi di discorso e della coesione testuale (il modo in cui utilizziamo i singoli dispositivi lingui-
stici come congiunzioni, pronomi, articoli definiti e addirittura intere frasi o proposizioni per legare insieme frasi, di-
stinguere tra informazioni vecchie e nuove e mantenere l'identità di singoli elementi nell'intero testo – le relazioni di
coreferenza –).
Effetti del contesto su comprensione e produzione
Questo schema è però una semplificazione: non considera il con-
testo nel quale avviene l'elaborazione del linguaggio. Spesso il
contesto rende prevedibile ciò che sta per essere detto. Invero, ci
sono caso nei quali la comprensione del linguaggio è pressoché
impossibile in assenza di un contesto. Forse la parte più rilevante
del contesto è l'altra persona (o persone) con cui state comuni-
cando: per capire una frase dovete cioè comprendere anche: chi
parla, dove parla, a chi parla e perché parla nel momento in cui
formula quella particolare frase. Quando si parla, così come
quando si interpreta, deve essere stabilito come ciò che viene
detto si adatta al contesto.
Comunicazione verbale e non verbale
É ormai accertato che nella comunicazione interperso-
nale si utilizza molto più di quanto non si pensasse in
passato un sistema di comunicazione integrato di ver-
bale e non verbale, di linguistico e di non linguistico.
In seguito a studi condotti sulle videoregistrazioni si è
giunti a importanti conclusioni circa il peso dell'aspetto
non verbale sulla comunicazione. Sono stati accertati
diversi casi: 1. Quando gli aspetti prosodici contraddi-
cono il senso delle parole, sono i primi a prevalere. 2.
Quando il messaggio verbale si accompagna a indici
non verbali incongruenti, sono gli indici non verbali ad
avere più spesso il sopravvento (sembra che i messaggi
più primitivi ed emotivi – cioè i primi a svilupparsi e a
essere compresi dagli infanti – abbiano la meglio sui
contenuti delle parole). 3. Una comunicazione di tipo
emotivo viene trasmessa in media nel 7 % dei contenu-
ti linguistici, nel 38 % da modalità paralinguistiche o
prosodiche, nel 55 % dalla mimica del viso, dai gesti,
dalla vicinanza del corpo, dai movimenti...
Funzioni del linguaggio e atti linguistici
Nella comunicazione interpersonale sono presenti due piani intrinsecamente legati nel messaggio: il piano del contenu-
to (report) che corrisponde alla funzione rappresentativa, e il piano del rapporto (rapport) che corrisponde alla fun-
zione interazionale: nel momento stesso in cui diamo o chiediamo informazioni (report) instauriamo un certo rapporto
(rapport). Nell'ambito dello stesso messaggio queste due funzioni si influenzano vicendevolmente. Vi sono altre im-
portanti funzioni: regolativa: si usa il linguaggio per agire sugli altri (si parla in questi casi anche di funzione strumen-
tale del linguaggio: «con le parole si possono fare cose», come dice il filosofo J. Searle); identitaria: si usa il linguag-
gio per esprimere la consapevolezza di sé come soggetto attivo, giudicante; euristica: si usa il linguaggio per svolgere,
modulare, approfondire e dare forma al pensiero (nell'infanzia il linguaggio serve a scoprire e descrivere la realtà, a da-
re a sé stessi delle indicazioni, a innescare l'azione; nell'età adulta il pensiero può essere innescato dalle parole, o le pa-
role si adoperano per mettere a fuoco elementi della realtà che sembrano sfuggenti); ludica: si usa il linguaggio come
strumento o scopo di un gioco. Altre classificazioni delle funzioni del linguaggio verbale: evocativa (distinzione fra
denotazione e connotazione); espressiva; analitica (cui ineriscono, in qualche modo, i linguaggi settoriali e i sinonimi);
sintetica; comunicativa [v. anche le funzioni di Jakobson del 1963: AAppppeennddiiccee 22, precedute da quelle di K. Bühler del
19332; v. eventualmente anche U. Volli, Il libro della comunicazione, Il Saggiatore, 1994, passim].
2 Io, tu, egli = espressiva, appellativa, informativa.
pro
du
zio
ne
di
un
a fr
ase
com
pren
sion
e di u
na frase
UNITÀ GRAMMATICALI
(sintagmi e frasi)
MORFEMI
(parole, prefissi e suffissi)
FONEMI
(suoni del linguaggio)
Comunicazione faccia a faccia
canali sistemi sottosistemi
UDITIVO-VOCALE
VERBALE parole, frasi, periodi, discorsi, at-
ti linguistici
PROSODICO
ritmo
intonazione
forza vocale
velocità di eloquio
durata
enfasi
PARALINGUISTICO interruzioni dell'eloquio
suoni non-verbali
VISIVO-CINESICO (CINESICO)
prossemica (dislocazione spazia-
le e distanza interpersonale)
aspetto esteriore
orientazione
postura
gesti e mimica
espressioni del viso
sguardi
6
Il filosofo inglese J. L. Austin (1962) ha affermato e argomentato la seguenti tesi: usare il linguaggio equivale a com-
piere un'azione, che ha una forza specifica e può assumere forme diverse. Gli atti linguistici sono ciò che si fa quando
si parla, e sono riconducibili al lessico di una determinata lingua, in particolare ai verbi; essi non descrivono un'azione,
ma la compiono. Atti locutivi: sono il livello basilare dell'azione, e si compiono per il fatto stesso di parlare in modo
intelligibile in una determinata lingua; è il livello di cui si occupa la grammatica, del dire qualcosa: il proferimento di
espressioni appartenenti a un certo lessico e assemblate secondo una sintassi. Atti illocutivi (o illocuzioni) definiscono
un'azione che si compie attraverso il parlare, quindi ciò che si fa, o si intende fare, quando si parla; possono esprimere
un parere («penso», «credo»), esercitare una funzione («domando», «licenzio», «promuovo»); non tutti hanno valore:
dipende dalle effettive potenzialità di chi pronuncia le parole; alcuni impegnano chi li pronuncia (una promessa, una
minaccia); ve ne sono poi di espressivi, che effettuano una manifestazione di stati d'animo, fanno agire le emozioni
(«mi rallegro», «condoglianze»). Atti perlocutivi (o perlocuzioni): è l'atto di produrre, attraverso il dire, degli effetti
sugli interlocutori, intenzionalmente o no (es.: «Quando verrà a Parigi Pietro?», con lo scopo di mettere in imbarazzo il
destinatario della domanda, costringendolo a confessare di non essere al corrente di quel che fa Pietro; in questo caso il
locutore interroga – atto illocutorio – e mette in imbarazzo – atto perlocutorio – il destinatario). Un enunciato ha non
solo un significato ma anche una forza, una certa funzione comunicativa su cui gli interlocutori sono chiamati a nego-
ziare: a livello locutivo, sarà espressa dal volume della voce, dal ritmo dell'enunciato; a livello illocutivo, risiede nel
significato delle parole, in particolare dei verbi impiegati; a livello perlocutivo, corrisponde al diverso impatto sulla
realtà degli effetti perlocutori di un atto linguistico. In sintesi, l'emissione della voce può essere più o meno energica, il
contenuto più o meno impegnativo, le conseguenze più o meno importanti e durature.
La conversazione
Vi sono regole fisse che organizzano questo tipo di scambi verbali, regole di cui talvolta i parlanti non sono consape-
voli e che ciò nonostante rispettano. Regole formali: I. alternanza del turno; II. necessità di feedback; III. interruzioni
(è apparentemente vietato interrompere, ma è normale che accada; si tratta però di un meccanismo regolato da un si-
stema sensibile di segnali). Regole contenutistiche: I. restare in argomento, i partecipanti ripetono cioè più volte frasi e
concetti già detti, e ciò è l'indizio più convincente che la funzione della conversazione tipica non è tanto quella di
scambiare informazioni nuove quanto di mantenere un rapporto attraverso lo scambio linguistico; ma restare in argo-
mento va inteso in senso più ampio; «a proposito» segnala spesso i cambi di argomento; si viola il principio di collabo-
razione di contenuto quando si introducono argomenti "specialistici", mentre al contrario nell'ambito di una conversa-
zione fra colleghi di lavoro sarebbe un'infrazione parlare di problemi privati (la scelta di un argomento adeguato è
dunque il primo elemento di una buona conversazione); II. confermare il valore illocutorio degli atti linguistici, accet-
tando le parole degli altri come autorizzate, veritiere, pertinenti. III. partecipare con propri contributi, facendo doman-
de e rispondendo alle domande poste da altri. É un buon conversatore anche chi sa ampliare i temi sul tappeto, fornire
dettagli pertinenti, dare al proprio intervento stile e misura ottimali, senza intimidire glia altri con la propria sapienza
né banalizzare lo scambio con osservazioni risapute. Il filosofo e linguista Paul Grice (1967) ha stilato quattro massime
conversazionali che compongono il principio di cooperazione relativamente al contenuto delle conversazioni («Parte-
cipa alla conversazione nel momento e nel modo opportuno, considerati gli scopi della conversazione specifica a cui
partecipi»): 1. quantità: sii informativo quanto necessario; 2. qualità: di' ciò che ritieni vero (se ci sono dubbi, rendili
espliciti); 3. relazione: di' ciò che è pertinente all'argomento; 4: modo: sii chiaro e ordinato nell'esposizione. L'equiva-
lente psicologico del principio di cooperazione e delle massime che lo compongono è il superamento dell'egocentrismo
cognitivo, cioè la rappresentazione della mente di chi riceve il messaggio come diversa dalla mente di chi lo emette:
perché si effettui un buono scambio linguistico, chi parla deve tener presente che l'ascoltatore applicherà automatica-
mente le quattro massime. considerando ogni contributo esauriente, veritiero, pertinente e chiaro (tutti i giochi di omis-
sioni, implicazioni menzognere e "bugie bianche" sono possibili proprio perché tali massime sono considerate vigenti,
e chi vuole imbrogliare senza mentire esplicitamente si serve maliziosamente di queste regole).
Sviluppo del linguaggio
Lo sviluppo avviene a tutti e tre i livelli del linguaggio: inizia al livello dei fonemi, prosegue al livello delle parole e
degli altri morfemi e quindi prosegue al livello delle unità grammaticali, o sintassi.
La percezione categorica è probabilmente innata (gli infanti risultano sensibili alle demarcazioni del contrasto tra le sil-
labe "pa" e "ba"), ma non specie specifica; non si sviluppa al servizio del linguaggio, ma, piuttosto, è il linguaggio
umano che si è sviluppato traendo vantaggio dalle distinzioni già presenti nel sistema uditivo dei mammiferi.
É straordinario che i bambini vengano al mondo capaci di discriminare i diversi suoni che corrispondono a diversi fo-
nemi in qualsiasi lingua. Ciò che cambia nel primo anno di vita è che i bambini imparano quali fonemi sono validi nel-
la loro lingua, e perdono la capacità di discriminare i suoni che nella stessa lingua corrispondono allo stesso fonema.
Fattori innati
Tutti i bambini, indipendentemente dal loro contesto culturale e dalla loro lingua, sembrano passare per la medesima
sequenza di sviluppo del linguaggio; ciò indica che la nostra conoscenza innata del linguaggio è molto ricca. In verità,
essa è così ricca che i bambini possono percorrere il normale processo di acquisizione del linguaggio anche se intorno
a loro non vi sono persone che usano il linguaggio e che possono servire da modelli.
Come altri comportamenti innati, anche l'apprendimento del linguaggio ha dei periodi critici: abbia già visto che i pri-
mi mesi di vita sono un periodo critico per sviluppare correttamente i fonemi della propria lingua nativa; sembra esser-
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ci un periodo critico anche nell'apprendere il sistema fonologico di una seconda lingua; studi recenti indicano che vi è
un periodo critico anche quando si studia la sintassi (fra i 4-6 anni, comunque prima dei 12).
Gli inizi del linguaggio verbale
L'età di 8-10 mesi può essere considerata uno spartiacque nello sviluppo fonetico e fonologico, che si manifesta anche
nella produzione linguistica. Nei primi due mesi di vita i neonati producono "suoni riflessi" (come il pianto, suscitato
da stati di disagio) e "suoni vegetativi" (come ruttini e gorgoglii, legati a processi fisiologici). Tra i 2 e i 6 mesi di vita
all’incirca compaiono spontaneamente suoni vocalici (vocalizzazione e giochi vocalici, connessi a stati di benessere e
prodotti in risposta a sorrisi e vocalizzazioni materne [considerabili forse anche come giochi d’esercizio: v. p.29]); la
cosiddetta lallazione canonica o reduplicata comincia intorno ai 6-8 mesi nella maggior parte dei bambini (si può con-
siderare uno stadio prelinguistico [v. anche il musical babbling: 6-9 mesi, in F. Gatta, Lo sviluppo musicale – Appunti
1989, p.2]); segue la lallazione variata, in cui il bambino arriva a ripetere in modo sempre più consistente i pattern so-
nori tipici della propria lingua materna. Il bambino piccolo diventa consapevole che alcuni suoni che emette quando
produce i vocalizzi corrispondono ai suoni che emettono altre persone; poi li memorizza e li ripete, eliminando dal suo
repertorio i suoni non uditi intorno a sé (problemi: l’apprendimento di lingue che utilizzano taluni di questi suoni [e la
sperimentazione sonoro-musicale]; la sordità dalla nascita). Durante lo stadio dei vocalizzi infantili in genere il bambi-
no aggiunge dei suoni nuovi al suo repertorio in successione fissa. Questa pietra miliare della acquisizione linguistica è
correlata ad altri importanti fenomeni dello sviluppo (a sostegno dell'ipotesi che la capacità di usare il linguaggio può
dipendere da fattori non linguistici): cambiamenti fondamentali in molte aree cognitive e sociali, relative per es. all'uso
di strumenti, alla categorizzazione e alla memoria degli oggetti, all'imitazione e alla comunicazione intenzionale; si ve-
rificano anche impressionanti cambiamenti a livello cerebrale: l'apparizione della "sinaptogenesi" (esplosione nella
crescita sinaptica che inizia intorno agli 8 mesi e raggiunge l'apice tra i 2 e i 3 anni di età), cambiamenti nell'attività
metabolica dei lobi frontali, ed un incremento del controllo frontale su altre funzioni corticali e subcorticali. Intorno ai
10 mesi di età alcuni infanti cominciano a produrre "suoni simili a parole", utilizzati in maniera relativamente consi-
stente in particolari contesti. Numerosi studi hanno dimostrato che c'è continuità fra lallazione prelinguistica e prime
parole: queste ultime tendono a contenere i "suoni preferiti" dai bambini durante il periodo della lallazione (ciò con-
traddice l'ipotesi opposta avanzata da Jakobson).
Capacità di riproduzione dei suoni tramite condizionamento operante; ma i bambini sembrano avere una capacità in-
nata di imitare i suoni. Oltre che copiare, il bambino commette errori grammaticali mai sentiti (fa esperimenti sponta-
nei con la lingua). Secondo Chomsky i bambini possiedono un innato apparato di acquisizione della lingua (LAD); ma
alcuni studiosi sostengono che le strutture grammaticali del bambino scaturiscano dalla errata applicazione che egli fa
delle regole grammaticali che ha già appreso ascoltando gli adulti (mancano risposte esaustive). Lessico del bambino:
passivo (parole comprese; più ampio); attivo (parole che possono essere utilizzate; accuratamente registrato dagli psi-
cologi).
Prospetto dello sviluppo medio del lessico attivo
15 mesi Prime parole riconoscibili; sostantivi.
18 mesi Venti parole; verbi.
2 anni Cinquanta parole.
2/2,5anni Pronomi semplici (molto importante: distingue «io» che sta per «me» da «io» che significa «tu»...).
2 anni e
mezzo Duecento parole; pronomi interrogativi (che cosa? chi?); conosce il proprio nome.
3 anni Parla in maniera sciolta, tanto che è difficile quantificare il suo vocabolario attivo; aggettivi e avverbi (deve
afferrare l’idea che sono relativi); avverbi interrogativi (dove? perché?); plurali; altri pronomi; preposizioni
semplici; ripete a memoria brevi poesiole e canzoncine.
3 anni e
mezzo / 4
Conosce propri indirizzo e giorno del compleanno; scompaiono quasi tutte le costruzioni grammaticali infan-
tili; sa dare resoconti di avvenimenti; sa indicare per nome i colori fondamentali; dimostra qualche compren-
sione di concetti linguistici complessi quali “passato” e “futuro”.
4 anni ca. Padronanza della lingua quotidiana corrispondente, in pratica, a quella dell’adulto.
5 / 6 anni A scuola i suoi orizzonti linguistici si allargano rapidamente.
Si registrano ampie variazioni in casi singoli; queste variazioni non ci dicono gran che sui progressi futuri del bambino
(procedimento per sbalzi, come per altri aspetti) [v. AAppppeennddiiccee 33; v. anche: AAppppeennddiiccii 44 e 55; eventualmente anche R.
Vianello, Psicologia dello sviluppo, Juvenilia, 159-168 e M. Battacchi, Trattato enciclopedico di psicologia dell’età
evolutiva, Vol. I tomo II, Piccin, 309ss. Per le fasi di concettualizzazione della lingua scritta v. AAppppeennddiiccee 66; per i li-
velli di sviluppo del contare v. AAppppeennddiiccee 77. V. anche: R. Vianello, Psicologia dello sviluppo: infanzia, adolescenza,
età adulta, età senile, Junior, 2004: pp. 149-152].
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Stimolare per tempo l’apprendimento della lingua
Fra linguaggio e pensiero i rapporti sono stretti e circolari. Un mondo senza linguaggio sarebbe un mondo senza pen-
siero complesso. La capacità di parlare dei bambini (come gran parte del loro apprendimento) risponde
all’incoraggiamento e agli stimoli offerti dagli adulti: più stimoli, migliore sviluppo (crescita del vocabolario; più op-
portunità di usare le parole nello sviluppare il pensiero, quindi ulteriore evoluzione linguistica). Cruciale far capire ai
bambini la necessità oggettiva di utilizzare le parole.
La lingua e la scuola
Il bambino partecipa attivamente allo sviluppo delle proprie capacità linguistiche (allargamento delle interazioni socia-
li; poi tentativo intenzionale di scoprire cose del suo ambiente immediato e suo padroneggiamento). La risposta degli
adulti è però determinante per il grado di successo che corona i suoi sforzi. I bambini tendono con maggior facilità ad
acquisire la padronanza di singoli elementi linguistici se questi sono in rapporto con la vita di ogni giorno (quindi an-
che: ambiente stimolante = maggior esigenza di acquisizione di padronanza linguistica).
Durante i primi stadi dello sviluppo linguistico il bambino usa spesso forme di transizione della sintassi (parti di strut-
ture sintattiche già note ma scorrette nel nuovo contesto); se gli vengono offerti spesso esempi corretti, il bambino fini-
sce presto per abbandonare queste strutture in favore di altre più avanzate e adeguate; è errato disapprovarlo. Ecco
cinque “regole” da tenere presenti: 1. inserire ogni nuova struttura verbale in strutture già familiari agli alunni; 2. ri-
spondere alle domande relative alla lingua con precisione e pertinenza (anche al di là dello stretto necessario); 3. forni-
re ai bambini utili e adeguati riscontri circa il loro modo di parlare per chiarire se loro si stanno esprimendo corretta-
mente o no; 4. ampliare i temi linguistici ogni qual volta sia possibile, sollecitando i bambini a dare ulteriori contributi
e replicando ad essi; 5. ha grande valore insegnare ai bambini le regole della lingua.
I bambini devono poter sperimentare, toccandoli con mano, i vantaggi di una crescente padronanza della lingua.
Le interazioni linguistiche tra insegnante e alunno sembrano assumere la forma di domande poste dall’insegnante in
una percentuale che oscilla tra il 40 e il 60 % dei casi; gli insegnanti pongono domande ogni 70” ca. (in maggioranza
di tipo mnemonico; poche le “domande trampolino”); spesso (ca. il 40 %) è l’insegnante stesso a rispondere [v. «Psico-
logia e Scuola» nn. 77-80/1995-96, Giunti O.S., e dispensa relativa di F. Gatta].
Il linguaggio dell’insegnante deve essere familiare, ma al tempo stesso stimolante [v. anche la dissonanza cognitiva].
Speso, invece, l’insegnante è rigido. Altre volte presuppone che l’alunno “conosca” una data parola, attribuendole lo
stesso significato che ha per lui. L’incapacità di espressione verbale, poi, non significa necessariamente incomprensio-
ne. Attenzione anche all’abuso di verbalismo (e al conseguente misconoscimento di altre forme espressive). Importan-
za dell’aiutare i bambini a riflettere criticamente sul linguaggio. Accettare dialetti ed inflessioni particolari dei bambi-
ni, spingendo all’esigenza di apprendimento anche delle forme corrette.
Promuovere le capacità linguistiche
Tutti gli insegnanti sono insegnanti anche di lingua. Il metodo migliore per insegnare la lingua è quello che si applica
nel contesto di lezioni che non hanno questa per oggetto specifico.
Il buon insegnante ascolta con attenzione i suoi alunni. Utilissimo anche registrare e riascoltare il proprio linguaggio.
Nonché organizzare giochi linguistici.
La lettura e la scrittura
[V. anche Po 145-171;173-193] L’insegnamento della lettura segue principi molto simili a quelli dell’insegnamento
della lingua: 1. fornire al bimbo il giusto ambiente di lettura (in particolare con genitori lettori); 2. presentar loro un
metodo specifico di lettura (pausa, di almeno 5”, di fronte a parole sconosciute, per dar loro la possibilità di pronun-
ciarle - suggerimento se non riescono da soli - lode quando ripetono la parola; oltre a pazienza, entusiasmo e libro di
lettura adeguato).
L’insegnamento della scrittura segue la stessa metodologia: 1. l’adulto fornisce al bambino parole e lettere semplici da
ricalcare o copiare; 2. che più avanti verranno riprodotte a memoria; 3. sino a formare parole di propria iniziativa.
Il bambino padrone della lingua è avvantaggiato quando deve ragionare su problemi e risolverli.
L’educazione multiculturale
Nel 1982, quasi il 75 % dei bambini in età scolare degli Stati Uniti erano bianchi; i bambini ispanici erano solo il 10
%. Oggi, in alcuni stati come la California, la “minoranza” è divenuta la maggioranza: il 52 % degli studenti apparten-
gono attualmente a categorie “minoritarie”…
Le lingue comprese, parlate e lette dalla stragrande maggioranza delle persone sono dette lingue standard: sono consi-
derate le forme linguistiche corrette ed accettabili alle quali poter confrontare altre forme della stessa lingua. Poiché
l’istruzione scolastica si basa sull’italiano standard, e poiché i successi scolastici richiedono una comprensione ed
un’espressione dell’italiano standard, molti bambini si trovano in una posizione di svantaggio. C’è chi propone di enfa-
tizzare, a casa e a scuola, l’italiano standard; chi, invece, di consentire ai bambini che parlano una lingua minoritaria di
usare i loro dialetti, almeno nella maggior parte delle ore di scuola.
Sebbene il multiculturalismo esista di fatto in molti Paesi, durante la loro storia di studenti molti giovani sono stati in-
coraggiati verso una omogeneità linguistica: è il mito dell’omogeneità presente sino a ieri in un po’ tutte le scuole an-
che italiane. La seconda metà del 1900 è stata testimone di rapidi cambiamenti demografici e di un sempre maggiore
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riconoscimento ed apprezzamento degli aspetti multiculturali della società. Di conseguenza, molte istituzioni scolasti-
che hanno iniziato ad assumersi la responsabilità della crescita e dei rendimenti scolastici di tutti gli studenti: è nata co-
sì l’educazione multiculturale.
Poiché è molto difficile separare la cultura dal linguaggio, nella maggioranza dei casi l’educazione multiculturale è an-
che multilinguistica: essa prevede cioè l’insegnamento di più di una lingua. Secondo Banks, tra gli scopi principali di
questa nuova ottica ci devono essere: 1. riformare il sistema scolastico così che tutti i bambini, a prescindere dal loro
background culturale e linguistico, siano trattati equamente nelle scuole; 2. liberare il sistema educativo da qualsiasi
trattamento iniquo tra maschi e femmine.
Spesso molti insegnanti sono portati a giudizi erronei rispetto all’educazione multiculturale: 1. le culture sarebbero sta-
tiche ed immutabili, facilmente descrivibili in base ad elementi quali l’arte, l’abbigliamento, la danza e la musica popo-
lare; 2. le culture minoritarie sarebbero altamente omogenee, e gli individui ad esse appartenenti uguali; 3. una data
cultura – di solito quella dominante e maggioritaria – è realmente migliore delle altre e quindi dovrebbe essere presa
come modello per i membri di altre culture.
L’educazione multiculturale è tipicamente anche multilinguistica, o più precisamente bilingue.
Teorie
La psicolinguistica
Generalmente si ritiene che l'origine della psicolinguistica risalga alla critica di Chomsky (1959) al libro di Skinner
Verbal Behavior; in realtà, essa nasce "ufficialmente" agli inizi degli anni Cinquanta ad opera di un seminario promos-
so negli USA dalla Social Science Research Council di cui facevano parte linguisti, psicologi e antropologi (il termine
intende proprio sottolineare l'interdisciplinarità della materia).
Il dibattito teorico
Riassumiamo gli aspetti più rilevanti del dibattito attuale: 1ª posizione = empirismo: la conoscenza ha origine dall'am-
biente ed arriva all'individuo attraverso i sensi (comportamentismo, associazionismo; Aristotele, S. Agostino, Skinner).
2ª = nativismo: la conoscenza nasce dalla natura umana (Platone, Kant, Chomsky: specificità di dominio, autonomia,
modularità – da Fodor –). 3ª = interazionismo, costruttivismo, approccio epigenetico (interazionismo semplice: il nero
e il bianco fanno il grigio; forme emergenti: il nero e il bianco si uniscono e succede qualcosa di totalmente nuovo e
differente; connessionismo, elaborazione parallela, reti neurali, teoria dello sviluppo ispirata ai sistemi dinamici non li-
neari della fisica moderna): il risultato di un processo di soluzione di un problema si ottiene da uno qualsiasi degli in-
put del sistema di elaborazione, per ragioni che possono non essere ovvie o prevedibili (perché le bolle di sapone sono
tonde? perché il nido d'ape in un alveare è esagonale?); Piaget sosteneva che la logica e la conoscenza emergono esat-
tamente in questo stesso modo, da interazioni successivi fra attività sensomotoria e un mondo strutturato. Un'argomen-
tazione simile è stata presentata per spiegare la nascita delle grammatiche, che rappresentano la classe di soluzioni pos-
sibili al problema di dover fare corrispondere un ricco insieme di significati ad un limitato strumento comunicativo,
fortemente condizionato dai limiti della memoria, della percezione e della programmazione motoria: i principi astratti
della grammatica, che non si possono estrapolare dalla realtà fisica ma non sono nemmeno iscritti nei geni, sono stati
scoperti dagli esseri umani perché rappresentavano la migliore soluzione possibile ai problemi specifici di cui le altre
specie non si curavano e che, comunque, non avrebbero potuto risolvere; nel cervello umano c'è qualcosa di innato che
rende possibile l'emergere del linguaggio, ma questo "qualcosa" non può essere un dominio specializzato e dominio
specifico che si è sviluppato esclusivamente per il linguaggio; il linguaggio invece può essere qualcosa che possiamo
realizzare grazie ad un cervello grande e sofisticato che si è sviluppato per far fronte ai molti e complessi obiettivi del-
la società e della cultura umana: è una macchina nuova costruita con parti vecchie e ricostruita con tali componenti da
ogni bambino umano.
Teoria generativo-trasformazionale
Secondo Chomsky (1957) la grammatica non è soltanto un elenco di regole che ammettono le frasi corrette ed escludo-
no quelle sbagliate, ma è piuttosto una teoria della lingua, una "formula" per la produzione di frasi, un meccanismo che
permette di generare e di comprendere tutti i possibili testi in una data lingua. L'idea è che esista una struttura profon-
da comune a frasi che sono diverse nella loro realizzazione linguistica, cioè nelle parole e nella sintassi. Una trasfor-
mazione è un'operazione linguistica che agisce sulla struttura superficiale della frase, che può aggiungere altri elementi
di informazione al nucleo originarle di significato (ad es.: una frase può essere attiva – più semplice – o passiva, en-
trambe trasformazioni di una stessa struttura profonda). Gli elementi cruciali della teoria sono i due seguenti concetti:
competence (competenza) = conoscenza che deve essere posseduta per padroneggiare determinati comportamenti (è
implicita, intuitiva, si sviluppa in qualunque individuo normale che segue uno sviluppo normale, proprio come si svi-
luppa la capacità di camminare o di avere rapporti sociali); performance (esecuzione) = comportamenti linguistici
realmente osservati (parlando, scrivendo, ascoltando frasi spezzate che completiamo non facciamo altro che utilizzare
questa competenza spesso non concettualizzata che è cresciuta dentro di noi per il fatto stesso di interagire linguistica-
mente con gli altri). É a questo punto che la teoria linguistica di Chomsky differisce dalle osservazioni e dai risultati
della psicologia del linguaggio. La teoria postula una corrispondenza reale fra processi psicologici e trasformazioni
sintattiche. Gli psicologi hanno confermato che i tempi per elaborare una frase dichiarativa attiva sono più brevi di
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quelli per elaborare una frase passiva. Ma non era chiaro il ruolo della semantica: secondo Noam Chomsky incide po-
co, mentre Dan Slobin (1968) dimostrò che essa può essere cruciale (tempi uguali per elaborare frasi dichiarative attive
e frasi passive che non avevano senso corretto).
Teoria di Vigotskij
Le prime forme di linguaggio, secondo Vigotskij, sono soprattutto centrate sul parlante stesso: il bambino cioè non tie-
ne conto del punto di vista dell'ascoltatore e la sua locuzione è una manifestazione dell'interesse per il mondo e una
forma di commento delle proprie azioni (linguaggio egocentrico [v. p.40]). Il processo di internalizzazione del lin-
guaggio (passaggio da un linguaggio pubblico a un linguaggio mentale) si può osservare durante tutto il periodo
dell'infanzia e dell'adolescenza, ma il linguaggio egocentrico non scompare mai del tutto (la frustrazione, lo sforzo o
altre circostanze insolite inducono l'adulto a un ritorno alla funzione egocentrica del linguaggio, sollevando il velo di
privacy che protegge il pensiero). Progressivamente al linguaggio egocentrico si affianca il linguaggio sociale (il lin-
guaggio ha come scopo precipuo la comunicazione con gli altri). Il linguaggio egocentrico però non scompare, ma si
affranca dalla sua realizzazione fonetica e diventa linguaggio interno, cioè una delle forme del pensiero. Una delle fun-
zioni del linguaggio interno è quella della pianificazione delle operazioni cognitive e talvolta anche dei comportamenti;
esso gioca un ruolo importante nella regolazione del pensiero. Sue caratteristiche sono la condensazione (sintesi di si-
gnificati che non segue le regole grammaticali, ma esprime direttamente il nocciolo) e la mancanza di ridondanza
(vengono saltati tutti quei passaggi necessari o opportuni quando si parla a chi non conosce bene l'argomento della
conversazione). Il linguaggio interno è veloce, allusivo, come quello di due persone che si conoscono molto bene e che
comunicano solo per punti essenziali; linguaggio silenzioso che permarrà per tutta la vita come modalità di analisi,
progettazione, considerazioni, ecc., indipendente dal linguaggio esterno.
Aree cerebrali e afasie
A riprova del carattere innato delle capacità linguistiche, sono state individuate alcune zone del cervello umano dove il
linguaggio viene elaborato: l'emisfero specializzato nella comprensione e produzione del linguaggio è quello sinistro,
in particolare una zona nel lobo frontale sinistro (area di Broca), l'altra nella regione temporo-occipitale (area di Wer-
nicke). I pazienti con danni nell'area di Broca sono affetti da un'afasia che ostacola l'eloquio e rende difficile trovare la
parola giusta; anche se le parole usate hanno significato, la sintassi è quasi completamente assente (sembra il linguag-
gio di un bambino molto piccolo). Il linguaggio del tipo afasico di Wernicke, invece, è molto fluente, rispetta la sintas-
si, ma usa termini privi di significato. L'esistenza di questi due principali tipi di afasie dimostra che le diverse proprietà
del linguaggio sono elaborate da parti diverse della corteccia e in modo indipendente; in particolare, le capacità sintat-
tiche sono elaborate nell'area di Broca, mentre le capacità semantiche dipendono dal buon funzionamento dell'area di
Wernicke. Relativamente invece alla comprensione del linguaggio, sembrerebbe che possa entrare in gioco anche l'e-
misfero destro (specializzato a elaborare immagini).
Poeppel (1996) ha messo in seria discussione l'ipotesi dell'esistenza di un unico "centro di elaborazione fonologica".
Altri studiosi hanno inoltre messo in evidenza che alcune aree coinvolte nella produzione linguistica vengono attivate
anche durante compiti non linguistici, di tipo motorio (movimenti semplici e complessi della bocca e delle dita). I mo-
delli di localizzazione o di attivazione cerebrale sembrano variare non tanto in funzione del "dominio", quanto in rela-
zione a fattori quali la quantità ed il tipo di memoria richiesta da un dato compito, il suo relativo grado di difficoltà e di
familiarità per il soggetto, l'attenzione richiesta, la presenza o l'assenza della necessità di sopprimere una risposta con-
flittuale, e così via.
Pensiero e linguaggio
Il pensiero può essere inteso come un "linguaggio della mente". Un modo di pensare corrisponde al flusso delle frasi
che ci sembra di "sentire nella testa" (pensiero propositivo: esprime una proposizione o una richiesta); un altro modo
corrisponde alle immagini, particolarmente quelle visive, che noi possiamo "vedere" nella mente (pensiero immagina-
tivo); C'è infine un terzo modo (pensiero motorio) che corrisponde alle sequenze dei movimenti mentali [v. p.12; v. an-
che BD 184-225 e DV 287-313].
Concetti e categorizzazioni
Possiamo pensare ad una proposizione come ad una frase che esprime un'affermazione concreta; i pensieri consistono
di concetti combinati in modo particolare.
Un concetto rappresenta un'intera classe (è un insieme di proprietà associate ad una classe). L'attribuire un oggetto ad
un concetto viene chiamato categorizzazione. I concetti: -favoriscono l'economia cognitiva dividendo il mondo in unità
che possono essere manipolate; -permettono di predire l'informazione che non è immediatamente percepita, andando
oltre l'informazione ricevuta (quando categorizziamo un oggetto, lo trattiamo come se avesse molte delle proprietà as-
sociate al concetto, incluse le proprietà che non abbiamo percepito direttamente); -permettono di comunicare rapida-
mente sulle esperienze che accadono di frequente (possediamo concetti di attività, di stati, di astrazioni..., generalmente
associati ad una parola: «mangiare», «essere vecchio», «verità»...); -possono facilitare la progettazione (possiamo co-
struire concetti in funzione di uno scopo preciso; ad es., in vista di una gita, il concetto «cose da portare in campeg-
gio»).
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Le proprietà associate ad un concetto sembrano ricadere in due gruppi: il prototipo del concetto (l'insieme di quelle ca-
ratteristiche che descrivono i migliori esempi del concetto; di solito viene in mente quando pensiamo al concetto; sono
indicatori importanti, ma non perfetti); il nucleo (proprietà che sono importanti per essere un membro del concetto, ma
che non sono contenute nel prototipo; indicatori più sintomatici). Ci sono concetti ben definiti (es.: «scapolo») e con-
cetti sfuocati (es.: «uccello»).
Acquisizione di concetti
L'insegnamento esplicito è probabilmente il mezzo con cui impariamo il nucleo dei concetti, mentre l'esperienza sem-
bra essere il mezzo comune con cui impariamo i prototipi. I bambini ci impiegano un po' per imparare che il nucleo è
un indicatore migliore di appartenenza ad un concetto di quanto non sia il prototipo: fino a 10 anni, i bambini mostrano
un evidente spostamento dal prototipo al nucleo come criterio definitivo delle decisioni sui concetti.
Ci sono almeno tre diversi modi in cui si può imparare un concetto per mezzo degli esempi che vengono dall'esperien-
za: 1- Strategia degli esemplari: il bambino si imbatte in un esemplare noto e ne immagazzina la rappresentazione;
quando più tardi deve decidere l'appartenenza o meno di un nuovo esemplare a quel concetto, stabilisce la somiglianza
del nuovo oggetto con gli esemplari immagazzinati (strategia molto usata dai bambini, funziona meglio con gli esem-
plari tipici). 2- Verifica dei ipotesi: esaminiamo gli esempi noti di un concetto, ricercando le caratteristiche che sono
abbastanza comuni fra loro, e ipotizziamo che queste siano ciò che caratterizza il concetto; quindi analizziamo i nuovi
oggetti in relazione a queste caratteristiche critiche, confermando la nostra ipotesi oppure riaggiustandola (la strategia
si focalizza quindi su astrazioni, ed è messa a punto – dagli adulti – per trovare le caratteristiche del nucleo, che sono
quelle comuni alla maggior parte degli esempi). Sono, queste due, strategie dal basso all'alto (sono guidate esclusiva-
mente dallo stimolo, e non si fa molto uso delle conoscenze precedenti). 3- Strategie dall'alto al basso: si usa la cono-
scenza precedente insieme con gli esempi noti per determinare le caratteristiche critiche di un concetto (la precedente
conoscenza può influenzare ogni aspetto dell'acquisizione di concetti).
Ragionamento
Quando pensiamo in termini di proposizioni la sequenza dei nostri pensieri è organizzata. Talvolta i nostri pensieri so-
no organizzati secondo la struttura della MLT (possiamo organizzare il pensiero per associazione di ricordi); ma spes-
so, invece, cerchiamo di ragionare: in tal caso la sequenza dei nostri pensieri prende spesso la forma di un ragionamen-
to, in cui una proposizione corrisponde ad una affermazione, o conclusione, che stiamo cercando di trarre; le restanti
proposizioni sono le ragioni dell'affermazione, o le premesse per la conclusione.
Ragionamento deduttivo
Secondo i logici, i ragionamenti più forti sono validi da un punto di vista deduttivo, il che significa che è impossibile
che la conclusione di un ragionamento sia falsa se le sue premesse sono vere (v. per es. il sillogismo). Alcune teorie del
ragionamento deduttivo sostengono che noi operiamo secondo una logica intuitiva e usiamo le regole della logica nel
cercare di dimostrare che la conclusione di un ragionamento deriva dalle premesse. Non sempre, però, usiamo regole
logiche quando dobbiamo risolvere problemi deduttivi; talvolta usiamo regole meno astratte e più pertinenti ai proble-
mi quotidiani: le cosiddette regole pragmatiche. Oltre alle regole, i soggetti possono risolvere un problema allestendo
una rappresentazione concreta della situazione: si tratta del modello mentale. Regole pragmatiche e modello mentale
sono entrambe determinate dal contenuto del problema; ciò è in contrasto con l'applicazione delle regole della logica,
che non dovrebbero esserne influenzate. Di conseguenza, la nostra sensibilità al contenuto spesso ci impedisce di ope-
rare come dei logici intuitivi.
Ragionamento induttivo ed euristica
I logici hanno osservato che un ragionamento può essere accettabile anche se non è valido da un punto di vista dedutti-
vo; simili ragionamenti sono induttivamente forti, il che significa che è improbabile che la conclusione sia falsa (la for-
za induttiva è cioè una questione di probabilità, non di certezze). Due valide regole della probabilità che dovrebbero
essere guide razionali al ragionamento induttivo: 1- regola della probabilità primaria: la probabilità che qualcosa fac-
cia parte di una classe è tanto maggiore quanto più numerosi sono i membri di quella classe; 2- regola della congiun-
zione: la probabilità di una proposizione non può essere inferiore alla probabilità di quella stessa proposizione unita a
un'altra.
Nel disordinato ragionare di tutti i giorni, però, la gente frequentemente viola queste regole. Molte volte si valuta la
somiglianza con il prototipo di un concetto, usandola come un'euristica al posto della valutazione delle probabilità: è
l'euristica della somiglianza (es.: a. tutti i pettirossi hanno ossa sesamoidi, b. quindi tutti gli struzzi hanno ossa sesa-
moidi; in contrapposizione a: a. tutti i pettirossi hanno ossa sesamoidi, b. quindi tutti gli uccelli hanno ossa sesamoidi;
soggetti di uno studio hanno giudicato il primo ragionamento il più valido, presumibilmente perché i pettirossi sono più
simili al prototipo degli uccelli di quanto non lo siano agli struzzi). Altre volte la gente valuta la probabilità di una si-
tuazione dalla forza delle connessioni causali fra gli eventi della connessione stessa: è l'euristica della causalità (es.: a.
nell'anno 2050 ci sarà una fortissima alluvione in Italia, nella quale annegheranno più di 1000 persone, b. nel 2050 ci
sarà un terremoto nel Lazio che provocherà una fortissima alluvione in cui annegheranno più di 1000 persone; la genta
giudica la seconda affermazione più probabile della prima). Così la nostra fiducia nell'euristica ci porta spesso ad igno-
rare alcune fondamentali regole razionali; anche se non bisogna dimenticare che l'euristica della somiglianza e quello
della causalità presumibilmente portano a decisioni corrette nella maggior parte dei casi [v. anche il problem solving:
p.12].
[BD 258-292; DV 239-276, utile anche per un primo approfondimento delle teorie; F,60-75; H 307-331; L,42-44; Pe,37-41 e 43-47]
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Il pensiero come attività strutturante
Il pensiero produce strutture di vario tipo
Il pensiero produce strutture di vario tipo quando interviene per:
a. l’interpretazione = il pensiero interviene sui fatti per dar loro un significato (più evidente quando la percezione ci of-
fre un dato che potrebbe avere più significati), sia in modo libero sia razionalmente (utilizzando il contesto...);
b. la simbolizzazione = vi è pensiero simbolico nel momento in cui, essendo assente una cosa, ce ne formiamo
un’immagine mentale (che sta al posto di un’immagine percettiva che non c’è) o, con attività più complessa, facciamo
intervenire il linguaggio;
c. la classificazione o la collocazione spazio-temporale o la causalizzazione o la previsione o la ricostruzione = il pen-
siero elabora dati percettivi ed i significati ad essi collegati, inserendo questi ultimi in strutture più complesse e già
presenti: di tipo classificatorio, o spazio-temporale, o nel senso dell’ipotizzazione di rapporto causa-effetto, o nel sen-
so della previsione di un certo evento, o nel senso di una ricostruzione di una situazione sulla base di un certo indizio;
d. il collegamento di contenuti rappresentativi, l’elaborazione di prospettive e l’organizzazione continua del sapere =
l’attività strutturante opera poi sui contenuti rappresentativi della percezione: collegandoli insieme, elaborando quadri
più ampi (prospettive quantitative e numeriche, scientifiche, storiche, linguistiche...) in cui trovano posto concetti, rap-
porti e sistemi di rapporti che formano nel loro insieme il nostro sapere; sapere che il nostro pensiero organizza e
riorganizza continuamente via via che introduce in esso nuovi dati di conoscenza acquisiti... (costruzione del sapere e
delle sue strutture portanti: gli “schemi” di Piaget, gli “script” dei cognitivisti);
e. formulare e risolvere problemi [problem solving; v. anche: AAppppeennddiiccee 11;; vv. anche Pensiero e linguaggio: p.10].
Pensiero in azione
Il problem solving
Nel problem solving noi lottiamo per conseguire un obiettivo, ma non abbiamo a disposizione i mezzi per raggiunger-
lo; dobbiamo suddividere il nostro obiettivo finale in obiettivi parziali e magari suddividere ulteriormente questi ultimi
obiettivi ancor più limitati finché non abbiamo i mezzi per raggiungere lo scopo.
Il problema è un’insoddisfazione cognitiva. Può essere posto dalle cose stesse, o da altre persone, oppure possiamo
formularlo noi stessi. Scoprire un problema è già svolgere un’attività strutturante (il nostro pensiero organizza certi da-
ti in modo da porre in evidenza una contraddizione e una lacuna). Già la scoperta e la chiara formulazione di un pro-
blema è un atto d’intelligenza (Claparède). All’insoddisfazione si accompagna di solito la curiosità [v. anche la disso-
nanza cognitiva], il pensiero diviene attivo, la tensione cessa quando la struttura cognitiva da problemica diviene riso-
lutoria. Risolvere un problema significa raggiungere una soluzione all'interno di un set di vincoli.
Anche un tema di italiano è, in sostanza, un problema (e lo è anche quello che affronta lo scrittore quando decide di
scrivere un nuovo racconto [problemi espressivi]) [v. anche Po 195-219]. Problemi [temi] che possiamo collocare in
un continuum, con i mezzi [attività didattiche] per risolverli (Claparède):
MIN grado di definizione dell'obiettivo da raggiungere MAX continuum di problemi
MAX grado di definizione dei mezzi a disposizione MIN
tenendo presente che il tipo di analisi più appropriata è a partire dal basso (dai materiali a disposizione) nel caso di
scarsa definizione dell'obiettivo, e dall'alto (dall'obiettivo) nel caso contrario (Dunker).
Molti problemi di matematica e geometria proposti nella scuola si collocano in un punto intermedio del continuum
(ben definiti sia gli obiettivi sia i mezzi), mentre sarebbe opportuno proporre anche problemi con dati mancanti o con
dati sovrabbondanti o in cui si tratta di utilizzare un dato insieme (di numeri, figure...) per costruire qualcosa di signifi-
cativo; possiamo anche proporre problemi storici, anche specifici (tecnici, culturali, sociali), ed epistemici (non soltan-
to esplicativi).
Strategie e rappresentazioni
Secondo il modello HIP (Human Information Processing), due sono le componenti essenziali del problem solving
(umano e simulato): la rappresentazione del problema e la ricerca della soluzione, all'interno dello spazio del proble-
ma.
Per risolvere problemi ben definiti esiste sempre una modalità che porta alla soluzione corretta, seguendo le procedure
note, prendendo in esame sistematicamente tutte le opzioni e percorrendo le tappe: si chiama algoritmo, ed è tipico del
programmi dei calcolatori che, in poco tempo, scandagliano tutte le eventualità per giungere con certezza alla soluzio-
ne. Gli esseri umani non usano di solito metodi algoritmici, salvo nei casi semplici nei quali il campo del problema è di
dimensioni limitate; usano invece più spesso la procedura euristica: utilizzano l'esperienza passata e le informazioni
percettive per eliminare le mosse che appaiono poco produttive. Per alcuni problemi, infine, vi sono modalità di pen-
siero che permettono di giungere alla soluzione in modo efficiente combinando aspetti di entrambi i metodi.
Queste che seguono sono strategie euristiche generali, che non poggiano su alcuna conoscenza specifica e possono es-
sere perfino innate (metodi deboli); si può fare affidamento su questi metodi specialmente quando si viene a conoscere
per la prima volta un certo campo e si lavora su problemi di contenuto sconosciuto. 1) Ridurre la differenza tra la con-
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dizione di partenza (in una situazione problematica) e la condizione di arrivo (nella quale si raggiunge una soluzione):
l'idea che ci sta dietro è di fissare dei sotto-obiettivi i quali, una volta raggiunti, ci pongono in una condizione che è più
vicina a quella di arrivo. 2) Analisi dei mezzi e dei fini: confrontiamo la condizione di partenza con quella di arrivo, al-
lo scopo di scoprire le principali differenze fra di loro; l'eliminazione di queste differenze diventa il principale sotto-
obiettivo: cerchiamo allora un mezzo o una procedura per conseguire questo sotto-obiettivo; se lo troviamo ma sco-
priamo che qualcosa nella nostra condizione di partenza ci impedisce di metterlo in pratica, allora introduciamo il nuo-
vo sotto-obiettivo di eliminare questo ostacolo. 3) Operare all'incontrario partendo dalla meta (particolarmente utile
per la soluzione di problemi matematici): ragioniamo procedendo dall'obiettivo finale ad un sotto-obiettivo, da quel
sotto-obiettivo ad un altro, e così via, finché arriviamo ad un sotto-obiettivo per raggiungere il quale disponiamo dei
mezzi necessari.
Quando ci si impratichisce di un settore si sviluppano delle procedure e rappresentazioni più valide nel campo specifi-
co, che finiscono per avere la meglio sui metodi deboli. L'essere capaci di risolvere un problema non dipende solo dal-
la nostra strategia per scomporlo, ma anche dal modo in cui lo rappresentiamo. Talvolta un metodo di rappresentazio-
ne verbale ottiene i migliori risultati; altre volte, una rappresentazione o un'immagine visiva sono più efficaci; alcuni
problemi si possono risolvere rapidamente manipolando le proposizioni o le immagini. Oltre al problema di proposi-
zioni piuttosto che immagini, ce ne sono altri su che cosa viene rappresentato: abbiamo spesso difficoltà con un pro-
blema perché non includiamo qualcosa di importante nella rappresentazione, oppure perché vi includiamo qualcosa
che non è una parte importante del problema.
Il pensiero produttivo
Nell'ambito della psicologia della Gestalt, lo psicologo tedesco Max Wertheimer ha studiato con metodi qualitativi un
particolare tipo di intelligenza che ha chiamato pensiero produttivo (1945): un modo di vedere e ripensare (ristruttura-
re) i dati proposti inventando dei percorsi innovativi che portano alla soluzione, più adatti alla struttura della situazione
problemica, contrapposto al pensiero riproduttivo, che tende invece a percorsi lineari, già altre volte utilizzati, che rag-
giungono la soluzione senza alcuna modificazione della struttura dei dati. In sostanza la soluzione produttiva comporta
un cambiamento attivo sia del materiale proposto sia, di conseguenza, del compito: non si serve solo delle operazioni
tradizionali, ma di una logica di relazione, che porta a ristrutturare completamente i dati di un problema scoprendo
sotto la struttura superficiale, che spesso è un aggregato frammentario, una struttura profonda più appropriata perché
spiega più fatti e permette nuove previsioni; le operazioni sono guidate dalla scoperta di un'anomalia, una lacuna, una
difficoltà, che spinge il soggetto a cercare di vedere la cosa in modo nuovo, con una nuova forma "buona" che è spesso
anche trasferibile ad altre situazioni e ordini di fenomeni. Questo momento di intuizione è stato chiamato dagli psico-
logi (Köhler, 1917) Einsicht (insight: guardare dentro), ed è in opposizione con le teorie che basate sul presupposto
che la comprensione dei legami esistenti tra elementi diversi del campo sia frutto dell'esperienza passata (empiristi,
comportamentisti). A grandi linee è così descrivibile: -la soluzione si presenta improvvisamente (non è il risultato di
prove ed errori); -l'apprendimento non è graduale ma si instaura immediatamente, dopo un solo tentativo coronato da
successo; -l'apprendimento è trasferibile (può essere utilizzato in situazioni simili); -si rimane in apparente inattività
davanti al problema di cui non vediamo la soluzione, poi improvvisamente (dopo una rappresentazione mentale dei
possibili cambiamenti della situazione, dopo una ristrutturazione dell'ambiente, ci si muove verso la soluzione; -è un
legame, una connessione non casuale, sensata, adeguata, tra due elementi del campo totale (come quando, agendo, ab-
biamo l'impressione di fare la cosa "giusta"); -esperienza che si ha tanto nel campo emotivo e motivazionale, quanto
nel campo dei processi cognitivi; -secondo alcuni studiosi (Vicario), più che un processo tipico del pensiero o della so-
luzione di problemi, sembra un meccanismo fondamentale di attribuzione, cioè di creazione di legami tra parti del
campo (oggetti o eventi) tra i quali non esiste alcun "ponte" fatto di stimoli o di processi fisiologici nominabili. [v. an-
che p.22].
Esperti e principianti
In un ambito specifico, gli esperti risolvono i problemi in modo qualitativamente diverso dai principianti: differenze
dovute a diversità nelle rappresentazioni e nelle strategie messe in pratica dagli uni e dagli altri. Gli esperti hanno im-
magazzinato nella loro memoria un numero molto maggiore di rappresentazioni specifiche che possono utilizzare in ri-
ferimento a un certo problema; persino quando si trovano di fronte a un problema nuovo, se lo rappresentano in modo
diverso dai principianti (questi ultimi tendono a rappresentarsi un problema in termini delle caratteristiche apparenti
piuttosto che fare riferimento, come fanno invece gli esperti, a principi). Esperti e principianti differiscono anche quan-
to alle strategie messe in pratica: i primi cercano di formulare un piano di attacco al problema, mentre i secondi inco-
minciano subito a compiere operazioni; gli esperti tendono inoltre a ragionare dai dati di un problema verso la soluzio-
ne, mentre i principianti tendono a lavorare nella direzione contraria (la strategia dell'operare all'incontrario).
Condizioni che ostacolano la soluzione o la comprensione
1. Implicazioni parassite: tendenza a prendere per buono il primo significato che una certa parola fa venire in mente,
introducendo magari interpretazioni limitative. 2. Fissità funzionale (Dunker): tendenza a utilizzare certi oggetti solo
per le loro proprietà funzionali abituali (il contrario è il ricentramento) . 3. Perdere di vista il fuoco: lasciandosi fuor-
viare da particolari vistosi ma non realmente importanti, ci si può allontanare dal fuoco di problemi o spiegazioni.
Condizioni che facilitano la scoperta o la comprensione
Oltre a quanto già visto (problemi bene o mal definiti da affrontare dall'alto/dal basso; algoritmo, procedure euristiche
e rappresentazioni; pensiero produttivo e insight): 1. Semplificazione dei dati: mantenere inalterata la struttura di un
problema o di una spiegazione, semplificandone però i dati. 2. Facilitazione visiva: può essere ottenuta, in molti casi,
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dando agli elementi di un problema o di una spiegazione una veste visiva. 3. Comprensioni parziali (Dunker): ristruttu-
razione di una parte dei dati, che offre indicazioni su come procedere, su che cosa ancora cercare per giungere alla
comprensione totale; sino ad arrivare a riformulazioni del problema in termini più definiti. 4. Brainstorming: lasciar
correre le idee, permettendo così anche che si affaccino alla mente ipotesi strane, o assurde... [v. A. F. Osborn, L’arte
della creativity, Angeli, in partic. p.1313, C. Bezzi, I. Baldini, Il brainstorming, Angeli, e AAppppeennddiiccee 22 (brainstorming
e nominal group); v. p.112: modelli (o mappe) concettuali di Mayer e p.27].
Scoprire e capire
I processi psicologici ai quali dà avvio la presenza di un problema e che portano alla soluzione danno luogo ad una ri-
strutturazione, consistente nella scoperta di nuovi rapporti fra dati di conoscenza già noti, o fra questi e altri dati che
vengono cercati o introdotti. L’individuo può cercare tale soluzione interamente con le proprie forze, oppure ascoltan-
do una spiegazione che un altro gli dà; nel primo caso si usa il termine scoprire (o l’espressione «pensiero produtti-
vo»), nel secondo il termine capire [v. anche scoperta autonoma/ricezione, p. 61]. C’è anche una situazione interme-
dia: quella in cui un insegnante, posto il problema, ne sollecita la soluzione attraverso una discussione di gruppo [v.
p.112].
Razionalità e fantasia
Oltre alla costruzione di strutture formulando e risolvendo problemi, seguendo ragionamenti e spiegazioni (muovendo-
si cioè sul piano della razionalità), è importante anche una seconda modalità fondamentale del pensiero in quanto atti-
vità strutturante: la fantasia. Sue prerogative sono: a) il «lasciar correre le idee»; b ) un uso molto più libero, trasgres-
sivo, di quei rapporti che la razionalità utilizza invece in modo molto rigoroso (violando i rapporti spaziali, temporali,
causali); c) la mancanza, nei suoi prodotti, di un «marchio di realtà». Razionalità e fantasia (tanto importante quanto la
prima) non sono da contrapporsi, ma si sviluppano (e vanno sollecitate ed irrobustite) insieme [v. O. Liverta Sempio
(cur), Vygotskij, Piaget, Bruner, Cortina, 1998, 269-270, dove Bruner considera importanti sia la “mano destra” che la
“mano sinistra” (cioè l’emisfero sinistro e l’emisfero destro), che rappresentano la mentalità razionale e il pensiero
creativo, entrambi da coltivare].
L’individuazione di formulazioni chiare ed efficaci
L’insegnante può introdurre nel proprio lavoro delle forme di sperimentazione: 1. col metodo delle formulazioni paral-
lele: forme diverse di una stessa attività (o spiegazione) in varie classi, per stabilire la più efficace; 2. col mettere in at-
to, con eventuali variazioni, per ogni attività (o spiegazione) ripetuta, quelle semplificazioni dei dati che lasciando
inalterata la struttura la rendono però più evidente e permettono un ritorno ai dati più complessi una volta che tale
struttura sia stata colta; 3. col ricercare, per ogni attività (o spiegazione) complessa, un equivalente percettivo adatto; 4.
con l’utilizzo didattico dell’errore: addestrando all’intraprendenza cognitiva, e facendo leva sulle parti positive del
processo di soluzione per correggere quelle erronee.
[BD 242-257; DV 121-136; v. 277-317 e 344 (insight); H (331-)334-340; Pe 49-69; G. B. Vicario, Psicologia generale. I fondamenti, Laterza,
2001, 293-307 (insight)]
L’intelligenza
La misurazione dell’intelligenza
Qualunque misurazione possibile dell’intelligenza ci dà la misura non tanto di ciò che una persona ha, quanto di quello
che fa. Coloro che progettano test di intelligenza specificano le condizioni nelle quali si presume che si manifesti un
comportamento intelligente. Alcuni psicologi definiscono l’intelligenza semplicemente come la capacità di superare i
test di intelligenza... Secondo Das (1992), non dovremmo tanto cercare la definizione di intelligenza in generale, ma
guardare invece a tre suoi aspetti: processi e componenti del comportamento intelligente, competenza individuale in
rapporto a cultura ed età, e possibilità di migliorare la competenza attraverso la preparazione e l’esperienza. Binet e
Wechsler (v. sotto «I test di intelligenza») diedero due differenti definizioni dell'intelligenza; per Binet l'intelligenza è
la «tendenza a prendere e mantenere una certa direzione, la capacità di fare adattamenti per lo scopo di raggiungere un
fine desiderato, e il potere di autocritica» (1903); per Wechsler è invece «l'aggregato o la capacità globale di un indivi-
duo di agire intenzionalmente, di pensare razionalmente e di affrontare efficientemente il suo ambiente» (1939). L'im-
postazione è per entrambi globalistica e funzionalistica, in linea con il pensiero evoluzionistico; tuttavia vi è in
Wechsler il riconoscimento esplicito che l'intelligenza è composta di abilità che, «sebbene non siano interamente indi-
pendenti, sono qualitativamente differenziabili» e vanno perciò misurate separatamente.
I test di intelligenza
Le origini
[V. anche: AAppppeennddiiccee 11 e 11bbiiss] Il primo laboratorio di psicologia sperimentale venne fondato a Lipsia nel 1879 da Wi-
lhelm Wundt (1832-1920). Uno degli studenti di Wundt, James McKeen Cattel (1860-1944), fu colpito dalla variabili-
3 Dove si evidenziano i 4 principi base: 1. la critica è esclusa (giudizio differito), 2. la “corsa in folle” è bene accetta (incoraggiare idee audaci), 3.
si cerca la quantità (che può produrre qualità), 4. si cercano combinazioni e miglioramenti (idee proprie, ma anche trasformazioni di idee altrui)
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tà che osservava tra i soggetti sottoposti agli esperimenti (sui processi sensoriali elementari), e fu il primo ad utilizzare,
una volta rientrato negli Stati Uniti, l’espressione mental test, nel 1890, per designare alcune piccole situazioni speri-
mentali ispirate ai compiti di laboratorio che gli permettevano di studiare tali differenze interindividuali. Nello steso
periodo, in Gran Bretagna, Francis Galton (1822-1911) utilizzava situazioni di questo tipo per misurare l’acutezza sen-
soriale e i tempi di reazione. Ma i metodi di valutazione tratti dalla psicologia scientifica nascente si rivelarono incapa-
ci di rispondere alla richiesta sociale dell’epoca: la richiesta, cioè, di predire ed orientare gli studenti nel loro percorso
di studi, cercando relazioni tra efficienza nei mental test e successo scolastico. Fu Alfred Binet (1857-1911) che trove-
rà la soluzione del problema. A. Binet e T. Simon nel 1905 (modifiche nel 1908 e 1911) ricevettero dalle autorità sco-
lastiche parigine l’invito ad elaborare metodi che servissero a individuare i bambini che presentavano una «debolezza
mentale» eccessiva per poter essere inseriti nelle scuola normali. Binet saggiò la capacità di comprensione, il ragiona-
mento, il giudizio e l’adattamento (che dovevano essere affrontati meglio dai più grandi e da quelli che gli insegnanti
giudicavano più dotati); stabilì punteggi standardizzati, dimodoché fosse possibile confrontare il punteggio ottenuto di
ciascun soggetto con quello ottenuto di norma da soggetti della stessa età. Ciò condusse al concetto di EM (età menta-
le, anche MA: mental age): l’età cronologica alla quale i bambini ottenevano punteggi per lo più simili tra loro. Nel
1916 (modifiche nel 1937, 1960, 1972 e 1986) il concetto di EM venne ulteriormente modificato da L. Terman (scala
di intelligenza Standford-Binet), che lo trasformò, su suggerimento di W. Stern, in QI (quoziente di intelligenza): EM /
EC (età cronologica, anche CA: chronological age) X 100. In tal modo a tutti i soggetti che avessero manifestato cor-
rispondenza tra età mentale ed età cronologica sarebbe sempre stato attribuito un QI di 100 (intelligenza “media”).
L’esperienza mostrò che dopo i 15 anni l’EM non va più incontro a sensibili miglioramenti (dal punto di vista di queste
misurazioni); dato però che l’EC continua a crescere, il punteggio ottenuto dopo i 15 anni si abbasserebbe continua-
mente. Al giorno d’oggi, di conseguenza, si usa il QI per deviazione, che esprime il punteggio di un soggetto sempli-
cemente nei termini della sua deviazione dai punteggi ottenuti normalmente dai coetanei (100 è ancora considerato, per
comodità, la norma). Il test di intelligenza Binet-Simon è stato sottoposto a diverse accurate revisioni. Uno dei principi
alla base dei nuovi test deriva dall’ipotesi che
l’intelligenza sia distribuita normalmente nella popo-
lazione allo stesso modo in cui lo sono la maggior
parte di altri attributi. «Distribuzione normale» signi-
fica: curva a campana (v. figura). Ciò significa che,
quando vengono somministrati i test di intelligenza a
un campione ampio e rappresentativo di soggetti, i
punteggi risultanti si distribuiscono secondo lo sche-
ma di questa curva a campana (curva normale); se così non accade, vengono corretti i test. Ma non è per nulla scontato
che l’intelligenza sia davvero distribuita normalmente tra la popolazione; è necessaria molta cautela. L’ideale è inter-
pretare i test alla luce dei risultati di tutta una serie di altre prove. La deviazione standard (o scarto quadratico medio)
è una misura della “dispersione” (variabilità), che ci dice qual è la probabile distribuzione dei punteggi per i soggetti di
un campione rappresentativo. In linea con la concezione corrente dell'intelligenza come un insieme di capacità diver-
se, la revisione della scala di intelligenza Standford-Binet del 1986 raggruppa i test in quattro grandi aree di capacità
intellettive: ragionamento verbale, ragionamento astratto/visivo, ragionamento aritmetico, memoria a breve termine.
David Wechsler sviluppò invece un test per età diverse (WAIS: Wechsler Adult Intelligence Scale, 1939, 1955, 1981),
perché riteneva che lo Standford-Binet non fosse adatto per gli adulti e che dipendesse in modo troppo consistente dal-
le abilità lessicali. É suddiviso in due parti (scala verbale e scala di performance), che producono punteggi separati
come pure un punteggio QI totale. Più tardi (1959, 1974, 1991), fu messo a punto un test analogo per bambini (WISC).
Sia la Standford-Binet che la WAIS hanno i requisiti di un buon test (mostrano cioè un buon grado di attendibilità e
validità: v. sotto); entrambi sono predittori piuttosto validi di apprendimento scolastico.
Test individuali e collettivi
Le scale Standford-Binet e Wechsler sono test di abilità individuali: vengono somministrati individualmente, richiedo-
no più tempo all’esaminatore, ma hanno il vantaggio di non basarsi sulla capacità del bambino di leggere le domande o
di scrivere le risposte; i test di abilità collettivi, invece, sono essenzialmente «test carta e matita» e possono venir som-
ministrati a molte persone da un singolo esaminatore (famoso il SAT: Scholastic Assesment Test, revisionato nel 1995
e tuttora adottato per la selezione ai corsi universitari statunitensi).
Caratteristiche di un buon test
Attendibilità: deve fornire risultati riproducibili (attendibilità "test-retest", cioè stabilità temporale; attendibilità "di
forme equivalenti") e coerenti (coerenza interna: grado in cui gli item diversi di un test misurano tutti la stessa cosa;
"accordo dei valutatori" o della "attendibilità dei giudici"). Validità: deve misurare effettivamente ciò che si vuole esso
misuri (validità "di criterio" o empirica: può essere valutata correlando il punteggio del test con criteri esterni).
Modelli e teorie dell'intelligenza
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Negli anni in cui Binet diede inizio alle sue ricerche, C. Spearman formulò la teoria bifattoriale dell’intelligenza.
Spearman avanzò l’idea dell’esistenza di un’intelligenza generale (fattore «g») e di una serie di capacità specifiche
(fattori «s»): in ogni atto di intelligenza interverrebbe il fattore «g» più il fattore o i fattori «s» inerenti a tale atto speci-
fico; le capacità specifiche sono autonome, ed è il fattore «g» che rende conto di tutte le correlazioni esistenti tra le
capacità cognitive. Non sembra esserci alcun modo per giungere a misurare il fattore «g» da solo. L’analisi fattoriale è
una tecnica che analizza una serie di punteggi per stabilire se esistano gruppi di punteggi che presentano una correla-
zione più alta fra di loro che non con tutti gli altri gruppi. Il principio generale su cui si basa si può applicare tanto a
dati biologici quanto a dati psicologici: se applichiamo due test, o comunque due serie di misure a un gruppo di indivi-
dui, avremo una coppia di punteggi per ogni individuo, e ci interesserà valutare qual è la relazione tra i due risultati co-
sì ottenuti (coefficiente di correlazione r; correlazione positiva se i due risultati variano nella stessa direzione, negativa
nel caso opposto, tendente allo zero se i punteggi sono distribuiti a caso). Recenti ricerche condotte utilizzando
l’analisi fattoriale fanno pensare che tali modelli si avvicinino alla realtà più del modello «g» e «s» di Spearman e de-
gli altri modelli cosiddetti “gerarchici” che su di esso si basano in maggiore o minor misura. Vengono chiamati multi-
fattoriali i modelli che mettono al posto del fattore «g» una serie di capacità diverse l’una dall’altra. Nonostante tutto,
l’idea di «g» continua ad esercitare una sua influenza. Piaccia o no, il QI consente un buon livello di previsione di riu-
scita scolastica. Inoltre vengono criticati modelli multifattoriali come quello di Guilford, che postula non meno di 120
fattori mentali che singolarmente o in combinazione fra loro interverrebbero in qualunque atto di intelligenza, con
l’obiezione che sono notevolmente complicati e raramen-
te presentano un interesse immediato per gli insegnanti
(v. figura precedente). In pratica, l’uso del concetto «g»
da parte degli insegnanti dipenderà in buona parte
dall’età degli alunni con cui si ha a che fare; Vernon
avanza l’ipotesi che si manifesti una crescente differen-
ziazione tra le varie capacità via via che il bambino cre-
sce.
È possibile migliorare il QI?
Secondo un’opinione condivisa da genetisti e psicologi,
tra due bambini che possiedono un bagaglio genetico si-
mile potrebbe evidenziarsi all’epoca della maturità una
differenza di QI che può arrivare fino a 25 punti se gli
ambienti di provenienza sono rispettivamente l’uno molto
stimolante e l’altro scarsamente stimolante. Grazie alla
sperimentazione di programmi particolari, si è riusciti a
mantenere sugli stessi livelli il QI di bambini svantaggiati
(che generalmente tende a deteriorarsi, soprattutto negli anni successivi al primo ciclo della scuola elementare); ma
non è stato raggiunto l’obiettivo di eliminare tutte le differenze di QI legate all’ambiente di provenienza. Con esercizi
sistematici si può arrivare a migliorare il punteggio dei QI fino al 10 % (soprattutto con bambini più capaci). I test di
intelligenza, malgrado i loro difetti, rimangono uno degli strumenti più precisi (se non lo strumento più preciso) per
prevedere i livelli di riuscita scolastica. Funzionano meglio i test individuali, nelle mani di un esperto.
Migliorare l’intelligenza
Gli elementi fondamentali del modello multifattoriale dell’intelligenza di Guilford hanno un valore notevole per gli in-
segnanti. Dalle sue ricerche emerge che in ogni atto di intelligenza sono ravvisabili tre elementi: al soggetto vengono
prima presentati i contenuti di un problema, che diventano l’oggetto delle sue operazioni (o processi) mentali, che a lo-
ro volta danno luogo a determinati prodotti. Guilford (1967) divide le tre categorie in sottocategorie: Contenuti Operazioni Prodotti
figurativo conoscenza unità
semantico ricordo classi
simbolico pensiero divergente relazioni
comportamentale pensiero convergente sistemi
valutazione trasformazioni
implicazioni
Le varie categorie possono tutte interagire tra di loro, per un totale di 120 possibili fattori mentali. Quando un alunno
non riesce a risolvere un problema, il suo insuccesso può essere ricondotto all’una o all’altra delle suddette sottocate-
gorie o all’interazione tra di loro. Un modello di questo genere ha il pregio di dirigere l’attenzione dell’insegnante ver-
so le variabili che probabilmente determinano le difficoltà poste da un problema intellettuale, e pertanto aiutarlo a
prendere le decisioni migliori sul tipo di assistenza da fornire. Secondo Jensen le operazioni che coinvolgono la memo-
ria non richiedono grandi sforzi di ragionamento (abilità di livello I); Le abilità di II livello invece comportano opera-
zioni che effettivamente richiedono ai bambini di sottoporre a una qualche forma di trattamento le informazioni acqui-
site, e in genere conducono a generare dei prodotti anziché semplicemente a far uscire di nuovo le informazioni nella
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identica forma in cui sono state assimilate («capacità di ordine superiore» o «apprendimento ad apprendere» [v. la me-
tacognizione, p.58]).
De Bono
Pone un accento particolare sulle capacità che i bambini devono avere per modificare o ristrutturare le informazioni
che ricevono, per risolvere problemi complessi. Il bambino si sforza di esaminare un simile problema utilizzando uno
schema sequenziale; spesso scopre tuttavia che ogni volta che segue questo schema arriva ad un punto in cui la sequen-
za si spezza. Quello che occorre allora al bambino è un metodo che serva a rompere la sequenza in modo tale che sia
possibile costruirne un’altra: il metodo del pensiero laterale, contrapposto al pensiero verticale. Queste due forme di
pensiero svolgono ciascuno un proprio ruolo nel comportamento intelligente; troppo spesso però utilizziamo il primo
laddove sarebbe più opportuno il secondo; nelle scuole, poi, si insegna quasi esclusivamente il pensiero verticale. Il
bambino dovrebbe essere aiutato a capire che quando arriva al punto in cui una sequenza di pensiero verticale si spez-
za, ha bisogno di spostarsi a lato, e di prendere un altro binario verticale che conduca in una direzione diversa. Ne de-
riverà gradatamente una comprensione sempre più generalizzabile. Si tratta di imparare ad accogliere e di prendere in
considerazione, le une a fianco delle altre, idee che non hanno nessun evidente nesso logico o sequenziale fra di loro
[v. « Il pensiero laterale»: AAppppeennddiiccee 22; v. anche p.27 «La creatività e la scuola»].
Hebb (1966)
Invece di parlare di intelligenza in senso generale conviene parlare dell’intelligenza A (potenzialità innate, non misura-
bile) e dell’intelligenza B (che si sviluppa concretamente grazie all’influenza dell’ambiente). Secondo Vernon, dal
momento che i test d’intelligenza sono strumenti imperfetti dovremmo parlare anche di un’intelligenza C, quella parte
della B che riusciamo concretamente a misurare.
Cattel
Parla invece di intelligenza fluida (rispecchia l’influenza dei fattori biologici sullo sviluppo intellettuale) e intelligenza
cristallizzata (rispecchia l’esito delle esperienze ambientali): si potrebbero misurare entrambe; e tale misurazione met-
terebbe in evidenza un deterioramento dell’intelligenza fluida con l’età, mentre quella cristallizzata può continuare a
svilupparsi.
Teorie
Invece di analizzare l’intelligenza in termini di fattori (anni '60), alcuni studiosi hanno proposta di analizzarla in termi-
ni di unità o componenti (psicologia cognitiva: approccio dell'elaborazione dell'informazione): i fattori definiscono gli
aspetti strutturali, le componenti, invece, descrivono gli aspetti processuali. Siamo dunque di fronte a concezioni
dell’intelligenza come attività, in netto contrasto con le teorie che tendevano a considerarla una qualità (o magari una
caratteristica misteriosa riservata ai più fortunati).
La teoria Pass di Das (1994)
Das riconosce tre unità separate coinvolte nel funzionamento intellettuale:
I. La prima è di base in tutti i processi mentali: l’attenzione o la stimolazione.
II. La seconda è la reale elaborazione cognitiva: i processi con cui l’individuo riconosce, organizza, interpreta o ri-
sponde alla stimolazione (unità, dunque, responsabile della ricezione, elaborazione e ritenzione delle informazioni).
Questa unità coinvolge due tipi distinti di processi: (a) l’elaborazione simultanea, che avviene quando almeno alcuni
degli elementi di una situazione possono ricevere risposte contemporanee (quando, ad es., il bambino riconosce una fi-
gura geometrica, che dipende dal riconoscimento delle intercorrelazioni tra i vari elementi); (b) l’elaborazione succes-
siva, che coinvolge un’elaborazione sequenziale delle informazioni (necessaria quando gli elementi di un problema
formano una serie, come nella maggior parte dei compiti motori).
III. La terza è quella che consente all’individuo di creare piani, di metterli in pratica e di valutare la loro efficacia (è
un po’ l’aspetto intenzionale o cosciente dell’intelligenza): la pianificazione, che corrisponde alle strategie metacogni-
tive.
L’acronimo PASS ricorda, appunto: Pianificazione – Attenzione – elaborazione Successiva e Simultanea. Das e colle-
ghi hanno pure elaborato il programma correttivo PREP: i bambini vengono prima valutati per quanto riguarda i loro
deficit nell’elaborazione simultanea o successiva; poi viene loro somministrata una serie di 8-10 compiti specificamen-
te designati per fornire strategie correttive (compiti che coinvolgono tipicamente quelle procedure relative ai processi
cognitivi come la ripetizione, la categorizzazione, la previsione, la performance di controllo, e così via).
Le teorie di Sternberg (1980-1997)
Viene talvolta definita come una teoria contestuale, empirica e componenziale dell’intelligenza.
Contestuale: in quanto definisce l’intelligenza in termini di adattamento ad un particolare ambiente (l’intelligenza
è la «selezione e l’adattamento finalizzato all’ambiente del mondo reale rilevante per la vita»). Definizione che enfatiz-
za il controllo dell’individuo sull’ambiente. Sternberg sostiene che possiamo misurarla semplicemente chiedendo alle
persone cos’è giudicato intelligente o stupido nella loro cultura (dopo tutto si tratta di un tipo di intelligenza pratica):
poiché l’intelligenza è un’indicazione del livello di adattamento di una persona in un ambiente specifico, ci si può
aspettare che gli individui che vivono in tale ambiente siano le migliori fonti di informazione su ciò che è necessario
per un adattamento efficace. Fra le popolazioni nord-americane, alla domanda «Che cos’è che rende un comportamen-
to intelligente?» emergono tre ampie categorie di capacità che meglio descrivono le persone intelligenti: capacità prati-
ca di problem solving, abilità verbale e competenza sociale (in altre culture, le risposte possono essere diverse). Questa
visione dell’intelligenza mette in luce l’importanza del successo individuale nel far fronte alle pressioni ordinarie della
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vita in campo sociale e fisico. Gli svantaggi sono: è troppo inclusiva (quasi tutti i comportamenti, alla fine, sono consi-
derabili intelligenti, in quanto tesi all’adattamento); e non descrive adeguatamente i processi e le strutture che sotto-
stanno all’intelligenza, ma la descrivono in termini di caratteristiche ed effetti del comportamento.
Empirica (o “a due facce”): è la capacità di far fronte a nuovi compiti e di automatizzare queste nuove risposte, in
modo che le cose difficili diventino facili; permette di trattare con successo situazioni molto complesse (es.: la lettura,
l’aritmetica, la guida dell’automobile). Una situazione familiare consente agli individui di usare quelli che Sternberg
chiama concetti ben delimitati (concetto che ci appare come naturale, di facile uso); una situazione non familiare, op-
pure del tutto nuova, può invece richiedere l’uso di concetti mal delimitati (che ci appaiono come non naturali, artifi-
ciali). La capacità di ragionare per mezzo di concetti innaturali rivela un importante aspetto dell’intelligenza. Negli
esperimenti escogitati da Sternberg, la tendenza a rispondere velocemente e correttamente a problemi di questo tipo
(per es.: valutare la coerenza in differenti descrizioni di oggetti relative al confronto fra come sono allo stato attuale e
come potranno essere in futuro) viene correlata con il rendimento ottenuto in compiti di ragionamento induttivo. Il fat-
to che il rendimento dei soggetti nei compiti che richiedono l’uso di concetti mal delimitati sia simile al rendimento dei
soggetti nei compiti di ragionamento induttivo suggerisce che «la capacità di apprendere e ragionare per mezzo di nuo-
vi concetti» costituisce un importante aspetto dell’intelligenza.
Componenziale: corrisponde al tradizionale concetto di intelligenza; identifica varie componenti separate (Stern-
berg sostiene che chi si sottopone ad un test è in possesso di un insieme di processi mentali, che egli chiama compo-
nenti, che operano in modo organizzato per produrre le risposte osservate in un test di intelligenza.).
Metacomponenti: componenti coinvolte nella metacognizione (processi di controllo di ordine più elevato usati
per la pianificazione esecutiva e per prendere decisioni della soluzione di problemi); di solito le misure convenzionali
dell’intelligenza non li valutano.
Componenti della performance: processi che danno esecuzione ai programmi ed attuano le decisioni selezionate
dai metacomponenti; appaiono relativamente indipendenti dall’esperienza e più dipendenti da fattori innati; un certo
numero di test di intelligenza convenzionali che misurano l’intelligenza fluida (secondo la definizione data da Cattel)
possono servire anche da ottime misurazioni di queste componenti.
Componenti dell’acquisizione: processi implicati nell'apprendere nuove informazioni (separare le informazioni
rilevanti da quelle irrilevanti, combinare le informazioni selezionate con altre informazioni così da renderle significa-
tive, trarre significato dalle nuove informazioni rapportandole all’apprendimento precedente).
Componenti mnestici: processi implicati nel ritrovare le informazioni precedentemente immagazzinate nella me-
moria.
Componenti di trasferimento: processi implicati nel trasferire le informazioni conservate da una situazione ad
un'altra.
Lo stesso Sternberg, proseguendo le sue ricerche, ha poi fornito una nuova elaborazione, ed una serie di principi per
tradurla in pratica, di quella che ha definito teoria triarchica dell’intelligenza efficace (1997), che «implica tre aspetti
che sono interconnessi benché molto diversi: il pensiero analitico, quello creativo e quello pratico» [per questa più re-
cente tripartizione dell’intelligenza, v. R. J. Sternberg e L. Spear-Swerling, Le tre intelligenze (analitica, creativa, pra-
tica), Erickson, 1997; e R. J. Sternberg, La teoria triarchica dell’intelligenza efficace: come tradurla in pratica, in
“Psicologia dell’Educazione e della Formazione” n° 1, Erickson, 1999, 9-24, in AAppppeennddiiccee 22 bbiiss].
Un approccio fattoriale ed uno basato sull'elaborazione dell'informazione offrono delle interpretazioni complementari
del rendimento nei test di intelligenza: i test a struttura fattoriale sono utili ad identificare vaste aree di punti di forza e
debolezza (forza nella facilità di parola e nella comprensione verbale, debole nel ragionamento); ulteriori test secondo
l'approccio dell'elaborazione dell'informazione potrebbero offrire un profilo diagnostico dei processi che sono respon-
sabili della deficienza osservata (difetti a livello di metacomponenti o delle componenti mnestiche o di quelle di trasfe-
rimento...).
Le intelligenze multiple di Gardner (1983-1993)
Dal punto di vista dell’insegnante, è anche importante riconoscere non solo che l’intelligenza coinvolge diversi proces-
si cognitivi, ma anche che la competenza e il talento possono manifestarsi in alcune, ma non necessariamente in tutte le
aree della vita umana. Gardner ha considerato il suo approccio come uno sviluppo della frenologia del XIX secolo
(specifiche aree del cervello assolverebbero funzioni specifiche). È vero, infatti, che se anche varie parti del cervello
possono essere coinvolte nell’esecuzione di un compito complesso, è anche vero che non tutte le parti del cervello so-
no coinvolte in eguale misura in ciascun compito intelligente. Altri criteri adottati da Gardner per stabilire l’esistenza
di distinte forme di intelligenza: un’intelligenza separata: richiede un sistema simbolico (le conoscenze vengono rap-
presentate per mezzo di qualche forma di linguaggio); sembra poter essere identificata in presenza di individui ecce-
zionali (i “prodigi” non possono essere spiegati da una teoria generale che fa riferimento a diversi stadi di sviluppo in-
tellettuale); è caratterizzata da una forma di sviluppo specifica (inizialmente non ci sono differenze tra gli individui, ma
poi ci deve essere un percorso evolutivo particolare per mezzo del quale gli esperti raggiungono il livello di competen-
za che li caratterizza). Secondo Gardner noi abbiamo non una, ma sette tipi correlati di intelligenza, che, pur essendo
indipendenti l’uno dall’altro, possono «interagire tra di loro, e poggiare l’uno sull’altro, fin dalla più tenera età»:
Logico-matematica: sensibilità e capacità di discernere modelli logici o numerici; capacità di gestire lunghe catene
di ragionamento.
Linguistica: sensibilità ai suoni, ai ritmi e ai significati delle parole; sensibilità alle diverse funzioni del linguaggio.
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Musicale: capacità di produrre ed apprezzare il ritmo, il tono e il timbro; apprezzamento delle forme
dell’espressività musicale.
Spaziale: capacità di percepire il mondo visivo-spaziale in modo accurato e di manipolare le rappresentazioni
mentali conseguenti.
Corporeo-cinestetica: capacità di controllare i movimenti del proprio corpo e di manipolare con abilità gli oggetti.
Interpersonale (Personale A): capacità di discernere e rispondere in maniera appropriata agli umori, al tempera-
mento, alle motivazioni e ai desideri di altre persone.
Intrapersonale (Personale B): accesso ai propri sentimenti e capacità di discriminarli e di attingere da essi per gui-
dare il comportamento; conoscenza dei propri punti di forza e di debolezza, dei propri desideri e delle proprie intelli-
genze [ma: v. anche l'intelligenza emotiva, p. 97].
La maggior parte delle nostre esperienze di misurazione dell’intelligenza coinvolgono compiti matematici, linguistici e
logici; questo perché nelle culture occidentali sono questi i compiti che si suppone siano più strettamente correlati al
comportamento intelligente. È dunque necessario sviluppare una gamma di nuovi compiti per sfruttare competenze
precedentemente trascurate. Oggi, poi, ci è chiaro che l’intelligenza non può essere facilmente separata dalla cultura e
dal background; di conseguenza, la valutazione di queste intelligenze multiple richiede la considerazione dei grado in
cui il background sociale influenza la competenza, gli interessi e persino la volontà del bambino in una data situazione
[per le intelligenze multiple, v. H. Gardner, Formæ mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, 19935;
per un utilizzo di questa teoria in ambito musicale, v. gli scritti di Franco Vaccaroni, in partic.: Musica e movimento:
alcune riflessioni in rapporto all’educazione musicale di base, in “Pedagogia e didattica del movimento corporeo
nell’educazione musicale di base” Atti del XX Convegno europeo “C. A. Seghizzi”, Gorizia 10-12 luglio 1989; Impli-
cazioni percettivo-motorie del simbolismo musicale, in “Dall’atto motorio alla interpretazione musicale” Atti del II
colloquio internazionale di psicologia della musica, Ravello 1990 - I0/17, 1992; Analisi musicale e processi cognitivi,
in “Analisi” n. 13, Ricordi 1994; v. Aa. Vv., Psicologia I, Il Mulino 1993, 395-397; J. G. Benjafield, Psicologia dei
processi cognitivi, Il Mulino 1995, 334-357].
L’intelligenza si eredita?
Non è tuttora chiaro se la (o le) capacità cui diamo il nome di intelligenza sia dovuto più all’apprendimento o alle doti
innate. Importante è comunque l’interazione tra i due tipi di fattori.
Le ricerche sui gemelli
Sembrano avvalorare la tesi dell’importanza dei fattori genetici. Probabile che, della differenza di intelligenza tra i sin-
goli bambini risultante ai test, l’80 % sia dovuto alle differenze di ereditarietà e soltanto il 20 % circa alle differenze di
ambiente (ma qualcuno parla di circa il 50 % ereditato: v. Aa. Vv., Hilgard's Introduzione alla psicologia, Piccin
1999, 448-449; ed altri del 40 %: v. M. R. Baroni, V. D'Urso, Psicologia generale, Einaudi 2004, 236-237; v. anche
N. Dazzi e G. Vetrone (cur), Psicologia. Introduzione per le scienze umane, Carocci 2000, 329, secondo il quale l'in-
fluenza dei fattori genetici si aggirerebbe intorno tra il 40 e il 60 %). In realtà, tuttavia, la questione non è in definitiva
così chiara; i dati rilevati sono stati duramente contestati. Inoltre, le correlazioni sono più alte quando l’ambiente è si-
mile.
Altre ricerche
Le ricerche sugli animali vanno applicate al comportamento umano con moltissima cautela. Anche certe forme di han-
dicap, direttamente legate a fattori genetici, sono di qualche utilità. Secondo Vernon i sostenitori più accaniti del pri-
mato dei fattori ambientali devono ancora spiegare le marcate differenze di intelligenza che spesso si notano tra i bam-
bini di una stessa famiglia. Conclude che, per quanto l’ambiente svolga un ruolo molto importante, il QI misurato dai
test sembra dipendere più dal patrimonio genetico che non dalle opportunità ambientali e dall’apprendimento, per lo
meno nella cultura dei bianchi. Ma natura e cultura sono reciprocamente complementari: nel caso dell’istruzione scola-
stica, l’una non ha senso senza l’altra.
L’intelligenza e i gruppi etnici
Storicamente, gruppi etnici diversi si sono sempre scontrati con problemi diversi, per cui è scorretto (e ingiusto) che un
dato gruppo voglia imporre l’idea secondo cui i suoi test d’intelligenza sarebbero il modo corretto di misurare la capa-
cità intellettuale in qualunque parte del mondo: i nostri concetti dell’intelligenza e i nostri metodi per misurarla sono
espressione della nostra particolare cultura. Non ci sono elementi definitivi che autorizzino a credere che in fatto di
intelligenza esitano differenze genetiche tra le razze.
Per ovviare ai più grossi limiti culturali di alcuni test di intelligenza, verso la metà del Novecento si cercò di metter a
punto dei test culture-fair, cioè rispettosi delle differenze culturali: erano composti soprattutto da prove di performan-
ce, oppure si basavano su serie di figure semplici da mettere in sequenza (v. le Matrici di Raven). In tal modo si evita-
va di far riferimento a conoscenze legate all'appartenenza a un gruppo o a una determinata classe sociale, anche se non
si potevano superare quei limiti di familiarità con l'esecuzione di compiti presentati attraverso l'uso di carta e penna.
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L’intelligenza e i fattori socioeconomici
Dal punto di vista dell’istruzione è probabile che le differenze più importanti tra i gruppi quanto a intelligenza misurata
dai test siano quelle associate al livello di condizione socioeconomico. Dalle ricerche emerge: quanto più ci si sposta
verso l’alto, tanto più elevato risulta il QI, e questo vale sia per i genitori sia per i figli. Condizione economica inferio-
re = meno materiali che stimolano l’attività intellettuale; meno libri a loro letti; meno stanze tranquille e silenziose;
meno strutture verbali complesse intorno a loro; meno motivazioni ambiziose da parte dei genitori. C’è chi parla anche
di fattori genetici = i soggetti di intelligenza più scarsa tenderebbero a collocarsi nel “gruppo degli operai non qualifi-
cati” e a trasmettere potenzialità più basse ai figli... Si deve tener conto del fenomeno chiamato regressione dei figli al-
la media = esprime la tendenza a evidenziare, in un’ampia serie di caratteristiche determinate da fattori genetici, valori
che si avvicinano più di quelli dei genitori ai valori medi della popolazione complessiva, e questo nei casi in cui i valo-
ri delle caratteristiche dei genitori in rapporto alla media generale siano o eccezionalmente alti o eccezionalmente bas-
si....
Differenze di intelligenza tra abitanti di città e di campagna
Si è riscontrato che al momento di iniziare la scuola la differenza tra i QI di due gruppi è di circa 5,7 punti in favore
dei bambini di città, per poi salire a 10,4 verso i 10-11 anni di età e a 12,2 al termine della scuola. Fattori genetici e
ambientali = fin dal XVIII secolo, abbandono della tranquilla vita di campagna alla ricerca di fortuna da parte forse dei
più capaci; maggiori stimoli ambientali, migliori strutture scolastiche e maggior motivazione nella città; o forse la gen-
te di campagna dà meno importanza alle capacità che vengono misurate con i test di intelligenza (quelle verbali in pri-
mo luogo), e preferisce una vita meno frenetica e magari più profonda, maggiormente in sintonia con il genere di pro-
blemi che si presentano in un ambiente rurale.
Differenze di intelligenza tra i sessi
La tipizzazione sessuale ha inizio molto presto: è una delle prime dimensioni sociali che i bambini notano. Già a 2 anni
i bambini iniziano ad approvare i comportamenti tipici per uno dei due sessi, mostrando di avere già una certa qual co-
noscenza degli stereotipi sulla mascolinità/femminilità propri della cultura di appartenenza. Alcune differenze ma-
schio/femmina pare siano in gran parte biologiche (l’aggressività, per esempio, è diffusa in quasi tutte le società umane
ed anche tra la maggior parte delle specie animali), ma l’influenza dei ruoli e delle aspettative sociali non può, neanche
in questi casi, essere ignorata. Da parte degli stessi bambini, poi, maschi e femmine, pare esservi accordo sulla prefe-
renza per il ruolo maschile. Ma nessuna differenza generale decisiva si riscontra tra il QI dei maschi e quello delle
femmine, mentre qualche differenza sembra emergere per alcune specifiche capacità intellettuali. Lettura = ritardi in
numero doppio presso i maschi (USA) rispetto alle femmine (in un primo tempo, inoltre, le femmine tendono a fare un
maggior uso del linguaggio verbale e ad esprimersi con maggior chiarezza; differenze che svaniscono intorno ai 16 an-
ni); potrebbe trattarsi di una situazione culturalmente indotta: nelle società occidentali le femmine passano più tempo
in casa, e più dei maschi aspirano ad ottenere l’approvazione dei genitori; hanno meno accesso alle attività fisiche (più
tempo alla lettura?). Quando ai maschi vengono presentati testi di lettura dai contenuti notevolmente interessanti, le
differenze di capacità tendono a scomparire. Matematica = situazione capovolta. Di nuovo, forse, una situazione cultu-
ralmente indotta: le capacità matematiche e spaziali vengono tradizionalmente associate al mondo e alle scelte profes-
sionali maschili... Attenzione alle aspettative da parte dell’insegnante: molto influenti!.
Malintesi circa l'ereditabilità
Il ricorrente dibattito ufficiale sui problemi riguardanti il rapporto natura-educazione rivela grandi equivoci circa il
concetto di ereditabilità; è quindi importante chiarire alcuni punti.
L'ereditabilità:
non è una misura individuale (ci si riferisce alle differenze fra individui all'interno di una popolazione e non alle
proporzioni di un tratto all'interno di un individuo);
non è l'attributo fisso di un tratto (ci si riferisce ad un attributo di un tratto in una popolazione particolare, in un
particolare momento; se, per es., ad ogni membro della nostra società venissero improvvisamente offerte eguali oppor-
tunità educative, la varianza del profitto intellettivo della società diminuirebbe, i punteggi individuali su misure stan-
dardizzate della capacità intellettiva si assomiglierebbero maggiormente, e giacché l'ereditabilità è la proporzione del-
la varianza fra gli individui dovuta alle differenze ereditate, l'ereditabilità aumenterebbe perché la proporzione della
varianza dovuta ad un importante fattore ambientale sarebbe diminuita);
non dice nulla sull'origine delle differenze medie fra gruppi (v. l'es. dei due sacchi di semi proporzionalmente
uguali coltivati in ambienti diversi);
non chiarisce gli effetti dei cambiamenti ambientali sul livello medio di un tratto (l'ereditabilità riguarda le varian-
ze, non le medie ).
I fattori genetici:
non devono essere intesi come caratteri immutabili, poiché sono suscettibili all'azione di fattori ambientali pre-
peri-post-natali (si pensi all'effetto delle diete o della fame sulla maturazione del cervello; all'effetto di farmaci, droghe
e danni lavorativi durante la gravidanza e il parto);
non sono fissi, ma si riferiscono a un programma che interagisce con l'ambiente e si sviluppa con l'età;
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variano con l'età così come varia con l'età il peso dell'ambiente, e le differenti abilità hanno spesso periodi critici
diversi, in cui l'influenza dell'ambiente è determinante.
L'influenza dell'ambiente:
è massima nella specie umana, che ha un lungo periodo di sviluppo e richiede molte cure parentali (ciò porta a una
serie di condizionamenti sulla formazione dei sistemi di motivazione e valori che a loro volta incidono fortemente
sull'uso delle abilità e sul rendimento);
non agisce solo come ostacolo o limite della potenzialità ereditaria, ma anche in modo interattivo, modificando e
arricchendo gli schemi delle risposte innate (Piaget, 1975); inoltre l'adattamento ha una doppia direzione, perché anche
il soggetto tende a modificare o a scegliere il suo ambiente (irritabilità, umore, ecc. della prima infanzia, che hanno ba-
si ereditarie, possono portare al "bambino difficile" o al "bambino socievole" a seconda delle risposte dei genitori).
Effetti culturali dei media
Sappiamo ancora troppo poco sull'argomento: l'uso della scrittura e della stampa, la televisione, l'informatica, certa-
mente hanno prodotto o produrranno nel lungo periodo mutamenti importanti nel nostro pensiero e probabilmente an-
che nel nostro sistema nervoso (Olson, 1986). L'enorme bombardamento di messaggi persuasivi e la velocità delle co-
municazioni potrebbero mutare, oltre ad atteggiamenti e opinioni, i sistemi di motivazioni e di valori, alterando o an-
nullando le differenze trans-culturali, promovendo la collaborazione o la competizione. L'uso delle tecnologie da parte
di una certa cultura, da un lato influenza le nostre valutazioni dell'intelligenza, dall'altro modifica le nostre capacità; le
alterazioni dell'ambiente prodotte dalle nuove tecnologie si riflettono anche in cambiamenti delle abilità di base (pen-
siero visivo e logico, uso dei linguaggi simbolici).
Origini sociali dell'intelligenza
Vigotskij (1896-1934) fu il primo a formulare una teoria della sviluppo delle funzioni mentali superiori basate sulla in-
fluenze culturali che si esprimono soprattutto nella mediazione linguistica esercitata dall'adulto (psicologia storico-
culturale). Come gli strumenti agiscono sul mondo fisico, così i segni linguistici agiscono sul comportamento, influen-
zando l'azione e il pensiero; ma ciò avviene sempre in un certo contesto culturale, in cui gli adulti regolano il compor-
tamento del bambino attraverso le indicazioni gestuali, l'imitazione unite al linguaggio: l'esperienza culturale e la co-
municazione sociale permettono il passaggio dalle operazioni esterne al linguaggio interiore, costruiscono concetti, re-
lazioni e sistemi astratti (attività concreta e pensiero sono due sistemi collegati in continua interazione dinamica: le in-
fluenze sociali non sono soltanto una trasmissione di conoscenze, di regole o di valori, ma generano le stesse strutture
di pensiero, fornendo una mediazione tra l'attività pratica e le funzioni superiori). La mediazione culturale consente di
appropriarsi dei mezzi tecnici costruiti dalle generazioni precedenti e di strumenti psicologici che permettono la rap-
presentazione dell'attività stessa, il controllo dell'esecuzione e dei processi, e infine la trasformazione dell'attività attra-
verso nuovi sistemi di segni. L'autogenesi delle funzioni psichiche superiori coincide con la sociogenesi delle pratiche
di comunicazione sociale. [v. anche p.40].
La psicologia culturale
Da un punto di vista teorico l'apporto più organico agli sviluppi della concezione vygotskijana dell'intelligenza è stato
dato da Bruner, che ha coniato i termini di format (struttura di interazione standardizzata, inizialmente microcosmo fra
adulto e bambino, con ruoli definiti e delimitati, ma che poi divengono reversibili: adulto e bambino fanno cose l'uno
all'altro e l'uno con l'altro) e scaffolding4 (l'adulto offre un sostegno all'attività del bambino e progressivamente lo ridu-
ce fino a toglierlo, quando il bambino è in grado di svolgere da solo l'attività) per indicare le forme standardizzate di
azione congiunta e i processi di regolazione degli scambi con cui gli adulti aiutano il bambino a fare o costruire qual-
cosa, a raggiungere uno scopo, indicandogli le caratteristiche determinanti del compito e i modi di eseguirlo, riducendo
gli ostacoli, consolandolo e sorreggendolo di fronte alle difficoltà o ai primi insuccessi [v. anche p.41, «Lo sviluppo
cognitivo, affettivo, sociale e morale», e le relative AAppppeennddiiccii 33--55].
Costruzione di strumenti e trasmissione delle conoscenze
Secondo Norman (1993) ciò che è caratteristica specifica dell'intelligenza umana è la sua capacità di interazione socia-
le, cioè il cooperare in attività intenzionali e pianificate, la capacità di servirsi di strumenti per costruirne altri anche di
tipo intellettuale (tecnologici, strategici, tecnici) che egli chiama artefatti cognitivi; e infine la capacità di trasmettere
conoscenze e abilità attraverso un'istruzione formale. Ciò che permette al bambino, anche piccolissimo, di adattare gli
schemi innati ai cambiamenti, sono l'aiuto e l'insegnamento degli adulti, trasmessi non solo mediante l'imitazione, ma
anche attraverso il linguaggio, che permette di andare oltre la realtà percettiva, di rappresentare situazioni non presenti,
di anticipare conseguenze: cioè di dar forma e consolidare le rappresentazioni interne, che non vengono più interioriz-
zate come azioni proprie o di altri, ma possono venir trasmesse anche a distanza. Oltre agli artefatti cognitivi, sono ti-
piche dell'uomo anche le cognizioni distribuite che si trasmettono in tutte le situazioni di lavoro di squadra, in cui la
comunicazione sociale è fluida, efficiente, e il canale di comunicazione condiviso non solo aumenta la produttività, ma
serve anche come addestramento attraverso l'interazione tra processi mentali da una parte, oggetti ed eventi dell'am-
biente fisico dall'altra: infatti gli eventi nuovi, gli ostacoli, i limiti richiedono un adattamento continuo, che è reso pos-
4 Termine introdotto per primo da Wood et alii (1976).
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sibile dalla trasmissione culturale in forma narrativa o descrittiva o procedurale, ma anche dal ricordo di esperienze
personali che passano dalla forma di memoria episodica e script alle forme di categorizzazione e previsione.
[BD 226-242; DV 319-337; F 78-106; H 427-438; L 32-33, 56-59, 191-197]
La creatività
Che cos’è la creatività?
Si tratta di un'attitudine presente in tutti gli individui, ove più, ove meno, che può intervenire in qualsiasi attività e che
va tenuta distinta dall'intelligenza, almeno da quella comunemente misurata coi test per la determinazione del QI.
É stata definita come:
– «L'insieme della fluidità, rapidità ideazionale, sensibilità ai problemi [...]; flessibilità della mente, abilità sintetiche
e analitiche, abilità di riorganizzazione e di ridefinizione, capacità di complessità delle strutture concettuali e infine
valutazione» (Guilford, 1950).
– «[...] la capacità di mettere insieme in modo utile idee di solito lontane l'una dall'altra» (Mednick, 1962).
– Combinazione di elementi considerati comunemente indipendenti e dissimili (Getzels e Jackson, 1962).
– «[...] un modo di operare cognitivo, estetico ed emotivo che enuclea i problemi presenti in una situazione o in un
materiale e tenta di risolverli» (Watson, 1957).
– «[...] la capacità di trovare (produrre) nuove soluzioni (risposte innovative) a problemi definiti. Tutto questo senza
fare ricorso a un processo strettamente logico, ma stabilendo dei legami non usuali tra i fatti [...]. Tuttavia la creativi-
tà è anche la capacità di dare risposte elaborate ad hoc a problemi nuovi, emergenti. É, quindi, anche un processo
mentale che consente di collegare delle informazioni in maniera imprevedibile con il fine di produrre una soluzione»
(Cocco, 1988). La creatività consentirebbe, dunque, l'adattamento di un organismo complesso e mutevole a una real-
tà altrettanto complessa e mutevole; ecco evidenziata così una delle funzioni principali di questo strumento e mecca-
nismo psicologico: consentire all'uomo di affrontare il continuo mutamento attraverso un ininterrotto processo di ag-
giustamento, detto anche apprendimento. Proprio quest'ultimo sarebbe lo strumento principale che ogni essere viven-
te utilizza per affrontare il cambiamento.
– La creatività consiste fondamentalmente nella capacità di produrre qualcosa di nuovo (originale, inatteso) e appro-
priato (utile, adattabile al compito prefissato). Essa richiede la confluenza di sei risorse distinte, ma interrelate: le
capacità intellettive (capacità di sintesi: si pone l'obiettivo di poter vedere il problema in un modo nuovo, rifuggen-
do dal pensiero convenzionale; capacità analitica: capacità di dare un valore alle idee proposte; abilità pratico-
contestuale: capacità di comunicare le proprie idee, persuadendo gli altri in rapporto alla loro validità); la conoscen-
za (permette di scoprire il contesto nel quale ci si muove: quanto di creativo proposto non è necessariamente innova-
tivo, inoltre l'applicabilità di ciò che si progetta è legata a una serie di fattori di cui non si può ignorare l'esistenza);
lo stile di pensiero (considera sia gli aspetti particolari, sia quelli generali, permettendo al soggetto di porsi le do-
mande rilevanti in quel particolare contesto); la personalità (la volontà di superare gli ostacoli e la predisposizione a
tollerare l'ambiguità); la motivazione (sia intrinseca, legata principalmente a quanto il soggetto riesce ad essere coin-
volto nel problema trattato, sia sociale, legata alle dinamiche di gruppo e culturali di inserimento); l'ambiente (incide
sostanzialmente sulle possibilità che vengono fornite al soggetto di esprimere la propria creatività e sulle occasioni
offerte di comunicarla agli altri) (Sternberg e Lubart, 1996).
Si può dunque definire come: capacità di trovare modi nuovi e fluidi di affrontare i problemi e di organizzare il mate-
riale. Possiamo considerare la creatività un genere del tutto speciale di pensiero, caratterizzato da originalità e fluidità.
In quest’ottica si può far rientrare:
– il pensiero laterale (contrapposto al pensiero verticale) di E. de Bono [v. «L'intelligenza», p. 17 e relativa AAppppeenn--
ddiiccee 22].
– il pensiero divergente (la capacità di trovare una serie di possibili soluzioni diverse per un dato problema, in parti-
colare un problema per il quale non vi sia un’unica risposta esatta; contrapposto al pensiero convergente, più facile
da misurarsi con test di QI) di Guilford: opportuno, comunque, considerarli complementari l’uno all’altro; ma nella
scuola abbiamo finito per privilegiare quello convergente. Non è ancora chiaro quanto siano correlati la capacità di
superare test sul pensiero divergente (a domande aperte, solitamente; e in cui specialmente i bambini più piccoli ot-
tengono risultati migliori quando il clima non è ansiogeno) e la capacità di avere successo in attività creative; né se si
tratti di due modi di operare autonomi, come sostiene Guilford, o parte integrante dello stesso gruppo di capacità
mentali. Il legame tra le capacità di pensiero convergente e le capacità di pensiero divergente appare più forte nei
bambini con un QI modesto o basso; al di sopra di una soglia di QI che può variare tra 110 e 120, invece, il rapporto
diventa molto più complesso e addirittura casuale. Fino a che non si supera questa soglia, dunque, un’intelligenza
maggiore sembra in genere accompagnarsi a maggiori capacità di pensiero divergente; oltre, invece, un’intelligenza
superiore non si accompagna necessariamente a maggiori capacità di pensiero divergente. Non si dimentichi che cer-
te attività esigono sia un QI elevato sia una notevole capacità di pensiero divergente (scienza, arte).
Da una recente ricerca emerge che gli adolescenti più creativi si sentono maggiormente in grado di incidere sugli avve-
nimenti e, pertanto, si percepiscono più capaci di controllarli attivamente (locus of control interno; v. pp. 75 e 87). Tali
risultati stanno a indicare che una struttura di personalità creativa è correlata con la capacità di conoscere il mondo cir-
costante, grazie alla presenza di alcuni specifici tratti quali la curiosità, l'immaginazione produttiva, una maggiore pro-
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pensione ad affrontare i rischi e a trovare alternative per ristrutturare le situazioni complesse. Sono emerse anche alcu-
ni tratti che caratterizzano in modo specifico la personalità creativa: chi si percepisce creativamente curioso, immagi-
nativo e disposto ad accettare rischi nell'affrontare la realtà è anche aperto verso le novità di idee, valori e sentimenti
che gli altri propongono, è stimolato da molteplici interessi ed è aperto a esperienze e a usanze diverse. Inoltre il tipo
creativo, che con curiosità esplorativa cerca alternative alle situazioni esterne, è anche energico, dinamico e attivo, e si
descrive come estroverso e dominante. Infine, i soggetti creativi che tendono a esporsi alle condizioni di rischio anche
in situazioni destrutturate sono emotivamente più stabili, quindi hanno bassi livelli di ansia, poca vulnerabilità e impul-
sività, essendo persone molto meno emotive e irritabili. Questi risultati permettono di ipotizzare che alcune competen-
ze creative possono essere notevolmente influenzate dalla qualità delle esperienze educative proposte e dall'ambiente
in cui la persona vive. Infatti, alcuni fattori relativi alla struttura della personalità dell'individuo (quali l'apertura menta-
le, l'energia e la stabilità emotiva) possono facilitare e migliorare la capacità creativa. Ciò è specialmente vero per gli
adolescenti che sono particolarmente sensibili a queste dimensioni nel loro processo di crescita e di evoluzione.
Creatività e ingegno
I plus-dotati
Lo sviluppo degli studi sul pensiero "divergente" risale al famoso discorso di Guilford nel 1950 (Creativty, in «Ameri-
can Psychologists», V, pp. 444-454), ma esplode negli anni Sessanta con le ricerche di Barron, Torrance, Getzels e
Jackson, porta gli americani a riscoprire gli autori europei nei due filoni classici della Gestalt e della psicoanalisi e
produce un rinnovamento nelle concezioni dell'intelligenza, nei modi per valutarla, con una ricaduta immediata sulle
tematiche educative. Infatti Torrance (1980) e Taylor (1988) dopo aver esaminato vari studi longitudinali rilevano che
le personalità creative, oltre a fluidità, flessibilità e originalità, presentano coraggio, autonomia di pensiero, curiosità
per il nuovo, attaccamento al compito, perseveranza nello sforzo; queste ricerche sono state poi confermate da un'am-
pia serie di ricerche longitudinali che hanno prodotto recenti modelli (Renzulli, 1985; Urban, 1995), quest'ultimo com-
prendente tre componenti cognitive (pensiero divergente, conoscenze generali e specifiche) e tre di personalità (dedi-
zione al compito, motivazione, apertura all'esperienza). Anche studi italiani (Calvi, 1965; Andreani Dentici e Orio,
1972) hanno contribuito alla questione, confermando le osservazioni fatte da molti autori: i soggetti dotati appaiono
come il prodotto dell'interazione tra due gruppi di fattori, genetici ed ambientali, particolarmente favorevoli; essi sono
frequentemente i primogeniti di famiglie piccole, di buon livello culturale, sono stati stimolati da genitori giovani, for-
temente motivati al successo, e sono cresciuti in famiglie ricche di affetti che offrono un sostegno sicuro senza essere
troppo protettive; hanno però un grado maggiore di autonomia e indipendenza dalla famiglia e molti di loro mostrano
un atteggiamento di distacco e di critica verso insegnanti e genitori, che può condurre, specie nell'adolescenza, ad anti-
conformismo o ribellione aperta. Il profilo intellettuale presenta una configurazione armoniosa di funzioni cognitive
elevate, che si manifesta in memoria, articolazione percettiva, velocità e precisione, ragionamento logico, verbale e
matematico (con diverse accentuazioni personali), nella fluidità e flessibilità del pensiero che mostra buon potenziale
creativo; hanno varietà e ricchezza di interessi, hobbies e letture che mostrano curiosità e apertura intellettuale, ma an-
che abbondanza di giochi e sport che manifestano vitalità ed dinamismo. La personalità, come emerge dai test di Ror-
schach e dai colloqui individuali, mostra una crescita più precoce, con un profilo più simile agli adolescenti e agli adul-
ti che hai coetanei; vi sono segni di empatia umana, ricca vita interiore con segni di forti pulsioni aggressive e sessuali,
generalmente ben controllate; in genere c'è un buon adattamento, nonostante alcune note di ansietà, eccesso di intellet-
tualizzazione e molti segni di anticonformismo possano condurre i dotati a comportamenti di opposizione agli adulti e
alle norme sociali. Vi è però il pericolo che questo quadro così attraente si modifichi nella cosiddetta "sindrome del
plus-dotato", che accentua troppo i tratti intellettuali e la vita interiore, porta ad eccessiva astrazione e persino a pen-
siero autistico, oppure esagera la reattività emotiva conducendo verso un comportamento ansioso oppure impulsivo.
Anche la varietà e la ricchezza di interessi possono evolvere in direzione negativa, trasformandosi in una dispersione
eccessiva e mancanza di concentrazione; e persino le condizioni favorevoli di piccole famiglie possono essere trasfor-
mate in fattori di stress a causa delle eccessive aspettative che convergono sui bambini, particolarmente quando i geni-
tori tentano di compensare le loro ambizioni frustrate col successo dei figli e perciò alimentano atteggiamenti perfezio-
nistici e ansietà (sono molti gli studiosi che hanno messo in rilievo l'importanza delle aspettative e delle reazioni degli
adulti nel determinare la presenza o assenza di problemi nei bambini più dotati). I risultati di questi ed altri studi sotto-
lineano l'importanza dei fattori di motivazione e dell'incontro con le situazioni e le persone che permettano l'individua-
zione e l'arricchimento delle doti personali. Riguardo al problema educativo, sono molte le differenze tra i vari paesi:
gli USA (ma anche, fino a ieri, i paesi comunisti e oggi i paesi i n via di sviluppo) seguono una politica di precoce
identificazione dei talenti, di accelerazione scolastica o di particolari programmi di arricchimento; il sistema europeo in
genere si affida di più alle iniziative degli insegnanti o della famiglia. Tuttavia anche in Europa ricerche psicologiche e
interventi educativi per i plus-dotati sono stati promossi recentemente dall'European Council for Higt Ability (ECHA)
fondato nel 1987; ricordiamo al proposito le sperimentazioni di vari centri, fra i quali il vasto programma messo in atto
dall'Ungheria, che sostiene una serie di iniziative interessanti nel campo della musica. Meno vivace e coordinata sem-
bra l'attività dell'area latina.
24
Caratteri, processi e modelli della creatività
Bartlett
Bartlett (1958) aveva individuato, nelle strategie di ricerca che hanno portato a scoperte scientifiche, la presenza di
un'esplorazione attiva della situazione, di un'analisi della struttura e delle relazioni che spesso porta a ristrutturazioni
improvvise e alla rottura di sistemi chiusi (con ricerca di nuove informazioni e un pensiero amante dell'avventura, di-
sposto a tentare nuove strade). «Le condizioni per il pensiero originale si hanno quando due o più filoni di ricerca pos-
sono convergere ed essere combinati, generando nuove direzioni, mostrando che le unità di base e i processi di un set-
tore hanno proprietà non sospettate prima, che aprono nuovi problemi da esplorare». Il pensiero comincia a muoversi
con maggior libertà quando, dopo aver proceduto passo per passo alla soluzione di singole fasi di un problema, comin-
cia a liberarsi dei dettagli e a vedere una struttura di insieme che permette di allargare il problema ad altri campi, co-
gliendone l'analogia e le possibilità di generalizzazione; spesso questo processo è facilitato dall'uso di nuovi metodi e
strumenti che vengono applicati a nuovi gruppi di fatti e campi di studio [v. anche p.12].
Cognitivisti
Anche gli psicologi cognitivisti riprendono e sviluppano alcune idee della psicologia della Gestalt, che sottolineava
l'importanza dell'intuizione (insight: v. p.13) nel pensiero creativo, considerandola come una ristrutturazione piuttosto
che come un processo di crescita cumulativa. Smith, Ward e Finke (1995) ed altri studiosi cercano di fondere il meglio
degli approcci sperimentali derivati dalla tradizione associazionista, gestaltista e computazionale. La scoperta scientifi-
ca avviene quando una mente preparata ristruttura un approccio tradizionale a un problema; ricordo episodico, memo-
ria semantica, memoria implicita, soluzione di problemi e scoperta creativa si possono spiegare con un unico modello
che include fasi simili di fissazione, incubazione e insight (v. sotto: «L'atto creativo»). Un contributo particolare agli
studi sul pensiero creativo viene da due recenti filoni di ricerca sperimentale, quelli sull'immagine e sulla metafora. Le
immagini sono una forma di rappresentazione che può essere generata in ogni fase dei processi cognitivi: nella fase
iniziale in cui anticipano il riconoscimento dello stimolo; nella MDL quando codificano il materiale secondo il codice
visivo-spaziale; nella MLT quando riattivano il codice visivo o verbale; nel ragionamento analogico che coglie la so-
miglianza tra oggetti e sistemi di relazioni; nel pensiero metaforico che è capace di generare modelli; nell'immagina-
zione che permette di costruire nuovi mondi. Alcune caratteristiche delle immagini: economia (permette di presentare
in parallelo molte unità integrate in una struttura unica), flessibilità e possibilità di trasformazioni (che a loro volta
possono essere simbolizzate in formule, diagrammi e rappresentazioni astratte, possibilità di esplorare nuove combina-
zioni (che spesso conducono a forme pre-inventive e quindi al pensiero creativo). Molti studiosi hanno ricostruito le
biografie di inventori, artisti o anche scienziati, trovando spesso nella fase iniziale di una scoperta la produzione di
immagini che hanno permesso di visualizzare sinteticamente delle relazioni, della analogie, dei modelli che permette-
vano di spiegare una serie complessa di fenomeni. É chiaro però che il processo di "giocare con le idee", costruire im-
magini, metafore, analogie in modo creativo deve essere sostenuto da conoscenze precedenti in uno o più domini, da
conoscenze tecniche e da strategie cognitive: tutti possono generare forme pre-inventive ed esplorarne le possibilità,
ma certamente solo un esperto in un certo campo può realizzare degli oggetti, costruire degli edifici, sviluppare un
nuovo concetto di fisica o un nuovo modo di cura («il caso favorisce la mente preparata», aveva già osservato Pasteur).
Gli elementi essenziali per lo sviluppo del pensiero creativo ad alto livello sono: la curiosità, il desiderio di esplorare le
varie possibilità, la capacità di applicare le nuove strutture a un altro argomento o settore, di trasformarle in modelli
che si applicano a più campi e infine l'alta motivazione a perseguire uno scopo nonostante le difficoltà.
Psicoanalisi e psichiatria
Freud (1908) [v. p.85] è stato il primo a tentare una spiegazione psicologica delle radici della creatività, che ha consi-
derato come un tentativo di risolvere un conflitto generato da pulsioni istintive biologiche non scaricate: i desideri in-
soddisfatti sarebbero la forza motrice della fantasia, ed alimenterebbero i sogni notturni, quelli a occhi aperti e anche le
opere creative che hanno la funzione di scaricare le emozioni risultanti dal conflitto. Ne viene l'importanza enorme,
quasi esclusiva, attribuita all'esperienza infantile, che diventa la chiave per esplorare le motivazioni intorno a cui si
struttura una personalità normale, neurotica o creativa. Freud ha dato importanza soprattutto alle motivazioni inconsce
della creatività, che è vista in termini di spostamento della carica energetica: se la carica libidica primitiva viene re-
pressa da restrizioni sociali ed educative, si ha la rimozione oppure il ricorso a difese razionali [v. p.85], oppure, nei
caso più fortunati, la sublimazione per cui la curiosità sessuale del bambino diretta all'esplorazione del proprio corpo si
trasforma nella curiosità che conduce alla creatività. Kris (1952) ha riformulato la teoria spiegando la creatività come
una regressione al servizio dell'ego, che si serve di processi primari operanti nel preconscio regolando in maniera au-
tonoma la capacità di allentare il controllo e riprenderlo, lasciando che le catexi dell'id (investimenti dell'Es) affluisca-
no al preconscio e sviluppino i processi tipici della fantasia e del sogno: questo spiegherebbe la capacità di giocare con
le idee, di accettare pulsioni sessuali e aggressive, di usare l'umorismo come scarico di emozioni. Anche Kubi (1958)
accetta l'ipotesi della creatività come prodotto del preconscio, osservando che la «flessibilità creativa è possibile solo
per l'azione libera, continua e concorrente (se non esclusiva) dei processi preconsci» perché la prevalenza esclusiva dei
processi consci porta a rigidità, ancorando il pensiero a dati percettivi e concettuali ben determinati, mentre d'altra par-
te la prevalenza dell'inconscio porta a rigidità ancor maggiore, perché i nuclei conflittuali e pulsionali sono inaccessibi-
li alle correzioni del reale. Arieti (1979) – come Schachtel e i neofreudiani – ha sostanzialmente abbandonato il model-
lo omeostatico: il processo creativo sarebbe «un processo speciale che trascende la solita formula S-R e determina
un'auspicabile espansione dell'esperienza umana»; egli attinge esplicitamente il concetto di "espansione" dalla teoria
del sistema di Von Bertalanffy che non è regolato solo dall'omeostasi, ma anche dall'attività autonoma del sistema ner-
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voso e accentua il fatto che il comportamento naturale, anche degli animali, va al di là dello schema stimolo-risposta, e
comprende molte attività autonome che passano dall'attività esplorativa, al gioco, all'attività creativa e non si possono
spiegare solo con la necessità di ridurre la tensione. A differenza di tutti gli altri autori che continuano ad occuparsi del
problema delle motivazioni che generano la creatività, Arieti concentra la sua attenzione sui meccanismi formali che
operano nel processo creativo ed ottiene uno schema valido analizzando i processi estetici, quelli del pensiero scienti-
fico e quello dell'umorismo; questo «risulta dall'interazione dei meccanismi del processo secondario con quelli del pro-
cesso primario5» ed unisce quindi in una combinazione del tutto nuova (processo terziario) i caratteri logici del proces-
so secondario e i caratteri paleologici del processo primario.
Psicologie umanistiche
C. R. Rogers e A. H. Maslow hanno sostenuto anch'essi, come gli psicoanalisti freudiani, che la creatività è legata alla
liberazione di spinte e motivazioni profonde dell'individuo; tuttavia non fanno riferimento all'inconscio, ma al bisogno
di autorealizzazione (self-actualization) dell'uomo cui si oppongono condizionamenti di vario tipo, dalle pressioni so-
ciali alle false difese, agli squilibri di personalità. Sulla stessa linea è Fromm, per il quale i condizionamenti più impor-
tanti che si oppongono all'autorealizzazione individuale sono quelli storico-sociali e politici: l'artista sarebbe uno che in
qualche modo riesce a realizzarsi in un mondo avverso, dando libero sfogo al suo bisogno di affermare il sé senza per
questo rompere l'armonia sociale, anzi facendosi stimare. Sia nella psicoanalisi che nelle psicologie umanistiche è co-
munque evidenziato un dato di fatto: nel soggetto creativo c'è una vivace e ricca interiorità, che di per sé è problemati-
ca, perché contrasta con la passività corrente con cui la gente si adatta alla vita e all'assetto sociale, ma che trova
nell'attività creativa uno spazio di espressione e di legittimazione. Il tratto emotivo più interessante della persona crea-
tiva sembra essere allora proprio la capacità di gestire la propria interiorità, mediando continuamente tra sé e il mon-
do esterno.
Aspetti sociali
Gli studi antropologici mostrano che in tutte le culture, anche le più semplici, sebbene in minor misura che nelle com-
plesse, all'apparire di individui creativi e di atti creativi la civiltà reagisce ponendo freni. Per Weber la modernizzazio-
ne si accompagna al disincantamento del mondo, cioè al fatto che la vita sociale diviene sempre più razionale e preve-
dibile, che trova la sua espressione più evidente nell'avvento della burocrazia. É chiaro che in un mondo dove tutto è
prevedibile e dove si pretende che tutto sia prevedibile c'è poco spazio per la creatività, che invece tende all'originalità
e all'insolito. Marx ha messo in evidenza che col capitalismo e con l'organizzazione industriale del lavoro l'individuo
perde il controllo delle proprie attività, non avendo più modo di seguire per intero i processi lavorativi e di coprire l'in-
tero arco che va dalla progettazione al prodotto finito. D'altra parte, creatività e assetto sociale sono anche in accordo:
in ogni epoca e in ogni popolo le opere creative assumono le forme tipiche di quella cultura; la creatività rispecchia il
clima intellettuale e la vita sociale in cui fiorisce. Tutto fa credere che siano molte le persone potenzialmente creative
che vivono in una data epoca e in una data cultura, ma che solo poche superino il filtro della repressione sociale; que-
ste ultime sono quelle che riescono a interpretare il clima culturale del momento e a mediare tra le proprie istanze rivo-
luzionarie e le tendenze della cultura in cui vivono.
Pensiero creativo e personalità
L'approccio di Sternberg (v. p.17) – che, insieme a quello delle intelligenze multiple di Gardner (v. p.18), considera
l'intelligenza come il risultato di un'interazione sistemica tra fattori di abilità e fattori culturali, pone l'accento non tanto
sulla valutazione dell'intelligenza quanto al suo sviluppo, nonché sui processi più che sui risultati, per cui essi possono
essere usati come stimolo all'apprendimento piuttosto che come misura – è rilevante anche rispetto al problema dei gif-
ted, perché sposta l'attenzione dalle tecniche di identificazione a quelle di insegnamento e suggerisce implicitamente di
usare le procedure di testing collettivo in funzione di un insegnamento adattato a livelli di abilità e agli stili individuali:
infatti si può dire che le politiche culturali ed educative nei confronti dei dotati si fondano più o meno consapevolmen-
te su teorie implicite dell'intelligenza oltre che su scelte di tipo politico. Gli stili di pensiero [v. «Lo stile cognitivo» a
p.83] sono un'interfaccia tra intelligenza e personalità: uno stile non è un'abilità, mala preferenza per un modo di
esprimere o usare un'abilità, che si forma attraverso l'educazione e il successo/insuccesso incontrato da un certo modo
di risolvere i problemi, modo che dipende sia da caratteristiche innate sia dalle risposte ambientali che rinforzano o
scoraggiano certi comportamenti. Ogni sistema di valutazione basato esclusivamente su certi metodi privilegia o pena-
lizza alcuni soggetti, incoraggia o scoraggia erti stili di pensiero: riflette cioè l'ideologia del sistema educativo che li
usa; e l'efficacia dei metodi educativi dipende anche dalla corrispondenza tra lo stile degli insegnanti [v. p.129] e quel-
lo degli allievi. In altri termini, la valutazione dei prodotti creativi è legata al contesto storico-culturale in cui si attua, e
conseguentemente il sistema educativo privilegia i metodi che modellano
l'intelligenza verso forme convenzionali e standard prefissati, oppure
metodi che orientano verso forme individualizzate e ricercano la flessibi-
lità, l'apertura mentale, la capacità di cambiamento.
Chi-yue Chin, Young-Y Hong e Carol Dweck della Columbia Universi-
ty (1994) hanno proposto un modello che cerca di integrare personalità e
intelligenza partendo dall'analogia che si può riscontrare nel funziona-
mento intellettuale e nello sviluppo del sistema di motivazioni e di com-
portamento. Essi descrivono tre livelli (v. tabella). Benché le operazioni
5 Nella teoria psicoanalitica: processo primario = funzionamento mentale operante nell'Es, inconscio, irrazionale, governato dal principio del piace-
re-dolore; processo secondario = funzionamento mentale operante nell'Io, conscio, razionale e logico, governato dal principio della realtà.
Intelligenza Personalità
a) Operazioni mentali di base Processi affettivi e
motivazioni di base
b) Abilità e conoscenze Strutture di personali-
tà, atteggiamenti,
credenze
c) Livelli di comportamento
attualizzato nell'esecuzione,
soluzione di problemi
Comportamento at-
tualizzato in forme
più o meno adattive
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mentali di base si possano distinguere dai processi affettivi e motivazionali al livello più basso, man mano che si sale
verso le conoscenze, le abilità, i comportamenti di adattamento ai diversi compiti richiesti dalle situazioni fisiche e so-
ciali, gli intrecci aumentano e le distinzioni sono quasi impossibili (si pensi per es. al ruolo della perseveranza nell'ese-
cuzione di un compito e all'influenza delle competenze precedenti nelle situazioni sociali).
Creatività, conoscenza e motivazione
La società in generale e la ricerca psicologica hanno attribuito un valore eccessivo agli aspetti intellettuali e dato scarsa
attenzione alle difficoltà che i soggetti dotati e creativi incontrano nell'affrontare le loro inibizioni personali che bloc-
cano la produzione e la diffusione di nuove idee (un'atmosfera di classe e lo stile di insegnamento rigido, la società
dogmatica e conformistica, la comunità scientifica o artistica ancorata a vecchi metodi e paradigmi...). Questi fattori di-
rigono la nostra attenzione verso l'importanza di una forte motivazione intrinseca [v. p.76]che è necessaria per svilup-
pare nuove idee, persistenza nello sforzo che permette di elaborarne passo per passo le implicazioni, di correggere gli
errori possibili, capacità di assumere rischi, di provare la validità di un'ipotesi e di prevedere le conseguenze pratiche e
le implicazioni etiche delle novità. Quali sono le origini del bisogno di conoscenza? Qual è la fonte da cui la corrente
del pensiero nasce e raggiunge il suo impeto, la sua forza, la sua profondità? Oggi sia gli studi etologici sia quelli psi-
cologici hanno dimostrato che il bisogno di conoscenza è una motivazione primaria, radicata nel funzionamento del si-
stema nervoso, che ha bisogno di stimoli e di attività, nella curiosità ed esplorazione dell'ambiente e nel bisogno di
competenza che spinge l'animale e il bambino a esercitare la loro abilità, ad allargare gli schemi d'azione, ad applicarli
a nuove situazioni, a scoprire nuove proprietà delle cose e nuove possibilità di azione. Fondamentale a questo proposi-
to è stato il contributo dello psicologo canadese Berlyne (modello di epistemic behavior, 1950): la situazione comple-
tamente nuova spesso non produce attenzione o addirittura provoca evitamento e paure; ma la situazione in cui soltanto
alcuni elementi sono nuovi produce attivazione del sistema reticolare e di aree corticali che può essere rilevata con me-
todi neurofisiologici e che genera vari tentativi di soluzione del conflitto [v. anche la dissonanza cognitiva]: questi po-
trebbero essere la ristrutturazione, la conciliazione oppure la modifica dell'attrazione di una delle alternative (in ogni
modo, la soluzione del conflitto epistemico è guidata e sostenuta da una motivazione intrinseca che non richiede incen-
tivi esterni). Da un punto di vista differente Piaget (1975) arriva ad un modello simile attraverso l'osservazione analiti-
ca e sistematica di bambini dai 4 ai 18 mesi: egli descrive lo sviluppo dal semplice esercizio di schemi innati attraverso
la variazione e il coordinamento fino alla costruzione di nuovi schemi di azione e pensiero (i sistemi cognitivi sono
sempre in moto, tendono verso l'equilibrio, ma quando lo raggiungono lo rompono e formano nuove organizzazioni,
nuove strutture [v. anche p.33]). Bandura (1977) ha costruito un solido modello che integra diversi fattori di autorego-
lazione della motivazione e dell'azione in un sistema di scopi basato su standard interni [v. p.74]; egli distingue due
larghe classi di motivazioni: una che si sviluppa su basi biologiche, l'altra che si svolge attraverso processi cognitivi:
teoria dell'attribuzione (v. p.75) = le persone che attribuiscono il loro successo alle capacità personali e il loro insuc-
cesso ad un impegno insufficiente sono pronte ad intraprendere compiti più difficili, in cui persisteranno anche se ri-
schiano di affrontare il fallimento; teoria del valore di attesa = la forza della motivazione non è regolata solo dall'atte-
sa di un certo risultato da una certa azione, ma anche e soprattutto dal valore che ha il risultato: più è alto il suo valore,
più alta l'attesa che un certo comportamento può produrre quel risultato e più alta sarà la motivazione ad agire e ad ot-
tenere il successo; teoria degli scopi = scopi che rappresentano una sfida possono sostenere intense motivazioni, ma
essi operano soprattutto attraverso processi di auto-riferimento: una serie di fattori comparativi (standard personali, ge-
nerali ed ideali) regolano la motivazione provvedendo la definizione degli scopi, gli incentivi per l'azione e la valuta-
zione degli effetti (ciò spiegherebbe perché i soggetti ad alta abilità spesso sono motivati nel loro sforzo dalla semplice
conoscenza dei risultati). Ciò è confermato dalle autobiografie di persone creative e anche da studi longitudinali sui do-
tati. Possiamo dire che la relazione conoscenza/motivazione non è causale ma bidirezionale: esperienza e conoscenze
precedenti producono curiosità per altri argomenti, originano nuovi problemi che richiedono nuove tecniche e strate-
gie; questi nuovi sistemi di rappresentazione e metodi permettono di ridurre lacune e contraddizioni dai precedenti
modelli mentali, portando alla costruzione di nuove strutture nel bambino, di nuove teorie nell'adulto; infine l'intero
processo produce nuovi scopi e motivazioni che fanno da mediatori tra l'immagine di sé, le abilità, i risultati delle
azioni.
L’atto creativo
Dalle ricerche (Wallas, 1926 e sviluppi) emerge che in un atto creativo intervengono generalmente quattro (o, secondo
alcuni, cinque) stadi:
- preparazione: presa di coscienza del fatto che un determinato problema merita di essere studiato...
- incubazione: si continua a rimuginare sul tema preso in considerazione o sul problema da risolvere (forse si continua
a livello inconscio, senza il ricorso al tipo di logica che caratterizza il pensiero conscio; un’apparente illogicità che può
dare man forte al pensiero laterale di cui s’è detto).
- illuminazione (o ispirazione o intuizione [v. anche einsicht o insight, p.13]): all’improvviso si affaccia con chiarezza
alla mente la possibile soluzione del problema o un “fiume” di idee per il libro, il quadro...
- verifica (o implementazione; che qualcuno distingue dalla esecuzione): la soluzione intuitiva viene messa alla prova o
le idee emerse vengono sperimentate.
Ciascuno di questi stadi è importante [[vv.. AAppppeennddiiccee 11 bbiiss]].
27
La creatività e la scuola
Identificare la creatività e l'ingegno
Molti sistemi scolastici, purtroppo, mettono insieme le varie categorie di “creativo”, “dotato” e “d’ingegno” in
un’unica etichetta (come “particolarmente dotato”) e forniscono criteri specifici per l’identificazione degli studenti che
appartengono a questo gruppo. Il criterio più usato, senza sorprese, è l’intelligenza espressa sotto forma di QI (130 o
più = particolarmente dotato). Un approccio interessante alla definizione di creatività è dato da Gardner (1983) che
parla di sette tipi di intelligenza non correlati tra loro [v. p.18]. La creatività (o il talento) può aver luogo in uno qual-
siasi di questi campi; esso rappresenta il più alto livello di funzionamento. È dunque possibile essere particolarmente
dotati in un’area ma non in altre. Tale opinione (creatività dominio-specifica) non è condivisa da tutti. Spesso gli inse-
gnanti perdono gli allievi più creativi (si calcola una perdita di ca. il 20%). Un modo per identificare la creatività è
l’uso di test, i più comuni dei quali sono test sul pensiero divergente: prove verbali e non, chiedendo al bambino di
pensare tutti i modi corretti di risolvere un problema; punteggi per la fluidità (numero risposte corrette), l’originalità
(elementi di novità presenti; si confrontano le risposte del bambino con quelle date dal resto della classe), la flessibilità
(varietà di soluzioni; si raggruppano le risposte in categorie differenti, contando il numero di categorie che ogni sog-
getto ha proposto) [v. anche: AAppppeennddiiccee 11].
Creatività in classe
In generale gli adulti creativi, durante l’infanzia, hanno goduto di una ricca varietà di esperienze e sono vissuti in am-
bienti nei quali venivano incoraggiati a fare domande, a mettere alla prova le proprie idee mediante sperimentazioni at-
tive, e a perseguire i propri interessi attraverso passatempi e il perfezionamento di determinate doti e abilità. È dunque
opportuno curare prima di tutto l’approccio generale degli insegnanti al proprio compito. Qualunque sia la materia che
si insegna, attenzione a cogliere le opportunità di incoraggiare il pensiero divergente. Nella scuola tendiamo a premiare
solo le risposte “esatte” e a penalizzare quelle “sbagliate”... Bisogna incoraggiare e premiare lo scatto di immaginazio-
ne, la ricerca di risposte diverse da quelle più conformiste, la disponibilità a correre “rischi cognitivi” (persino
l’insuccesso – dopo la fase di verifica – potrebbe dare origine a nuove idee interessanti). Questo non significa, natu-
ralmente, che non si debba avere alcun riguardo per la scrupolosità e la
precisione. L’allievo divergente è scomodo... Gli insegnanti che hanno per-
sonalmente vasti interessi, che amano farne partecipi gli alunni sia durante
le ore di lezione sia al di fuori, che hanno loro stessi una mente vivace e in-
cline all’esplorazione e al gioco con le idee, e che soprattutto hanno il pia-
cere sia di fare domande sia di ascoltarle, sono probabilmente insegnanti
che riescono a stimolare la creatività nei loro alunni molto più di quanto
non facciano gli insegnanti stereotipati e rigidi. Torrance avanza la propo-
sta che gli insegnanti incoraggino gli alunni a lasciarsi liberamente andare a
congetture del tipo: «Che cosa accadrebbe se...?» o «Che cosa sarebbe ac-
caduto se...?» e insegnino loro che tutti possiedono potenzialità creative
non solo poche persone eccezionali.
Sia Osborn sia Parnes propongono il brainstorming [v. p.14]. Gordon pro-
pone varianti al brainstorming: si tratta di presentare ai partecipanti
l’astrazione di un problema piuttosto che un problema completo e detta-
gliato (es.: invece del problema «parcheggio», si proporrà di discutere di
«come riporre le cose»).
Osborn e Arnold (1957 e 1962) propongono l’analisi morfologica: essa
prevede la divisione di un problema in un certo numero di variabili indi-
pendenti, il pensare a diverse soluzioni potenziali per ognuna di esse e quindi la combinazione dei risultati in tutti i
modi possibili. Un esempio nella figura (problema: «elaborare un nuovo tipo di veicolo»), dove sono evidenziate, tra le
mille possibili, 180 potenziali soluzioni.
Per potenziare gli studenti nella loro creatività, Mayer (1989) propone l’uso di modelli (o mappe) concettuali: si tratta
di una presentazione verbale o grafica designata ad assistere lo studente nell’elaborare una rappresentazione chiara ed
utile di qualsiasi cosa viene studiata. Sono una sorta di organizzatori anticipati (o organizzatori d’approccio) di Ausu-
bel [v. p.63]. Come gli organizzatori d’approccio di Ausubel, i modelli concettuali offrono allo studente importanti
concetti che organizzano l’apprendimento precedente e che forniscono elementi essenziali della struttura cognitiva cui
il nuovo materiale può essere riportato. Mayer descrive un certo numero di caratteristiche di buoni modelli concettuali;
sarà un modello: I) completo, che contiene tutti gli aspetti essenziali di un sistema; II) conciso, che non opprime con i
dettagli, e III) coerente, ha un senso; IV) concreto, affronta eventi e situazioni familiari per lo studente, ma anche V)
concettuale, ha a che fare con idee significative; VI) corretto; VII) cauto, tiene in considerazione la sofisticazione e il
livello di comprensione dello studente. Un miglior apprendimento, suggerisce Papert (1993), non verrà dalla scoperta
di modi migliori di istruire, ma dando allo studente migliori opportunità di costruire.
Molto importante risulta pure il contesto familiare (e il clima di classe): i soggetti più creativi pare provengano spesso
da famiglie molto colte che incoraggiano l’esplorazione, l’indipendenza, il successo e l’ambizione. Anche gli insegnan-
ti dotati di un atteggiamento che riconosca ed incoraggi l’individualità e la creatività degli studenti, e da una cultura
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che gratifichi piuttosto che punire, nonché disponibili ad atteggiamento caldo e ricettivo, possono esser molto utili nel
promuovere la creatività. L’importanza di approcci in cui l’atmosfera sia “aperta” e sgombra da qualsiasi giudizio cri-
tico è stata ulteriormente evidenziata da Davis: a tre gruppi di alunni che dovevano risolvere uno stesso problema, fu-
rono presentati rispettivamente un elenco di esempi specifici risolutivi, un certo numero di strategie generali, una ma-
trice che consentiva di disporre una serie di variabili lungo il primo asse ed un’altra serie lungo il secondo asse, ren-
dendo possibili nuove modalità di combinazione delle variabili; furono i componenti di questo terzo gruppo a proporre
il maggior numero di idee in assoluto, e quelli del primo a proporne il numero minore.
L’insegnante deve guardarsi dalla tentazione di “chiudere” la situazione proponendo costantemente le proprie sintesi o
soluzioni personali; anche al termine di una discussione di classe è bene sottrarsi alla tentazione di proporre sempre i
propri giudizi sulla bontà delle idee che sono state avanzate. È essenziale aiutare gli alunni ad afferrare la distinzione
tra i diversi tipi di pensiero e a saper decidere quale sia quello più opportuno in ogni dato contesto. Spesso le cose che
non riusciamo ad ottenere dagli alunni dipendono non solo dalle loro capacità personali, ma anche dalla nostra abilità
nel formulare domande [v. anche p.12 «Il pensiero come attività strutturante» e p.16 “Migliorare l’intelligenza”, non-
ché come formulare domande, su «Psicologia e scuola» nn. 77-80 e relativi appunti di F. Gatta].
[DV 337-354; F 110-121; L 195, 208-209 e 224-228; A. Bianchi, P. Di Giovanni, La ricerca socio-psicopedagogica, Paravia Bruno Mondadori,
1997-2000, 181-197; G. Crea, G. Guerrieri, Personalità creativa e locus of control in adolescenza, in «Orientamenti pedagogici», LIV, 1, 2007,
pp. 77-90]
Il gioco
Il gioco è un'attività proteiforme, ma l'analisi strutturale rivela alcuni tratti comuni alle varie attività ludiche: improdut-
tività, piacevolezza, spontaneità, stacco dalla routine, tranquillità, regolamentazione unita a libertà d'azione, incertezza,
finzione. Il gioco sfuma nei comportamenti esplorativi da un lato e nello sport dall'altro.
Le finalità del gioco
[V. anche: AAppppeennddiiccee 11] Il gioco sembra avere importanti implicazioni per tutti gli aspetti della vita psicologica del
bambino; dal suo punto di vista, la finalità del gioco è il semplice divertimento. È scorretto che l’insegnante veda
l’infanzia semplicemente come un periodo di preparazione all’età adulta anziché come una fase della vita da gustare in
sé e per sé. Del resto, l’esperienza della contentezza procura benefici sia fisiologici sia psicologici a chiunque la viva.
Se il bambino impara che il gioco è un’esperienza apprezzata dagli adulti, alla quale si può tranquillamente abbandona-
re senza provare costanti sensi di colpa per tutte le altre cose più serie che non fa, egli viene aiutato a sviluppare atteg-
giamenti positivi nei confronti del ruolo dello svago nella vita, atteggiamenti che potranno essergli di giovamento nella
vita (l’individuo sano è colui che è in grado di lavorare, giocare e amare: Allport).
Per Huizinga il declino del gioco nell’età adulta è uno degli elementi più inquietanti della civiltà occidentale.
La natura del gioco
I cuccioli di molte specie animali intraprendono attività che sembrano avere le qualità non serie del gioco. Più la specie
si trova in alto nella cosiddetta scala dell’evoluzione, più queste attività di “gioco” diventano evidenti e intenzionali;
ma in tutte le specie animali, con la sola eccezione di quella umana, il “gioco” consiste soprattutto in un intenso movi-
mento fisico, e in genere è diretto verso i coetanei o verso altri oggetti animati (raramente nell’animale questa forma di
gioco coinvolge oggetti inanimati, e sembra subire evidenti modificazioni nell’arco della crescita). Negli esseri umani,
invece, si osserva che durante il gioco il bambino, via via che cresce, ricorre sempre di più ad oggetti fisici, molti dei
quali rappresentano simbolicamente altri oggetti (ciò evidenzia sia le capacità di manipolazione consentite agli esseri
umani dall’uso delle dita e dei pollici sia la presenza dell’immaginazione); il gioco, inoltre, va incontro a una serie di
cambiamenti visibili, caratterizzati da una crescente complessità (e ciò mette in evidenza lo sviluppo delle capacità co-
gnitive e il crescente uso del linguaggio verbale sia nella comunicazione con gli altri sia nell’attività di pensiero). Il
gioco infantile [R. H. Largo, Primi anni primi passi, RCS Libri (Fabbri) 2005, 187] varia a seconda dell'età, cioè corri-
sponde allo stadio evolutivo del momento. La sequenza di comportamenti ludici è uguale per tutti i bambini; le varie
forme ludiche compaiono però a età diverse e si sviluppano con intensità differente. Durante i primi due anni di vita, il
gioco dei maschietti non è diverso da quello delle femminucce. I bambini giocano per: -allenare comportamenti innati;
-accumulare esperienze riguardo alle caratteristiche fisiche dell'ambiente concreto; -imparare le azioni e l'uso funziona-
le degli oggetti; -acquisire capacità sociali e linguistiche tramite l'imitazione; -scoprire le leggi spaziali, causali e cate-
goriche.
Secondo Piaget: in pochi anni si assiste al passaggio dal gioco a carattere palesemente fisico del bambino piccolo a una
forma di gioco caratterizzata da molti dei processi mentali più complessi che contribuiscono a rendere la specie umana
nettamente diversa dalle altre specie; non solo le crescenti capacità di pensiero del bambino lo aiutano a elaborare me-
todi di gioco più complessi, ma gli stessi metodi di gioco lo aiutano a sviluppare modalità più complesse di pensiero
(nei bambini mentalmente handicappati il gioco purtroppo presenta solo possibilità di evoluzione limitate, e spesso ri-
mane ripetitivo e stereotipato).
Sul piano sociale: si assiste al passaggio dal gioco solitario del bambino piccolissimo al gioco parallelo del bambino
di 3 anni, fino al gioco realmente sociale del bambino di 4 o 5 anni (fino a quando non raggiunge lo stadio del gioco
sociale, il bambino si limita, anche con adulti che intervengono nel gioco, a reagire a questi o ad imitarlo anziché a in-
teragire con lui in quello che si potrebbe definire una compartecipazione ludica).
29
Bühler e Piaget
Secondo Bühler possiamo distinguere quattro categorie principali di gioco: gioco dell’esercizio delle funzioni (appare
per primo, e consiste nell’esercizio di una particolare funzione o capacità); gioco di fantasia (compare di solito nel
corso del secondo anno, ed è caratterizzato da attività di fantasia o di finzione in cui il bambino assegna a se stesso o
agli oggetti con cui gioca un ruolo particolare); gioco ricettivo (compare poco dopo o nello stesso periodo del prece-
dente, e consiste nell’ascolto di racconti o nell’osservazione di storie illustrate [attività ludiformi]); gioco della costru-
zione (compare in genere entro la fine del secondo anno, e consiste nel giocare con mattoncini, nel disegnare, e nel
giocare con la sabbia e altri materiali naturali). A queste va aggiunta una quinta categoria: il gioco con regole (compa-
re negli anni della scuola materna, ed è basato su delle regole precise - games - che tutti devono osservare6). Le prime
quattro forme di gioco tendono a raggiungere la loro massima intensità verso i 7-8 anni di età e in seguito perdono gra-
dualmente importanza; l‘ultima forma, invece, assume un’importanza crescente, e sotto la forma dello “sport” può an-
che diventare un interesse che dura per tutta la vita. Ma con l’avvento della competizione, progressivamente sempre
più presente, il gioco perde alcune delle sue caratteristiche non serie, e consapevolmente finisce per svolgere funzioni
psicologiche diverse da quella edonistica. Ricordiamo che Piaget distingue le seguenti forme di gioco: gioco
d’esercizio (compare da subito, e ricorda l’analoga forma indicata da Bühler: «Consiste nel ripetere per puro diverti-
mento delle attività acquisite altrove a scopo d’adattamento»), simbolico (rimanda al bühleriano gioco di fantasia, tutto
incentrato sulla finzione, sull’utilizzo di simboli, appunto: «È … indispensabile al suo equilibrio affettivo e intellettuale
ch’egli [il bambino] possa disporre di un settore d’attività la cui motivazione non sia l’adattamento al reale, ma al con-
trario l’assimilazione del reale all’io, senza costrizioni ne sanzioni … È dunque in dispensabile che il bambino possa
disporre ugualmente d’un proprio mezzo d’espressione, cioè d’un sistema di significanti costruiti da lui e docili ai suoi
voleri … trova il suo apogeo tra i 2-3 e 5-6 anni»), con regole (di cui s’è detto poco sopra: «si trasmettono socialmente
da bimbo a bimbo e aumentano quindi d’importanza con il progresso della vita sociale infantile») e di costruzione (da
Piaget, invero, poco citato, ma rintracciabile, esso pure, nella classificazione bühleriana: «inizialmente ancora impre-
gnati di simbolismo ludico, ma che tendono in seguito a costruire veri e propri adattamenti – costruzioni meccaniche,
ecc. – o soluzioni di problemi e creazioni intelligenti» [v. J. Piaget e B. Inhelder, La psicologia del bambino, Einaudi
1970, 56-57. Altre classificazioni di gioco sono in: AAppppeennddiiccee 22 e 22 bbiiss]).
Problemi, definizioni e teorie
Il gioco non è soltanto un modo per conoscere il mondo, ma è anche una forma di comunicazione, di esperienza emo-
tiva, di azione trasformativa sulla realtà; tuttavia, le nostre conoscenze su di esso sono ancora lacunose, anche perché
l'interesse degli studiosi per questo aspetto dello sviluppo infantile sembra essersi arrestato intorno alla fine degli anni
Ottanta.
Caratteristiche descrittive
Rubin, Fein e Vanderberg (1983) propongono una definizione di gioco basata su tre diversi caratteri distintivi: il gioco
può essere inteso: I) come una disposizione psicologica, II) come un insieme di comportamenti osservabili, III) come
un contesto all'interno del quale osservare il verificarsi di particolari fenomeni. I) Sono sei le componenti di questa de-
finizione di gioco: motivazione intrinseca (si gioca per il piacere di farlo); priorità dei mezzi sul fine (il procedimento è
più importante del risultato; spesso vi è addirittura più piacere nella fase preparatoria che non nell'esecuzione; il gioco
mette al riparo dalle frustrazioni); dominanza dell'individuo rispetto alla realtà esterna (nei comportamenti esploratori
la domanda è «che cos'è quest'oggetto?», nel gioco invece è «che cosa posso fare io con quest'oggetto?»; sia per il
bambino sia per i cuccioli di altre specie animali il gioco può verificarsi quando le condizioni ambientali sono benevo-
le e supportive, mentre è raro osservarlo in situazioni che provocano insicurezza o ansia); non letteralità (il bambino
può esplorare nuovi possibili significati trattando gli oggetti come se fossero qualcosa d'altro; la non letteralità dell'a-
zione non è data una volta per tutte, ma è oggetto di continue verifiche e negoziazioni: i bambini sono ben consapevoli
di muoversi in una zona dai confini molto labili); libertà dai vincoli (le regole, quando ci sono, non sono già date ma
vengono negoziate); coinvolgimento attivo (in linea generale, ogni tipo di gioco richiede un impegno da parte del gio-
catore, anche se di livello variabile; il gioco è "attivo", a differenza dell'ozio, del fantasticare o del ciondolare). II) J.
Piaget (1945; da Bühler: v. sopra) classifica i giochi secondo uno schema evolutivo, con forme accomunate dal proces-
so sottostante dell'assimilazione [v. p.33]: gioco d'esercizio, simbolico, con regole; C. Garvey (1977) fa riferimento ai
"materiali": giochi con oggetti, con le parole, con materiali sociali; Hutt (1979): distingue tra esplorazione (compor-
tamento epistemico) e gioco (comportamento ludico, simbolico-creativo o ripetitivo; con la crescita del bambino, il
tempo dedicato all'esplorazione diminuisce e aumenta il tempo di gioco); Belsky e Most (1981) superano il precedente
schema dicotomico con modelli che includono in un'unica sequenza evolutiva entrambe le attività: attività con gli og-
getti (1. esplorazione orale; 2. manipolazione semplice: manipola per almeno 5" controllando visivamente; 3. manipo-
lazione funzionale: manipola in modo appropriato e specifico in funzione delle caratteristiche degli oggetti; 4. manipo-
lazione relazionale: mette insieme due oggetti in modo inappropriato; 5. manipolazione funzionale/relazionale: mette
insieme due oggetti in modo appropriato; 6. denominazione rappresentativa: mete in atto comportamenti per finta in-
completi; 7. attività di finzione rivolta verso sé stesso: compie azioni per finta rivolte verso la propria persona; 8. atti-
6 Ecco come Piaget descrive la comprensione e l’uso delle regole da parte dei bambini: prima dei 3 anni = nessuna comprensione delle regole (non
giocano secondo delle regole); 5 anni ca. = credono che le regole provengano da Dio (o da qualche altra autorità) e non possano essere modificate
(non cambiano le regole, aderiscono rigidamente ad esse); 11-12 anni = comprendono la natura sociale delle regole e che possono essere cambiate
(infrangono e cambiano le regole continuamente); dopo gli 11-12 anni = completano la comprensione delle regole (cambiano le regole in base ad
un consenso reciproco).
30
vità di finzione verso gli altri: compie azioni per finta rivolte verso altre persone; 9. sostituzione: usa gli oggetti in mo-
do originale e creativo; 10. sequenze di attività di finzione: ripete azioni per finta con piccole variazioni; 11. sostitu-
zione in sequenze di attività di finzione: ripete azioni per finta inserendo delle sostituzioni simboliche nella sequenza;
12. doppia sostituzione: trasforma simbolicamente due oggetti nell'ambito della stessa azione); considerazione della
complessità cognitiva, del parametro della socialità, del grado di condivisione sociale. III) Il gioco è stato interpretato
come contesto (che non è fattore esterno al gioco, ma ne costituisce una componente intrinseca) in un duplice senso: a)
come situazione all'interno della quale leggere specifici fenomeni (ad es. particolari processi cognitivi o competenze
sociali); b) in rapporto alle circostanze nell'ambito delle quali le condotte ludiche hanno luogo (l'attenzione viene foca-
lizzata sulle condizioni in cui il gioco si verifica, assumendo che tali condizioni esercitino effetti decisivi sui compor-
tamenti di gioco di cui è necessario tenere conto).
Alcune teorie
«Al pari di altri fenomeni quali l'intelligenza, il linguaggio, l'aggressività o l'altruismo, il gioco può essere definito più
facilmente a livello comportamentale che non teoretico» (Rubin et alii).
Jean Piaget (1945) colloca il gioco nella teoria dello sviluppo cognitivo e più precisamente nel processo di "formazio-
ne del simbolo" = tramite il gioco i bambini fanno pratica di un'attività mentale che consiste nel creare simboli per
evocare eventi o situazioni non presenti nella realtà; è governato dall'assimilazione; svolge nello sviluppo due funzioni:
a) serve a consolidare capacità già acquisite attraverso la ripetizione e l'esercizio; b) rafforza nel bambino il sentimento
di poter agire efficacemente sulla realtà. Lev Vygotskij (1966) considera limitante una visione del gioco in termini es-
senzialmente cognitivi e rivolge la propria attenzione agli affetti, alle motivazioni e alle circostanze interpersonali che
vi sono all'origine = nel passaggio dall'infanzia all'età prescolare, il gioco permette al bambino di affrontare la tensione
tra i suoi desideri e l'impossibilità di soddisfarli immediatamente (rappresenta dunque una risposta originale a bisogni
non soddisfatti); le cose perdono il loro potere vincolante, giocando è possibile emanciparsi dalle costrizioni situazio-
nali giacché «nel gioco il pensiero è separato dagli oggetti e l'azione nasce dalle idee più che dalle cose», esso rappre-
senta dunque una fase di transizione nel processo di separazione del significato dall'oggetto reale; dal punto di vista
delle funzioni evolutive, collocandosi nell'ambito del possibile, apre una zona di sviluppo prossimale [v. p.37]: gio-
cando, un bambino «si comporta sempre al di sopra del suo comportamento quotidiano» perché «il gioco contiene tutte
le tendenze evolutive in forma condensata ed è esso stesso una fonte principale di sviluppo»; il gioco per il bambino
piccolo, così come per l'adolescente, è un'attività "seria" e tale serietà o verità consiste per entrambi nei nuovi rapporti
che vengono creati tra le situazioni nel pensiero e le situazioni reali. Donald Winnicot (1971), che parla di bambini
"perduti" nel gioco e definisce lo spazio-tempo del giocare «un'area che non può essere facilmente lasciata e che non
ammette intrusioni», approda al gioco attraverso lo studio degli oggetti transizionali7 = questi si collocano, così come
il gioco, in un'area intermedia di esperienza, reale per il bambino, che non deve essere messa in dubbio dagli adulti e
che nasce dal bisogno di conciliare il mondo interno con i vincoli della realtà esterna; fin dalla nascita l'essere umano è
impegnato in questa impresa: le risposte vengono cercate nel gioco, nella creatività, nella cultura, attività che si trova-
no in un campo di esperienza, quello dell'illusione, che non è interno né esterno al soggetto, ma nasce da una relazione
di fiducia tra il bambino e la madre (quando l'esperienza del bambino nei primi mesi di vita è stata rassicurante e quan-
do egli ha dentro di sé l'amore materno, può iniziare a sperimentare il distacco e attraverso il gioco può fare esperienza
della propria capacità di creare autonomamente). George Mead (1934), fa riferimento in particolare al gioco simbolico
e ai processi di assunzione di ruolo (che non sono altro che un modo per immaginare sé stesso come se fosse un altro)
= giocando, il bambino si confronta con gli altri e identifica le differenze e le somiglianze; due sono i processi socio-
cognitivi implicati: assunzione di ruolo (riguarda l'azione) e assunzione di prospettiva (consiste nel vedere le cose dal
punto di vista del personaggio immaginario di cui si è assunto il ruolo); si viene a creare un processo di azione e rea-
zione attraverso il quale si consolidano le nozioni di Sé (che rappresenta il centro delle diverse prospettive e la funzio-
ne che svolge è quella di dare senso ai diversi ruoli e agli scenari immaginari che si vengono a creare; [v. p.89]) a di
Altro. Gregory Bateson (1972) individua nel gioco una specie di palestra per l'esercizio delle abilità metacomunicative
= tutto quello che viene detto o fatto nell'ambito del contesto "questo è un gioco" assume un significato non letterale
che consiste nel comunicare su qualcosa che non esiste (lo stesso paradosso si può rintracciare nella minaccia, nell'in-
ganno, nel comportamento istrionico): il giocatore, come l'attore o l'ingannatore, si muovono in una "zona crepuscola-
re" in cui si incontrano fenomeni molto diversi tra loro quali il gioco, l'arte, la magia, la religione. Bruner, Jolly e Sylva
(1976) hanno esaminato il rapporto tra il gioco e le strategie di soluzione dei problemi [v. p.12] = le attività strutturate
presentano un grado maggiore di complessità cognitiva e possono essere efficacemente proposte ai bambini al fine di
motivarli alla ricerca e all'esercizio di strategie di soluzione dei problemi; invece le attività meno strutturate, quali la
manipolazione o la lotta per finta, richiedono abilità sociali quali la coordinazione dei ruoli e l'alternanza dei turni e
sono quindi più indicate al fine di rafforzare la competenza sociale.
Il gioco e l’apprendimento
Per il bambino di età prescolare non esiste una vera differenza tra il gioco e ciò che l’adulto potrebbe considerare lavo-
ro; è solamente quando diventa più grande e comincia ad associare certi tipi di attività a certi tipi di ricompensa che
comincia a vedere l’azione compiuta in un dato momento come qualcosa che ha fatto non tanto in vista di una gratifi-
cazione immediata quanto per procurarsi benefici futuri. Sono ormai molti gli studiosi secondo i quali il gioco rappre-
7 Fazzoletti, lembi di lenzuolino, peluche, ecc., che permettono al bambino di affrontare i sentimenti di ansia, connessi alla separazione, e vissuti in
alcune situazioni particolari, ad es. nel momento di addormentarsi.
31
senta semplicemente il metodo di apprendimento del bambino; ritengono di aver individuato quello che si potrebbe de-
finire un impulso del gioco e vedono questo impulso, insieme all’impulso della fame e ad altri impulsi finalizzati alla
sopravvivenza, come il meccanismo innato che porta i bambini ad interagire con l’ambiente circostante e ad imparare
per questa via il modo in cui funziona l’ambiente. Certo, almeno nei primi mesi di vita il gioco sembra proprio
un’attività innata. Il gioco, inoltre, è chiaramente un forte promotore di attività, e in questo senso pone il bambino in
una posizione tale per cui è facile che un apprendimento abbia luogo. Come segnala Piaget, il gioco può anche aiutare
il bambino a sviluppare forme più complesse di pensiero quando egli comincia a sforzarsi di riflettere sul modo in cui
le cose si comportano mentre interagiscono con lui, e per di più può essere uno stimolatore di apprendimento sociale a
mano a mano che il bambino arriva a scoprire che cosa sia accettabile e che cosa non lo sia per le persone con cui gio-
ca. Più sono numerose le opportunità che vengono offerte al bambino nel corso del gioco, più è probabile che abbia
luogo un apprendimento di cose nuove; un ambiente stimolante è ideale, in questo senso (ricco di oggetti naturali - ma
non pericolosi - che il bambino possa esplorare, smontare e rimontare a suo piacimento e utilizzare in modo fantasioso,
materiali naturali da poter mescolare, plasmare e versare senza timore; magari con un genitore che provi piacere a stare
in compagnia del bambino e che si diverta realmente a sedersi sul pavimento accanto al figlio e a rientrare in un mondo
magico che un tempo era familiare anche a lui!) [v. anche M. Francipane (cur), La scuola in gioco, IRRSAE Lombar-
dia, Milano 1993, passim].
Nei programmi scolastici: alla scuola materna (e in buona parte anche al primo ciclo delle elementari) il gioco dovreb-
be essere la componente principale, con l’obiettivo di offrire ai bambini il tipo di esperienze che possano al tempo
stesso promuovere forme auspicabili di apprendimento (sia cognitivo sia sociale). In certi casi sarà l’insegnante a dare
inizio a particolari attività, mentre in altri casi si limiterà ad osservare le attività che i bambini hanno scelto; è impor-
tante che l’insegnante incoraggi i bambini a verbalizzare quanto stanno facendo.
Strutturare il gioco dei bambini: secondo una certa scuola di pensiero, nel caso di bambini piccolissimi il gioco deve
rimanere libero e spontaneo, mentre il compito dell’insegnante è di fornire un arco di possibilità tra le quali il bambino
possa scegliere a seconda delle sue inclinazioni e del suo livello di sviluppo; secondo un’altra scuola di pensiero, inve-
ce, mediante l’introduzione di un elemento di strutturazione nel gioco (purché non troppo invadente), l’insegnante ren-
de l’apprendimento dei bambini meno casuale e pertanto più efficiente. Ovviamente, a mano a mano che il bambino
cresce diminuisce l’importanza data al gioco: alcuni sostengono che si tratta di una cosa negativa, e che l’ideale sareb-
be non fare troppa distinzione tra lavoro e gioco per tutta la vita; ma persino riguardo alla scuola materna la linea che
attualmente sembra riscuotere i maggiori consensi è quella orientata a un aumento del grado di strutturazione delle at-
tività e all’utilizzo di materiali ludici strutturati già pronti e reperibili in commercio concepiti per l’apprendimento di
svariate abilità importanti per l’infanzia; purché non si perda di vista l’intrinseco valore del gioco come esperienza che
rende felice il bambino e il bisogno del bambino di avere libertà di scelta e di iniziativa in buona parte delle cose che
fa. L’insegnante può apprendere a sua volta dall’osservazione del modo in cui il bambino reagisce alle esperienze ludi-
che (eventuale presenza di segni di ritardo; capacità di distinguere e classificare oggetti in base a diversi parametri; ca-
pacità di riconoscere oggetti e simboli familiari; di individuare nessi tra causa ed effetto; di utilizzare e modificare le
conoscenze già acquisite ai fini della soluzione di nuovi problemi; di acquisire le capacità di manipolazione essenzia-
li...); è altrettanto importante che l’insegnante riesca a farsi un’idea della personalità del bambino e del suo livello di
sviluppo sociale (di più difficile interpretazione è l’uso dei ruoli da parte del bambino quando è impegnato nel gioco in
famiglia).
Nei ragazzi più grandi: l’accento è sui giochi con regole (games), piuttosto che sul gioco libero e spontaneo (play). I
giochi con regole favoriscono l’apprendimento in molte materie scolastiche, ed anche nel mondo del lavoro e
dell’industria (apprendimento di tecniche di gestione aziendale) [v. AAppppeennddiiccee 33].
Ciò che si riesce ad insegnare e ad apprendere nell’ambiente artificiale della classe è piuttosto limitato: grazie all’uso
di giochi attentamente organizzati e pianificati, si riesce a mettere in grado i ragazzi di cogliere la concreta e diretta at-
tinenza di quanto vanno imparando con i problemi che dovranno risolvere nella loro futura attività lavorativa, con i
compiti che devono affrontare nella vita sociale di ogni giorno, o con i problemi ai quali devono far fronte la società e
la civiltà occidentale nel loro complesso. La situazione in cui sono maggiori le probabilità che l’apprendimento si rea-
lizzi è quella in cui l’alunno è in grado di verificare l’applicabilità immediata delle cose che sta imparando, o perché
riesce a utilizzarle concretamente o perché può metterle in relazione con i problemi che ha già riconosciuto importanti.
Lo sport
Siamo di fronte ad un evidente declino del gioco nella società moderna, e molto dubbi sono i valori che muovono gran
parte del mondo dello sport organizzato.
[F 29-38; E.Baumgartner, Il gioco dei bambini, Carocci 2002, passim]
32
Lo sviluppo cognitivo, affettivo, sociale e morale
Accrescimento somatico e sviluppo motorio
[[ vv.. AAppppeennddiiccee 00]]
Lo sviluppo cognitivo
La dinamica dello sviluppo
Gran parte degli insuccessi didattici deriva dal fatto che si esigono dai bambini strutture di pensiero che essi non sono
in grado di organizzare [F,43]. L’insegnante deve conoscere le funzioni mentali più rilevanti; ma anche le fasi attraver-
so le quali esse si sviluppano. Ci si riferisce in particolare allo sviluppo del pensiero come attività strutturante, e più
specificamente allo sviluppo delle capacità mentali di base, grazie alle quali il pensiero costruisce schemi di elabora-
zione e organizzazione delle informazioni. Le conoscenze specifiche relative alle singole discipline divengono accessi-
bili quando le capacità mentali di base, e gli schemi di strutturazione a cui esse danno origine, si sono ormai sviluppate
(conoscenze più o meno numerose a seconda delle esperienze culturali che la famiglia e la scuola offrono, delle osser-
vazioni che il bambino ha modo di compiere, delle conversazioni che ascolta o alle quali partecipa, dei libri che leg-
ge...). Le posizioni teoriche pongono l’accento: - sul ruolo che la maturazione avrebbe nel rendere via via più esplicite
certe potenzialità già tutte iscritte nel nostro patrimonio ereditario; - sul ruolo che giocherebbe l’ambiente, esercitando
sull’organismo e sulla sua componente psicologica una sorta di progressivo modellamento; - sembra più aderente ai
fatti osservabili una posizione intermedia, interazionista (Piaget, completabile con Vygotskij) [Ma: v. gli studi più re-
centi su Piaget, e il Piaget degli ultimi anni: la conoscenza non è né preformata nel soggetto (apriorismo o innatismo),
né fissata nel reale da cui ricavarla (empirismo), né un’entità trascendentale (realismo trascendentale), ma una costru-
zione (costruttivismo) dovuta ai processi di astrazione che il soggetto compie non tanto sugli oggetti quanto piuttosto
sulle azioni e coordinazioni di azioni, fino ad assumere come oggetto la stessa attività cognitiva (astrazione riflettente):
v. «Vygotskij, Piaget, Bruner» cit., p.7; v. anche la psicologia culturale dell’ultimo Bruner, che fa tesoro – fra gli altri
– di Vygotskij; Pe,101-102].
Una linea ascendente con tre momenti di crisi
Lo sviluppo del pensiero come attività strutturante è rappresentabile schematicamente come nella figura. La linea
ascendente non è retta: i tratti più ripidi sono momenti di crisi (passaggio da un certo piano dell’attività mentale ad uno
superiore, grazie alla comparsa di una capacità nuova e di carattere molto generale); i tratti di crescita lenta rappresen-
tano periodi durante i quali la capacità nuova si consolida, e viene anche utilizzata in modo sempre più ampio per ac-
quisire ed organizzare le conoscenze. Ogni periodo va collocato nel quadro comples-
sivo dello sviluppo psicologico [Pe,115-117].
L’opera di Piaget
In oltre trenta libri e centinaia di articoli, Piaget (1896-1980) studiò la formazione
dei concetti da parte del bambino con una teoria essenzialmente «dello sviluppo»: i
bambini sviluppano modalità di pensiero via via più complesse in conseguenza so-
prattutto della maturazione, e secondo sia un modello fisso sia un “programma” più o
meno stabile. Egli si avvicinò allo studio dei bambini ponendosi le domande base di un biologo evolutivo (quali carat-
teristiche dell’organismo consentono di adattarsi al proprio ambiente, quale il modo più preciso ed utile di classificare
gli organismi viventi…) [F,43-44; L,62-63]. [v. Dazzi, Vetrone, p.327s]
Metodologia delle ricerche
Nelle sue ricerche, utilizzò in particolare tre diversi metodi, spesso adottando procedure sperimentali del tutto o in par-
te originali: l’osservazione guidata, osservazione molto attiva e partecipe, praticamente quotidiana, del comportamento
dei suoi tre figli, predisponendo la situazione sperimentale e modificandola in funzione delle proprie ipotesi e delle ri-
sposte dei bambini; il metodo clinico, conversando con i bambini a partire da domande formulate spontaneamente da
loro stessi, seguendo quindi il loro pensiero, senza forzarlo, ma allo stesso tempo conducendolo verso i nuclei proble-
matici che interessano (clinico per le analogie con i colloqui clinici condotti dagli psichiatri o dagli psicanalisti con i
loro pazienti); il metodo critico, ponendo il bambino di fronte a una situazione sperimentale basata sull’utilizzo di ma-
teriali e oggetti ed invitandolo a manipolarli o a utilizzarli direttamente seguendo le istruzioni date dallo sperimentatore
(critico perché gli esperimenti presentano sempre uno sviluppo e un’articolazione interna, e culminano in una fase “cri-
tica”, che il soggetto può affrontare in modi diversi, a seconda del suo livello di sviluppo) [v. «Vygotskij, Piaget, Bru-
ner» cit., pp.132-143].
Caratteristiche del neonato
Probabilmente il bambino non pensa nel senso in cui normalmente definiamo questi termini. Non ha un magazzino di
ricordi, una base di informazioni sulle quali e con le quali pensare. Ciò che ha questa piccola macchina sensoriale sono
le caratteristiche necessarie per acquisire informazioni. Il bambino, dice Flavell (1985), deve essere predisposto ad
elaborare una quantità straordinaria di informazioni, deve essere un sistema soprattutto motivato intrinsecamente (v.
p.72); deve essere programmato per focalizzarsi sugli aspetti più informativi dell’ambiente (deve quindi rispondere in
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maniera più forte alle novità, alle sorprese e alle incongruenze, cercando l’inaspettato). Secondo Piaget il neonato è un
sistema così fatto: esso cerca continuamente e risponde alle stimolazioni, e nel far questo costruisce gradualmente un
repertorio di comportamenti e capacità. Inizialmente il sistema è limitato ad un certo numero di semplici comportamen-
ti riflessivi; rapidamente, tuttavia, questi comportamenti diventano sempre più complessi, sempre più coordinati, ed al-
la fine finalizzati [L,63].
Invarianti-funzionali
Secondo Piaget è necessario distinguere aspetti funzionali e strutturali. Il funzionamento cognitivo definisce il nucleo
essenziale e invariante del comportamento intelligente. Si tratta di un processo organizzato e attivo, le cui caratteristi-
che rimangono identiche a tutte le età, pur applicandosi a contenuti fra loro diversissimi; l’esistenza di strutture cogni-
tive è ipotizzata da Piaget come il risultato di tale funzionamento. Alla nascita il bambino non possiede strutture cogni-
tive preformate, ma semmai modalità di funzionamento intellettivo, peculiari e immutabili nel corso dell’esistenza. So-
no queste che, regolando il rapporto fra il bambino e l’ambiente, permettono la progressiva costituzione di una grande
varietà di strutture cognitive. Le più importanti modalità di funzionamento (che Piaget chiama, appunto, invarianti fun-
zionali) sono conosciuti come accomodamento e assimilazione (che realizzano l’adattamento) e organizzazione (modo
in cui gli atti cognitivi vengono raggruppati e disposti così da formare sequenze o schemi), caratteristiche distintive
non solo del funzionamento intelligente, ma del funzionamento biologico in generale di qualsiasi essere vivente [v.
«Vygotskij, Piaget, Bruner» cit., pp.143-144. F,49-50].
Schema
Struttura mentale unitaria, nell’ambito della quale certi elementi di carattere percettivo, o motorio, o cognitivo, sono
saldamente connessi fra loro, nel senso che alcuni di essi ne richiamano, o sono collegati, con altri in un modo ben de-
finito; gli schemi sono strutture flessibili, che possono modificarsi, o duplicarsi, per l’azione esercitata dagli elementi
di novità.
Assimilazione
Sinonimo di generalizzazione di uno schema a realtà nuove e un po’ diverse da quella (o da quelle) con cui esso viene
abitualmente impiegato.
Accomodamento
Lo schema si sdoppia, nel senso che accanto ad uno vecchio, che resta valido per casi in cui esso risulta idoneo, se ne
forma uno nuovo, valido per situazioni diverse.
Equilibrio dinamico
Assimilazione e accomodamento non esistono, in realtà, come atti distinti l’uno dall’altro: «L’accomodamento delle
strutture mentali alla realtà implica l’esistenza di schemi assimilatori… E, inversamente, la costituzione degli schemi
da parte dell’assimilazione implica l’utilizzazione delle realtà esteriori alle quali è necessario accomodarsi…
L’assimilazione e l’accomodamento sono dunque i due poli di un’interazione tra l’organismo e l’ambiente» (v. «La co-
struzione del reale nel bambino» di J. Piaget, La Nuova Italia, p.398). Il meccanismo dello sviluppo, psicomotorio e
cognitivo, può essere dunque descritto come un equilibrio dinamico fra i due processi fondamentali dell’assimilazione
(della realtà a schemi già posseduti) e dell’accomodamento (di tali schemi ad aspetti nuovi che la realtà presenta);
l’equilibrio è «dinamico» nel senso che spesso si rompe per ricostruirsi ad un livello più elevato, caratterizzato da un
migliore adattamento dell’organismo alla realtà, fondato su un maggior numero di «schemi», adatti alle diverse situa-
zioni [v. «Vygotskij, Piaget, Bruner» cit., p.148; Pe,102-105].
Gli elementi che consentono di formare e manipolare i concetti si modificano
Secondo la teoria di Piaget, ciò accade mano a mano che dall’infanzia si procede verso l’adolescenza. Il pensiero del
bambino non è dunque una versione immatura del pensiero adulto, ma se ne differenzia per aspetti sostanziali e impor-
tanti; questi aspetti posso essere classificati secondo i vari stadi attraverso cui il bambino presumibilmente passa lungo
la strada che dalle modalità di pensiero del bambino piccolo porta a quelle dell’adulto pienamente sviluppato. La velo-
cità di passaggio da uno stadio all’altro, per quanto influenzata dall’ambiente e dalla ricchezza o meno delle esperienze
che esso offre, è fondamentalmente governata dai processi maturativi determinati da fattori biologici. Ciascuno di que-
sti stadi si caratterizza per una determinata struttura cognitiva (o più strutture), ossia per la particolare strategia (o più
strategie) adottata dal bambino nel suo sforzo di organizzare l’esperienza e di comprenderla [F,43-44].
Il concetto di stadio
Nasce in psicologia alla fine dell’Ottocento, come tentativo di trasferire le concezioni embriologiche, neurologiche e
antropologiche dell’epoca ad un campo ancora privo di bagaglio empirico o sperimentale su cui basarsi. I primi model-
li di sviluppo sono quelli di Romanes (1889), Baldwin (1895 e 1915), Sechenov (1935).
La posizione di Piaget al riguardo è la seguente: per poter parlare di stadio devono essere rispettati i seguenti criteri: 1.
gerarchizzazione: l’ordine con il quale si succedono i diversi stadi deve essere costante ed invariante (il che non de-
termina l’età alla quale avviene il passaggio da uno stadio al successivo, né esclude accelerazioni o ritardi dovuti ad in-
fluenze ambientali) 2. integrazione: il passaggio da uno stadio al successivo comporta sempre un’integrazione gerar-
chica (ciò avviene come risultato di due processi: la ristrutturazione, in cui i contenuti di conoscenza o le operazioni
vengono ristrutturati per funzionare a un livello superiore più differenziato, e la coordinazione, dove l’operazione men-
tale acquisita viene gradualmente applicata a campi diversi conducendo a un’integrazione dei contenuti concettuali
stessi) 3. strutture d’insieme e non aspetti isolati: le azioni o le operazioni di un dato stadio non sono semplicemente
aggiunte a quelle dello stadio precedente, ma vengono organicamente interconnesse in strutture unitarie, caratterizzate
da legami di interdipendenza reciproca (l’apparizione di una struttura d’insieme di un determinato stadio dovrebbe
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quindi permettere di generalizzare un comportamento o un’operazione particolare a tutti i comportamenti o le opera-
zioni dello stesso tipo) 4. consolidamento: in ogni periodo o stadio si possono enucleare due momenti distinti e succes-
sivi, il primo in cui vengono acquisiti i nuovi comportamenti; il secondo in cui vi è il pieno raggiungimento dello sta-
dio, comprensivo della preparazione per i comportamenti e le operazioni dello stadio successivo (si spiegano così i dé-
calages) 5. equilibrazione: la successione degli stadi si caratterizza fondamentalmente per una successione di livelli
diversi di equilibrio fra l’assimilazione e l’accomodamento (sviluppo come transizione fra successivi livelli di equili-
brio: l’equilibrazione è un fattore interno al soggetto, che gli permette di compensare le modificazioni della realtà
esterna attraverso regolazioni del proprio comportamento) [v. «Vygotskij, Piaget, Bruner» cit., p.148; Pe,160-163].
Stadio 1. Intelligenza sensomotoria (approssimativamente dalla nascita ai 2 anni)
È la forma di comportamento più semplice e primitiva [per la suddivisione in sotto-stadi: AAppppeennddiiccee 11].
Prime settimane di vita: l’attività del bambino sembra avere puramente la caratteristica del riflesso (non si manifesta
alcuna attività di pensiero). Nei primi tempi questi riflessi hanno per oggetto il corpo stesso del bambino. In seguito (4-
8 mesi): questi riflessi sono sempre più determinati anche da oggetti esterni (interviene un elemento finalistico; il bam-
bino sembra utilizzare sequenze di movimenti volti al raggiungimento di scopi precisi - schemi, che proverebbero la
presenza nel bambino di strutture cognitive che gli consentono di collegare le azioni tra loro in unità stabili e ripetibili -
). Tra i 12 e i 18 mesi: questi schemi diventano sempre più complessi.
Durante questo periodo: gli schemi utilizzati dal bambino consistono principalmente in reazioni circolari (ripetizioni
di un’azione originariamente eseguita per caso che ha prodotto risultati piacevoli o interessanti): primarie (periodo ini-
ziale, con scoperta e riproduzione di azioni compiute sul proprio corpo), secondarie (quando il bambino inizia
un’attività più complessa, esercitando azioni anche sull’ambiente esterno) e terziarie (quando l’attività diventa anche
intenzionale e si assiste ad originali sperimentazioni). Le reazioni del bambino continuano ad avere un evidente carat-
tere fisico (non pensa ad una data azione, ma si limita a compierla). Il bambino è ora in grado di inventare nuove con-
dotte, non solo di scoprirle; e non procede più soltanto per tentativi a carattere sensomotorio, ma attraverso una vera e
propria rappresentazione (connessione fra significanti e significati: funzione simbolica o semiotica, grazie al quale il
bambino apprende l’uso di indici, segni e simboli [v. p.3]) della situazione. L’intelligenza è ormai prossima a impadro-
nirsi del linguaggio.
Grazie all’imitazione, il bambino impara i luoghi (imitando i movimenti delle altre persone e seguendole), i compor-
tamenti sociali e familiari (copiando i comportamenti di coetanei ed adulti), nuovi comportamenti sociali (come il lin-
guaggio, osservandolo gli altri).
Stadio 2. Il pensiero pre-operatorio (approssimativamente dai 2 ai 7 anni)
Lo sviluppo cognitivo è sempre più dominato dall’emergere dell’attività simbolica (si apre la possibilità di interiorizza-
re le azioni; gioco simbolico [v. p.29]). Con lo sviluppo delle capacità linguistiche i bambini entrano in possesso anche
di quelli che Piaget chiama segni (per Piaget la distinzione tra simboli e segni è importante: il bambino è in grado di
utilizzare i simboli – che sono motivati – prima dei segni – che sono invece arbitrari –; pertanto non dobbiamo consi-
derare equivalenti lo sviluppo dell’attività simbolica e quella del linguaggio verbale, anche se è vero che le due cose
tendono a collegarsi sempre più via via che il bambino cresce).
Sotto-stadio pre-concettuale (2-4 anni ca.): il bambino non sa formare correttamente concetti generali (non è in grado
di individuare classi di oggetti in modo corretto, e neppure di trarre inferenze transitive, come ad es.: A>B e
B>C:allora A>C ); fa invece uso di preconcetti: concetti ancora incompleti e talvolta illogici, per cui il bambino non è
ancora in grado né di operare inclusioni gerarchiche, né di garantire la permanenza degli oggetti oltre il campo prossi-
mo dell’azione (l’equilibrio tra assimilazione e accomodamento rimane incompleto e instabile, poiché l’assimilazione è
incentrata come nel gioco e non generalizzata, mentre l’accomodamento all’oggetto-prototipo rimane immaginato co-
me nell’imitazione invece di estendersi a tutti gli elementi). La forma di ragionamento utilizzata è nota come ragiona-
mento trasduttivo, poiché va dal particolare ad altri casi particolari (che è scorretto, ma costituisce una prova degli
sforzi fatti dal bambino per comprendere la realtà).
Sotto-stadio intuitivo (4-7 anni ca.): è la fase più studiata da Piaget e collaboratori. Il bambino si muove in direzione di
un decentramento e di una maggiore coordinazione, che lo condurranno gradualmente al possesso delle operazioni ve-
re e proprie; è però ancora dominato dalla percezione, ed è incapace di classificare. Il problem solving è soprattutto in-
tuitivo piuttosto che logico (per produrre risposte vengono usate delle immagini mentali anziché regole o principi). Il
gioco e l’imitazione si evolvono in direzione di una loro integrazione: nel gioco simbolico, alla trasformazione assimi-
lativa della realtà si associa sempre più strettamente la sua espressione; mentre l’imitazione utilizza significanti via via
sempre più adeguati e meno deformati rispetto alla realtà.
Egocentrismo: incapacità di vedere la realtà da un altro punto di vista che non sia quello soggettivo e centrato su se
stessi (il bambino è incapace di pensare in maniera critica, logica e realistica; non si tratta di egoismo).
Accentramento: concentrare l’attenzione su uno soltanto degli aspetti di una situazione e nell’ignorare gli altri, a pre-
scindere da quanto siano attinenti (i bambini si concentrano su un solo aspetto del problema).
Fenomenismo: induce il soggetto a rilevare, del mondo esterno, soltanto gli aspetti superficiali e immediatamente evi-
denti (per es., non riconoscono la conservazione del valore totale di una superficie di cui è stata modificata la forma, in
quanto a una prima analisi superficiale le superfici appaiono diverse).
Realismo: tendenza a dare più valore ai dati percettivi che a quelli rappresentativi ed a considerare come unica realtà
quella visibile e materiale; tendenza ad attribuire esistenza reale e attributi materiali a fatti ed eventi psicologici (per
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es., bambini – fino a 6 anni – ritengono che si pensi con la bocca o con le orecchie, oppure, poco più grandi, che al
pensiero corrisponda una realtà materiale situata nella testa, fatta di aria o sangue).
Animismo: tendenza, opposta al realismo, ad attribuire ai fatti e agli oggetti della realtà fisica caratteristiche psicologi-
che (per es., bambini – fino a 6-7 anni – tendono a ritenere che gli oggetti materiali siano in grado di percepire il loro
proprio movimento o la loro distruzione).
Finalismo: interpreta gli eventi naturali come mossi da una casualità psicologica; visione "provvidenziale" della natura,
per cui tutto tende ad avvenire secondo un certo ordine, in modo armonico, grazie anche all'influenza delle stesse leggi
morali che regolano la vita umana.
Artificialismo: tendenza a ritenere che tutto ciò che ci circonda nel mondo fisico sia stato creato dall’uomo per rag-
giungere propri fini (per es., bambini – fino ai 7 anni – ritengono che tutte le cose siano state costruite direttamente da
Dio o dai primi uomini; anche certi elementi naturali, come le montagne o i fiumi, o certi fenomeni atmosferici, come
le nubi, sono dovute all'azione fabbricatrice dell'uomo).
Giustapposizione: tendenza ad avvicinare un contenuto mentale all’altro, senza riconoscere i legami logici o causali
che li legano (per es., bambini – ancora a 7-8 anni – tendono ad usare termini come “perché” o “pertanto” per abbinare
frasi diverse o come semplice collegamento privo di significato causale).
Sincretismo: tendenza ad assimilare gli eventi in schemi globali e non strutturati (comprensione globale, indifferenzia-
ta, indistinta: la percezione della struttura d'insieme ostacola l'enucleazione e l'individuazione delle singole parti, il tut-
to resiste alla scomposizione alla quale lo si vorrebbe sottoporre).
Irreversibilità: incapacità del pensiero di ripercorrere a ritroso un evento o una situazione percepita, annullandone gli
effetti della percezione stessa (per es., un bambino di 4-5 anni non è in grado di riconoscere l’invarianza del liquido
versato da un contenitore stretto e alto a uno basso e largo) [v. p.38].
Stadio 3. Le operazioni concrete (approssimativamente dai 7 agli 11 anni)
Piaget usa il termine operazioni per indicare processi mentali altamente organizzati e particolarmente sofisticati; ne di-
stingue due tipi: quelle logico-matematiche (addizione, sottrazione), e quelle infralogiche (sovrintendono alla capacità
di utilizzare le nozioni quantitative e spazio-temporali).
Il bambino approda a un sistema simbolico di pensiero organizzato e coerente che lo mette in grado di raffigurarsi
l’ambiente che lo circonda e di intervenire attivamente su di esso; ma si tratta di un sistema ancora strettamente ancora-
to alle esperienze concrete (nonostante sappia formulare ipotesi anche non avendo sotto gli occhi i concreti dati percet-
tivi sui quali ragiona, e nonostante sia in grado di ovviare a tale mancanza facendo ricorso – in modo ridotto – al ra-
gionamento astratto, non riesce ancora, tuttavia, a formulare le sue ipotesi se di quei dati non ha già fatto prima espe-
rienza in un modo o nell’altro). Il bambino tende a descrivere il proprio ambiente piuttosto che a spiegarlo; gli riesce
difficile anche verificare correttamente la validità di un’ipotesi a fronte della realtà, e spesso modifica una visione per-
fettamente corretta della realtà in modo da farla “quadrare” piuttosto che modificare un’ipotesi.
Tuttavia, il pensiero diventa meno egocentrico; il bambino sviluppa sia la capacità di effettuare il decentramento (che è
il contrario dell’egocentrismo) sia la capacità di effettuare l’operazione mentale della reversibilità. Al decentramento si
accompagna l’acquisizione del concetto di conservazione.
Aggruppamento operatorio: si realizza adesso un equilibrio mobile (e non più centrazioni parziali) in cui il pensiero è
in grado di seguire e coordinare i diversi punti di vista; in tal modo si realizza un effettivo equilibrio fra l’assimilazione
delle cose all’azione del soggetto e l’accomodamento degli schemi soggettivi alle modificazioni degli oggetti. Così,
azioni successive vengono coordinate in una unica (transitività), gli schemi d’azione vengono compiuti anche a ritroso
(reversibilità), uno stesso risultato può essere raggiunto attraverso strade diverse (associatività), un’azione viene la-
sciata immutata da un’azione che non modifica gli elementi in gioco (identità), un’azione ripetuta o resta invariata
(tautologia logica) o costituisce una nuova azione (identità numerica).
Fra le operazioni logico-matematiche, la prima a comparire è l’inclusione di classi (riesce a considerare contempora-
neamente e a confrontare numericamente fra loro un insieme e l’insieme superiore di cui fa parte); il bambino costrui-
sce poi tutte le altre: la transitività (se A=B e B=C allora A=C), la seriazione qualitativa (capacità di costruire serie cor-
rispondenti di oggetti), la corrispondenza biunivoca (a ogni elemento di una prima classe corrisponde uno, e uno solo,
degli elementi della seconda). La conquista di tali operazioni consente la comprensione (non più soltanto intuitiva) dei
numeri (il numero riguarda la raccolta di oggetti – proprietà cardinale – e l’ordinamento in rapporto a numeri più gran-
di e più piccoli – proprietà ordinale – ).
Fra quelle infralogiche compaiono le operazioni relative alla strutturazione spaziale: ordine di successione spaziale,
inclusione di intervalli e distanze, conservazione di lunghezze, superfici e volume, costituzione delle coordinate spa-
ziali, capacità di elaborare prospettive e sezioni. I progressi realizzati, dal punto di vista logico, sul numero, vengono
trasferiti, dal punto di vista infralogico, sulla misura. Le capacità operatorie del bambino si applicano infine anche ai
sistemi materiali: vengono così raggiunte la conservazione della sostanza (7-8 anni), del peso (9-10 anni), del volume
(11-12 anni). Siamo di fronte al più classico esempio di décalage orizzontale, che Piaget e Inhelder spiegano rilevando
che le diverse caratteristiche della sostanza, del peso e del volume sono in grado di influire sull’intuizione del bambi-
no, facilitando o ritardando l’applicazione delle operazioni.
Stadio 4. Le operazioni formali (approssimativamente dai 12 anni in avanti)
[v. anche “Le problematiche adolescenziali” a p.104] La costruzione del pensiero formale consiste sostanzialmente
nella ricostruzione delle operazioni concrete a un livello superiore. La differenza consiste nella capacità, da parte
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dell’adolescente, di ragionare su ipotesi puramente teoriche per ricavarne conclusioni basate non su dati di realtà ma
sulla necessità intrinseca del ragionamento stesso. Mentre le operazioni concrete operano sull’azione o sulla realtà,
quelle formali operano sulle operazioni stesse: operazioni di secondo grado. Il pensiero formale ripercorre quindi le
stesse tappe percorse dal pensiero concreto operando però a un livello non-verbale, o ipotetico-deduttivo. In virtù del
nuovo orientamento verso il possibile, e non più soltanto verso il reale, l’adolescente, ogniqualvolta si trova a dover af-
frontare un problema, cerca di valutare tutti i fattori che possono influire su di esso. Egli è ora in grado di procedere si-
stematicamente a valutare tutte le variabili significative una per una. Questo modo di procedere viene chiamato analisi
combinatoria, e permette di valutare tutte le possibili relazioni che intercorrono fra due o più variabili implicate in un
determinato fenomeno. Il pensiero formale consiste quindi in una tendenza generalizzata a «organizzare i dati (analisi
combinatoria), a isolare e controllare le variabili, a formulare ipotesi, a sviluppare la giustificazione e la dimostrazione
logica» (Flavell 1963). Questa capacità di pensiero è resa possibile anche dalla comparsa di una nuova struttura di pen-
siero, detta gruppo INRC (trasformazione Identica, Negazione, trasformazione Reciproca, trasformazione Correlativa
– cioè l’inverso della reciproca – ) o delle due reversibilità. Es.: prendiamo la conservazione della sostanza, compren-
derla attraverso il pensiero formale significa impiegare tutte le possibilità offerte dal gruppo delle operazioni INRC.
Grazie alla Reciprocità (R), il soggetto comprende che l'aumento della larghezza di una certa quantità di plastilina è
compensato dalla diminuzione della lunghezza. Attraverso la Negazione (N), è possibile comprendere che se non si
modifica una dimensione, non si ottiene un cambiamento nella quantità di plastilina; è la negazione di un'azione, il non
agire. L'eventualità di una non-azione può essere solo pensata, perché non si può agire una non-azione: è per questo
che Piaget parla di primato delle affermazioni sulle negazioni, come caratteristica del pensiero concreto che lo diversi-
fica dal pensiero formale. Attraverso la Correlativítà (C), è possibile comprendere che una palla di plastilina può essere
allungata o riappallottolata senza che la quantità totale sia variata; la messa in relazione fra queste operazioni e
l’Identità (I) (che lascia la palla di plastilina come era all'inizio di tutte le trasformazioni) permette di comprendere la
conservazione della quantità di sostanza, di peso e di volume della plastilina. Altro es.: i bambini del periodo operato-
rio concreto, di fronte a un dispositivo come la bilancia a due bracci (esperimento della ricerca del raggiungimento di
equilibrio attraverso compensazione), si limitano a riconoscere l’effetto di una delle due operazioni (aumentare il peso
oppure aumentare la distanza su un solo braccio) e intervengono su una di esse generalmente utilizzando la negazione;
i soggetti più grandi sono invece in grado di individuare tutte e quattro le operazioni (aumentare o diminuire il peso o
la distanza su entrambi i bracci della bilancia); soprattutto sono in grado di connettere tutte queste operazioni in un si-
stema complessivo (al di là di una piena consapevolezza del gruppo INRC), di cui colgono le diverse relazioni [v. an-
che: R. Vianello, Psicologia dello sviluppo..., cit.: pp. 98-125].
E dopo l’adolescenza?
È stato dimostrato che in età adulta sono possibili degli importanti cambiamenti (contrariamente al modello dominante
della psicologia evolutiva, che ha sempre sostenuto che, dopo l’adolescenza, si assiste ad una lunga stasi seguita da
graduale declino nella terza età). In realtà, persino il pensiero operatorio formale non è caratteristico di tutti gli adole-
scenti, né di tutti gli adulti. Lo sviluppo cognitivo continua anche dopo l’adolescenza (Basseches 1984; Labouvie-Vief
1980), ma, invece di diventare più logico, il pensiero diventa più relativo, più propenso al conflitto e più sensibile alle
realtà morali, etiche, sociali e politiche. Talvolta, la soluzione più logica può essere inadeguata; un ragionamento matu-
ro richiede una “pragmatica concreta”, che tenga conto di ciò che funzionerà e di cosa è accettabile. Il pensiero della
persona veramente saggia considera le implicazioni e scompone in fattori le realtà sociali e morali; è più sensibile e tol-
lerante nei confronti di ambiguità e contraddizioni, ed è disposto a mettere in gioco una varietà di fattori, oltre alla
semplice logica. Insomma, il modello piagetiano (ed altri simili) non è adeguato per descrivere il pensiero adulto [v.
«Vygotskij, Piaget, Bruner» cit., p.155-158 e 167-186; L,66-75; F,44-50].
Situazioni anomale
Iniziale povertà di schemi
Bambini provenienti da ambienti socioculturali depressi, o portatori di handicap... Attività di apprendimento che pos-
sono richiedere iperaccomodamento, svantaggio che rischia di determinare un secondo svantaggio (minor possibilità di
trarre profitto dalle esperienze scolastiche).
Primato dell’assimilazione
Prevale l’assimilazione sull’accomodamento: ci sono momenti in cui ciò è utile (gioco simbolico, visioni poetiche della
realtà...), ma ve ne sono molte altre in cui tale primato dell’assimilazione rappresenta invece un ostacolo allo sviluppo
(rigidità del pensiero, che tende ad inserire forzatamente realtà nuove in schemi già esistenti e non flessibili, deforman-
dole e impoverendole; riguarda sia l’alunno sia l’insegnante: rigidità cognitiva, pregiudizi).
Primato dell’accomodamento
Prevale l’accomodamento sull’assimilazione: ci sono momenti in cui ciò è utile (attività di imitazione), ma ve ne sono
molte altre in cui tale primato dell’accomodamento rappresenta invece un ostacolo allo sviluppo (situazioni in cui vi è
totale appiattimento sul modello; tendenza ad aderire a modelli del momento) [Pe,105-108].
Riflessi sul piano educativo Vi è possibilità di accelerare i progressi dei bambini attraverso i vari stadi, a condizione che il materiale venga presen-
tato nel modo adeguato [F,54]
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Spazi all’assimilazione, all’accomodamento: come già detto, è importante dare spazio al gioco simbolico e
all’elaborazione fantastica; ma anche all’imitazione. Evitando comunque situazioni estreme.
Partire dai prerequisiti esistenti: prendere sempre, come punti di partenza per introdurre conoscenze o abilità nuove,
degli schemi percettivo-motori o cognitivi che gli allievi possiedono già. Anche valorizzando, e poi mettendo in crisi,
le interpretazioni spontanee errate (problematizzando); tutto ciò vale ancor più per gli allievi in difficoltà o in ritardo
(importante, comunque, identificare, procedendo a ritroso, gli schemi cognitivi già posseduti) [Pe,108-110].
L’età cronologica di ciascun bambino fa in un certo senso da guida: occorre che l’insegnante tenga presente il livello di
pensiero proprio di questa età e poi si domandi se i bambini dimostrano di pensare a questo livello e se il materiale da
apprendere viene presentato loro in una forma adeguata. Anche se al bambino devono essere offerte opportunità di
elaborare concetti a livelli più alti di quello proprio della sua età cronologica, non bisogna mai lasciare che egli si senta
confuso o senta di dover essere biasimato se il problema consiste nell’incompatibilità tra il materiale presentato e il li-
vello di pensiero del bambino steso. Quando si elaborano dei metodi didattici occorre tener conto del livello di svilup-
po concettuale del bambino (prima delle operazioni formale, per es., egli ha bisogno di fare concrete esperienze dei
problemi da risolvere).
Ai bambini devono essere garantiti i benefici di un ambiente ricco di stimoli soprattutto linguistici, e l’insegnante deve
far sì che i suoi alunni comprendano il significato corretto delle parole utilizzate in classe. Lo stesso vale per gli altri
segni (matematici...).
Il ritardo scolastico è legato al livello di pensiero al quale il bambino si trova: i cosiddetti bambini ritardati si trovano a
un livello di pensiero inferiore a quello corrispondente alla loro età cronologica; l’insegnante di recupero deve garanti-
re che il materiale didattico venga presentato ai bambini in una forma adeguata.
Si ipotizza che la litigiosità manifestata da certi bambini giunti all’adolescenza sia in parte determinata dal fatto che
concetti astratti quali «libertà», «giustizia», «verità», «altruismo» e così via ora cominciano ad assumere per loro un si-
gnificato nuovo e più profondo, e spesso li conducono a giudicare e a rifiutare i valori dei più grandi.
Le età cronologiche assegnate ai vari stadi individuati da Piaget sono soltanto delle approssimazioni; inoltre lo svilup-
po dei bambini può essere diseguale; può anche capitare che, di fronte a un problema difficile in una situazione ansio-
gena o carica di tensione, finiscano per tornare temporaneamente a un precedente stadio di ragionamento. Gli errori dei
bambini vanno pertanto studiati con molta attenzione [F,55-56].
Fattori dell’accomodamento
Alla semplice assimilazione si sostituisce l’accomodamento quando: a) le cose stesse, resistendo a un certo trattamen-
to, obbligano alla produzione di un nuovo schema; b) le persone inducono ad accomodare i propri schemi (un maestro
può intervenire per correggere; un avversario di gioco può far notare una certa mossa...); c) un’attenta riflessione può
portare a scoprire un errore di ragionamento che né le cose né le persone hanno ancora segnalato. Compito
dell’insegnante è quello di promuovere processi di accomodamento seguendo tutte e tre le vie ora vedute.
In altri casi l’accomodamento, più che necessario, può essere opportuno, o semplicemente possibile: una dimostrazio-
ne geometrica sbagliata, l’impiego di una metafora non molto felice; a proposito di un giudizio estetico: al fine di ren-
dere consapevole gli allievi di una molteplicità di punti di vista, e della necessità di confrontarsi... [Pe,110-112].
Il rapporto fra sviluppo e apprendimento. La «zona di sviluppo prossimale»
È stato spesso inteso come unidirezionale (solo dopo aver raggiunto un certo livello si possono presentare certe attività
di apprendimento...). Tesi fondamentalmente corretta, ma incompleta. Vygotskij ha messo in luce che questo rapporto
è invece circolare: non solo il fatto di aver raggiunto un certo livello nello sviluppo rende possibili certi apprendimenti,
ma il fatto di presentare al bambino delle attività di apprendimento che richiedono per essere svolte un livello lieve-
mente superiore a quello che egli ha raggiunto, lo sollecita a passare al nuovo livello, stimola cioè lo sviluppo. Perché
questo accada è però necessario che la distanza fra i due livelli non sia eccessiva: è il concetto vygotskijano di «zona di
sviluppo prossimale» (o prossimo) o «area di sviluppo potenziale» o «Zo-ped» = Zone of Proximal Development» (quei
livelli – diversi da allievo ad allievo, ma presente in tutti – che un allievo non ha ancora raggiunto ma potrebbe rag-
giungere facilmente se stimolato da compiti ancora un po’ difficili per lui e se aiutato adeguatamente ad affrontarli).
Vygotskij rivaluta, insomma, l’imitazione: «Per imitare bisogna possedere qualche possibilità di passare da ciò di cui
sono capace a ciò di cui non sono capace», scrive lo psicologo russo; dunque la collaborazione è un contesto utile per
l’avanzamento delle proprie capacità: «Nella collaborazione il bambino si rivela più forte e più intelligente che non nel
lavoro individuale e ascende verso un livello superiore di potenzialità intellettive nella soluzione di problemi. Tuttavia
c’è sempre una distanza, regolarmente definita, che segna il divario tra la capacità di lavoro individuale e quella del la-
voro in collaborazione». Questo significa che non tutto si può imitare, ma soltanto qualcosa a cui il bambino è poten-
zialmente già vicino (apprendimento, questo, specifico del bambino e non di qualsiasi organismo animale).
L’apprendimento, per essere fruttuoso, deve quindi certamente agganciarsi nel suo limite inferiore ai cicli dello svilup-
po già conclusi, ma fa leva, poi, sulle funzioni che sono in corso di maturazione. Importante pure il conseguente con-
cetto di «impalcatura di sostegno» (scaffolding, v. p.64), traduzione operativa sul versante psicoeducativo
dell’intuizione vygotskijana da parte di Bruner [v. anche p.70 «L’apprendimento»: “L’interazionismo socio-culturale”]:
nei primi stadi dell’apprendimento, essa è essenziale (per es.: il bambino in età prescolare, che non sa niente sulla im-
portanza delle lettere dell’alfabeto, difficilmente scopre da solo o inventa i diversi suoni che esse rappresentano; par-
lando, dimostrando, indicando, correggendo, l’educatore costruisce per lui delle impalcature); via via che il bambino
inizia ad imparare, la natura dell’impalcatura richiede dei cambiamenti. La zona di sviluppo prossimale descrive quei
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compiti in cui il bambino richiede un’impalcatura (dimostrare come fare le cose, spiegare procedure, fornire modelli,
formulare domande, correggere errori, motivare) [v.«Vygotskij, Piaget, Bruner», cit.,pp.55,61-65,97,257-258,304 e
AAppppeennddiiccee 22; L,82; Pe,112-113].
La relativa maturità dei tre anni
[V. tavole allegate a «Trattato enciclopedico di psicologia dell’età evolutiva» Vol. I tomo II, cit.] Psicomotricità: ha
saldamente acquisito due schemi fondamentali, quello della prensione e quello della deambulazione (per entrambi i ca-
si ha dato avvio da tempo a una differenziazione dello schema-base in tanti schemi psicomotori distinti; la differenzia-
zione e l’affinamento continueranno negli anni successivi, giungendo a combinarsi fra loro e con altri schemi).
Percezione: riesce a cogliere delle somiglianze e delle differenze (purché abbastanza vistose) fra gli oggetti, o gli ani-
mali, o le persone che vede per la prima volta, e distingue molto bene l’uno dall’altro oggetti o animali o persone che
gli sono abbastanza familiari. Ha anche appreso che certi indizi preannunciano certi eventi. Le manipolazioni di oggetti
e materiali compiute durante il secondo e terzo anno, gli hanno permesso di scoprire una grande varietà di proprietà
materiali e funzionali, le quali si sono poi incorporate nell’immagine percettiva degli oggetti, così che ora gli basta
guardare gli oggetti per coglierli direttamente.
Capacità rappresentativa: diviene capace di farsi tornare alla mente ricordi di luoghi veduti, di cose fatte, l’immagine
di oggetti osservati altrove ed ora non più visibili; diviene anche capace di immaginare situazioni future.
Tutto ciò ha riflessi su molte altre capacità o attività.
Linguaggio verbale: conosce un numero notevole di parole; riesce a pronunciare frasi semplici ma sintatticamente ab-
bastanza corrette, anche se poi le collega fra loro quasi solo nella forma della coordinazione e non ancora in quella,
psicologicamente e linguisticamente più complessa, della subordinazione.
Dopo i 18 mesi compare anche una funzione evocativa; e passa da espressioni costituite da una sola parola (con valore
olofrastico) a frasi composte da almeno due parole, in cui una delle due riguarda ormai solo l’oggetto (il significante,
che può servire ad evocarlo qualora manchi).
Imitazione: dopo i 18 mesi l’imitazione, da immediata, si fa anche differita.
Gioco: ora diviene simbolico [Pe,117-120].
Scuola per l’infanzia
Rafforzare la nuova capacità:
1) Si dovrebbe dare largo spazio al gioco simbolico, sia individualmente sia collettivamente. All’elemento ludico si
mescolano un elemento imitativo e una buona dose di fantasia, che si traduce spesso in una fabulazione linguistica (il
bambino dichiara la situazione che sta ludicamente vivendo - «Io ero...» -, esprime a parole ciò che sta pensando, o
commenta ciò che sta facendo, talvolta parlando solo con se stesso o con i propri giocattoli). 2) Bisognerebbe dare lar-
ghissimo spazio al racconto e alla lettura di fiabe, o di altre storie ove si parla di bambini, e di animali o di personaggi
della vita quotidiana che il bambino conosce bene (raccontando o leggendo lentamente, il bambino riesce, nei momenti
di sospensione, a raffigurarsi a proprio modo i luoghi, e ad anticipare il possibile andamento della vicenda narrata, ve-
rificando subito dopo se le cose sono andate come ha sperato o temuto); alternando alle fiabe le filastrocche, poi, si
fanno compiere ai bambini esperienze relative alla rima, al ritmo, alla musicalità delle parole e dei versi. Importante
anche saper distinguere l’attività del leggere da quella del raccontare... 3) Il bambino dovrebbe essere circondato da li-
bri di immagini e da libri-gioco, da sfogliare insieme all’adulto, e più tardi da utilizzare anche da solo. 4) Massima li-
bertà di produrre egli stesso delle immagini, e di disporre con facilità dei vari materiali necessari per farlo. Il disegno
figurativo appassiona i bambini; compare verso i tre anni e, secondo Luquet, attraversa varie fasi (1ª fase, del «reali-
smo fortuito»: scarabocchio, magari completato, a cui viene attribuito un significato, giungendo ad elaborare in modo
fortuito i primi “modelli interni”; 2ª fase, del «realismo mancato»: disegni con i quali i bambini cercano intenzional-
mente di riprodurre certi elementi del reale, senza però riuscire ancora a farlo in maniera soddisfacente - dal punto di
vista adulto, giacché per il bambino quei disegni rendono bene quanto egli è riuscito a “leggere” negli oggetti, quanto
lo ha particolarmente colpito di una corretta rappresentazione della realtà; 3ª fase, del «realismo intellettuale» - che ri-
guarda la scuola elementare -, caratterizzata dal tentativo del bambino di raffigurare le cose “come le conosce”) [Per
approfondire v. AAppppeennddiiccee 33]].
Favorire la nuova «crisi di crescita»: non bisogna trascurare di favorire lo sviluppo ulteriore di altre capacità che sono
già presenti ma in forma ancora solo germinale (come quella di esplorare e analizzare oggetti e luoghi, o quella di sta-
bilire dei confronti e cogliere somiglianze e differenze) [Pe,120-124].
Dal pensiero intuitivo al pensiero operatorio e reversibile
Pensiero intuitivo: è un pensiero che è ancora largamente dominato dalle sue radici percettive. Il bambino tiene conto
soprattutto dell’aspetto attuale di un oggetto e sembra dimenticare l’aspetto precedente una trasformazione subita; o, se
sollecitato, riesce a immaginarselo ma a condizione allora di non tener conto dell’aspetto attuale (a 4-5 anni il pensiero
è ancora irreversibile, mentre a 8 il bambino è in grado di tornare col pensiero ad una prima fase di un esperimento
senza perdere mai di vista l’ultima).
Il pensiero irreversibile è anche pre-operatorio: a 4 anni i bambini non riescono a mettere attivamente in rapporto
aspetti lontani, che non tendono a richiamarsi (il pensiero operatorio si rivela pienamente nelle situazioni del comporre
e scomporre una totalità ove le parti non richiamino il tutto, e viceversa: come per es. nell'addizione) [Pe,124-127].
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Scuola primaria
La seconda «crisi di crescita», iniziata al termine della scuola materna, prosegue e si conclude nel primo ciclo della
scuola elementare; essa si verifica prima e più facilmente per certi aspetti della realtà (ad es. la conservazione del peso
dell’acqua travasata), e invece dopo e con più difficoltà per altri (ad es. quando sono richiesti più di due dati da tenere
mentalmente presenti e da mettere in rapporto). Gran parte degli apprendimenti della scuola primaria (come già una
parte di quelli dell’ultimo periodo della scuola per l’infanzia) favoriscono lo sviluppo, il rafforzamento e la generaliz-
zazione del pensiero reversibile e operatorio. Ciò non significa che il pensiero intuitivo precedente è del tutto abban-
donato: il bambino resta ancora capace di pensare «per immagini di oggetti», per «scene isolate». Ma non v’è dubbio
che le attività di apprendimento richiedono in genere che più contenuti vengano tenuti mentalmente presenti, e messi
fra loro in rapporto in vario modo (nell’aritmetica e nella geometria; nella lettura, dove le parole vanno tenute in rap-
porto tra loro e magari pluri-contestualizzate per scoprirne il significato, nonché cercate nel vocabolario dove sono de-
finite per genere e specie; nella storia e nella geografia; nelle scienze; nel disegno [e nella musica? v. De Natale e Della
Casa, per es.]) [Pe,128-131].
La terza “crisi di crescita” e il pensiero ipotetico-deduttivo
Il pensiero «ipotetico-deduttivo», o «complesso», si verifica verso i 12 anni.
Ipotetico: il ragazzo diviene capace di sviluppare ragionamenti che hanno come punto di partenza delle situazioni ipo-
tetiche (che iniziano con un «se...»). Deduttivo: la capacità di trarre da tali premesse ipotetiche conseguenze
(«...allora...») compiendo delle affermazioni, o formulando delle previsioni. Complesso: tali situazioni ipotetiche sono
generalmente due, o più, e le conseguenze si possono trarre solo coordinandole fra loro. Siamo di fronte a un pensiero
col doppio «se» (o con un «se» plurimo). Bambini di 8-9 anni riescono a immaginare due ipotetiche situazioni, ma solo
una dopo l’altra. La capacità di pensiero ipotetico è una conquista che si delinea nell’età della scuola media, ma va raf-
forzata ed estesa nel periodo successivo, in modo che risulti applicabile a situazioni via via più complesse (pena la
permanenza di errori logici anche in età adulta). La scuola secondaria dovrebbe, quindi, fornire frequenti occasioni di
esercizio, e sensibilizzare ai possibili errori logici che si possono commettere (del tipo: «a implica b, allora b implica
a; a = ragazzo poco dotato; b = andar male a scuola... tendenza di molti adulti a rovesciare i rapporti di implicazione)
[Pe,131-133].
Scuola media
Molti dei contenuti dell’insegnamento medio richiedono, per essere compresi, appunto un ragionamento col doppio
«se»: l’algebra (una lettera può essere rivestita di innumerevoli valori possibili, può soddisfare cioè innumerevoli ipo-
tesi, nell’ambito di un rapporto che resta inalterato); la geografia astronomica; la biologia (con il «se» ed il «se non»);
lo studio di eventi storici, di fenomeni economici; la lingua; le scienze (nell’acquisizione delle capacità di progettare ed
eseguire in forma rigorosa un esperimento; la conoscenza di sé e degli altri; le probabilità) [Pe,133-135].
Mutamenti nei rapporti con gli insegnanti
Nel preadolescente: comparsa di (nuovi) interessi epistemici (per le conoscenze, ed anche per il modo in cui gli uomini
hanno operato per entrarne in possesso: non è casuale, a questa età, l’interesse anche per i racconti polizieschi; maggior
interesse per vari lavori). Importanza del dare a tutte le discipline una dimensione storica. Gusto del ragionare (non
basta presentare le cose, bisogna anche dimostrarle); desiderio di discutere (ma «alla pari»; importanza della discus-
sione di gruppo, e della pazienza rispetto ai modi adolescenziali un po’ astratti e poco vari di ragionare) [Pe,135-136].
Anche per la fantasia vi è sviluppo
La fantasia si manifesta con l’apparire dell’attività rappresentativa; trova nuove possibilità quando il pensiero diviene
reversibile; e altre ancora ne trova quando il pensiero raggiunge il livello ipotetico-deduttivo.
Va favorita: dando ampio spazio ad attività, specifiche dei vari livelli, che introducono il soggetto in un mondo fabula-
to ove la necessità di immaginare per proprio conto quanto viene solo accennato, e i possibili processi di identificazio-
ne, lo portano via via a divenire qualcosa di più di un semplice fruitore. Ma anche dando largo spazio a quelle attività
che fin dall’inizio lo possono vedere protagonista (gioco simbolico, disegno, brevi storie da costruire, sceneggiature...).
Occorre ovviamente tener conto dell’evoluzione degli interessi cognitivi nell’arco di vita che va dalla prima infanzia
all’adolescenza: evoluzione che va dal mondo familiare a quello degli amici e al più ampio mondo sociale; dai paesag-
gi vicini e noti a quelli esotici e lontani; dagli eventi naturali direttamente percettibili a quelli che richiedono un’attività
rappresentativa complessa. E vede diventare sempre più centrale il problema dell’elaborazione del senso della propria
identità [v. anche «La creatività», p.22; Pe,137-138].
Critiche mosse a Piaget
È stato accusato di non aver utilizzato dei campioni di popolazione sufficientemente ampi, analisi sofisticate e controlli
adeguati. Sembra avere sottovalutato le capacità del bambino piccolo (e sovrastimato le capacità operatorie formali
degli adolescenti).
Decentramento: esistono oggi dati che dimostrano che persino i bambini che si trovano allo stadio pre-operatorio rie-
scono a compiere questa operazione, purché vengano prima sottoposti a una prova che rifletta un’attività in cui si sono
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già personalmente impegnati (per es.: il nascondere...). Dovremmo quindi affermare che in genere il pensiero dei bam-
bini è di tipo egocentrico.
Bruner in merito all’egocentrismo infantile piagetiano: gli studi sull’attenzione condivisa tra madre e bambino, mo-
strando come questi già intorno ai 12 mesi utilizzi lo sguardo materno come costante feedback rispetto agli stimoli for-
niti dall’ambiente, suggeriscono di rivedere l’assunto relativo all’incapacità infantile di assumere il punto di vista al-
trui. Piuttosto, come sottolinea anche Nelson (1989), il bambino a questa età, e per un paio d’anni ancora, non possiede
un sufficiente numero di script, scenari, o strutture schematiche di eventi tale da permettergli di fronteggiare ogni si-
tuazione. Il problema, quindi, non è tanto a livello di competenza, quanto di performance in situazioni non note. A
proposito dei sistemi antecedenti la comparsa del linguaggio, poi, Bruner fa notare come l’acquisizione del linguaggio
richieda come prerequisito la presenza sistematica di scambi e di transazioni fra adulto e bambino. Infine, una serie di
studi sul soggetto conoscente in rapporto al suo mondo sociale ha permesso di evidenziare come già in età prescolare il
bambino arrivi a comprendere che le azioni umane sono guidate da stati mentali quali credenze (corrette o meno), de-
sideri, intenzioni e stati affettivi. È possibile che i problemi posti ai bambini nelle prove impediscano o rendano diffici-
le una loro risposta corretta in quanto i bambini tendono a interpretare le parole ivi utilizzate non nel loro significato
generale, ma all’interno di quello che è per loro il senso della situazione. Il fatto che non siano in grado di dare risposte
corrette, sarebbe dunque per lo più da attribuire al frequente uso, in tali prove, di espressioni come «diverso da», «lo
stesso che», «meno», «più lungo», «più corto», e così via: espressioni di questo tipo possono essere interpretate dai
bambini come riferite all’apparenza di un oggetto piuttosto che alle sue dimensioni effettive.
Vygotskij sul linguaggio: secondo Piaget, il pensiero autistico rappresenta la forma iniziale del pensiero, la logica
compare relativamente tardi e il pensiero egocentrico occupa il posto intermedio, livello transitorio nello sviluppo del
pensiero dall’autismo alla logica. Dopo varie ricerche sperimentali, Vygotskij sostiene che il linguaggio è prima di tut-
to sociale, poi egocentrico (con la funzione di render cosciente a se stesso la situazione), quindi interno (rappresenta il
“trapianto” sul piano interiore della funzione di pianificazione e controllo del proprio comportamento, svolta in prece-
denza da quella forma transitoria che è il linguaggio chiamato egocentrico, che si presenta sul piano esterno [v. anche
p.10).
Conservazione: la apparente mancanza di questo concetto nel bambino potrebbe essere causata dal suo modo particola-
re di tentare di risolvere il problema (associazione nella loro mente tra il «più» e l’apparenza mutata e allungata del li-
quido).
Concetti: se invece di materiale verbale si utilizza materiale iconico con bambini che si trovano nel sottostadio del pen-
siero pre-concettuale, essi appaiono capaci di elaborare concetti non solo specifici, ma anche generali.
Ragionamento transitivo: i bambini allo stadio pre-concettuale sono capaci di comprendere ragionamenti transitivi a
patto che venga fornita loro una preparazione preliminare e che vengano prese misure per impedire cadute della memo-
ria mentre essi eseguono vari raffronti.
Gelman e colleghi (1982, 1986) descrivono due tipi di conoscenze numeriche che appaiono durante il periodo presco-
lastico: I) Le capacità di astrazione dei numeri = offrono al bambino la comprensione dei numeri o della quantità, e so-
no regolate da alcuni principi, tra i quali: il principio uno-ad-uno (bisogna assegnare un solo numero ad ogni elemento
che viene contato), di ordine stabile (l’ordine corretto per contare è uno-due-tre…), di ordine cardinale (l’ultimo nume-
ro assegnato è quello che indica la quantità della collezione), di astrazione (tutto può essere contato), e di irrilevanza
dell’ordine (l’ordine del conteggio è irrilevante per l’esito finale dell’operazione di conteggio). I bambini di 2-3 anni
spesso si comportano come se conoscessero questi principi, anche se possono fare ancora degli errori (spesso sistema-
tici) nel loro conteggio. II) Ragionamento numerico = consente al bambino di ragionare e prevedere l’esito di semplici
operazioni numeriche. Questi due tipi di attività cognitive, complesse ed importanti, illustrano le conquiste cognitive
del bambino in età prescolare, in contrasto con la descrizione piagetiana del bambino intuitivo, prelogico e preoperato-
rio.
Le ricerche di Piaget hanno posto le basi per tutte le ricerche successive; egli è entrato nel mondo del bambino cercan-
do di comprenderlo dal punto di vista del bambino stesso. Nessuno ha contestato la scoperta fondamentale di Piaget
secondo cui la capacità di comprensione dei bambini è determinata dal loro grado di capacità di elaborare del concetti
e di costruirsi un modello interno di rappresentazione della realtà esterna che ad essa si avvicini.
La teoria piagetiana, come altre teorie, è semplicemente una metafora: una metafora filosofica/biologica intesa a spie-
gare l’adattamento intellettuale attraverso la crescita delle capacità e funzioni intellettive. Alcune delle critiche mosse a
Piaget nascono da un fraintendimento della metafora e delle intenzioni di base della teoria, e da un’applicazione troppo
ristretta dei suoi principi [v. «Vygotskij, Piaget, Bruner» cit., pp.81-87, 327, 286, 335; F,50-52; L,75-77].
Altri approcci allo sviluppo cognitivo
Vygotskij
[v. anche p.21] Lo sviluppo ontogenetico consiste nello sviluppo del comportamento culturale o comportamento me-
diato dai segni. Si tratta della trasformazione dei processi psichici “naturali” in processi “superiori” o culturali, ossia
come passaggio dell’individuo dal sapere semplicemente dispiegare, usare la sua dotazione naturale (dimensione bio-
logica) al saperla controllare e dominare grazie all’innesto su di essa dei segni, prodotti storici dell’uomo, mediatori
dell’interazione sociale (dimensione culturale). Si ipotizza un cambiamento di origine comunicativo-culturale: le fun-
zioni psichiche culturali sorgono solo nei processi di comunicazione e di attività degli uomini tra loro. Le forme di co-
municazione e di organizzazione sociale (i segni) che gli adulti impiegano nell’interazione con il bambino, guidandone
e regolandone il comportamento, vengono dal bambino interiorizzati e utilizzati per regolare da se stesso il suo com-
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portamento. Ogni funzione psichica superiore rappresenta una relazione sociale interiorizzata; i segni, nel corso dello
sviluppo individuale, sono inizialmente mezzi d’interazione e di funzionamento sociale e, successivamente, trasferen-
dosi all’interno del sistema psicologico del bambino, diventano mezzi di organizzazione e di funzionamento psichici
individuali.
Il paradigma evolutivo, secondo Vygotskij, è quello esposto in occasione delle critiche mosse a Piaget in merito al lin-
guaggio (v. p.40): la legge generale è quella stessa che definisce il passaggio da funzioni interpsichiche, cioè condivise
inizialmente tra persone, a funzioni intrapsichiche, proprie della persona sul piano individuale. «Non una socializza-
zione progressiva, apportata al bambino dall’esterno, ma un’individualizzazione progressiva, nata sulla base della so-
cialità intrinseca del bambino». Così è per il linguaggio.
E l’attenzione: in una prima fase sono gli altri che agiscono intorno al bambino, prendendolo come riferimento; poi si
instaura un’interazione reciproca tra il bambino e gli altri che lo circondano, e su questa base il bambino comincia a
esercitare la sua azione nei confronti degli altri; da ultimo, il bambino comincia a esercitare un’azione nei confronti di
se stesso.
Similmente procede l’astrazione, che diviene mediata e teorica quando il sistema dei simboli numerici si sostituisce al-
le forme esteriori di valutazione a occhio: se si dà al bambino di 4-5 anni un certo numero di cubetti e gli si chiede di
distribuirli in parti uguali, il bambino sarà messo in condizioni di confrontare le quantità di cubetti che avrà diviso; non
possedendo ancora procedimenti di calcolo astratto, darà ai cubetti una certa configurazione e confronterà questa, in
base a caratteristiche puramente percettive, tra i vari mucchi; verso i 9-10 anni riuscirà invece ad adoperare forme di
calcolo astratto che prescindono interamente dalle caratteristiche percettive degli insiemi dei cubetti (sarà in grado di
contare la quantità astrattamente, servendosi della serie di numeri come mezzi per organizzare la quantità concreta; e di
valutare astrattamente la nozione di pari e dispari).
Infine, lo sviluppo dei concetti. Vygotskij progettò, con alcuni collaboratori, una serie di blocchi di legno che potevano
essere raggruppati in quattro categorie costituenti i concetti polidimensionali (il nesso criteriale doveva essere svolto
da sillabe senza senso, da cui partire per abbinare i vari blocchi i quali, oltre che da sillabe, erano caratterizzati da for-
me, dimensioni e colori diversi). Fase dei mucchi sincretici = dapprima il bambino procede per tentativi ed errori e co-
struisce dei mucchi sincretici, poi adotta come criterio principale il campo visivo (posizione che i blocchi occupano
nello spazio), quindi la decisione è attuata in base alle organizzazioni sincretiche dei blocchi già presenti davanti al
bambino. Fase dei complessi-pseudoconcetti = i complessi sono costruiti a partire dall’astrazione di un nesso oggetti-
vo: prima si osserva un tipo di complesso in cui si ha un criterio associativo tra due casi specifici (due blocchi messi
assieme per qualche loro aspetto che lui accomuna), poi abbiamo le collezioni (insiemi di oggetti collegati per la com-
plementarità di qualche aspetto), successivamente vi è il complesso-catena (unificazione di singoli anelli in base a un
attributo che varia da anello ad anello, si arriva così al complesso diffuso (caratterizzato dalla fluidità dell’attributo che
viene scelto per la sua costruzione), infine – prima del concetto propriamente detto – c’è lo pseudo-concetto, una riu-
nione composita di oggetti concreti che per l’aspetto esteriore coincide con il concetto, ma per la sua natura genetica
non è affatto un concetto (il bambino accosta al blocco campione delle figure che potrebbero essere scelte e accostate
in base a forme di pensiero concettuale, per es. scegliendo tutte le figure triangolari, ma nella dinamica
dell’esperimento mostra delle generalizzazioni limitate a un certo punto da nessi evidenti e concreti). Fase dei concetti
= prima di tutto si presentano delle dinamiche di discriminazione, scomposizione analitica e composizione attuate in
base a impressioni di somiglianza più che non a reale comunanza di tratti; poi abbiamo concetti potenziali, con presen-
za di astrazione isolante che individua il tratto criteriale o definiente, ma nella loro potenzialità non divengono effettivi
concetti perché nella definizione del tratto restano legati a caratteristiche funzionali (es.: chiedendo al bambino che co-
sa è la ragione, ci si sente rispondere con un esempio pratico concreto: «È quando fa caldo e non bevo».); si arriva la
concetto vero e proprio «quando una serie di proprietà astratte sono sintetizzate ulteriormente e quando la sintesi
astratta ottenuta in questo modo diventa la forma fondamentale del pensiero mediante cui il bambino coglie e concet-
tualizza la realtà circostante». È attraverso la parola che il bambino centra la attenzione sui tratti definienti il concetto,
li sintetizza e al tempo stesso li simbolizza. Soltanto nell’adolescenza il ragazzo diventa capace di usare la forma più
elevata di pensiero concettuale e spesso, sia nell’adolescente sia nell’adulto, nella vita quotidiana non si riscontrano
queste forme [v. «Vygotskij, Piaget, Bruner» cit., pp.3-4,61,73,85,87-94; F,53].
Bruner (n. 1915)
Distinguiamo tre centrature tematiche della vita dello studioso. Periodo di formazione e fase del New Look: l’impegno
è soprattutto nel campo della percezione (memoria, influenze dell’intenzionalismo euristico di Tolman; contrasti con il
behaviorismo imperante e influenza della Gestalt, con approdo al New Look di Harvard dopo 1945). Periodo dello
studio del pensiero (dal 1952-53): Progetto-cognizione e studio dei concetti, confronto con le posizioni di Piaget e, più
influente, Vygotskij, esperienza di Woods Hole del 1959 e principio del learn to learn, tre tipi di sistemi di rappresen-
tazione delle conoscenze [v. p.61] e interesse sempre più evidente per la zona di sviluppo prossimale e gli amplificato-
ri culturali di Vygotskij). Dimensione culturale: interesse per il linguaggio e la trasmissione culturale (filosofia del lin-
guaggio di Oxford, enfasi sugli aspetti pragmatici, osservazioni a Chomsky, concetto di format…).
Appartiene alla prima delle tre centrature evidenziate l’idea dei tre sistemi di rappresentazione delle conoscenze. Bru-
ner sostiene che gli individui passano attraverso tre stadi principali nella loro acquisizione dei processi tipici del pen-
siero maturo dell’adulto: sistema attivo (legato all’aspetto sensomotorio, al contatto e alla manipolazione
dell’ambiente: nei primi anni di vita si impara facendo e l’azione viene poi interiorizzata), sistema iconico (legato alle
percezioni di vista e udito, apprendimento che si genera dall’osservazione del fare, osservando e imitando modelli), si-
stema simbolico (legato alle capacità linguistiche: avviene attraverso il linguaggio, che è un sistema di simboli per in-
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terpretare i quali è necessario conoscere il codice). «Di ogni capacità o conoscenza esiste un’adeguata versione che
può venire impartita a qualsiasi età si desideri cominciare con l’insegnamento, per quanto iniziale e preparatoria questa
versione possa essere» [v. anche p.60 e altri testi sull’argomento: «Guida alla didattica per concetti» di Damiano E.,
Juvenilia, in partic. pp.225-237; AAppppeennddiiccee 44]. Si differenzia nettamente da Piaget affermando che, anche se acquisia-
mo questi stadi in ordine cronologico, li conserviamo e utilizziamo tutti e tre tutta la vita.
Appartiene invece all’ultima centratura bruneriana il concetto qui di seguito esposto, chiaramente interazionista, di svi-
luppo infantile (fenomeno sociale/fenomeno culturale): lo sviluppo infantile consiste sostanzialmente nella realizzazio-
ne delle potenzialità presenti nelle capacità del neonato: mentre la capacità di attuare un comportamento intelligente ha
radici profonde, l’esercizio di tale capacità dipende dal fatto che l’individuo si appropri di strumenti e di tecniche che
non esistono nel patrimonio genetico, ma nella cultura. Ciò significa che lo sviluppo infantile non può essere esclusi-
vamente un fenomeno individuale, bensì deve essere sociale, poiché solo nel rapporto interattivo il bambino è in grado
di appropriarsi delle tecniche e degli strumenti della sua cultura di riferimento [v. AAppppeennddiiccee 55]. L’interazione fra ma-
dre e bambino non svolge soltanto la funzione di promuovere lo sviluppo delle capacità e delle competenze del bambi-
no in quanto soggetto psichico, ma anche quella d’introdurlo progressivamente nel sistema culturale di riferimento [v.
AAppppeennddiiccee 66; v. «Vygotskij, Piaget, Bruner» cit., p.232-272, 275; F,52-53; v. anche p.21. V. anche: R. Vianello, Psico-
logia dello sviluppo..., cit.: pp. 161-208].
Lo sviluppo affettivo
[V. anche: «Il Sé», p.89; «Emozioni e sviluppo», p.98].
La natura dei rapporti affettivi
La valenza positiva che caratterizza la figura dell’insegnante si estende anche alle cose che dice, alle attività che pro-
pone. Vi sono poi situazioni di insuccesso scolastico parziale che riguardano ragazzi peraltro dotati e studiosi, le quali
si risolvono solo quando ha luogo un cambiamento dell’insegnante. Qualcosa di analogo ha luogo anche per quanto ri-
guarda la formazione della personalità, il piano più propriamente educativo.
Che significa, in termini psicologici, che un bambino o un ragazzo «vuole bene» a un certo adulto, ovvero è legato a lui
da un rapporto affettivo positivo? Significa: che tale adulto gli appare connotato da una valenza positiva abbastanza
stabile; che esso appare al bambino o al ragazzo come una sorta di prolungamento e completamento della sua persona-
lità, come una parte sostitutiva del suo «io psicologico» [Pe,139-141].
Come si stabilisce un rapporto affettivo
«Sviluppo affettivo»: graduale formarsi nell’individuo di rapporti sempre più numerosi, che riguardano dapprima solo
la figura materna, poi anche altri familiari, e più tardi anche persone esterne alla famiglia (insegnanti, amici, coetanei
dell’altro sesso, ma anche animali, oggetti, luoghi).
Nel caso dei genitori: si manifesta molto precocemente (anche negli animali superiori) il meccanismo
dell’attaccamento (il bambino nel primo anno di vita cerca di trattenere o di richiamare accanto a sé, con il sorriso -
che compare già all’età di due mesi - e il pianto, la figura o le figure che gli stanno intorno e si occupano di lui; quando
diventa capace di muoversi, cerca di stare vicino a loro, di seguirle [v. anche: M. G. Contini, Per una pedagogia delle
emozioni, La Nuova Italia, 1992, 147-153ss]), che dal punto di vista biologico garantisce una maggiore protezione
contro i pericoli, una più alta probabilità di sopravvivenza, e perciò si è via via fissato attraverso la selezione naturale
[v. p.45 e AAppppeennddiiccee 66 bbiiss].
Nel caso degli insegnanti, invece si manifesta un altro meccanismo, negli anni successivi e fino all’età adulta: il bambi-
no o il ragazzo stabilisce rapporti affettivi positivi nei confronti di quelle persone che concorrono, in modo significati-
vo e costante, a soddisfare i suoi «bisogni di crescita» (l’altro diviene un prolungamento della propria personalità, o
addirittura è una parte essenziale). Che questo rapporto di stabilisca e poi via via si rinsaldi, dipende dagli atteggia-
menti che quotidianamente assumono i genitori e da ciò che concretamente fanno per aiutare il loro figlio a crescere
psicologicamente (bisogna: parlare spesso col bambino e offrirgli stimoli percettivi; aiutarlo a camminare, a salire o a
scendere le scale e ad andare sul triciclo; raccontargli fiabe, fornirgli materiali di gioco - e giocare con lui - e materiali
figurati - e guardarli con lui -; soddisfare le sue curiosità, e non limitare la sua libertà di fare esperienze nuove - come
quando si è iperprotettivi -, essendo sempre disponibili a dare una mano o un consiglio, se richiesto; mostrare interesse
per tutto quanto il figlio fa, valorizzando i suoi tentativi e i suoi prodotti, e sviluppando in lui un senso di fiducia in se
stesso, di autostima, promuovendone l’autonomia) [Pe,141-142].
Stima e affetto per l’insegnante
Importante che l’insegnante: sia in grado di proporre le cose giuste al momento giusto; abbia una buona capacità di co-
gliere i problemi dei singoli allievi; abbia una costante disponibilità a dare loro un consiglio, una rassicurazione, e un
aiuto a conquistare gradualmente una capacità di autonomia.
Scuola d’infanzia : i bisogni di crescita si esprimono soprattutto come desiderio di muoversi, di giocare e soprattutto di
sviluppare giochi simbolici, di sentir leggere o raccontare (fiabe, favole, filastrocche), di guardare delle immagini e di
produrne (attraverso il disegno, l’uso dei colori, i materiali plastici, la ricostruzione di un puzzle); come interesse per
l’osservazione diretta di oggetti, luoghi, fenomeni nuovi [e suoni e musica?].
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Scuola primaria: permangono alcuni dei desideri ed interessi di prima; si aggiungono l’interesse per i giochi sociali in
genere, per la conoscenza anche di certe realtà non direttamente (o non interamente) osservabili (eventi della storia, vi-
ta degli animali, modi in cui l’uomo ha affrontato e risolto certi problemi). Il periodo dai 6 ai 12 anni è un «periodo
d’oro» per lo sviluppo cognitivo (il bambino non è più turbato, come invece a 4-5 anni, da tensioni emotivo-affettive
che riguardano la sua cerchia familiare e che formano il «complesso di Edipo»; né è già alle prese con i problemi per-
sonali della seconda-terza media).
Scuola media: cresce via via il bisogno di indipendenza (l’insegnante si conquista stima e affetto se, oltre a favorire lo
sviluppo delle conoscenze in maniera idonea, lascia ampio spazio alla discussione di gruppo condotta alla pari, mostra
rispetto per le opinioni degli allievi e interesse per i loro problemi, li rassicura con valutazioni positive rivolte alla loro
persona); si fa acuta la ricerca della propria identità; viene avvertito sempre più fortemente anche il bisogno di prende-
re una posizione personale nei confronti dei grandi problemi di carattere ideologico, politico, sociale (e qui
l’insegnante dovrebbe aiutare i propri allievi a conoscere sempre meglio se stessi e il mondo, e ad orientarsi di fronte al
loro futuro ed ai problemi esistenziali).
In certi casi gli insegnanti si trovano a dover svolgere anche una funzione di compensazione e vicarianza [Pe,143-145].
L’ambivalenza affettiva
Anche quando il rapporto fra adulti ed allievi è molto buono, la situazione non è quasi mai univoca, soprattutto in de-
terminati momenti dello sviluppo (come quello che corrisponde al dispiegarsi del complesso di Edipo, e quello adole-
scenziale). Accanto a sentimenti positivi di affetto, convivono nel bambino o nel ragazzo, nei confronti della medesima
persona, anche sentimenti opposti (timore, insofferenza, risentimento); prova ammirazione e affetto per l’adulto, e tut-
tavia lo vive anche come una fonte di limitazione del suo desiderio di indipendenza.
L’insegnante può fare in modo che la componente negativa sia ridotta al minimo: limitando allo stretto necessario que-
gli atteggiamenti o interventi nei quali essa trova alimento. E può altresì assumere atteggiamenti che manifestano ri-
spetto per l’individualità del bambino, attenzione ai suoi bisogni di crescita, disponibilità a dargli aiuto tutte le volte
che ne sente il bisogno, offrendo continuo alimento a i suoi interessi, esprimendo una valutazione positiva per le cose
che fa, aiutandolo a sviluppare fiducia in se stesso. In qualche caso, e soprattutto nel periodo adolescenziale,
l’ammirazione - superando anche l’identificazione parziale o totale - si traduce in un vero e proprio innamoramento,
generalmente di breve durata («infatuazione»): si manifesta più spesso nelle ragazze nei confronti di un loro insegnan-
te. In questi casi, l’insegnante dovrebbe evitare di dare all’allieva l’impressione che si è reso conto della situazione
(l’allieva tende a tenere nascosti questi suoi sentimenti, per l’ambivalenza ed il timore del ridicolo), mantenendo nei
suoi confronti l’identico comportamento di prima, e limitandosi ad attendere che l’infatuazione si attenui fino a scom-
parire [Pe,145-146].
Lo sviluppo sociale e morale
Il rapporto affettivo è già una forma di socialità
Vi è sicuramente una socialità familiare, sulla quale si innestano altre forme di socialità.
Già dalla scuola elementare può avere inizio il rapporto affettivo con «l’amico del cuore», tipico comunque
dell’adolescenza: - è caratterizzato da un bisogno di confidenza piena, da un desiderio di reciprocità, da un’esigenza di
esclusività; - permette di vivere un rapporto paritario in un periodo in cui comincia a sentire con qualche insofferenza
la sua dipendenza dagli adulti e la disparità della sua situazione rispetto alla loro; - l’amico, ascoltando i suoi problemi
o i suoi sfoghi o condividendo con lui certe esperienze, costituisce un sostegno importante nei primi tentativi di vita
indipendente; - spesso poi tale amico si pone anche come complementare a lui per certi tratti della personalità, e i ten-
tativi di imitazione reciproca portano allora per entrambi ad un arricchimento della personalità; - l’amico del cuore, at-
traverso i confronti che sollecita e le conversazioni quotidiane, aiuta largamente un ragazzo nella elaborazione di una
propria «idea di sé» [Pe,147-148].
Socializzazione come acculturazione
Vi è socializzazione:
1) Anzitutto nel senso di una adesione a certe abitudini o a certe regole o forme di comportamento presenti in un certo
ambiente. Importanza dell’imitazione: un bambino fa propri i gesti comunicativi che vede compiere, le modalità di
espressione delle emozioni, e soprattutto il linguaggio (sia dal punto di vista fonetico, che da quello semantico e
grammaticale). Acculturazione: apprendendo la lingua materna, e proprio con le inflessioni con cui è parlata dalle per-
sone del suo ambiente, egli si inserisce gradualmente in una realtà sociale e in una cultura (fenomeno simile a quello
che si verifica quando degli individui anche adulti migrano stabilmente in una cultura diversa da quella di origine [«in-
culturazione» la prima, acculturazione quest’ultima]). 2) Questa socializzazione può aver luogo non solo per imitazio-
ne, ma anche per imposizione.
Qualcosa del genere accade anche a scuola, dove regole, norme ed insegnamenti possono venir recepiti attraverso atti-
vità osservativo-imitativa o per mezzo di pressioni esterne. Importante: - evitare che la convergenza si verifichi in as-
senza di un sufficiente spirito critico e semplicemente sulla base del rispetto dell’autorità dell’adulto; - evitare pure che
certi interventi impositivi considerati come inevitabili, venendo attuati senza un sufficiente ricorso alle spiegazioni ed
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una certa ricerca del consenso, accrescano il peso della componente negativa nell’ambivalenza; - garantire anche ampi
spazi ai processi di pensiero divergente [Pe,148-149].
Socializzazione come capacità di capire gli altri
3) Un’altra forma di socializzazione consiste nello sviluppo della capacità di porsi «nei panni degli altri», superando
l’egocentrismo infantile: è una capacità largamente in rapporto con la reversibilità del pensiero (si tratta di mantenere
la propria opinione e nello stesso tempo di entrare nell’opinione dell’altro, di metterla a confronto con la propria e di
tentare di renderla simile alla propria [?]).
A scuola: - creare condizioni frequenti (anche di tipo ludico) che stimolino il bambino a decentrarsi, a guardare le cose
anche secondo prospettive diverse dalla propria, a chiedersi se gli altri sanno le cose che sa lui; - abituare il bambino a
cercare con frequenza una verifica della validità e anche della generalità di certe impressioni personali; - aiutarlo a
comprendere che vi sono situazioni in cui impressioni disparate sono conciliabili in quanto i punti di vista diversi sono
intercambiabili o riducibili ad uno solo, e che vi sono invece altre volte in cui la disparità delle impressioni è destinata
a restare, in quanto si tratta di valutazioni personali [Pe,149-151].
Socializzazione come capacità di collaborare con gli altri
4) Sviluppo della capacità di collaborare con gli altri al conseguimento di un obiettivo comune: forma più matura, dove
«collaborazione» comprende sia le situazioni in cui vi è divisione del lavoro, sia le situazioni in cui vi è competizione.
Una difficoltà può essere la corretta comprensione della funzione delle regole: - sino ai 5-6 anni, a causa del realismo,
i bambini colgono più facilmente, e spesso esclusivamente, gli aspetti puramente esteriori di una regola, piuttosto che
la sua basilare funzione di porre tutti nelle stesse condizioni affinché la maggior abilità di alcuni possa emergere; - a 4-
5 anni vi è una tendenza a centrarsi ancora soprattutto sull’adulto, a sopravvalutarne le capacità, a ritenere che ciò che
l’adulto decide sia giusto e vada fatto; - dai 7-8 anni in avanti i bambini cominciano anche a comprendere che l’origine
delle regole si fonda su un accordo fra coloro che partecipano al gioco o alla gara, e che esse potrebbero dunque venire
cambiate se vi è un generale consenso; - dai 12 anni (ma già prima acquista rilevanza) il gruppo dei coetanei, come
«luogo» di giochi sociali e di attività collaborative, diviene un punto di riferimento essenziale, accanto a quello ancora
rappresentato dagli adulti preminenti (gruppi di ricerca nella scuola, gruppi di gioco, banda - preadolescenti -, compa-
gnia - adolescenti -).
A scuola: - abituare gli allievi alla collaborazione (porsi obiettivi comuni, oltre a quelli individuali); - dare spazio an-
che alla competizione leale (ognuno è indotto a dare il meglio di sé; situazioni che mettono a fuoco il problema delle
regole sociali e del loro rispetto; alla competizione si può collegare una più intensa collaborazione all’interno del
gruppo); - abituare alla democrazia (stabilire insieme delle regole, delle convenzioni democratiche); - ottenere il ri-
spetto delle regole, sempre [Pe,151-153].
Lo sviluppo morale e i suoi due piani
Socializzazione e sviluppo morale sono in stretto rapporto.
Rispettare una regola costituisce un valore: - criteri a cui ci si può riferire in caso di conflitti; - riferimento alla lealtà
come un valore stabile della propria «visione del mondo» e della propria immagine di sé; - riferimenti a disvalori da
evitare: la slealtà, l’imbroglio.
Educazione morale significa: aiuto a comprendere che esistono dei valori generalmente condivisi, o anche universali,
che vanno anzitutto conosciuti (per es. attraverso conversazioni, situazioni paradigmatiche, discussioni di gruppo, pre-
sentazione di altre situazioni come verifica) e poi anche rispettati (livello più profondo, di ordine affettivo-emotivo:
non bastano le pur utili conversazioni e discussioni, ma occorrono anche l’identificazione con modelli positivi adulti
che abbiano fascino e prestigio, perché i valori presentati con le parole e soprattutto col comportamento vengano poco
alla volta interiorizzati - è ciò che la psicoanalisi indica come Super-io, e che il linguaggio comune definisce coscienza
morale; processo che in famiglia prende avvio al tempo del complesso di Edipo, e comunque quando nel bambino vi è
una forte ammirazione per dei modelli adulti; a scuola può invece esserci forte ammirazione per un insegnante; quando
questo processo di interiorizzazione ha avuto luogo in modo soddisfacente, il rispetto dei valori anche in condizioni di
solitudine è assicurato da potenti forze interne, e da sanzioni positive esse pure interne - coerenza - o negative - senso
di colpa).
Lo sviluppo morale riguarda – oltre al modo di comportarsi nei confronti degli altri – anche: - il comportamento nei
confronti di se stessi : programmazione della propria vita secondo prospettive positive; difesa della propria integrità
psicofisica; arricchimento del proprio patrimonio di conoscenze e abilità [ed altro; Pe,153-156].
Le prime fasi dello sviluppo sociale
Il modo in cui noi percepiamo la nostra vita è in gran parte determinato dal modo in cui pensiamo di apparire agli oc-
chi degli altri (siamo praticamente “programmati” ad essere gregari).
Il bambino in famiglia
Come sottolinea Bruner, i bambini sono attrezzati già nel periodo neonatale a rispondere alla voce umana, al viso uma-
no, all’azione e al gesto umano. Pertanto, fin dall’inizio il neonato non è un individuo isolato e passivo, bensì vive in-
serito in una rete sociale. Infatti molto rapidamente si sviluppa fra madre e bambino uno scambio reciproco, che egli
giunge ad anticipare. Grazie a tale scambio si creano ben presto forme di intersoggettività e di attenzione reciproca. In
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tale scambio ognuno dei due partner trova nell’altro lo stimolo e il rinforzo per il proprio comportamento [v. «Vygo-
tskij, Piaget, Bruner» cit., p.276]. La voce della figura materna (attorno ai due mesi di vita) e il suo viso (attorno ai tre
mesi) sono tra le prime cose che il bambino riconosce, insieme al modo particolare in cui questa persona lo tratta. At-
taccamento: è questo primo legame sociale che il bambino instaura con la figura adulta che più si prende cura di lui;
segni che ne indicano lo sviluppo in corso: - il bambino è confortato da tale figura adulta più che da qualsiasi altra; - è
meno turbato, in presenza di cose o persone sconosciute, quando è insieme a tale adulto che non con altri; - si dimostra
più contento quando vede apparire tale persona adulta e fa più movimenti verso di lei che non verso gli altri. I bambini
che vengono tenuti in casa e trattati in modo più severo dalla figura adulta che si prende cura di loro manifestano com-
portamenti che denotano un attaccamento più intenso di quello dei bambini che frequentano l’asilo e che in genere go-
dono di una maggiore libertà (l’attaccamento, di per sé, non è automaticamente indicativo di una buona qualità dello
sviluppo sociale e personale nei primi anni dell’infanzia; certi bambini, che pure appartengono a famiglie che vivono in
condizioni estremamente difficili e svantaggiate e trascurati o trattati con crudeltà, manifestano tuttavia un forte legame
con i genitori, per lo meno nei primi anni di vita). Alcuni studiosi avanzano l’idea che questo fenomeno di attaccamen-
to per motivi di sopravvivenza a chiunque fornisca delle cure sia analogo a quello dell’imprinting descritto dagli etolo-
gi (pericoloso, comunque, applicare al comportamento umano conclusioni tratte dalle osservazioni condotte su anima-
li). Conclusioni dal punto di vista dello psicologo: - l’attaccamento sembra costituire una fase necessaria nello sviluppo
del bambino; - ha luogo principalmente tra il bambino e l’adulto che maggiormente si prende cura di lui; - è il primo
passo sulla via dell’apprendimento sociale del bambino [v. p.42].
Affinché si verifichi uno sviluppo sociale soddisfacente, è essenziale che il primo rapporto tra bambino e genitore sia
buono. Agli effetti negativi provocati sul bambino dalla carenza di cure genitoriali o dai maltrattamenti nei primi anni
di vita si può anche rimediare, entro certi limiti, fornendo al bambino adeguate cure compensatorie negli anni successi-
vi; ciò non toglie, però, che le prime esperienze esercitino un’influenza particolarmente forte sulla crescita successiva
(sembra ragionevole ritenere che nei primi due anni di vita del bambino la carenza di cure genitoriali e i maltrattamenti
possano interferire con la capacità del bambino, in seguito, di instaurare buoni rapporti con gli altri). Insomma, la pri-
ma infanzia sembra essere un periodo critico per l’apprendimento sociale. Si può venire a creare il ciclo delle carenze,
ben noto agli assistenti sociali: i genitori che trascurano i figli o li maltrattano allevano bambini che a loro volta diven-
tano poi genitori che trascurano i figli e li maltrattano.
L’attaccamento [v. p.42]non è una cosa che si manifesta soltanto nei primi anni di vita. Qualora il bambino formi un
legame di eccessiva dipendenza con adulti che non sono i genitori, il motivo può essere che la sua spinta innata a for-
mare attaccamenti non è stata pienamente soddisfatta in famiglia [F,3-7].
La natura dell’apprendimento sociale nei primi anni
Se i genitori incoraggiano il figlio a socializzare liberamente con gli altri, egli impara a sentirsi a proprio agio con gli
altri (gli individui che con la crescita diventano esageratamente timidi, o freddi, od ostili, o aggressivi sono quelli cui è
stata negata l’occasione di apprendere che l’esperienza dello stare insieme agli altri è un’esperienza che porta recipro-
co arricchimento, che migliora la qualità della propria vita e la qualità della vita di coloro con cui si è in rapporto).
Erikson afferma che il senso di queste prime vicende dell’apprendimento sociale si può riassumere con la parola fidu-
cia: se da bambino imparo che posso fidarmi delle persone intorno a me, che mi amano, allora posso sentirmi libero di
ricambiare... In questa prima lezione di fiducia è essenziale la qualità della comunicazione che ha luogo tra i genitori e
i figli (gesti, carezze, sguardi, tono della voce...). Grazie allo strumento della lingua il bambino si forma un quadro
molto più chiaro dell’atteggiamento dei genitori nei suoi confronti, un quadro sempre più completo del modo in cui gli
altri lo vedono, e prende coscienza del tipo di considerazione di cui gode in famiglia e all’interno del gruppo sociale di
cui fa parte. Lo sviluppo iniziale del bambino, pertanto, dipende in gran parte dal suo grado di padronanza della lingua.
Ruoli sessuali
[V. anche L,56-59, sintetizzato a p.20] In quasi tutti i mammiferi la femmina tende ad essere meno aggressiva del ma-
schio fin dai primi mesi di vita. Nella società occidentale alle donne viene assegnato un ruolo subalterno; in parte spie-
gabile con la funzione femminile della maternità. Vi è comunque una meno spiegabile incapacità della società di tener
conto del ruolo materno della donna e di garantirle non solo il riconoscimento del valore di questo suo ruolo, ma anche
le necessarie opportunità di “compensazione”. La discriminazione contro le donne ha inizio sin dalla nascita, e si pro-
trae per tutto l’arco dell’infanzia (sono spesso la madre in famiglia e l’insegnante donna a scuola che insegnano alla
bambina gli elementi fondamentali del suo ruolo femminile). Nei primi anni di scuola le bambine tendono ad utilizzare
l’espressione verbale più dei maschi e a incontrare minori difficoltà nella lettura, mentre i maschi ottengono risultati
migliori nei problemi di tipo matematico e spaziale. Fattori innati o ambientali? (le bambine passano più tempo in fa-
miglia e hanno maggiori occasioni di apprendimento della lingua; i bambini passano invece più tempo fuori casa e fan-
no un maggior numero di esperienze spaziali). Queste differenze perdono progressivamente importanza via via che
cresce l’esperienza scolastica. A tutte le età, rispetto alle femmine, i maschi presentano una maggiore incidenza sia di
casi di ritardo scolastico sia di successi eccezionali (può darsi che genitori e insegnanti siano più propensi a lasciare
che i maschi con ritardo scolastico si arrangino da soli [?] e che, viceversa, diano maggiori incoraggiamenti ai maschi
eccezionali che alle femmine eccezionali [forse si aspettano di più dai maschi]).
Gruppi etnici
Può darsi che ai bambini di culture notevolmente diverse da quelle dell’insegnante siano stati insegnati modi di intrat-
tenere i rapporti con l’autorità e di mostrare rispetto e cordialità che divergono sensibilmente da quelli che l’insegnante
considera adeguati... Questo stesso tipo di problema può emergere anche quando sono in ballo difficoltà di apprendi-
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mento (in merito, per es., all’interpretazione di parole, o a risposte ai test - di solito culturalmente di parte -). Quando
aumentano la comprensione e la tolleranza delle differenze culturali, diminuiscono notevolmente i rischi di diagnosi er-
rate di disadattamento o di ritardo scolastico (la società nel suo insieme è ancora imperfettamente preparata alla vita in
una collettività multiculturale).
Classi sociali
Analoghi problemi si possono incontrare con bambini che fanno parte di certi gruppi sociali. Le ricerche mostrano che
sono tendenzialmente molto più numerosi gli alunni di condizioni socioeconomica superiore, rispetto a quelli di condi-
zione socioeconomica inferiore, che superano con successo gli esami di maturità e proseguono gli studi fino
all’università. Non dobbiamo generalizzare troppo, ma nel complesso i bambini di condizione socioeconomica inferio-
re, quando iniziano la scuola, hanno minori conoscenze sui rapporti da intrattenere con l’insegnante, sul tipo di com-
portamento da adottare e sui limiti da imporsi, nonché sulle modalità di condotta considerate accettabili dal sistema
scolastico (se poi il bambino proviene da un ambiente in cui gli unici tipi di comportamento che portano a qualche ri-
sultato sono l’aggressività e la durezza...). La povertà verbale conduce spesso alla povertà cognitiva. In buona parte le
scuole si orientano sugli stili di comportamento e di pensiero tipici dei gruppi di condizione socioeconomica superiore,
e spesso hanno difficoltà a capire la realtà del bambino di condizione socioeconomica inferiore. Spesso i bambini di
classe socioeconomica inferiore non dispongono nemmeno di uno spazio in casa in cui poter leggere con tranquillità o
fare i compiti, non si vedono proporre dei libri dalla famiglia, hanno scarse possibilità di utilizzare campi da gioco e
centri sportivi, biblioteche ed altri servizi culturali come musei e teatri; si trovano a vivere, inoltre, in un ambiente so-
ciale che facilmente sottovaluta l’importanza della formazione culturale, che offre loro scarsa istruzione professionale,
e che per lo più si trova in conflitto con gli obiettivi e il sistema di valori della scuola [F,7-14].
La famiglia
Nello sviluppo sociale del bambino l’unità in assoluto più importante è sicuramente la famiglia.
Dobbiamo prima di tutto distinguere tra la cosiddetta famiglia nucleare e la famiglia estesa: la prima è composta dalle
persone tra le quali esiste un legame di parentela di primo grado; la seconda, oltre ai componenti della famiglia nuclea-
re, comprende i parenti di secondo e terzo grado ed eventuali altre persone. Nei paesi industrializzati tanto la prima
quanto la seconda, come istituzioni, sono andate incontro a importanti cambiamenti negli ultimi anni. Nel caso della
famiglia nucleare questi cambiamenti sono stati soprattutto strutturali, e la tradizionale unità familiare non è più la
norma generale; lo sgretolamento della famiglia e la crescente incidenza del fenomeno dei bambini concepiti al di fuori
del matrimonio hanno condotto a un massiccio aumento del numero delle famiglie con un solo genitore (anche la rego-
la che vedeva il padre uscire di casa per andare al lavoro e la madre restare in casa vale attualmente solo per una mino-
ranza di casi). Nel caso della famiglia estesa il cambiamento più importante che si è verificato è il declino della sua
importanza: con l’avvento della mobilità sociale molti giovani abbandonano le zone in cui sono cresciuti (sgretolamen-
to della famiglia estesa, disintegrazione delle piccole comunità in precedenza molto legate, rilassamento dei costumi e
minor rispetto della legge e dell’ordine). È anche facile che genitori inadeguati dispongano oggi di meno sostegni che
mai, sicché i loro figli finiscono per essere sempre più trascurati e magari sempre più esposti alla crudeltà.
Attualmente desta notevole attenzione la terapia della famiglia: il terapeuta lavora non solo con il «bambino difficile»,
ma con l’intera famiglia nucleare (può così osservare le modalità di interazione di ciascuno con gli altri); tale terapia
può essere utile anche nei casi in cui il problema iniziale sia manifestato da uno dei genitori anziché dal bambino.
L’insegnante che abbia una vita familiare felice può non rendersi conto delle tensioni che generano in un bambino le
continue discordie; può anche non rendersi conto di quali pretese avanzino nei confronti dei figli certi genitori tirannici
o emotivamente squilibrati... I problemi di comportamento a scuola possono essere semplicemente l’esaurimento fisico
o l’assenza di motivazione, ma possono anche assumere la forma dell’isolamento dagli altri quando il bambino, sopraf-
fatto dalle preoccupazioni che lo affliggono in famiglia, non è in grado di chiedere aiuto agli altri e di partecipare alle
attività della scuola. La comprensione e la sensibilità dimostrata dagli insegnanti nei confronti dei bambini a scuola
può aiutarli ad affrontare meglio i problemi esistenti in famiglia.
Occorre anche che i genitori si interessino attivamente all’istruzione scolastica del figlio (ciò incide positivamente sui
suoi progressi scolastici); così facendo, mostrano al figlio sia l’importanza che attribuiscono ai buoni risultati scolastici
sia il valore che attribuiscono a lui stesso come persona, e inoltre li porta in genere ad offrire aiuto al figlio per i com-
piti che gli vengono assegnati per casa, nonché a prendere parte alle attività scolastiche e a conoscere sempre meglio la
scuola con i suoi valori e i suoi metodi. Alcune scuole organizzano persino incontri di tombola e di ballo come sistema
per coinvolgere i genitori nelle attività della scuola e per stabilire il tipo di contatti informali che possano condurre a
una futura partecipazione agli incontri periodici fra genitori e insegnanti. Tra il fattore dimensioni della famiglia e i ri-
sultati scolastici sembra esistere un rapporto di correlazione inversamente proporzionale: a prescindere dalla classe so-
ciale di appartenenza i bambini di famiglie numerose tendono ad avere risultati più scadenti di figli unici e di bambini
che hanno uno o due fratelli in matematica, nelle capacità verbali e nella creatività (forse conseguenza del fatto che
nelle famiglie numerose i genitori hanno normalmente meno tempo da dedicare ai loro figli); in genere sembra sia il fi-
glio maggiore a risentirne di più (presumibilmente perché man mano che in famiglia arrivano fratelli più piccoli e por-
tatori di maggiori esigenze, i primogeniti vengono lasciati sempre più ad arrangiarsi da soli). I bambini provenienti da
un ambiente familiare che trasmette valori decisamente diversi da quelli insegnati a scuola si trovano quasi inevitabil-
mente a vivere un conflitto concettuale ed emotivo. Per “risolvere” il conflitto tra i valori della famiglia e quelli della
scuola il bambino ha due sole possibilità: o adottare un doppio sistema di valori (andando incontro a problemi di iden-
tità personale), oppure rifiutare o la scuola o la famiglia (finendo per “passarsela male” a casa come a scuola). Gli in-
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segnanti facciano conoscenza dell’ambiente da cui vengono i bambini, evitino di imporre loro regole e valori palese-
mente incompatibili con tale ambiente, e al tempo stesso li introducano in modo graduale e assennato a quelle regole e
a quei valori che considerano irrinunciabili [F,14-20].
Questioni che riguardano specificamente la classe scolastica
Ogni bambino è un individuo e reagisce agli altri in modo unico. A quasi tutti i genitori riesce ovviamente più facile
stabilire un buon rapporto con un bambino soddisfatto e di buon umore che non con un bambino più difficile e irritabi-
le, fin dalle prime settimane di vita: inevitabile che qualcosa di questo stato d’animo venga comunicato al bambino
stesso. La stessa cosa accade agli insegnanti... Possono venire a crearsi circoli viziosi: ostilità dei genitori (e/o degli in-
segnanti) suscitata da particolari bambini, e conseguente aumento di problemi per i bambini... Il bambino che viene da
un ambiente familiare verbalmente ricco ed espressivo gode di enormi vantaggi nei confronti del bambino di ambiente
verbalmente povero: è grazie allo strumento linguistico che i bambini acquisiscono la capacità di elaborare un pensiero
complesso, di comunicare pienamente con coloro che li circondano, e di esprimere con chiarezza le cose che preferi-
scono e quelle che detestano. Soprattutto nei primi anni di scuola, può capitare di vedersi classificare da un insegnante
come afflitti da ritardo generale quando in realtà il loro problema principale è magari semplicemente il fatto di venire
da un ambiente che non offre stimoli verbali (bambini che, facilmente, appaiono fisicamente più aggressivi rispetto al-
la norma, proprio perché trovano molte difficoltà ad instaurare rapporti verbali adeguati; inoltre, sembrano meno “edu-
cati” negli incontri sociali con gli adulti e meno portati ad acquisire capacità legate alla parola; infine, la faccenda si
aggrava col fatto che, durante l’intero arco della loro vita, tali bambini tendono a frequentare principalmente bambini
che presentano le loro stesse lacune verbali). È opportuno che l’insegnante possa: - offrir loro occasioni di prendere
parte a scambi verbali che possono migliorare le loro capacità; - incoraggiarli sia a giocare e lavorare insieme ai bam-
bini dotati di buone capacità verbali sia a dare il loro legittimo contributo alle discussioni e ai dibattiti che si svolgono
in classe; - cogliere ogni occasione per parlare col bambino usando un linguaggio adeguato e disponibile ad ascoltare
le sue risposte con pazienza e atteggiamento incoraggiante. I bambini non solo si identificano con il genitore dello stes-
so sesso, ma acquisiscono dal genitore dell’altro sesso il concetto di ciò che è “maschile” o di ciò che è “femminile”.
Notevoli pure le influenze che esercitano i personaggi della televisione o delle riviste per bambini e adolescenti; ma
anche gli stessi adulti in generale; e gli amici del bambino. I bambini amano sentirsi accettati dai coetanei e rapidamen-
te apprendono che tale accettazione è spesso legata alla condizione che ci si comporti come tutti gli altri (problema del
conformismo). Tutte le attività scolastiche dovrebbero essere ugualmente accessibili a entrambi i sessi. L’insegnante
eviti ogni comportamento che sottintenda contrapposizione tra i due sessi. Si deve compiere ogni sforzo per far sì che
le femmine puntino in alto come i maschi e si orientino verso un’identica libertà di scelta in merito alle possibilità la-
vorative future. Molte differenze etniche sono preziose, arricchenti la società. I bambini sono però tendenzialmente in-
tolleranti, soprattutto quando diventano più grandi: la scuola deve perciò svolgere la sua parte. Importante l’esempio;
ma occorrono anche strategie di insegnamento specifiche, finalizzate ad aiutare i bambini a mettersi nei panni di coloro
che fanno parte di minoranze etniche e a prendere piena coscienza dei loro eventuali sentimenti di estraneità e di rifiu-
to. Quando si ha a che fare con lo sviluppo sociale, i bambini possono essere compresi pienamente soltanto se vengono
visti nel contesto sia dell’ambiente familiare sia della scuola [F,21-26].
I valori e lo sviluppo morale
Secondo molti psicologi è utile distinguere, nella moralità, l’aspetto soggettivo (norme personali) e l’aspetto oggettivo
(atteggiamenti e comportamenti generalmente più apprezzati dal gruppo culturale al quale l’individuo appartiene. Fich-
te). Il secondo aspetto è quello più indagato dagli psicologi [F,212].
Le origini dei sistemi di valori
Si ritiene che la morale e i valori siano in gran parte strutture apprese (prima dai genitori; successivamente dagli inse-
gnanti, dal gruppo dei coetanei, dai mass-media e più in generale dalla società).
Secondo Freud
[V. anche «La Personalità»: p.80] La formazione degli atteggiamenti e dei comportamenti morali avviene per opera del
Super-io, che in gran parte riflette l’interiorizzazione delle norme e dei divieti morali trasmessi dai genitori, ma che il
bambino fa propri a tal punto da non rendersi spesso più conto di quale ne sia stata l’origine. Un Super-io troppo forte
può finire per creare problemi psicologici quali ad esempio sentimenti di colpa, di inadeguatezza, di mancanza di valo-
re personale e persino, in casi estremi, di gravi nevrosi. Ma sarebbe una cosa buona: se non ci fosse, il bambino si
comporterebbe bene solo in presenza dei genitori o di altri adulti. Le idee di Freud sono attualmente oggetto di nume-
rose critiche (è comunque interessante ricordare come il Super-io per Freud si articolasse in due diversi aspetti: la Co-
scienza morale, che genera nel bambino sentimenti di colpa che sbaglia - funzione punitiva dei genitori -; e l’Ideale
dell’io, che procura al bambino sentimenti di soddisfazione ogni volta che si comporta bene).
Secondo Piaget
Il bambino passa da un pensiero di tipo egocentrico a una modalità di pensiero che gli consente di mettersi nei panni
degli altri; soltanto quando comincia ad essere in grado di utilizzare questa seconda forma di pensiero acquisisce anche
la capacità di esprimere veri e propri giudizi morali [v. anche nota 6].
48
Modello di Kohlberg
Un modello più esauriente, anch’esso legato al livello di evoluzione del pensiero del bambino, è stato proposto da Ko-
hlberg: il bambino, nel corso del suo sviluppo morale, passa attraverso sei stadi fondamentali (raggruppati in tre livelli
più generali legati agli stadi di Piaget):
S T A D I D I K O H L B E R G ETÀ
(CA.)
STADI DI PIAGET
Modalità pre-convenzionale
o pre-morale (legata allo
sviluppo cognitivo)
1. Obbedienza Non ha un vero e proprio senso morale, ma il
suo comportamento può essere condizionato
con il semplice rinforzo.
2-7 anni Pensiero pre-
operatorio
2. Egoismo inge-
nuo
Un’azione giusta è un’azione funzionale al
bambino stesso.
Modalità convenzionale
(legata allo sviluppo cogni-
tivo)
3. Tendenza a fare
il “bravo bambi-
no”
Si sforza (sempre più regolarmente) di dare
una buona immagine di sé ai più grandi di lui.
8-11 anni Operazioni concrete
4. Tendenza al ri-
spetto dell’autorità
Aderisce alle idee morali non solo in vista di
vantaggi personali; acquisisce un senso del
dovere verso l’autorità e l’ aspirazione alla
conservazione dell’ ordine sociale.
Modalità post-
convenzionale (più legata
alla cultura di appartenenza)
5. Legalità e senso
sociale
Il senso di giustizia e legalità diventa ben più
importante dell’aspirazione alla pura conser-
vazione dello status quo; le norme vigenti
vengono viste sempre più come arbitrarie.
dai 12
anni in
avanti
Operazioni formali
6. Principi morali
universali (dettati
dalla coscienza)
Sistema unitario, filosofia di vita; capacità di
tener conto di tutte le variabili del caso; è in
grado di andare al di là della giustizia e della
legalità di superficie.
Esempio di Kohlberg (1969): «La moglie di Heinz sta per morire. Un farmaco speciale, scoperto da un farmacista del
luogo, potrebbe salvarla, ma il farmacista è disposto a venderlo solo ad un prezzo esorbitante. Così Heinz, dopo aver
cercato invano dei soldi in prestito, supplica il farmacista di vendergli la medicina ad un prezzo più basso o a rate. Ma
il farmacista si rifiuta. Heinz dovrebbe arrivare a rubare la medicina per salvare la vita della moglie? Perché?». Stadio
1: «Se lui ruba la medicina, potrebbe finire in prigione». Stadio 2: «Lui può rubare la medicina e salvare la moglie, e
poi tornerà con lei quando esce dalla prigione». Stadio 3: «Le persone ti capiranno se rubi la medicina per salvare la vi-
ta di tua moglie, ma penseranno che sei crudele e codardo se non lo fai». Stadio 4: «È dovere del marito salvare la vita
della moglie anche se si sentirà in colpa per aver rubato il farmaco». Stadio 5: «Il marito ha il diritto di avere la medi-
cina anche se non può pagarla subito. Se il farmacista non se ne incarica, dovrebbe farlo il governo». Stadio 6: «Anche
se è legalmente sbagliato rubare, il marito farebbe una cosa moralmente sbagliata se non rubasse la medicina per salva-
re la vita di sua moglie. Una vita è più preziosa del denaro». La velocità con cui si procede può variare da bambino a
bambino; alcuni soggetti possono anche non arrivare mai a raggiungere livelli di maturità elevati (sembra che il rag-
giungimento del livello di pensiero proprio di una certa età sia un requisito indispensabile ai fini del conseguimento del
corrispondente livello di sviluppo morale). Nessuno dei soggetti di Kohlberg ha mai raggiunto lo Stadio 6; tuttavia es-
so viene ancora descritto come stadio potenziale (Kohlberg suggerisce come esempio un martire morale come Martin
Luter King). Gli stadi di Kohlberg sono da considerarsi più come indicazioni di massima da tenere presenti che non
come categorie rigide. Inoltre, il bambino può tornare ad un livello inferiore dopo aver risolto problemi ad un certo li-
vello; può anche modificare i propri giudizi di valore di volta in volta a seconda delle circostanze (può cioè avere diffi-
coltà ad applicare il proprio codice morale a tutte le situazioni); e può pure passare sopra al proprio codice morale se
subentrano motivazioni per lui più importanti (può ad esempio comportarsi male se ciò lo rende più accettabile al
gruppo dei coetanei).
Critiche mosse a Kohlberg
Quello che molte prove suggeriscono è che i giudizi morali dipendono non solo dall’età dei soggetti, ma anche da una
serie di altre variabili, comprese le intenzioni del trasgressore, le precedenti esperienze in situazioni simili e le conse-
guenze sociali, materiali o personali del comportamento. Emerge la necessità di guardare con riserva al carattere di
universalità di questi stadi (Kohlberg stesso non ha trovato nessuna prova dello stadio 6 in soggetti di nazionalità turca,
e propone lo stadio 6 come possibile forma evoluta del 5); c’è chi ipotizza la possibilità che in certi casi venga saltato
questo o quello stadio. Alcuni studiosi hanno differenziato gli stadi morali adulti e femminili. Una delle differenze im-
portanti tra moralità maschile e femminile è che nei maschi la progressione tende verso il riconoscimento e l’uso di
“principi etici universali”, mentre le donne rispondono più a considerazioni di giustizia ed equità per sé e per gli altri
(moralità di “cura per gli altri” piuttosto che di “giustizia astratta”). Ma quasi nessuno avanza dubbi sul fatto che la
teoria di Kohlberg costituisca un valido punto di partenza per la creazione di programmi di educazione morale da pro-
porre ai bambini [L,48-51; F,212-217].
Il ruolo dell’insegnante
Con i bambini piccoli le razionalizzazioni che sottolineano l’oggetto («Il giocattolo potrebbe rompersi») sono più effi-
caci delle razionalizzazioni più astratte («Non dovresti giocare con dei giocattoli che appartengono ad altri»). Allo
stesso modo, il tipo di razionalizzazione più adatto ad un adolescente può essere alquanto diverso da quello offerto ad
49
un bambino. Inoltre, le razionalizzazioni più significative per le ragazze sottolineano di solito i rapporti sociali,
l’empatia e la responsabilità, mentre quelle dei ragazzi esaltano i diritti legali e l’ordine sociale. Enorme importanza
dell’esempio dato personalmente dall’insegnante. Ogni volta che gli capiti di osservare una buona condotta morale,
l’insegnante deve saper cogliere l’occasione e rinforzare tale condotta: nel periodo dei primi tre stadi di Kohlberg, le
risposte e i riscontri dell’ambiente sono di vitale importanza al fine di rassicurarlo sul fatto che sta davvero imparando
e applicando con successo le norme morali). In ogni caso: -dobbiamo prima di tutto ricercare le cause di fondo della
condotta degli alunni che violano in modo grave le norme morali; -qualunque cosa abbiano fatto, si deve chiarire ai
bambini che, in quanto persone, essi continuano a ricevere sostegno e comprensione da parte della scuola [F,217-221;
L,51].
L’insegnamento della condotta morale
Dato che lo sviluppo morale, visto nella prospettiva proposta da Kohlberg, dipende in larga misura dalla capacità di te-
ner conto del punto di vista dell’altro, buona parte delle attività svolte in classe deve essere finalizzata alla conquista di
tale capacità. A questo proposito si può riconoscere l’importanza di due processi: la solidarietà (esprimere ad un’altra
persona il dispiacere o il dolore che si prova per la sua situazione di difficoltà) e l’empatia (sperimentare, sentire lo
stesso tipo di emozioni, stati d’animo e sentimenti che tale persona sta provando; esige più della solidarietà il possesso
di una fine sensibilità, che non può essere “insegnata”: ma possono essere d’aiuto alcuni tipi di attività, quali il role-
playing in drama lessons, e l’invito all’uso dell’immaginazione nel dare semplici descrizioni del tipo di emozioni che
presumibilmente provano gli altri). Almeno una parte dell’impatto che una forma di educazione morale può esercitare
finisce per andare perduto se l’intero corpo insegnante non manifesta coerenza di principi nei rapporti quotidiani con
gli alunni [F,221-222].
L’apprendimento
In che cosa consiste l’apprendimento?
Concetto di apprendimento
Vi è apprendimento tutte le volte che una certa esperienza che compiamo concretamente o mentalmente lascia in noi
tracce che ci permettono, quando ci troviamo nella condizione di ripeterla, di viverla in modo più analitico, o di domi-
narla meglio. Tale traccia ci permette anche di vivere analiticamente e di dominare meglio altre analoghe esperienze
(generalizzazione, transfer - o transfert - d’apprendimento) [Pe,71-72].
È un cambiamento relativamente duraturo nel comportamento potenziale dell’individuo per effetto dell’esperienza.
L’apprendimento deve cambiare l’individuo in qualche modo; questo cambiamento si verifica per effetto
dell’esperienza [v. anche l'apprendimento per insight: p.13; F,124-126; L,90-91].
Dimensioni dell’apprendimento
Possono anche esserci importanti cambiamenti non evidenti, ma comunque fondamentali: -la disposizione:
l’inclinazione del soggetto a fare o non fare certe cose; questi cambiamenti hanno a che fare con la motivazione; -la
capacità: cambiamenti nelle abilità o conoscenze necessarie per fare qualcosa [v. p.71 “La natura del soggetto che ap-
prende”]. L’avvenuto cambiamento nella disposizione o nella capacità – l’avvenuto apprendimento, cioè – si baserà
sempre sulla performance [L,91].
Teorie dell’apprendimento
Teoria comportamentista
Vede l’apprendimento in termini di connessioni (associazioni) tra stimolo e risposta (S-R) o tra risposta e rinforzo, e
attribuisce grande importanza al ruolo svolto dall’ambiente. L’enfasi, dunque, viene posta sulle condizioni esterne che
influenzano il comportamento; il tacito assunto è che tutti coloro che apprendono sono inizialmente uguali, mentre va-
riano le condizioni a cui sono esposti.
Teoria cognitiva
Considera importante non solo l’ambiente, ma anche il modo in cui il soggetto lo interpreta e cerca di comprenderlo;
vede l’individuo non come un prodotto dell’ambiente in senso più o meno meccanicistico, ma come un soggetto attivo
nel processo dell’apprendimento (che si impegna intenzionalmente a elaborare e a classificare il flusso di informazioni
che riceve dal mondo esterno). Grande importanza alla metacognizione (conoscenza della conoscenza). L’enfasi prin-
cipale, dunque, viene posta sulle condizioni interne, sulla struttura mentale di chi apprende; il tacito assunto è che i
soggetti in procinto di apprendere non sono affatto tutti uguali. È la preesistente rete di concetti, di strategie e di com-
prensioni del soggetto che rende significative le esperienze.
Teoria umanistica
Si preoccupa principalmente dell’individualità ed unicità dell’uomo, piuttosto che scoprire regole generali che spieghi-
no le risposte umane. Si focalizza sullo sviluppo emozionale piuttosto che sull’elaborazione delle informazioni o sugli
stimoli e le risposte. Enfatizza due cose: l’unicità dello studente e gli atteggiamenti dell’insegnante nei suoi confronti; e
il Sé rappresenta il concetto centrale.
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Teoria socio-culturale
Assume centralità l’attività precipuamente umana di attribuire un significato (Bruner 1990) agli eventi, in quanto in-
contri con il mondo e scambi con gli altri. La cultura è l’insieme di significati di sfondo condivisi da un gruppo umano
(Geertz 1973), che si manifesta essenzialmente nella conversazione quotidiana; diventano oggetto rilevante di studio le
interazioni discorsive che hanno luogo in famiglia (sede di prima socializzazione), a scuola, nel mondo del lavoro…
(sedi secondarie, ma importanti, di socializzazione). L’apprendimento è visto come costruzione sociale che si produce
nei soggetti che apprendono attraverso la mediazione dell’insegnamento in contesti specifici e attraverso sistemi di se-
gni e simboli, di amplificatori culturali diversi (tra i quali oggi è molto importante il computer)8.
Queste teorie non sempre si escludono a vicenda (in particolare, non si escludono le prime due né, tanto meno, secon-
da, terza e quarta; mentre la prima e la terza mostrano spesso incompatibilità) [F,126; L,91-93, 128, 256; Po,15-18].
Teoria Focus principale Variabili
e concetti chiave
Teorici più
rappresentativi
Utilità principali
per gli insegnanti
Comportamentismo Comportamento Stimoli Risposte
Rinforzo Punizione Modifica
comportamentale
Watson, Guhtrie,
Thorndike, Skinner
Spiega apprendimento di
abilità e atteggiamenti. En-
fatizza il rinforzo
Cognitivismo Conoscenza Decision-making Comprensione
Struttura cognitiva Percezione
Processi informativi Memoria
Ausubel, primo e se-
condo Bruner, Ga-
gné,
Piaget, Sternberg
Spiega lo sviluppo della
comprensione (significato).
Enfatizza l’importanza del
significato e della organiz-
zazione
Umanesimo Persona Concetto di sé
Autorealizzazione
Autostima
Maslow, Rogers Si focalizza sullo sviluppo
affettivo. Enfatizza adatta-
mento e benessere
Interazionismo Socio-
culturale
Interazione fra in-
dividuo, ambiente,
società e cultura
Società Cultura
Interazioni discorsive
Vygotskij, l’ultimo
Bruner, Olson
Si focalizza su comunica-
zione e mediatori culturali.
Enfatizza l’importanza del
significato.
[Per approfondire: v. AAppppeennddiiccee 11; v. anche Po,pp.41-65].
Il condizionamento
Alcune semplici forme di apprendimento richiedono una scarsa elaborazione o comprensione delle informazioni. Esse
possono aver luogo inconsciamente, e si applicano a certe forme di apprendimento animale, oltre che a quello umano.
Pavlov e Watson
Condizionamento classico di Pavlov
Uno stimolo o una situazione che prontamente produce una risposta può essere associato ad uno stimolo neutrale per
instaurare il condizionamento.
Ambientalismo di Watson
Le differenze delle persone sono semplicemente una funzione delle loro esperienze (alla nascita siamo tutti uguali, do-
tati di un certo numero di riflessi).
Il condizionamento classico, soprattutto delle reazioni emotive, avviene praticamente sempre e in tutte le scuole a pre-
scindere dagli altri tipi di apprendimento che hanno luogo nello stesso momento. Ed è principalmente attraverso questi
processi inconsci che gli studenti arrivano a disprezzare o ad amare la scuola, le materie, gli insegnanti e i relativi sti-
moli (nuova materia scolastica = stimolo neutrale; insegnante o classe o altro stimolo distintivo nell’ambiente immedia-
to dello studente, ripetutamente associato alla materia = stimolo incondizionato, che può essere associato a risposte
piacevoli – un banco comodo, un insegnante simpatico – o con reazioni più negative). Gli studenti imparano i vari at-
teggiamenti nei confronti delle materie, dell’apprendimento, della scuola e così via, soprattutto per mezzo del condi-
zionamento classico.
Contiguità / Rinforzo
Pavlov e Watson spiegano la formazione di rapporti tra gli stimoli sostenendo che l’accadimento simultaneo di eventi è
sufficiente a produrre un apprendimento (spiegazione di contiguità); Thorndike e Skinner, invece, spiegano tale forma-
zione riferendosi agli effetti del comportamento (approccio di rinforzo): sono le conseguenze di una risposta che por-
tano al suo apprendimento o non apprendimento.
Thorndike (1898)
Connessionismo
Nel puzzle box di Thorndike (gabbia da cui si può uscire eseguendo tre azioni: tirare una cordicella per liberare una
serratura, salire su una leva per liberarne una seconda, far scattare verticalmente un chiavistello per aprire la porta), un
gatto affamato, a cui giungeva il profumo di un pesce morto collocato in prossimità dell’uscita, dopo vari tentativi tipi-
ci quanto improduttivi (schiacciarsi tra le sbarre, graffiare sulla porta e miagolare…), continua a provare molte azioni
diverse fin quando, per puro caso, non indovina la soluzione giusta e riesce ad uscire dalla gabbia. Se mettiamo il gatto
nella stessa situazione una seconda volta, riuscirà ad uscire più velocemente, e sempre più velocemente la terza volta, e
8 Si troveranno, qua e là, parziali accavallamenti e doppioni fra parti teorico-pratiche dell’apprendimento umanistico e dell’apprendimento intera-
zionista socio-culturale (lo stesso si può dire per le concezioni della motivazione).
51
così via. Si tratta di un apprendimento per prove ed errori. Secondo Thorndike (1913), «Questi semplici fenomeni se-
mi-meccanici … che l’apprendimento animale svela, rappresentano gli elementi fondamentali anche
dell’apprendimento umano»: in una data situazione, una persona metterà in pratica un certo numero di risposte diverse
fin quando una di queste non porterà ad una soluzione; questa risposta viene dunque appresa (“impressa”).
L’apprendimento coinvolge dunque l’impressione di connessioni tra stimoli e risposte (connessionismo).
Leggi dell’apprendimento
Thorndike affronta poi le condizioni che portano alla “impressione” di “legami” (= connessioni); i dettagli delle quali
vengono espressi in una serie di leggi dell’apprendimento:
Legge dell’effetto: le risposte che hanno luogo subito prima di uno stato di cose soddisfacente tendono ad essere
“impresse” (apprese); quelle che hanno luogo subito prima di uno stato insoddisfacente, tendono ad essere “spente”
(dimenticate o non apprese). Dopo sperimentazione, nel 1931 Thorndike modificò così tale legge: mentre i fenomeni
soddisfacenti portano ad un apprendimento, quelli insoddisfacenti non provocano un annullamento, ma semplicemente
inducono chi apprende a fare qualcos’altro.
Legge dell’esercizio: i legami vengono rafforzati quanto più spesso vengono ripetuti (o esercitati). Questa scoperta
psicologica ebbe una fortissima influenza sull’educazione americana (e non solo) per molti decenni di questo secolo;
ma fu anche la legge sull’apprendimento che Thorndike rinnegò con più enfasi dopo il 1930: stabilì infatti – attraverso
sperimentazioni – che la ripetizione da sola non provoca apprendimento.
Legge della prontezza: certe risposte hanno maggiori o minori probabilità rispetto ad altre di essere apprese, a se-
conda della prontezza di chi le deve apprendere. Questa importante legge fornisce la base della definizione thorndikia-
na di ricompensa e punizione: uno stato di cose piacevole (ricompensa) risulta quando una persona è pronta a fare
qualcosa e le si permette di farla; allo stesso modo, non avere la possibilità di fare qualcosa quando si è pronti a farla, o
l’essere costretti a fare qualcosa quando non si è ancora pronti, produce una situazione spiacevole (punizione).
Legge delle risposte multiple: quando si trovano di fronte ad un problema difficile per il quale non hanno delle so-
luzioni pronte, gli individui si impegnano in una varietà di risposte diverse fin quando una di esse non produce un ef-
fetto soddisfacente (processo per prove ed errori).
Legge della tendenza o dell’atteggiamento: l’apprendimento è in parte una funzione di atteggiamenti o tendenze
predeterminate con cui reagire in certi modi; gli atteggiamento sono fortemente influenzati dalla cultura.
Legge della dominanza degli elementi: gli organismi reagiscono tipicamente agli elementi più significativi (o do-
minanti) di una situazione.
Legge della risposta per analogia: quando ci troviamo in una data situazione, tendiamo a reagire in un modo che
sarebbe appropriato in situazioni simili (analoghe); e cioè, trasferiamo le risposte da una situazione all’altra (capacità
estremamente importante per il nostro adattamento: generalizzazione o transfert).
Skinner e il condizionamento operante
Skinner ammette l’esistenza e la validità del condizionamento classico, e sostiene che molte risposte, definite risposte
provocate, possono essere causate da uno stimolo e possono essere condizionate da altri stimoli nel modo descritto da
Pavlov e Watson (condizionamento che egli definisce rispondente, in quanto ha luogo in risposta a uno stimolo). Ma
esiste una seconda classe di comportamenti, più grande e importante, che non sono provocati da uno stimolo conosciu-
to, ma che rappresentano semplicemente delle risposte emesse. Queste sono dette operanti, in quanto, in un certo sen-
so, rappresentano delle operazioni eseguite dall’organismo. Nel caso di un comportamento rispondente: l’organismo
reagisce all’ambiente; nel caso di un comportamento operante: l’organismo agisce sull’ambiente. Inoltre, i rispondenti
appaiono ampiamente involontari (automatismi), mentre gli operanti sono più volontari (deliberati e intenzionali).
Skinner dichiara che non solo di solito lo stimolo è sconosciuto, ma anche che, in ogni caso, esso è irrilevante ai fini
dell’apprendimento. Il legame che si forma è tra risposta e rinforzo, piuttosto che tra stimolo e risposta.
Nella Skinner box (scatola che poteva contenere una leva, una luce, una griglia elettrica sul pavimento ed un vassoio
per il cibo, il tutto sistemato in modo tale che premendo la leva, la luce si accende e viene rilasciata una pallina di cibo
sul vassoio), la maggior parte dei topi impara presto a premere la leva, e continuerà a farlo per lunghi periodi di tempo
anche se non riceveranno una pallina di cibo ogni volta che azioneranno la leva; analogamente, i topo possono essere
istruiti ad evitare la leva nel caso in cui questa produca una leggera scarica elettrica nella griglia posta sul pavimento
(ma se la corrente elettrica è costante, e cessa solo quando viene premura la leva, il topo impererà presto ad azionarla).
L’atto di premere la leva da parte del topo è un operante; le palline di cibo servono da rinforzo. Il condizionamento
operante rappresenta un aumento nella probabilità che una risposta avvenga di nuovo, essendo questo aumento una
conseguenza del rinforzo. Per di più, il modello skinneriano sostiene che la ricompensa, insieme a qualunque stimolo
discriminato (Sd: uno stimolo percepito dall’organismo) sia presente al momento del rinforzo, sono stimoli che, dopo
l’apprendimento, possono produrre un operante (la visione e l’odorato del topo all’interno della scatola alla fine pos-
sono servire da stimolo per provocare l’azionamento della leva).
Principi del condizionamento operante
Rinforzatore (reinforcement): è un fenomeno (uno stimolo qualsiasi che aumenta la probabilità di una risposta) il
cui effetto è il rinforzo. Qualsiasi situazione può essere altamente rinforzante per una persona ed estremamente spiace-
vole per un’altra. I rinforzatori possono essere primari (stimoli naturalmente rinforzanti, che non c’è bisogno di ap-
prendere; positivi – aumenta la probabilità di una risposta – e negativi – hanno lo stesso effetto di un risultato che vie-
ne rimosso da una situazione –) o generalizzati (stimoli precedentemente naturali che, attraverso ripetute associazioni
52
con un certo numero di altri rinforzatori in varie situazioni, ha generalmente assunto una valenza di rinforzo per molti
comportamenti).
Rinforzo (reinforce): positivo (ricompensa) e negativo (sollievo).
Punizione: I tipo (castigo): presentazione di uno stimolo nocivo, di solito nel tentativo di eliminare un comporta-
mento indesiderabile; II tipo (penalità): rimozione di uno stimolo piacevole.
Il rinforzo porta spesso a dei cambiamenti nel comportamento, cambiamenti che definiscono l’apprendimento; che la
punizione abbia un effetto uguale, anche se opposto, non è altrettanto ovvio (già Thorndike, nel 1931, ammetteva che il
piacere è molto più potente nell’imprimere delle risposte che un dolore ad annullarle). Oltre a considerazioni etiche o
umanitarie, vi sono altre ragioni per cui l’uso della punizione non risulta un mezzo completamente soddisfacente per
controllare il comportamento: -la punizione non illustra né enfatizza un comportamento desiderabile, ma dirige sempli-
cemente l’attenzione verso risposte indesiderabili (dunque non molto utile in apprendimento); -è spesso accompagnata
da effetti collaterali altamente indesiderabili; -non sempre porta all’eliminazione di una risposta, ma spesso solo alla
sua repressione; -spesso, poi, semplicemente non funziona. Meglio, dunque, il controllo positivo (ricompensa dei com-
portamenti buoni) del controllo dissuasivo (punizioni e rinforzi negativi, le cui conseguenze sono spesso
l’apprendimento di evitamento e di fuga, nonché l’aumento di comportamenti aggressivi).
Programmi di rinforzo
Attraverso esperimenti con piccioni e topi, Skinner tentò di scoprire (1) il rapporto tra il tipo e la quantità di rinforzo
usato e la qualità dell’apprendimento ottenuto e (2) il rapporto tra il modo in cui il rinforzo viene somministrato e
l’apprendimento. (1) Il tipo e la quantità di rinforzo sembrano influenzare gli individui in modo imprevedibile; (2) il
rapporto tra il programma di rinforzo ed il comportamento conseguente può essere indagato direttamente. I programmi
utilizzano il rinforzo continuato (una ricompensa per ogni risposta corretta). Oppure possono utilizzare il rinforzo in-
termittente (detto anche rinforzo parziale), con due possibilità: il programma a rapporto (rinforzo di una certa parte di
prove) ed il programma ad intervallo (basando il programma sul trascorrere del tempo); in ogni caso, possono sceglie-
re un programma fisso (assegnando il rinforzo in modo predeterminato) o un programma casuale o variabile (asse-
gnando il rinforzo in modo più fortuito). È possibile anche combinare un certo numero di programmi , usando un pro-
gramma combinato o misto (ed esiste anche un programma superstizioso: fornisce un rinforzo regolare a prescindere
da quello che fa chi apprende!).
Percentuale di apprendimento: Nei primi stadi dell’apprendimento, sembra che un rinforzo continuo sia più effi-
cace.
Percentuale di ritenzione: La percentuale di estinzione per il comportamento che è stato rinforzato continuamente
è notevolmente più rapida di quella relativa ad un comportamento che è stato rinforzato ad intermittenza.
Percentuale di risposte: Se un piccione viene rinforzato su una base a rapporto casuale, la sua percentuale di ri-
sposta sarà uniformemente alta e costante.
Il programma migliore sembrerebbe quindi costituito inizialmente da un rinforzo continuo, seguito successivamente da
un rinforzo intermittente; tra i programmi intermittenti, un arrangiamento a rapporto casuale di solito produce la per-
centuale più bassa di estinzione.
I comportamenti presentati da bambini piccoli che desiderano l’attenzione dei propri genitori tendono ad essere rinfor-
zati casualmente (e, di conseguenza, sono altamente persistenti). Questo ed altri studi compiuti, suggeriscono che an-
che l’uomo è in buona parte influenzabile dai programmi di rinforzo.
Modellamento = È un modo molto efficace per insegnare agli animali: prevede il rinforzo dell’animale per ogni com-
portamento che si avvicina al comportamento desiderato. È detto anche rinforzo differenziale delle approssimazioni
successive. Anche gran parte del comportamento umano viene modellato attraverso il rinforzo.
Generalizzazione e discriminazione = Generalizzazione: trasferimento di una risposta da una situazione ad un’altra si-
mile; discriminazione: il trattenersi dal dare una risposta a causa di alcune differenze tra questa situazione ed altre ma
in cui la risposta era palesemente più appropriata. Implicazioni educative dei principi operanti
[V. «La vita scolastica e la conduzione della classe»: p.119] Una classe è in qualche modo come una gigantesca Skin-
ner box, costruita in modo tale che certe risposte sono più probabili di altre. Facendo uso del rinforzo e della punizio-
ne, a volta in maniera deliberata e pianificata, a volte inconsciamente, l’insegnante modella il comportamento degli
studenti. Al di là di inutili allarmismi orwelliani, bisogna ammettere che l’insegnante può spesso trarre un immenso
profitto dalle scoperte degli psicologi sperimentali. Uno dei primi risultati diretti dell’applicazione della teoria skinne-
riana all’ insegnamento prevede l’uso delle tecniche di condizionamento operante nell’offerta sistematica di informa-
zione per mezzo di programmi scritti (una forma di istruzione programmata). Un’altra applicazione ha assunto la for-
ma di una forte enfasi sui metodi di controllo positivo (per es. il rinforzo positivo) piuttosto che sul controllo dissuasi-
vo (il rinforzo negativo e la punizione). Skinner è un forte sostenitore del rinforzo positivo, oltre che di approcci «pia-
cevoli ed atti ad attirare la attenzione» applicati all’insegnamento; per di più, egli presenta numerosi suggerimenti per
lo sviluppo si una tecnologia dell’insegnamento (1968). L’applicazione specifica e sistematica dei principi del condi-
zionamento operante alla educazione richiede che gli insegnanti si trasformino in analisti del comportamento: che si
dedichino sia alla identificazione e creazione di ambienti che portino a comportamenti desiderabili, sia all’offerta di
contingenze di rinforzo che servano a mantenere questi comportamenti.
I più importanti principi:
Il rinforzo è criticamente importante nel determinare l’apprendimento e il comportamento.
53
La punizione non è molto efficace per eliminare un comportamento indesiderabile.
L’interesse per il lavoro e per il miglioramento conduce all’apprendimento.
La significatività delle materie scolastiche e l’atteggiamento dello studente sono variabili importanti nella scuola.
La ripetizione senza rinforzo non favorisce l’apprendimento [v. anche AAppppeennddiiccee 22].
Un altro punto di vista
Esistono innumerevoli esempi in cui i principi comportamentistici non possono essere applicati. Raramente gli inse-
gnanti controllano alcuni dei rinforzatori più potenti (l’accettazione e l’elogio dei compagni, l’approvazione dei genito-
ri…). Inoltre, la maggior parte dei nostri problemi educativi non coinvolgono la creazione di un programma di rinforzo
atto a mantenere una risposta desiderabile, ma in primo luogo la produzione della risposta. Infine, l’applicazione dei
principi operanti ha spesso delle serie limitazioni: le tecniche di modificazione del comportamento applicate ai pro-
blemi comportamentali ignorano le cause del comportamento sbagliato, attribuiscono poca enfasi alla prevenzione e
spesso non presentano benefici a lungo termine (tecniche efficaci, che l’insegnante deve conoscere, ma insufficienti).
Un’argomentazione filosofica
Se la maggior parte dei comportamenti umani significativi sono controllati dal rinforzo o dalla sua assenza, ne segue
che siamo controllati dai nostri ambienti: che la libertà di cui godiamo è solo un’illusione. Skinner (1971) sostiene in-
fatti che la persona autonoma è un mito: noi siamo controllati dal nostro ambiente, ma si tratta di un ambiente del quale
abbiamo il controllo quasi totale. Egli descrive anche (1961) il modo in cui la pubblicità utilizza il rinforzo positivo
presentando donne seducenti nei loro spot commerciali, ed il modo in cui il controllo motivazionale viene raggiunto
creando dei rinforzi generalizzati; parla di una società che controlla attraverso il rinforzo positivo sotto forma di sti-
pendi, di regali o di mance, o che controlla attraverso le droghe, come i “riduttori di paura” per i soldati o gli steroidi e
la cocaina per gli atleti. Ma tutto questo è iniziato prima di Skinner, come egli stesso nota. Ciò nonostante la sua de-
scrizione della condizione umana subì forti attacchi, in particolare dagli psicologi umanistici [per approfondire il primo
connessionismo, v. «L’apprendimento» di Hill W. F., Zanichelli, 2000, pp.29-82; per le teorie skinneriane, ib., pp.83-
117].
La teoria sociale cognitiva di Bandura
L’essere umano, a differenza dell’animale, comprende le conseguenze del proprio comportamento: può anticipare e ra-
gionare e decidere di agire o non agire. I comportamentisti come Skinner ritengono sia inutile e dispendioso includere i
concetti mentali – imprecisi e spesso non osservabili – in una scienza dell’apprendimento e del comportamento umano.
Tuttavia, alcuni psicologi, come Albert Bandura (1963, 1977), hanno tentato di riconoscere e comprendere queste atti-
vità mentalistiche pur rimanendo fedeli all’enfasi comportamentistici sugli eventi osservabili. Concettualmente, la sua
teoria assolve al compito di importante transizione tra gli approcci comportamentistici e quelli cognitivi, e viene spesso
definita teoria sociale cognitiva.
L’apprendimento sociale
L’apprendimento sociale può riferirsi al modo in cui l’apprendimento ha luogo (il processo: attraverso un’interazione
sociale) o a cosa viene appreso (il prodotto: i comportamenti accettabili).
Il prodotto = Un comportamento accettabile varia sia in base alla cultura sia in base al gruppo appartenente ad una data
cultura. Analogamente, un comportamento socialmente accettabile è spesso una funzione dell’età e del sesso di appar-
tenenza. Probabilmente uno dei compiti più importanti dell’ambiente domestico nei primi anni di vita di un bambino, e
più tardi della scuola, è quello di promuovere lo sviluppo di comportamenti appropriati: un processo chiamato socia-
lizzazione. Questo processo prevede la trasmissione della cultura di una società e l’insegnamento di comportamenti ap-
propriati al sesso ed alle circostanze sociali (oppure, in un mondo più ideale, l’insegnamento del fatto che
l’adeguatezza dei comportamenti non dipende dal sesso di appartenenza).
Il processo = Secondo Bandura, l’apprendimento sociale ha luogo soprattutto attraverso l’imitazione, un processo detto
anche “apprendimento frutto di osservazioni” (“emulazione di un modello”: modeling; apprendimento vicario). Esso
prevede l’acquisizione di nuove risposte o la modificazione di risposte vecchie in conseguenza della visione di un mo-
dello che mette in atto determinati comportamenti. Bandura (1969) sostiene che i processi coinvolti nell’imitazione so-
no fra i «metodi fondamentali con cui vengono acquisiti nuovi modelli comportamentali e modificati i modelli già esi-
stenti». È principalmente attraverso il processo dell’apprendimento sociale e del’imitazione che mode ed espressioni
attraversano i paesi.
Panoramica della teoria sociale cognitiva
La teoria di Bandura si basa in parte su un modelli di condizionamento operante.
Molto dell’apprendimento umano è una funzione dell’osservazione ed imitazione del comportamento di altri o di
modelli simbolici (in termini skinneriani: i comportamenti imitativi possono essere considerati come degli operanti).
Noi impariamo ad imitare venendo rinforzati nel nostro apprendimento; un rinforzo continuo mantiene il compor-
tamento imitativo.
Taluni aspetti dell’imitazione (o dell’apprendimento frutto di osservazione) possono essere dunque spiegati in
termini di condizionamento operante.
La teoria di Bandura (detta anche determinismo reciproco) riconosce l’importanza fondamentale della nostra capacità
di simbolizzare, immaginare, di scoprire i rapporti di causa-effetto e di anticipare le conseguenze dei nostri comporta-
menti. L’ambiente influisce chiaramente sulle nostre azioni; ma il rinforzo non ci controlla ciecamente: i suoi effetti
dipendono largamente dalla nostra consapevolezza del rapporto esistente tra il nostro comportamento e le sue conse-
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guenze. L’enfasi principale è sulle capacità di informazione che guidano il comportamento di un individuo. Non è il
rinforzo che produce o influenza direttamente il nostro comportamento, ci fa notare Bruner (1985), in quanto il rinfor-
zo avviene dopo il comportamento; è piuttosto l’anticipazione delle conseguenze di una certa azione da parte
dell’individuo che influisce immediatamente sull’apprendimento ed il comportamento. La nostra capacità di simboliz-
zare ed anticipare si riflette non solo nella nostra capacità di immaginare i risultati delle nostre azioni e quindi di go-
vernare noi stessi di conseguenza, ma anche nella nostra abitudine di sistemare deliberatamente l’ambiente per control-
lare alcune conseguenze delle nostre azioni. Gli effetti dei modelli sono soprattutto una conseguenza di ciò che Bandu-
ra (1977) definisce come la loro “funzione informativa”: osservando i modelli noi impariamo cognitivamente non solo
come fare certe cose, ma anche quali potrebbero essere le conseguenze delle nostre azioni. Nell’apprendimento frutto di osservazioni sono coinvolti quattro processi distinti
Processi dell’attenzione: oltre al valore affettivo e funzionale del comportamento assunto come modello, molti al-
tri fattori influiscono sui processi dell’attenzione; ad es.: l’unicità, la complessità e la prevalenza degli stimoli, ma an-
che alcune caratteristiche di chi apprende, compreso l’interesse (motivazione), la situazione percettiva (prontezza
nell’osservare) e la storia di rinforzi precedenti.
Processi della ritenzione: poiché gli effetti dell’imitazione sono solitamente differiti, abbiamo la necessità di sim-
bolizzare, comprendere ed organizzare le nostre osservazioni. Bandura prevede due tipi di sistemi rappresentazionali:
quello visivo (“immaginale”) [e l’auditivo?] e quello verbale; egli suggerisce che il modo migliore per imparare da un
modello è quello di organizzare e riprovare cognitivamente il comportamento osservato e poi metterlo in atto (per es.:
studi dimostrano che la ripetizione mentale di una complessa sequenza motoria può migliorare significativamente la
performance).
Processi di riproduzione motoria: trasformazione di azioni simbolicamente rappresentate (mentalmente visualiz-
zate o immaginate) in movimento fisici. L’accurata riproduzione motoria di un comportamento osservato dipende (ol-
tre che da capacità fisiche essenziali) anche dalla capacità dell’individuo sia di monitorare le proprie riproduzioni sia
di usare un feedback motorio per correggere gli errori (riproduzioni ripetute, attentamente modellate, che vengono va-
lutate e modificate in funzione di un feedback).
Processi motivazionali: molto di quello che viene osservato e presumibilmente acquisito non viene mai eseguito;
se il comportamento preso a modello verrà mai messo in atto dipende dal rinforzo oppure, più precisamente, dal rin-
forzo anticipato.
Prevalenza dell’imitazione
Copiare il comportamento altrui è un fenomeno ampiamente diffuso, forse più ovvio nelle società non-tecnologiche. Modelli
Il termine modello può riferirsi ad una persona reale il cui comportamento serve da stimolo per la risposta di un osser-
vatore, oppure, come accade più di frequente nelle nostre società, può riferirsi a modelli simbolici: istruzioni orali e
scritte, immagini mentali, personaggi di film, figure religiose, contenuti e personaggi di libri e televisione. Per alcuni
bambini i modelli simbolici possono essere importanti quanto i modelli della vita reale. Fattori di rinforzo dell’imitazione
Rinforzo diretto: è il più evidente nel primo apprendimento del bambino.
Conseguenze del comportamento: soprattutto se si tratta di un comportamento socialmente accettabile efficace nel
raggiungere un obiettivo.
Rinforzo vicario: prevede la creazione di un rinforzo di seconda mano dall’osservazione di qualcuno che si com-
porta in un certo modo (è come se l’osservatore decidesse che il modello fa qualcosa perché ottiene un rinforzo da tale
comportamento). Nella logica dell’osservatore, chiunque intraprenda lo stesso comportamento riceverà lo stesso rin-
forzo. Studi hanno dimostrato che la somministrazione di una ricompensa o di una punizione ad un modello ha un certo
effetto sul comportamento dell’osservatore, effetto simile a quello che avrebbe la somministrazione diretta di una ri-
compensa o di una punizione. Effetti dell’imitazione
Esistono tre diverse categorie di comportamento imitativo (Bandura e Walters 1963):
Effetto modellante: prevede l’acquisizione di un nuovo comportamento in conseguenza della visione di un modello
che attua tale comportamento. Studi dimostrano che bambini esposti a modelli aggressivi (reali, ma anche simbolici:
film, tv…) mostrano un comportamento più violento rispetto ai gruppi di controllo (e le loro risposte sono solitamente
imitative in modo alquanto preciso). Non è chiaro se la violenza televisiva, documentata da studi, può avere realmente
un significativo impatto a lungo termine. Un esempio di effetto modellante è anche l’apprendimento del linguaggio.
Effetto inibitorio-disinibitorio: rappresenta la repressione di un comportamento deviante in un osservatore, di soli-
to dopo aver visto un modello punito per aver intrapreso un comportamento analogo (inibizione); ovvero l’opposto,
quando un osservatore intraprende un comportamento deviante precedentemente appreso, di solito dopo aver visto un
modello ricompensato (o almeno non punito) per un comportamento analogo (disinibizione). Particolarmente impor-
tante per gli insegnanti quando si trovano ad affrontare comportamenti devianti. Studi documentano che le risposte ag-
gressive di bambini dopo la visione di film, non erano nuove, ma apprese precedentemente e poi represse. I risultati di
varie ricerche indicano che l’esposizione a modelli aggressivi può avere un effetto disinibitorio sui giovani osservatori;
mentre la punizione di chi sbaglia spesso non riesce a scoraggiare altri trasgressori (se un soggetto riceveva degli in-
centivi affinché si comportasse in modo aggressivo, l’esempio del modello non contava più).
Effetto alone: prevede il comportamento di un modello che produce delle risposte che non corrispondono necessa-
riamente con quelle del modello, ma che appartengono alla stessa classe (l’osservatore non imita direttamente il com-
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portamento del modello, ma emette una risposta ad esso correlata). Un esempio è anche il comportamento gregario
spesso evidente nelle folle che assistono ad eventi sportivi (applausi o fischi “contagiosi”…).
Implicazioni educative
L’apprendimento imitativo ha il vantaggio di fornire una completa sequenza comportamentale per chi apprende; non
c’è alcun bisogno di successive approssimazioni, di prove ed errori o di associazioni di contiguità.
Molti dei fattori associati ai processi dell’attenzione (la particolarità degli stimoli, il livello di stimolazione di chi ap-
prende, la storia dei rinforzi passati…) sono almeno in parte sotto il controllo dell’insegnante. Analogamente, il docen-
te può offrire direzione ed opportunità per le attività coinvolte nella ritenzione e nella riproduzione. E poiché gli effetti
del rinforzo dipendono dalla nostra consapevolezza della connessione tra il nostro comportamento e le sue conseguen-
ze, l’insegnante può esercitare anche una notevole influenza sui processi motivazionali [per la cosiddetta gestione del
comportamento v. anche «La vita scolastica e la conduzione della classe»: p.119]. Più recentemente (Bandura 1993), la
teoria sociale cognitiva ha preso una piega nuova, ancor più cognitiva, avendo a che fare con quello che viene definito
pensiero referente (un pensiero, cioè, che riguarda i nostri processi mentali e l’idea che abbiamo della nostra efficacia
personale, la cosiddetta auto-efficacia): «Le convinzioni relative all’efficacia influenzano il modo in cui le persone si
sentono, pensano, motivano se stesse e si comportano» [v. anche p.74].
Il cognitivismo
Il cognitivismo abbonda di metafore (Bruner, 1990); questo perché gran parte di ciò che esso affronta non può essere
descritto con precisione: deve essere dedotto più che visto. Una metafora non può essere guardata in base alla sua pre-
cisione, ma solo in base alla sua utilità (o interesse). La metafora dominante del cognitivismo è quella
dell’elaborazione dati, nata insieme ai computer, e strettamente correlata alla branca della scienza informatica interes-
sata all’intelligenza artificiale. Questa metafora sostiene che è utile guardare al funzionamento cognitivo umano come
se funzionasse come un computer. Ma esistono altri approcci, che ricorrono ad etichette come “base conoscitiva”,
“strategia cognitiva” o “metacognizione”, per le proprie metafore: si tratta di astrazioni, invenzioni della teoria cogniti-
va, che nessuno ha mai visto, ma che, una volte descritte, consentono di dire che chi apprende si comporta come se
avesse una base conoscitiva (il deposito di informazioni, concetti ed associazioni che noi costruiamo negli anni) e delle
strategie cognitive (i processi con cui l’informazione diventa parte della nostra base conoscitiva, viene recuperata da
essa, o usata); si definisce invece metacognizione la consapevolezza individuale del sé come conoscitore ed elaborato-
re di informazioni.
Un modello base di elaborazione dati
Il modello base di elaborazione dati attualmente più usato come metafora nella scienza cognitiva è essenzialmente un
modello di memoria umana. Questo modello (Atkinson e Shiffrin, 1968) distingue: memoria a breve termine (o memo-
ria operante o memoria di lavoro: MBT o MDL) e memoria a lungo termine (MLT), e talvolta anche una memoria
sensoriale (o memoria [onomatopeica?] ecoica – per gli stimoli uditivi – e iconica – per quelli visivi –). Ogni tipo di
immagazzinamento si distingue principalmente in base alla natura e al livello di elaborazione delle informazioni.
L’elaborazione processuale si riferisce ad attività quali l’organizzazione, l’analisi, la sintesi, la ripetizione e così via;
in più, i tre tipi di immagazzinamento differiscono nella capacità e nel livello di accessibilità dei loro contenuti. Funzione Uomo Struttura
S
Atti cognitivi (pensare,
problem solving, creare…)
R Sensi Sistema nervoso
Sistema di risposte
Computer
Input Software
(operazioni programmate)
Output Sensori (tastiera)
Hardware (chip, relè, impianto)
Stampante, schermo
Memoria sensoriale
È l’etichetta usata per descrivere gli effetti immediati e inconsci della stimolazione. La ricerca indica che molta della
stimolazione cui non facciamo attenzione è comunque disponibile per essere elaborata, forse per una frazione di se-
condo (es.: «fenomeno del cocktail party»). La memoria sensoriale è altamente limitata, sia in termini di durata nel
tempo durante il quale l’informazione-stimolo è disponibile all’elaborazione, sia in termini di quantità assoluta di in-
formazioni disponibili (tranne, forse, nel caso delle immagini eidetiche).
Memoria a breve termine (MBT)
È costituita da ciò che è nella nostra coscienza immediata in un dato momento. Precede l’attenzione: quando il sogget-
to osserva uno stimolo (ne diventa cosciente), questo passa alla MBT. La sua capacità è altamente limitata (Miller, nel
1956, giunse alla conclusione che la sua capacità media è di circa 7 ±2 elementi separati; adulti e adolescenti ricordano
infatti normalmente 6 o 7 item – talvolta 9 o più – mentre i bambini di 6 anni sono in grado di ripeterne solo 2 o 3): se
arrivano informazioni nuove, devono essere necessariamente fatti uscire dati vecchi (come nel buffer del computer).
Sebbene l’uomo non possa fare attenzione a più 7 elementi per volta, un processo detto raggruppamento aumenta no-
tevolmente la capacità della MBT (un raggruppamento è semplicemente l’unione di elementi correlati fra loro). Le in-
formazioni che riceviamo tramite i sensi e alle quali prestiamo attenzione fanno dunque ingresso nella MBT, dove però
possono essere mantenute solo per breve tempo (20 secondi circa), dopodiché o vengono dimenticate oppure vengono
trasferite nella memoria a lungo termine. Questo trasferimento è una condizione essenziale per l’apprendimento. Si ri-
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tiene che questo processo implichi una qualche forma di consolidamento, in genere una breve pausa durante la quale le
informazioni vengono trattenute a livello conscio nella mente, ovvero vengono continuamente ripetute. Recentemente
sempre più prove dimostrano che è possibile insegnare certi aspetti delle strategie cognitive – come la ripetizione, ed
altre strategie di metamemoria – fondamentali nella MBT.
La grande utilità della MBT è che essa ci consente di tenere a mente delle informazioni per un tempo sufficientemente
lungo per dare un senso alle conseguenze di parole e direzione, per risolvere i problemi e per prendere delle decisioni.
Memoria a lungo termine (MLT)
Comprende tutte le informazioni relativamente stabili sul nostro mondo, tutto quello che conosciamo ma che non si
trova nella nostra coscienza immediata. A differenza della MBT, che può essere facilmente disturbata dagli eventi
esterni, la MLT non può essere disgregata con facilità. Noi trasferiamo le informazioni dal magazzino sensoriale a
quello a breve termine soprattutto attraverso i processi dell’attenzione, e le manteniamo nella MBT principalmente at-
traverso la ripetizione; ma il trasferimento del materiale dalla MBT alla MLT coinvolge qualcosa di più della semplice
ripetizione: esso prevede la codificazione, un processo con cui viene tratto il significato di un’esperienza. Cermak,
Craik e Lockhart (1972, 1979) autori del modello dei livelli di elaborazione, suggeriscono che la memoria deriva spe-
cificamente dal livello in cui vengono elaborate le informazioni: le informazioni non elaborate lasciano solo una mo-
mentanea impressione sensoriale (memoria sensoriale), quelle semplicemente ripetute sono disponibili per qualche se-
condo (MBT) e quelle elaborate più in profondità trovano spazio nella MLT. Ma non tutto il materiale nella MLT vie-
ne elaborato allo stesso livello: una parola può, per es., essere elaborata ad un livello molto superficiale facendo atten-
zione alla sua sola apparenza fisica, oppure – meno superficialmente – si può fare attenzione alla pronuncia, o – ancor
più in profondità – si può tener conto del suo significato (codificazione semantica). È importante notare che i nostri ri-
cordi a lungo termine non sono sempre delle esatte riproduzioni di ciò che abbiamo vissuto: i ricordi cambiano note-
volmente con passare del tempo, spesso in modo prevedibile; essi tendono ad essere generativi piuttosto che puramen-
te riproduttivi (secondo Loftus – 1979 – molto di ciò che ricordiamo viene modificato da eventi intercorrenti e appan-
nati dal passare del tempo).
Tipi di MLT
memoria non-dichiarativa (o memoria procedurale o implicita): conoscenze che non possono essere tradotte in pa-
role; memoria conscia di fatti ed eventi
memoria dichiarativa (o memoria esplicita): conoscenze stabili che possiamo tradurre in parole
memoria semantica: conoscenza generale e astratta del mondo
memoria episodica: reminiscenze personali su ciò che abbiamo detto o fatto, sulle esperienze che abbiamo avu-
to… (piccoli episodi della nostra vita)
Processi della MLT
L’obiettivo del sistema di elaborazione dati che abbiamo descritto è semplicemente quello di dare un significato alle
sensazioni più importanti e ignorare o scartare le questioni più banali. Per raggiungere tale obiettivo, il sistema utilizza
diversi processi.
Attenzione: uno dei processi più importanti, il mezzo con il quale le informazioni vengono trasferite dal magazzi-
no sensoriale a quello a breve termine.
Ripetizione: enumerazione continua del nome del materiale che deve essere appreso, fin quando sentiamo che dif-
ficilmente potrà sfuggirci; serve non solo a mantenere le informazioni nella MBT, ma anche a trasferire il materiale
grezzo dal magazzino a breve termine a quello a lungo termine. La maggior parte dei bambini inferiori ai 5 anni non
sanno ripetere spontaneamente e difficilmente possono impararlo.
Elaborazione: processo cognitivo per mezzo del quale il materiale viene esteso o aggiunto per renderlo più facile
al ricordo. Per es.: associare immagini mentali agli item da ricordare (Higbee suggerisce che, poiché i nostri ricordi so-
no altamente visivi, l’uso delle immagini mentali è un aspetto importante della maggior parte dei sistemi mnemonici),
formare associazioni tra un materiale nuovo ed uno già noto (la ricerca suggerisce che le elaborazioni relative al signi-
ficato sono facili da ricordare). I bambini inferiori ai 12 anni non sanno elaborare deliberatamente per migliorare il ri-
cordo.
Organizzazione: si riferisce al raggruppare e collegare le informazioni. Per es.: talvolta si possono correlare tra lo-
ro alcuni nomi di una liste raggruppandoli per categorie uniformi, e così migliorarne il ricordo (i bambini piccoli non
hanno le capacità necessarie per attivare questi processi). Posso essere strategie estremamente semplici o estremamente
complesse; ciò che hanno in comune è che si basano su analogie e differenze (gli esseri umani – e forse anche altri
animali – sembrano avere la tendenza a notare analogie e differenze – così come altri rapporti – e a generalizzare par-
tendo da esse). Noi tendiamo ad estrarre elementi comuni dalle varie esperienze, arrivando in questo modo a concetti o
idee che possiamo ricordare; ed è stato dimostrato che molte delle nostre organizzazioni di concetti o idee in relazione
tra loro risultano dall’applicazione delle strategie che abbiamo appreso. Inoltre, quando diventiamo consapevoli delle
varie strategie che possiamo usare per dare senso al nostro mondo (e per imparare a ricordare), diventiamo consapevoli
anche di noi stessi come organismi in grado di apprendere e ricordare. Impariamo le cose, ed impariamo ad imparare:
sviluppiamo, cioè, abilità metacognitive.
Fattori che interferiscono con la MLT
Ansia [v. 72].
Teoria della dissolvenza (o teoria del decadimento): il materiale che non viene utilizzato dalla mente abbastanza
spesso tende a dissolversi dalla memoria. Molti psicologi non giudicano molto interessante questa teoria; sostengono
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che il tempo da solo non causa l’oblio più di quanto non faccia arrugginire un metallo o erodere una montagna: sono
gli altri eventi che avvengono durante il passare del tempo che spiegano questi fenomeni.
Distorsione: quei ricordi che non si dissolvono completamente vengono spesso distorti.
Rimozione: sembra che le persone tendano a dimenticare gli eventi per loro particolarmente spiacevoli (i freudiani
ritengono che i ricordi dolorosi vengono filtrati dal subconscio, dove l’individuo non ne è consapevole, anche se pos-
sono continuare ad avere una profonda influenza sulla vita [v. anche p.85]).
Interferenza (o inibizione) retroattiva: si manifesta quando il materiale appreso di recente sembra inibire il ricordo
di ciò che si è appreso in precedenza.
Interferenza (o inibizione) proattiva: si manifesta quando le cose appresa in precedenza sembrano bloccare il ri-
cordo di quelle apprese dopo. Si può fare ben poco a scuola; si manifesta comunque di più quando si studiano due ar-
gomenti somiglianti; si tratta in ogni modo di un problema non grave, tendente a sparire via via che il materiale nuovo
diventa familiare.
Fallimento del recupero: alcuni psicologi sostengono che l’oblio può essere spiegato dalla incapacità di recupera-
re dalla memoria, più che dai motivi sopra citati.
Implicazioni educative
Un materiale significativo e ben organizzato viene appreso più facilmente e ricordato per periodi di tempo più lunghi
rispetto ad un materiale insignificante; gli eventi forti tendono ad essere ricordati con maggiore facilità e chiarezza; una
ripetizione frequente migliora il ricordo a lungo termine; il materiale visivo ha un maggiore impatto sulla memoria ri-
spetto al materiale verbale. Strategie per favorire il consolidamento ed aumentare l’efficienza della MLT in generale
Utilizzare la ripetizione: contro la teoria della dissolvenza, le scuole offrono agli studenti una varietà di opportuni-
tà per esercitarsi e ripetere ciò che hanno appreso; per di più, un buon insegnante è attento ad enfatizzare gli aspetti più
importanti e distintivi (più facili da ricordare) di una situazione (per opporsi alla teoria della distorsione).
Utilizzo di analogie e differenze: per contrastare gli effetti della interferenza, è importante la generalizzazione (o
trasferimento positivo: l’apprendimento precedente facilita quello nuovo, fenomeno evidente nell’apprendimento di
una seconda lingua, praticamente opposto dell’interferenza proattiva, considerabile una sorta di trasferimento negati-
vo). Può dunque essere utile associare materiale nuovo a quello vecchio, enfatizzando analogie (che facilitano il trasfe-
rimento positivo) e differenze (che minimizzano il trasferimento negativo).
Fare una pausa, ripetere, e porre domande: azioni che stimolano gli alunni a restare sul materiale didattico quel
tanto da rendere possibile il trasferimento.
Attinenza ed interesse: le cose che i bambini ricordano meglio sono quelle che hanno attinenza concreta con le lo-
ro esperienze e che li coinvolgono personalmente.
Durata dell’attenzione: con una classe normale e in qualunque momento dato, l’insegnante può aspettarsi di riu-
scire a tener desta l’attenzione della classe per non più di un minuto/un minuto e mezzo per ogni anno di età degli
alunni.
Utilizzazione pratica: il materiale utilizzato concretamente tende ad essere ricordato meglio.
Significato: il materiale che si capisce è più facile da ricordare.
Sovrapprendimento: materiale sovrappreso (esercizio e ripasso anche dopo apprendimento perfettamente avvenu-
to) si conserva nella memoria meglio (in particolare ciò vale per materiali che occorre ricordare in situazione ansioge-
na).
Associazione: il materiale non familiare si ricorda meglio se associato a qualcosa di familiare (dal noto
all’ignoto...); particolarmente utile l’associazione visiva.
Riconoscimento e ricordo: il primo ha luogo più facilmente del secondo (l’insegnante, dunque, quando può, aiuti
la capacità di ricordo offrendo indicazioni utili al riconoscimento).
Esercitare la memoria: non esistono dati che confermino che imparare a memoria lunghe poesie si rinforzi la me-
moria; i risultati, semmai, si possono avere imparando determinate strategie di memorizzazione. Alcune tecniche mne-
moniche possono aiutare: dai più elementari stratagemmi, sino all’associare ogni numero da memorizzare a una parola
che con esso fa rima, e quindi associando le stesse associazioni a fatti da imparare a memoria, ma ricorrendo preferi-
bilmente a immagini visive (utilità comunque limitata).
Specifici aiuti mnemonici (stratagemmi mnemonici): per le informazioni dichiarative (semantiche) Tulving sostie-
ne che i metodi di recupero più efficaci sono quelli che coincidono con il tipo di ricordo in questione (per le parole è
migliore l’enfatizzazione dei significati, per l’ortografia delle parole sono invece più efficaci gli indizi che enfatizzano
le lettere…). Esiste una grande varietà di altri specifici metodi e tecniche di recupero che possono esser insegnati e ap-
presi e che sono potenzialmente molto utili in ambito scolastico.
Rime a altri detti: rime, schemi, acronimi ed acrostici rappresentano comuni stratagemmi mnemonici («Trenta
giorni ha Novembre…»); l’aiuto mnemonico del raggruppamento fa uso di schemi («cinque milioni, cinquecentocin-
quantunmila duecentododici» è più difficile da ricordare di «555-1212»). Gli acronimi sono indizi letterari che aiuta-
no a ricordare (acronimo molto famoso: ONU); gli acrostici, invece, ricorrono a frasi in cui la prima lettera di ogni
parola rappresenta un item di informazione da ricordare.
Sistema dei collegamenti: prevede che il soggetto visualizzi l’item da ricordare e formi una forte associazione vi-
siva (legame) tra di esso ed altri elementi da ricordare. Funziona sorprendentemente bene, ma presenta degli svantag-
gi, tra i quali: (1) spesso è difficile ricordare il primo item della lista (si può allora formare un’associazione visiva tra
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il primo elemento ed una situazione che facilita il ricordo dell’elemento in questione); (2) se non si può ricordare uno
qualsiasi degli elementi, è difficile ricordarsi uno degli elementi successivi.
Sistema dei luoghi (o dei loci): supera il succitato svantaggio (2) , giacché in questo sistema si formano sempli-
cemente delle associazioni tra gli elementi da ricordare e luoghi familiari (che quindi sono facili da visualizzare). Il
vantaggio consiste soprattutto nel fatto che, se si dimentica il primo elemento (poniamo associato all’ingresso della
propria casa), si può sempre partire da un altro (magari associato al bagno).
Sistema fonetico: è sicuramente il più potente, anche se richiede uno sforzo notevolmente maggiore. I- Associare
numeri e consonanti (di solito l’1 viene rappresentato con una lettera come t o l; il 2 con n, 3 con m e 9 con p; le vo-
cali sono escluse), II- formare una forte immagine visiva di ognuna delle parole che corrispondono ai numeri. Es.: se
abbiamo davanti una lista di cose da ricordare ed il ventunesimo elemento è una scarpa, possiamo visualizzare un
nuotatore con su una scarpa (nuoto = nt = 21).
Le buone abitudini di studio
Lavorare in un ambiente privo di distrazione; sovrapprendimento (v. 57); obiettivi di lavoro realistici (meglio esplici-
tare gli obiettivi davanti ad altri); premi (programma che preveda piccoli premi-rinforzo); puntualità (prevenendo
complicate strategie per rimandare); apprendimento per parti e apprendimento globale (leggere prima interamente, per
comprenderne il senso generale; successivamente spezzare in piccole unità, apprendendo metodicamente); organizza-
zione del materiale (prendere appunti e riorganizzare in forma più gradevole, mettere ordine, essere completi di riman-
di...); memoria orale, non solo visiva (registrare su nastro, anche, e riascoltare); ripasso (scaglionato in fasi graduali -
quello “lampo” produce interferenze retroattive; il ripasso migliore è quello che si fa prima di aver dimenticato il mate-
riale: «ripasso di mantenimento») [F,127-129; L,128-142].
La metacognizione
È utile distinguere tre diversi aspetti: a- la consapevolezza, più o meno esplicita, delle conoscenze e capacità (processi
e strategie cognitivi) possedute (per es.: la convinzione personale sull’efficacia della sottolineatura per facilitare
l’apprendimento); b- la capacità di autoregolazione o di controllo dei processi e delle strategie cognitive implcate nel
compito da affrontare (per es.: il tentativo di stimare la difficoltà di un capitolo o di un passaggio, e la decisione di
prendere o meno delle note, di sottolineare o semplicemente di leggere); c- la consapevolezza e la competenza autore-
golativa dei processi di natura affettiva, motivazionale e volitiva [Po,234].
Lo sviluppo della metacognizione
I bambini piccoli non hanno ancora sviluppato le capacità della metacognizione (conoscenza della conoscenza) o della
metamemoria (conoscenza della memoria), inclusa nella metacognizione. Ciò non significa che essi non fanno uso di
strategie cognitive, ma semplicemente che non ne sono consapevoli e non le applicano coscientemente (per lo meno si-
no agli 8-9 anni). Semplici strategie specifiche possono essere insegnate anche ai bambini piccoli, ma essi hanno anche
bisogno che venga loro insegnato quando usarle.
Le strategie della cognizione
Sembra che l’uomo abbia una tendenza naturale ad estrarre dei concetti generici dall’esperienza, così come ad impara-
re come imparare e come ricordare.
Storicamente, la maggior parte delle strategie cognitive o di insegnamento (e apprendimento) avvengono casualmente
mentre si insegnano altre cose. Recentemente, però, sono stati fatti dei tentativi per sviluppare programmi designati
specificamente ad insegnare strategie cognitive. Strategie educative di apprendimento/pensiero
Rappresentano gli strumenti di elaborazione/pensiero delle informazioni da parte di chi apprende.
Categorie di strategie di apprendimento/pensiero
Strategie semplici di ripetizione Ripetizione semplice (es.: «pugna, pugnæ, pugnæ, pugnam, pugna, pugna»)
Strategie complesse di ripetizione Sottolineatura di tutti gli aspetti importanti di un testo
Strategie semplici di elaborazione Creazione di immagini mentali o altre associazioni (come acronimi, acrostici…)
Strategie complesse di elaborazione Creazione di analogie, parafrasi, riassunti e rapporti
Strategie semplici di organizzazione Raggruppamento, classificazione, ordinamento
Strategie complesse di organizzazione Identificazione delle idee principali; elaborazione di tabelle riassuntive (come questa)
Strategie di controllo della comprensione Porre domande a se stessi; recitare i punti principali; porsi obiettivi e verificare i progressi
Strategie affettive e motivazionali Anticipazione delle conseguenze dei successi scolastici; respirazione profonda ed altre tecniche di
rilassamento
Applicazioni educative
Recentemente, sono stai messi a punti molti programmi designati specificamente allo sviluppo di abilità cognitive; so-
no programmi che appoggiano una varietà di approcci educativi, compresi l’apprendimento di gruppo (es.:
l’apprendimento cooperativo), l’istruzione individuale (es.: le domande dell’insegnante designate a promuovere speci-
fiche abilità di pensiero), le procedure di modellamento (in cui, ad es., viene verbalizzata una strategia cognitiva men-
tre viene eseguita), e vari programmi in cui gli studenti vengono preparati all’uso di strategie specifiche. I vari pro-
grammi enfatizzano abilità diverse, che a loro volta portano allo sviluppo di una varietà di programmi per
l’insegnamento del pensiero; questi assumono tipicamente forme diverse: la forma solitaria (le abilità cognitive vengo-
no insegnate come una materia separata), la forma inserita (le abilità cognitive vengono insegnate all’interno del conte-
sto di altre materie; ha il vantaggio di apparire più rilevante agli occhi degli studenti, ed è di più facile applicazione in
quanto parte di un normale programma scolastico; inoltre, non richiedendo una lezione a parte, è meno costosa e più
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facile da programmare), la forma dell’immersione (simile alla inserita, ma con maggior enfasi sulle idee più che sulle
capacità e sui processi) [v. AAppppeennddiiccee 33].
Le condizioni dell’apprendimento e dell’insegnamento: la teoria di Gagné
Robert Gagné presenta una teoria dell’apprendimento che è sia comportamentista sia cognitiva.
L’apprendimento sequenziale descritto dalla teoria cognitiva può essere, secondo Gagné, così riassunto = la stimola-
zione influenza i ricettori sensoriali di chi apprende (percezione selettiva), le informazioni vengono immagazzinate
momentaneamente nella MBT, dove rimangono coscienti finché vengono ripetute; in uno stadio successivo, il materia-
le può essere nuovamente modificato attraverso un processo di codificazione semantica (si stabilisce il significato del
materiale), dopo il quale vengono quindi immagazzinate nella MLT. Diverse procedure di ricerca e recupero possono
quindi consentire a chi apprende di richiamare queste informazioni dal magazzino a lungo termine, dove sono rilevanti
per il comportamento; ed un altro processo (organizzazione della risposta) può servire a combinare e modificare le in-
formazioni recuperate ed usarle nella guida del comportamento. Gagné riassume dunque quello che definisce un atto di
apprendimento in nove processi od eventi (1992): a- Ricezione degli stimoli b- Registrazione delle informazioni da
parte dei registri sensoriali c- Percezione o attenzione selettiva ed immagazzinamento momentaneo nella MBT d- Ri-
petizione che conserva le informazioni nella MBT e- Codificazione semantica che trasferisce le informazioni nella
MLT f- Recupero dalla MLT g- Produzione della risposta h- Performance reale da parte di chi apprende i- Uso di stra-
tegie per controllare tutti questi processi. L’apprendimento, dice Gagné, spesso coinvolge il rinforzo, la ripetizione, la
contiguità ed altre condizioni esterne che sono state ampiamente indagate dagli psicologi comportamentisti; ma può
coinvolgere anche una varietà di altre condizioni interne, evidenti nello stato mentale di chi apprende. Esse sono defi-
nite da elementi come la motivazione e gli obiettivi di chi apprende, così come dall’apprendimento precedente; se
l’insegnamento vuole essere efficace al massimo della sua potenzialità, gli insegnanti devono tener conto di tutte le
condizioni dell’apprendimento, sia interne sia esterne.
Gagné suggerì l’esistenza di nove distinte attività educative o eventi che l’insegnante dovrebbe impiegare =
Stimolare per ottenere l’attenzione (poiché la stimolazione cui il soggetto non fa attenzione non sarà disponibile
per un tempo superiore ad una frazione di secondo)
Informare gli studenti sugli obiettivi dell’istruzione, così che essi sviluppino aspettative appropriate [v. anche il
principio metodologico di direzione]
Ricordare agli studenti il materiale più rilevante precedentemente appreso
Presentare il materiale in modo chiaro e distinto
Guidare l’apprendimento guidando la codificazione semantica
Promuovere la performance dello studente che utilizza nuovi apprendimenti
Fornire un feedback sull’apprendimento
Valutare la performance dello studente (e l’efficacia dell’istruzione)
Organizzare la pratica futura per aiutare il ricordo e la generalizzazione.
Gli obiettivi del processo educativo sono quelli di produrre un nuovo apprendimento, nuove capacità. Esistono cinque
aree principali di queste capacità apprese (1985): 1- abilità intellettive (rappresenta il come dell’apprendimento) 2- in-
formazioni verbali (rappresenta, insieme ai prossimi punti, il cosa dell’apprendimento) 3- atteggiamenti 4- abilità mo-
torie 5- strategie cognitive. Queste cinque aree rappresentano tutti i possibili esiti del processo di apprendimento:
1. Abilità intellettive: rappresentano, in un certo senso, gli esiti dei semplici processi di apprendimento descritti prece-
dentemente (condizionamento classico e operante, ad es.). Includono anche conseguenze più complesse (come
l’apprendimento di discriminazioni, regole, concetti); questi comprendono tutte le abilità coinvolte nella acquisizione
delle informazioni, nel problem solving, nella scoperta di regole e, tra le altre cose, nell’apprendimento
dell’apprendimento. Come tali, le abilità intellettive non possono esser apprese semplicemente guardandole, studiando-
le e memorizzandole; devono invece essere apprese, ricordate ed applicate in situazioni appropriate. Gagné distingue
otto diversi tipi di abilità intellettive [v. AAppppeennddiiccee 44].
2. Informazioni verbali: una loro caratteristica peculiare è che possono essere espresse sotto forma di frase oppure pos-
sono implicare una frase (anche se molte delle nostre informazioni verbali derivano da figure, illustrazioni…). Esse so-
no comunque essenziali per l’acquisizione di ulteriori informazioni; per di più , rendono possibile il pensiero. Gagné
cita (similmente ad Ausubel), nelle condizioni esterne desiderabili per la loro acquisizione, gli organizzatori
d’approccio (o anticipati o preliminari [v. p.63]) e un contesto significativo. Le informazioni verbali possono essere
rese più significative anche utilizzando fotografie, grafici, illustrazioni ed altre rappresentazioni visive. Utili pure la va-
riazione del tono e dell’enfasi di una presentazione orale e l’uso di sussidi didattici per catturare l’attenzione (diaposi-
tive, filmati…).
3. Atteggiamenti: un atteggiamento rappresenta una reazione affettiva (emozionale) personale e, come tale, non è una
cosa facile da insegnare; è una predisposizione positiva o negativa che presenta importanti componenti motivazionali.
Gli atteggiamenti sono chiaramente influenzati dal rinforzo: se si vuole che gli studenti abbiano degli atteggiamenti po-
sitivi nei confronti di tutto ciò che si sta insegnando loro, è imperativo che essi conoscano il successo piuttosto che il
fallimento, sopratutto nei primi incontri con l’insegnante e con la materia. Gagné si riferisce alla descrizione che Ban-
dura fa dell’apprendimento imitativo [v. p.54] come ad uno dei principali metodi indiretti con cui insegnare gli atteg-
giamenti. I passi di questa sequenza educativa prevedono la scelta di un modello appropriato con cui lo studente si
identifichi (gli insegnanti sono dei modelli potenti), facendo sì che il modello mostri scelte personali che riflettono gli
atteggiamenti desiderati e attirando l’attenzione sul conseguente rinforzo del modello.
60
4. Abilità motorie: sono le attività principali del nostro repertorio in cui è coinvolta l’esecuzione di sequenze di movi-
menti muscolari controllati. Possono essere insegnate attraverso appropriate istruzioni verbali e dimostrazioni, e ven-
gono perfezionate soprattutto attraverso la pratica. Come le altre abilità, sono molto suscettibili al rinforzo: non solo
questo è coinvolto nel determinare se un soggetto avrà probabilità di acquisire una data abilità, ma è intimamente coin-
volto anche nel determinare quanto bene e rapidamente l’abilità in questione verrà appresa e perfezionata.
5. Strategie cognitive: governano il modo in cui facciamo attenzione, studiamo, ci organizziamo, analizziamo, sintetiz-
ziamo e ricordiamo. Purtroppo, le strategie cognitive tendono ad essere ampiamente auto-apprese anziché insegnate
deliberatamente. Una delle condizioni importante per il loro sviluppo è che il soggetto venga esposto a problemi nuovi
e stimolanti; inoltre, è stato dimostrato che gli insegnanti possono fare molto per rendere gli studenti consapevoli delle
proprie strategie cognitive e dell’utilità di sviluppare, praticare e monitorare il loro uso [v. AAppppeennddiiccee 55].
Nonostante la stretta somiglianza con i modelli cognitivi, l’uso di questo modello da parte di Gagné è più pratico, mol-
to più orientato all’insegnamento; il suo obiettivo non è tanto quello di descrivere l’apprendimento umano in senso
astratto, quanto piuttosto di descrivere specificamente le condizioni in ci l’apprendimento ha luogo e le procedure edu-
cative più efficaci perché ciò avvenga. L’istruzione è semplicemente la manipolazione delle condizioni di apprendi-
mento.
Cognitivismo: credenze comuni
Alcuni concetti comuni condivisi da Gagné, Bruner ed Ausubel =
L’apprendimento attuale è costruito sull’apprendimento precedente: quello che Gagné definisce capacità prece-
dentemente acquisite; a differenza del comportamentismo, il cognitivismo enfatizza il fatto che spesso traiamo diversi
significati dalle esperienze, soprattutto perché costruiamo il significato, anziché limitarci a scoprirlo.
L’apprendimento prevede una elaborazione delle informazioni: chi apprende è una sorta di elaboratore delle in-
formazioni; termini come schema o copioni (script) vengono spesso usati per descrivere la struttura cognitiva, che
rappresenta il contenuto della mente (e che comprende concetti, rapporti stabiliti tra concetti, strategie usate nella
astrazione dei concetti stessi e nella loro organizzazione nella MLT…).
Il significato dipende dai rapporti: la conoscenza non esiste nel vuoto. «Tutta la conoscenza dichiarativa di una
persona può essere concettualizzata come una vasta rete di proposizioni intercorrelate», dice Gagné; essa è opposta alla
conoscenza procedurale, anch’essa che deriva il proprio significato dai rapporti interpersonali. Il pensiero prevede la
formazione e manipolazione dei rapporti tra gli item dell’informazioni (per es.: un’illustrazione può a volte fornire una
cornice – schema – entro la quale comprendere un passo verbale altrimenti oscuro). Gli schemi sono le metafore della
struttura e del funzionamento cognitivi; sono come gruppi di item conoscitivi correlati tra loro che definiscono i con-
cetti; sono ciò che conosciamo delle cose. Un aspetto degli schemi fondamentale per l’apprendimento e il ricordo della
cose della vita quotidiana è il copione (script): una parte di struttura cognitiva che ha a che fare con le routine e le se-
quenze. I copioni, come gli schemi, hanno a che fare con i rapporti: un copione è, in un certo senso, un’espressione di
rapporti sequenziali. Copioni e schemi hanno chiaramente degli usi propri; ciò nonostante si tratta solo di metafore che
devono essere rese più concrete per i nostri scopi.
Le applicazioni educative dovrebbero enfatizzare i rapporti e le strategie: gli approcci cognitivi guardano al modo
in cui traiamo le informazioni dall’ambiente; il modo in cui organizziamo e interpretiamo queste informazioni, analiz-
zando i nostri rapporti allo scopo di astrarre un significato dalle nostre esperienze; il modo in cui organizziamo ed im-
magazziniamo i significati; e il modo in cui i nostri processi di pensiero fanno uso di ciò che abbiamo immagazzinato.
Dal punto di vista dell’educatore, queste preoccupazioni suggeriscono due cose: 1- il programma scolastico deve esse-
re organizzato per rilevare e sottolineare i rapporti più importanti; 2- la scuola dovrebbe dedicare un’attenzione siste-
matica e deliberata per elaborare strategie che siano coinvolte nella percezione, interpretazione, organizzazione, anali-
si, valutazione, immagazzinamento e recupero delle informazioni.
Il primo e il secondo Bruner
Il concettualismo strumentale
[v. anche p.41] (1973) Pur senza negare la potenziale importanza dello stimolo e del rinforzo nel paradigma S-C-R, ri-
tiene che non si sia prestata sufficiente attenzione all’elemento che interviene fra S e R (a C). Questo comportamento
non è semplicemente qualcosa che viene “provocato” (elicitato) da uno stimolo e consolidato dal tipo di rinforzo che lo
segue, ma è anzi un’attività notevolmente complessa in cui intervengono tre processi fondamentali: -l’acquisizione di
informazioni; -la trasformazione o manipolazione di queste informazioni in una forma adatta a mettere in grado il sog-
getto di affrontare il problema in questione; -la verifica e il controllo dell’adeguatezza di questa trasformazione.
L’alunno codifica e trasforma le informazioni che riceve (le fa rientrare nelle categorie che già possiede, anche talvolta
modificando queste ultime); questa classificazione consiste, pertanto, in un processo interno di mediazione dal quale
viene a dipendere lo stesso comportamento manifesto. Con l’età l’alunno acquisisce progressivamente la capacità di
trasformare lo stimolo e di acquisire una crescente libertà dall’influenza dello stimolo. Lungi dall’essere una risposta
puramente meccanica, lo stimolo può venire completamente ignorato se viene giudicato fuori luogo, oppure può essere
utilizzato per aiutarsi a costruire ipotesi e modelli personali (“categorie di previsione”) che consentono di avanzare
previsioni sugli eventi futuri, e che a loro volta influiscono sul modo in cui gli stimoli vengono percepiti e trasformati.
Analogamente, il soggetto che apprende può anche acquisire una progressiva indipendenza dal rinforzo immediato (R)
e lavorare in vista di obiettivi lontani nel tempo, dato che tali obiettivi sono essenzialmente le categorie di previsione
che in prospettiva il soggetto ritiene gli procureranno le soddisfazioni maggiori.
61
In che modo l’alunno trasforma le informazioni che riceve? Questa trasformazione è legata a tre metodi di rappresen-
tazione (sistemi, cioè, che servono a rappresentare le esperienze del passato nella memoria e a utilizzarle per affrontare
il presente); la persona matura è capace di servirsi di tutti e tre i sistemi, e li acquisisce uno per uno nel corso
dell’infanzia, a un’età che dipende sia dalle possibilità offerte dall’ambiente sia dalla maturazione. Sono chiamati
(Bruner, Goodnow e Austin, 1965) sistemi dell’azione, iconico e simbolico [v. anche p.41]: -il primo sistema è di tipo
altamente manipolativo, opera attraverso l’azione e si rende evidente nelle abilità che si apprendono tramite il “fare” e
risulterebbero difficili da rappresentare mentalmente sotto forma di parole o immagini; -il secondo è maggiormente
evoluto, si serve di immagini che dipendono dall’organizzazione visiva o comunque sensoriale, e rappresentano un
concetto pur senza definirlo compiutamente; -il terzo va oltre, è caratterizzato da una forma di rappresentazione che si
serve del linguaggio verbale, e conduce a un tipo di pensiero e di apprendimento molto più astratto e flessibile (che
permette al soggetto di impegnarsi in un pensiero riflessivo, di prendere in esame sia proposizioni sia esempi concreti,
e di organizzare i concetti secondo una struttura gerarchica), e può servirsi - naturalmente - di sistemi simbolici diversi
da quello linguistico. L’adulto, a seconda del grado di conoscenze che possiede e della sua padronanza dei tre metodi,
è in grado di utilizzare l’uno o l’altro per elaborare le proprie esperienze di apprendimento e per comunicare i risultati
agli altri; il bambino piccolo, invece, possiede in generale la sola modalità dell’azione, e acquisisce la modalità iconica
e poi quella simbolica soltanto più avanti. Il modello di Skinner, secondo Bruner, può forse spiegare adeguatamente il
modo in cui ha luogo l’apprendimento quando il soggetto che apprende opera in base alla modalità dell’azione, ma ci
dice ben poco sulle modalità iconica e simbolica.
L’apprendimento-scoperta
La teoria cognitiva di Bruner descrive l’apprendimento e la percezione come delle attività di elaborazione dati che ri-
flettono il nostro bisogno di semplificare e dare un senso all’ambiente. Queste attività prevedono la formazione di con-
cetti (“categorie”), che derivano dall’astrazione di elementi comuni tra gli eventi e le esperienze; da queste astrazioni,
noi traiamo le regole implicite che ci consentono di categorizzare (concettualizzare) il mondo e di scoprire una ric-
chezza di rapporti tra i concetti. La metafora di Bruner per indicare questi rapporti è detta sistema di codificazione: una
organizzazione gerarchica dei concetti di sempre maggiore (o minore) generalità. I nostri magazzini a lungo termine
possono in questo modo essere visti come sistemazioni complesse e altamente associazionistiche di categorie (concetti)
e sistemi di codificazione. Tutte le materie scolastiche (così come gli argomenti all’interno di queste) possono essere
considerate dotate di una struttura simile. La struttura di una materia riflette i rapporti e le idee più basilari del settore:
per impararne veramente una e per essere in grado di pensare ad essa, chi apprende deve sviluppare un proprio sistema
di codificazione, ed il modo migliore per farlo è quello di scoprirlo piuttosto che vederselo presentare in forma defini-
tiva da un insegnante.
L’apprendimento-scoperta nelle scuole
Ia teoria di Bruner si basa sulla stessa convinzione di base piagetiana di costruzione della conoscenza attraverso
l’interazione con l’ambiente (approccio costruttivista): siamo noi a costruire la nostra versione della realtà (1986), noi
scopriamo i nostri significati (1990); e la funzione della scuola dovrebbe essere quella di offrire quelle condizioni che
facilitano la scoperta dei rapporti. La scoperta, per Bruner, è la formazione di categorie o, più spesso, la formazione di
sistemi di codificazione, che vengono definiti in termini di rapporti (analogie e differenze) che esistono tra oggetti ed
eventi. La mediazione dell’insegnante si adatta continuamente a studenti ed obiettivi diversi (con direzione minima).
Molto spesso il processo di scoperta in una classe assume la forma di un’esecuzione sistematica di un certo numero di
passi logici che guidano la ricerca di conclusioni generalizzabili, come nelle indagini scientifiche (ma questi metodi
possono essere usati anche in varie altre materie):
Formulazione e chiarificazione di una domanda o di un problema
Raccolta di esempi e formulazione di osservazioni rilevanti
Arrivo ad ipotesi (supposizioni intelligenti e basate sull’osservazione)
Organizzazione e conduzione di test, esperimenti ed altre osservazioni per confermare o confutare le ipotesi
Applicazione, estensione, generalizzazione e superamento delle nuove informazioni.
Secondo Bruner, ci sono quattro serie di condizioni che contribuiscono all’apprendimento-scoperta:
1. Inclinazione: predisposizione a reagire in un certo modo. Un modo per influenzarla, è attraverso certe istituzioni;
per es. si può incoraggiare uno studente a memorizzare una materia come se fosse costituita da pezzi isolati di informa-
zioni semplicemente dicendoglielo, oppure testandolo solo per la conoscenza di item isolati di informazioni (è quello
che Marton e Saljo – 1984 – chiamano “approccio superficiale” nell’insegnamento e nell’apprendimento: ci si focaliz-
za sulla memorizzazione di fatti, sul completamento di compiti e sul superamento di test). Come alternativa, gli studen-
ti possono essere incoraggiati a cercare i rapporti tra i vari elementi dell’informazione, sia invitandoli a far questo, sia
avvertendoli del fatto che più avanti saranno esaminati proprio sulla loro comprensione di questi rapporti (“approccio
profondo”: si focalizza sui rapporti e sulla comprensione).
2. Stato di bisogno: è il livello di stimolazione, eccitazione o attenzione di chi apprende. Bruner suggerisce che un mo-
derato livello di stimolazione contribuisce di più all’apprendimento-scoperta rispetto ad un livello troppo alto o troppo
basso; gli studenti devono quindi essere vigili piuttosto che assonnati, eccitati ed interessati piuttosto che spaventati o
presi dal panico.
3. Padronanza di conoscenze specifiche: si riferisce al livello di conoscenza di informazioni specifiche e rilevanti da
parte di chi apprende. Bruner sostiene che la scoperta non è accidentale: è molto più probabile che avvenga quando
l’individuo è ben preparato.
62
4. Diversificazione della preparazione: il soggetto esposto alle informazioni in una miriade di circostanze ha più pro-
babilità di elaborare dei sistemi di codificazione con cui organizzare l’informazione stessa; anche per questo motivo
Bruner si raccomanda che la stessa materia venga insegnata agli studenti più d’una volta, ma con diverse quantità di
dettagli e a diversi livelli di astrazione in base ai diversi interessi, alle diverse capacità e alla diversa conoscenza di ba-
se del soggetto [ricorda la spirale di Comenio; v. anche i principi metodologici di continuità e ricorsività]. Specifiche raccomandazioni educative
Correlato all’approccio costruttivista cui s’è fatto prima cenno, abbiamo anche il movimento per il cambiamento con-
cettuale (Vosniadou e Saljo, 1994): i programmi così orientati presentano idee che sfidano chi apprende, che conten-
gono problemi ed enigmi e che alla fine producono una riorganizzazione della conoscenza (e quindi del cambiamento
concettuale). La ricerca ha rivelato che questi approcci sono particolarmente adatti all’insegnamento scientifico, ma
che possono essere usati anche in altre materie (come gli studi sociali).
Bruner sostiene che alcune raccomandazioni ed osservazioni specifiche sono particolarmente importanti nelle classi
scolastiche orientate alla scoperta, come quelle che fanno uso di programmi di cambiamento concettuale; tra essi:
1. «Il programma di una materia dovrebbe essere determinato dalla comprensione fondamentale dei principi sottostanti
che strutturano tale materia» (1961): la conoscenza dei principi sottostanti e della struttura di una materia facilitano la
scoperta, in quanto la costruzione della conoscenza richiede la conoscenza dei principi organizzativi.
2. «Qualsiasi materia può essere insegnata a chiunque a qualunque età in una forma che sia onesta» (1961; 1983):
dovremmo guardare alla possibilità di insegnare certi aspetti di una qualsiasi materia a qualsiasi livello di età: la forma
può essere semplificata e il modello di presentazione può essere adattato ai più semplici sistemi di rappresentazione di-
sponibili. Poiché i bambini passano da una rappresentazione motoria o sensoriale (pratica) ad immagini relativamente
concrete (iconica) e infine ad una rappresentazione astratta (simbolica), ne segue che la sequenza dell’insegnamento
dovrebbe essere la stessa [v. p.61].
3. Un programma scolastico a spirale [v. principi metodologici di continuità e reversibilità] che elabora e rielabora gli
argomenti a diversi livelli è ideale per l’acquisizione di codici genetici (1961, 1966): un programma a spirale (sul mo-
dello dei curricoli europei):
3.1. organizza le materie in base a dei principi, di solito presentandoli in maniera sistematica, dal più semplice al più
complesso; questa progressione è parallela allo sviluppo di un sistema di codificazione;
3.2. coinvolge quel tipo di ripetizione che è utile nella costruzione della conoscenza; all’inizio i soggetti vengono
esposti ad un’idea più generale ed inclusiva e poi ad una serie di semplici esempi specifici di concetti; quando sco-
prono i rapporti esistenti tra questi concetti, essi costruiscono la conoscenza (i sistemi di codificazione) che più di al-
tre facilita il trasferimento, il ricordo e la scoperta.
4. «Uno studente dovrebbe ricevere una certa preparazione per riconoscere la plausibilità delle ipotesi» (1961): Bruner
parla a questo proposito di salto intuitivo, l’ipotesi fondata che è qualcosa di più di un cieco tentativo, ma che è meno
di una inferenza o previsione basata su ciò che si conosce circa certi esempi; scoraggiare la formazione di ipotesi signi-
fica soffocare il processo della scoperta.
5. Dovrebbero essere usati degli aiuti all’insegnamento (sussidi): gli aiuti audiovisivi offrono agli studenti esperienze
dirette o vicarie, facilitando così la formazione di concetti [v. anche «Vygotskij, Piaget, Bruner», cit., p.259].
L’apprendimento ricettivo: Ausubel
Non tutti gli educatori sostengono che la scoperta sia l’approccio migliore: la maggior parte delle persone impara fa-
cilmente attraverso un apprendimento ricettivo, e nella stragrande maggioranza delle situazioni scolastiche la scoperta
è inefficace e soprattutto una perdita di tempo, sostiene Ausubel.
La teoria cognitiva di Ausubel
È intesa principalmente ad affrontare quello che egli definisce apprendimento verbale significativo. Egli ricerca le leg-
gi dell’apprendimento significativo in classe.
Secondo Ausubel, perché uno stimolo o un concetto abbia un significato deve esserci qualcosa nella struttura cognitiva
di chi apprende (idee e conoscenze preesistenti) alla quale possa essere associato.
L’apprendimento significativo richiede che chi apprende abbia già appreso dei concetti relativi a cui poter associare
nuovo materiale. L’apprendimento prevede dunque una classificazione, della quale abbiamo due tipi: la classificazione
derivata (quando il nuovo materiale è così simile a quello già conosciuto che potrebbe derivare da esso) e la classifica-
zione correlativa (coinvolge un materiale sufficientemente nuovo da richiedere un certo cambiamento nella struttura
cognitiva esistente).
La struttura cognitiva è costituita da concetti (o idee) più o meno organizzati e stabili nella coscienza di chi apprende;
questa organizzazione è gerarchica (similmente alla metafora bruneriana), con all’apice i concetti più inclusivi, e con
concetti via via meno specifici scendendo verso la base (ricorda il bruneriano insegnamento a spirale; la differenza è
che, secondo Ausubel, allo studente dovrebbero essere offerte delle informazioni organizzate).
63
Riassunto della teoria dell’apprendimento verbale significativo di Ausubel
1. La classificazione può essere derivata o
correlativa
L’apprendimento (classificazione) prevede o l’associazione del nuovo
materiale con altro materiale molto simile precedentemente appreso
(classificazione derivata) o l’estensione di una conoscenza precedente a
del materiale simile ma nuovo (classificazione correlativa)
2. La classificazione porta ad una organiz-
zazione gerarchica della conoscenza, dalla
più generale alla più specifica
L’apprendimento è evidente nelle nuove informazioni e nei cambiamenti
nella consapevolezza di chi apprende dei rapporti esistenti tra gli ele-
menti dell’informazione
3. Il ricordo è una classificazione disso-
ciativa
Il ricordo richiede la capacità di separare il nuovo apprendimento da
quello vecchio
4. L’oblio implica una dissociabilità zero
o una classificazione obliterativa
L’oblio ha luogo quando del materiale non può più essere differenziato
da ciò che già abbiamo nella mente
L’insegnamento espositivo rappresenta la tecnica educativa corrispondente all’apprendimento ricettivo: è un metodo
educativo in cui l’insegnante, che ha la responsabilità principale di scoprire ed organizzare le informazioni per gli stu-
denti, presenta tali informazioni in una forma relativamente definita. Ausubel e Robinson (1969), in seguito ad una ras-
segna sulla letteratura relativa all’apprendimento-scoperta, concludono che la ricerca a sostegno di tale apprendimento
è praticamente inesistente. In ogni caso, l’apprendimento espositivo non è passivo, non soffoca la creatività, né inco-
raggia un apprendimento meccanico: prevede infatti l’associazione del nuovo materiale con la struttura già esistente, e
non la assimilazione di pezzi isolati di informazione. Ausubel avanza alcune raccomandazioni generali per la pianifica-
zione e presentazione delle materie nell’apprendimento espositivo:
Organizzatori d’approccio (o anticipati o preliminari): sono delle serie complesse di idee o concetti offerti allo
studente prima che venga presentato il materiale da imparare. Funzioni: vogliono fornire una struttura cognitiva a cui il
nuovo apprendimento possa esser ancorato, nonché aumentare il ricordo (prevenire la perdita di dissociabilità). Uso:
sono necessari quando lo studente non ha alcuna informazione rilevante cui rapportare il nuovo apprendimento, e
quando importanti informazioni classificanti sono già presenti ma difficilmente riconosciute come tali dallo studente.
Caratteristiche: vengono presentati prima della lezione; sono progettati per portare alla mente una conoscenza prece-
dente particolarmente rilevante per la lezione; vengono presentati ad un più alto livello di astrazione rispetto al mate-
riale che segue; rendono esplicita la connessione tra conoscenza precedente e lezione da presentare. Tipi: organizzato-
re espositivo, quando presenta una descrizione o esposizione di concetti rilevanti; organizzatore comparativo, quando
fa uso di analogie e differenze tra nuovo materiale e struttura cognitiva già esistente. Ricerche: alcuni ricercatori hanno
scoperto che gli organizzatori non offrono alcun vantaggio misurabile, altri riportano invece effetti positivi significativi
[v. anche «Psicologia dell’apprendimento scolastico» di P.Boscolo, Utet, Torino 1986, pp.135-144, in cui si segnalano,
oltre agli organizzatori, altre modalità di presentazione del testo, quali la stessa struttura del testo, le domande e le il-
lustrazioni].
Discriminabilità: le informazioni che ricordano da vicino la conoscenza precedente vengono rapidamente dimen-
ticate, mentre materiale decisamente diverso tende ad essere ricordato più a lungo; ne consegue che le tecniche didatti-
che che mettono in luce le differenze tra materiale vecchio e nuovo produrranno una ritenzione maggiore; nello stesso
tempo è tuttavia necessario correlare il vecchio e il nuovo per poter facilitare la classificazione l’apprendimento.
Dare significato all’apprendimento: il tipo di apprendimento più desiderabile è quello significativo, opposto a
quello meccanico (questo non significa che anche gli approcci orientati alla scoperta non portino ad un apprendimento
significativo). L’apprendimento è significativo quando esiste un chiaro rapporto tra il nuovo materiale e la struttura co-
gnitiva esistente, quindi il significato deriva direttamente dalle associazioni che si formano tra le idee, gli eventi o gli
oggetti: ma non ci sarà alcun significato se chi apprende non è consapevole di queste associazioni. Notiamo che nessun
concetto od oggetto è significativo di per sé, ma solo in rapporto di chi apprende e ad altre idee presenti nella struttura
cognitiva del soggetto. Il docente, dunque, non dovrebbe presentare alcun materiale fin quando non sia sicuro che lo
studente è pronto a comprenderlo; molti degli sforzi del docente dovrebbero essere diretti ad offrire agli studenti delle
informazioni di base, magari attraverso l’uso di organizzatori d’approccio.
Scoperta o ricezione?
L’apprendimento per scoperta e quello per ricezione non sono inconciliabili: per es., il primo può essere utilizzato con
i bambini piccoli, che non hanno ancora un grande magazzino di informazioni; od anche nel problem solving, e in ge-
nerale nelle situazioni nuove; senza contare che è una forma di apprendimento più motivante, in generale. Ma Ausubel
sostiene che, dopo gli 11-12 anni di età, chiedere a uno studente di “scoprire” è soprattutto una perdita di tempo, visto
che possiedono sufficienti informazioni di base per comprendere chiaramente molti nuovi concetti, se spiegati sempli-
cemente. La ricerca, dal canto suo, non è in grado di supportare con consistenza un approccio piuttosto che l’altro: in
parte perché sono stati speso usati criteri diversi di valutazione (una volta guardando la rapidità di apprendimento,
l’altra la ritenzione; un’altra volta ancora il transfert, o i cambiamenti affettivi e motivazionali…), e in parte perché è
spesso impossibile controllare gli approcci usati in diversi studi (studenti e insegnanti differenti). Ecco alcune conclu-
sioni ricavate da studi fatti: -dei buoni organizzatori sono sicuramente efficaci nella maggior parte dei casi; -pare siano
più efficaci gli organizzatori che (1) consentono allo studente di produrre tutti o la maggior parte dei rapporti logici nel
materiale da imparare, (2) indicano dei chiari rapporti tra materiale familiare e meno familiare, (3) sono relativamente
semplici da apprendere ed usare, e (4) vengono usati in situazioni in cui chi apprende non li utilizzerebbe spontanea-
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mente (forse a causa della inesperienza o della incapacità a ricordare informazioni rilevanti); -si ammette che, in gene-
re, i sistemi orientati alla scoperta possono essere altamente efficaci in diverse circostanze, in particolare sotto il giusto
tipo di guida.
Un buon insegnante, dunque, opterà per entrambe le proposte: l’apprendimento è quello che gli studenti fanno, e
l’insegnamento è quello che gli insegnanti fanno: in base a cosa deciderà di enfatizzare, l’insegnante procederà ad or-
ganizzare la situazione insegnamento/apprendimento in modo da incoraggiare gli studenti a sperimentare-pensare-
raccogliere informazioni organizzandole a modo loro; ovvero a organizzare le informazioni in modo ottimale perché
diventino significative per gli studenti stessi [per approfondire la proposta di Ausubel, v. «Educazione e processi co-
gnitivi» di Ausubel D. P., Angeli, Milano 19904, passim; v. anche «Progettazione didattica» di M. Pellerey, Sei, Torino
19942, pp.88-93, e gli appunti di «Metodologia» di Gatta F., anche per approfondire il confronto scoperta/ricezione].
Altri modelli didattici cognitivi
L’apprendistato cognitivo
Tenta di mettere insieme le due diverse enfasi (scoperta e ricezione). È un modello che considera lo studente come un
apprendista; gli esperti sono: genitori, fratelli e sorelle, coetanei o adulti e, soprattutto, gli insegnanti. Ruolo del do-
cente = oltre a dare informazioni, anche fornire esempi, invitare all’esplorazione, offrire guida e incoraggiamento,
preoccupandosi di sviluppare una varietà di strategie cognitive così da consentire ai giovani di esplorare, organizzare,
scoprire ed imparare da soli. Questo approccio si è dimostrato molto efficace anche nel caso di soggetti che presentano
bisogni particolari, e nel caso di studenti adulti.
Metodi dell’apprendistato cognitivo
Modellamento = un insegnante mostra allo studente come deve essere fatto qualcosa; l’obiettivo è di far sviluppare
all’apprendista dei modelli concettuali di un compito (è dunque appropriato per compiti sia cognitivi sia motori). È ne-
cessario che i passi e le procedure coinvolte in un compito esemplificato siano rese esplicite ed evidenti, descrivendo –
tra l’altro – il modo in cui vengono usate specifiche strategie cognitive (come la ripetizione o l’organizzazione).
Coaching = prevede la guida di specifici aspetti della performance dello studente; anche qui si utilizza il modella-
mento per dimostrare la performance di un compito cognitivo. L’insegnante può utilizzare una qualsiasi tra le tecniche
destinate all’insegnamento del pensiero (elaborare strategie cognitive e metacognitive, come quelle viste sopra e in
AAppppeennddiiccee 55).
Impalcatura = prevede un’offerta di sostegno che consenta allo studente di portare a termine dei compiti che altri-
menti sarebbero troppo difficili per lui [v. p.37: la «impalcatura di sostegno» (scaffolding) di Vygotskij-Bruner]. Pro-
cedure o tecniche descritte da Bruner et alii (1976) che possono essere usate nell’impalcatura:
Reclutamento: ottenere l’attenzione del bambino e focalizzarla sulle richieste del compito.
Riduzione della libertà: ridurre i compiti a dei sottocompiti più semplici.
Mantenimento della direzione: mantenere lo studente motivato e aggiornato.
Segnalazione delle caratteristiche critiche: attirare l’attenzione verso gli aspetti più rilevanti del compito.
Controllo della frustrazione: alleviare la frustrazione associata alle difficoltà che il bambino può incontrare.
Dimostrazione: imitare i tentativi del bambino, però modificandoli leggermente in modo da renderli più appro-
priati e tali che possano essere a loro volta imitati dal bambino.
Dissolvenza = mentre l’impalcatura prevede l’offerta di guida e sostegno, così che lo studente possa eseguire dei
compiti che si trovano all’interno della sua zona di sviluppo prossimale [v. p.37], la dissolvenza prevede la rimozione
di questi sostegni via via che il soggetto diventa sempre più abile nell’eseguire un determinato compito senza assisten-
za, così che lo studente si assuma la responsabilità dell’apprendimento e della risoluzione dei problemi.
Articolazione = incoraggia chi apprende a tradurre in parole le conclusioni, le descrizioni e i principi che ha sco-
perto; la verbalizzazione deliberata costringe lo studente a pensare più chiaramente ai propri processi cognitivi, ed è
spesso una tecnica importante nei programmi designati a promuovere lo sviluppo di strategie cognitive (il dialogo so-
cratico può contribuire alla realizzazione di tale metodo).
Riflessione = richiede – come prima – che chi apprende pensi e verbalizzi l’esecuzione e i risultati dei compiti co-
gnitivi; ma, in questo caso, mentre riflette il soggetto è incoraggiato a pensare in modo più astratto, e magari a confron-
tare la propria attività cognitiva con un modello concettuale, o talvolta con un modello fisico reale.
Esplorazione = è il passo finale nel processo educativo dell’apprendistato cognitivo (e nella maggior parte degli
approcci educativi): prevede la generalizzazione di ciò che è stato appreso o compiuto, ed è analogo a ciò che i com-
portamentisti definiscono transfer o generalizzazione.
Sequenza nell’apprendistato cognitivo
Tre principi guidano la sequenza del materiale i questo modello educativo:
1. Globale prima di locale: a chi apprende dovrebbe essere offerta una visione generale di ciò che deve essere appreso
o eseguito prima che egli inizi a lavorare nello specifico. L’aspetto globale dell’istruzione deve assumere la forma di u
riassunto, una panoramica (ricorda dunque gli organizzatori d’approccio di Ausubel).
2. Il materiale dovrebbe essere presentato secondo un ordine di complessità crescente, dal facile al difficile (in linea
col concetto bruneriano secondo cui chi apprende dovrebbe iniziare dagli esempi più semplici per poi procedere a con-
cetti più generali ed inclusivi).
3. Per aumentare transfert e significatività dell’apprendimento: una volta acquisite, conoscenze e abilità dovrebbero
essere applicate in una diversità di situazioni sempre maggiore.
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Con l’apprendistato cognitivo, siamo di fronte ad una metafora dell’«insegnante come guida e maestro» e dello «stu-
dente come novello apprendista»: metafora che si presta bene per l’insegnante che intenda dedicarsi all’analisi dei pro-
pri comportamenti educativi e dei progressi cognitivi dei suoi studenti.
Risultati di alcune ricerche. L’insegnamento efficace
Qual è il metodo educativo più efficace? Il sistema tutoriale personale, afferma Bloom (1984), seguendo un’estesa let-
teratura sull’argomento: grazie alla buona guida di un tutore, possiamo aspettarci che lo studente medio raggiunga più
o meno il 98% in più dei risultati rispetto ad uno studente collocato in una classe convenzionale! Ne consegue che una
delle sfide più importanti per la ricerca in campo educativo sia quella di scoprire ed organizzare delle procedure didat-
tiche in grado di offrire ad una classe le stesse opportunità finora possibili solo nel caso di un rapporto personale fra tu-
tore e studente.
Che cosa dice la ricerca sugli effetti di specifiche procedure educative?
1. Quanto più lo studente sa di una materia specifica, tanto meglio comprenderà e ricorderà: viene sottolineata
l’ovvia importanza di conoscenze specifiche (opposto a quelle generiche); ma viene pure enfatizzata la natura cumula-
tiva e gerarchica di gran parte del nostro apprendimento, ed offre sostegno alla tesi secondo cui sia le lezioni sia i pro-
grammi scolastici dovrebbero presentare le informazioni in modo tale che la nuova comprensione sia costruita su una
ferma base conoscitiva. Non fa differenza se usiamo il linguaggio di Bruner (numerosi e diversi esempi di concetti così
che lo studente possa scoprire da solo quei sistemi di codificazione che gli permetteranno di andare oltre le informa-
zioni ricevute) o di Ausubel (lo studente deve ricevere concetti classificanti stabili e importanti così che nella sua strut-
tura cognitiva ci sarà qualcosa che darà significato al nuovo apprendimento e a cui il nuovo apprendimento potrà fer-
mamente ancorarsi) o di Gagné (il contenuto della materia deve essere presentato gerarchicamente così che siano di-
sponibili le abilità e le comprensioni subordinate essenziali): la comprensione dipende soprattutto da ciò che già cono-
sciamo.
2. Gli studenti più abili nel monitorare e controllare le proprie attività cognitive producono i risultati migliori: i do-
centi devono dunque dedicare più tempo ed energie all’insegnamento delle capacità e strategie di pensiero e di appren-
dimento, adottando metodi e filosofie che riflettano non solo il loro ruolo fondamentalmente importante di guide e
mentori, ma anche la responsabilità che ha lo studente nei confronti del proprio apprendimento.
3. Opportunità di enfatizzare la natura attiva dell’apprendimento, in contrasto con una visione passiva che sottolinea
l’importanza delle conseguenze della risposta.
4. Opportunità di preoccuparsi per la comprensione, piuttosto che solo per la performance.
5. Importanza di non ignorare il ruolo dei concetti pregiudizievoli e spesso scorretti dello studente: sembra che molti
studenti (e molti insegnanti) trovino spesso difficile comprendere quelli che invece potrebbero essere dei concetti e dei
principi relativamente semplici solo perché hanno appreso, e quindi incorporato nelle loro strutture cognitive, certi
equivoci duri a morire che interferiscono nell’apprendimento (conoscenze alternative o scienza dei bambini o miscon-
cetti).
6. È possibile preparare gli insegnanti a seguire specifiche procedure educative, e gli studenti esposti a certi pro-
grammi sperimentali possono produrre risultati migliori.
7. Un insegnamento efficace è caratterizzato da un certo numero di comportamenti, che possono essere insegnati ed
incoraggiati nell’insegnante, e che possiamo così sintetizzare (Rosenshina e Stevens, 1986):
a. Inizia la lezione con un brevissimo riassunto di quello che è l’apprendimento necessario.
b. Introduce gli obiettivi della lezione.
c. Presenta il materiale a piccoli passi, permettendo agli studenti di fare pratica tra un passo e l’altro.
d. Offre istruzioni e spiegazioni esplicite e dettagliate.
e. Consente a tutti gli studenti di partecipare attivamente alla lezione.
f. Formula molte domande per verificare la reale comprensione degli studenti e per ottenere da tutti delle risposte.
g. Fornisce agli studenti una guida immediata per la pratica iniziale.
h. Fornisce un feedback sistematico e corregge gli errori degli studenti.
i. Presenta istruzioni chiare ed esplicite per il lavoro al banco e, se necessario, controlla le performance degli studenti.
Rosenshine e Stevens ci avvertono pèrò che queste procedure didattiche non si applicano a tutti gli studenti e in ogni
situazione: quando la lezione verte su contenuti astratti e poco strutturati (moralità, etica, creatività, politica…) saranno
necessari degli approcci didattici diversi [F,130-139; L,142-182].
Approcci umanistici all’insegnamento
La scienza non sarebbe equipaggiata per affrontare aspetti della vita dell’uomo. Storicamente, abbiamo così assistito
ad un conflitto continuo tra umanesimo ed approcci comportamentisti e cognitivisti; ciò a cui obiettano gli umanisti è
quell’orientamento tecnologico tipico di approcci come il comportamentismo, che essi giudicano troppo focalizzati
sulle tecniche che “dovrebbero” essere praticate dagli insegnanti e sui risultati misurabili del processo di insegnamen-
to/apprendimento (soprattutto in termini di punteggi nei test standardizzati). L’insegnamento umanistico vuole rispetta-
re e cercare di favorire la storia, la cultura e le diverse prospettive di ogni singolo studente.
La teoria fenomenologica di Rogers
È particolarmente importante nel campo della psicoterapia e del counseling, dove continua ad avere un’enorme in-
fluenza. Carl Rogers «verificò il concetto secondo cui un ambiente sicuro e di sostegno consente ad ogni persona
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(compresi i bambini) di viaggiare giù per il sentiero dell’auto-scoperta, dell’autostima e dell’apprendimento auto-
diretto» (N. Rogers e Freiberg, 1994).
Diversi termini vengo usati per descrivere le varie enfasi della teoria rogersiana:
1. Terapia centrata sul cliente (o sulla persona): è dunque una terapia, mette in luce la differenza principale tra questo
ed altri approcci nei confronti del counseling (ruota attorno alla persona), propone una terapia opposto alle terapie di-
retive (il terapeuta, invece di dare consigli o risolvere problemi, prepara l’ambiente in cui il cliente steso definirà i pro-
blemi, reagirà ad essi e muoverà i primi passi verso la loro soluzione).
2. Fenomenologia: l’interesse è per il mondo così come viene percepito da un individuo, piuttosto che come è realmen-
te.
3. Umanesimo: lo sviluppo del potenziale umano tende ad essere enormemente apprezzato, mentre viene de-
enfatizzato il raggiungimento di obiettivi materiali. Rogers descrive l’autorealizzazione come il fine verso cui tendono
tutti gli esseri umani; il suo incoraggiamento è compatibile con l’enfasi umanistica sull’autodeterminazione (analoga-
mente a come, in letteratura, filosofia e psicologia, si è storicamente caratterizzato l’umanesimo).
In particolare su quest’ultimo aspetto si è sviluppato un dibattito Rogers vs. Skinner. Quest’ultimo studioso sostiene la
necessità di abbandonare le tecniche di controllo dissuasivo [v. sopra] a favore di tecniche di controllo positivo al fine
di migliorare la società; Rogers ritiene invece che Skinner (che oltretutto non specifica gli obiettivi di questa tecnologia
comportamentale) sottovaluti il problema del potere formulando il falso assunto secondo cui le tecniche di controllo
sociale verranno usate nell’interesse della società: gli obiettivi di una società – precisa Rogers – dovrebbero riguardare
principalmente il processo del “divenire”, il raggiungimento del valore e della dignità, la creatività – in breve, il pro-
cesso di autorealizzazione.
Ecco le alternative proposte da Rogers al controllo del comportamento skinneriano: 1- È possibile per noi scegliere di
valorizzare l’umanità come un processo di autorealizzazione del divenire, ed anche apprezzare la creatività e i processi
con cui acquisiamo la conoscenza. 2- La scienza può aiutarci a scoprire le condizioni che portano allo sviluppo di que-
sti processi, e può fornire strumenti migliori con cui raggiungere questi obiettivi. 3- È possibile per gli individui o i
gruppi stabilire le condizioni della crescita senza fare ricorso a troppo controllo o potere esterno; le conoscenze attuali
suggeriscono che l’unica autorità necessaria è l’autorità con cui stabilire certe qualità dei rapporti interpersonali. 4-
Esposti a queste condizioni, gli individui diventano più auto-responsabili, fanno progressi nella loro autorealizzazione,
diventano più flessibili e più creativi. 5- La scelta di questi valori umanistici porta agli inizi di un sistema sociale in cui
i valori, le conoscenze, le capacità di adattamento e persino il concetto di scienza saranno in continuo cambiamento e
in continua crescita; l’enfasi sarà sugli esseri umani come un processo in divenire.
È un dibattito che sottolinea il conflitto tra chi predica il controllo umano (a nostro beneficio) attraverso la mediata ap-
plicazione di una scienza del comportamento e chi ritiene che la scienza non dovrebbe essere usata per cambiarci o
controllarci, ma semplicemente per migliorare la nostra capacità di auto-controllo e di autodeterminazione.
Principi della teoria rogersiana
1. I nostri mondi sono privati; la realtà è fenomenologica (ogni individuo è al centro di un mondo di esperienze per-
sonali in continua mutazione): gli aspetti significativi della realtà consistono nel mondo delle esperienze private; le no-
stre realtà sono quindi completamente individualistiche, esse possono essere intuite, ma non conosciute dagli altri.
2. La nostra realtà è una coscienza immediata e personale: le nostre esperienze private determinano la nostra realtà; il
nostro campo fenomenico (ciò che percepiamo e sentiamo) crea la nostra coscienza immediata; ciò che è reale per una
persona non lo è necessariamente per un altra.
3. L’obiettivo dell’esistenza umana è l’autorealizzazione: Autorealizzazione = diventare tutto ciò che si può diventare
attraverso le attività determinate da se stesso (Maslow, 1970); è un processo direzionale in due sensi: -tende verso la
maturazione, una maggiore competenza, la sopravvivenza, la riproduzione…, e si muove verso un aumento dell’auto-
governo, dell’autoregolazione e dell’autonomia; -si allontana dal controllo eteronomo, o dal controllo delle forze
esterne (da qui l’incompatibilità di base con il controllo comportamentale skinneriano). Ognuno di noi ha la tendenza
di base a diventare un individuo completo, sano, creativo e competente attraverso un processo caratterizzato da auto-
governo, autoregolazione e autonomia (non è quindi necessario né utile elencare una serie di bisogni od impulsi per
spiegare il comportamento umano); le persone sono essenzialmente buone e sempre alla ricerca di uno stato migliore.
4. Il comportamento può essere compreso solo dal punto di vista dell’individuo: poiché il comportamento avviene
all’interno del contesto della realtà della persona, il modo migliore per capire la condotta di una persona è cercare di
adottare il suo punto di vista; per questo l’umanesimo enfatizza l’importanza di una comunicazione aperta (molta della
nostra incapacità di comprendere il comportamento deriva dall’incapacità di riconoscere che le risposte sono significa-
tive solo dal punto di vista individuale).
5. Noi costruiamo i nostri Sé: Sé = modello coerente di idee che abbiamo sui nostri io e me [v. p.89: «Il Sé»]. Noi sco-
priamo chi siamo in base alle esperienze dirette ed alle convinzioni e ai valori che incorporiamo nei nostri auto-
concetti dalle informazioni fornite dalle persone che ci comunicano chi siamo.
6. I comportamenti sono coerenti con i concetti del Sé: in generale, noi scegliamo ei comportamenti che non contrad-
dicono chi e cosa pensiamo di essere.
L’approccio rogersiano è chiaramente e altamente soggettivo e poco scientifico; ciò nonostante, i suoi meriti nel pro-
gresso della scienza possono essere giudicati notevoli. La teoria di Rogers ha e continua ad avere un fortissimo impatto
sul counseling e sull’insegnamento; ora la questione corretta non deve essere se quella rogersiana è una visione corretta
dell’umanità, quanto se si tratta di un mezzo utile con cui guardare alle persone. E lo è.
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L’umanesimo in classe
L’insegnamento centrato sullo studente (Rogers e Maslow; Combs) predica una filosofia educativa in cui agli studenti
viene assegnato un ruolo molto importante riguardo alle decisioni relative ai programmi scolastici; l’insegnante do-
vrebbe fungere da facilitatore dell’apprendimento piuttosto che da istruttore didattico, e, per essere un buon facilitatore
dell’apprendimento, deve essere preparato ad un atteggiamento sensibile e premuroso, genuino ed empatico. Gli ap-
procci umanistici raccomandano con forza di fornire agli studenti esperienze di successo piuttosto che di fallimento, e
il loro orientamento è verso un apprendimento-scoperta piuttosto che verso un apprendimento ricettivo; accettano
l’individuo per quello che è, rispettando i suoi sentimenti e le sue aspirazioni e sostenendo che ogni persona ha il dirit-
to alla autodeterminazione. «Se siamo genuini, attenti, empatici e congruenti come insegnanti, genitori o consulenti,
favoriremo la crescita e le capacità di apprendimento degli altri» (N. Rogers e Freiberg, 1994). Ma la scuola centrata
sul bambino non si preoccupa solamente dello sviluppo emozionale e personale del bambino; la maggior parte dei pro-
grammi umanistici sono sensibili alle importanti esigenze della programmazione scolastica: anche l’individuo autorea-
lizzato ha bisogno di saper leggere-scrivere-far di conto, nonché della ricchezza di strategie cognitive e metacognitive
usate dalle nostre nuove scienze cognitivo-educative per costruire i loro programmi.
Il pensiero esemplificato nella teoria umanistica è entrato a far parte della cosiddetta psicologia della terza forza (cioè:
né comportamentismo S-R, né teoria freudiana), un movimento pervaso da (1) una fede nell’unicità e nell’importanza
dell’essere umano e (2) una forte reazione contro gli approcci meccanicisti e presumibilmente deumanizzanti.
Principi dell’educazione umanistica
1. Affettività: la scuola pone una maggiore enfasi sui sentimenti e sul pensiero rispetto all’acquisizione delle informa-
zioni.
2. Concetto di sé: uno degli obiettivi educativi più importanti è lo sviluppo di concetti di sé positivi nei bambini. Biso-
gna identificare gli interessi degli studenti in modo tale che possano esser raggiunti come individui, toccati o motivati
come esseri umani, e che tuttavia venga insegnato loro in un modo sistematico compatibile con le scuole tradizionali
(Borton, 1970). Utile pure la distinzione che fa Purkey (1984) fra comportamenti dell’insegnante “invitanti” e “scorag-
gianti”: ci sono più studenti scoraggiati che svantaggiati; scoraggiamento spesso comunicato ai bambini attraverso
l’apparente indifferenza dell’insegnante e attraverso un mancato riconoscimento dello studente come persona; un inse-
gnante invita gli studenti comunicando loro (in modi alquanto diversi) degli atteggiamenti positivi (facendoli sentire
capaci, auto-diretti ed apprezzabili, ed aspettandosi da loro comportamenti e rendimenti compatibili con il loro valore).
3. Comunicazione: agli insegnanti dovrebbero essere insegnati i principi e le capacità di un «rapporto umano efficace,
di un’onesta comunicazione interpersonale, di una risoluzione costruttiva del conflitto» (T. Gordon, 1974).
4. Valori personali: la scuola riconosce l’importanza dei valori personali e cerca di facilitare lo sviluppo di valori posi-
tivi; gli studenti sono incoraggiati a conoscere se stessi e ad esprimersi, ad aspirare a sentimenti di auto-identità, a rea-
lizzare se stessi.
5. Anche gli approcci orientati al processo di gruppo, radicati nei movimenti per il gruppo di sensibilità e del gruppo
di incontro (spesso definiti collettivamente gruppi di crescita) rappresentano tipologie dell’orientamento umanistico:
nel gruppo gli studenti possono essere incoraggiati ad esprimere apertamente i propri sentimenti, a scoprirli e chiarirli,
ad esplorare i rapporti interpersonali e ad articolare il proprio sistema di valori.
Tre approcci umanistici in classe
La classe aperta (o educazione aperta)
Obiettivi principali: crescita individuale, pensiero critico, fiducia in se stessi, cooperazione e coinvolgimento per un
apprendimento duraturo. Contatto insegnante-studente centrato sul secondo, intenso ma rilassato (reso possibile da una
proporzione insegnante-studente molto bassa). Non aderisce allo stesso sistema scolastico legato ai programmi, alle età
e ai voti della scuola tradizionale, ma è molto meno formale. La scuola abolisce le convenzionali routine di classe,
giungendo così ad importanti intuizioni sul ruolo delle emozioni e delle altre caratteristiche della condizione umana;
superamento della «impraticabile centralizzazione e dell’avidità di controllo che permeano ogni istituzione burocrati-
ca» (Dennison, 1969). L’educazione aperta è oggi assai rara un po’ dovunque, sebbene alcuni elementi di essa siano
presenti in alcune forme di educazione a distanza, dove gli interessi degli studenti sono decisivi nel determinare il con-
tenuto del corso, la consegna dei lavori, le valutazioni e il ritmo. Gli studenti esposti ad una classe aperta presentano
dei migliori concetti di sé e sono più creativi e cooperativi; ma questi successi vengono solitamente raggiunti a scapito
del rendimento accademico, così come esso viene definito dalle misure tradizionali (il sistema aperto non gode perciò,
oggi, di molta popolarità).
L’approccio orientato agli stili d’apprendimento
[v. anche “Lo stile cognitivo”, p.83]. (Dunn e Griggs, 1988) Ogni studente possiede uno stile di apprendimento perso-
nale e unico; purtroppo, le scuole tradizionali non li tengono quasi mai in considerazione: esse tendono a gratificare gli
studenti il cui stile personale coincide con quello per cui era designato il metodo scolastico (e puniscono chi non riesce
ad adattarsi al loro ritmo). Le scuole dovrebbero stilare un profilo dello stile di apprendimento di ogni studente (a que-
sto scopo sono disponibili un certo numero di strumenti).
Dunn e Griggs visitarono dieci scuole in cui l’attenzione per gli stili individuali di apprendimento era diventato il fatto-
re determinante delle loro strategie educative; una loro descrizione è, in un certo senso, la descrizione idealizzata di
una scuola umanistica. Questa scuola offre allo studente un assortimento di opzioni quasi sconcertante: i ragazzi pos-
sono lavorare da soli su morbidi tappeti o in gruppi riuniti attorno a un tavolo, le lezioni possono essere altamente
strutturate o consistere in insegnamento reciproco tra compagni, si può passare dall’istruzione programmata e compu-
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terizzata all’auto-apprendimento, viene ruotata la presentazione delle materie fondamentali così da poterle offrire in
qualunque momento del giorno, lo studente può eseguire esami ed attuare progetti nei momenti più compatibili ai suoi
ritmi biologici. Rispetto alla scuola tradizionale, essa sottolinea molto di più il coinvolgimento dello studente in tutti
gli stadi dell’apprendimento, ed enfatizza il problem solving e la creatività; la tecnica più comunemente adottata è un
approccio a piccoli gruppi altamente partecipativo e cooperativo (definito anche circolo di conoscenza). Una prima va-
lutazione di Dunn e Griggs è che gli studenti mostravano risultati eccezionalmente buoni in base a diverse misurazioni
di performance accademiche; la maggior parte, poi, dicevano di amare la scuola. In generale, la ricerca indica che uno
studente può ottenere ottimi rendimenti scolastici a prescindere dal proprio stile di apprendimento; ma anche che ten-
dono a far meglio quando gli approcci educativi cui vengono esposti consentono loro di usare i punti di forza del pro-
prio stile personale. Bisogna però tenere presente che gli stili di apprendimento, che gli insegnanti devono ben conside-
rare, sono solo un fattore, ed il loro impatto può essere sopravvalutato nell’entusiasmo che spesso accompagna i mo-
vimento educativi.
Apprendimento cooperativo (o collaborativo)
(Johnson e Johnson, 1994) Gli insegnanti possono strutturare le lezioni secondo (1) una scelta competitiva, (2) una
scelta individualistica, (3) una scelta cooperativa. La maggior parte degli studenti vede purtroppo la scuola in senso
competitivo (così vengono assegnati i voti), e quando le scuole non sono competitive sono individualistiche; raramente
le esperienze scolastiche sono veramente cooperative (lavoro in gruppi abbastanza piccoli da consentire a tutti di par-
tecipare ad un compito collettivo chiaramente assegnato, dove ci si aspetta che gli studenti eseguano i propri compiti
senza la supervisione diretta e immediata dell’insegnante). In una situazione di apprendimento cooperativo (3)
l’individuo viene ricompensato in proporzione agli altri membri del gruppo; in una situazione (1) le ricompense indivi-
duali sono invece inversamente proporzionali a quelle ricevute dagli altri; e in una situazione (2) non c’è alcun rappor-
to tra le ricompense individuali. L’apprendimento cooperativo combina gli aspetti cognitivi ed affettivi
dell’apprendimento, ed enfatizza la partecipazione e il coinvolgimento attivi; ma forse ancor più degli altri approcci
esplicitamente umanistici, sottolinea anche il rendimento accademico e gli specifici obiettivi del programma scolastico
(gli studenti, inoltre, non ricevono la libertà tipica di una classe aperta, e le loro idee e preferenze non ricevono la stes-
sa attenzione di quella offerta da una scuola orientata ad un apprendimento individualistico).
Perché imparare a collaborare? 1- Potrebbe essere la nostra unica speranza di salvezza: se non impariamo a cooperare,
noi e il nostro pianeta saremo spacciati. 2- La cooperazione è la prima pietra della democrazia moderna: essenziale per
la sopravvivenza politica ed economica. 3- L’insegnamento della cooperazione può far molto per ridurre la dipendenza
degli studenti e per diminuire le divisioni e i pregiudizi tra gli studenti. 4- Esso può risolvere due importanti crisi: il
declino delle performance accademiche e i sentimenti pervasivi di alienazione, di isolamento, di inutilità e di disagio
sociale tra gli studenti. 5- E poi, funziona: è dimostrata la sua efficacia nel raggiungere obiettivi cognitivi, promuoven-
do pure un atteggiamento più positivo nei confronti della scuola, una maggiore autostima tra gli studenti e migliori
rapporti tra studenti di estrazione diversa. 6- Infine: è certo che gli studenti preferiscono generalmente gli approcci
cooperativi.
Caratteristiche:
1. Gli studenti lavorano insieme per raggiungere un obiettivo comune.
2. Le ricompense dipendono non da una performance migliore rispetto a quelle degli altri, ma dal fare bene insieme a
qualcun altro.
3. Si richiede un’interazione faccia-a-faccia tra i membri del gruppo (di solito 4-6 studenti).
4. Il rapporto tra i membri del gruppo può essere descritto come un rapporto di interdipendenza positiva (cooperazione
nel distribuire le risorse, nell’assegnare i ruoli e nel dividere il lavoro).
5. Di solito si assegna un certo grado di responsabilità nella condivisione, nella cooperazione e nell’apprendimento
(vengono usate diverse tecniche per assicurare la contingenza di obiettivi e ricompense sulla performance e il contribu-
to di ogni membro del gruppo).
6. È previsto l’uso di abilità interpersonali e tipiche dei piccoli gruppi, come quelle coinvolte nel turnover, nella facili-
tazione, nella collaborazione…
Le scuole hanno elaborato ed utilizzato un ampio numero di attività cooperative, con nomi diversi ma spesso inclusi
nell’etichetta generica di circoli di conoscenze o circoli di apprendimento. L’apprendere insieme
Elaborata da Johnson e Johnson (1984). A gruppi di 4-6 studenti viene data una lezione o un compito scritto che essi
devono imparare o completare insieme; i membri devono aiutarsi reciprocamente per far sì che ognuno impari la lezio-
ne o completi il compito; ogni membro è anche incoraggiato ad aiutare gli altri gruppi una volta completato il proprio
lavoro. La cooperazione e l’adempimento del lavoro viene gratificato con elogi; non esiste competizione tra i gruppi.
Sono enfatizzati: a- un’interazione faccia-a-faccia, b- una interdipendenza individuale (gli studenti lavorano insieme
per raggiungere un obiettivo comune), c- la responsabilità individuale (tutti gli studenti devono successivamente dimo-
strare che ognuno ha compreso ed ha acquisito la padronanza del compito), d- abilità interpersonali e a piccoli gruppi
(agli studenti viene insegnato come lavorare insieme e come valutare il funzionamento del proprio gruppo). STAD (Student Teams-Achievement Divisions)
I gruppi di studenti rappresentano delle squadre che competono tra loro (Slavin, 1995). Gli studenti vengono divisi in
squadre eterogenee di 4-6 elementi; idealmente, ogni squadra comprende soggetti dalla capacità bassa e alta, prove-
nienti da diversi background e di entrambi i sessi. La tecnica prevede cinque livelli: 1- Presentazione: materiale pre-
sentato tradizionalmente, con lezione, discussione o video. 2- Lavoro di squadra: viene consegnato il materiale da stu-
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diare ed un compito scritto da completare; si può lavorare individualmente, a coppie o in gruppo; incoraggiamento
all’aiuto reciproco e perché ognuno comprenda ed acquisisca il materiale, con enfasi sulla performance di squadra. 3-
Quiz: alla fine del periodo di studio, che dura solitamente una settimana, gli studenti compilano quiz basati sul materia-
le della settimana (individualmente e senza aiutarsi fra di loro). 4- Punteggi di miglioramento individuale: sebbene
venga dato un riconoscimento alla squadra che ottiene il punteggio migliore, la squadra vincente è quella i cui indivi-
dui hanno migliorato di più (così gli studenti più scarsi possono contribuire al punteggio finale della squadra tanto
quanto i soggetti più bravi). 5- Riconoscimento della squadra: ricompense con certificati, gettoni, premi ed elogi (i
punteggi di squadra possono essere usati anche come fattore per determinare i voti individuali). Secondo Slavin, lo
STAD produce cambiamenti drastici nella classe (le attività diventano sociali, divertenti e sotto il controllo degli stu-
denti, con aumento dell’aiuto reciproco). TGT (Teams-Games-Tournaments)
L’inizio è come quello dello STAD, ma alla fine gli studenti devono impegnarsi in tornei piuttosto che nella compila-
zione di quiz. In questo tornei, i membri della squadra vengono assegnati ad un tavolo non come un gruppo, ma come
individui; ogni tavolo è costituito da tre concorrenti più o meno dello stesso livello. I giochi vengono svolti simulta-
neamente ad ogni tavolo, con estrazione di carte numerate e il tentativo di dare risposte alla domanda corrispondente al
numero della carta e il mettere in dubbio le risposte sbagliate degli altri. Alla fine del gioco (o della lezione), i punti
vengono assegnati in base al numero di carte in possesso di ogni giocatore (che trattengono la carta ad ogni risposta o
dubbio espresso corretti, e la perdono quando sbagliano), e per ogni squadra viene calcolato il numero totale di punti
ottenuti nel torneo. Il Puzzle (e il Puzzle II)
(Aronson et alii, 1978) Il materiale da apprendere viene diviso in diverse unità; ad ogni membro della squadra vengono
quindi assegnate delle parti separate e differenti della totalità che deve essere appresa, ed ognuno deve insegnare agli
altri ciò che ha imparato. A nessun membro vengono date sufficienti informazioni per risolvere immediatamente il
problema o per completare il compito in questione, ma quando tutte le informazioni vengono messe insieme, il puzzle
è completo.
Nel Puzzle II, agli studenti viene dato lo stesso materiale narrativo da leggere, eliminando così il bisogno di preparare
una quantità di materiali diversi; ad ogni studente viene quindi assegnata la responsabilità di gestire diversi argomenti,
per poi tornare alla propria squadra ed insegnare ai propri compagni ciò che hanno appreso (vi è quindi interdipenden-
za dei membri delle squadre, e un buon rendimento dipenderà da quanto ogni individuo riuscirà ad imparare ed inse-
gnare bene il proprio argomento). Come nello STAD, quiz e ricompense sulla base della performance di squadra, te-
nendo conto dei miglioramenti individuali. L’indagine di gruppo
(Sharan e Sharan, 1992) Combina la cultura accademica con un’indagine sui principi della cooperazione. Gli studenti
di una classe selezionano un’area di studio; l’area viene divisa in sotto-argomenti, e la classe viene divisa in piccoli
gruppi di investigatori sulla base di un interesse comune per un certo argomento. Ogni gruppo formula quindi un piano
per mezzo del quale investigare, ed assegna le responsabilità; a questo punto i membri possono lavorare individual-
mente, in coppie o a gruppi. Dopo aver completato l’indagine (dopo qualche settimana) i membri del gruppo si incon-
trano e si dividono i frutti delle rispettive indagini, e decidono inoltre come presentare le proprie informazioni integrate
agli altri compagni di classe; infine tutti i gruppi si incontrano per la condivisione finale delle informazioni. Gli inse-
gnanti sono sempre coinvolti nella guida degli studenti, aiutandoli sia per quanto riguarda le capacità accademiche ne-
cessarie per un’indagine, sia per quanto riguarda le abilità sociali utili nel processo di gruppo. Alcune considerazioni e valutazioni
L’apprendimento cooperativo, diversamente dagli stili di apprendimento, non richiede una ristrutturazione di base del-
la giornata scolastica o un riordinamento dei programmi. I metodi cooperativi, poi, coinvolgono tutti gli studenti simul-
taneamente, e promuovono la cooperazione fra studenti dotati di diversi punti di forza e di debolezza, magari prove-
nienti da diversi background etnici, di età e di sesso diversi. In una situazione tipica, essi vengono usati per 60-90 mi-
nuti al giorno; ma i più loro forti sostenitori raccomandano almeno il 70% del tempo scolastico, assegnando il 20% ad
approcci individualistici e il 10% alle attività di tipo competitivo. La loro applicazione richiede un’attenta preparazione
dei materiali.
L’apprendimento cooperativo produce risultati maggiori praticamente a tutti i livelli di classe e di età e per tutti gli stu-
denti. I membri delle squadre cooperative mostrano tipicamente risultati migliori rispetto alle situazioni competitive, a
prescindere dal fatto che il rendimento venga misurato in termini di performance verbale o non-verbale e dal fatto che i
problemi usati per valutare il rendimento fossero molto strutturati e chiari o più scarsamente definiti. L’apprendimento
cooperativo produce quasi sempre performance accademiche superiori, una motivazione più forte, un maggior interes-
se per la scuola, e migliori rapporti tra gli studenti. Tuttavia alcuni degli effetti accademici positivi sono dovuti più al
fatto che le lezioni sono tipicamente più strutturate e più sistematiche che all’interazione tra studenti. Infatti, quello di
dividere la classe in gruppi non sempre è il metodo didattico più efficace: in certe occasioni e per certi approcci non
funziona; è anche possibile che gli studenti lavorino in gruppi ma non come gruppi. Due cose sono essenziali se vo-
gliamo che l’apprendimento cooperativo funzioni: (1) incentivi alla cooperazione e (2) responsabilità individuale; a cui
si può aggiungere, traendo suggerimenti dalla teoria di Vygotskij: (3) l’apprendimento dipende moltissimo
dall’interazione sociale, dipende soprattutto dalle interazioni con altri che sono più informati; inoltre, apprendimento e
processi mentali in genere dipendono dal linguaggio: uno dei grandi contributi dell’apprendimento cooperativo è che
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esso promuove lo sviluppo e l’esercizio delle capacità linguistiche. L’apprendimento cooperativo migliora anche
l’autostima e il senso di finalità e di autonomia dello studente.
Gli approcci cooperativi nascondono però anche degli svantaggi: per es., gli studenti meno brillanti sono spesso imba-
razzati dalle loro performance, e si vergognano di ottenere i punteggi più bassi del gruppo (anche se l’uso del miglio-
ramento della performance come base di calcolo dei punteggi, come accade nello STAD e nel TGT, può fare molto per
ridurre gli svantaggi). Inoltre, sostenendo che le tecniche cooperative dovrebbero essere la caratteristica dominante
dell’attività di classe, rischiamo di ignorare la possibilità che una delle ragioni per cui questi approcci hanno successo è
proprio perché presentano un chiaro contrasto con le procedure scolastiche convenzionali: lo spostamento
dell’attenzione e delle procedure serve ad aumentare la concentrazione, a motivare e in ultima analisi a migliorare la
performance. Infine, sebbene sia importante che i bambini imparino a cooperare tra loro, è importante anche che ap-
prendano abilità competitive ed individualistiche (senza contare che esistono certe situazioni che non si prestano ad un
approccio cooperativo). Poi bisogna anche ammettere che le prove su cui i sostenitori delle riforme umanistiche basano
le proprie argomentazioni non sono sempre convincenti. Forse, però, la critica più significativa mossa agli approcci
umanistici è che la maggior parte di essi dipendono dall’insegnante.
Ad ogni modo, queste critiche si applicano soprattutto agli approcci globali dell’educazione umanistica (tipo “scuole
aperte” o “libere”), e forse non sorprende il fatto che la maggior parte di queste scuole abbiano chiuso. Insomma, que-
ste critiche mosse all’educazione umanistica non sono rilevanti rispetto alle due espressioni dell’interesse umanistico
descritte sopra: le scuole orientate agli stili di apprendimento e l’apprendimento cooperativo. Comunque, l’umanesimo
non rappresenta una specifica tecnica educativa, bensì una filosofia educativa caratterizzata da una serie di atteggia-
menti ammirevoli nei confronti degli studenti e degli obiettivi educativi, atteggiamenti che dovrebbero essere presenti
in ogni insegnante [su C. R. Rogers e su il sé, v. anche, a p.89, «Il Sé»; per approfondire Rogers, v. i suoi «La terapia
centrata sul cliente», Martinelli, 1970-73-86-89, passim, e «Libertà nell’apprendimento», Giunti Barbèra, 1973, pas-
sim; per approfondire l’insegnamento cooperativo, v. «Apprendimento cooperativo in classe» di Aa. Vv., Erickson,
1996, e «Il cooperative learning: teoria e prassi del metodo di insegnamento attraverso la cooperazione» di Aa. Vv., in
«Psicologia e Scuola» nn. 86-90 Giunti O.S., 1997-1998; per le implicazioni pedagogiche delle psicologie umanistiche,
v. anche «Modelli psicopedagogici dell’apprendimento» di Titone R., Armando, 19882, in partic. pp.7-23; v. anche no-
ta 8; L,256-276].
L’interazionismo socio-culturale
Risultano centrali i significati assegnati dagli esseri umani al mondo in cui vivono e le interpretazioni negoziate e con-
divise che vengono prodotte nei diversi contesti di vita. Lo sviluppo nasce dall’interazione tra individuo e ambiente
(Piaget: ambiente come realtà naturale e artificiale, visto per lo più nei suoi aspetti fisici e matematici; Vygotskij: am-
biente come mondo sociale e culturale, in cui entrano le relazioni umane e sociali, le mediazioni linguistico-discorsive,
gli artefatti culturali, materiali e astratti)9 [v. AAppppeennddiiccee 66].
Apprendimento e collaborazione
Un orientamento di apprendimento collaborativo prevalente nella matrice anglosassone è stato quello della suddivisio-
ne preordinata di compiti o di preorganizzazione di subcompiti: ciascun partecipante studia un aspetto diverso del pro-
blema comune, e i contributi vengono poi messi insieme (modalità tipica tra adulti nel lavoro, nella ricerca, nella scrit-
tura). Un primo impulso all’importanza dell’interazione tra pari è venuto dalla ricerca piagetiana e post-piagetiana che
ha centrato l’attenzione sul ruolo del conflitto cognitivo e sociocognitivo tra punti di vista diversi; dal conflitto o anche
dal semplice confronto si produce un successivo cambiamento della prospettiva dei due interlocutori che non possono
più restare sulle loro posizioni [es. in Po,pp.44-47].
Apprendimento e contesto
Contesto = quadro culturale entro cui ha luogo un particolare evento interattivo e che offre risorse (e vincoli) per la sua
realizzazione e interpretazione ed è a sua volta arricchito e cambiato dalle azioni e dalle parole di tutti i partecipanti.
Ogni apprendimento o conoscenza sono situati, in quanto non esistono indipendentemente dal modo in cui i parteci-
panti (adulti e bambini, sperimentatori e soggetti, insegnanti e studenti) la contestualizzano.
Apprendimento come partecipazione
In questi anni si è parlato sempre più di partecipazione come nuova metafora di un apprendimento che assomiglia
sempre più ad un apprendistato, in quanto riguarda apprendimenti complessi, che hanno diverse componenti, che pos-
sono includere anche componenti elementari, isolabili, ma che sono poi inseriti dentro lo svolgimento di un mestiere,
di una professione o di un profilo particolare; la metafora della partecipazione comporta che la situazione di apprendi-
mento sia organizzata in modo tale da consentire ai discenti di partecipare in forma progressivamente più centrale ad
un sistema di attività. Oltre ad apprendere conoscenze, tecniche e procedure, si instaurano anche delle reti interperso-
nali di comunicazione, si apprendono anche modi e relazioni sociali, oltreché pratiche di lavoro collaborativo, molto
rilevanti per qualsiasi professione attuale (sono anche i contesti tipici in cui si impara a lavorare con gli altri [v. anche
«L’apprendistato cognitivo»: p.64]).
La competenze trasversali
L’istruzione obbligatoria deve oggi riuscire a far raggiungere a tutti, qualunque sia la scelta successiva, le competenze
che seguono: -comprendere testi, formulari diversi; -comunicare ad altri idee e dati, in diverse forme parlate o scritte,
9 V. nota 8.
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organizzando l’informazione (quasi mai sotto forma di “temi”!); -elaborare e interpretare dati quantitativi usando tec-
niche di tipo matematico; -impostare e risolvere problemi usando le mani, gli strumenti e i mezzi tecnologici del nostro
tempo, organizzando le risorse disponibili, anche ragionando in termini di sistema; -lavorare e collaborare con gli al-
tri, in modo produttivo, critico e non conformistico, valorizzando le proprie e altrui competenze, anche per assumere
decisioni consapevoli; -disporre di strumenti e pratiche di fruizione (e produzione) di arte, musica, teatro, cinema,
poesia, letteratura: in altri termini saper fruire della cultura alta per riqualificare la cultura popolare del tempo libero,
affinché si possa scegliere e non subire l’infimo livello di molta televisione; -imparare a imparare, a voler continuare a
imparare e a insegnare ad altri in diversi contesti sociali.
Sistemi di attività e conoscenza situata
Prima ancora di parlare di situazioni organizzate in vista dell’apprendimento, è opportuno riferirsi ad una impostazione
più generale che possa servire come riferimento per qualsiasi attività umana all’interno della quale sono quasi sempre
possibili modalità di apprendimento: è l’impostazione che deriva dalla teoria dell’attività di Leont’ev (1975: un’attività
situata è quella in cui sono presenti dispositivi, materiali, forme di conoscenza storicamente costituite e socialmente di-
stribuite, processi di interazione sociale e modi di azione sociale che essi producono, oltreché rappresentazioni mentali
congruenti). Per questo oggi si considera sempre l’apprendimento come situato, in quanto avviene sempre in una parti-
colare situazione contestuale ed è distribuito perché si distribuisce su di una serie di supporti e di strumenti (anche la
conoscenza scientifica è considerata come un’attività situata10
).
Significato e prospettiva dialogica
In questa prospettiva di condivisione di azione e pensiero, cambia la visione del significato, che acquista una caratte-
rizzazione fortemente intersoggettiva; ciò vale in riferimento: all’interazione diadica tra adulto e bambino, i quali han-
no in partenza una definizione diversa della situazione e che progressivamente ne costruiscono una definizione inter-
soggettiva in cui possono incontrarsi; alla situazione scolastica, in cui la creazione di una intersoggettività collettiva (in
modo che insegnanti e studenti possano condividere l’oggetto del discorso problematico) è la condizione necessaria af-
finché si possa creare una situazione di reale insegnamento-apprendimento. Pertanto il significato non risiede nella
mente del singolo individuo, ma è il risultato di una negoziazione sociale e culturale. Una tale concezione, arricchita
dalla dimensione culturale, presenta una caratterizzazione fortemente sociale, strumentale ed esterna di tutta l’attività
cognitiva e offre quindi modalità di conoscere da cui le attività di apprendimento scolastico possono prendere esempi
che adattano bene al modello di apprendistato di cui si è detto prima; fa capire come l’attività di conoscenza e di ap-
prendimento ha bisogno di situazioni sociali concrete in cui svolgersi e comporta sempre il rapporto con gli altri, la ne-
goziazione di significati, l’uso di artefatti, strumenti, procedure e quadri concettuali.
Identità ed eticità
Si apprende e si ricorda solo ciò che è funzionale alla costruzione della propria identità personale; il senso che ogni in-
dividuo ha di sé è il prodotto dinamico emergente dalle sue relazioni interpersonali: l’identità personale viene dunque
continuamente elaborata, ridefinita, negoziata nello scambio con l’altro (in questa costruzione svolge un ruolo determi-
nante l’identità di genere). Gli insegnanti sono figure identitarie importanti per bambini/e e ragazze/i, i quali trascorro-
no a scuola la maggior parte del loro tempo in età evolutiva; essi costituiscono (in particolare nella fase affiliativi che
corrisponde alla scuola di base) non solo modelli per l’apprendimento, ma anche delle figure di identificazione, ag-
giuntive e in qualche caso alternative a quelle genitoriali. Narrazione e discorso quotidiano assumono un ruolo fonda-
mentale, in ogni occasione di interazione sociale, familiare, scolastica, lavorativa; sono le narrazioni e i discorsi quoti-
diani la malta con cui gli individui co-costruiscono la conoscenza, l’identità, la realtà stessa. L’identità è oggetto di co-
struzione e di ricostruzione narrativa, in cui gli scambi con gli altri significativi, e il contesto culturale e relazionale in
cui avvengono, giocano un ruolo determinante, in una prospettiva di notevole interdipendenza; una tale interdipenden-
za interpersonale è anche quella che sta alla base della costruzione della propria eticità. Il fatto che i nostri diversi sé
abbiano sempre bisogno degli altri per essere ridefiniti è la base per realizzare la collaborazione, lo scambio e la con-
vivenza tra diversi; a tal fine la scuola può creare occasioni per la realizzazione di questi principi e modalità di funzio-
namento conseguenti fin dalle prime fasi di scolarità [v. anche «Il Sé»: p.89; Po,14-38].
Bruner e Anglin [ed altri: per es. Pellerey] sono dell’avviso che, quando si pianificano le esperienze di apprendimento
degli alunni, e sicuramente quando riflettiamo su qualsiasi attività di apprendimento, dobbiamo tenere presenti tre va-
riabili importanti: la natura del soggetto che apprende, la natura del materiale da apprendere, e la natura del processo
di apprendimento [F,139].
La natura del soggetto che apprende
Esistono diversi fattori negli alunni stessi che incidono sulla loro capacità di apprendere.
I fattori affettivi
A rigor di termini, l’aggettivo affettivo si riferisce soltanto alle emozioni, ma gli psicologi tendono a usarlo in un senso
più generale, che abbraccia tutto quanto si riferisce alla personalità.
10 Così, nell’ambito della sociologia e della retorica della scienza la conoscenza non è più definita come verità assoluta ma come credenza local-
mente accettata, spostando così il banco di prova delle teorie dall’ambio chiuso ed astratto della logica a quello più contestuale e contingente delle
modalità di produzione e di accettazione da parte di una comunità con peculiarità socioculturali.
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L’ansia
A livelli moderati l’ansia può essere un utile aiuto all’apprendimento, mentre in misura eccessiva può avere un effetto
di inibizione sull’apprendimento e interferire con esso; più difficile è il compito, più è probabile che un grado di ansia
elevato costituisca un fattore di interferenza. I bambini abitualmente ansiosi, quando si trovano in una classe scolastica
organizzata in modo piuttosto informale, dove spesso non sono sicuri di quello che ci si aspetta da loro, possono sentir-
la maggiormente ansiogena di un ambiente più formale e meno ambiguo.
Ansia da test
L’ansia relativa alla somministrazione di test (ansia da test; Hembree, 1988), oltre a causare una scarsa performance, è
correlata ad una bassa autostima; le femmine tendono ad avere un atteggiamento in qualche modo più ansioso rispetto
ai maschi, sebbene la loro maggiore ansia non si manifesti in una performance più bassa. Inoltre, gli studenti partico-
larmente ansiosi non traggono il massimo profitto dall’insegnamento; alcuni, tra questi, hanno semplicemente delle ca-
pacità più basse in fatto di test (l’ansia sembra dunque avere un effetto negativo anche sull’apprendimento). Tuttavia
gli studenti particolarmente ansiosi tendono ad imparare meglio con degli approcci educativi più strutturati, in cui non
ci si aspetta né si richiede l’interazione dello studente. Per ridurre l’ansia sono state messe a punto molte tecniche: la
maggior parte delle quali hanno lo scopo di modificare l’atteggiamento dello studente nei confronti della propria com-
petenza personale e di focalizzare l’attenzione sui compiti da eseguire piuttosto che sulla preoccupazione ad essi rela-
tiva [v. anche, più sotto, la teoria dell’arousal, e p.82].
L’autostima
I bambini che hanno un’autostima elevata ottengono regolarmente risultati migliori di quelli dei bambini che hanno ca-
pacità analoghe ma scarsa autostima; inoltre si prefiggono obiettivi più ambiziosi, manifestano minore esigenza di ap-
provazione da parte degli adulti, sono meno scoraggiati dagli insuccessi e hanno una visione più realistica delle proprie
capacità. L’autostima che dimostrano sembra dovuto in larga misura al comportamento dei genitori nei loro confronti,
caratterizzato da attenzione, incoraggiamento, calore fisico, coerenza e comportamento democratico; anche
l’insegnante, comunque, può contribuire a promuovere nei suoi alunni la fiducia nelle proprie capacità offrendo loro
occasioni di riuscita, incoraggiandoli anziché censurandoli quando sperimentano un insuccesso, e dimostrando di avere
personalmente fiducia nelle loro capacità.
Estroversione e introversione
[v. anche p.81] L’estroverso è in genere un soggetto che predilige il cambiamento e la varietà, è proiettato verso il
mondo esterno, le esperienze e i rapporti con la gente, mentre l’introverso tende maggiormente alla stabilità ed è più
concentrato sul mondo interno dei pensieri e dei sentimenti. Si ritiene che nella scuola elementare (dove si privilegiano
il lavoro di gruppo e le attività sociali) la riuscita possa essere legata in una certa misura all’estroversione, ma che que-
sta tendenza si sposti a favore dell’introversione (più rapidamente per le femmine che per i maschi) nella scuola secon-
daria, e in modo ancora più pronunciato all’università (dove assumono più importanza le abitudini di studio individua-
li). Pare che gli estroversi preferiscano ambienti di apprendimento non strutturati e gli introversi ambienti di apprendi-
mento strutturati; il valore dell’introversione per l’apprendimento e il successo scolastici, inoltre, dovrebbe essere mas-
simo quando si accompagna a livelli di intelligenza elevati. In conclusione: proprio come l’insegnante adotta approcci
differenti con alunni di capacità cognitive diverse, altrettanto dovrebbe fare con alunni di personalità diversa [F,130-
131; L,286-287].
La motivazione
Dalle ricerche di Keith e Cool sui fattori che più hanno determinato il successo nei risultati ottenuti da 25.000 studenti
(1992), risultò al primo posto la capacità, poi la motivazione, quindi la qualità dell’istruzione. Se manca una sufficiente
motivazione ad apprendere è ben difficile che l’apprendimento scolastico risulti soddisfacente. La ricerca più recente
indica che diverse variabili hanno un effetto diretto sulla motivazione dello studente («variabili relative
all’organizzazione e al clima di classe, compresa la struttura dei lavori, la loro complessità, le pratiche di gruppo, le
tecniche di valutazione, la responsabilità dell’apprendimento, e la qualità del rapporto insegnante-studente e studente-
studente»: Matthews, 1991) [F,131; L,281].
Teoria dell’arousal
La quantità di impegno che uno studente è disposto a mettere nella scuola (il suo grado di motivazione) dipende da tre
cose (Brehm e Self, 1989): gli stati interni come i bisogni o i desideri, le potenziali conseguenze, e la stima da parte di
una persona sulla probabilità che uno specifico comportamento porterà ad un dato esito. La motivazione risulta così sia
fisiologica (che può dunque essere misurata) sia psicologica. I cambiamento fisiologici che accompagnano l’aumento
della motivazione sono quindi cambiamenti del sistema nervoso simpatico, evidenti in un aumento dell’arousal.
L’arousal è: da un punto di vista psicologico, il livello di vigilanza di un individuo (livelli più bassi = sonno o coma;
livelli più alti = panico o shock); dal punto di vista fisiologico: sono cambiamenti sottostanti, concomitanti con questi
stati psicologici, evidenti nel sistema nervoso simpatico (con l’aumentare dell’arousal, aumentano anche ritmo respira-
torio, e cardiaco, attività cerebrale, conduttività elettrica delle pelle…). Principali fonti dell’arousal sono i ricettori a
distanza (udito e vista, principalmente), ma esso può essere innescato anche da qualsiasi altra forma di stimolazione,
compresa l’attività cerebrale (tipiche forme di stimolazione: significatività, intensità, sorpresa, novità e complessità).
Probabilmente è meno critica la quantità della qualità degli stimolatori. Un aumento dell’arousal è più o meno equiva-
lente ad un aumento della motivazione. La legge di Yerkes-Dodson [v. p.82: dove tra l’altro, invece di arousal, Fonta-
na – o il traduttore? – parla di ansia] indica che la motivazione (e l’efficacia del comportamento) aumenta con
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l’aumentare dell’arousal fin quando non viene raggiunto un livello ottimale; in seguito, un ulteriore aumento
dell’arousal produrrà una diminuzione della motivazione e dell’efficacia del comportamento. Riassumendo il rapporto
tra arousal e motivazione: 1- per qualsiasi attività e per qualsiasi individuo esiste un livello di arousal in cui la perfor-
mance sarà ottimale; 2- un individuo si comporta in modo tale da mantenere il livello di arousal più ottimale al com-
portamento in atto. Uno studente molto annoiato ha poche probabilità di apprendere efficacemente; bassi livelli di
arousal sono caratterizzati da scarsa attenzione (e da apprendimento meno efficace). Una manifestazione di aumento
dell’arousal è l’ansia [v. p.72: l’ansia, e p. 82]. Idealmente, tutti gli studenti di una data classe dovrebbero lavorare ad
un livello moderato di arousal; l’insegnante controlla una parte significativa della stimolazione cui gli studenti sono
esposti [L,284-288].
Concezioni della motivazione
Concezione comportamentistica
Enfatizza le motivazioni estrinseche (compensi, elogi).
L’edonismo psicologico è il principio del dolore/piacere, riassunto del principio motivazionale comportamentistico
più importante: noi ci comportiamo in un certo modo per ottenere piacere ed evitare il dolore. Ma si tratta di valutazio-
ni soggettive, che violano la presunta obiettività del comportamentista. Questi, infatti, tenta di identificare quegli sti-
moli che abbiano l’effetto di aumentare le probabilità di un comportamento, i cosiddetti rinforzatori (elogi ed ammo-
nimenti, voti alti e bassi, sorrisi ed arrabbiature dell’insegnante…). Se usato con giudizio e sistematicamente, il rinfor-
zo può avere effetti profondi sul comportamento. Ma se guardiamo una classe, vedremo che il comportamento non è
spinto semplicemente da ricompense esterne; il comportamento viene piuttosto educato, cioè spinto da cognizioni ed
emozioni.
Ad ogni modo, i rinforzatori più potenti per gli studenti sono gli stimoli come l’elogio, l’efficacia dei quali dipende
chiaramente dalle interpretazioni del comportamento dell’insegnante da parte dello studente (Stipek, 1988). L’elogio –
ed anche la sua assenza – ci offre informazioni fondamentali con cui costruire i concetti del sé, ci dice quanto siamo
meritevoli e competenti (concetti essenziali nella motivazione umana). Ma gli insegnanti non sempre usano bene
l’elogio (Brophy, 1981; Hitz e Driscoll, 1994): un elogio usato troppo poco non riesce ad essere efficace, mentre se
usato troppo spesso diventa insignificante; l’elogio usato da solo non è sempre molto efficace, ma può diventarlo
quando è designato ad aumentare l’autostima dello studente (ad esempio, quando è accompagnato da un incoraggia-
mento costruttivo, esercitando dei potenti effetti a breve e a lungo termine; l’incoraggiamento dovrebbe però essere
specifico anziché vago o generico, focalizzandosi sull’impegno dello studente piuttosto che solo sugli esiti di tale im-
pegno); l’elogio dovrebbe anche essere sincero, e gli insegnanti dovrebbero evitare di etichettare gli studenti o di fare
confronti tra loro. L’elogio, quindi, deve essere: non troppo frequente, contingente a qualche comportamento specifico,
credibile ed informativo, focalizzato sull’impegno dello studente, non casuale e disorganizzato, né quale ricompensa
alla mera partecipazione ma alla qualità della performance.
Alcuni insegnanti obiettano all’uso deliberato e sistematico del rinforzo, sostenendo che l’applicazione sistematica di
ricompense e punizioni (rinforzatori estrinseci) per formare il comportamento ha qualcosa di meccanicistico e deuma-
nizazante; altri temono che, se gli studenti sono preparati a rispondere troppo prontamente a dei rinforzatori esterni,
potrebbero diventare troppo dipendenti da essi; ed alcuni umanisti temono che questi studenti non impareranno mai ad
ascoltare le proprie motivazioni (bisogni intrinseci e fondamentali di eccellere, realizzarsi e diventare qualcosa di ap-
prezzabile).
Concezione umanistica11
Enfatizza l’importanza delle motivazioni intrinseche (motivi interni: bisogno di autonomia, competenza, realizzazio-
ne).
L’elogio è alquanto diverso dalle ricompense esterne (dai voti, per es.), essendo – ad un livello complesso – molto in-
formativo e con molto da dire anche sul valore e l’unicità dello studente stesso: può quindi fare molto per aumentare
l’affidamento dello studente su motivazioni intrinseche.
Maslow propone due sistemi di bisogni generali: i bisogni fondamentali e i metabisogni [v. più sotto «La personalità»].
R. W. White (1959) sostiene che uno dei nostri bisogni intrinseci più importanti è la motivazione alla competenza: si
manifesta nella lotta del bambino per una performance competente e nei sentimenti di sicurezza e valore che accompa-
gnano una performance di successo, e può essere vista come un aspetto dell’autorealizzazione. White ritiene che essa è
particolarmente importante per capire specie come la nostra in cui gli individui nascono con così poche competenze
innate: i nostri neonati non solo non possono correre o nascondersi, non possono nutrirsi da soli e non riconoscono
nemici e pericoli, ma non conoscono nemmeno quei segnali (gesti, suoni…) necessari per comprendere il mondo e per
comunicare con competenza. Insomma, la motivazione alla competenza è la spinta verso la competenza – la padronan-
za – che spiega la curiosità e il comportamento mirato all’acquisizione di informazioni (è evidente anche nelle reazioni
ripetitive e circolari del neonato di Piaget [v. p.34], e spiega anche perché i bambini in età scolare esercitino le proprie
capacità fin quando non raggiungono la giusta competenza).
Il maggior contributo degli approcci umanistici alla pratica educativa è forse meno incarnato nelle specifiche racco-
mandazioni per una buona gestione della classe e più negli atteggiamenti degli insegnanti nei confronti degli studenti:
l’educatore umanistico attribuisce grande valore allo sviluppo personale dello studente, e l’autorealizzazione è di con-
seguenza uno degli obiettivi più importanti dell’istruzione umanistica.
11 V. nota 8.
74
Concezioni cognitive
Enfatizza le motivazioni intrinseche (il bisogno della persona di conoscere e comprendere). Alcuni aspetti della teoria
della motivazione alla competenza sono tanto cognitivi quanto umanistici, e in un certo senso sono anche comporta-
mentistici (e talvolta socio-culturali: il mondo reale è più complesso delle nostre categorizzazione psicologiche!).
La prima psicologia ha descritto un organismo molto reattivo ma notevolmente poco attivo; gli approcci più recenti so-
no invece palesemente più cognitivi e sociali. Bolles (1974), concordando in questo con Freud, sostiene che non esi-
stono comportamenti non motivati: la motivazione non sarebbe dunque una forza speciale che dovrebbe essere isolata
e classificata. Berlyne (1960) ha focalizzato il ruolo della curiosità nell’orientare l’attività degli individui e nello spin-
gerli a continuarle; in particolare: quando un individuo è posto in una situazione che può prevedere risposte conflittua-
li, si attua un impulso di curiosità (motivazione esplorativa) per il quale l’individuo si impegna nella ricerca di ulteriori
informazioni per soddisfare tale impulso. White (1959) parla di motivazione alla competenza, con ciò intendendo un
bisogno fondamentale negli esseri umani di controllare il proprio ambiente (tale caratteristica è stata addirittura vista
come uno dei fattori che ha permesso la sopravvivenza della specie, poiché proprio questo desiderio ha consentito agli
individui di impegnarsi anche in attività faticose per sentirsi padroni del proprio destino); White sostiene che la moti-
vazione vada ridefinita in termini di effectance (produrre effetti), perché si può dar conto di tutti quei comportamenti
esplorativi, di bisogno di controllo, di padronanza e di manipolazione che caratterizzano gli esseri umani quando sono
motivati. Deci e Ryan (1985; 1992) propongono la teoria dell’autodeterminazione: il bisogno di competenza è la ra-
gione principale per cui gli individui ricercano il livello ottimale di stimolazione e di attività, infatti la motivazione in-
trinseca si riduce se si ha la sensazione di un controllo esterno e/o di rinforzi negativi sulla propria competenza; gli
studiosi superano poi la distinzione dicotomica fra motivazione intrinseca ed estrinseca [v. p.76] ed indicano diversi li-
velli attraverso cui si realizza il processo di “interiorizzazione”, che va dalla regolazione esterna (che proviene da con-
tingenze esterne) alla regolazione interna (che si fonda sull’utilità del comportamento autoregolato) alla regolazione
per identificazione che è basata sull’autonomo riconoscimento da parte dell’individuo di ciò che ha valore e importan-
za.
Forse la caratteristica più importante della motivazione umana è la nostra capacità di rimandare la gratificazione; il
nostro comportamento è così fortemente motivato dalle nostre anticipazioni di esiti futuri che l’analisi del comporta-
mento umano in termini di condizioni che appaiono rilevanti per il comportamento di ogni bambino è spesso infruttuo-
so se applicata ad adolescenti e adulti. Abbiamo imparato a posticipare la gratificazione in virtù di qualche capacità
umana coinvolta nel pensiero, nell’immaginazione e nella verbalizzazione. È attraverso lo studio di questi processi co-
gnitivi in atto che i teorici cognitivi sociali come Bandura cercano di comprendere e spiegare il comportamento umano
[v. anche p.26].
L’auto-efficacia
Riguarda la valutazione che noi diamo sulla nostra efficacia (Bandura, 1986 a 1991). Le persone più efficaci sono
quelle che riescono ad affrontare meglio le situazioni (quelle più competenti, in altre parole); di conseguenza, l’auto-
efficacia ha due componenti relative: la prima riguarda le abilità (le competenze reali) necessarie per una performance
di successo, la seconda riguarda l’idea che ognuno di noi ha sulla competenza (numerosi studi hanno dimostrato che gli
studenti dotati di un alto senso di efficacia accademica mostrano una maggiore perseveranza, un maggior impegno ed
un maggiore interesse intrinseco per il proprio apprendimento). Bandura identifica quattro importanti influenze dei
giudizi che una persona emette sul concetto di auto-efficacia (o competenza personale):
1. Influenze pratiche = il successo o l’insuccesso abituale di una persona in un dato compito influenzano chiaramente i
suoi giudizi personali di competenza: chi non ha mai successo ha molte più probabilità di sviluppare delle valutazioni
negative sulla propria auto-efficacia rispetto a chi riesce sempre in ciò che fa (non è detto, comunque, che il successo
venga invariabilmente attribuito alla competenza personale e quindi produca alti giudizi di auto-efficacia: v. più avanti
le teorie dell’attribuzione).
2. Influenze vicarie (di seconda mano) = hanno a che fare con l’osservazione delle performance altrui, e sono partico-
larmente importanti nelle situazioni competitive scolastiche: i bambini che ricevono i voti più bassi – o più alti – subi-
ranno delle informazioni altamente strumentali nel determinare i loro giudizi di valore personale; Bandura suggerisce
che i confronti più importanti relativamente ai giudizi di competenza personale sono quelli che il bambino fa con i pro-
pri coetanei.
3. Influenze persuasive = chi manca di fiducia in se stesso – e quindi ha giudizi di auto-efficacia presumibilmente bassi
– può essere persuaso a fare cose che altrimenti si rifiuterebbe di fare; implicito nella persuasione («Su, Emily, suona
la tua chitarra per noi») è un giudizio positivo («Suoni la chitarra così bene, Emily»).
4. Influenze emotive = un arousal alto può influire sui nostri auto-giudizi in diversi modi (una grande paura, per es.,
può portare a giudizi di bassa competenza personale).
Bandura (1993) sostiene che le misure di auto-efficacia sono spesso un mezzo di previsione del comportamento mi-
gliore rispetto alle abilità più rilevanti, dato che nella maggior parte delle circostanze i bambini – e gli adulti – non ten-
tano di fare cose che si aspettano di non poter fare bene: «Le convinzioni sulla propria efficacia influenzano il modo in
cui le persone sentono, pensano, motivano se stesse e si comportano». I giudizi di auto-efficacia si sono dimostrati cor-
relati anche agli obiettivi: gli studenti si pongono certi obiettivi in base ai concetti di auto-efficacia rispetto al rendi-
mento accademico; gli obiettivi sono particolarmente importanti, dice Bandura (1986), in quanto stabiliscono i criteri
del fallimento o del successo personale: raggiungerli o mancarli è quindi un evento accompagnato da forti reazioni
emozionali. I giudizi di efficacia motivano anche i nostri comportamenti influenzando i nostri pensieri e le nostre emo-
zioni: chi ha giudizi di competenza personale bassi ha maggiore probabilità di valutare negativamente se stesso e di
75
soffrire di scarsa autostima; una ricerca di Coopersmith con ragazzi adolescenti (1967) indica che i concetti di sé posi-
tivi sono strettamente correlati al successo sia scolastico sia interpersonale. Diverse ricerche effettuate fanno ritenere
che dei giudizi altamente favorevoli di competenza personale (alta auto-efficacia) insieme a concomitanti valutazioni
positive del sé (autostima positiva) possono avere un’enorme influenza sul rendimento scolastico di un bambino (ed
anche sulla sua felicità).
Teorie dell’attribuzione
Noi non reagiamo necessariamente ai nostri successi o ai nostri fallimenti esattamente allo stesso modo. La teoria
dell’attribuzione riconosce queste differenza nell’attribuzione del nostro comportamento a determinate cause; le nostre
attribuzioni dipendono molto dalla nostra personalità, nello specifico, da un aspetto della nostra personalità: il locus of
control, che si riferisce alle cause cui attribuiamo i nostri comportamenti [v. p.87].
Sono stati elaborati ed analizzati molti programmi di cambiamento delle attribuzioni: il principale loro obiettivo è quel-
lo di muovere gli studenti in direzione di una attribuzione di impegno, tentando di portare lo studente a capire che i
suoi successi e i suoi fallimenti dovrebbero essere attribuiti ai suoi sforzi personali. I docenti possono esercitare un cer-
to controllo sulle tre categorie principali cui vengono attribuite le conseguenze delle performance (impegno o sforzo,
capacità o abilità, difficoltà del compito), ma la fortuna (molte volte chiamata in causa – spesso a sproposito – dagli
studenti) può essere solo lasciata al caso.
In generale, gli studenti che ritengono che gli esiti del proprio comportamento derivino dall’impegno personale tendo-
no a sviluppare degli obiettivi di padronanza (che si focalizzano sul valore intrinseco dell’apprendimento); sono obiet-
tivi associati ad un alto bisogno di successo, con il rischio e con atteggiamenti positivi nei confronti
dell’apprendimento. Gli studenti che, invece, ritengono che gli esiti del proprio comportamento siano in funzione della
loro capacità piuttosto che dell’impegno, sviluppano degli obiettivi di performance (il loro punto focale è su un rendi-
mento migliore di quello degli altri, sul raggiungimento di un riconoscimento pubblico, sul successo in base a norme
esterne, l’apprendimento e la comprensione sono secondari); sono obiettivi associati all’evitamento di compiti partico-
larmente difficili, all’uso di strategie di apprendimento a breve termine e ad un effetto negativo conseguente il falli-
mento. Questi due orientamenti sono fortemente influenzati dal fatto che gli studenti percepiscano o meno la classe
come un’entità orientata alla conoscenza; e tale percezione è influenzata da almeno tre aspetti dell’esperienza di clas-
se:
Compito = implicite nel compito vi sono le informazioni che gli studenti usano per emettere giudizi sulla propria ca-
pacità, sulla loro disponibilità di applicare strategie e sui loro sentimenti di soddisfazione; esistono altre importanti di-
mensioni motivazionali del compito: varietà (associata a motivazione prolungata), sfida (quando il compito viene defi-
nito in termini di specifici obiettivi a breve termine, è più probabile che gli studenti decidano di poterlo eseguire con
un ragionevole impegno per verificare la propria efficacia) e significatività (i compiti personalmente coinvolgenti han-
no minori probabilità di portare gli studenti a confrontare la propria performance con quella degli altri, e di portare ad
obiettivi di performance).
Valutazione = uno dei modi più sicuri di elaborare un orientamento verso la performance è quello di usare le proce-
dure di valutazione che enfatizzano la capacità e che sottolineano il confronto fra studenti (quando in classe il punto
focale è sui prodotti degli studenti e sulla correttezza della memorizzazione, piuttosto che sui processi di apprendimen-
to e sulla comprensione, ben presto gli studenti si orientano verso la performance). I confronti sociali sono fra le pro-
cedure di valutazione orientate alla performance più ovvie (come rendere pubblici i punteggi più alti e più bassi, sele-
zionare gli scritti e le performance degli studenti mostrando i loro successi… con effetti devastanti sugli studenti più
scarsi).
Autorità = il grado di scelta, di significative opportunità di autonomia che gli insegnanti offrono agli studenti è diret-
tamente correlato al loro orientamento verso la conoscenza; gli insegnanti più tesi al controllo e che prendono le tutte
le decisioni importanti incoraggiano degli obiettivi di performance [L,288-300; Po,275-279; v. anche Po,279-280].
Concezioni socio-culturali
La motivazione in prospettiva neo-vygotskijana va considerata come la trama che sostiene lo svolgimento di attività si-
gnificative a cui il soggetto prende parte: non più perciò caratteristica individuale del soggetto, variabile da individuo a
individuo, ma indicatore dell’avvenuto riconoscimento di senso di quello che si fa da parte di un soggetto o di un
gruppo.
Strutturazione degli obiettivi e apprendimento cooperativo
Sono state identificate tre diverse strutturazioni del lavoro in classe corrispondenti a tre diversi obiettivi generali che
incidono sull’affettività degli studenti, sull’autostima e sulla motivazione (ma nella pratica ci si può facilmente trovare
di fronte a situazioni più sfumate e miste): 1- la struttura individualizzata in cui ciascun allievo è valutato in base alle
sue singole prestazioni, senza paragone con quelle degli altri e il successo di ciascuno è collegato all’impegno persona-
le; 2- la struttura competitiva che corrisponde alla situazione in cui se uno vince l’altro perde e si persegue costante-
mente il confronto con gli altri rispetto a cui si è anche valutati; 3- la struttura cooperativa in cui il gruppo condivide
premi e punizioni e si valuta la prestazione del gruppo, indipendentemente da quella di ciascun suo membro [v. p.68].
[V. anche più avanti «Rapporti fra pari»: p.77] I ricercatori ad orientamento neo-vygotskijano sostengono che
l’apprendimento e lo sviluppo cognitivo sono essenzialmente una questione di assorbimento appropriato di cultura pra-
tica mediante una partecipazione sostenuta (scaffolded) in attività importanti nella società; l’attività sociale, dunque,
non è l’espediente per coinvolgere gli allievi, o il setting per facilitare le loro relazioni reciproche affinché stiano bene
a scuola e sviluppino un senso di appartenenza, quanto piuttosto costituisce la trama che sostiene l’intero impianto
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educativo: l’apprendimento va visto nella sua relazione subordinata alle attività che sono tutte peraltro socialmente
connotate. Tutto ciò significa che: -la connotazione pratica e sociale delle attività educative dovrebbe essere immedia-
tamente riconoscibile e quindi non ridotta ad espediente motivazionale [Po,274,287-288,292].
Il problema della «disponibilità» dell’energia
Un insegnante dovrebbe partire dall’idea che l’energia di cui vi è necessità per le attività d’apprendimento è general-
mente presente negli allievi (anche se in quantità diverse); tale energia, però, non è sempre ugualmente disponibile per
qualsiasi attività (volontà dell’allievo, ma anche qualità dell’esperienza) [Pe,87-88].
Le motivazioni intrinseche ed estrinseche
Stando alla teoria della valutazione cognitiva delle motivazioni, in particolare alla distinzione di E. L. Deci (1975), il
comportamento intrinsecamente motivato è la condotta che una persona mette in atto sotto la spinta del bisogno di sen-
tirsi competente e autodeterminante in relazione al suo ambiente; tale bisogno sarebbe innato. Una persona è intrinse-
camente motivata se svolge un’attività senza ricevere rinforzi, in quanto è l’attività stessa che agisce da rinforzo
(1972); la percezione del locus of control rimane all’interno della persona (Deci et alii, 1974), e la ricompensa è insita
nel comportamento stesso [ma: v. supra la teoria dell’autodeterminazione di Deci e Ryan]. Con M. Csikszentmihalyi
(1989) si può aggiungere: la ricompensa intrinseca consiste in un’esperienza diretta, in uno stato della coscienza che è
così piacevole da essere autotelico (cioè ha il suo scopo in se stesso); piacere soddisfazione, divertimento, godimento
rappresentano la ricompensa di queste esperienze autoteliche. Invece un comportamento estrinsecamente motivato è
quello messo in atto al fine di ricevere un rinforzo esterno, che si presenta come elemento differenziato rispetto
all’azione intrapresa; la percezione del locus of control è esterno alla persona. E Csikszentmihalyi: quando la sola ra-
gione per fare una cosa è raggiungere qualcosa che vada oltre l’attività stessa, la motivazione è estrinseca (1989). Ine-
vitabile che si presentino occasioni nelle quali le motivazioni interne degli alunni sono insufficienti; si ricorre così a:
voti, pagelle, compiti, interrogazioni, esami, manifestazioni di approvazione da parte dell’insegnante. Il successo del
bambino contribuisce a migliorare il suo prestigio ai propri occhi e agli occhi degli insegnanti, dei coetanei e dei geni-
tori, e in tal modo lo aiuta ad alimentare la cosiddetta motivazione alla riuscita, a volte chiamata desiderio di riuscire
(gratificato dai successi, il bambino si forma aspettative che richiedono da parte sua sempre maggior impegno per po-
tervi corrispondere). A scuola c’è il rischio che le motivazioni esterne possano condurre a un aumento dell’ansia fino a
determinare fattori inibenti; e sollevano le seguenti questioni: -Invece del successo, certi bambini sperimentano soltan-
to insuccessi, e ciò tende ad abbassare l’autostima o a provocare il rifiuto della scuola (per difesa): bisogna offrire la
possibilità di riuscita anche a livelli molto bassi (l’alunno si costruisce una nuova immagine di sé, e può essere inco-
raggiato a prefiggersi obiettivi progressivamente più ambiziosi). -A volte incide negativamente il fatto che l’alunno de-
ve attendere troppo a lungo prima di vedere i risultati del proprio lavoro (condizionamento operante: intervalli più lun-
ghi = apprendimento meno efficace, interesse meno vivo). -La competizione può essere fonte di motivazione, ma se
diventa troppo intensa finisce facilmente per determinare sensazioni negative ed effetti nocivi nei casi di insuccesso:
spesso è più proficua una situazione in cui gli alunni competono con se stessi e riescono ad ottenere costanti migliora-
menti (proficuo anche lo spirito di collaborazione in cui gli alunni adottano norme di gruppo e lavorano insieme per
costruirle). -Ogni qualvolta le motivazioni esterne si facciano troppo pressanti, può capitare che gli alunni ricorrano a
strategie (copiare, assenteismo, simulazione di malattia...) per evitare le conseguenze di un insuccesso. È importante,
dunque, evitare che l’utilizzazione di motivazioni estrinseche abbia luogo a scapito delle altre (quelle intrinseche): la
quantità di energia che un allievo è in grado di utilizzare in attività per le quali prova un vivo interesse è maggiore, il
coinvolgimento è più profondo e la traccia lasciata è più marcata; il manifestarsi di un interesse anche per l’attività
strumentale, oltre che per l’obiettivo, connota positivamente l’intera situazione di apprendimento. Quando si voglia ri-
correre a motivazioni estrinseche, è importante tenere presente i riflessi psicologici diversi che può avere l’uso di voti
positivi o invece negativi: i primi (così come la lode) caratterizzano positivamente la situazione controbilanciando
l’eventuale spiacevolezza dell’attività d’apprendimento che ha permesso la loro conquista; i secondi (o il rimprovero)
possono invece aggiungere la loro spiacevolezza a quella dell’attività d’apprendimento (determinando anche atteggia-
menti di allontanamento o rifiuto). Meglio, dunque, sostituire questi ultimi con: considerazioni relative al lavoro che
occorre ancora fare perché il risultato sia soddisfacente; rinvio a una prova successiva da sostenere in condizioni di
migliore preparazione; l’analisi degli eventuali errori compiuti nella preparazione e dei modi per evitarli [v. «Psicolo-
gia e Scuola» n° 85/1997, Giunti O.S., Firenze, pp.11-12; F,131-133; Pe,95-96].
Motivazioni dirette, fondate sulla qualità dell’attività (intrinseche)
Presenti nel caso di attività ludiche o ludiformi.
Come fare? In molti casi basta proporre tali attività; in altri, occorre invece assumere l’iniziativa di trascinare i ragazzi
in attività che non conoscono.
Motivazioni dirette, fondate sul prestigio (intrinseche)
Dipendono dal fascino di cui un insegnante gode (sono quindi indotte); importanza della qualità del rapporto persona-
le. Come fare? La via maestra è quella di acquistare prestigio nei confronti degli allievi [v. “Le atmosfere educative”:
p. 117]; ma è già efficace il fatto stesso di attribuire esplicitamente importanza a certe «attività d’apprendimento», o di
mostrare per esse entusiasmo.
Motivazioni indirette, legate a «progetti» e a «problemi» (intrinseche)
Sono legate al fatto che una certa «attività di apprendimento», magari in sé priva di interesse, viene posta in rapporto
con un certo obiettivo che è invece carico di interesse (il rapporto deve essere di mezzo-fine).
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Come fare? Con la «strategia dei progetti» (un progetto affascinante: spettacoli, gite...). Con la «strategia dei proble-
mi», di cui Bruner è stato tra i primi teorizzatori, e che presenta - rispetto alla precedente - i vantaggi di
un’applicabilità assai più generale e di un’utilizzazione più agevole (un problema, dal momento in cui un individuo lo
fa proprio, richiama energia, e mette in movimento il pensiero): vi sono problemi con i quali è sufficiente modificare la
struttura d’insieme dei dati già a disposizione per ottenere la soluzione, ed altri - più numerosi - in cui per giungere alla
soluzione occorre mettere in gioco anche altri dati di conoscenza che non sono già presenti nella situazione problemica
iniziale [v. anche p.79]; sono questi ultimi i più vantaggiosi, soprattutto quando intorno ad essi viene avviata una di-
scussione di gruppo (si crea a poco a poco un interesse sempre più vivo per dati che ancora non si conoscono, in quan-
to «strumentali» alla soluzione), e per il fatto che il rapporto che hanno con i dati già noti è un rapporto di complemen-
tarità (sono «una risposta a una domanda»; carattere organico [v. «L’organicità delle conoscenze e il curricolo» p.124].
Talvolta l’energia «se ne va altrove»
A causa di stimoli distraenti, ovvero di eventi che per il loro carattere di novità o la loro qualità, presentano (sul
momento almeno) un interesse maggiore di quello dell’attività di apprendimento (meglio lasciare che lo stimolo di-
straente prenda per un certo tempo il campo fino ad esaurimento del suo interesse; ma si può anche cercare di trarne
profitto: per osservazioni, prove, formulazione di problemi, socializzazione di informazioni...).
A causa dell’essersi soffermati troppo a lungo in attività sia pure interessanti (saturazione psichica: cambiamento
graduale della valenza di una certa attività o anche di una certa persona con cui si sta o di un luogo in cui ci si trova):
può venir evitata, o molto ritardata, se si introducono delle variazioni nel modo in cui un’attività viene svolta; o alter-
nando una certa attività con un’altra molto diversa.
A causa dell’insorgere in un allievo di qualche grave problema personale (l’«epoca d’oro» per le attività di ap-
prendimento è il periodo che comprende la scuola elementare sino al primo anno di scuola media [la freudiana «fase di
latenza»], cui fa seguita la più problematica preadolescenza [la «pubertà»]) [Pe,88-98]
Età, sesso e fattori sociali
Concetto di disponibilità
Il soggetto non è in grado di realizzare determinate forme di apprendimento fino a quando i suoi processi cognitivi non
abbiano raggiunto il livello di maturazione di volta in volta corrispondente. Bruner ritiene che gli stadi evolutivi si ac-
quisiscono in ordine fisso e si continua ad utilizzarli per tutta la vita; Piaget è convinto che in generale si pervenga a
uno stadio sulla base di quello che lo precede. Importante che l’insegnante presenti il materiale da apprendere in una
forma adeguata al livello di pensiero dei suoi alunni [ma: v. la zona di sviluppo prossimale di Vigotskij, p.37].
Rapporti fra pari
Rapporti di amicizia = la sensazione di essere sostenuti socialmente e ben voluti dai pari e dagli adulti è alla base di un
maggiore coinvolgimento nell’apprendimento e di un generale senso di appartenenza alla scuola; la qualità delle rela-
zioni di amicizia è inoltre un fattore chiave nel passaggio all’adolescenza che può ripercuotersi positivamente sul ren-
dimento scolastico. Comunità di apprendimento12
= autenticità dell’impegno nelle attività, responsabilità condivisa,
conoscenza distribuita, appropriazione reciproca e negoziazione dei significati (costrutti di derivazione neo-
vygotskijana che costituiscono la struttura dell’organizzazione della classe come comunità di apprendisti) favoriscono
il processo di apprendimento sulla base di un coinvolgimento più profondo e diretto degli allievi, incentivando la moti-
vazione. Aiuto reciproco = il lavoro insieme per la comprensione del materiale, la discussione e l’elaborazione condi-
visa influenzano positivamente le aspettative di riuscita degli alunni, la valutazione delle attività e la focalizzazione sul
processo di apprendimento piuttosto che sull’esito tout court della prestazione; in particolare, gli allievi – a diversi li-
velli di età – risultano partecipanti a pieno titolo a quel che fanno e il loro coinvolgimento, in particolare nelle discus-
sioni, produce livelli di elaborazione cognitiva più elevati e non ancora acquisiti stabilmente dai singoli componenti
del gruppo.
Femmine e maschi in età scolare
I maschi tendono a sovrastimare la propria competenza per prestazioni future, mentre le donne sottostimano invece le
loro capacità anche quando raggiungono esiti scolastici eccellenti. Le ragazze tendono meno ad attribuire i successi al-
le proprie abilità, mentre più facilmente riconducono gli insuccessi alle proprie incapacità; tali attribuzioni comunque
sono più spesso collegate alla natura dei compiti quando sono di tipo “maschile” o poco familiari. Le ragazze tendono
inoltre ad avere un alto livello di locus of control interno per la responsabilità sia di eventi positivi che negativi e tale
senso aumenta con il crescere dell’età; al contrario, nei ragazzi il senso di responsabilità interno diminuisce con
l’aumentare dell’età, così essi tendono ad attribuire gli esiti delle proprie azioni al potere degli altri o a cause esterne
sconosciute, sia per gli ambiti cognitivi che per quelli sociali.
Le femmine ricorrono maggiormente all’espressione verbale, hanno minori difficoltà a leggere e a parlare, e tendono
ad avere minori problemi di ritardo scolastico; i maschi fanno invece maggiori progressi in matematica e nello sport.
La ampiezza di tale differenze si incrementa nella fase pre-adolescenziale e adolescenziale (mentre le differenze nella
capacità di parlare tendono a scomparire verso i 16 anni di età); tra i 5 e i 10 anni, inoltre, nei maschi raddoppia la ten-
12 Con questa locuzione si intende un’organizzazione della classe in gruppi, ciascuno dei quali è responsabile di un settore o di un ambito di com-
petenza e fa da tutor agli altri compagni di classe; lo scopo è quello di impegnare gli allievi in attività autentiche di acquisizione di conoscenza in
campi disciplinari diversi, disponendo di strumenti e materiali e della possibilità di mettersi in contatto con esperti, mentre l’insegnante svolge un
ruolo di facilitatore.
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denza a manifestare un aumento di intelligenza nei test e a raggiungere così i livelli delle femmine. Lungo tutta la vita
scolastica, tuttavia, le femmine tendono a raggiungere risultati migliori in tutte le materie, mentre i maschi le superano
nelle materie che prediligono, anche se poi rifiutano le materie che detestano (si tenga presente che in famiglia alle
femmine si insegna ad essere più dipendenti; inoltre, nella maggior parte dei casi l’insegnamento a scuola viene svolto
da donne, sicché i maschi finiscono per associare la scuola a valori femminili). Tutte le volte che si rilevano differenze
di genere nelle misure di valutazione della motivazione, queste si riconducono a stereotipi di ruoli e di genere e a com-
portamenti e scelte di impegno in campi specifici che risultano anch’essi fortemente connotati per genere; anche la va-
lutazione delle attività scolastiche risente di una stereotipica connotazione di genere [v. anche p.20]. Dai risultati di
molte ricerche emerge che le ragazze di successo avvertono il conflitto fra il fare del loro meglio per riuscire e apparire
femminili e premurose con gli altri.
Motivazione e identità
Scuola primaria = l’apprendere dall’adulto può fondarsi su una motivazione affiliativa di piena adesione ai modelli
proposti dagli adulti, genitori e insegnanti: il “sentirsi grandi” perché si è imparato qualcosa è ragione di soddisfazione
e costituisce una spinta a continuare ad apprendere. Scuola media = si passa ad una motivazione orientata alla realizza-
zione del sé: l’interesse prevalente dei ragazzi e delle ragazze è rivolto a tutte quelle manifestazioni che rendono possi-
bili la scoperta di parti di sé, la riflessione sulle proprie emozioni e complessivamente aiutano questi soggetti a guar-
darsi come in uno specchio per meglio comprendersi e costruire la propria identità in trasformazione. 13-15 anni ca. =
crescita di autonomia e di responsabilità, sapendo bene che in quest’epoca della vita, per i maschi in particolare, si ve-
rifica una modalità fortemente conflittuale di rapportarsi all’adulto di cui si percepisce spesso in maniera esasperata la
dimensione di potere, come autoritarismo senza autorevolezza.
Bambini di condizione sociale svantaggiata
Rimangono indietro in ogni aspetto dell’apprendimento scolastico rispetto a bambini di ambiente maggiormente eleva-
to. Dal momento che le scuole, nel bene e nel male, propugnano i cosiddetti valori della classe media (risparmio, ri-
spetto per l’autorità, ambizione professionale, buone maniere e rinvio delle gratificazioni), è possibile che abbiano
maggior facilità di riuscita i bambini che si sentono a proprio agio con questi valori [F,133-135; Po,282-284,289-295].
La natura del materiale da apprendere
Bruner: lo scopo ultimo dell’insegnamento di una materia è quello di aiutare gli alunni a comprenderne la struttura (i
principi di fondo che aiutano a definirla, e che consentono di ricollegarla in modo significativo ad altri argomenti).
Grazie a una comprensione piena della materia, l’insegnante può ricavarne materiale adatto alla classe; tale materiale
può poi essere espresso in termini di chiari ed espliciti obiettivi didattici [v. i principi metodologici]. Gli obiettivi de-
vono essere espressi nel linguaggio dei comportamenti, consentendoci di osservare gli avvenuti o non avvenuti cam-
biamenti nell’alunno [v. la programmazione per obiettivi, in appunti di F. Gatta]. Una guida alla preparazione degli
obiettivi proviene da Bloom et alii (1956 e 1964): tassonomie della sfera cognitiva ed affettiva [v. anche altre tasso-
nomie, in appunti di F. Gatta; F,139-143].
La valutazione
[F,143-145; v. materiali vari sull’argomento Valutazione: in appunti di F. Gatta, comprendente anche L,368-398, dedi-
cato ad «Obiettivi didattici e valutazioni scolastiche»].
Varie forme di apprendimento
Possiamo distinguere diverse forme di apprendimento, in rapporto con la qualità dell’esperienza che ne è parte costitu-
tiva (quindi anche con la qualità delle «tracce» che essa lascia in noi). Non si tratta tuttavia di distinzioni rigide, nette.
Gli apprendimenti precettivo-motori
L’esperienza che lascia tracce è, in questo caso, quella di un insieme di percezioni e di movimenti che attraverso la ri-
petizione tendono a collegarsi sempre più strettamente, formando una sequenza unitaria («schema» percettivo-
motorio); la quale, da un certo momento in avanti, si dispiega in modo fluido e automatico, pur restando suscettibile di
«modulazioni» di vario tipo. Due componenti, dunque, intimamente fuse: una percettiva (S), e l’altra motoria (R; segue
S e modifica la situazione, dando luogo ad altre percezioni che alimentano nuove risposte motorie o correggono quelle
in atto).
Occorre distinguere fra apprendimenti percettivo-motori normali e apprendimenti percettivo-motori che invece sono il
risultato di esperienze specifiche. Problemi psicologici relativi: -capire il meccanismo di formazione dei vari schemi
(in genere nascono per differenziazione, o combinazione [v. «Lo sviluppo»: p.32); -programmare in modo adeguato le
ripetizioni dell’esperienza (esercizi, loro gradualità, presenza in essi di elementi di novità).
L’apprendimento di dati di conoscenza
Attraverso esperienze cognitive, acquisiamo tracce che vengono poi organizzandosi in strutture di varia estensione e
articolazione (mappa mentale, suo arricchimento o rielaborazione; elementi percettivi relativi a più sensi). Origine del-
le tracce lasciate, dunque, di varia natura; cosa questa che marchia tali tracce in vario modo e condiziona anche le mo-
dalità con le quali giungiamo a riattivarle, a trasformarle in ricordi coscienti (attivazione di ricordo diretto, poi schema
mentale unitario...). Problemi psicologici: - distinzione tra MBT e MLT (trasferimento tracce da MBT a MLT [v. so-
pra, pp.40ss]); - condizioni che favoriscono la formazione di tracce e la loro organizzazione in strutture cognitive
(grado di nitidezza della prima esperienza, struttura «forte» - ben congegnata - della spiegazione o del racconto, ripe-
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tizione dell’esperienza [v. principi metodologici continuità e ricorsività; e «La percezione» p.1] in vari modi, e presen-
tificazione dell’esperienza) [Per l’apprendimento dei concetti, v. Po,pp.243-269, oltre ai testi di Damiano sulla didatti-
ca per concetti].
L’apprendimento di procedure tecniche
Riguarda i modi in cui si deve procedere per ottenere un certo risultato già noto nelle sue linee d’insieme: il cosiddetto
know how («sapere come» fare per ottenere un certo prodotto). Problemi psicologici: quello di una piena fusione fra
componenti cognitive e componenti di ordine percettivo-motorio.
L’apprendimento di procedure euristiche
[v. anche p.12: «Il pensiero come attività strutturante»]. Procedure utilizzabili per far scaturire da conoscenze già pos-
sedute dati non ancora noti, o per raccogliere in modo attivo e sistematico dati di conoscenza nuovi (algoritmi; acquisi-
zione di strategie generali; tecnica della discussione di gruppo volta a scoprire e a mettere a fuoco problemi, a formula-
re delle ipotesi, a progettare ricerche, a valutare e a interpretare in senso nuovo risultati di ricerche già compiute). Pro-
blemi psicologici: - riconoscimento dei limiti di generalizzabilità delle regole delle strategie euristiche (importante
procedere per gradi); - assicurare una crescente padronanza di un algoritmo o di una strategia attraverso il loro ripetuto
e frequente uso (prestando attenzione anche qui al fattore «motivazione»), che li fissi nella MLT, anche nella forma di
una loro più o meno completa automatizzazione (altro conseguente problema: - il posto che può essere lasciato, nei
processi di alfabetizzazione, agli automatismi cognitivi: questi permettono al pensiero di mantenersi libero e di occu-
parsi degli aspetti generali di un problema o di una condotta - importanza del fatto che la formazione dell’automatismo
sia sempre preceduta o accompagnata da un processo di comprensione dei rapporti in gioco).
L’apprendimento di modalità di simbolizzazione
[v. «Simbolizzazione e linguaggi»: p.3] Problemi psicologici: - rilevanza del ruolo del gioco simbolico (che va favorito
in ogni modo, soprattutto nell’età della Scuola d’infanzia); - acquisizione del linguaggio (aspetti: semantico -
l’acquisizione o la scoperta di parole nuove, favorite dall’ostensione, dalla definizione, dall’uso del contesto; gramma-
ticale-sintattico - prime imitazioni delle strutture della lingua degli adulti, favorite da specifici interventi di questi ulti-
mi per sostenere tali tentativi e per favorirne il progressivo perfezionamento, sino alla presa di coscienza riflessa delle
strutture sintattiche in quanto modalità tipiche di collegare insieme le parole in proposizioni aventi un senso, e queste
ultime in periodi; fonetico; il bilinguismo - precoce o tardivo, equilibrato o no; la trasponibilità di un certo contenuto
da un registro all’altro, o da una lingua all’altra); - apprendimento della lettura e della scrittura (processi di decodifica-
zione o codificazione ad uno o a due livelli; - acquisizione di linguaggi specifici (il carattere convenzionale dei «segni»
non è temperato da un uso precoce che faccia loro assumere il carattere di «simboli»).
L’apprendimento di tecniche comunicative
Strettamente collegato al precedente. Problemi psicologici: - apprendimento di regole conversazionali (alternanza dei
turni, presenza nel tono, nel gesto, o nelle parole di elementi che comunicano che si sta per abbandonare il proprio tur-
no o che si intende invece intervenire; capacità di porsi dal punto di vista dell’osservatore; capacità di fornire e di ri-
chiedere adeguati elementi di feedback; capacità di cogliere nei messaggi eventuali sovrascopi; capacità di usare in
modo accorto una certa ridondanza per garantire una migliore comprensione del messaggio [v. altri testi sul tema “co-
municazione”]; capacità di organizzare la comunicazione in una forma che la renda anche persuasiva).
Altri possibili apprendimenti
Altri apprendimenti da promuovere: creatività e fantasia; sensibilità estetica; atteggiamenti (curiosità, solidarietà,
ascolto...); regole, norme e valori (riguardanti i rapporti interpersonali, fondamentali per la formazione sociale e mora-
le) [Pe,72-85].
La natura del processo di apprendimento
Il pensiero riflessivo
[V. anche p.59: l’atto di apprendimento di Gagné, e l’apprendimento per scoperta/ricezione: p.61] Quale che sia la na-
tura della lezione, gli insegnanti possono impegnarsi a fare in modo che tra le domande rivolte alla classe ce ne sia un
giusto numero di quelle che servono a stimolare le modalità di pensiero riflessivo che conducono alla scoperta. Le do-
mande che stimolano la riflessione (o domande-trampolino) contengono in genere un elemento di conflittualità o di
contraddizione; stimolano l’allievo a cercare una risposta che sia più personale e originale; contengono spesso la paro-
la «perché», o anche asserzioni implicitamente del tipo «vero o falso?». Loro caratteristica principale è che, inducendo
gli alunni a riflettere su qualche aspetto critico della materia oggetto di studio, li aiutano a capire i modi sottili in cui la
materia si articola, il rapporto tra causa ed effetto, e i metodi di lavoro e di indagine. Gli allievi giungono così ad ac-
quisire non solo conoscenze, ma anche la comprensione del modo in cui tali conoscenze si generano e del modo in cui
è possibile estenderne la validità, così da riuscire a risolvere nuovi problemi [v. anche come formulare domande, su
«Psicologia e scuola» nn. 77-80 e relativi appunti di F. Gatta; nonché la dissonanza cognitiva; v. anche altri importanti
argomenti in appunti vari di F. Gatta sui «modi di lavorare in classe», comprendenti pure L,348-363 su «La tecnologia
informatica ed altri approcci verso l’istruzione individualizzata» e 368-398 su «Obiettivi didattici e valutazioni scola-
stiche»; F,145-149].
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La gestione del processo di apprendimento
L’alunno “lento”
L’esperienza di costanti insuccessi ha di per sé l’effetto di mettere l’alunno in condizioni di svantaggio (lede la sua au-
tostima e la stima da parte dei compagni e degli insegnanti). Nel caso di soggetti definiti “lenti”, è compito della scuola
sottoporre a verifica la validità di questa definizione. Necessario distinguere tra alunno con QI basso o molto basso
(improbabile un suo diventare “dotato”) e alunno con ritardo nel profitto (se aiutati in modo opportuno, senz’altro ca-
paci di recuperare il terreno perduto).
L’insegnamento e gli alunni con QI basso
È di fondamentale importanza che l’insegnante tenga presente che a questi bambini occorre offrire possibilità di riusci-
ta anche a livelli molto bassi; la cosa importante è l’esperienza della riuscita in sé (traggono così benefici in termini di
sicurezza di sé, e vengono gradualmente incoraggiati a puntare più in alto). Si tratta di bambini che operano in genere a
livelli concettuali inferiori a quelli abituali per la loro età cronologica. Traggono particolare beneficio dalle attività pra-
tiche; provano piacere quando possono realizzare prodotti concreti (anche in campo musicale). Possono divertirsi
all’aperto con animali e piante. Importante eliminare l’ansia degli esami e un più favorevole rapporto numerico inse-
gnante/alunni; nonché fare in modo che possano godere di maggiori opportunità di comunicazione linguistica con adul-
ti preparati.
Bambini che presentano un ritardo nel profitto
Le cause: 1. Problemi fisici (lunghe assenze da scuola, limiti motori...). 2. Problemi personali (frequenti cambiamenti
di scuola o classe, limitata capacità attenzionale, elevata tendenza a distrarsi, iperattivismo - che può certamente dimi-
nuire con la crescita, se non si procurano loro troppe frustrazioni e non li si colpevolizza eccessivamente). 3. Problemi
ambientali (provenienza da ambiente povero o svantaggiato in cui il bambino non è incoraggiato a leggere e/o parlare,
privazioni di cibo o sonno, violenze, rifiuto fisico per separazione o etilismo...). 4. Problemi emotivi (sia causati dai
precedenti motivi, sia perché il bambino si sente detestato o rifiutato, o perché comincia ad avvertire una profonda av-
versione per un particolare insegnante - tipico dell’adolescenza - o al contrario un esagerato attaccamento). I genitori,
delusi dalla mancanza di progressi scolastici, possono aggravare la situazione.
Si possono aiutare i bambini che presentano un ritardo nel profitto: registrando su cassetta (audio, meglio ancora se
audiovideo) un’intera lezione o una sua parte, l’insegnante è a conoscenza di ciò che in classe avviene realmente tra lui
stesso e ciascuno dei suoi alunni, e può così valutare il proprio grado di responsabilità e prendere eventualmente misu-
re per porre rimedio ad eventuali lacune ed errori. È comunque un problema di tutta la scuola [F,149-158].
La personalità
Le origini della personalità
[V. anche l'AAppppeennddiiccee 11 bbiiss de «L'intelligenza»] Per rispondere alla domanda se la personalità dipende anche
dall’ereditarietà o se invece dipende del tutto dall’ambiente, i pediatri americani Thomas, Chess e Birch (1970; 1977)
presero in esame un campione iniziale di 141 bambini dell’età di 12 settimane; emerse che il 65 % dei questi bambini
poteva essere collocato, già a quella tenera età, in uno dei tre gruppi che seguono:
- il gruppo dei bambini “facili” (40 %), caratterizzato da: regolarità delle funzioni fisiologiche; alto livello di adattabi-
lità; umore generalmente positivo e ben disposto; reazione normale agli stimoli.
- il gruppo dei bambini “difficili” (10 %), caratterizzato da: irregolarità delle funzioni fisiologiche; scarsa adattabilità;
risposte negative a persone e situazioni nuove; generale disposizione all’irritabilità (malumore); eccessiva reazione agli
stimoli (tendenza a lamentarsi se non “fila” tutto alla perfezione.
- il gruppo dei bambini “lenti a scaldarsi” (15 %), caratterizzato da: scarsi livelli di attività e adattabilità; inclinazione
a opporre una sorta di resistenza passiva alle situazioni nuove di qualsiasi tipo; tono generale dell’umore lievemente
negativo; blanda reazione agli stimoli.
Questi bambini vennero seguiti con cura fino all’adolescenza; emerse che:
- ciascuno dei tre gruppi rimase notevolmente costante;
- all’epoca dell’adolescenza il 70 % dei bambini “difficili” aveva sviluppato evidenti problemi di comportamento, con-
tro il 18 % del gruppo dei bambini “facili”;
- al momento di iniziare la scuola i “facili” si erano adattati rapidamente alla nuova situazione, partecipavano volentieri
e con allegria a tutte le attività, e manifestavano la generale affettuosità e socievolezza che era già evidente nelle loro
prime settimane di vita; i “difficili” e i “lenti a scaldarsi”, invece, presentavano un maggior numero di problemi, e
spesso manifestavano una notevole riluttanza ad adattarsi alla nuova situazione, a fare amicizia con gli altri e a prende-
re parte alle varie attività.
Esaminando gli ambienti in cui i bambini venivano allevati, i ricercatori scoprirono che non esistevano significative
differenze fra i tre gruppi. Si poteva presumere che questi bambini avessero ricevuto la “materia prima” della loro per-
sonalità (temperamento) alla nascita. Tuttavia, si mise in evidenza che i genitori esercitavano una marcata influenza sul
grado in cui i figli si adattavano al proprio temperamento. In particolare i bambini appartenenti al gruppo dei soggetti
“difficili” e a quello dei soggetti “lenti a scaldarsi” avevano molto più successo nel far fronte alla propria natura poten-
zialmente disagevole se godevano della fortuna di avere genitori dotati di maggiore pazienza, coerenza e obiettività.
Soprattutto i “difficili” tendevano a creare problemi e difficoltà ancora maggiori quando si trovavano ad avere genitori
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rigidi, punitivi, e che agli scoppi di collera dei figli reagivano con sfuriate a propria volta. Essi manifestavano anche i
comportamenti migliori in risposta a genitori affettuosi ma fermi, che si dimostravano pronti a ragionare insieme a loro
e a dare spiegazioni, genitori che avevano principi chiari, ma preferivano guadagnarsi la collaborazione del figlio piut-
tosto che ricorrere alla forza e alle punizioni. Anche i “lenti a scaldarsi” traevano beneficio da atteggiamenti di calore
affettivo e di disponibilità di questo tipo; le risposte migliori le manifestavano coloro ai quali i genitori offrivano
un’ampia serie di stimoli e di interessi, facendo nel contempo ricorso all’incoraggiamento e al sostegno piuttosto che
alla minaccia di punizioni. Il dato riscontrato da Thomas, Chess e Birch ha trovato conferma in diverse altre ricerche.
Maccoby e Jacklin (1974), partendo da un approccio simile, hanno messo in luce l’esistenza di differenze di tempera-
mento fra i sessi: i maschi tendono ad essere più attivi, aggressivi e intraprendenti delle femmine, mentre le femmine
sono più sensibili, attente e inclini all’uso della parola. Ma è facile che a queste differenze si sovrappongano caratteri-
stiche apprese [v. “Ruoli sessuali”: p.20]. Ma almeno la superiore incidenza dell’aggressività nei maschi sembra, tutta-
via, in parte di origine genetica, in quanto osservabile anche in altri primati [F,165-168].
Le teorie della personalità
La complessità della crescita, dovuta alle interazioni del temperamento con l’ambiente, i fattori cognitivi ed altre va-
riabili quali la costituzione fisica e l’aspetto, ci spinge a porci un’altra domanda: se la personalità sia qualcosa di rela-
tivamente stabile o instabile. Il grado di stabilità o instabilità influenza il modo in cui effettuiamo la misurazione e le
nostre interpretazioni delle misure ottenute. Possiamo procedere con un’analogia con il regolo, che misura oggetti fissi,
ed il termometro, che misura una qualità che oscilla continuamente: per certi aspetti della personalità (i tratti, che pos-
sono essere legati a fattori di temperamento) occorre un “regolo”, mentre per altri (gli stati, che hanno a che fare con i
cambiamenti di umore e con i vissuti che di momento in momento gli individui hanno di se stessi e degli altri) è neces-
sario il “termometro”); i tratti possono influenzare gli stati, ma la conoscenza dei tratti di una persona non ci dà modo
di sapere quale stato viva questa persona in ogni singolo momento [F,168-169].
I tratti della personalità
Gli psicologi chiamano così certe caratteristiche di fondo comuni della personalità. Allport (1961) individuò oltre 4500
termini della lingua inglese che vengono spesso usati per descrivere la personalità; da allora, tuttavia, le ricerche hanno
evidenziato che nella grande maggioranza dei casi questi termini si possono ricollegare a un numero sorprendentemen-
te piccolo di tratti di fondo della personalità (per mezzo dell’analisi fattoriale si può individuare, nelle risposte date,
tutte quelle variabili che presentano una correlazione, in modo tale da permettere l’emergere di determinati gruppi di
domande alle quali i soggetti tendono a rispondere nello stesso modo).
H.J. Eysenck
Tre suoi questionari di personalità (MPI, 1959; EPI, 1964; EPQ, 1975) vengono da tempo usati in numerosi ambiti nel
mondo della scuola e della psicologia. Ne esistono anche diverse varianti (JEPI per soggetti da7 a 15 anni è il più utile
per l’insegnante). Dalle ricerche condotte nel corso dell’elaborazione di questi test è emersa l’esistenza di tre principali
tratti della personalità (o dimensioni): estroversione (valori alti indicano che il soggetto è prevalentemente proiettato
verso il mondo esterno, le esperienze e i rapporti con la gente; valori bassi rivelano invece chiusura e più attenzione ai
propri stati d’animo e ai propri pensieri e sentimenti – introversione [v. anche p.72]); nevroticismo (valori alti indicano
che il soggetto è incline all’ansia e alle relative reazioni e paure, mentre valori bassi sono indice di un buon equilibrio
psicologico – stabilità); psicoticismo (valori alti denotano un individuo che è relativamente autonomo, pragmatico, ag-
gressivo e freddo, mentre valori bassi sono segno di dipendenza e idealismo). Generalmente vengono usate le prime
due scale (E ed N), che non sono correlate l’una all’altra, e quindi si possono utilizzare per distinguere quattro “tipi”
diversi di personalità: l’estroverso instabile (alti valori E ed N); l’estroverso stabile (bassi valori N e alti valori E);
l’introverso instabile (alti valori N e bassi valori E); l’introverso stabile (valori bassi N ed E). I soggetti con valori in-
termedi a entrambe le scale vengono a volte definiti ambiversi. Queste tipologie corrispondono in notevole misura ai
quattro tipi individuati dagli antichi Greci e Romani: il collerico, l’ottimista, il melanconico, il flemmatico. Inoltre of-
frono indizi riguardo al modo in cui le due suddette dimensioni della personalità interagiscono.
R.B. Cattel
Ha costruito diversi test di personalità per specifiche fasce di età, i quali misurano fino a 16 fattori relativamente distin-
ti (emotività, forza del Super-io, coscienziosità, timidezza, individualità, predisposizione ai sensi di colpa...). Come pe-
rò fa osservare Eysenck, i fattori di Cattel sono solo relativamente distinti, e anzi presentano gruppi di correlazioni re-
ciproche: tali fattori, pertanto, andrebbero considerati tratti di superficie che traggono origine da alcune categorie di
tratti più generali (i tratti di fondo), i più importanti dei quali appaiono molto vicini alle dimensioni E ed N di Eysenck.
I pro e i contro delle teorie dei tratti
I tratti consentono di distinguere aspetti specifici della personalità, di individuarli con cura e di esporli poi in relazione
ad altre variabili. Gli svantaggi derivano in parte da questa sua stessa versatilità: è fin troppo facile includere nelle bat-
terie di test dei questionari di personalità senza alcuna giustificazione teorica che non sia la vaga speranza di veder
emergere un qualche genere di correlazione; è difficile dimostrare la realtà di un qualsiasi modello coerente di correla-
zione fra i tratti della personalità e molte delle altre variabili alla luce delle quali sono stati studiati. Un altro svantaggio
è che persino nei casi in cui tali modelli di correlazione finiscono per emergere, le correlazioni che effettivamente si ot-
tengono sono spesso molto modeste; questo induce a pensare che i vari aspetti della personalità che si riassumono nei
tratti sono talmente numerosi ed eterogenei che i tratti medesimi sono sempre troppo generici per risultare davvero uti-
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li nel momento in cui si indaga su ipotesi circostanziate. Infine, l’abitudine di dare molta importanza ai tratti della per-
sonalità può indurci a perdere di vista il fatto che la personalità è probabilmente molto meno immutabile di quanto cre-
diamo; i costruttori dei testi conservano solamente quelle domande che corroborano la loro aspettativa che le caratteri-
stiche della personalità siano relativamente stabili [F,169-173].
I tratti della personalità e l’apprendimento
La dimensione estroversione/introversione
Elliott (1972) servendosi dell’JEPI ha scoperto che nei bambini di 8 anni si riscontra una correlazione statisticamente
positiva tra estroversione e successo scolastico; dieci anni dopo il rapporto si è invertito: la riuscita è positivamente
correlata con l’introversione. Tuttavia, l’entità di questo effetto è piuttosto modesta. Un’ipotesi plausibile sembra esse-
re questa: l’ambiente socievole, espansivo e attivo della normale scuola elementare è congeniale alle abitudini di studio
dell’estroverso, mentre l’ambiente accademico più individuale, persino solitario, al cui interno deve lavorare lo studen-
te universitario è congeniale alle abitudini di studio dell’introverso; nella scuola secondaria, dove l’ambiente può varia-
re da materia a materia, si potrebbe sostenere che in certi casi il favorito è l’estroverso e in altri casi l’introverso (alcu-
ni dati tuttavia indicano che l’introversione sarebbe vantaggiosa per le femmine fin dagli inizi dell’esperienza della se-
condaria). Bisogna però anche considerare un’altra, più sottile ipotesi: nella maggior parte delle persone
l’estroversione aumenta fino all’età di 14 anni circa, dopodiché inizia a diminuire costantemente a favore
dell’introversione per tutto il resto della vita; potrebbe darsi, pertanto, che i bambini intellettualmente precoci siano
precoci anche sul piano della personalità, e che presentino una punta massima di estroversione già nel periodo della
scuola elementare (quando, cioè, si rivela più utile). Da allora in poi questi bambini diventano sempre più introversi, e
rispetto ai coetanei fanno registrare valori di introversione più alti nella scuola secondaria superiore e all’epoca
dell’università (dove l’introversione di rivela preziosa).
La dimensione nevroticismo/stabilità
[Su apprendimento, ansia e arousal v. anche pp.72 e 72] Una manifestazione di aumento dell’arousal è l’ansia, un sen-
timento caratterizzato da veri gradi di paura e preoccupazione. Certi bambini manifestano abitualmente livelli di ansia
più elevati degli altri, al punto che questa caratteristica può essere considerata una dimensione stabile della personalità.
Possiamo ricorrere alla legge di Yerkes-Dodson [v. p.72] per cercare di spiegare la complessa situazione inerente il
rapporto tra ansia e riuscita scolastica: livelli di ansia moderati agiscono da fonti di motivazione e migliorano il rendi-
mento, mentre alti livelli di ansia hanno l’effetto di inibire il rendimento e di condurre a un suo deterioramento; questo
fa pensare che i soggetti che ottengono valori alti in N tendono a conseguire i risultati migliori in ambienti relativamen-
te non ansiogeni, mentre i soggetti con punteggi inferiori tendono a sentirsi motivati in modo ottimale in ambienti nei
quali le fonti di ansia hanno un’intensità decisamente maggiore. Secondo certi dati, però, i soggetti con valori elevati di
nevroticismo tendono a raggiungere risultati migliori, rispetto ai coetanei con valori bassi, all’università, dove i fattori
ansiogeni (esami) sono di notevole intensità; e questo vale specialmente per gli studenti di lettere: così che è stata
avanzata l’ipotesi che in questo caso possa intervenire una variabile inerente alle particolarità delle discipline studiate
(richiesta di sensibilità maggiore in questo tipo di studi; l’ansia che inibisce meno agli esami di lettere, meno preoccu-
panti dal punto di vista delle nozioni e dei fatti da ricordare). I dati disponibili non portano comunque a risposte chiare
e definitive. La conclusione più importante che si può trarre è questa: quando si tratta di valutare l’impatto che le va-
riabili della personalità esercitano sull’apprendimento, non si possono considerare queste variabili separatamente l’una
dall’altra, ma al contrario è necessario inquadrarle nel contesto di tutta una serie di altre variabili che con esse interagi-
scono in ogni momento.
Bennet (1976) ha scoperto che i soggetti estroversi ben motivati in realtà riescono meglio nelle scuole elementari for-
mali che in quelle informali; riscontrò inoltre che gli alunni con valori elevati di nevroticismo conseguivano risultati
migliori nelle scuole elementari formali che non in quelle informali, e in queste ultime, di fatto, dedicavano ai compiti
scolastici solo la metà del tempo che vi dedicavano gli alunni con valori bassi di nevroticismo. È plausibile ipotizzare
che nelle classi formali gli alunni ansiosi si sentano meno preoccupati perché viene loro fornita un’atmosfera mag-
giormente strutturata in cui lavorare, e pertanto sono maggiormente a conoscenza di quello che ci si attende da loro.
Nelle classi informali questi alunni tendono ad evitare l’esecuzione dei compiti probabilmente perché sono meno sicuri
di quali siano le attese nei loro confronti. Lynn (1971) ha dimostrato che lungo l’intero periodo dell’istruzione formale
le femmine tendono a evidenziare valori di nevroticismo più alti dei maschi (questo è forse uno dei motivi per cui le
femmine tendono a rifuggire le materie scientifiche e a dedicarsi preferibilmente alle materie umanistiche e letterarie).
Le differenze tra gli individui
Di recente è stata richiamata l’attenzione in modo crescente anche su quella che Eysenck considera la terza dimensione
della personalità, lo psicoticismo, e si stanno accumulando dati che proverebbero l’esistenza di un possibile legame tra
valori alti in rapporto a questa dimensione e la creatività. Ma i risultati ottenuti, anche se possono essere statisticamen-
te significativi quando si esaminano grandi gruppi di alunni, non ci dicono necessariamente granché sulla posizione dei
singoli all’interno dei gruppi [F,173-177; L,286].
La modificazione dei tratti della personalità
Esiste per l’insegnante la possibilità di modificare i tratti della personalità dei suoi alunni valutati per dimensioni dai
test? C’è da dubitarne. Realisticamente, potremmo cercare di aiutare certi bambini a smettere di preoccuparsi tanto,
nella speranza che questo li renda meno nevrotici e li porti a punteggi più bassi in N. Ma in pratica questi bambini, an-
che se consapevoli, non riescono a por fine alle loro preoccupazioni. Tra i motivi potrebbero esserci fattori fisiologici:
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la persona nevrotica potrebbe infatti avere un sistema nervoso autonomo più facilmente attivabile rispetto a quello de-
gli individui più stabili. È probabile che mediante le tecniche di biofeedback (una procedura in cui ai partecipanti ven-
gono date informazioni dirette circa il funzionamento del proprio sistema nervoso simpatico – ad es. sulla loro attività
cerebrale sul battito cardiaco o sulla conduttività elettrica della pelle – con l’obiettivo di far sì che il soggetto riesca a
controllare, utilizzando il principio del condizionamento operante, il funzionamento del proprio cervello ed aumentare
il numero di onde alfa) e mediante certi metodi di rilassamento le persone nevrotiche possano imparare a dominare la
frequenza di attivazione del proprio sistema nervoso autonomo. Compito principale dell’insegnante è quello cercare di
capire i loro problemi, di mostrarsi sensibile in proposito, e di dare concretamente prova di questa sensibilità evitando
di esporli inutilmente a situazioni ansiogene; deve anche cercare di far acquisire a questi bambini le abilità necessarie
per affrontare in modo efficace i problemi che probabilmente incontreranno, e deve aiutarli ad acquisire fiducia in se
stessi offrendo loro possibilità di fare esperienza di riuscita.
Sembra che la personalità sia in un complesso rapporto con diverse altre variabili, come il tipi di materiale insegnato, i
metodi d’insegnamento utilizzati, le abitudini di studio del singolo alunno e la personalità degli insegnanti medesimi.
L’insegnante deve dunque essere lui stesso una sorta di ricercatore, che sa prestare attenzione alla personalità indivi-
duale di ogni alunno della sua classe e all’interazione tra la personalità individuale di ogni alunno e le altre variabili in
gioco [v. anche «L’apprendimento» pp.34ss; F,177-179; L.287].
Lo stile cognitivo
Il legame tra l’intelligenza e i vari tratti della personalità è ben documentato dalle ricerche. I bambini che evidenziano
un aumento significativo del QI tra i 6 e i 10 anni sono più indipendenti, competitivi e verbalmente aggressivi dei
bambini che nello stesso arco di anni presentano invece una diminuzione del QI. Pare inoltre che i primi tendano ad
impegnarsi di più dei secondi nello studio, che prestino un maggiore desiderio di padroneggiare i problemi intellettuali
e che mostrino una minore tendenza a tirarsi indietro di fronte alle difficoltà. Si è riscontrato (1947) che i bambini che
più facilmente facevano buon uso delle loro capacità presentavano alti livelli di sicurezza di sé, di perseveranza, di in-
teresse ad impegnarsi, e avevano obiettivi ben integrati, realistici e coerenti; inoltre, i bambini che presentavano i mag-
giori livelli di riuscita si dimostravano socialmente meglio inseriti e più equilibrati, e avevano maggiori probabilità, in
seguito, di costruire un matrimonio soddisfacente e di ottenere soddisfazioni nella vita personale e professionale. Si è
anche potuto desumere (1969) che i bambini con QI più elevato erano generalmente più alti, con un aspetto migliore,
meno ansiosi, più apprezzati e fisicamente più forti, oltre che in grado di esprimere giudizi più validi sulle altre perso-
ne, di quelli con QI più basso.
Se sia un’elevata intelligenza a determinare i tratti più apprezzabili della personalità o se sia vero l’inverso è un pro-
blema ancora aperto alla discussione; probabilmente i due fattori interagiscono costantemente. Possiamo dire che pro-
babilmente determinati tipi di tratti della personalità sono più adatti di altri a mettere in grado i bambini di fare l’uso
migliore della loro intelligenza; dal canto suo l’elevata intelligenza consente ai bambini di essere più indipendenti, si-
curi di sé, competitivi e così via.
Sembra che la creatività interagisca con i tratti della personalità in modi analoghi: le persone creative si dimostrano più
autonome, autosufficienti e inventive della media; appaiono altresì più introverse e maggiormente consapevoli dei pro-
pri impulsi, nonché disposte ad ammettere con se stesse le proprie componenti irrazionali; inoltre appaiono maggior-
mente inclini a dedicarsi al pensiero astratto e più capaci di tollerare l’incertezza. Alcuni tendono così a considerare il
pensiero divergente uno stile cognitivo; e, al pari dell’intelligenza, da vedersi come una dimensione della personalità.
Le teorie degli stili cognitivi
Mediante la codificazione, assegniamo più o meno importanza agli stimoli ambientali. In genere il modo in cui asse-
gniamo le cose alle diverse categorie è in gran parte determinato dalle esperienze precedenti. Gli alunni imparano che
l’esperienza dell’insegnante che sta parlando deve essere collocata in una categoria di importanza elevata ed esige at-
tenzione. Ma tale assegnazione può essere influenzata anche da fattori innati, compreso il modo in cui ciascuno perce-
pisce concretamente le cose. Alcune persone, a quanto sembra, sono congenitamente più sensibili a certi stimoli che
non ad altri. Di fronte ad un problema, solitamente il bambino presta attenzione agli aspetti del problema che considera
importanti, classifica le informazioni relative ed esegue una ricerca nel proprio archivio interno finché non trova dei
dati codificati in una categoria simile che lo aiutino a formulare delle ipotesi utili in vista di una soluzione. Secondo i
teorici degli stili cognitivi si riscontra un’evidente regolarità nel modo in cui ciascuno di noi realizza questo processo
di codificazione, e i metodi che adottiamo non subiscono modifiche drastiche nel passaggio da problema a problema;
essi considerano lo stile cognitivo parte integrante della personalità di ciascuno, applicabile tanto a problemi di studio
quanto a problemi del quotidiano. Questi teorici hanno individuato dimensioni ben definite lungo le quali poter collo-
care ciascuno di noi; ce ne sono tre che interessano chiaramente la scuola:
Strategia della messa a fuoco (focusing) / strategia dell’esame (scanning) (Bruner et alii, 1956) = I soggetti che
ricorrono prevalentemente alla strategia della «messa a fuoco», quando si trovano di fronte a un problema rimandano
caratteristicamente la formulazione di un’ipotesi fino a quando non hanno raccolto una quantità sufficiente di elementi,
mentre coloro che fanno ricorso per lo più alla strategia dell’«esame» azzardano un’ipotesi con estrema rapidità, sicché
in genere devono ripartire da capo se tale ipotesi finisce per rivelarsi priva di fondamento.
Gli alunni che adottano la prima strategia aspettano talora più a lungo del necessario prima di formulare delle ipotesi, e
pertanto possono apparire eccessivamente cauti e lenti nello svolgimento delle attività; gli alunni che invece adottano
la strategia dell’«esame» tendono a compiere le scelte troppo in fretta, e a trovarsi quindi in condizioni di svantaggio
qualora vengano loro presentati dei problemi in forma orale.
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Dipendenza dal campo (stile cognitivo globale) / indipendenza dal campo (stile analitico) (Witkin, 1965) = Le
persone che adottano lo stile globale appaiono meno capaci delle altre nel separare e distinguere accuratamente, in una
data situazione, gli stimoli pertinenti da quelli non pertinenti; esse risultano anche meno capaci di ricordare dettagli, e
appaiono meno percettive e più facilmente influenzabili delle altre. Nei test che misurano il QI, nelle prove analitiche i
soggetti del primo tipo ottengono risultati più scarsi degli altri soggetti, mentre nelle prove verbali non si osservano
differenze. È possibile che elevate capacità verbali nascondano inadeguate capacità analitiche, e quindi all’insegnante
potrebbero rivelarsi utili, più che test di intelligenza, dei test per la valutazione dello stile cognitivo.
Riflessività/impulsività (Kagan, 1966) = I bambini riflessivi tendono a commettere meno errori di quelli impulsivi,
soprattutto nei compiti difficili e impegnativi, in quanto manifestano un forte desiderio di giungere alla soluzione cor-
retta “al primo colpo”, e appaiono capaci di tollerare l’incertezza costituita, ad esempio, da un lungo silenzio di fronte
alla classe mentre riflettono a fondo sulla risposta giusta da dare prima di rispondere. I bambini impulsivi, al contrario,
adottano un approccio del tipo “fucile da caccia”, sparando più risposte nella speranza che almeno una sia quella giusta
e che in ogni caso l’insegnante fornisca loro gli opportuni riscontri in merito agli errori commessi.
Tutti i teorici degli stili cognitivi sottolineano che idealmente dovremmo essere in grado, a seconda delle circostanze,
di lavorare a ciascuno dei due poli di una dimensione. Il bambino riflessivo potrebbe negare a se stesso le preziose op-
portunità di apprendimento che derivano dal fatto di commettere degli errori; l’approccio di chi ha uno stile estrema-
mente analitico potrebbe rivelarsi inopportuno in situazioni sociali in cui sia necessario non solo rispondere alle cose
che una persona sta cercando di comunicare, ma anche dimostrare particolare sensibilità nei confronti di quella persona
in quanto essere umano; e il soggetto estremamente focalizzatore potrebbe trovarsi in condizioni di svantaggio in situa-
zioni nelle quali è necessario formulare ipotesi e prendere decisioni pur non avendo a disposizione che dati limitati.
Può esserci una certa coincidenza o sovrapposizione tra queste varie dimensioni. In particolare, il soggetto che adotta
la strategia della focalizzazione sembra avere molto in comune con la persona che ha uno stile riflessivo, ma le due
dimensioni non sono necessariamente la stessa cosa. Perlopiù le persone tendono a raggrupparsi attorno al centro: ten-
dono, in altre parole, a prendere le decisioni in un intervallo di tempo che non porta a classificarle né tra le persone
estremamente impulsive né tra quelle estremamente riflessive. È possibile che alcuni aspetti importanti dello stile co-
gnitivo siano appresi e che altri derivino invece da fattori emotivi e di temperamento, perciò è probabile che
l’insegnante sia in grado di modificare e incoraggiare i primi. Scarsi sono del resto gli sforzi che dedichiamo ad aiutare
gli alunni a capire e a plasmare i loro modelli personali di pensiero e di classificazione [F,179-185].
Gli stati della personalità
[V. anche la teoria sugli stati di Kelly: p.100].
Argomento contro l’idea di tratti della personalità «permanenti»
La nozione di tratti fissi è da alcuni considerata deleteria, in quanto ci induce a rapportarci con le persone come se la
personalità di ognuno fosse una struttura permanente, e pertanto resistente al cambiamento.
Dovremmo invece impegnarci a stabilire quali siano le condizioni comportamentali di partenza affettive (e cognitive)
di cui i bambini hanno bisogno per poter affrontare con successo un determinato compito (Bloom, 1983). Una volta
stabilito questo, dobbiamo incoraggiare tale stato emotivo (e tali conoscenze) e passare direttamente al compito di ap-
prendimento. Apter (1982) ritiene che la personalità sia definibile pensando a svariate dimensioni, come i teorici dei
tratti, ma diversamente da loro è convinto che non esistono posizioni fisse lungo queste dimensioni: anzi, possiamo
spostarci da un polo all’altro a seconda delle circostanze (e il modo migliore di favorire l’equilibrio psicologico è quel-
lo che si rende possibile se siamo in grado di passare senza difficoltà da un polo all’altro).
Comportamenti finalizzati (telic) e comportamenti non finalizzati (paratelic)
Delle dimensioni di Apter, è la meglio indagata. Nello stato finalizzato abbiamo in mente una meta, usiamo l’attività
presente principalmente come mezzo per raggiungere un preciso obiettivo; nello stato non finalizzato, invece, siamo in
una modalità ludica, nella quale l’attività presente è la sola cosa importante, e l’obiettivo concreto (ammesso che ce ne
sia uno) è semplicemente un pretesto per intraprendere l’attività. Secondo Apter gli individui, benché in genere preferi-
scano uno dei due poli, normalmente sono in grado di spostarsi tra i due poli a seconda delle necessità; quando invece
manchi questa capacità, si può supporre che siano presenti dei problemi psicologici (chi non riesce mai a rilassarsi ad
una festa; o chi non riesce mai ad essere serio ad un funerale). Spesso, tuttavia, gli individui non riescono a muoversi
agevolmente tra i due poli semplicemente perché non comprendono in modo adeguato la situazione in cui si trovano.
Fenomeno che assume particolare importanza nel contesto della scuola: l’insegnante o l’alunno che non sono capaci di
distinguere tra le due cose e di spostarsi lungo la dimensione finalizzato/non finalizzato a seconda delle necessità, sono
seriamente svantaggiati; come lo è l’insegnante che cerchi di far passare gli alunni troppo bruscamente da uno stato
all’altro. Serie incomprensioni possono inoltre sorgere tra un insegnante che preferisce lo stato finalizzato e una classe
che preferisce lo stato ludico, o viceversa.
La teoria degli stati e i problemi di comportamento
Se gli insegnanti non sanno in quale dei due stati si trova il bambino, è probabile che i loro tentativi di aiutarlo non ap-
prodino a molto. Un bambino che sia diventato ansioso perché i genitori o gli insegnanti non hanno fatto che insistere
con lui affinché prenda dei “bei voti” può tornare a rilassarsi e conseguire risultati molto migliori se l’insegnante è ca-
pace di presentare le attività in classe più nella forma di “giochi” non finalizzati; un bambino che invece appaia inca-
pace di prendere qualunque cosa sul serio può essere aiutato ad assumere una condotta finalizzata se l’insegnante sa
prospettargli ricompense che il bambino possa vedere come obiettivi da raggiungere e per le quali si senta motivato ad
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impegnarsi.
Se lo si interpreta correttamente, l’approccio degli stati ci segnala che è una caratteristica propria dei sistemi viventi
quella di essere soggetti a costanti mutamenti. E dato che nei loro singoli aspetti questi mutamenti non si verificano tut-
ti con la stessa rapidità, questo fa sì che ognuno di noi sia in grado di riconoscere se stesso anche a distanza di un gior-
no o un mese. Se accettiamo questi mutamenti, possiamo guidarli nelle direzioni desiderate, invece di assegnare alla
personalità etichette e categorie fisse che possono soltanto impedirci di comprenderla [F,185-188].
La teoria psicodinamica
Secondo gli psicologi di orientamento psicodinamico è possibile comprendere il presente solo se ci voltiamo indietro
ad analizzare i fattori che in passato hanno influito sullo sviluppo e la formazione della personalità; essi si spingono si-
no ad affermare che la personalità è plasmata dall’interazione tra questi fattori e le dinamiche psicologiche innate, cioè
le forti pulsioni psicologiche congenite come la pulsione sessuale e quelle di autoconservazione. I sostenitori della teo-
ria dei tratti dichiarano che i modelli della personalità avanzati dagli psicologi di questo orientamento sono assoluta-
mente privi di scientificità, talmente vaghi da poter essere usati per “spiegare” praticamente qualsiasi aspetto del com-
portamento umano. Dal canto loro i paladini della teoria psicodinamica asseriscono che le teorie dei tratti non tengono
conto del fatto che ciascun individuo è unico; e non si preoccupano minimamente di effettuare misurazioni, proponen-
do invece un modello di sviluppo della personalità alla luce del quale sia possibile studiare individualmente ogni per-
sona.
Sigmund Freud (1856-1939)
È il più noto tra gli psicologi di questo orientamento; fondatore della scuola psicoanalitica. Nella sua concezione gli
anni cruciali per la formazione della personalità sono quelli che vanno dalla nascita ai 6-7 anni: in questo periodo sono
le persone che circondano il bambino coloro che socializzano le sue pulsioni innate; se il bambino patisce frustrazioni
e dure punizioni, cresce carico di sentimenti di colpa e di conflitti interiori. La nevrosi, dal punto di vista di Freud, è
essenzialmente il risultato dell’aver impedito alla persona di fare quello che è fortemente motivata a fare, senza per-
metterle di capire le ragioni di questa proibizione e senza offrirle strade alternative nelle quali incanalare le sue energie
psicologiche frustrate.
L’Es
È il primo dei tre livelli che compongono la personalità: le energie istintive con le quali il bambino nasce. Queste ener-
gie sono importanti per la sopravvivenza, e obbediscono al principio del piacere; loro obiettivo è il procurare
all’individuo il soddisfacimento dei fondamentali bisogni animali. L’Es è totalmente egoistico e inconscio, e non è as-
solutamente consapevole dei bisogni degli altri o delle conseguenze delle sue azioni.
L’Io
Il secondo livello comincia a formarsi verso la fine del primo anno di vita; l’Io opera a livello conscio, e obbedisce al
principio della realtà: ospita la crescente mole di conoscenze che il bambino acquisisce sul mondo nonché sui compor-
tamenti e le reazioni degli altri. Con il formarsi dell’Io ha inizio l’apprendimento sociale del bambino; di pari passo
emerge un’iniziale consapevolezza dei limiti che il mondo pone alle richieste dell’Es. L’Io in quanto tale non ha
un’energia psicologica propria: tutta l’energia disponibile proviene dalle pulsioni istintuali dell’Es. Finché l’Io riesce a
procurare l’appagamento delle sue esigenze, l’Es è disponibile a incanalare la sua energia nell’Io; se invece l’Io non
riesce, l’Es esige l’espressione diretta, e a quel punto abbiamo scoppi di rabbia o di aggressività o di avidità incontrol-
lata (o di altre manifestazioni emotive). Ai fini di un soddisfacente sviluppo della personalità è essenziale che si arrivi
a un corretto equilibrio fra l’Es e l’Io, dove il secondo riesca a fare in modo che vengano soddisfatte le esigenze del
primo, il quale a sua volta trasferisce energia al secondo.
Il Super-io
Verso i 6 anni di età si forma questo terzo livello della personalità: in parte conscio, in parte inconscio, è il risultato
della interiorizzazione delle convinzioni, censure e proibizioni morali trasmesse al bambino dai genitori, e obbedisce al
principio di moralità. Esso racchiude sia la «coscienza morale» (che genera sensi di colpa) sia l’«Ideale dell’Io» (che
genera ambizione quando il bambino si forma un’immagine del tipo di persona che vorrebbe diventare). Anche il Su-
per-io non ha energia psicologica propria, e come l’Io può venire sopraffatto dall’Es qualora le richieste avanzate da
quest’ultimo vengano costantemente frustrate. Dalla nascita in avanti, per Freud, il bambino è una creatura intensamen-
te sessuale, e le diverse zone erogene del suo corpo sono alla ricerca di gratificazioni sessuali (principalmente la bocca,
l’ano e i genitali).
Per Freud la personalità sana è quella in cui si verifica un ordinato trasferimento di energia tra Es, Io e Super-io: l’Io
dovrebbe essere in grado di riconoscere, comprendere e accettare le esigenze e le pressanti richieste emotive dell’Es
(dalla rabbia alla sessualità), e di indirizzarle e incanalarle, consciamente, verso condotte accettabili invece di rimuo-
verle rigidamente o di rimanere in loro balìa; l’Io dovrebbe conoscere e saper riconoscere anche il valore dei princìpi
morali che sottendono il Super-io, sapendo fare ciò che è giusto perché è giusto, e non perché fare diversamente pro-
vocherebbe sensi di colpa tormentosi.
I meccanismi di difesa dell’Io
Si creano, secondo Freud, qualora la personalità non sia in grado di dar vita a un adeguato equilibrio tra Es, Io e Super-
io: - rimozione: l’Io allontana emozioni, sentimenti, ricordi e pensieri sgradevoli spingendoli nell’Es, al di fuori della
consapevolezza: l’energia emotiva che preme dietro questo materiale può diventare così forte da riuscire a riemergere
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alla coscienza in forme mascherate, più accettabili; ma può diventare anche fonte di conflitti interiori. - formazione
reattiva: il soggetto mantiene operante la rimozione adottando comportamenti di senso esattamente contrario alle ten-
denze rimosse. - razionalizzazione: si manifesta quando una persona adduce una ragione socialmente accettabile per
spiegare un comportamento che in realtà deriva da atteggiamenti o motivazioni meno nobili di cui è riluttante ad am-
mettere l’esistenza persino a se stessa. - negazione: il soggetto, pur manifestando determinate motivazioni o emozioni,
continua a negare con decisione che gli appartengano, in quanto sono proprio quelle che più gli creano angoscia. -
proiezione: il soggetto continua ad accusare altre persone di avere le caratteristiche che teme dentro di sé. - regressio-
ne: si torna indietro a forme precedenti di comportamento infantile che si erano rivelate capaci di difendere l’Io dalle
paure e dalla frustrazione…
Tre tipi di angoscia
Angoscia nevrotica (causata principalmente dall’energia emozionale rimossa nell’Es): il soggetto ha costantemen-
te paura di qualche cosa, anche se molto spesso non sa di che cosa si tratti. In realtà, secondo Freud, la paura proviene
dalla paura di se stessi, di quelle potenti forze che si trovano sotto il livello conscio della propria vita psicologica e che
costringono il soggetto a mantenere un rigido controllo su tutte le proprie azioni ed emozioni.
Angoscia di fronte a una situazione reale (causata principalmente da fatti che hanno luogo nell’ambiente del sog-
getto): si manifesta a livello dell’Io.
Angoscia morale: ha origine da un Super-io punitivo e generatore di sensi di colpa. L’Io, pertanto, deve combatte-
re potenzialmente su tre fronti. Nei soggetti le cui energie sono già quasi tutte impegnate a lottare con l’angoscia ne-
vrotica e con l’angoscia morale, anche un livello relativamente modesto di angoscia può determinare un esaurimento
nervoso. Accese polemiche divampano da tempo in merito all’intero impianto teorico che porta a distinguere tra Es, Io
e Super-io; ciò non toglie che questa tripartizione offra utili modi di definire concettualmente la personalità [F,188-193
e 204].
Personalità e motivazione
Il punto da cui in genere si muovono le teorie della motivazione [v. anche p.72] è costituito dalle spinte fondamentali
alla sopravvivenza con cui tutti nasciamo. Vengono spesso chiamate pulsioni; l’idea di fondo è che queste determinano
tensioni che cerchiamo di alleviare mediante l’azione che si rivela più idonea a seconda dei casi. Oggi però le pulsioni
di sopravvivenza (ad eccezione della pulsione sessuale), nonostante tutta la loro ovvia importanza, hanno direttamente
scarsa influenza sulle strutture motivazionali che concorrono a definire la personalità dei bambini più grandi e degli
adulti.
Una possibile spiegazione dei sistemi motiva-
zionali è che essi si formano in risposta a fat-
tori che svolgono una notevole funzione di
rinforzo. Ovviamente il modello del rinforzo
può spiegare molte delle motivazioni, ma non
tutte. Quello delle motivazioni rimane uno di
quegli ambiti problematici della psicologia in
cui non si registra un consenso generale sulla
adeguatezza o meno di questo e quel modello
esplicativo. Un altro modo, meno ambizioso,
di affrontare l’argomento è quello di cercare
semplicemente di descrivere le motivazioni.
Maslow
Il modello descrittivo più noto è quello di
Maslow (1970; v. figura). Una scala gerarchi-
ca che parte dai bisogni fondamentali (detti
anche bisogni di carenza, in quanto motivano
la persona) e sale sino ai metabisogni (detti
anche bisogni di crescita, in quanto motivano
il comportamento che deriva dalla naturale
tendenza umana verso la crescita). I livelli fi-
siologici e di sicurezza sono in gran parte in-
nati, mentre gli altri livelli sociali consistono in fattori innati che si combinano sempre più con risposte apprese (non è
sino ad ora chiaro in che modo avvenga questo processo di combinazione, ma Maslow non esclude che i fattori innati
possano continuare a svolgere il ruolo più importante persino a livello intellettuale). Secondo Maslow, però, possiamo
interessarci ai gradini più alti della gerarchia solo se sono stati soddisfatti i bisogni appartenenti ai livelli più bassi; ma
ciò non significa che tali appagamenti ci conducano automaticamente a pensieri più elevati. La scala di Maslow, per-
tanto, induce a ipotizzare che gli individui, se riescono a soddisfare i loro bisogni fisiologici, insieme al bisogno di pro-
tezione dagli aggressori, possono cominciare a preoccuparsi principalmente di essere accettati dalla famiglia e dal
gruppo sociale di cui fanno parte. Una volta assicurata questa accettazione, gli individui passano a preoccuparsi dei bi-
sogni dell’Io (autostima); appagati anche questi bisogni, ci si rivolge alle esigenze di autonomia, e infine all’esigenza
di autorealizzazione (sviluppando, cioè, quelle caratteristiche proprie delle persone mature e ben inserite nella società).
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Maslow lamenta che le persone veramente autorealizzato sono relativamente poche: perché? Una delle ragioni è che la
crescita richiede sforzi e spesso anche molti sacrifici; e molti di noi soffrono quello che Ma slow stesso definisce com-
plesso di Jonah, evitando deliberatamente l’impegno e lo sforzo richiesto per la nostra crescita e il nostro sviluppo e
scegliendo, invece, di limitarci a lottare per avere cibo e acqua e per soddisfare i nostri bisogni fondamentali, diven-
tando, alla fine, un po’ meno umani di quanto avremmo potuto essere.
Teorie dell’attribuzione
Rotter
[v. anche p.75] Ciascuno di noi tende ad affrontare i problemi in questione in maniere diverse. Secondo Rotter (1954)
un modo importante in cui si esprimono queste differenze tra i singoli è evidenziato, in ciascuno di noi, dalle personali
opinioni sulla provenienza dei fattori responsabili del proprio comportamento (locus of control). Ci sono persone che
tendono ad attribuire il risultato dei propri comportamenti all’intervento di fattori esterni (e in genere preferiscono la-
vorare in condizioni dove il caso svolge una parte importante); altre persone, invece, tendono ad attribuire l’esito dei
propri comportamenti all’azione di fattori interni (e preferiscono circostanze nelle quali i fattori decisivi sono le capa-
cità personali). Sembra che nella scuola e nel mondo dell’istruzione in generale l’atteggiamento preferibile sia quello
di attribuire l’esito dei propri comportamenti all’azione di fattori interni.
Weiner
Weiner (1979, 1994) ha elaborato una teoria dell’attribuzione, secondo la quale ha effettuato studi che danno i seguen-
ti risultati: i soggetti più motivati in assoluto sono quelli che: -preferiscono situazioni in cui le conseguenze delle loro
azioni possono essere attribuite a loro stessi; -hanno imparato ad attribuire gli esiti positivi all’impegno personale; -
sono sensibili e ricettivi a tutti i segni che evidenziano l’importanza del mettere impegno in qualsiasi tipo di compito.
Weiner considera pietre miliari della motivazione questi tre fattori: locus of control (orientamento: interno = mi porta
ad attribuire il mio successo o il mio fallimento alla mia capacità, ai miei sforzi o ad una combinazione fra i due; ester-
no = attribuisco le mie performance a fattori quali la fortuna o la difficoltà dell’impresa), responsabilità personale (in
base all’attribuzione a cause più o meno sotto il mio controllo delle conseguenze del mio comportamento – ad es.
l’interferenza di amicizie o la fortuna – mi sentirò, rispettivamente, più o meno responsabile) e stabilità (se attribuisco
le causa di un fallimento a cause stabili, riterrò poco probabile un possibile miglioramento; al contrario, se le cause so-
no da me considerate instabili, potrò sperare di migliorare la situazione). Le tre dimensioni delle cause possibili cui
possono essere attribuiti i nostri successi e i nostri fallimenti danno luogo ad otto diverse possibilità (interne-instabili-
controllabili = alta responsabilità, interne-instabili-incontrollabili = bassa responsabilità, interne-stabili-controllabili =
alta responsabilità…); similmente, possiamo ottenere le attribuzioni possibili di successo e fallimento [v. anche p.87].
Sviluppo delle tendenze attributive
Soltanto verso i 9-10 anni il bambino inizia a considerare la capacità come un fattore separato che contribuisce al suc-
cesso; ma persino a questa età, la bravura viene ancora confusa con un forte impegno. Verso gli 11 anni, però, possia-
mo dire che il bambino condivide ormai i nostri concetti intuitivi circa le distinzioni fra capacità, fortuna, impegno e
difficoltà del compito. Attualmente non siamo in grado di dire con certezza se le convinzioni menzionate siano innate o
acquisite, ma sembrerebbe che dei due ordini di fattori sia l’apprendimento a svolgere il ruolo più importante.
Obiettivi di performance / obiettivi di padronanza
Dweck (1986) sostiene che i bambini sembrano comportarsi come se sottoscrivessero intuitivamente una o due visioni
dell’intelligenza:
Teoria dell’entità: si comportano come se ritenessero che l’intelligenza sia un elemento fisso ed immutabile; i loro
obiettivi saranno obiettivi di performance (cercando di ottenere giudizi favorevoli sulla loro competenza ed evitare
quelli sfavorevoli).
Teoria incrementale: si comportano come se ritenessero che l’intelligenza sia un elemento malleabile; i loro obiet-
tivi saranno obiettivi di padronanza detti anche di apprendimento (focalizzandosi sull’impegno e tentando di aumenta-
re la loro competenza).
La ricerca di Dweck suggerisce che gli studenti dotati di un orientamento di base del primo tipo devono avere una fi-
ducia estremamente alta nella propria capacità se vogliono accettare le sfide; gli studenti dotati di una fiducia più bassa
saranno caratterizzati con più probabilità da “incompetenza”, soprattutto perché vedono il fallimento come un riflesso
diretto della loro incapacità. Per contro, gli studenti dotati di un orientamento del secondo tipo saranno anche più tesi
alla sfida e alla persistenza.
Attribuzioni e motivazioni al successo
La ricerca indica che le persone che ottengono punteggi più alti nella misurazione della motivazione al successo tendo-
no anche ad essere degli studenti migliori (Atkinson e Raynor, 1978). Questi studenti, inoltre, accettano di correre dei
rischi di livello moderato, offrendo a se stessi una sfida pur mantenendo alta la probabilità di riuscita (rischio moderato
= attribuzione del successo o del fallimento alla propria capacità/incapacità o all’impegno adeguato/inadeguato); al
contrario, gli studenti poco motivati al successo tendono a corre rischi o molto alti o molto bassi (se provo un’impresa
difficile e fallisco, posso sempre attribuire il mio fallimento all’estrema difficoltà, fattore sul quale non ho alcun con-
trollo; se invece avrò successo, anche qui ci sarà una scarsa influenza positiva, in quanto la mia riuscita non sarà dovu-
ta a fattori sui quali ho un certo controllo, ma a fattori esterni). Appare dunque ragionevole supporre che i soggetti al-
tamente motivati al successo tenderanno ad essere internamente orientati, mentre chi è poco motivato al successo è più
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facile che attribuisca la propria performance a fattori esterni [v. «L’apprendimento» p.49; F,193-198; L,290-292 e 296-
300].
Le reazioni degli insegnanti
Uno degli aspetti più importanti del ruolo dell’insegnante è la sua reazione ai successi e agli insuccessi degli alunni.
Di fronte a una scarsa motivazione, le prime domande che l’insegnante deve porsi sono queste: «Qual è stata fino ad
oggi l’esperienza di insuccessi di questo bambino?», e «In quali modi questa esperienza ha inciso sulla sua motivazione
generale ad apprendere?» [F,198-199].
L’umore
Lo possiamo definire come uno stato emotivo di durata variabile. Sembra che sia frutto in parte dell’ereditarietà e in
parte dell’ambiente. Gli individui che vivono un’infanzia sicura e felice finiscono più facilmente per vedere il mondo
con ottimismo rispetto alle persone di ambiente più difficile; persone che fanno esperienza di costanti fallimenti mo-
strano più spesso sentimenti di abbattimento e di apatia (o rabbia) rispetto alle persone che fanno prevalentemente
esperienza di successi; i bambini che vengono incoraggiati a discutere dei loro problemi e sentimenti con i genitori in
modo pieno e aperto, e che non sperimentano la paura del rifiuto, di rado si abbandonano a un cupo rimuginare, come
invece fanno più facilmente i bambini che hanno sempre dovuto soffocare i propri sentimenti e tenere la bocca chiusa.
Secondo molti studiosi, il momento in cui l’umore è più labile corrisponde al periodo dell’adolescenza [v. anche “Le
problematiche adolescenziali” a p.104]. È possibile che svolgano un ruolo le modificazioni fisiologiche; tuttavia ha
una sua importanza anche l’ambiente: spesso gli adolescenti avvertono come particolarmente irritanti o ingiuste le re-
strizioni che la società continua a imporre loro, restrizioni che li fanno sentire relegati nel ruolo subalterno e dipenden-
te del bambino quando sul piano fisico appartengono palesemente al mondo degli adulti. Gli adolescenti fanno anche
esperimenti con la propria personalità, sia per vedere come reagiscono gli altri sia per vedere che tipo di persone sono
veramente e che tipo di persone vorrebbero diventare.
Anche gli insegnanti possono essere di cattivo umore: specie verso la fine di un trimestre o quadrimestre, essi avverto-
no quello che viene chiamato tributo di affaticamento (la stanchezza del giorno prima non si dissolve pienamente con il
riposo di una sera e la dormita di una notte). Gli insegnante, oltre a prender coscienza della variabilità del proprio
umore, non può permettersi il lusso di manifestare frequenti e imprevedibili mutamenti di umore: gli alunni imparano a
rispettare l’insegnante dal quale sanno che cosa possono aspettarsi. Meglio dunque mettere al corrente la classe del
proprio stato d’animo, qualora ci si senta sovraffaticati o di cattivo umore (purché non capiti spesso, però) [F,199-
201].
Gli interessi
Il formarsi degli interessi dipende da un certo numero di fattori correlati: i bambini tendono ad interessarsi di quelle
cose che li aiutano ad affrontare i problemi e le difficoltà della loro vita quotidiana; sembrano manifestare una naturale
inclinazione ad attività di tipo edonistico; in risposta ai rinforzi dei genitori può manifestarsi in loro anche un interesse
per passatempi e materie scolastiche; possono svolgere un ruolo anche i fattori innati. Il ruolo dell’insegnante si artico-
la essenzialmente nei seguenti punti: - offrire agli alunni opportunità mirate; - dimostrare loro come le attività proposte
abbiano agganci concreti con i loro stessi interessi; - astenersi dal trinciare giudizi sulla competenza degli alunni nelle
abilità relative all’interesse in questione finché non siano state fornite loro le occasioni necessarie per poter sviluppare
tali abilità; - manifestare il proprio entusiasmo e coinvolgimento nei confronti dell’interesse in questione; - non reagire
con rabbia se gli alunni, una volta offerte loro le opportunità del caso, dimostrano di non provare nei confronti
dell’interesse in questione gli stessi identici sentimenti che prova l’insegnante stesso [F,201-203].
Gli atteggiamenti
Gli psicologi li definiscono come quegli orientamenti relativamente stabili che gli individui acquisiscono nei confronti
delle varie situazioni e dei vari problemi che incontrano nel corso della loro vita, e che manifestano verbalmente sotto
forma di opinioni; esprimono quindi chiaramente sia componenti valutative e legate alle convinzioni sia conoscenze
fattuali a vari livelli (o conoscenze che vengono considerate tali da chi li possiede). Possono essere in parte consci e in
parte inconsci e questi due aspetti si trovano talvolta in conflitto (i freudiani attribuiscono grande importanza a questo
conflitto).
Atteggiamenti e difese dell’io
Non abbiamo strumenti che ci consentano di misurare con precisione gli atteggiamenti inconsci o di valutare quanto sia
importante nella vita normale il conflitto fra tali atteggiamenti inconsci e le posizioni sostenute a livello conscio.
V. anche la razionalizzazione [p.69], meccanismo di difesa strettamente legato alla formazione reattiva. Esortiamo gli
insegnanti ad impegnarsi nella conoscenza di sé e ad esaminare i propri convincimenti e le proprie posizioni...
La dissonanza cognitiva
[v. anche la dissonanza cognitiva come tecnica di insegnamento] Secondo Festinger (1962) si manifesta quando una
persona prende una determinata posizione, ma poi scopre che la propria condotta (o un’altra presa di posizione) è in
contraddizione con la prima; tale contraddizione può generare una tensione (dissonanza) che diviene fonte di disagio.
A quel punto il soggetto tenta di ridurre la dissonanza modificando una delle variabili in gioco (distorsioni di tale va-
riabile; modificazione delle proprie idee, con conseguente puntellamento della nuova posizione - anche falsando
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l’interpretazione di ogni elemento nuovo; bugie, e modificazioni di ricordi per convincersi che non si tratta di bugia -
specie nel caso la bugia riguardi cose di scarsa importanza...).
La modificazione degli atteggiamenti
Un altro comportamento che spesso conduce a modificazioni negli atteggiamenti dei bambini è quello che consiste nel
premiarli per i cambiamenti di condotta di cui hanno dato prova.
Altri punti da tenere presenti
Gli atteggiamenti nei confronti di una particolare attività migliorano se i bambini hanno occasione di vedere una
persona che stimano dare loro una dimostrazione concreta dell’esecuzione di tale attività.
Gli atteggiamenti dei bambini traggono beneficio anche dall’esempio dato dagli insegnanti, specialmente in fatto
di condotta sociale.
Sarà opportuno fare attenzione a tutti i mutamenti di condotta che si presentano in conseguenza dei nuovi atteg-
giamenti incoraggiati, cogliendo immediatamente ogni opportunità di rinforzarli. Spesso l’insegnante avrà anche il
desiderio di offrire ai suoi alunni opportunità mirate e concrete di mettere in pratica i nuovi comportamenti che ha
appena visto adottare (quanto prima lo farà, tanto più avrà successo).
I bambini, come gli adulti, rispondono prontamente all’entusiasmo manifestato dagli altri. Lo stesso si può dire
quando assistono a un successo: dimostrano spesso di voler emulare l’impresa mediante la partecipazione attiva in
prima persona. Sono qualità dell’insegnante capace (sulle quali molti concordano) la capacità di suscitare entusia-
smo per la propria materia, trascinando i bambini fino a che il loro stesso entusiasmo si rinforzi autonomamente; e
il saper dare un esempio che susciti negli alunni il desiderio di emularlo (le abilità e le tecniche di cui l’insegnante
dà prova sono tali da suscitare nei suoi alunni il desiderio di arrivare a possederle in prima persona) [F,203-208].
Le emozioni
Nonostante le attenzioni mostrate dalla poesia e dall'arte, dalla filosofia e dalla scienza, dal nostro quotidiano interesse
per esse, le emozioni sono oggetto di ricerca assidua e sistematica soltanto negli ultimi trent'anni. Le emozioni sono
esperienze complesse, in cui si può distinguere un aspetto mentale di consapevolezza, delle modificazioni fisiologiche,
dei comportamenti espressivi sia involontari che intenzionali. Si distinguono dagli stati d'animo, o stati dell'umore, in
base alla presenza o assenza di specifici "antecedenti", cioè di eventi che ne costituiscono l'occasione scatenante:
un'emozione genuina sorge infatti bruscamente in relazione a un accadimento che riveste particolare significato per
l'individuo e dura per un tempo piuttosto breve; mentre l'umore può cambiare senza che si abbia la consapevolezza di
cosa abbia causato il cambiamento, può durare a lungo immutato e non comporta modificazioni fisiologiche; un'altra
tipica conseguenza di uno stato emotivo è l'instaurarsi di una specifica tendenza all'azione (più o meno accentuata, più
o meno univoca, né sempre necessariamente la più adeguata alla situazione), correlata con ciascuna delle emozioni
principali, preparata e favorita dalle modificazioni fisiologiche in atto.
Concetto e componenti dell'emozione
Il concetto di emozione
Per la conoscenza preteorica ordinaria (o psicologia del senso comune: folk psychology) = le emozioni sono costituite
innanzitutto da esperienze soggettive: ciascuno di noi vive un'esperienza, un sentire (un feeling), comprendente di re-
gola anche la percezione di alterazioni corporee caratteristiche; nel caso delle emozioni altrui percepiamo delle altera-
zioni caratteristiche della mimica facciale, della gesticolazione, della postura, della voce e del corpo, nonché dei com-
portamenti strumentali: ma piuttosto che percepire queste espressioni, afferriamo direttamente il loro significato, che è
appunto l'emozione (Marleau-Ponty, 1945). Oltre che come qualità fisiognomica [v. p.2], l'emozione è vissuta come
nostra esperienza, analoga (empatia, contagio emotivo) o reciproca (ad es. la paura di fronte alla collera altrui), o addi-
rittura l'espressione emotiva altrui induce nell'osservatore la riproduzione degli stessi movimenti espressivi (le persone
tendono a riprodurre l'espressione facciale degli altri in tempi così rapidi da escludere che si tratti di un'imitazione con-
sapevole13
).
Per la psicologia scientifica = dall'emozione come vissuto e come stato si è passati a concettualizzarla come risposta
emotiva, un insieme di risposte (sindrome reattiva multidimensionale, Reisenzein 1983), a sua volta analizzata in com-
ponenti. Da parte di alcuni studiosi (Brady, 1975), l'emozione non è più vista come un evento (uno stato o una risposta
o anche un insieme di risposte), ma come un processo (un microprocesso) che nello scorrere dinamico delle sue com-
ponenti assolve diverse funzioni; tale microprocesso appare a sua volta come l'elemento centrale di un macroprocesso,
in cui la valutazione della situazione scatena l'evento emozione, seguito da un terzo momento del far fronte (coping)
alle emozioni, che comprende l'identificarle e il riflettervi sopra per "farsene una ragione". Una visione processuale an-
cor più ampia è quella presentata da Plutchik (1980, 1993, 1994) nella teoria delle funzioni adattive delle emozioni,
sfruttando la nozione di reazione emotiva a catena come sequenza di eventi. Questa sequenza di eventi d'altra parte co-
stituisce un'unità funzionale, sicché i linguaggi con cui si descrivono i vari tipi di eventi non sono che diversi linguaggi
con cui parlare delle emozioni: il linguaggio soggettivo, al livello degli eventi affettivi; il linguaggio comportamentale,
al livello degli eventi motori; il linguaggio funzionale, al livello degli effetti.
13 La stessa cosa succede ai neonati che tendono a imitare l'espressione facciale dell'adulto che stanno guardando.
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Componenti delle emozioni
A) Componente esperienziale, soggetti-
va (vissuto o feeling); B) componente
fisiologica; C) componente comporta-
mentale o motoria (C1: movimenti
espressivi: mimica, vocalizzazioni, at-
teggiamenti tonico-posturali, gesti; C2:
comportamenti strumentali o adattivi, o
quantomeno una predisposizione o
prontezza dell'organismo ad agire in
forma appropriata); altri aggiungono
una componente cognitiva (che va cor-
rettamente inclusa nella componente
esperienziale). Altra possibile classifi-
cazione delle componenti delle emo-
zioni: 1) L'esperienza soggettiva
dell'emozione stessa: lo stato affettivo o
i sentimenti associati con quell'emozione (è la componente che più frequentemente riconosciamo in un'emozione). 2)
La reazione interna del nostro corpo, in particolare quelle che coinvolgono il sistema nervoso autonomo. 3) L'insieme
di pensieri e di opinioni che accompagna l'emozione e che sembra venirci in mente automaticamente (quello che sap-
piamo sull'emozione e le situazioni ad essa collegate). 4) L'espressione del viso. 5) Le reazioni globali all'emozione
(ad es., un'emozione negativa può rendere buia la giornata). 6) Le tendenze all'azione associate con l'emozione, ossia
l'insieme dei comportamenti che la gente è portata a mettere in pratica allorché sperimenta una certa emozione (per es.,
l'ira può portare alla aggressività). Nessuna di queste componenti di per sé è un'emozione; tutte si riuniscono per dar
vita ad una particolare emozione. Ognuna di queste componenti può influenzare le altre. I teorici dell'emozione si
muovono verso una prospettiva sistemica dell'emozione, nella quale si ritiene che le componenti di un'emozione ab-
biano effetti reciproci le une sulle altre.
Razionalità o irrazionalità delle emozioni
Una certa diffidenza per le emozioni – considerate fonte di comportamenti irrazionali – ci viene, prima che dalla tradi-
zione cristiana, dall'antichità classica, soprattutto dallo stoicismo; tuttavia, nel pensiero di Platone e Aristotele le emo-
zioni hanno una funzione imprescindibile: esse dovevano essere controllate e subordinate alla ragione, ma costituivano
una componente essenziale dell'anima (v. per es. il mito dell'anima nel Fedro di Platone). É stato certamente Darwin
(1872) che, nel quadro della sua teoria della evoluzione, ha introdotto un radicale mutamento di prospettiva su questo
tema: se intendiamo "razionalità" nel senso di razionalità secondo lo scopo, cioè di funzionalità, è inevitabile conclu-
dere che le emozioni hanno un valore adattivo (basti pensare che, salendo per la scala zoologica, aumenta la quantità di
comportamenti non costituiti da schemi fissi d'azione ed aumenta il repertorio emozionale). Palesemente le emozioni
servono alla sopravvivenza della specie. Il criterio di funzionalità [v. sotto] è applicabile alle emozioni in quanto esse
hanno una componente di azione o sono causa di azioni, e da questo punto di vista possono essere irrazionali, nel senso
di disfunzionali. D'altra parte esseri senza emozioni, e quindi immuni da influenze irrazionalizzanti di natura emotiva
(a meno che non si tratti di sistemi meccanicistici come le formiche), non sarebbero in grado né di reagire né di pensa-
re: non avrebbero scopi, non saprebbero selezionare problemi e dati pertinenti su cui pensare e per cui agire. La sepa-
razione della ragione dalla passione è stato l'errore di Cartesio (A. e H. Damasio, 1994): il coinvolgimento dell'affetti-
vità nella pianificazione delle azioni, nel trarre profitto dall'esperienza e decidere che cosa fare e agire di conseguenza,
mostra che si pensa non solo con la mente, ma con tutto il corpo (per l'azione ragionevole occorre l'intelletto, ma anche
la parte desiderante: Aristotele, Etica nicomachea).
Tipologia delle emozioni e dei fenomeni affettivi
Le emozioni si inseriscono, sia a livello psicologico che neurofisiologico, in un complesso processo di cui fanno parte
attivazione, emozione, risposte di orientamento, attenzione e coscienza. L'emozione è pure una risposta condizionabile
e decondizionabile, ed ha funzione di segnalazione, sia intrasoggettiva sia, attraverso la componente espressiva, inter-
soggettiva; di quest'ultima funzione gli etologi hanno messo in rilievo il valore adattivo: i movimenti espressivi infor-
mano i conspecifici delle intenzioni del soggetto agente, suscitano in essi emozioni simili, stimolano e rafforzano le-
gami sociali (ad es. i segnali infantili, che inducono i comportamenti parentali di cura), e questa funzione di segnala-
zione diventa una vera e propria funzione comunicativa con l'uso intenzionale dei movimenti espressivi fino alla simu-
lazione delle emozioni. Si comprende così il fondamento dell'appassionata rivalutazione delle emozioni operata da
Wallon (1934), che vedeva in esse l'origine stesa della società e dei sentimenti e la cerniera fra l'organico, lo psichico e
il sociale (hanno la funzione che per Cartesio aveva la ghiandola pineale: «in esse mente e corpo più intimamente e mi-
steriosamente interagiscono»: de Sousa, 1987).
Distinzione fra emozioni primarie e secondarie
Primarie o semplici o fondamentali = quelle la cui espressione, particolarmente mediante la mimica facciale, è univer-
sale, spontanea e quindi innata (per descriverle, non occorrono parole denotanti altre emozioni): felicità, paura, tristez-
La sequenza di eventi connessa allo sviluppo di alcune emozioni (Plutchik, 1980)
evento stimolante cognitivo affettivo comportamentale effetto
Minaccia "Pericolo" Paura, terrore Fuggire Protezione
Ostacolo "Nemico" Collera, rabbia Mordere, colpire Distruzio-
ne
Potenziale compagno
sessuale
"Possesso" Gioia, estasi Corteggiare, accop-
piarsi
Riprodu-
zione
Perdita di un conspe-
cifico significativo
"Separazione" Tristezza, cor-
doglio
Piangere, chiedere
aiuto
Reintegra-
zione
Membro del gruppo "Amico" Accettazione,
fiducia
Fare toeletta, condi-
videre
Affiliazio-
ne
Oggetto disgustoso "Veleno" Disgusto, schi-
fo
Vomitare, cacciar via Rifiuto
Nuovo territorio "Che cosa c'è
là"
Anticipazione Indagare, rappresen-
tare
Orienta-
mento
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za, collera, interesse, a cui alcuni studiosi aggiungono anche: sorpresa, disgusto e disprezzo. Secondarie o complesse =
quelle che, per comparire nello sviluppo, richiedono una forma di autocoscienza, o una prima forma sensomotoria di
autoconoscenza (per descriverle, occorrono parole denotanti altre emozioni): imbarazzo, vergogna, senso di colpa e
orgoglio (ma queste appaiono più come emozioni interpersonali, in quanto richiedono anche il riferimento all'altro) [v.
anche l'AAppppeennddiiccee 11].
Attivazione ed emozione
Caratteristico di un'intensa emozione è lo stato di attivazione (arousal: v. p.72), che comporta la modificazione di nu-
merosi parametri fisiologici. La maggior parte dei cambiamenti fisiologici che hanno luogo durante un'attivazione
emozionale deriva dal settore simpatico del sistema nervoso autonomo, che serve a preparare il corpo all'azione in caso
di emergenza (aumento pressione sanguigna e battito cardiaco, respirazione più rapida, dilatazione pupille, aumento
sudorazione e diminuzione salivazione e muco, aumento zuccheri nel sangue, aumento velocità coagulazione sangue,
deviazione sangue da stomaco e intestino a cervello e a muscoli scheletrici, pelle d'oca). Durante emozioni come il do-
lore o la pena, però, alcuni processi corporei possono essere ridotti o rallentati.
Intensità delle emozioni
Da studi fatti su pazienti con lesioni al midollo spinale (quando è interrotto o lesionato, le sensazioni che si originano
al di sotto del punto danneggiato non possono raggiungere il cervello), sembra che quanto minore è il feedback del si-
stema nervoso autonomo al cervello (quanto più alta, cioè, è la lesione al midollo spinale), tanto minore è l'intensità
dell'emozione (paura, ira, eccitazione sessuale e dolore).
Struttura delle emozioni
Aspetti anatomo-fisiologici
Le strutture anatomiche che sono più strettamente implicate nel vissuto emotivo e nella manifestazione delle emozioni,
nonché nella comprensione delle emozioni altrui, sono situate nel sistema limbico, in particolare nell'amigdala (che
qualcuno ha definito un "computer emotivo"): danni o disconnessione dell'amigdala producono gravi disturbi nella va-
lutazione di stimoli piacevoli o minacciosi, nonché gravi anomalie nei comportamenti emotivo-istintuali e in quelli le-
gati alla motivazione. Il sistema limbico interagisce a sua volta con il sistema ipotalamico: l'ipotalamo coordina il si-
stema nevoso autonomo e regola, tramite una complessa attività ormonale, funzioni diverse all'interno dell'organismo
(metabolismo dei glucidi e dei lipidi, equilibrio della temperatura corporea, ecc.). La maggior parte delle ricerche di
neuropsicologia sono concordi nel considerare l'emisfero destro specializzato nell'interpretazione e nella manifestazio-
ne di stati emotivi, mentre l'emisfero sinistro è implicato in modo assai marginale. Sembra che la metà sinistra del viso
sia in media più espressiva della metà destra. Sembra anche che l'intonazione del linguaggio parlato venga elaborata da
emisferi diversi a seconda di quale funzione essa assolva: in particolare, quando la prosodia serve a esprimere informa-
zioni di tipo emotivo (dubbio, tenerezza...), queste informazioni vengono elaborate prevalentemente dall'emisfero de-
stro; quando invece esprime informazioni di carattere sintattico (interrogazioni...), vengono elaborate dall'emisfero si-
nistro, tradizionalmente deputato alla comunicazione linguistica. Sembra che anche nel riconoscimento e nella com-
prensione dei segnali dell'emotività l'emisfero destro sia dominante, sia quando si tratta di riconoscere espressioni fac-
ciali delle emozioni sia quando si tratta di individuare tratti prosodici del linguaggio parlato che esprimono stati emoti-
vi. Tuttavia, alcune ricerche hanno rilevato una certa superiorità dell'emisfero sinistro nell'identificare emozioni a tona-
lità positiva (gioia, sorpresa), mentre l'emisfero destro restava dominante per l'elaborazione di emozioni a tonalità ne-
gativa (tristezza, paura).
Dimensioni che concorrono a formare la risposta emotiva totale
Se le emozioni sono "sindromi reattive multidimensionali" (Reisenzein, 1983), ovvero sistemi di risposte distinti, inte-
ragenti ma separabili (Brady, 1975), è abbastanza agevole identificare le distinte componenti o dimensioni che possono
concorrere a formare la risposta emotiva totale. Risposte fisiologiche = attivazione dei sistemi nervoso autonomo, en-
docrino e immunitario che produce risposte fisiologiche caratteristiche (alterazione della frequenza cardiaca e respira-
toria, della pressione sanguigna, ecc.). Risposte tonico-posturali = tensione o rilassamento del corpo nel suo comples-
so. Risposte motorie strumentali = mordere, colpire, scappare, ecc.; assieme alle azioni effettive bisogna includere que-
ste stesse azioni appena abbozzate, o uno stato di prontezza o tendenza ad attuarle, o una preparazione ad attuarle, an-
che ad un livello puramente mentale. Risposte motorie espressive = mimica facciale, gesti, vocalizzazioni come gridi,
sospiri..., indici paralinguistici. Risposte linguistiche espressive = varianti stilistiche del discorso della persona in preda
ad emozione (scelte lessicali e sintattiche). Componente esperienziale soggettiva (cioè il vissuto – feeling – o tono fe-
nomenologico, che non può esser descritto se non rimandando a ciò che ciascuno di noi prova quando è felice, spaven-
tato, irato, ecc.) = il vissuto è determinato dalla percezione dello stato interno, a cui contribuiscono, oltre a processi
che hanno sede in strutture del sistema nervoso centrale, la percezione degli effetti dell'attivazione fisiologica, e la per-
cezione delle qualità totali espressive o fisiognomiche [v. sopra e p.2]; la componente esperienziale può essere analiz-
zata in diversi aspetti, fra cui vanno particolarmente sottolineate la qualità edonica (emozioni piacevoli o spiacevoli),
l'intenzionalità (nel senso fenomenologico: un'esperienza emotiva è sempre esperienza di qualcosa, anche se non appa-
re alla coscienza alcuna causa oggettiva), la focalizzazione attentiva (le emozioni amplificano le informazioni mobili-
tando l'attenzione su di esse; selezionano le informazioni rilevanti fra la sterminata massa di informazioni disponibili) e
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la coscienza (qui intesa nel senso di percezione interna, ovvero di autocoscienza soggettiva o pre-oggettiva: ciò che è
rappresentato coscientemente è l'oggetto temuto, desiderato, ecc.).
Funzioni delle emozioni
Le diverse dimensioni emozionali concorrono ad esercitare varie funzioni delle emozioni. Azione = in essa vanno in-
cluse l'azione vera e propria (risposte strumentali), la preparazione dell'organismo all'emergenza (realizzata dalle ri-
sposte fisiologiche e tonico-posturali), la prontezza ad agire e la preparazione ad agire (anche ad un livello solo men-
tale); le emozioni sono azioni automotivate (lo scappare è parte costitutiva della paura). Segnalazione intersoggettiva =
le emozioni hanno l'effetto di comunicare all'esterno lo stato dell'organismo (se è spontanea e non intenzionale, ha ef-
fetti di comunicazione, ma non è un atto di comunicazione); secondo molti autori (Wallon, 1949; Trevarthen, 1984;
Emde, Buchsbaum, 1989) l'espressione emotiva costituisce la comunicazione primaria fra l'infante e chi presta le cure
materne (emozioni come segnali sociali, intersoggettività primaria); secondo Trevarthen, anzi, lo sviluppo della rego-
lazione delle relazioni sociali tramite le emozioni è indipendente e in anticipo rispetto allo sviluppo cognitivo. Segna-
lazione intrasoggettiva attraverso la dimensione esperienziale = informa in maniera globale e immediata l'organismo
del suo stato rispetto ai suoi bisogni, desideri, scopi ed aspettative (le emozioni, dunque, sono anche un linguaggio,
poiché esercitano una duplice funzione informativa, e questa a sua volta comporta una funzione rappresentativa). Mo-
tivazione ad agire attraverso al dimensione di esperienza = non si attuano dati comportamenti per sfuggire ad un peri-
colo soltanto come parte della risposta di paura: la sensazione penosa di paura dà la spinta per escogitare comporta-
menti che allontanino o prevengano il pericolo. Focalizzazione attentiva = v. sopra. Espansione della coscienza = v.
sopra. Facilitazione mnestica = il ricordo è influenzato dalla somiglianza dello stato affettivo del soggetto al momento
dell'esperienza e al momento della rievocazione (ricordo stato-dipendente) e dalla congruenza fra lo stato affettivo
(umore) di chi ricorda e la tonalità affettiva delle cose da ricordare (congruenza dell'umore).
Valore funzionale delle emozioni
Livello evolutivo individuale
Molte teorie socioemotive dello sviluppo sottolineano come le conquiste cognitive contribuiscano a fare emergere e
padroneggiare le emozioni complesse (ad es., l'insorgere delle emozioni di autovalutazione – come la vergogna e il
senso di colpa – sarebbero conseguenza della crescente autoconsapevolezza e della capacità di rappresentazione di sé).
É vero anche il rapporto inverso: le emozioni infatti giocano un ruolo fondamentale nell'acquisizione di importanti tap-
pe cognitive e compiti evolutivi. Sebbene tutte le emozioni abbiano funzioni adattive e motivazionali durante tutto il
corso della vita, alcune possono divenire preminenti in differenti fasi dello sviluppo perché servono processi evolutivi
specifici (Differntial Emotions Theory, C. E. Izard, 1977 e 1991): le emozioni possono stimolare l'acquisizione di spe-
cifiche mete sociali e cognitive in molti modi. Innanzitutto stimolando le interazioni sociali: la gioia e l'interesse facili-
tano le interazioni madre-bambino durante l'infanzia, la fantasia e il gioco di imitazione nella prima fanciullezza, il
gioco con regole e le interazioni fra pari nella tarda fanciullezza, la formazione di relazioni intime nell'adolescenza.
Inoltre, le emozioni possono indurre una persona a rivalutare le sue aspettative e i suoi comportamenti (la rabbia che
insorge quando un desiderio viene frustrato può portare a riflettere su ciò che è più legittimo e realistico domandare; la
vergogna e il senso di colpa possono costringerci a valutare meglio il nostro comportamento). Infine, le esperienze
emotive stimolano lo sviluppo sociale e cognitivo: le rappresentazioni mentali che un bambino si forma delle emozioni
proprie e altrui favoriscono la capacità di considerare gli altri come soggetti diversi e autonomi, nonché la comprensio-
ne che la stessa situazione può provocare differenti sensazioni affettive in persone diverse.
Livello intrapersonale
Le emozioni possono essere definite come efficaci modelli di adattamento alle richieste dell'ambiente. A livello psico-
logico: -favoriscono lo spostamento dell'attenzione sugli eventi rilevanti; -attivano reti associative che collegano a
eventi pertinenti; -modificano le gerarchie di risposta portando in primo piano il comportamento più adeguato. A livel-
lo fisiologico: organizzano rapidamente le risposte di differenti sistemi biologici (espressione del volto, tono muscola-
re, tono della voce, attività del sistema nervoso autonomo, attività endocrina), in modo da produrre lo stato fisiologico
più adeguato alla risposta da fornire.
Di fronte all'improvvisa necessità di fronteggiare un evento esterno che richiede una veloce modificazione del nostro
stato fisiologico, l'emozione funge da temporaneo attacco all'omeostasi, mettendo l'organismo in grado di prepararsi al
comportamento più adatto alla sua sopravvivenza (la paura predispone alla fuga, la rabbia all'attacco, il disgusto al ri-
fiuto di un cibo nocivo...). Un simile modello di spiegazione funzionale diretta e "fisiologica" delle emozioni può esse-
re applicato però soltanto a una ristretta gamma di emozioni di base; inoltre, se è vero che le modificazioni fisiologiche
indotte dalle emozioni sono adattive, è altrettanto evidente come, a lungo andare, queste possano cronicizzarsi produ-
cendo seri effetti negativi sull'organismo. Per le emozioni più sfumate o con minori risposte di azione (rimpianto, sensi
di colpa), la funzione a livello intrapersonale va ricercata nel riflesso sull'immagine di sé, o anche nelle dinamiche di
sanzione o di approvazione interna, che costituiscono degli incentivi positivi o negativi autosomministrati. Un'ulteriore
complementare funzione delle emozioni è svolta principalmente dalle emozioni positive mediante il ritorno all'omeo-
stasi (annullando l'arousal): le emozioni positive possono infatti avere effetto lenitivo rispetto a eventi stressanti e cir-
costanze spiacevoli (per es.: quando il bambino piange ed è a disagio, i genitori riescono a calmarlo suscitando in lui
emozioni positive cullandolo, cantandogli una ninna nanna o facendolo ridere). Un'altra funzione primaria della nostra
esperienza emotiva soggettiva è quella di servire da segnale che eliciti comportamenti adattivi volontari: una volta che
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l'iniziale ondata emotiva si placa, il vissuto interno aiuta a chiarirci ciò che abbiamo provato, a ripensare agli eventi
che hanno suscitato l'emozione, a condividere le nostre sensazioni con gli altri, in modo da ottenere supporto da loro o
da far sì che modifichino il loro comportamento.
Livello interpersonale
Le emozioni hanno anche una funzione sociale: possono essere definite come risposte involontarie, relativamente au-
tomatiche e rapide, che aiutano gli individui a regolare e mantenere le loro relazioni interpersonali. Nelle interazioni a
due: la comunicazione delle emozioni fornisce al ricevente importanti informazioni su chi le trasmette, l'espressione
delle emozioni aiuta quindi l'individuo a comprendere vissuti, intenzioni e convinzioni altrui in modo da coordinare
rapidamente l'interazione stessa; oltre che suscitare per empatia un'emozione simile, l'espressione di un'emozione può
evocarne una complementare e reciproca, che a sua volta elicita un opportuno comportamento di risposta; infine, le
emozioni servono da incentivi o da deterrenti al comportamento altrui. Nelle interazioni di gruppo: le emozioni aiutano
gli individui che condividono scopi comuni a riconoscersi in questi scopi e in quelli sovraordinati del gruppo; sono
inoltre molto importanti nel definire l'appartenenza e nell'identificare i membri del gruppo (esperienze collettive di
estasi o di timore reverenziale possono fornire ai membri un senso di identità comune, mentre l'odio o il disgusto verso
i non membri rafforza i legami di gruppo); infine, le emozioni svolgono importanti funzioni anche a livello culturale,
innanzitutto perché giocano un ruolo centrale nell'assunzione di una identità culturale da parte dell'individuo; hanno
inoltre un grande peso nell'acquisizione, da parte dei bambini, delle norme e dei valori della cultura: le reazioni emoti-
ve dei genitori li aiutano infatti a definire e a riconoscere i valori morali della comunità di appartenenza.
Le teorie delle emozioni
Teorie classiche
L'attivazione del sistema nervoso autonomo contribuisce all'intensità dell'esperienza emotiva; ma differenzia le emo-
zioni? Secondo la teoria di James-Lange (tardo Ottocento, teoria periferica) noi ci sentiamo tristi perché piangiamo,
spaventati perché tremiamo, arrabbiati perché attacchiamo; inoltre, poiché la percezione dell'attivazione del sistema
nervoso autonomo (e forse di altri cambiamenti corporei) costituisce l'esperienza di un'emozione, e poiché differenti
emozioni si provano in modi differenti, ci deve essere un distinto schema di attivazione del sistema nervoso autonomo
per ogni emozione. Dopo gli attacchi a questa teoria da parte di W. Cannon ed altri (1927, teoria centrale: le modifi-
cazioni del corpo e l'esperienza soggettiva hanno luogo contemporaneamente ma in base a meccanismi separati), uno
studio condotto da Levenson, Ekman e Friesen (1990) offre però una prova sicura che ci sono schemi autonomi distinti
per le diverse emozioni. Tuttavia, molti psicologi ritengono tuttora che, nel differenziare le emozioni, debba essere
coinvolto qualcosa di diverso dall'attivazione autonomica; quel qualcosa d'altro (o parte di esso) si pensa comunemente
essere la valutazione cognitiva che si ha della situazione stessa.
Attività cognitiva ed emozioni
Quando sperimentiamo un fatto o un'azione, interpretiamo la situazione in rapporto ai nostri scopi personali ed al no-
stro benessere; questa interpretazione è
nota come valutazione cognitiva. É chia-
ro che la nostra valutazione di una situa-
zione può contribuire all'intensità della
nostra esperienza emotiva. La valutazio-
ne cognitiva può anche essere pesante-
mente responsabile della differenziazio-
ne delle emozioni; talvolta può essere
sufficiente a determinare la qualità
dell'esperienza emotiva. Secondo la teo-
ria di Schachter-Singer (1962, teoria bi-
fattoriale o attribuzionale) i sintomi fisi-
ci che non possono venire attribuiti a un fatto estraneo vengono interpretati come segno di attivazione emotiva; la qua-
lità e il tipo di emozione vengono poi specificate sulla base di circostanze esterne.
Ma queste componenti, cioè l'attivazione del sistema nervoso autonomo e la valutazione cognitiva, sono esse stesse fat-
ti complessi che implicano dei sottocomponenti, che non si presentano contemporaneamente: sono fatti che si estendo-
no nel tempo ed i loro sottocomponenti possono procedere in parallelo. Secondo le teorie della valutazione, è il modo
in cui le persone valutano le situazioni che porta all'esperienza soggettiva dell'emozione ed all'attivazione fisiologica
che è associata con le emozioni. Alcuni psicologi, fra cui il più autorevole è Ron Harré (1986, costruzione sociale delle
emozioni o costruttivismo), sostengono che le emozioni non sono risposte naturali provocate dalle circostanze oggetti-
ve, bensì risposte apprese che includono le regole, le credenze e i valori sociali di una determinata cultura; in questo
quadro il linguaggio e la struttura etica di una società sono determinanti nel costruire sia il vissuto interno delle emo-
zioni sia lo schema tipico delle espressioni e dei comportamenti che ad esse si associano (v. l'es. singolare dell'emozio-
ne chiamata amae presente fra i giapponesi, definibile come l'accettazione gradita e piacevole di uno stato di dipen-
denza sia materiale che emotiva, incoraggiata dalla cultura giapponese nei confronti del gruppo familiare e anche delle
grandi strutture industriali del paese). Ma ci possono essere due diversi tipi di esperienze emotive: quelle basate sulla
a) TEORIA DI JAMES-LANGE (1884...)
Stimolo → Attivazione fisiologica e comportamenti attivi
specifici per un certo tipo di emozione →
Esperienza sogget-
tiva dell'emozione
b) TEORIA DI SCHACHTER-SINGER (1962)
Stimolo → Attivazione fisiologica
generale →
Valutazione cognitiva
dell'attivazione →
Esperienza sogget-
tiva dell'emozione
c) TEORIE DELLA VALUTAZIONE (1980...)
Stimolo + Valuta-
zione dello stimolo →
Esperienza sogget-
tiva dell'emozione
d) IPOTESI DEL FEEDBACK FACCIALE (1962)
Espressione facciale → Esperienza sogget-
tiva dell'emozione
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valutazione cognitiva, e quelle che la precedono (emozioni precognitive: connessioni dirette fra canali sensoriali e
amigdala).
Infine, l'espressione facciale (ma anche altre espressioni emozionali: battito cardiaco, temperatura dell'epidermide...),
che da Darwin in poi (1872) è stata considerata dal punto di vista della sua funzione comunicativa delle emozioni, è
oggi presa in esame anche per il suo contribuire all'esperienza soggettiva dell'emozione, proprio come l'attivazione e la
valutazione (ciò implica che, se vi mettete a sorridere e mantenete il sorriso per parecchi secondi, incomincerete a sen-
tirvi più felici; se mettete il broncio, vi sentirete tesi ed arrabbiati): la contrazione di certi muscoli facciali può influire
sul flusso sanguigno nei vasi confinanti; ciò a sua volta può influire sul flusso sanguigno cerebrale, che può determina-
re la temperatura del cervello, che a sua volta può facilitare o inibire la liberazione di numerosi neurotrasmettitori (e
quest'ultima può ben essere parte dell'attività corticale che è alla base dell'emozione). Questo percorso dall'espressione
all'emozione è sostenuto da esperimenti recenti (1989).
Alcune implicazioni cliniche
Il fatto che la valutazione cognitiva possa differenziare le emozioni ci aiuta a dare un senso ad una valutazione clinica
sconcertante: talvolta un paziente sembra stia vivendo un'emozione senza rendersene conto (non ha cioè alcuna espe-
rienza soggettiva dell'emozione, eppure vi reagisce in modo coerente); Freud pensava che questo fenomeno implicasse
la rimozione di idee dolorose, ed il moderno lavoro sulla valutazione e l'emozione è compatibile con la sua ipotesi. Il
lavoro clinico suggerisce anche che le sensazioni di piacere e di dolore che uno prova cambiano poco se si passa
dall'infanzia all'età adulta: ciò che cambia sono le idee associate con le sensazioni (la natura dell'attivazione autonomi-
ca può non mutare molto nel corso della vita; al contrario si sviluppano normalmente le idee associate con le sensazio-
ni, essendo esse semplicemente delle credenze emotive). Infine, il lavoro sulla valutazione si accorda con un fenomeno
che è familiare a noi tutti: la misura di una situazione provoca un'emozione che dipenda dall'esperienza precedente (la
nostra esperienza passata influisce sulle nostre credenze riguardo la situazione attuale, e in seguito queste credenze in-
fluiscono sull'emozione che sperimentiamo).
Il dibattito
É dominato dal problema dei rapporti fra emozioni e attività cognitiva (è persino nata la rivista internazionale Cogni-
tion and Emotion). Posizione di Lazarus (1980-1984) e Averill (1980): primato della conoscenza = la risposta emotiva
è la conseguenza della valutazione cognitiva della situazione (si avverte che c'è un pericolo e quindi si ha paura); all'o-
rigine vi è la teoria attivazionale-cognitivistica (Schachter, 1964; Mandler, 1980), che sostiene che la valutazione co-
gnitiva interviene due volte: sia a produrre un'attivazione fisiologica aspecifica, sia ad interpretare come emozione spe-
cifica gli effetti percepiti dell'attivazione. Altra posizione è sostenuta da Leventhal (1982), Zajonc (1980, 1984) e Buck
(1984-1991): parziale indipendenza dell'emozione = la percezione di stimoli emotivi scatena la risposta emotiva, che
viene ulteriormente elaborata cognitivamente come valutazione cognitiva della situazione (si ha paura e quindi si av-
verte il pericolo); da notare che la risposta emotiva è già una valutazione della situazione. La posizione più radicale è
sostenuta da Zajonc e Markus (1984): le risposte fisiologiche e soprattutto quelle motorie sono la rappresentazione af-
fettiva = costituiscono quindi la valutazione della situazione (rappresentazione "dura"), a prescindere dalla percezione
dei loro effetti, da cui dipende l'esperienza emotiva (rappresentazione "soffice"), che invece è influenzata dall'attività
cognitiva.
Si può contribuire a fare un poco di chiarezza nelle tre posizioni, distinguendo tre momenti in cui l'attività cognitiva è
coinvolta nelle emozioni ma che invece, nella trattazione del problema, risultano quasi sempre tra loro confusi. I e II):
bisogna distinguere fra evento e processo emotivo: l'attività cognitiva nel primo momento della valutazione cognitiva
della situazione è parte indispensabile, a qualunque grado di complessità, del processo emotivo, ma non fa parte dell'e-
vento emozione; l'attività cognitiva interviene poi a costituire la componente esperienziale della risposta emotiva come
percezione dello stato interno dell'organismo, percezione fisiognomica dell'oggetto e della situazione, focalizzazione
attentiva e autocoscienza pre-oggettiva. L'attività cognitiva è insieme determinante delle emozioni e costituente dell'e-
sperienza emotiva, ovvero ha un ruolo causale (nello scatenamento della risposta emotiva) e insieme, con la esperienza
emotiva, dà immediatamente la ragione dell'emozione (Frijda, 1988). L'intervento dell'attività cognitiva, sia come de-
terminante che come costituente, fa sì che il prodotto dell'attività cognitiva determinante dell'emozione venga a far par-
te dell'oggetto vissuto dell'emozione. III): vi è infine il momento cognitivo posteriore all'evento-emozione, che può es-
sere designato con l'espressione "pensare le emozioni" (Bion, 1962): momento che include l'identificare le emozioni
(dar loro un nome), riflettere sullo stato emotivo vissuto e sui suoi antecedenti situazionali per capirne la motivazione
(livello di autocoscienza oggettiva).
Un possibile passo ulteriore è quello di concepire il processo emotivo come un particolare tipo di processo di valuta-
zione cognitiva (appraisal) dello stato dell'organismo rispetto a uno standard (bisogno, desiderio, scopo, aspettative,
livello omeostatico): soluzione insoddisfacente, perché non propone una intrinseca necessità della connessione fra pro-
cesso cognitivo di valutazione e risposta emotiva. Una soluzione suggestiva appare invece se si considera, come si è
già visto, la funzione delle emozioni di segnalazione intra- e inter-soggettiva: i processi di valutazione sono tutti e co-
munque cognitivi, ciò che varia è il modo di rappresentare l'esito della valutazione. Quella che è chiamata "valutazione
affettiva" sarebbe invece, propriamente, la rappresentazione immediata, globale, non proposizionale, mediante le ri-
sposta emotiva, della valutazione cognitiva (messaggio di controllo: Oatley, 1992), in opposizione ad una valutazione
strettamente cognitiva, che sarebbe piuttosto la rappresentazione simbolica, proposizionale (messaggio semantico: Oat-
ley). Si potrebbe anche dire che la conoscenza espressa per mezzo delle emozioni è una conoscenza procedurale, in
contrasto alla conoscenza dichiarativa dell'attività cognitiva "fredda"; oppure che le emozioni (in tutte le loro compo-
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nenti, e non solo in quella esperienziale), esprimono ma non riferiscono la valutazione cognitiva. Questa funzione in-
formativa è al centro della teoria appetitiva (Dahl, 1979, che si rifà a de Rivera, 1977): le emozioni sono dei messaggi
al soggetto sui suoi obiettivi o desideri, messaggi relativi all'oggetto, cioè a cosa è l'oggetto per la persona (IT emo-
tions, o emozioni oggettuali), o messaggi relativi al soggetto, cioè a "come vanno le cose" rispetto agli obiettivi (ME
emotions, o emozioni egoiche). Questi due tipi di emozioni si bipartiscono ciascuno in due classi (positiva e negativa),
ciascuna delle quali si bipartisce a sua volta in due forme (attiva e passiva); la combinazione sistematica di queste tre
dimensioni bipolari dà luogo a otto emozioni primarie. Per es.: emozioni oggettuali negative, spiacevoli, caratterizzate
dalla tendenza comportamentale alla repulsione = forma attiva: corrispondono al liberarsi dell'oggetto, si manifestano
con la collera e la persona può dirsi irata, sprezzante, indignata; forma passiva: corrispondono al fuggire, si manifesta-
no nella paura e la persona è descrivibile come spaventata, allarmata; emozioni egoiche negative = forma passiva: se-
gnalano che l'obiettivo è stato mancato, si manifestano nella depressione e la persona è descrivibile come depressa, di-
sperata; forma attiva: segnalano che il raggiungimento dell'obiettivo è compromesso, si manifesta nell'angoscia e la
persona è descrivibile come angosciata, sconfortata; emozioni oggettuali positive, caratterizzate dall'attrazione = forma
attiva: l'amore; forma passiva: la sorpresa; emozioni egoiche positive = forma attiva: la gioia; forma passiva: la con-
tentezza.
Oltre a quella di segnalazione, le emozioni hanno altre funzioni, in particolare quella di motivazione. «L'emozione è un
meccanismo di feedback che, oltre a dire se un nostro scopo è soddisfatto o no, può fornirci un motivo in più per per-
seguirlo, diventando a sua volta uno stato che il sistema tende ad evitare o realizzare» (Castelfranchi e Poggi, 1988).
Con il concetto di scopo si riformula quanto la psicologia precognitivistica avrebbe espresso in termini motivazionali:
le emozioni presuppongono uno stato motivazionale, sono automotivate e possono avere valore motivante. Ribalta-
mento del principio cognitivistico: ciò che fa di uno scopo uno scopo è il coinvolgimento emotivo, e la scelta fra scopi
diversi non è fondata unicamente su di una improbabile analisi razionale, ma anche sulle qualità e intensità delle emo-
zioni coinvolte (bilancio emotivo); l'emozione costituisce una vera spinta ad agire poiché le emozioni, come sindrome
reattiva multidimensionale, comprendono una componente d'azione. L'assegnazione di un ruolo fondamentale alle
emozioni nella motivazione ad agire costituisce una reinterpretazione in chiave di psicologia generale del concetto psi-
coanalitico di investimento libidico e contiene anche una risposta alla domanda posta da Platone nell'Eutifrone, e cioè
quella data da Spinoza nell'Ethica, per cui non si brama qualcosa perché è buono, ma qualcosa è buono perché lo si
brama.
La dimensione sociale delle emozioni
Tema centrale di una psicologia sociale delle emozioni è quello delle emozioni come fenomeno sociale, ovvero, come
è invalso dire, della costruzione sociale delle emozioni: 1. Le condizioni sociali (come del resto la fase evolutiva) de-
terminano gli oggetti delle emozioni (improbabile che pastori africani o bimbi di due anni si spaventino della caduta
dell'indice Dow Jones alla Borsa di New York). 2. Anche se bisogna distinguere fra oggetti delle emozioni e cause, o
antecedenti situazionali, oggetto e causa sono strettamente connessi, e quindi ciò che si è detto in 1. dipende dal fatto
che le condizioni sociali (come il livello evolutivo) determinano gli antecedenti situazionali delle emozioni (nella so-
cietà occidentale postmoderna non ci si vergogna più dell'intimità corporea; ci si vergogna però di non essere belli, ric-
chi, giovani, "qualcuno"...). 3. Le componenti espressiva e comportamentale delle emozioni vengono in grandissima
parte controllate secondo regole culturali con lo sviluppo e l'educazione14
. 4. Culture diverse danno un diverso valore
alle emozioni (in certe società vergognarsi è ritenuto una caratteristica che distingue gli uomini dagli animali; nella so-
cietà industriale postmoderna, invece, vergognarsi è considerato una resa, e si può arrivare a vergognarsi di vergognar-
si). 5. Le condizioni sociali offrono e insieme limitano le modalità per far fronte alle emozioni (in una comunità della
Nuova Guinea rigidamente regolata dalla vergogna, la cosa più opportuna da fare se si prova vergogna è quella di esi-
birla vistosamente facendo con ciò vergognare gli altri membri della comunità, che si adopereranno per riparare l'umi-
liazione e reintegrare l'umiliato). 6. Vi sono emozioni che sono intrinsecamente sociali: vergogna, imbarazzo, senso di
colpa, orgoglio (le emozioni della consapevolezza); perché si diano tali emozioni occorre un insieme di condizioni, tut-
te di carattere sociale (ad es., per la vergogna: l'essere esposti all'altro, smascherati o svelati, l'attribuire importanza al
giudizio dell'altro, il condividere con l'altro i criteri di giudizio). La più estensiva indagine transculturale sulle emozio-
ni (Scherer e coll., 1988) ha tuttavia mostrato che vi sono più differenze nei loro vari aspetti fra le emozioni che, per
ciascuna emozione, fra i paesi considerati. L'ipotesi di una relativa universalità di almeno alcune emozioni è sostenuta
anche da altre considerazioni: a) se non ci fosse una sostanziale somiglianza transculturale delle risposte emotive, al-
meno per alcune emozioni, non ci sarebbe alcuna possibilità di comprensione inter-etnica e quindi le ricerche etnologi-
che non avrebbero alcun fondamento; b) la continuità funzionale e comportamentale fra gli esseri umani e gli animali
(in particolare i primati) fa ritenere implausibile una radicale discontinuità fra il repertorio di risposte emotive umane e
quello delle risposte emotive animali, scarsamente sensibili alle influenze culturali; c) la natura componenziale della ri-
sposta emotiva, le cui componenti sono relativamente indipendenti, fa ritenere che le condizioni sociali incidano diver-
samente sulle varie componenti, molto meno sulla componente fisiologica che sull'espressione e l'esperienza.
14 Le regole culturali differenziano anche, all'interno di una stessa cultura, fra ruoli culturali diversi; ad es., le femmine sono più espressive dei ma-
schi, ma questa differenza diventa marcata solo fra i 3 anni e mezzo e i 6; questa differenza è facilmente interpretabile come frutto di un apprendi-
mento da parte dei maschi ad inibire l'espressione facciale.
96
Espressione ed emozione
Un'importante componente delle emozioni è l'espressività, in particolare le diverse configurazioni che assume il viso,
con apertura o chiusura degli occhi e delle pupille, cambiamenti del colore della pelle, i movimenti dei 44 muscoli fac-
ciali che fanno muovere la bocca, corrugare la fronte, ecc. Certe espressioni visive sembrano avere un significato uni-
versale (l'ira, per es.); ciò è di supporto all'affermazione di Darwin, secondo cui molti dei modi in cui esprimiamo
un'emozione sono modelli ereditati che in origine avevano un qualche valore per la sopravvivenza. Mentre alcune
espressioni del volto ed alcuni gesti sembrano essere associati in modo innato ad emozioni particolari, altri vengono
appresi dalla cultura. Ogni cultura ha il proprio complesso di regole di esibizione: esse precisano i tipi di emozioni che
si dovrebbero provare in determinate situazioni, e di comportamenti appropriati ad una certa emozione. Alle espressio-
ni fondamentali dell'emozione, che sembrano essere universali, quindi, sono sovrapposte delle forme espressive con-
venzionali: una specie di linguaggio dell'emozione riconosciuto dagli altri all'interno di una stessa cultura, ma spesso
male interpretato da persone appartenenti ad una diversa cultura.
Reazioni al trovarsi in uno stato emotivo
Alcune reazioni sono specifiche dell'emozione sperimentata (ad es. l'avvici-
narsi a qualcuno quando è felice ed il ritirarsi quando è spaventato), altre
reazioni sembrano applicarsi alle emozioni in generale. In particolare, l'es-
sere in uno stato emozionale:
a) Può darci energia o scombussolarci: un medio livello di attivazione
emozionale tende a produrre vigilanza ed interesse per la situazione in atto,
quando però le emozioni – piacevoli o spiacevoli – diventano intense di so-
lito determinano una certa disorganizzazione del pensiero e del comporta-
mento (v. figura, Hebb 1972: il livello ottimale e la forma della curva diffe-
riscono per i diversi compiti: un lavoro abituale, semplice e ben conosciuto,
sarà molto meno suscettibile alla disorganizzazione provocata dall'attivazio-
ne emozionale di quanto non lo sia un'attività più complessa che dipende
dall'integrazione di numerosi processi mentali); per la precisione, ciò che
determina un livello eccessivo di attivazione emozionale dipende dall'indi-
viduo (Tyhurst, 1951). Talvolta tensioni emozionali intense non vengono
rapidamente scaricate, ma continuano a rimanere irrisolte (uno stato cronico di intensa attivazione può dunque essere
dannoso per la salute dell'individuo).
b) Determina ciò a cui rivolgiamo l'attenzione o che impariamo:quando sperimentiamo un'emozione, tendiamo a pre-
stare più attenzione ai fatti che si accordano con il nostro umore che non a quelli che non si accordano; come conse-
guenza, impariamo di più sui fatti che corrispondono al nostro umore. Sappiamo che possiamo imparare meglio conte-
nuti nuovi se li possiamo riferire a informazioni che abbiamo già in memoria; l'umore in cui ci si trova durante l'ap-
prendimento può aumentare la disponibilità di ricordi che si adattano a quello stato d'animo e tali ricordi saranno più
facilmente collegabili ai contenuti nuovi che pure si adattano al medesimo stato d'animo (Brower, 1981; Isen, 1985).
c) Determina il nostro giudizio sul mondo: il nostro umore può influenzare la nostra valutazione degli altri. L'umore
influisce anche sulla valutazione degli oggetti inanimati; influenza anche la nostra valutazione della frequenza dei ri-
schi che possono capitare (Insen et al., 1978; Johnson & Tversky, 1983; Keltner, Ellsworth & Edwards, 1993) [v. an-
che AAppppeennddiiccii 22 e 33].
Competenza emotiva
Nella nostra vita quotidiana sappiamo bene che la nostra esperienza è intessuta di stati d'animo; il saper tener conto
delle qualità emotive in molti aspetti della nostra vita si rivela quindi un aspetto di grande importanza nei rapporti in-
terpersonali ma anche intrapsichici (ideale di sé, motivazione, desideri, sensi di colpa...). Alcuni studiosi hanno così
deciso di introdurre fra le nostre competenze anche la competenza emotiva, come in particolare negli studi di Carolyn
Saarni (1990 e 1999). Riportiamo in sintesi le dieci sottocategorie della competenza emotiva messe a fuoco da questa
autrice, su cui vi è un accordo di massima fra molti studiosi.
1. Consapevolezza dei propri stati emotivi: sia di emozioni semplici e sfumate sia di emozioni complesse, o della
presenza contemporanea di emozioni diverse.
2. Capacità di individuare le emozioni altrui sulla base dei vari indizi espressivi, tenendo conto delle circostanze e le
norme della propria cultura.
3. Competenza linguistica in campo emotivo: l’aspetto attivo comprende la capacità di descrivere a parole stati emo-
tivi anche complessi, distinguendo i vari gradi della stessa tonalità emotiva; l’aspetto passivo consiste nella com-
prensione piena dei termini del linguaggio emotivo. In altre parole, questa competenza si identifica con la ricchez-
za del lessico emotivo.
4. Capacità di coinvolgimento empatico
5. Capacità di rendersi conto che i propri stati emotivi interni non devono necessariamente corrispondere a espres-
sioni esterne – e questo sia riguardo a se stessi sia riguardo agli altri: ciò richiede la capacità di monitoraggio e
controllo del proprio comportamento. nelle esperienze emotive altrui: l’empatia infatti si sviluppa con l’età e con
la maturità affettiva.
97
6. Conoscenza delle regole culturali di manifestazione delle emozioni: si tratta di distinguere le regole di esibizione
dalle regole di sentimento, e nel sapere modulare le manifestazioni delle emozioni a seconda della propria stra-
tegia di presentazione di sé.
7. Capacità di utilizzare le informazioni che si possiedono sulle persone, in modo da inferire correttamente i loro sta-
ti emotivi: è una competenza che incrocia la conoscenza delle persone (esempio, « Maria è impaziente») con quel-
la delle conseguenze («Maria è irritata perché deve aspettare»).
8. Capacità di capire che il proprio comportamento emotivo può avere effetti sugli altri e capacità di modellare il
proprio comportamento in tal senso.
9. Capacità di fronteggiare in modo adattivo emozioni pericolose o disturbanti, mettendo in atto strategie di auto-
regolazione atte a migliorare l’intensità o la durata di tali stati emotivi (capacità di coping). Ad esempio, capacità
di alleviare o disinnescare la propria ansia attraverso comportamenti di routine come lavorare a maglia o fare del-
le riparazioni domestiche.
10. Capacità di accettare le proprie esperienze emotive, sia quando si tratta di stati unici e insoliti sia quando questi
sono prevedibili e convenzionali. Ad esempio, una persona con questa capacità continuerebbe ad avere una buona
autostima e senso di integrità personale anche provando emozioni «proibite» come ad esempio gioia per le di-
sgrazie di qualcuno.
La competenza emotiva è stata applicata in modo approfondito dalla Saarni al modello dello sviluppo socioaffettivo
segnando così le tappe che un individuo normale raggiunge nel processo di crescita.
Intelligenza emotiva
Un altro gruppo di psicologi ha elaborato invece il concetto di intelligenza emotiva, un concetto fondato scientifica-
mente e basato su abilità che possono essere misurate, che variano fra gli individui e che prevedono dei comportamenti
specifici.
Gli studi che hanno contribuito a formare questo concetto sono stati portati a termine principalmente da Peter Salovey
(1990), mentre David Goleman (1995) ha divulgato l’idea presso il grande pubblico. Il principio fondamentale, che
differenzia l’intelligenza emotiva dalla competenza emotiva, è che esista un’intelligenza emotiva che può essere misu-
rata scientificamente con gli strumenti già usati per misurare altre forme di intelligenza (v. la teoria di Gardner: p. 18) e
che può essere definita come la capacità di riconoscere il significato delle emozioni e la loro relazione reciproca, di ra-
gionare sulle emozioni e di risolvere problemi che coinvolgono emozioni. Il modello di intelligenza su cui si è lavorato
è composto da quattro ambiti, e precisamente: a) percepire le emozioni; b) usare le emozioni per facilitare il pensiero;
c) capire le emozioni; d) gestire le emozioni in modo da favorire la crescita personale e i rapporti sociali. Questa impo-
stazione teorica ha dato origine a degli strumenti di misura dei quali uno dei più recenti si chiama Mayer-Salovey-
Caruso Emotional Intelligence Test (MSCEIT; San Francisco, 2000). Oltre ai suoi usi applicativi, questo test ha la fun-
zione teorica di definire chiaramente e di rendere operativo il concetto di intelligenza emotiva. Questo test ha anche un
buon valore predittivo, nel senso che a un alto punteggio di intelligenza emotiva corrisponde, ad esempio, un buon
adattamento in classe; oppure a un punteggio basso una maggiore frequenza nell’uso di droghe. Per chiarire meglio
questo punto, che aiuta a uscire da una certa vaghezza che talvolta aleggia intorno al discorso sulle emozioni, il-
lustreremo qui il modello a quattro ambiti dell’intelligenza emotiva, insieme con esempi di item tratti dal test MSCEIT.
– Primo ambito: «Percepire le emozioni». Abilità coinvolte: identificare le proprie emozioni a partire dai propri sta-
ti fisici e psicologici; identificare le emozioni altrui; esprimere accuratamente le proprie emozioni; discriminare
fra emozioni accurate/corrette ed emozioni confuse/scorrette (esempi di item: facce: identificazione di emozioni
facciali raffigurate; figure: identificazione di emozioni suggerite da fotografie di panorami e disegni astratti.
– Secondo ambito: «Usare le emozioni per facilitare il pensiero». Abilità coinvolte: dirigere e dare delle priorità ai
pensieri sulla base dei sentimenti associati; generare emozioni per facilitare la memoria e il giudizio; approfittare
dei cambiamenti di umore per vedere le cose da molti punti di vista; usare gli stati emotivi per facilitare il problem
solving e la creatività (esempi di item: sensazioni: combinare nomi di colori, sensazioni tattili e gustative con
emozioni specifiche; facilitazione: indicare come l’umore e l’emozione influenzino i processi cognitivi, come
pensare, ragionare, risolvere problemi ed essere creativi).
– Terzo ambito: «Capire le emozioni». Abilità coinvolte: capire la relazione fra le varie emozioni; percepire le cause
e le conseguenze delle emozioni; capire i sentimenti complessi, le emozioni fuse e quelle contraddittorie; capire le
trasformazioni delle emozioni (esempi di item: fusioni: identificare le emozioni incluse in uno stato emotiva-
mente complesso; cambiamenti: sapere come sentimenti ed emozioni si evolvono, oppure si trasformino passando
da uno stato all’altro).
– Quarto ambito: «Gestire le emozioni». Abilità coinvolte: essere aperti ai sentimenti, sia positivi sia negativi; os-
servare le emozioni e riflettervi su; coinvolgersi in uno stato emotivo, prolungarlo o interromperlo; gestire le pro-
prie emozioni; gestire le emozioni altrui (esempi di item: gestione: valutare l’efficacia delle varie strategie che
possono modificare i propri sentimenti; relazioni: valutare le conseguenze di varie strategie sulle reazioni emotive
degli altri).
Secondo gli autori del modello di intelligenza emotiva e del test MSCEIT, i quattro ambiti formano una gerarchia, con
alla base la percezione delle emozioni e al vertice la gestione delle emozioni; infatti la capacità di regolare le emozioni
in se stessi e negli altri è basata sulle capacità richieste per gli altri tre ambiti [v. anche: D. Goleman, Intelligenza emo-
tiva, RCS Libri, Milano 1996; AAppppeennddiiccee 33bbiiss].
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Emozioni e sviluppo
A differenza di quanto si pensava i passato (ad es.: Bridges, 1932), vi è oggi la prova che i neonati mostrano disgusto
per sostanze nocive e piacere per sostanze saporite; hanno espressioni sorprendentemente ben schematizzate di sorpre-
sa, paura, interesse e forse anche di altre emozioni fondamentali. Il comportamento emotivo può cambiare nel corso
della vita a causa delle modificazioni: 1) delle situazioni che causano le emozioni; 2) del comportamento strumentale
volontario motivato dalle emozioni; 3) delle reazioni espressive che indicano l'emozione; 4) degli stati emotivi stessi
che divengono più elaborati con lo sviluppo; 5) delle convenzioni sociali in mutamento rispetto a ciò che è appropriato
provare o esprimere come emozione. 1 = Le emozioni si sviluppano attraverso le modificazioni dell'efficacia delle va-
rie circostanze scatenanti, che risultano dallo sviluppo della percezione, della cognizione e dell'apprendimento. Queste
modificazioni possono aumentare bruscamente la prevalenza di una data emozione nel repertorio di risposta di una
emozione, ma è un errore assumere, sulla base di questi slittamenti di prevalenza, che il processo di risposta stia cam-
biando o che l'espressione emotiva non sia osservabile in precedenza. Ad es.: la risposta del sorriso fiorisce tra le 4 e le
8 settimane di età, ma in certe condizioni è osservabile molto prima (in neonati ciechi, sonnolenti, prematuri...), sembra
che il generarsi del sorriso a questa età risulti dal modo nuovo di vedere il viso e dall'emergere di nuove capacità di
memoria; molti autori ritengono che la paura emerga tra 7 e 9 mesi perché la paura degli estranei, l'angoscia di separa-
zione, la paura dell'altezza e altri stimoli sono subito osservabili a quell'età, ma essa è osservabile molto prima anche in
risposta ad altri eventi: ciò che emerge a 7 mesi può dunque non essere una nuova emozione, quanto una nuova capaci-
tà cognitiva, come l'abilità di prevedere un pericolo futuro anche in assenza di precedenti esperienze di apprendimento
con uno stimolo specifico; si ritiene che anche la tristezza sia un altro stato emotivo non osservabile prima dei 6-8 me-
si, quando la perdita di un oggetto amato è compresa per la prima volta dal neonato, ma recentemente è stato dimostra-
to che la tristezza è osservabile già a 3 mesi e mezzo in condizioni di grave abuso e negligenza parentali). Le modifica-
zioni nell'efficacia delle circostanze scatenanti le emozioni costituiscono quindi un criterio per determinare lo sviluppo.
2 = Lo sviluppo emotivo si verifica anche attraverso le modificazioni delle reazioni individuali di auto-affermazione.
Quando il neonato acquista una migliore competenza motoria e cognitiva, si sviluppano nuove capacità di risposta che
permettono nuovi modi di reagire ai vecchi stimoli stressanti (ad es.: quando il neonato acquisisce la capacità di cam-
minare carponi, può controllare ciò che accade quando un estraneo entra nella stanza o la madre ne esce; così un neo-
nato che poteva essere turbato da un estraneo può non solo evitare la preoccupazione, ma anche mostrare amicizia).
Con il continuare dello sviluppo, le reazioni di auto-affermazione divengono sempre più interiorizzate e i meccanismi
di difesa appropriati iniziano a giocare un ruolo nella regolazione delle emozioni. Crescendo, alcune capacità di auto-
affermazione possono andar perse, portando a sensazioni di impotenza o depressione. Un'altra importante reazione di
auto-affermazione che influenza lo sviluppo emotivo è il prestare attenzione ai segnali sociali: quando i neonati ed i
bambini si trovano di fronte a circostanze ambigue, essi guardano altre persone importanti per ottenere informazioni
emotive che li aiutino a valutare l'evento (e quindi a reagire emotivamente ad esso); questo permette che le emozioni
siano socialmente trasmesse, rendendo capaci gli individui di imitare le risposte emotive senza provare direttamente gli
effetti negativi o positivi delle circostanze in cui quelle risposte si verificano. 3 = Le espressioni emotive possono
cambiare con lo sviluppo (un modo di evolversi delle espressioni emotive è, per es., quello di diventare meno "rumoro-
se"). 4 = Gli stati emotivi subiscono trasformazioni evolutive: essi devono differire notevolmente nelle diverse età per
ciò che riguarda il grado di modificazione della stima, delle reazioni di interazione e degli schemi di espressione che si
verificano nel corso dello sviluppo e il grado in cui questi processi influenzano la prevalenza della qualità degli stati
emotivi; inoltre, gli stessi stati di sensazione si combinano e si sintetizzano in un modo gerarchico notevole: le emozio-
ni fondamentali si intercoordinano in emozioni emergenti di ordine superiore e le emozioni emergenti si combinano in
stati anche più complessi (il senso di colpa è un esempio di emozioni di ordine superiore e richiede vaste capacità rap-
presentative, può essere osservato tra i 18 e i 24 mesi di età; anche la depressione e l'ansia sono emozioni complesse,
così come la vergogna, l'invidia e la gelosia). 5 = Le espressioni emotive diventano socializzate: ogni cultura ha mo-
strato regole che governano la manifestazione dell'espressione delle emozioni. Le emozioni divengono socializzate an-
che attraverso la selezione di canali appropriati per l'espressione [J. J. Campos, K. S. Caplovitz, R. N. Emde, Emozioni
(psicologia dell'età evolutiva), in: R. Harré, R. Lamb, L. Mecacci, Psicologia. Dizionario enciclopedico, Laterza,
1986, pp. 312-315. V. anche: M. Contini, Per una pedagogia delle emozioni, La Nuova Italia, 1992. V. anche: R. Via-
nello, Psicologia dello sviluppo..., cit.: pp. 215-225].
[BD 325-380; DV 361-403; H 392-423; A. Bianchi, P. Di Giovanni, La ricerca socio-psicopedagogica. Temi, metodi e problemi, Paravia Bruno
Mondadori 2000, 27-98; G. B. Vicario, Psicologia generale. I fondamenti, Laterza, 2001, 319-331; Neuroscienze...; Goleman; Borgna; Oatley]
Il Sé
Modi di definire il Sé
In realtà non sappiamo gran che di noi stessi. Il corpo, i pensieri e le emozioni mutano in continuazione. In capo a otto
anni circa nessuno di noi si ritrova più con una sola cellula di tutte quelle che possedeva in precedenza. E i pensieri
mutano ancor più rapidamente. Cosa succederebbe se io perdessi la memoria? Cesserei di essere «me stesso»? Alla no-
stra memoria mancano molti pezzi… In genere si comincia, allora, a descrivere se stessi ricorrendo a delle definizioni-
etichette; ma sono pure descrizioni di me, non di espressioni di quei vissuti profondi e sfuggenti che stanno alla base
della mia vita. Nonostante tali limiti, i giudizi che le persone danno di se stesse assumono grande importanza
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nell’ambito di uno studio del Sé, in quanto ci dicono in che modo le persone vivono la propria esistenza. È proprio
questa immagine di sé, questo insieme di concetti di sé che interessa allo psicologo, dal momento che sono molto pro-
fondi gli effetti che tale immagine ha sul comportamento e la salute psicologica di ognuno.
Da che cosa è determinato il Sé?
Da dove nasce l’immagine che ognuno ha di sé? Nessuno nasce con questa immagine già costruita: il bambino molto
piccolo (che ha una vita mentale fatta verosimilmente di un fiume di percezioni; consapevoli del mondo che li circonda
e delle sensazioni che provengono dall’interno del loro corpo) non è consapevole di se stesso come soggetto distinto e
come unico “titolare” di tanti vissuti diversi. La presa di coscienza di un io distinto e integrato ha luogo non prima del
terzo anno di vita (uno dei motivi per cui tanti bambini, in questo periodo, attraversano una fase particolarmente diffi-
cile: arrivati a scoprire di essere soggetti autonomi, avvertono un forte desiderio di cominciare a far valere la propria
autonomia).
L’importanza dell’apprendimento nella formazione del concetto di Sé
I bambini molto piccoli sanno sì di esistere, ma sanno ben poco della propria esistenza. Sostanzialmente, l’immagine
che un bambino ha di se stesso è un’immagine appresa, ricavata dalle descrizioni fatte di lui da altre persone (uno stes-
so bambino, allevato in due famiglie molto diverse, finirebbe per avere due immagini di sé, una del tutto diversa
dall’altra).
È importante osservare che non basta dire a un bambino che è cattivo perché egli diventi buono, e viceversa; i bambini
piccoli sono in balìa di emozioni molto intense, e il controllo che sono in grado di esercitare sui loro comportamenti è
ancora molto scarso. Essi, poi, vivono molto intensamente il presente, senza pensare al futuro e alle possibili conse-
guenze concrete di una determinata condotta. Nel momento in cui iniziano la scuola, i bambini incontrano nuovi adulti
dotati d’autorità pronti ad affibbiare loro delle etichette. A volte tali etichette (quelle degli insegnanti, per esempio)
vanno a rafforzare quelle che sono state loro attribuite in famiglia; in altri casi sono presenti dei contrasti. I bambini
che in famiglia sono oppressi da un’immagine di Sé negativa finiscono per soffrire ancora di più se questa immagine
viene confermata dalla scuola; e quelli che ricevono una determinata immagine di sé in famiglia e una completamente
diversa a scuola incontrano molte difficoltà a decidere chi realmente sono.
È possibile conoscere il proprio vero Sé?
Kant ha detto che la conoscenza di sé è l’origine di ogni vera conoscenza: e aveva ragione. G. H. Mead (1925) ci pro-
pone di immaginare il sé come un’entità divisa in soggetto e oggetto: io (soggetto) sono consapevole di me (oggetto);
l’io è pura consapevolezza, e il me è costituito dalle cose di me stesso di cui sono consapevole [F,225-229].
Carl Rogers
L’attenzione degli psicologi si rivolge essenzialmente al sé come oggetto: è questo, infatti, l’aspetto del sé che è possi-
bile conoscere, esplorare e modificare. La teoria di Rogers è piuttosto articolata, ma la parte che qui più interessa è
quella relativa ai suoi concetti di organismo, sé e congruenza. L’organismo è la persona nella sua totalità, che racchiu-
de tutti i bisogni fondamentali innati, quali i bisogni inerenti alla sopravvivenza, le emozioni e i sentimenti, le sensa-
zioni, i bisogni sociali; tra questi ultimi il più importante, secondo Rogers, è quello che lui stesso definisce bisogno di
considerazione positiva. Il bambino nasce appunto con questo bisogno di considerazione positiva da parte di altri (os-
sia di accettazione e valorizzazione). È tale esigenza, afferma Rogers, il fondamentale e più forte stimolo alla socializ-
zazione del bambino, ed è proprio questa esigenza, in definitiva, che lo rende obbediente con i genitori e gli insegnanti;
senza una valutazione positiva da parte degli altri, infatti, il bambino non può sviluppare un atteggiamento positivo di
stima nei propri confronti. Se i diversi bisogni dell’organismo trovano appagamento in modo soddisfacente, l’individuo
sviluppa un sé che è in stato di congruenza con l’organismo; in caso contrario si determina un certo grado di incon-
gruenza tra il Sé e l’organismo, ed è proprio tale incongruenza, secondo Rogers, la fonte dei disturbi psicologici. Ro-
gers introduce un altro concetto, quello del sé ideale: è la nostra immagine del tipo di persona che vorremmo essere. Se
vi è congruenza tra sé e sé ideale allora siamo di fronte a una persona equilibrata e integrata; in caso contrario, abbia-
mo una situazione di squilibrio e di disintegrazione della persona. E dal momento che non sempre è possibile che ven-
ga a crearsi un rapporto armonico tra organismo, sé e sé ideale, secondo Rogers si deve ammettere la presenza di un
certo grado di incongruenza in tutti noi; ne deriva come conseguenza che uno dei compiti principali della scuola è pre-
cisamente quello di aiutare i bambini a fare i conti con tale limite. Per il bambino è di importanza decisiva imparare
che le esigenze del suo organismo possono entrare in conflitto con le esigenze dell’organismo degli altri (si rendono
necessari compromessi). Se al fianco dei bambini vi sono adulti equilibrati, che li aiutano a capire che non vi è nulla di
fondamentalmente sbagliato nel voler soddisfare le esigenze dell’organismo, ma che in un mondo fatto di rapporti so-
ciali occorre nel contempo imparare a rispettare anche le analoghe esigenze degli altri, questo tipo di apprendimento e
di socializzazione può aver luogo senza eccessiva incongruenza. In queste condizioni il bambino gode della possibilità
di conoscere e accettare il proprio organismo, e di incanalare le proprie esigenze in forme socialmente approvate; è in
grado, inoltre, di formarsi un’immagine di sé positiva, di persona stimata e capace che possiede una buona conoscenza
di se stesso e la padronanza di sé. In questo modo si crea anche uno stato di congruenza tra il sé e il sé ideale, in quanto
il bambino sente di non essere lontano dalla persona che vorrebbe essere [F,229-231].
Bruner
Il nostro sé si costruisce grazie all’interiorizzazione dei significati culturali e alla condivisione di nuove visioni del
mondo negoziate con altri soggetti. Secondo l’ultimo Bruner (quello della psicologia culturale: dalla seconda metà de-
gli anni Ottanta ai nostri giorni), noi raccontiamo e mettiamo in storia i nostri sé, nel tentativo di dare senso alla pro-
100
pria ed altrui realtà, così concorrendo a ricostruire il sistema culturale di riferimento. Ecco le congetture formulate da
Bruner circa i processi psicologici che supportano lo sviluppo e l’elaborazione del sé (attraverso tali elementi proces-
suali l’individuo costruisce il proprio sé in base alle condizioni culturali in cui si trova a esistere e a interagire con gli
altri):
1. Differenziazione dinamica: progressiva autonomia dagli stimoli contestuali e capacità di produrre azioni intenzionali
e progettate; regolazione del controllo dell’azione mediante il confronto tra risultati e intenzioni.
2. Metacognizione: processo di ordine più elevato, inerente alla capacità di raggruppare e classificare azioni e inten-
zioni, che progredisce con l’acquisizione e il consolidamento del linguaggio.
3. Riconoscimento reciproco: possibilità di produrre segni comunicabili che rendano riconoscibili e visibili le inten-
zioni inerenti alle azioni.
4. Invarianza-continuità: elementi di continuità soggettiva interna ed esterna pur nella variazione e molteplicità delle
circostanze casuali e delle versioni assunte dal sé.
5. Ingresso nella cultura: connessione tra la natura intenzionale della nostra azione e i canoni culturali di riferimento.
Bruner sottolinea la dimensione sociale del sé e la circolarità dinamica tra natura del sé, costruzione del significato e
contesto culturale di riferimento; i nostri atti autobiografici, trasformando la nostra vita in un testo, ci consentono di
individuarci personalmente e contemporaneamente ci collocano culturalmente: il sé si costruisce come esito complesso
di una memoria selettiva, i cui criteri vanno dal recupero di sedimentazioni legate a stati intenzionali, desideri, creden-
ze, alla tendenza al consenso rispetto ad aspettative di comportamento canonico, ordinario di fronte a situazioni comu-
ni, alla differenziazione in rapporto alla diversità di interlocutori, ruoli, situazioni. Prende così corpo un’idea dialogica
e drammaturgica del sé [v. «Vygotskij, Piaget, Bruner» cit., pp.303, 309-310, 326-331].
Misurare il sé
La tecnica del Q-sorting
Utilizzata da Rogers. Vengono preparate diverse carte, su ciascuna delle quali è scritta una frase di autodescrizione; ai
bambini viene chiesto di disporre le carte in cinque mazzi separati, da quello contenente le frasi in cui «mi riconosco di
più» fino al mazzo contenente le frasi in cui «mi riconosco di meno». Vi è una certa tendenza a piazzare la maggior
parte delle carte in un paio di mazzi soltanto, ma è possibile contrastare questa tendenza fissando il numero massimo di
carte che ciascun mazzo può contenere (in genere si vuol tendere ad una distribuzione normale). Indicativamente, 25
carte sono la quantità ottimale quando si esegue la prova con alunni delle scuole secondarie, mentre è opportuno ridur-
re il numero delle carte utilizzate quando si effettua la stessa prova con alunni delle scuole elementari. Ci si può così
fare un’idea di come un alunno vede se stesso.
Il differenziale semantico
Metodo ancor più versatile: su di una scheda intitolata «Che tipo di persona sono io», elenchiamo sotto alcune coppie
di aggettivi, ciascuno separato dal suo contrario da cinque posizioni (gentile - - - - - cattiva; debole - - - - - forte; intel-
ligente - - - - - poco sveglia; stimata - - - - - non stimata; bruttina - - - - - carina). Ogni soggetto viene invitato a mettere
un segno di spunta, all’interno dello spazio che separa un aggettivo dal suo contrario, scegliendo quella posizione che a
suo parere meglio rappresenta la distanza della sua immagine di sé da ognuno dei due aggettivi di ciascuna coppia. Se
poi vogliamo confrontare l’immagine di sé di un bambino con l’immagine che di lui hanno gli altri, possiamo chiedere
ai suoi insegnanti e ad altre persone che lo conoscono bene di compilare un modulo analogo pensando a lui... [F,231-
232].
George Kelly
[v. anche “Gli stati della personalità” p.84] L’ipotesi di partenza è che l’essere umano sia per natura curioso: desidera
comprendere il mondo e dare un senso alla propria esistenza, e nella vita di tutti i giorni procede in modo molto simile
a quello dello scienziato (esplora, sperimenta, costruisce ipotesi sulla realtà, avanza previsioni sul futuro, elabora stra-
tegie e procedure). Kelly definisce costrutti personali ciascuno di questi modi con i quali ognuno si sforza di orientarsi
nel mondo. Questi costrutti, che noi tutti possediamo per ogni aspetto della nostra vita, sono essenzialmente i mezzi at-
traverso cui definiamo e comprendiamo l’esistenza, e una volta formatisi influenzano il modo in cui interpretiamo gli
avvenimenti futuri. Non esistono due persone che abbiano costrutti identici: appartiene esclusivamente a noi, e inevita-
bilmente permea le nostre reazioni. Anche i costrutti dei singoli alunni relativi alla scuola e a tutto ciò che con essa ha
a che fare influiscono profondamente sulla loro riuscita scolastica: essi possiedono costrutti riguardo a tutte le materie
del programma, agli insegnanti, alle proprie capacità, agli obiettivi che si prefiggono, alla classe di cui fanno parte e ai
compagni di classe. Kelly ha individuato tutta una serie di tipologie di costrutti personali;. Eccone alcune:
costrutti generici: vengono utilizzati in maniera generalizzata;
costrutti rigidi: hanno un’applicazione specifica, e “franano” completamente se non sono sorretti da valide prove;
costrutti elastici: possono variare a seconda delle circostanze;
costrutti chiusi: sono decisamente resistenti al cambiamento;
costrutti circoscritti: hanno un’applicazione ben delimitata;
costrutti centrali: riferiti al sé, sono di vitale importanza al fine di preservare l’identità personale.
Naturalmente maggiore è la capacità del bambino di formarsi costrutti positivi in merito alla scuola (specialmente
quando si tratta di costrutti chiusi o generici), maggiori sono la sua capacità di ottenere buoni risultati nelle attività
scolastiche e la probabilità di trarne soddisfazione. Ma la scuola di solito non si rende conto di come l’impegno a inco-
101
raggiare negli alunni la formazione di costrutti maggiormente positivi costituisca un aspetto metodologico che ha la
stessa importanza dell’effettiva trasmissione e verifica delle conoscenze inerenti alle materie di insegnamento.
La griglia del repertorio
È un metodo che serve a far emergere le somiglianze e le differenze che ogni individuo osserva tra le persone e tra le
cose che incontra nella sua vita. Se siamo, ad esempio, interessati a conoscere le caratteristiche del costrutto centrale
Sé in un determinato bambino, possiamo iniziare col chiedergli chi sono nella sua vita le persone più importanti; man
mano che egli le nomina, noi scriviamo il nome di ciascuna persona su una carta diversa, e poi aggiungiamo al mazzo
una carta intitolata «me stesso». Il passo successivo consiste nel mescolare le carte e nell’estrarre poi dal mazzo tre car-
te a caso: si invita il bambino a guardare il nome scritto sopra le carte e a dire in che cosa una delle tre persone in og-
getto differisce dalle altre due. Dopo aver accolto la sua risposta (senza obiezioni), assieme a lui andiamo a vedere tutti
gli altri nomi, applicando a ciascuno la distinzione prima rilevata. Fatto questo, rimettiamo queste tre prime carte nel
mazzo, mescoliamo ed estraiamo altre tre carte; invitiamo nuovamente il bambino a dirci in che cosa una di queste per-
sone è diversa dalle altre due. Come prima, poi, applichiamo la distinzione fatta dal bambino a tutti gli altri nomi, do-
podiché rimettiamo le tre carte nel mazzo, rimescoliamo, estraiamo altre tre carte e ripetiamo il gioco. Non ha impor-
tanza se uscirà più volte la stessa combinazione di tre nomi: continuiamo a porre la stessa domanda fino a quando il
bambino ha esaurito la elencazione di tutti gli aspetti per i quali le persone che ha riconosciuto come importanti per lui
si somigliano e si differenziano (dopodiché inizia a ripetersi). A questo punto conosciamo tutte le somiglianze e le dif-
ferenze in questione, pertanto conosciamo tutti i modi in cui il bambino percepisce le persone importanti della sua vita
e tutti i modi in cui vede se stesso. I risultati ottenuti si possono rappresentare in una griglia (un’entrata per i nomi;
l’altra per gli eventi, le risposte, cioè, date dal bambino a proposito degli aspetti da descrivere), e dall’osservazione di
questa griglia possiamo capire a colpo d’occhio il modo in cui ogni singolo bambino vede se stesso e le persone per lui
più importanti (o altri aspetti).
Thomas e Harri-Augstein (1985) ritengono che le possibilità di questa griglia del repertorio siano praticamente infinite
(anche da utilizzarsi su computer).
I costrutti si possono modificare
Kelly afferma che ciascuno di noi percepisce la realtà in modo personale, e che questa visione personale è essenzial-
mente una conseguenza dell’apprendimento. Più riusciamo a prendere coscienza dei nostri costrutti, più si rafforza la
nostra capacità sia di scoprire i cambiamenti auspicabili sia di attuarli concretamente. E maggiore è la nostra cono-
scenza dei costrutti degli altri, migliora diviene la nostra capacità di aiutare loro stessi a modificarli. Il sé è semplice-
mente un costrutto appreso come tutti gli altri... [F,232-236].
L’autostima
Come si forma
Le ricerche di Stanley Coopersmith
Ha studiato un campione di bambini di 10 anni, e ha continuato a seguirli nel loro percorso evolutivo fino all’inizio
dell’età adulta. In base a test psicologici e di autovalutazione, ha suddiviso il suo campione in gruppi: con autostima
«elevata», «media» e «bassa». I soggetti di autostima elevata sembravano possedere quella che Rogers chiama con-
gruenza: mostravano di possedere una visione positiva e realistica di se stessi e delle proprie capacità, erano sicuri di
sé, non eccessivamente preoccupati dalle critiche, ed esprimevano soddisfazione nel partecipare alle varie attività; ma-
nifestavano creatività e spirito di iniziativa in tutto quello che facevano, e in generale ottenevano successo sia negli
studi sia nei rapporti sociali. I soggetti di autostima media mostravano di possedere molte delle stesse qualità, ma erano
più conformisti, meno sicuri del proprio valore e più ansiosi di essere accettati dagli altri. I soggetti con un basso livel-
lo di autostima venivano invece descritti da Coopersmith come un gruppo di bambini malinconici, isolati, paurosi, ri-
luttanti a unirsi agli altri nelle attività, insicuri e ipersensibili alle critiche; tendevano regolarmente a sottovalutarsi, a
rendere meno dei compagni di classe nelle attività scolastiche, e passavano buona parte del tempo a rimuginare sui
propri problemi personali. I bambini di tutti e tre i gruppi appartenevano a famiglie della classe media; e non vi erano
differenze significative, tra i vari soggetti, per nessuna di altre variabili importanti (intelligenza, attraenza fisica...).
L’unica differenza sostanziale fra i tre gruppi, invece, riguardava le situazioni di rapporto tra i bambini e i loro genito-
ri: i bambini con spiccata autostima provenivano da ambienti familiari nei quali erano considerati persone importanti e
interessanti, e le loro opinioni e i loro punti di vista erano rispettati (godevano, cioè, di quella considerazione positiva
la cui importanza è stata ben evidenziata da Rogers); i genitori di questi bambini possedevano modelli più elevati e più
coerenti dei genitori dei bambini degli altri due gruppi, e i loro metodi di disciplina erano meno incostanti (escludeva-
no le punizioni corporali, senza tuttavia sconfinare nel permissivismo, per affidarsi invece alle ricompense per i buoni
comportamenti e al ritiro dell’approvazione per i cattivi comportamenti). Questi genitori conoscevano molte cose dei
figli, manifestavano nei loro confronti un affetto tangibile e facevano capire loro con chiarezza, in tutti i modi possibili,
che li consideravano persone importanti; e questi bambini dichiaravano di sentirsi trattati in modo giusto dai loro geni-
tori. Il contrario accadeva presso le famiglie dei bambini con scarso livello di autostima. Le conseguenze di tutto ciò
sui risultati scolastici di questi bambini erano notevoli.
102
Il valore degli alunni agli occhi dell’insegnante
I genitori hanno di solito sui figli un’influenza maggiore di quanta non ne abbiano gli insegnanti, ma il bambino tende
a interiorizzare e a fare propria l’immagine che di lui ha l’insegnante allo steso modo in cui interiorizza e fa propria
l’immagine che di lui hanno i genitori.
Altri fattori che influiscono sull’autostima
Un limite rintracciabile nelle ricerche di Coopersmith consiste nel fatto di non aver preso in esame l’influenza esercita-
ta sull’autostima dalle condizioni socioeconomiche e dal sesso. È infatti accertato che i bambini appartenenti a famiglie
di classe operaia hanno generalmente un livello di autostima inferiore a famiglie di condizioni socioeconomiche più
elevate: i primi tendono a trovare continue conferme della propria presunta “inferiorità” nelle condizioni di degrado
del loro ambiente, nella scarsità delle strutture di cui possono disporre, nello stato di incuria o di abbandono degli edi-
fici scolastici in cui si recano abitualmente e così via. Naturalmente genitori e insegnanti possono fare molto per con-
trastare la ingiustificata sensazione di questi bambini di valere meno dei coetanei di famiglia più agiata, ma certo non è
un compito facile. Nei componenti dei gruppi delinquenziali tendono a prevalere bassi livelli di autostima, e spesso gli
atteggiamenti da “duri” e i comportamenti antisociali tipici di chi appartiene a questi gruppi appaiono dettati dal tenta-
tivo di migliorare (e difendere) l’autostima... In genere i livelli di autostima delle bambine sono inferiori a quelli dei
maschi: ciò sembra in gran parte dovuto all’azione di fattori culturali e alla condizione generale delle donne nella so-
cietà (benché possano influire anche la muscolatura più forte e la maggior altezza che raggiungono i maschi al culmine
della crescita) [F,237-241].
Come incoraggiarla
È importante anche stimolare tutti gli alunni a sforzarsi di esplicitare la loro immagine di sé: come sottoporre ad analisi
critica un concetto negativo di se stessi se non si riesce prima a definirlo? L’insegnante farebbe bene ad essere sempre
attento a cogliere i momenti nei quali è possibile osservare il modo in cui gli alunni stessi vedono i propri successi e
insuccessi; spesso i bambini sanno essere molto abili nel celare i propri sentimenti, persino a se stessi. È essenziale as-
segnare sempre a ciascuno compiti proporzionati alle sue reali possibilità, mettere in evidenza i buoni risultati ottenuti
anziché continuare a insistere sugli insuccessi, riconsegnare personalmente agli alunni un compito ogni qual volta sia
possibile, e con pacate parole di incoraggiamento. È importante anche aiutare gli alunni a capire i loro errori e a trarne
beneficio, scegliere con cura le parole ogni volta che si intende rivolgere delle critiche a un alunno, e impegnarsi a fare
in modo che tali parole di critica riguardino il tipo di lavoro che l’alunno ha svolto e non lui in quanto persona; occorre
inoltre sottolineare sempre, sia con il proprio comportamento sia con le proprie parole, che ogni alunno, in qualunque
circostanza, conserva immutati il rispetto e la stima dell’insegnante [F,241-242].
La valutazione dell’autostima
L’insegnante può notare se gli alunni partecipano o meno alle attività scolastiche, se sono eccessivamente intimoriti
dalle critiche, se manifestano un insolito bisogno di attenzione, se si arrendono di fronte agli insuccessi o se invece ac-
cettano la sfida, se posseggono una visione realistica delle proprie capacità e dei traguardi che si prefiggono di rag-
giungere in futuro, se dimostrano, insomma, di saper riconoscere correttamente il proprio valore e i propri diritti fon-
damentali di esseri umani. Si possono incoraggiare gli alunni a tradurre in parole i vissuti che hanno di se stessi (usan-
do magari la terza persona, o facendo ricorso a recitazioni [e burattini o altro...]). Bisogna naturalmente evitare di
spingere l’alunno a rivelare troppi aspetti della propria vita intima di fronte ai compagni; e bisogna pure non voler trar-
re troppe conclusioni da una cosa che a un alunno capita di dire. Si può ricorrere al metodo del differenziale semantico,
al metodo del Q-sorting, alla griglia del repertorio [v. p.100]. È però facile cadere nell’effetto alone [v. appunti di Gat-
ta F. sulla Valutazione], o nel suo opposto, l’effetto demonizzazione. Un’ulteriore fonte di informazioni è costituita
dall’osservazione del rapporto di un alunno con i suoi coetanei: appare fiducioso e sicuro di sé? è capace di difendere i
propri punti di vista, di farsi valere quando necessario, di manifestare spirito d’iniziativa e di dirigere gli altri? affronta
con entusiasmo il lavoro di gruppo? lo ascoltano i compagni quando parla? ottiene l’aiuto dei compagni in caso di bi-
sogno? o i compagni tendono invece a canzonarlo, ad ingannarlo, ad ignorarlo? che posizione occupa agli occhi degli
altri? Molto spesso coloro che vengono sottovalutati dai coetanei si sottovalutano a loro volta; queste due forme di sot-
tovalutazione si influenzano e si alimentano a vicenda [v. l’effetto Pigmalione: appunti sulla Valutazione di Gatta F.].
È necessario stare attenti a quei bambini che sono esageratamente aggressivi nei rapporti con gli altri, o che in genera-
le si rendono insopportabili: spesso i tentativi messi in atto da questi bambini per ottenere la supremazia, o per far col-
po sugli altri, deriva dal loro bisogno di migliorare l’autostima. Ogni qual volta un alunno manifesti il desiderio, spro-
porzionato alle reali necessità di quel dato momento, di imporsi ad ogni costo all’attenzione degli altri, l’insegnante
può supporre di trovarsi di fronte a un problema avente a che fare con la stima di sé [F,242-244].
La maturità personale
La visione che un individuo ha di sé subisce continue modificazioni, soprattutto nell’età evolutiva. Possiamo pensare ai
cambiamenti come a dei passi compiuti in direzione della maturità personale: cioè verso un concetto di Sé insieme
realistico e improntato all’accettazione di se stessi, e contenente una valutazione del Sé complessivamente in sintonia
con la valutazione espressa dagli altri. Esistono svariate teorie psicologiche in proposito, ma una delle più utili per
l’insegnante è quella formulata da Erik Erikson (1959): egli sostiene che ognuno, per tutto l’arco della propria vita, de-
ve affrontare diversi compiti di apprendimento, ciascuno dei quali deve essere risolto e portato a termine in modo sod-
103
disfacente prima di passare ad affrontare il successivo. Se quando si affronta uno di questi compiti l’esito è
l’insuccesso, l’evoluzione successiva viene compromessa, sicché, per poter raggiungere la piena maturità, prima o poi
ci si troverà a dover tornare indietro per risolvere quello che non si è risolto a suo tempo [v. anche «Lo sviluppo» in
generale: p.32; in partic. “Lo sviluppo affettivo”: p.42].
Gli otto stadi di Erikson
1. Prima infanzia = Fiducia/sfiducia (Freud: Stadio orale, 0–18 mesi): il bambino piccolo ha bisogno di imparare che
può fidarsi degli altri, e che può contare su di loro per il soddisfacimento dei suoi bisogni fisici ed emotivi; tale fiducia
costituisce per lui una solida base che gli consente di muoversi alla scoperta del mondo con una buona sicurezza di sé.
Importante l’influenza della madre; necessarie interazioni calde e amorevoli.
2. Tarda infanzia = Autonomia/dubbio e vergogna (Freud: Stadio anale, 18 mesi–2-3 anni): le crescenti capacità fisi-
che e psicologiche consentono una prima forma di indipendenza dagli altri; via via che cresce, il bambino avverte
l’esigenza di una progressiva libertà di esprimere i propri desideri e di compiere scelte autonome. Se gli capita di avere
a che fare con adulti che in questa ricerca di autonomia non vedono null’altro che testardaggine e trasformano tutto in
uno scontro di volontà diverse o in una prova di forza, il bambino finisce per sentirsi confuso e pieno di dubbi su di sé,
e può persino arrivare a vergognarsi del suo stesso desiderio di conquistare una maggiore indipendenza. Anche la fase
negativa dei tre anni è segno salutare degli inizi dell’autonomia, e deve essere accolta con comprensione, sensibilità e
paziente fermezza: il bambino impara così che la sua autonomia è ben accetta, e insieme si rende conto che esistono
limiti ragionevoli che deve rispettare. Importanti il sostegno dei genitori, l’imitazione.
3. Prima fanciullezza = Iniziativa/senso di colpa (Freud: Stadio fallico, 2-3–6 anni): lo spirito di iniziativa aggiunge
all’autonomia la più specifica qualità dell’intraprendere: il bambino è ora in grado di prendere delle iniziative e di in-
traprendere determinate attività ogni volta che sente di esserne capace, e se ne assume la responsabilità. Se gli adulti
contrastano e ostacolano le iniziative del bambino facendogli sentire per qualche verso inaccettabile questa sua aspira-
zione, il bambino finisce per ritrovarsi con sentimenti di colpa e di dubbio su se stesso, e con la sensazione che in que-
sti suoi desideri e aspirazioni ci sia qualcosa di seriamente sbagliato. Importanti il sostegno dei genitori,
l’identificazione.
4. Media fanciullezza = Industriosità/inferiorità (Freud: Stadio di latenza, 6-11 anni): il bambino deve imparare a fare
le cose con cura e a sviluppare le capacità necessarie per risolvere i problemi immediati; se non vi riesce, compaiono
allora sentimenti di inferiorità e di scarsa autostima. Importanti di scuola e insegnanti, l’apprendimento e l’educazione,
l’incoraggiamento.
5. Adolescenza = Identità/diffusione d’identità (Freud: Stadio genitale, 11 anni ed oltre): stadio caratterizzato dalla
ricerca di identità. Importanti i coetanei e i modelli di ruolo, le pressioni sociali.
6. Inizio età adulta = Intimità/isolamento (Freud: Stadio genitale, prima età adulta): ricerca di un legame profondo
con un’altra persona o con altre persone. Importanti coniuge, colleghi, partner, società.
7. Fase intermedia dell’età adulta = Generatività/egocentrismo (Freud: Stadio genitale, età adulta): aspirazione a
svolgere ruoli creativi e appaganti. Importanti coniuge, figli, amici, colleghi, comunità.
8. Tarda età adulta = Integrità/disperazione (Freud: Stadio genitale, terza età): conquista dell’accettazione di sé: di-
scende dal rendersi conto di aver fatto del proprio meglio nel corso della propria vita e di aver sfruttato il più possibile
le occasioni e le opportunità che via via si sono presentate. Importanti amici, parenti, figli, coniuge, comunità, sostegno
religioso.
Erikson non è preciso circa le età in cui sono collocabili gli stadi della maturità personale, e riconosce l’esistenza di
ampie differenze tra gli individui [F,244-247; L,59-61].
La maturità personale e la scuola
Il lavoro di psicologi come Erikson, Rogers e Maslow ci offre un quadro di ciò che nel complesso caratterizza una per-
sona matura: essa possiede un insieme di qualità che la rende un essere umano equilibrato e capace, consapevole del
proprio valore, che sa mettersi nei panni degli altri ed essere franco e cordiale nei rapporti con loro, anziché usarli per
il proprio tornaconto o come strumenti di compensazione delle proprie inadeguatezze. In molti casi il compito
dell’insegnante è quello di incoraggiare le qualità che sono già presenti negli alunni piuttosto che tentare di crearne di
nuove da zero: se si vuole che i bambini manifestino la loro maturità e agiscano responsabilmente verso se stessi e ver-
so gli altri, è necessario offrire loro il giusto tipo di opportunità.
Una definizione della personalità matura
Secondo Gordon Allport, l’individuo, a mano a mano che percorre i vari stadi dello sviluppo della personalità in dire-
zione della maturità, diventa una persona progressivamente più integrata e coerente. I bambini, infatti, ai primi stadi di
questo percorso evolutivo, posseggono un certo numero di tratti della personalità piuttosto diversi tra loro che magari
mettono in gioco in modi contraddittori nei rapporti con gli altri; con progredire dell’età questi tratti della personalità si
riuniscono formando quelli che Allport chiama i Sé, che in una fase successiva si integrano in un’unica personalità. Nel
modello di Allport, un segno indicante che non si è ancora raggiunta la maturità personale è il fatto che una persona si
comporti in modi contraddittori, che cambi comportamento, in altre parole, a seconda delle circostanze.
La persona matura, oltre a distinguersi per questa linea di condotta unitaria e coerente nelle diverse situazioni della vi-
ta, possiede anche, secondo Allport (1961), le seguenti caratteristiche:
una coscienza di sé non angusta (capacità di immedesimarsi nelle preoccupazioni e nelle difficoltà degli altri co-
me nelle proprie, nonché di offrire comprensione e solidarietà):
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capacità di altruismo e di calore affettivo;
sicurezza emotiva;
conoscenza di sé (capacità di osservare, valutare e giudicare se stessi in modo realistico);
un atteggiamento realistico verso il mondo (capacità di formulare giudizi equilibrati e di prendere le decisioni ne-
cessarie);
una filosofia di vita unitaria (visione armonica e coerente del senso della vita, che aiuta a risolvere i problemi ine-
renti ai valori e a definire le mete della propria vita).
Non si deve dimenticare l’influenza che può esercitare il temperamento sul percorso evolutivo individuale nella con-
quista della maturità; ma in complesso molte delle qualità sopra descritte sembrano dipendere in gran parte
dall’apprendimento. Allport, beninteso, non ci dice che dobbiamo aspettare di essere adulti per possedere una delle
qualità che caratterizzano la maturità personale; queste qualità possono anche formarsi in tempi diversi e in gradi diffe-
renti [F,247-250].
L’identità personale
L’identità personale (che ha a che fare con uno stadio di sviluppo associato soprattutto all’adolescenza) è, fondamen-
talmente, la somma totale delle idee che ciascuno ha di sé; in questo senso si può anche dire che un abbozzo di senti-
mento di identità personale è presente già nella prima infanzia, oltre che in tutti quegli stadi precedenti l’adolescenza
nei quali ci si trova ad affrontare i compiti descritti da Erikson. Tuttavia, quando parliamo di identità personale inten-
diamo più precisamente un’identità nella quale le suddette diverse idee di Sé siano giunte a fondersi in una forma ar-
monica e coerente in modo da offrire all’individuo un’immagine ragionevolmente completa del tipo di persona che sta
diventando, e questo tipo di coerenza (stabile ma non immobile) inizia ad emergere, in genere, non prima
dell’adolescenza.
Nel periodo dell’adolescenza la ricerca dell’identità personale è spesso accompagnata da molta sperimentazione (varie
forme di comportamento). Per aiutarsi i questo processo, spesso l’adolescente si ispira a delle figure che adotta come
modelli di comportamento, il cui stile di vita e i cui valori ritiene degni di imitazione; poiché spesso l’identità si espri-
me attraverso il gruppo di persone di cui fa parte, diventa molto importante anche il gruppo dei coetanei, al punto che
l’adolescente può arrivare a cambiare il proprio comportamento pur di essere accettato dal suo gruppo (e può anche
adottare comportamenti che considera sessualmente attraenti).
Imparare ad essere adulti
Nella nostra complessa società industrializzata manteniamo i giovani in un ruolo subalterno per molto tempo dopo che
hanno raggiunto la maturità fisica, e lo facciamo perché ci sembra che siano tantissime le cose da imparare; in questo
modo, però, imponiamo spesso degli sforzi eccessivi ai giovani. Inoltre, nonostante la loro maturità fisica, le loro in-
tense pulsioni sessuali e altri cambiamenti emotivi, gli adolescenti si vedono in realtà offrire ben scarso aiuto ai fini
della comprensione di che cosa significhi essere adulti. Nelle società meno complesse delle nostre i bambini apprendo-
no lavorando a fianco dei genitori, e via via che crescono prendono coscienza di cosa vuol dire essere adulti e di quali
sono i diritti e le responsabilità che la condizione di adulto comporta. A un certo punto, nel corso del periodo puberale,
viene loro conferito lo statuto di adulti, spesso nel contesto di un preciso rito di iniziazione, e da quel momento in poi
essi vengono riconosciuti membri della comunità a pieno titolo. C’è chi ha avanzato la tesi secondo cui quella che nelle
società industriali avanzate chiamiamo adolescenza sarebbe essenzialmente un fenomeno culturale, e a creare
l’adolescente ribelle non sarebbero affatto lo «scatto di crescita adolescenziale» e i cambiamenti fisiologici che
l’accompagnano, bensì la società stessa con i metodi artificiali che adotta nel rapportarsi ai giovani. Secondo Erikson,
la conseguenza della mancata formazione dell’identità è la confusione dei ruoli: non vi è una chiara idea del tipo di
persona che si è né del proprio ruolo nella vita. In persone di questo tipo si possono osservare i diversi Sé menzionati
da Allport, o la scarsa autostima e l’insicurezza dei soggetti studiati da Coopersmith, o il senso di incertezza, i dubbi su
se stessi e le continue auto-accuse che caratterizzano certe forme di condotta nevrotica. Ma secondo Erikson non è det-
to che nella vita di una persona questi aspetti siano destinati inevitabilmente a tradursi in altrettanti insuccessi [F,250-
251,253].
Sapere ed essere
In tutti i gradi di scuola possiamo riconoscere due sfere principali reciprocamente legate: sfera del sapere e sfera
dell’essere: la prima riguarda dati, fatti, tecniche, strategie e modelli di pensiero che entrano in gioco
nell’apprendimento del complesso delle conoscenze relative alle diverse materie di studio (si indaga con gli esami),
mentre la seconda riguarda il tipo di vissuto che ciascuno ha della propria vita (è la sfera dei sentimenti, ed è innanzi-
tutto qui che si può conquistare il benessere psicologico). Entrambe le sfere sono importanti, ma l’istruzione formale si
occupa quasi soltanto della sfera del sapere: che deve nutrire l’essere per poter avere realmente valore per l’individuo
[F,253-254].
Le problematiche adolescenziali
Sul piano cognitivo l’adolescente ha in genere raggiunto lo stadio delle operazioni formali [v. lo sviluppo in generale:
p.32]; di conseguenza, molti dei concetti inerenti alla religione, alla politica e ai rapporti sociali iniziano ad assumere
per il giovane significati più profondi e più complessi, e spesso accade che l’adolescente metta in discussione i com-
portamenti e le scelte della generazione degli adulti in ordine a queste sfere così importanti. L’adolescenza viene spes-
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so descritta come un periodo di idealismo: che può anche riflettersi nel tipo di obiettivi che a un certo punto
l’adolescente sceglie di darsi per la sua vita. Ne consegue spesso una caduta di comprensione tra l’adulto e
l’adolescente, che si rende evidente anche tutte quelle volte in cui ci dimostriamo incapaci di renderci conto che esso,
al di là della grande fiducia in se stesso che magari ostenta, in realtà è spesso in balia dell’insicurezza. Fino a quando è
nel pieno della sua ricerca di identità, l’adolescente non ha mai la sicurezza che nel mondo degli adulti la persona che
sta diventando sarà accettata e saprà dimostrarsi capace. Benché l’adolescente possa dare l’impressione che ai suoi oc-
chi genitori e insegnanti ormai non contino più, nondimeno il loro sostegno e la loro buona opinione continuano ad
avere per lui grande importanza [F,251-252].
Il periodo della preadolescenza
Inizia all’incirca verso la seconda media, occupa gli altri due anni della scuola media e si estende anche al primo anno
della scuola superiore. Durante tale periodo si presentano, quasi tutti insieme, molti problemi personali che investono il
ragazzo provocando in lui disorientamento e talvolta anche un vero e proprio sconvolgimento, per il senso che prova di
non essere in grado di fronteggiarli, di esserne travolto.
Il periodo successivo, dell’adolescenza vera e propria
Vede il presentarsi di nuovi e rilevanti problemi (ad esempio, quelli delle «scelte di vita»), ed è caratterizzato da una
crescente capacità di far fronte ai problemi personali, di riflettere su di essi, e quindi di un atteggiamento generalmente
più costruttivo.
La crescita fisica
L’accelerazione dello sviluppo fisico è una prima novità: si verificano ora, in breve tempo, modificazioni ben visibili
nell’altezza, nel peso, nelle proporzioni fra le sue varie parti. Ciò determina una temporanea rottura dei coordinamenti
[v. anche la muta della voce], e una sorta di impigrimento a livello mentale (Claparède parlava di «principio
dell’alternanza»: quando il corpo cresce rapidamente la mente sembra «addormentarsi», e viceversa). Un corpo in ra-
pida trasformazione richiama su di sé l’attenzione del ragazzo, che comincia a confrontarsi con gli altri, a viversi come
diverso da loro, come fuori dalla norma; comincia ad osservarsi di più allo specchio, scoprendo una quantità di partico-
lari che «non gli piacciono», che lo fanno soffrire.
La maturazione puberale
Più graduale nei maschi, più improvvisa nelle ragazze, in quanto caratterizzata dall’apparire del flusso mestruale. Ne
deriva, per queste ultime, oltre a una temporanea situazione di nervosismo e di maggiore affaticabilità (sindrome pre-
mestruale), una serie di preoccupazioni per un fenomeno che, nella perdurante assenza di ogni forma sistematica di in-
formazione sessuale, presenta lati oscuri, preoccupanti (con ansia, e certa resistenza ad apparire in pubblico). Nei ra-
gazzi può essere presente la preoccupazione che l’ingrossamento dei genitali appaia sotto gli abiti attillati, soprattutto
in caso di erezione. Situazioni di ansia sono poi causate, negli uni e nelle altre, da un ritardo rispetto ai coetanei nella
maturazione puberale (spesso vissuto come segno di inadeguatezza).
Il ritorno della pulsione sessuale
Dopo il lungo periodo di latenza, si manifesta come sessualità etero-centrata, e hanno luogo i primi innamoramenti le
“cotte”). Si manifesta tuttavia anche come sessualità auto-centrata: la masturbazione, fenomeno assai generale, che ri-
guarda in misura maggiore i ragazzi (spesso generatrice di sensi di colpa).
I rapporti con i genitori
Col riapparire della sessualità, riemerge anche il complesso di Edipo, che l’adolescente vive ora come una cosa sgra-
devole, come una minaccia per l’Io a causa della sua connotazione incestuosa. Uno dei compiti dell’adolescenza è allo-
ra il definitivo superamento di questo complesso, col trasferimento degli investimenti emotivi di carattere erotico su
persone diverse da quelle dei genitori, e con una temporanea svalutazione delle figure dei genitori, con i contrasti e i
sensi di colpa che ciò comporta, e che si attenueranno verso il termine dell’adolescenza quando generalmente ha luogo
un riavvicinamento ai genitori, una loro «rivalutazione».
I rapporti con gli insegnanti
Si determinano situazioni di conflitto quando gli insegnanti non sono disposti ad accettare discussioni alla pari, tendo-
no a non dare peso alle opinioni personali degli allievi, a non riconoscere né il loro bisogno di autonomia, né il rilievo
che possono avere certe esperienze culturali intraprese da questi ultimi al di fuori dei programmi scolastici. Un pro-
blema in più è quello dell’impiego dell’energia in larga misura in direzioni diverse da quella del lavoro scolastico (ge-
nerale caduta dell’impegno nello studio, con conseguenti ansie relative ad insuccessi, brutti voti, bocciature). Gli inse-
gnanti si vedono costretti a trovare metodi efficaci per richiamare nella direzione delle attività scolastiche l’energia: la
via maestra è quella di fare in modo che le varie aree dei problemi personali, dei bisogni di crescita più profondi ed es-
senziali, ove affluisce in continuità energia, vengano direttamente o indirettamente posti in comunicazione con le atti-
vità di apprendimento che la scuola propone. Già il dare un ampio spazio, nella trattazione di un certo argomento, a
una discussione di gruppo “alla pari” viene incontro a un bisogno personale profondo. Inoltre, vi sono molti contenuti
106
dei programmi che, a un’attenta analisi, presentano rapporti diretti o indiretti con le problematiche adolescenziali, rap-
porti che devono essere evidenziati.
Il gruppo dei coetanei
Ulteriore elemento di novità è il ruolo di punto di riferimento essenziale che assume a questa età il gruppo dei coetanei
[v. anche p.107]: il gruppo soddisfa molti bisogni.
I gruppi omogenei della preadolescenza
La “banda” dei ragazzi, il “club” delle ragazze, rassicurano, in una situazione di conflitto con gli adulti; vi è poi il bi-
sogno di discutere in condizioni di reale parità, e di compiere esperienze di luoghi e situazioni nuove (essere in tanti
facilita ciò).
I gruppi misti dell’adolescenza
Le “compagnie” forniscono, oltre a quanto visto sopra, una risposta al bisogno di conoscere e di interagire concreta-
mente con coetanei dell’altro sesso, e la possibilità di sperimentare le proprie capacità sociali e di conoscere meglio se
stessi.
Tuttavia la vita all’interno del gruppo suscita anche problemi, ansie, preoccupazioni: gelosie, incompatibilità di carat-
tere, il sentirsi rifiutati da alcuni membri del gruppo, l’ansia di non saper assolvere a certe funzioni o di fare brutta fi-
gura nei confronti di coetanei dell’altro sesso, i genitori che disapprovano o ostacolano [Pe,158-166].
Gruppi, comportamento sociale e abilità sociali
L’insegnamento e l’apprendimento si realizzano in buona parte attraverso le interazioni sociali.
Sotto la spinta di diverse forze (attrattivo-repulsive, gerarchiche, disgregatrici...), la classe acquisisce gradualmente una
propria «personalità» sociale che la rende nettamente diversa da tutte le altre classi analoghe [F,259-260].
Il comportamento sociale e le abilità sociali
Sembra che la maggior parte di noi non sia in grado di analizzare le esperienze sociali e di migliorare le proprie abilità
sociali; né sembra che l’istruzione formale, per altro, faccia granché per insegnarci queste capacità.
Le interazioni diadiche
Due persone comunicano tra di loro parlando e ascoltando, ma anche attraverso segnali non verbali, intenzionali e
spontanei. Questi segnali non verbali, che nel loro insieme sono chiamati sincronismo comunicativo, contribuiscono in
modo rilevante alla trasmissione del senso dei messaggi che vengono scambiati in qualsiasi interazione diadica. Questo
sincronismo comunicativo esprime il fatto che la persona con cui stiamo parlando ci ascolta e risponde, offrendoci in-
dizi su quanto sta accadendo nella sua mente. Pare sia una caratteristica innata dell’essere umano: i bambini iniziano
fin dalle prime settimane di vita a muovere i muscoli (prima i grandi muscoli di braccia e gambe, ben presto anche i
muscoli facciali) in risposta ai messaggi sonori che gli adulti inviano loro. Molte persone, quando si incontrano per la
prima volta, si sentono insicure: ansiose di fare buona impressione, e desiderose di farsi un’idea complessiva della per-
sona che hanno di fronte. Possiamo presumere che nella fase iniziale della conoscenza di un’altra persona gli introversi
siano più attenti a se stessi, e che gli estroversi siano invece più attenti all’altro. Probabilmente gli introversi nevrotici
sono quelli che provano maggiore disagio e hanno l’attenzione per lo più rivolta al proprio comportamento, mentre gli
estroversi stabili sono in genere più proiettati verso il comportamento dell’altro [v. anche pp.72 e 81].
Gli psicologi sociali hanno segnalato come nelle interazioni diadiche si riscontrino varianti di comportamento che di-
pendono da fattori come l’età, il sesso e la condizione sociale dei soggetti dell’interazione. Spesso nei rapporti sociali
il significato preciso delle singole parole assume un’importanza minore dell’interpretazione che ne diamo: è più impor-
tante il tipo di rapporto che esiste fra le persone in questione. L’interazione sociale è in gran parte un processo di con-
trattazione; in ogni momento la risposta di ciascuno viene influenzata da ciò che l’altro ha appena detto. In nessun altro
luogo questo vale come a scuola [F,261-264].
L’interazione sociale nel rapporto tra insegnante e alunno
Le persone socialmente inadeguate, specialmente i bambini, sono pessimi conversatori. Grazie all’analisi delle intera-
zioni diadiche che hanno luogo in classe, l’insegnante può scoprire in quali modi può aiutare gli alunni ad ampliare e a
migliorare le loro interazioni verbali con gli altri (per es. ricorrendo alla mossa proattiva nella conversazione, e prose-
guendo, dopo la risposta alla domanda di un alunno, rivolgendogli a sua volta una domanda) [F,264].
La posizione sociale
Le persone fanno valere la propria posizione sociale anche attraverso il modo di parlare (ad es. con la pacca sulla spal-
la e chiamando per cognome: esclusive del “superiore” verso l’“inferiore”). Strategie, queste, utilizzate spesso anche a
scuola. Interessanti anche le strategie adottate per salvaguardare e far valere la propria posizione da parte di coloro che
nell’ambiente di lavoro sono circondati da colleghi che occupano una posizione elevata (come ad es. custodi e simili, a
volte deliberatamente scortesi nei rapporti con i colleghi, rivendicando il diritto di imporre loro stupide restrizioni
nell’uso delle strutture di cui sono responsabili, per dimostrare così il loro grado di potere ed il prestigio che si possie-
de pur essendo di bassa posizione sociale; o l’“anziano” che accentua la disparità con il nuovo arrivato mediante com-
portamenti volutamente bruschi e sbrigativi). Le cose si complicano quando due soggetti che occupano un’identica po-
107
sizione cercano entrambi di affermare la propria superiorità sull’altro. Ma chi possiede un’autentica accettazione e sti-
ma di sé non ha alcun bisogno di ricorrere a chissà quali strategie per far colpo sugli altri o per innalzare se stesso a
scapito del prossimo [F,265-267].
La posizione sociale e la scuola
La questione della posizione sociale è presente in tutte le istituzioni sociali, specialmente nelle istituzioni a struttura
gerarchica, scuola compresa. Ma: a) il rispetto che ci si guadagna con il proprio comportamento ha ben più valore del
rispetto imposto unicamente in virtù della carica che si ricopre; b) è deplorevole che gli alunni siano automaticamente
relegati nel punto più basso della gerarchia scolastica (la scuola è al servizio degli alunni). L’insegnante che si arrocchi
su una posizione di superiorità e di difesa della propria autorità fornisce a molti alunni proprio quell’occasione di sfida
di cui questi sono alla ricerca.
Quando l’insegnante fa pesare la propria autorità in modo ingiustificato
È utile che ogni insegnante impari a riconoscere le piccole strategie che ha eventualmente elaborato per far valere la
propria autorità senza reali necessità (attenzione a: ignorare una legittima richiesta di attenzione o di informazione, da-
re per scontato che essi debbano “sopportare” scomodità e disagi che nessun adulto tollererebbe, trattare con disprezzo
un oggetto personale di qualcuno, interrompere gli alunni senza alcuna necessità prima che abbiano finito di parlare, ri-
fiutarsi di ascoltare l’esposizione motivata delle loro ragioni e giustificazioni, abbandonarsi a commenti sgarbati sui lo-
ro compiti, rivolgere agli alunni appellativi ed espressioni offensive, fare del sarcasmo, dimostrarsi scortesi, privi di
tatto, di sensibilità e di comprensione…). Come i singoli insegnanti, è utile che anche ogni scuola esamini con atten-
zione le sue concrete modalità di funzionamento [F,267-269].
Il conformismo sociale
[V. anche “La teoria cognitiva sociale di Bandura” p.53] Gli insegnanti si attendono dagli alunni un certo grado di con-
formismo; che può essere di tipo formale (accettazione di regolamenti) o informale (adesione a valori non scritti), sen-
za del quale sarebbe impossibile far funzionare le scuole. Anche gli insegnanti devono conformarsi [F,269-270].
Il non conformismo
Studiato da esperimenti quale quello di Asch (1955) e Milgram (1974) [F,270-272].
Il gruppo dei coetanei
Fin dall’età in cui frequentano la scuola elementare, ma soprattutto nel periodo dell’adolescenza, i ragazzi sono molto
influenzati da quello che fanno i coetanei. L’esigenza di essere accettati e di sentirsi parte di un gruppo è molto forte, e
spesso il gruppo mette in atto dei comportamenti tipici a cui ogni membro deve uniformarsi in quanto costituiscono
una sorta di “distintivo” dell’appartenenza al gruppo. Le pressioni esercitate dal gruppo dei coetanei sono talmente for-
ti che ciascun membro se ne lascia condizionare, nelle sue concrete scelte di comportamento, persino nei casi in cui le
sue inclinazioni personali sono in netto contrasto con quelle del gruppo. Coloro che prendono posizione contro le pres-
sioni esercitate dal gruppo e si rifiutano di adeguarvisi quando si trovano in disaccordo sono in genere persone che
possiedono indipendenza di pensiero, sicurezza di sé ed elevata autostima; e viceversa, con in più un atteggiamento ri-
gido e piuttosto intollerante. Ci sono però diversi casi (ad es. quando il gruppo è composto da adulti responsabili e tol-
leranti), in cui «non si corrono rischi» a opporsi alle decisioni del gruppo; in questi casi, pertanto, spesso chi lo fa di-
mostra in realtà, con il suo comportamento, di essere alla ricerca di attenzione [F,272-273].
La scuola e il conformismo
La scuola ha importanti responsabilità per quanto riguarda il conformismo. Il miglior sistema di insegnamento è quello
che mette in grado ciascuno di riconoscere sia il valore del conformismo sia il valore del non conformismo, e di saper
capire quando si rende opportuno il primo e non il secondo, o viceversa [F,273].
La lezione come interazione sociale
La lezione può essere intesa come una serie di scambi sociali che hanno luogo tra l’insegnante e la classe:
1. I saluti: primo contatto; riconoscimento della reciproca presenza, interazione sociale (alcune ricerche dimostrano
che l’atto del saluto ha un ruolo di grande importanza nel determinare la qualità del rapporto che si stabilisce in segui-
to).
2. Si stabilisce un rapporto: l’insegnante si rivolge alla classe, riferisce ciò che da loro si aspetta, ascolta… (fase tanto
più breve quanto più l’insegnante conosce e comprende gli alunni e quanto più a sua volta è accettato dalla classe); du-
rante questa fase i soggetti che prendono parte all’interazione si formano un’opinione l’uno dell’altro, fanno deduzioni
sulle reciproche intenzioni e così via.
3. Si affronta il compito della lezione: la classe si concentra sul proprio lavoro; interazioni tra insegnante e alunni.
4. Si pone termine al rapporto: l’insegnante richiama nuovamente su di sé l’attenzione, esprime valutazioni, assegna
altri compiti.
5. Congedo: reciproco.
Ogni fase influenza la successiva. Questo ciclo completo di scambi incide poi a sua volta sulla percezione che
l’insegnante e la classe hanno l’uno dell’altra durante l’intervallo che segue la lezione; questa percezione influenzerà le
reciproche modalità di saluto all’inizio della lezione successiva, modalità che a loro volta influenzano inevitabilmente
il ciclo successivo… Nel corso di questa sequenza, l’insegnante e la classe danno vita a una serie di interazioni sociali
di vario tipo: Lo sguardo (durante la lezione l’insegnante e gli alunni dedicano gran parte del tempo a osservarsi e a
valutare le reciproche reazioni, controllando e regolando così buona parte del loro rapporto); la gestualità; prossemica
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e movimenti dell’insegnante nell’aula (osservandoli, gli alunni raccolgono grande quantità di informazioni sul suo con-
to, informazioni che influenzano il comportamento degli stessi alunni, il quale a sua volta manda segnali verbali e non
verbali che l’insegnante può captare); stile di abbigliamento, di acconciatura; quantità di libri, documenti e altri mate-
riali che l’insegnante porta con sé; persino una cravatta nuova, la giacca, la camicia o le scarpe preferite sono spesso
oggetto di una particolare attenzione da parte della classe [v. anche «Il lavoro in classe», disp. di Gatta F.; F,273-274,
276-277].
La consapevolezza delle interazioni sociali nell’insegnante
Il buon insegnante è solitamente consapevole di tutte queste sottigliezze delle interazioni sociali, e quindi è in grado di
comunicare inviando i corretti segnali sociali (segnali di cordialità e accoglienza, ma anche segnali indicatori di un cer-
to grado di coesione sociale). Per il ruolo stesso che ricopre, l’insegnante non si confonde mai con il gruppo sociale
costituito dalla classe, ma se vuole ottenere dei risultati dal suo lavoro, questa separazione non deve essere troppo net-
ta. Sottolineando in ogni istante – attraverso linguaggio, abbigliamento e modo di fare estranei al contesto sociale degli
alunni – la sua distanza sociale dalla classe, può persino dare l’impressione che stia esprimendo un preciso giudizio su-
gli alunni; ma lo stesso risultato negativo ottiene anche l’insegnante che punti a inserirsi in modo attivo nella vita so-
ciale del gruppo–classe con atteggiamenti deliberatamente seduttivi, scimmiottando il linguaggio, lo stile e le abitudini
dei suoi alunni, cercando di colmare la distanza tra insegnante e alunni dovuta all’età o all’ambiente di provenienza (i
ragazzi si aspettano che gli insegnanti abbiano una personalità propria, che dimostrino di avere qualcosa di proprio da
offrire loro, che siano sicuri di quello che fanno e dei propri valori) [F,275-276].
La natura della comunicazione
La comunicazione può essere: egocentrica = rivolta a se stessi; rivolta agli altri = può consistere di varie categorie, tra
cui gli ordini, le domande [v. le “tecniche per fare domande”: appunti di Gatta F.], la presentazione di nozioni, l’uso di
un linguaggio informale, la manifestazione di emozioni, gli enunciati “performativi”, i convenevoli, i messaggi latenti
[v. anche i “tipi di parlato” dell’insegnante: ib.].
Interrogativi che l’insegnante dovrebbe porsi:
1. I miei scambi sociali con la classe assumono più spesso la forma di ordini e di presentazione di nozioni anziché di
domande?
1.1. Se è così, significa che troppo spesso mi comporto con gli alunni in modo direttivo anziché stimolarli a riflettere,
a svolgere delle analisi e a giungere a delle deduzioni?
2. Utilizzo un linguaggio informale in modo da favorire un’atmosfera più rilassata e cordiale?
2.1. Se non lo faccio, non sto forse creando inutili barriere tra me stesso e i miei alunni, magari con l’unico risultato
di inibire le loro richieste di aiuto e di guida?
3. O viceversa, non sto esagerando nell’uso del linguaggio informale, inducendo i miei alunni a non riconoscere più il
mio ruolo di autorità qualora io volessi riaffermarlo?
4. Incoraggio la libera espressione delle emozioni quando può essere utile ai miei alunni e giovare al loro apprendi-
mento?
4.1. Ho la tendenza a liquidare le emozioni dei miei alunni giudicandole inopportune?
5. Comunico spesso ai miei alunni messaggi latenti, magari soprattutto messaggi di tipo negativo? [F,277-278].
L’analisi delle interazioni
L’insegnante potrà avvalersi di uno dei tanti sistemi attualmente disponibili di codificazione e classificazione delle in-
terazioni che hanno luogo in classe (normalmente sono impiegati da un osservatore, che siede in fondo alla classe e os-
serva attentamente ciò che succede ogni qual volta l’insegnante comunica con la classe o con i singoli alunni). Il più
noto di questi sistemi è quello di Flanders (1970) (v. più sotto), che prevede che l’osservatore individui gli interventi
verbali che hanno luogo in classe, e che ogni tre secondi li codifichi siglandoli con il numero della categoria in cui cia-
scun intervento rientra. Attualmente esistono più di 100 sistemi a basso contenuto di inferenze (che consentono, cioè,
di registrare soltanto quello che è avvenuto): vanno bene per scopi come la registrazione della durata temporale (in
percentuale) degli interventi verbali. Altri sistemi sono ad alto contenuto di inferenze o di giudizi (permettono di regi-
strare la propria opinione): vanno bene per sapere, per es., se l’insegnante si comporta con i maschi in modo diverso
che con le femmine, o se utilizza segnali non verbali. Alcuni sistemi, inoltre, consentono di annotare le caratteristiche
dell’alunno con il quale l’insegnante interagisce. Ancora, altri sistemi permettono di isolare un particolare aspetto,
prendendo in esame una certa domanda posta, il modo in cui viene espressa e la persona a cui la domanda si rivolge:
vanno bene se si desidera analizzare una specifica abilità dell’insegnante. Infine, con la videoregistrazione di un esem-
pio specifico di interazioni, fatta visionare all’insegnante e all’alunno separatamente, chiedendo al primo che cosa si
aspettava dall’alunno e se ritiene che la risposta data da quest’ultimo sia corretta e soddisfacente, e invitando il secon-
do a fornire la sua personale versione dei fatti, si può appurare che cosa l’insegnante si aspettava da una singola intera-
zione con un dato alunno e che cosa pensava l’alunno che l’insegnate si aspettasse da lui. Di fronte ai risultati
dell’interazione, l’insegnante sarà spesso sorpreso nel constatare quanto tempo ha dedicato a far lezione (parlare alla
classe), quanto di rado ha lodato o incoraggiato gli alunni, o quanto spesso i ragazzi hanno dovuto chiedergli spiega-
zioni in merito ad aspetti che avrebbero dovuto essere chiariti già all’inizio della lezione. Esiste tutta una serie di inte-
razioni sottili e sfuggenti che non siamo ancora affatto in grado di cogliere e misurare… Si deve tener presente che gli
alunni rispondono all’insegnante non solo in conseguenza di quanto l’insegnante dice o fa durante la lezione in corso…
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Schema di Flanders per l’analisi delle interazioni, adattato da Fontana:
GLI INTERVENTI VERBALI
DELL’INSEGNANTE:
Quando l’insegnante parla in risposta
1. Accetta i sentimenti degli alunni: li accetta e ne chiarisce la tonalità affettiva
senza creare angosce (sentimenti positivi o negativi); formula previsioni sui sen-
timenti che potrebbero manifestarsi o invita a rammentare stati emotivi manife-
statisi in precedenza.
2. Loda o incoraggia: il comportamento dell’alunno; qui rientrano anche le battu-
te di spirito che allentano la tensione, i cenni del capo di assenso, le brevi
espressioni vocali usate per annuire, e le frasi del tipo «continua pure».
3. Accetta o utilizza le idee dell’alunno: chiarisce, sviluppa o ampia idee proposte
da un alunno (più l’insegnante introduce idee proprie, più sfuma nella categoria
5.).
4. Pone domande: fa una domanda, partendo da idee proprie relative a contenuti o
metodi, con l’intento di ottenere la risposta da un alunno.
Quando è l’insegnante a parlare per pri-
mo
5. Fa lezione: presenta fatti e nozioni, o espone opinioni su contenuti o metodi;
esprime le proprie idee, fa domande retoriche.
6. Impartisce direttive: istruzioni, ordini o comandi, e pretende che l’alunno ob-
bedisca.
7. Critica l’alunno o giustifica la propria autorità: fa dichiarazioni che hanno lo
scopo di correggere il comportamento inaccettabile dell’alunno (sgrida qualcu-
no; giustifica il proprio comportamento; fa molto spesso riferimento a se stes-
so).
GLI INTERVENTI VERBALI
DELL’ALUNNO.
Quando l’alunno parla in risposta
8. Risposta: l’alunno dà una risposta prevedibile all insegnante; è l’insegnante che
dà inizio allo scambio verbale o che sollecita l’intervento dell’alunno (quando è
l’alunno che introduce idee proprie, si passa alla categoria 9.).
Quando è l’alunno a parlare per primo 9. Parla di propria iniziativa: l’alunno parla per primo; fa affermazioni non pre-
vedibili in risposta all’insegnante.
10. Silenzio o stato di confusione: pause, brevi intervalli di silenzio e di stato di
confusione, durante i quali la comunicazione risulta incomprensibile
all’osservatore.
[V. anche Po,69; v. altri schemi d’analisi delle interazioni in: AAppppeennddiiccee 11; F,278-281].
I ruoli sociali
Le figure modello (role model), positive o negative, sono persone i cui comportamenti nell’ambito di un determinato
ruolo sociale costituiscono un esempio per gli altri. Sono di due tipi: persone che occupano un ruolo che vorremmo un
giorno poter avere noi, oppure persone che occupano una data posizione che semplicemente ci capita di incontrare
spesso (come, il più delle volte, gli insegnanti). L’immagine che gli alunni hanno di quello che è un insegnante viene
plasmata dagli specifici modelli di comportamento di cui essi sono testimoni in classe. L’insegnante influisce notevol-
mente anche sulla predisposizione degli alunni verso la scuola stessa; è inoltre un modello del tipo di adulto che i ra-
gazzi stessi potrebbero diventare in futuro (ma non sempre gli insegnanti sono consapevoli di quanta influenza abbiano
sugli alunni) [F,281-282].
Il conflitto tra i ruoli
Il ruolo di insegnante prevede un certo numero di sotto-ruoli (promotore anche di apprendimento formale, amministra-
tore, responsabile della gestione di distretto scolastico, coordinatore di attività extrascolastiche, rappresentante di auto-
rità scolastiche, impegni per la carriera professionale e per le prospettive di promozione, ruoli familiari…); questi pos-
sono a volte entrare nettamente in contrasto gli uni con gli altri. È essenziale che ogni singolo insegnante riconosca
l’esistenza del problema stesso e il fatto che possa essere una delle maggiori fonti di stress; bisognerà porsi prospettive
realistiche, darsi delle priorità, fare attenzione ai conflitti a livello personale e anche alle diverse percezioni che gli
alunni hanno di lui, rimanere fondamentalmente coerenti con se stessi nel passaggio da un ruolo a un altro [F,282-284].
L’apprendimento sociale e le figure modello
L’insegnante, di fronte ai suoi alunni, dovrebbe incarnare quei modelli di condotta che desidera far acquisire loro.
Bandura [v. p.53] ha riscontrato una tendenza generale a sottovalutare l’importanza dell’apprendimento per osserva-
zione e imitazione (modeling), specialmente per quanto riguarda l’apprendimento delle abilità sociali. Egli sostiene che
il rinforzo, benché importante, non sempre è essenziale; il bambino ha un’innata tendenza a imitare il comportamento
degli altri, specialmente quando si tratta di persone che godono di un certo prestigio o ricoprono una determinata posi-
zione sociale. L’imitazione è spesso inconscia. Quando l’imitazione assume proporzioni notevoli, e riguarda specifica-
tamente quei ruoli che investono la vita del bambino nel suo complesso (come ad es. il ruolo maschile o quello femmi-
nile), il modello da imitare diventa allora un «modello di ruolo». Le teorie di Bandura inducono a ritenere che i contatti
sociali generino di per se stessi apprendimento, a prescindere dal tipo di abilità in gioco. Questo studioso ha dimostrato
che l’espressione delle emozioni è notevolmente influenzata dai contatti sociali: i bambini, dopo esser stati testimoni di
atti di violenza degli adulti – per es. – tendono con maggiore facilità a comportarsi loro stessi in maniera aggressiva; e
ciò sembra sia dovuto soprattutto al fatto che ai loro occhi questi comportamenti legittimano l’espressione dei senti-
menti di aggressività che tali bambini provano già dentro di sé. Anche assistere a spettacoli televisivi violenti può ave-
re l’effetto – sembra – di legittimare le inclinazioni analoghe già presenti in loro; maggiore è la popolarità di cui gode
il personaggio televisivo che commette atti violenti, più è probabile che questo avvenga (ma i bambini che abbiano
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ereditato un solido sistema di valori dai genitori e dagli insegnanti sapranno resistere alla tentazione di adottare nuovi
modelli che vanno contro questo sistema) [F,284-286].
L’imitazione delle figure modello
Da alcune ricerche risulta che i bambini meno autonomi appaiono più inclini a imitare qualsiasi figura di prestigio in
confronto ai bambini più autonomi. Bambini timidi o ansiosi, poi, imitano le reazioni di paura degli altri più facilmente
di quanto non facciano i bambini sicuri di sé e fiduciosi nelle proprie capacità; mentre i bambini inclini all’altruismo
imitano i comportamenti altruistici più spesso di quanto non facciano i bambini meno inclini all’altruismo. Pare, cioè,
che il bambino, una volta che inizi ad avere un repertorio di comportamenti sociali più stabile, tende a imitare modelli
che confermano quanto già sta facendo per conto proprio piuttosto che modelli che presentano modalità di comporta-
mento meno familiari. Inoltre, i bambini che hanno appreso in passato a rispondere positivamente a particolari figure
modello si rivelano più disposti a prendere nuovamente a modello queste stesse figure in confronto a bambini che in
passato hanno invece appreso a rifiutarle. Infine, in generale il bambino imita più facilmente il comportamento di per-
sone che ha già visto ottenere dei successi in passato che non il comportamento di chi ha visto collezionare insuccessi.
Benché l’apprendimento sociale non sia determinato dalla presenza del rinforzo, ne viene tuttavia notevolmente conso-
lidato [F,286].
Tipi di amicizia nella classe
I gruppi tendono nella maggior parte dei casi a dividersi in sottogruppi più piccoli; ogni sottogruppo, una volta che si è
costituito, stabilisce norme proprie, la cui accettazione è la condizione imprescindibile per poter far parte del sotto-
gruppo. Criteri di suddivisione di un sottogruppo: - divisione per sesso è uno dei più comuni criteri di suddivisione; -
altro criterio è il livello di capacità individuale; - un altro ancora è la classe sociale d’appartenenza; - altri fattori di ri-
lievo sono gli interessi e le opinioni personali. Si può voler appartenere a un sottogruppo per: - la sensazione di sicu-
rezza e di appartenenza che dà ai suoi membri; - il prestigio particolare che l’appartenenza a un determinato sottogrup-
po può conferire; - scopi e obiettivi personali che il sottogruppo contribuisce a dare a chi si sforza di emulare gli altri
membri. Il gruppo può diventare talmente importante, per i suoi membri, da indurli ad abbandonare convinzioni e
comportamenti radicati pur di uniformarsi alle norme del gruppo. Tutto questo avviene soprattutto nell’adolescenza [v.
anche “Le problematiche adolescenziali” a p.104; F,287].
I sottogruppi nella classe
Il buon insegnante sta attento a non screditare l’immagine sociale di un alunno agli occhi dei compagni del suo gruppo
(pericoli legati al bisogno di ripristinare la propria immagine agli occhi del gruppo, magari vendicandosi); fa attenzio-
ne anche a non inimicarsi il gruppo (minaccia esterna = maggior coesione del gruppo; accettazione dell’insegnante
come figura modello positiva). A volte può essere necessario separare fisicamente membri di un sottogruppo che agi-
scono all’opposto di un altro gruppo che collabora con l’insegnante; ma, prima di ricorre a tali misure, è meglio cerca-
re di persuadere il gruppo a comportarsi in modo più conforme alle regole (gli alunni dalle capacità superiori tendono a
lavorare meglio nei gruppi omogenei ai quali essi stessi danno vita spontaneamente, nei quali la coesione è elevata; lo
stesso può dirsi, probabilmente, per i gruppi di alunni dalle capacità inferiori, se alle prese con compiti non troppo dif-
ficili, tali da spingerli alla ricerca della distrazione). L’insegnante capace può far funzionare questo sistema ricorrendo
a una sorta di contratto informale con la classe e i suoi vari sottogruppi. Lo stesso discorso vale per le coppie di amici
(anch’essi da non separarsi, salvo eccezioni); magari accettando un certo “discorrere” a volume contenuto di ciò che
fanno insieme (molte volte il silenzio in ambiente sociale come la classe è innaturale e fuorviante) [F,287-289].
Le amicizie inopportune e gli alunni senza amici
Molti sottogruppi si strutturano secondo uno schema gerarchico che vede al vertice uno o più membri in posizione do-
minante, e all’ultimo posto il bambino che ha la sventura di essere il bersaglio (zimbello o capro espiatorio) dell’intero
gruppo; la stessa appartenenza al gruppo dipende, per questo malcapitato, dalla sua disponibilità ad accettare tale ruo-
lo. Ma l’insegnante non può sostituirsi agli alunni nella scelta dei compagni con i quali stringere amicizie; può però
cercare di fare il possibile, con tatto e discrezione, per tenere separati gli alunni legati da un rapporto di amicizia inop-
portuno (meglio però non vietare frequentazioni e legami: poche cose rinsaldano un’amicizia come una minaccia ester-
na). Può intervenire con diplomazia per far loro considerare quanto poco abbiano in comune l’un l’altro; e cercare an-
che di incoraggiare chi sta pagando le conseguenze negative del rapporto ad avere maggiore fiducia in se stesso, per-
ché diventi più autonomo nelle sue scelte future. Bisogna ricordarsi che il bambino vittima di angherie e prepotenze da
parte di compagni offre loro continue occasioni di provare sensazioni di potere o di superiorità. Il bambino senza ami-
ci, dal canto suo, è possibile che offra decisamente meno ai suoi compagni; anzi, chi viene visto insieme a lui rischia di
vedere seriamente compromessa la propria immagine all’interno del gruppo: L’insegnante può soltanto cercare di aiu-
tare questi alunni incoraggiandoli a migliorare la loro autostima e offrendo loro occasioni per apprendere determinate
abilità sociali; prima ancora, deve far loro capire chiaramente che ai suoi occhi essi hanno lo stesso valore di tutti gli
altri [F,289-290].
Gli alunni apprezzati dai compagni
Tali ragazzi sembra che dedichino agli altri un’attenzione non inferiore a quella rivolta a se stessi, che ispirino in qual-
che modo fiducia e che soddisfino le esigenze del gruppo. Sono capaci di offrire incoraggiamento e sostegno, o di
“rianimare l’atmosfera”, danno prova di competenza in certi campi particolarmente apprezzati, sanno magari prendere
le difese di compagni che vengono minacciati, o propongono dei modelli che riscuotono l’approvazione della classe.
Spesso finiscono per diventare leader ufficiosi di un gruppo. Le ricerche dimostrano che coloro che facilmente divente-
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ranno poi dei leader hanno di solito anche la capacità di definire il gruppo in qualche modo, dandogli una precisa iden-
tità e riconoscendone ed esaltandone quegli aspetti che gli altri membri del gruppo sentono importanti; possiedono
inoltre una qualche qualità sociale (carisma, prestigio) che permette a chi gode della loro amicizia o della loro atten-
zione di sentirsi investito di un ruolo di prestigio agli occhi degli altri. Sembra, infine, che questi ragazzi abbiano in
genere un livello d’intelligenza leggermente superiore alla media del gruppo, dimostrino attitudine per la risoluzione
dei problemi e sappiano prendere l’iniziativa per risolvere concretamente un problema che si presenta [F,290-291].
La sociometria
Consiste nel chiedere a ciascun alunno di mettere per iscritto il nome del compagno di classe che vedrebbe volentieri
come responsabile del gruppo di cui fa parte (volendo anche specificando di quale tipo di gruppo si tratta); oppure
possiamo chiedere agli alunni di indicare chi vedrebbero meno volentieri come loro leader [v. anche la coesione e la
dinamica di gruppo, pp.114 e 115]. Un impiego tipico della sociometria è nelle ricerche sui vari tipi di amicizia. Si
chiede ad ogni bambino di indicare chi preferirebbe avere per amico; si arriva così a stabilire chi sono gli idoli e chi gli
emarginati o isolati; si può rappresentare la ricerca sotto forma di sociogramma. Una volta identificati i tipi di rispo-
sta, possiamo studiare quella serie di circostanze che fanno sì che alcuni alunni siano designati come idoli e altri come
emarginati, o le condizioni che favoriscono la formazione dei sottogruppi (un idolo, ad es., potrebbe essere tale sola-
mente grazie al prestigio di cui godono nella scuola un fratello o una sorella che frequentano una classe superiore…).
Si tenga presente che gli idoli non sono necessariamente i leader della classe (anche se spesso lo sono), e che la loro
particolare posizione (come quella, del resto, degli emarginati e dei sottogruppi) è soggetta ad alterne fortune. Un inse-
gnante attento e sensibile ai rapporti sociali della classe può fare molto per impedire la formazione di sottogruppi inde-
siderati se solo non dimentica che l’amicizia dipende in gran parte dalla frequenza delle interazioni [F,291-292].
Le abilità sociali
La promozione delle abilità sociali dovrebbe essere un aspetto essenziale di un’educazione rivolta alla sfera
dell’“essere” [v. p.104]. L’immagine che abbiamo di noi stessi dipende in gran parte dalle reazioni che gli altri manife-
stano nei nostri confronti, e queste reazioni sono a loro volta notevolmente influenzate dal nostro modo di comportarci
nei rapporti sociali. Molti dei successi che otteniamo nella vita dipendono in gran parte dalla nostra capacità di padro-
neggiare e utilizzare al meglio le abilità sociali necessarie. Lo stesso discorso vale per quanto riguarda la nostra capaci-
tà di avere rapporti soddisfacenti in famiglia, con gli amici e con i colleghi di lavoro. Per avviare un qualsiasi pro-
gramma di insegnamento delle abilità sociali, un buon punto di partenza è quello di invitare gli alunni a dare una valu-
tazione delle loro competenze sociali attuali (la consapevolezza del nostro scarso livello di riuscita in una determinata
competenza ci motiva ad apprenderla). Questionari standardizzati (come quello di Trower, Bryant e Argyle, o come il
test di Spence) sono in pratica un elenco di situazioni sociali; vanno adattati all’età e alla provenienza degli alunni, e
sottoposti alla classe insieme a domande. Lo scopo è di valutare fino a che punto ogni alunno è in grado di affrontare le
situazioni sociali prospettate [F,293].
L’affermazione di sé
Che cosa deve essere in grado di fare concretamente una persona per poter essere «assertiva»? Ai fini della afferma-
zione di sé sono necessarie, fra le altre, le capacità di: – dire di «no» quando occorre; – fare richieste, chiedere aiuto o
domandare favori; – esprimere sia i sentimenti positivi sia quelli negativi; – avviare, sostenere e concludere una con-
versazione. Tutte capacità, queste, che corrispondono ad altrettanti comportamenti che spesso si cerca di scoraggiare
nei bambini. Pur non potendo permettere ai bambini di ignorare le consuetudini sociali condivise, se riteniamo che in
determinate situazioni la capacità di autoaffermazione abbia un suo valore, e se riteniamo che sia un aspetto importante
dell’autonomia individuale, della fiducia in se stessi, dell’autostima, nonché della partecipazione attiva alla vita socia-
le, allora dobbiamo insegnare ai bambini i modi migliori per apprendere queste capacità e per imparare a capire quan-
do è opportuno servirsene. I metodi di insegnamento delle abilità sociali pongono l’accento sulla capacità non sulla
sua forza; è più probabile che riusciremo a conseguire obiettivi ragionevoli imparando a osservare le reazioni altrui,
acquistando maggiore coscienza dei diritti e dei legittimi bisogni del prossimo, e imparando a utilizzare le opportune
tecniche di comunicazione anziché lasciandoci andare a imprudenti comportamenti aggressivi. Un programma di inse-
gnamento delle abilità sociali deve quindi saper offrire indicazioni su come farsi un quadro valutativo delle varie situa-
zioni sociali.
Perché il nostro interlocutore reagisce in un dato modo? La nostra posizione è ragionevole? Che cosa hanno fatto e
detto fino a questo punto entrambi gli interlocutori? Utile disporre di materiali videoregistrati (appositamente registrati,
o anche spezzoni di commedie televisive famose…).
Come si sarebbe comportato ciascun ragazzo se si fosse trovato in quella data situazione? Quali parole avrebbe usato?
Quale tono di voce? Quali messaggi non verbali? Può essere opportuno invitare ciascun alunno a mettere in scena le ri-
sposte che ha scelto (rappresentazione con pubblico di compagni, che diranno la loro in proposito).
Seguono esercizi di interpretazione di ruoli, a coppie (l’insegnante consegna un breve copione che offre una traccia
iniziale da cui i ragazzi possono prendere le mosse per mettere in scena la situazione tratteggiata), tipo colloquio di la-
voro, decisione di protestare con un vicino per problemi condominiali… (attenti a non privilegiare troppo l’aspetto del-
le capacità di recitazione; o a proporre situazioni troppo lontane dalle esperienze personali degli alunni). Tutto deve
svolgersi in un clima rilassato e informale, integrando videocassette ed esercitazioni con giochi ed altro. Naturalmente
è opportuno preparare gli alunni prima di ogni esercitazione o gioco di ruoli; nonché informarli sugli obiettivi effettivi
del lavoro che si intende svolgere. Tali esercizi permettono ai partecipanti, inoltre, di rendersi conto del fatto che nu-
merose interazioni sociali assumono in qualche modo la forma di un rapporto contrattuale [F,293-299].
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L’importanza del calore umano nei rapporti sociali
Nell’insegnamento delle competenze sociali, al secondo posto dopo l’autoaffermazione sociale viene l’importante va-
riabile del calore umano. Molte persone trovano pressoché impossibile esprimere calore umano nei rapporti sociali.
Ancora una volta l’educazione che abbiamo ricevuto nei primi anni di vita svolge un ruolo importante; spesso i bambi-
ni si sentono ripetere che esprimere una qualsiasi di queste emozioni è una cosa che semplicemente «non si deve fare»,
e anche quando il messaggio non è così esplicito l’imbarazzo con il quale gli adulti reagiscono a tali espressioni di sen-
timenti convince rapidamente il bambino che è meglio nascondere i sentimenti di schiettezza e di calore umano, smet-
tere di essere spontaneo, evitare di mostrare l’attrazione che prova per altri, trattenersi dal confortare qualcuno anche
se prova dispiacere per lui e desidererebbe farlo. La predisposizione, probabilmente innata, a dare e a ricevere calore
umano varia da persona a persona [F,299].
Aprirsi agli altri
Quanta parte di noi stessi, e della nostra vita interiore, siamo disposti a condividere con gli altri? Fino a che punto
aprirci agli altri ci fa sentire vulnerabili? O al contrario, fino a che punto tendiamo ad eccedere, rivelando agli altri
aspetti di noi stessi che potrebbero annoiarli o addirittura indisporli nei nostri confronti? È probabile che gli estroversi
siano più inclini degli introversi ad aprirsi [v. pp.72 e 81]. Un programma di insegnamento delle competenze sociali
che si proponga di promuovere la capacità di aprirsi all’altro aiuta i soggetti a capire in che misura, e in quali circo-
stanze, la disponibilità ad aprirsi è opportuna. Li aiuta altresì ad analizzare le motivazioni che sono alla base della loro
personale riluttanza ad aprirsi. Favorisce inoltre la presa di coscienza del fatto che gli altri hanno problemi molto simili
ai nostri, e che condividere questi problemi può essere d’aiuto a entrambi. Ma soprattutto, un programma di questo tipo
aiuta a diventare buoni ascoltatori: se desideriamo aprirci agli altri dobbiamo lasciare loro la libertà di fare altrettanto
con noi. La capacità di essere un buon ascoltatore, fra tutte le abilità sociali, è forse quella che più ci rende graditi ai
nostri interlocutori [F,300].
La discussione di gruppo
Nella scuola la discussione di gruppo è importante ad ogni età. Ma è a partire dalla preadolescenza che i ragazzi, con la
maturazione del pensiero ipotetico-deduttivo, sviluppano il gusto del discutere (desiderio di vedersi mostrate le cose,
di essere trattati alla pari, di vedere prese seriamente in considerazione opinione elaborate in modo personale e al di
fuori di ogni tutela) [Pe,237-238].
Uno strumento dai molti usi
Nelle mani dell’insegnante la discussione di gruppo può assolvere molte funzioni:
a È una delle sedi in cui si possono porre dei problemi.
b È la sede in cui, attraverso l’analisi delle varie proposte avanzate, si procede alla elaborazione del problema.
c È la sede in cui si progettano delle ricerche di vario tipo.
d È la sede in cui si valutano i risultati di tali ricerche.
e È un’occasione periodica per socializzare le conoscenze.
f Rappresenta un’occasione preziosa per conoscere i ragazzi [Pe,238-239].
La tecnica della discussione di gruppo
Alcuni principi:
1. Partire ogni volta da un problema che non solo sia significativo, ma faccia anche presa sui ragazzi.
2. Fare in modo che tutti prendano parte alla discussione (magari ricorrendo al “giro di opinioni”).
3. Fare in modo che non si imponga subito in modo plateale la proposta o soluzione vincente.
4. Far progredire l’elaborazione, salvando le proposte più significative, mettendole in evidenza e mostrando che, se
per certi aspetti costituiscono una soluzione generica del problema iniziale, per altri contengono a loro volta dei pro-
blemi (chi guida il gruppo, di tanto in tanto «faccia il punto» della situazione, ricapitolando, rendendo evidenti i pro-
gressi compiuti e precisando i problemi ancora aperti).
5. Valorizzare tutti gli interventi, evitando che qualche membro del gruppo li ridicolizzi, mettendo in luce tutti i possi-
bili aspetti positivi delle proposte, anche se non sono pertinenti [Pe,239-242; v. anche AAppppeennddiiccee 22].
Il Brainstorming
Si tratta di decidere per un tempo determinato di comunicare ad alta voce tutte le idee, anche le più vaghe o approssi-
mative o fantasiose o apparentemente assurde, che a proposito del problema in discussione possono venire in mente.
Oltre a «far correre le idee», il brainstorming favorisce lo sviluppo di un atteggiamento creativo, di una capacità di ela-
borazione anche fantastica dei dati di esperienza (e si presenta poi anche, nell’ambito della discussione di gruppo, co-
me un piacevole intermezzo) [v. anche p.14, e il testo relativo di Osborn, cit., in partic. p.131, nonché C. Bezzi, I. Bal-
dini, Il brainstorming, Angeli, passim; Pe,242-244].
Insegnare a discutere
Sviluppare o rafforzare:
1. L’abitudine di fissare con chiarezza prima di dare inizio alla discussione l’argomento o gli argomenti di cui si discu-
terà.
2. Il coraggio di prendere la parola davanti agli altri.
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3. L’abitudine a rispettare i turni.
4. L’abitudine a tenere il proprio turno solo per il tempo necessario, senza prevaricare sugli altri.
5. L’abitudine ad ascoltarsi l’un l’altro.
6. L’abitudine di restare al tema che si sta discutendo, evitando di mettersi a parlare di cose che non hanno a che fare
col nucleo intorno al quale ruotano gli altri interventi, ma riguardano solo particolari privi di importanza.
7. L’abitudine di prepararsi una «scaletta», ovvero qualche appunto molto schematico [Pe,244-247].
I gruppi e la loro struttura
Vari tipi di gruppo, nella scuola e fuori
L’insegnante ha a che fare anzitutto con il gruppo-classe; che a sua volta può articolarsi in sottogruppi, che si formano
sulla base di varie ragioni: sesso (nella scuola elementare, e in parte anche nella scuola media), rapporti d’amicizia,
provenienza, appartenenza degli allievi a vari gruppi (scoutistici, parrocchiali, di volontariato; banda di preadolescenti
o compagnia di adolescenti). Altri gruppi di interesse per l’insegnante: quello dei colleghi, quello formato dai genitori,
quelli che si formano in varie situazioni (organi collegiali…) [Pe,169-170].
Le proprietà generali di un gruppo
Formazione non volontaria o volontaria
Il gruppo-classe si forma indipendentemente dalla volontà dei partecipanti, anche se poi questi possono organizzarsi
liberamente in sottogruppi; lo stesso si può dire per l’insieme dei colleghi, e per l’insieme dei genitori. Gruppi di for-
mazione volontaria sono invece i gruppi associativi professionali. Rispetto ai gruppi del primo tipo, vi è in essi una
maggiore omogeneità (di interessi e orientamenti); e la possibilità di lasciare il gruppo quando si vuole garantisce a
ciascuno un senso di indipendenza e una possibilità di sfuggire agli effetti di saturazione che il dover stare per lungo
tempo con le stesse persone può provocare [Pe,171].
Gruppo primario e secondario
Un gruppo primario è formato da persone che si conoscono tutte, e possono tutte direttamente interagire (in genere,
dunque, costituito da un numero limitato di membri). Un gruppo secondario è più ampio, e comprende persone che
non si conoscono tutte né interagiscono tutte fra loro, perché risiedono in posti diversi, o perché non hanno occasione
di incontrarsi (esempio tipico è l’associazione) [Pe,172].
La struttura del gruppo
a- Un gruppo può non avere una struttura definita (perché formato in maniera occasionale, e ha una breve durata).
b- Un gruppo può essere invece strutturato senza però che tale sua struttura assuma carattere formale, esplicito (ad
es. in una classe scolastica formata da ragazzi in condizione di parità, in cui cioè non sono stati stabiliti formalmente né
ruoli né responsabilità specifiche; ma al cui interno, tuttavia, esiste una struttura, nel senso che esistono sottogruppi in
base ad affinità di interessi, o ad amicizie). Questa struttura informale può essere evidenziata mediante il test sociome-
trico (Moreno [v. “La sociometria”: p.111]): se ne ricava un sociogramma che permette di cogliere il sistema di amici-
zie presente nel gruppo, e gli eventuali sottogruppi; permette anche di identificare certi soggetti che sono popolari, e
certi che sono invece isolati, o anche rifiutati dagli altri (nel caso dell’allievo isolato, occorre fare in modo che egli
venga considerato meglio dai compagni, anche affidandogli responsabilità; nel caso dell’allievo rifiutato, occorre ren-
derlo consapevole di certi suoi comportamenti o tratti di carattere che determinano negli altri un atteggiamento di rifiu-
to, e indurlo a modificarli). Attraverso un test sociometrico o una serie di colloqui è anche possibile giungere ad identi-
ficare chi di fatto svolge una funzione di leader nel gruppo. Altro concetto utile è quello di distanza sociale, definibile
come la maggiore o minore facilità con cui un certo individuo A sceglie un certo individuo B, o è scelto da lui, come
compagno in una certa attività. Per Proctor e Lomis sono sei le possibilità che si possono presentare (distanza min. = 1,
max = 6):
1. A sceglie B e B sceglie A; 2. A sceglie B e B ignora A (o viceversa); 3. A sceglie B e B rifiuta A (o vicev.);
4. A ignora B e B ignora A; 5. A ignora B e B rifiuta A (o viceversa); 6. A rifiuta B e B rifiuta A
(3. e 4. si equivalgono quanto a distanza sociale; differiscono però per il grado di tensione che implicano, peggiore in 3.).
La struttura informale di un gruppo può essere favorita, oltre che da simpatie o antipatie personali, anche da affinità di
interessi, o da complementarità nelle capacità; possono però entrare in gioco anche fattori di ordine tecnico o ambien-
tale (per es. la difficoltà di comunicare rapidamente; o la distribuzione delle stanze in un collegio). Festinger ha mo-
strato come si stabilivano legami d’amicizia tra famiglie di studenti sposati, a ciascuna delle quali era stata assegnata,
in base al semplice ordine alfabetico dei cognomi, una casetta prefabbricata: le amicizie si formavano soprattutto fra
case adiacenti e fra case che si fronteggiavano.
c- Un gruppo è invece a struttura formale quando vi è divisione di posizioni e di ruoli esplicitamente riconosciuta e re-
lativamente stabile (come in una squadra di calcio). In certi casi vi è una adesione a un modello già codificato, in altri
la decisione discende dalla convinzione che una struttura di gruppo esplicita, formalizzata, rende possibili migliori pre-
stazioni (esistono addirittura – per lo meno nei gruppi secondari – degli «specialisti della specializzazione», la cui fun-
zione principale è proprio quella di curare la distribuzione dei ruoli: posizioni, accertamento di funzionamento della
corrispondenza ruolo/funzione, fissaggio chiaro di ruoli ed individui nel cui confronto ci si deve sentire responsabili o
sui quali si ha autorità, fare in modo che ogni membro sia inserito in un punto ben definito di una rete di comunicazio-
ne; in un gruppo primario questi compiti spettano di solito al leader). La strutturazione formale è poi favorita dalla pre-
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senza di forti differenze individuali: guida, seguaci, mediatori, informatori, elaboratori di progetti, esecutori di progetti
[Pe,172-176].
La circolazione delle notizie
In merito alla circolazione delle informazioni all’interno di un gruppo si possono creare le seguenti situazioni (v. figu-
ra).
Le informazioni, come si può notare, non circolano con la stessa facilità nelle tre situazioni. Utile, a questo riguardo, il
concetto di distanza dentro un sistema di comunicazione, calcolabile sommando il numero di passaggi necessari perché
un messaggio inviato da un membro giunga a un
altro membro o a tutti: la distanza di uno dei
membri nei confronti di tutti gli altri è pari alla
somma dei passaggi che sono necessari perché
egli giunga ad inviare messaggi differenziati a
tutti (catena aperta: A B = 1, A C = 2, A
D = 3, A E = 4, A tutti = 10; B tutti
= 7; C tutti = 6); disuguaglianza che può es-
sere ritrovata, con valori diversi, nella catena
centralizzata, ma non nella catena chiusa (
tutti gli altri = 6). La tavola rotonda (o
l’assemblea) è invece una struttura la cui di-
stanza fra 5 individui è ancora minore: la struttura di comunicazione assume un carattere pentagonale-stellare, in cui la
distanza fra ogni membro e tutti è, per ciascun membro, pari a 4 (v. seconda figura). Questa è una delle ragioni della
maggiore efficienza comunicativa delle situazioni in cui i membri sono tutti presenti, o possono co-
munque entrare ciascuno in comunicazione diretta con gli altri. Un’altra ragione importante è la
possibilità di un feedback immediato e completo. In molti casi, però, il tipo di rete comunicativa può
essere legato a ragioni non obiettive ma soggettive (soggezione, antipatie…). Il fatto che la rete sia
omogenea e paritaria (catena chiusa, tavola rotonda) o invece con posizioni differenziate, ha sulla
vita del gruppo due altri effetti: -è più facile, a parità di altre condizioni, che assuma la funzione di
leader del gruppo colui che, in una rete di comunicazione disomogenea, occupa una posizione cen-
trale (facilità di avere informazioni); -il grado di soddisfazione per l’appartenenza al gruppo e per la
partecipazione alle sue attività risulta maggiore in coloro che occupano, in una rete comunicativa disomogenea, posi-
zioni relativamente centrali, ed è significativamente minore in coloro che si trovano in posizioni periferiche [v. AAppppeenn--
ddiiccee 22 bbiiss; Pe,176-179].
La coesione di gruppo
Forze costrittive e propulsive nella formazione di un gruppo
K. Lewin indica il gruppo come una regione delimitata da una frontiera, in cui i membri, attraverso una locomozione
sociale, fanno ingresso nel gruppo, si muovono al suo interno, l’abbandonano. Perché la locomozione sociale abbia
luogo è necessario che esista una forza psicologica che sospinge l’individuo in una certa direzione. Forza che può esse-
re vissuta come costrittiva, se il gruppo non è a formazione volontaria: in tal caso, per evitare la sanzione negativa, esi-
ste correlativamente anche una forza opposta, che tenderebbe a portarci lontano da quel gruppo (o da quella situazione
o attività); forza centrifuga che entra in funzione non appena vengono meno le forze costrittive. Se il venir meno delle
forze costrittive ha un carattere generale, l’intero gruppo si disgrega. La situazione è del tutto diversa nel caso dei
gruppi a formazione volontaria: qui la forza che induce un individuo a entrare nel gruppo, e a restarvi, non è costrittiva,
ma è propulsiva; il gruppo pertanto permane senza disgregarsi finché questa sua valenza positiva resta alta. Possiamo
dunque dire che un gruppo a formazione volontaria ha di solito notevole grado di coesione [Pe,181-183].
Il problema della coesione
Per «coesione di gruppo» possiamo intendere la somma delle forze propulsive centripete che sono presenti nei singoli
membri e tendono a mantenere questi ultimi all’interno del gruppo. Grado di coesione che può aumentare o diminuire
o anche cessare. Dovremo dunque guardarci dal contrapporre nettamente, per quanto riguarda la coesione, i gruppi non
volontari a quelli volontari, come se la coesione fosse una prerogativa solo di questi ultimi (anche nei gruppi a forma-
zione non volontaria possono operare anche forze propulsive). La coesione è una proprietà (molto importante, perché
si riflette direttamente sulla qualità del lavoro, sul grado di soddisfazione, sul comportamento del gruppo nel caso di
difficoltà o attacchi esterni) di tutti i tipi di gruppo [Pe,183-184].
Gli indici di coesione
a Il rapporto fra la frequenza del pronome «io» e quella del «noi» nel corso di discussioni che riguardano l’attività
del gruppo (Lippit e White).
b «Indice di amicizia», rappresentato dal rapporto fra il numero delle scelte fatte all’interno di un gruppo e il numero
di quelle fatte all’esterno quando viene chiesto a ciascun membro di indicare dieci amici (Dimock).
c Il grado in cui è presente il desiderio di cambiare gruppo.
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d L’assenteismo nelle riunioni e nelle attività del gruppo (è stata accertata una correlazione significativa fra il nume-
ro delle assenze e il grado di soddisfazione nei confronti dei membri del gruppo o del suo leader).
e La prontezza con cui un membro del gruppo assume responsabilità per il gruppo, o lo difende quando questo, in
sua presenza, viene attaccato da persone esterne ad esso.
f La misura in cui il gruppo si mostra capace di resistere alle difficoltà e alle frustrazioni senza disgregarsi (molto
importante sul piano educativo).
Non costituisce invece un indice significativo di mancanza di coesione la frequenza con cui all’interno di un gruppo si
verificano piccoli scontri, scoppiano polemiche, vengono espresse critiche da parte di uno o più membri nei confronti
di altri, se questi comportamenti non sono accompagnati da una rottura profonda e durevole. I gruppi con buona coe-
sione persistono più a lungo nel tentativo di portare a termine il compito prescelto, disorganizzandosi momentanea-
mente di fronte all’insuccesso, con critiche reciproche, accuse, eccetera, ma riprendendo poi quasi subito il tentativo
con maggior impegno, anche se qualche membro del gruppo può abbandonare temporaneamente l’attività. Nei gruppi
con scarsa coesione si formano invece con più frequenza, a seguito di insuccesso, fazioni contrapposte, con vera rottu-
ra del gruppo, con abbandono permanente dell’attività da parte di alcuni. Le manifestazioni di aggressività rivolte alle
persone sono, generalmente, molto maggiori nei gruppi con buona coesione rispetto a quelli con scarsa coesione. La
resistenza all’insuccesso è, dunque, in rapporto col grado di coesione; e la frequenza di critiche reciproche, piccoli liti-
gi, manifestazioni moderate di aggressività non sono da sé soli un segnale di scarsa coesione [Pe,184-186].
L’origine delle forze di coesione
La valenza positiva di un gruppo (il potere di attrazione):
1. Cresce se cresce nei membri la convinzione che il gruppo è realmente in grado di soddisfare i bisogni di carattere
generale o personali. Il leader del gruppo che vuol mantenere alta la coesione deve dunque preoccuparsi, presentando
il programma del gruppo, di mettere bene in luce le concrete possibilità di realizzarlo, e sottolineare ogni volta nelle
riunioni i progressi, anche piccoli, che il gruppo ha compiuto.
2. È più alta là dove l’interazione collaborativa fra i membri è maggiore; è infatti più facile chiarire equivoci e malinte-
si prima che la tensione da essi provocata diventi così forte da rendere spiacevole ad alcuni la permanenza nel gruppo;
inoltre, tale interazione garantisce una maggiore circolazione delle notizie, e una maggiore omogeneità per quanto ri-
guarda l’accesso alle informazioni, con effetti benefici sul “morale” del gruppo. Il leader dovrebbe dunque creare oc-
casioni di interazioni frequenti, e circolazione rapida e omogenea delle informazioni; e dovrebbe proporre obiettivi di
gruppo che possano essere accettati da tutti e sulla cui base la divergenza di opinioni possa configurarsi non come con-
trapposizione competitiva, bensì come uno stimolo e un arricchimento per tutto il gruppo.
3. Può aumentare quando il gruppo viene attaccato dall’esterno, soprattutto se ingiustamente; oppure viene lodato.
Aggiungiamo che spesso non basta, per provocare l’uscita da un gruppo, il fatto che la sua valenza sia diminuita sino
ad azzerarsi: per una sorta di inerzia, o perché risulta faticoso o spiacevole giustificare agli altri la propria decisione di
lasciarlo, si può continuare a restare nel gruppo, magari senza più partecipare a tutte le sue riunioni o attività. Talvolta
la causa che induce a prender anche formalmente la decisione di uscire da un gruppo non è un fatto avvenuto al suo in-
terno, ma un mutamento di situazione generale in cui esso si muove che di riflesso ne cambia anche il significato
[Pe,186-188].
La dinamica di gruppo
Con questa espressione si suole indicare un insieme di fenomeni che riguardano sia l’influenza che il gruppo può avere
sui singoli componenti, sia quella che un singolo membro con una posizione preminente può avere sul gruppo stesso ,
ma anche l’appartenenza di un individuo a due o più gruppi, la dinamica fra maggioranza e minoranze, le forme di ag-
gressività collettiva, e così via [Pe,189].
La pressione di gruppo
Famoso e significativo è l’esperimento di S. Asch [Pe,189ss; v. anche Asch/Merenda: Pe,191). I risultati dimostrano
l’importanza che, in un gruppo, possono avere le minoranze anche piccole, purché siano unanimi, e l’importanza di
non trovarsi in isolamento in un gruppo che la pensa in modo diverso, ma di avere almeno un compagno che ha opi-
nioni identiche (perciò è importante mandare almeno due rappresentanti a trattare questioni con un altro gruppo). Dati
che contribuiscono anche a spiegare la tendenza a conformarsi agli atteggiamenti, alle abitudini e alle opinioni del
gruppo che mostrano i preadolescenti e gli adolescenti; e che suggeriscono che è opportuno evitare l’inserimento di un
ragazzo che presenta sintomi di devianza in una classe ove ci sia già un altro ragazzo che presenta gli stessi problemi e
che potrebbe diminuire di molto la pressione (benefica) che il gruppo può esercitare su di lui. Suggeriscono pure la
strategia da seguire quando si voglia tentare di cambiare certi atteggiamenti o certe opinioni prevalenti in un gruppo [a
questo proposito, v. anche la ricerca di K. Lewin: Pe,192-193; Pe,189-193].
Il problema della leadership
Occorre distinguere due tipi di leader. Il leader «designato» è quello che un gruppo si trova ad avere senza averlo potu-
to scegliere (per una classe: un insegnante; per un gruppo di insegnanti: un direttore…). Il leader «emergente» si ha in-
vece quando un membro del gruppo assume la leadership solo grazie al possesso di certe qualità personali che gli per-
mettono di imporsi agli altri o di avere comunque dagli altri attenzione, consenso, collaborazione (in classe: qualcuno
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fra gli allievi che ha particolare influenza sugli altri); esso può esserci anche in gruppi nei quali esiste già un leader de-
signato, ma che non gode molto prestigio: accanto ad esso può delinearsi una figura-ombra alla quale gli altri guardano
con attenzione per averne indicazioni (in classe: un allievo nelle ore in cui è presente un insegnante che non gode di
molta stima; un vicepreside, o un insegnante che goda la fiducia degli altri e faccia da tramite con un direttore vissuto
come u po’ distante).
Per quanto riguarda le qualità che rendono adatto un individuo a svolgere la funzione di leader, le indagini si sono
svolte secondo due diverse direzioni: a) da una parte concentrandosi solo sulla persona del leader per individuarne le
qualità personali, cercando di individuare i tratti di personalità più intensi e frequenti; b) dall’altra, tenendo conto con-
temporaneamente sia della persona del leader sia della natura del gruppo in cui opera (alla base vi è l’idea di Cattel,
secondo la quale va considerato leader chiunque, in un dato gruppo, eserciti una larga influenza sugli altri e concorra in
misura sensibile a determinare le caratteristiche d’insieme e le attività generali del gruppo). La prima posizione ha por-
tato a stabilire che certe qualità fisiche o psicologiche possono costituire condizioni favorevoli, ma non indispensabili
per l’assunzione e l’esercizio della leadership: i leader sono, in media, un poco più alti dei non leader (ma talvolta ac-
cade il contrario); hanno, in media, una migliore salute e una maggiore disponibilità di energia per le attività sociali;
anche il grado di intelligenza è superiore, ma non deve esserlo troppo (un’intelligenza troppo diversa può produrre
giudizi e considerazioni, interessi intellettuali e pratici anch’essi troppo diversi). Infine, la fiducia in sé, una certa so-
cialità, un atteggiamento di dominanza, la capacità di dare agli altri delle informazioni o di ottenerne da loro e la ten-
denza a dare più spesso degli altri una interpretazione delle situazioni sarebbero da collocare fra i tratti tipici del lea-
der. Ma tali qualità non sono quasi mai risultate tutte presenti nei leader studiati; inoltre, risulta anche che vi sono per-
sone che hanno tutte o quasi tali qualità ma non assumono la leadership.Ciò può significare che certi tratti di personali-
tà che sono efficaci in un dato gruppo e in una data situazione possono essere diversi da quelli che risultano necessari
ed efficaci in altri gruppi ed in altre situazioni. La seconda posizione, secondo la definizione di Cattel, intende la lea-
dership come una qualità scalare, dato che l’influenza sul gruppo può essere maggiore o minore a seconda del tipo di
gruppo, della sua struttura, degli obiettivi che persegue, dell’atmosfera che vi prevale, delle circostanze in cui viene a
trovarsi. Essa appare poi come una funzione che può essere esercitata contemporaneamente, sia pure in misura diversa,
da più membri del gruppo (e può essere fatta oggetto di rilevazioni psicometriche) [Pe,193-196].
Interazione fra qualità personali e qualità del gruppo
Il fatto che un membro del gruppo giunga ad assumere il ruolo di leader determina, nei rapporti psicologici fra i mem-
bri, delle modificazioni importanti: provoca una concentrazione dell’attenzione di tutti sulle opinioni e sul comporta-
mento del leader; diminuisce la possibile resistenza nei confronti di certe idee o decisioni che egli esprime. Il leader ha
così maggiore possibilità di manifestare tutti gli aspetti della sua personalità (talvolta è vero che «la funzione rivela
pienamente l’uomo»). Tuttavia un leader «emergente» deve più del leader «designato» far ricorso, per conservare la
sua posizione, alle qualità personali che gli hanno permesso di emergere, e che possono permettergli di conservare quel
ruolo.
Importanti anche, fra le qualità personali del leader, una certa adattabilità alla natura del gruppo e la capacità di capirne
e interpretarne gli umori. È poi da tener presente l’importanza che ha il tipo di attività che caratterizza il gruppo; inol-
tre, un gruppo può aver bisogno di un certo bene, il possesso del quale può essere assimilato alle «qualità personali»,
ed è condizione favorevole per l’assunzione della leadership.Anche una struttura di comunicazione non omogenea è
una condizione di gruppo che interagisce con le qualità personali, nel senso che, se chi già è per suo conto capace di
dare e ottenere informazioni occupa anche, nella struttura comunicativa, una posizione relativamente centrale, le possi-
bilità che egli divenga un leader sono maggiori; l’assunzione della leadership, poi, lo porrà in una posizione ancor più
centrale nella struttura comunicativa. Un’altra condizione di gruppo è costituita dagli atteggiamenti dei diversi membri
del gruppo in rapporto alla funzione di guida: in un gruppo dove molti aspirano ad esercitare un compito direttivo, le
probabilità di ciascuno di diventare effettivamente il leader principale sono minori di quelle che esistono in un gruppo
nel quale la maggior parte dei membri non aspira alla leadership [Pe,196-197].
Tre funzioni fondamentali del leader
[V. anche: Manuale di organizzazione, di Pfiffner e Sherwood, Angeli, p.377].
1. Locomozione del gruppo nella direzione di un obiettivo = un leader contribuisce più di altri a definire l’obiettivo di
gruppo e ad elaborarne un programma per conseguirlo. Spetta soprattutto a lui rendere disponibili le informazioni utili,
dare inizio all’azione, valutare la qualità del lavoro compiuto, invitando anche altri a farlo; e deve rendersi conto prima
degli altri se un certo obiettivo non può essere raggiunto e prendere l’iniziativa del mutamento di tale obiettivo comu-
ne.
2. Conservazione del gruppo = il leader deve fare in modo che le relazioni fra i membri siano buone, intervenendo per
appianare le divergenze e per svolgere nelle dispute la funzione di arbitro imparziale; deve pure fare in modo che il
grado di interdipendenza fra i membri sia alto, contribuendo così ad aumentare la coesione del gruppo. Stimola e inco-
raggia all’autodirezione gli eventuali sottogruppi e fornisce un aiuto concreto in questo senso insegnando tecniche me-
diante le quali si può giungere a una decisione comune. Dà alla minoranza la possibilità di essere ascoltata e fa da me-
diatore tra essa e la maggioranza, riducendo anche per questa via le tensioni interne e le spinte centrifughe. Favorisce
la crescita di collaboratori che possono aiutarlo e sostenerlo. Provvede a una di queste funzioni anche attraverso l’altra
(per es.: mantiene la coesione – conservazione – grazie al successo e al senso di avvicinamento nel conseguimento
dell’obiettivo – locomozione – ).
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3. Rappresentare il gruppo all’esterno = nei confronti sia di gruppi sia di singoli (in molti casi si tratta anche di susci-
tare verso il gruppo interesse e attenzione, o di difenderlo, o di trovare delle alleanze e degli spazi di attività) [Pe,197-
198].
La natura del prestigio
Attraverso il prestigio acquisito, un leader può largamente influire sui membri del gruppo. Talvolta si è parlato di sug-
gestione da prestigio, fenomeno reale e per nulla misterioso, anche se i meccanismi del suo verificarsi non sono sem-
plici. Interessante, al riguardo, l’esperimento di Lorge (1924), che mise in luce un fenomeno che possiamo considerare
come «valenza indotta» [v. il capitolo di Pe sulla motivazione, qui sintetizzato alle pp.76ss], nonché un meccanismo di
desiderio di consonanza; da considerarsi, inoltre, un fattore di contesto (Asch ha poi ripreso l’esperimento, proprio in
relazione a quest’ultimo meccanismo). Questi tre meccanismi su cui si fonda la suggestione da prestigio incontrano dei
limiti quando la modificazione di un’opinione o di un atteggiamento sollecitata da un leader risulta troppo grande ri-
spetto al sistema di valori di un membro del gruppo; in tal caso, la dissonanza può risolversi con un più o meno gradua-
le mutamento del modo in cui viene vissuta la figura del leader, con diminuzione della stima che si prova per lui
(l’insegnante ne tragga adeguate conseguenze) [Pe,199-202].
La vita scolastica e la conduzione della classe
Le atmosfere educative
Rispetto a un gruppo-classe un insegnante può svolgere una funzione di guida, assumere il ruolo di leader. Ma in quale
modo può essere esercitata questa leadership? Quale tipo di rapporto può stabilire un insegnante con la classe? Quale
atmosfera educativa dovrebbe creare al suo interno? [Pe,203].
Tre possibili stili di guida e le relative atmosfere
Lewin a aggiunto ai tradizionali stili di guida autoritario e non autoritario gli stili permissivo e democratico.
È ormai classico l’esperimento condotto da Lewin, Lippit e White, in cui quattro gruppi di bambini di 10 anni passava-
no, nello spazio di tre mesi, attraverso gli stili di direzione autoritaria, democratica e permissiva. Nella prima, tutte le
decisioni relative alla disciplina venivano prese dal leader, nell’attività di gruppo tecnica del lavoro e passaggi esecuti-
vi venivano insegnati uno alla volta, ruoli dei singoli e compagni di lavoro erano fissati dal leader; questi restava fuori
da una attiva partecipazione, e nella valutazione lodi e rimproveri erano rivolti ad personam. Nella direzione con stile
permissivo il gruppo era abbandonato a se stesso, il leader si limitava a consegnare ai bambini il materiale, e ad ognu-
no era permesso scegliersi il ruolo che voleva, mentre la valutazione veniva data solo se richiesta. In quella democrati-
ca, invece, le decisioni venivano prese attraverso discussioni di gruppo, incoraggiate dal leader, veniva data una visio-
ne complessiva di tutta l’attività da svolgersi, e la distribuzione dei ruoli veniva essa pure discussa e decisa in comune,
mentre ognuno era libero di scegliersi il compagno di lavoro; questi prendeva parte attiva al lavoro, e nella valutazione
assumeva un atteggiamento “constatativo”, orientato “sulle cose” e sulle difficoltà. Risultati: i leader avevano saputo
effettivamente differenziare il loro comportamento; l’atmosfera democratica e quella permissiva non si equivalgono:
nella prima il tempo dedicato al lavoro era il 50% del tempo complessivo, contro il 33% in atmosfera permissiva, con
la quale il lavoro inoltre era svolto meno bene e con notevole disordine. Con una leadership autoritaria il tempo dedi-
cato al lavoro era maggiore (74%), ma quando il leader lasciava temporaneamente la stanza il lavoro diminuiva in ma-
niera molto più sensibile (dal 74% al 29%) nel gruppo con guida autoritaria, rispetto al gruppo con guida democratica
(dal 50% al 46%). Nella situazione a guida autoritaria, uno dei quattro gruppi di bambini reagì alla leadership con un
atteggiamento di indipendenza (manifestazioni di ostilità 30 volte più numerose qui che nel gruppo con atmosfera de-
mocratica), i bambini si rivolsero con tono aggressivo al leader per chiedere attenzione con frequenza 12 volte maggio-
re; più frequenti risultarono anche la distruzione del proprio lavoro e l’apparire di capri espiatori (assenti completa-
mente durante la leadership democratica). Gli altri tre gruppi reagirono invece con un atteggiamento di sottomissione.
Lo scontento fu molto maggiore durante il periodo autoritario, e quattro bambini che abbandonarono l’attività lo fecero
tutti durante tale periodo; inoltre, 19 bambini su 20 interrogati a conclusione dell’esperimento, dichiararono di aver
preferito il leader democratico [Pe,202-206].
Le caratteristiche di un rapporto educativo democratico
Risulta dunque la superiorità della leadership democratica [?], benché più difficile da assumere e, forse per questo,
meno presente delle altre due. Perché è difficile stabilire un rapporto democratico nei confronti di un ragazzo o nei
confronti di un gruppo? Occorre sviluppare, e conciliare l’uno con l’altro, due atteggiamenti di fondo solo apparente-
mente contrastanti: un atteggiamento di ascolto e un atteggiamento propositivo.
L’atteggiamento di ascolto
È l’atteggiamento di un insegnante che cerca di decentrarsi negli allievi, di cogliere attraverso molti possibili indici, di
tipo verbale o comportamentale, i loro bisogni profondi di crescita, così come i loro stati d’animo del momento, i loro
interessi, la loro disponibilità ad accogliere con favore certe sue proposte, a svolgere con impegno certe attività. È
l’atteggiamento di chi pensa che gli allievi possano sempre dirgli qualcosa che ancora non sapeva. Non consiste solo
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nell’aspettare che altri ci dicano le cose, ci rivelino se stessi, ma anche nel cercare attivamente di raccogliere indizi, di
sollecitare risposte ponendo delle domande adatte, di formulare ipotesi sugli altri per poi tentare di verificarle.
L’atteggiamento propositivo, di guida
Sulla base dei dati e delle impressioni raccolte attraverso l’ascolto, un insegnante può poi assumere anche l’altro atteg-
giamento, quello propositivo, di iniziativa e di guida. Può cioè proporre ai bambini e ai ragazzi una certa attività che,
da un lato è in armonia con tali loro bisogni e aspettative e quindi destinata a fare presa, e dall’altro è da lui considerata
come educativamente e culturalmente importante. Può anzi, in certi casi, fare anche di più, e cioè proporre un certo
numero di attività affini, che sono tutte valide, e tutte in armonia con certe attese già spontaneamente presenti o preli-
minarmente suscitate da lui, invitando i bambini o i ragazzi a scegliere quella che più di altre riscuote il loro interesse
[Pe,206-209].
Una forma specifica di prestigio
Un insegnante è un leader sui generis, che non deve solo guidare un gruppo verso certi obiettivi e assicurarne la con-
servazione, ma anche aiutare i suoi membri a crescere, ponendosi alternativamente proprio al loro livello ma poi anche
più in alto. Egli, oltre a possedere le seguenti qualità: avere una cultura ampia ed organica, possedere la capacità di
presentare con chiarezza le cose che si sanno rendendole interessanti anche collegandole con i problemi che i ragazzi
possono facilmente sentire come propri, saper elaborare tali problemi attraverso la discussione di gruppo, saper stabili-
re collegamenti interdisciplinari, evidenziando sempre i rapporti diretti o indiretti che i vari contenuti possono avere
con gli interessi ed i problemi esistenziali degli allievi; oltre a ciò, dovrebbe ance esser capace di allegria, di ottimi-
smo, di entusiasmo, di curiosità, di apertura a i problemi dei giovani e ai grandi problemi del mondo d’oggi, di flessibi-
lità, di senso dell’umorismo, e di capacità di riconoscere senza troppe remore una propria lacuna o un proprio sbaglio
[Pe,209].
Tutti uguali e tutti diversi
Le diseguaglianze
Possiamo considerare la diseguaglianza come differenza nei livelli di alfabetizzazione e di formazione. Diseguaglianze
attuali che possono essere riflesso di: l’esser cresciuti in famiglie di livello socioculturale piuttosto alto o invece basso,
in grado o invece non in grado di fornire stimoli; l’aver frequentato la scuola in modo regolare o invece discontinuo.
Ciò si manifesta nel: possedere maggiore o minore ampiezza del vocabolario, primato dell’italiano sul dialetto o vice-
versa, preparazione pregressa completa o lacunosa nei vari settori disciplinari; presenza o assenza di un ventaglio am-
pio o ristretto di interessi, di un rapporto più o meno di amicizia col libro, di atteggiamenti di curiosità e di impegno o,
invece, di indifferenza, resistenza, rifiuto. Queste disuguaglianze vanno attenuate ed eliminate, stimolando processi di
convergenza.
La diversità
Così indichiamo una particolare disuguaglianza, relativa ai mezzi a disposizione dell’allievo, che non riesce a togliere,
e con la quale dunque bisogna fare i conti: la presenza di handicap (percettivi, motori, mentali). Sappiamo che la man-
canza di certi canali per la comunicazione interpersonale, si riflette anche su tutti gli altri aspetti della personalità. Si
pone qui il problema di utilizzare al massimo gli eventuali residui dai canali danneggiati, e di potenziare e sviluppare
in funzione compensatoria altri canali. Occorre promuovere l’alfabetizzazione culturale, oltre che garantire un buon in-
serimento; ciò richiede ancor più che sia un intervento sia individualizzato e in parte affidato a colleghi specialisti.
Le differenze personalizzanti
Si tratta di differenze che hanno un carattere positivo, in quanto riguardano il modo di atteggiarsi di fronte alla realtà, o
di esprimersi, o di comunicare, e riguardano anche certi interessi di base (e che, manifestandosi, porteranno via via alla
formazione di personalità inconfondibili, uniche). Queste differenze vanno rispettate perché hanno un valore positivo
per il singolo e costituiscono inoltre un arricchimento per il gruppo; vanno favorite, cosa che può essere fatta
nell’ambito di tutte le discipline (anche se risulta più agevole nell’ambito di alcune). Possiamo anche qui dire che
l’atmosfera più favorevole ai processi di divergenza, allo sviluppo di differenze caratterizzanti, è di tipo democratico.
Divergenza e devianza
Possiamo parlare di devianza quando un individuo si scosta dagli altri soprattutto per quanto riguarda l’accettazione di
norme di comportamento e di valori socialmente condivisi. La prevenzione più efficace è quella che ha luogo, molto
precocemente, nella famiglia, attraverso quel comportamento affettuoso, di attenzione ai bisogni dei figli, di interesse
per ciò che fanno, di valorizzazione, di cui s’è già parlato. Ma un’influenza molto importante hanno anche gli inse-
gnanti: che possono dare agli allievi un vero aiuto a crescere culturalmente e psicologicamente, a conoscere se stessi, a
sviluppare un senso positivo di sé, a reagire bene a un insuccesso [v. anche AAppppeennddiiccee 11 bbiiss; Pe,210-215].
La conduzione della classe e la disciplina
Comportamenti problematici negli alunni
Una definizione dei comportamenti problematici
Si possono definire tali quei comportamenti che risultano inaccettabili all’insegnante (in un certo senso, essi stanno ne-
gli occhi di chi li guarda). La prima cosa che un insegnante deve fare per sapere come regolarsi di fronte a questo tipo
di comportamenti è quella di chiedersi perché li viva come un problema [F,323-325].
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Modelli di gestione della classe
La ricerca dedica sempre maggiore attenzione alle strategie preventive: metodi con cui gli insegnanti possono preveni-
re l’insorgere di problemi disciplinari. Interessante notare che: 1) il livello di ordine in una classe dipende non tanto
dalla frequenza e dall’insistenza con cui l’insegnante agisce per mantenerlo o ripristinarlo, quanto piuttosto dalla natu-
ra dell’attività in corso in quel momento: gli insegnanti più bravi nel gestire la classe sono quelli che elaborano lezioni
interessanti e coinvolgenti, che comunicano chiaramente obiettivi ed aspettative agli studenti e che utilizzano tecniche
non invadenti né subdole per mantenere la loro attenzione e il loro impegno; 2) i più abili gestori di classe sono quelli
che sembrano anticipare nel modo più esatto un comportamento scorretto ed intervengono prima per prevenirlo; gli in-
terventi efficaci sono inoltre sottili, brevi e spesso quasi privati, e di conseguenza non interferiscono con le attività in
corso (Black, 1994) [per una serie di modelli di gestione della classe – «La libertà di imparare (Carl Rogers)», «Aver
cura dei bambini (Michael Marland)», «L’insegnante “aggiornato” e gli “inviti a desistere” (Jacob Kounin)», «Le pro-
cedure democratiche (Staten Webster)», «Le conseguenze logiche (Rudolf Dreikurs)», «Modifica del comportamento
(Barrhus F. Skinner)», «La disciplina assertiva (Lee Canter)», «La modifica comportamentale cognitiva (Donald Mei-
chenbaum)» – e per «Strategie più generali», v. AAppppeennddiiccee 11; L,312-339; v. files relativi a comunicazione e gestione
della classe].
Le tecniche di modificazione del comportamento
[V. anche «L’apprendimento» p.52 e AAppppeennddiiccee 11] Si ispirano essenzialmente al modello di apprendimento proprio del
condizionamento operante. Poggiano sulla seguente tesi: il comportamento che viene rinforzato o premiato è probabile
che si ripresenti, mentre il comportamento che non viene rinforzato tende a scomparire. Ciò significa che i singoli
comportamenti problematici e persistenti individuati dall’insegnante vengono in qualche modo rinforzati dall’ambiente
circostante. È proprio questa azione di rinforzo che spiega la loro persistenza; senza questa azione tali comportamenti
si estinguerebbero gradualmente. È invece possibile che i comportamenti opposti, quelli che l’insegnante vorrebbe
prendessero il posto dei comportamenti problematici, non ricevano alcun rinforzo positivo, la qual cosa potrebbe spie-
gare la loro mancata comparsa. La prima strategia da seguire è quella di compilare un elenco dei singoli comportamen-
ti di un alunno che crea dei problemi; a fianco di ognuno di questi comportamenti-bersaglio (target behaviours),
l’insegnante annoterà quella che al riguardo è la propria risposta abituale (o, in certi casi, quella degli altri alunni). Oc-
corre essere molto precisi nella descrizione del comportamento che disapproviamo.
Le cause dei comportamenti-bersaglio indesiderati
All’insegnante risulterà probabilmente chiaro che le sue risposte, ben lungi da costituire una punizione, fungono in
realtà da rinforzo per quegli stessi comportamenti che ci si proponeva di eliminare. Potrebbe darsi che gli alunni pro-
vengano da un ambiente dove fin dai primi anni di vita hanno appreso, attraverso forme di condizionamento operante,
che l’unico modo di ottenere un qualsiasi tipo di attenzione da parte degli altri consisteva nel rendersi insopportabili.
Allora, anche se il tipo di attenzione che si procurano comportandosi in modo turbolento è magari l’attenzione di una
persona furibonda, per loro è comunque preferibile rispetto al rischio di essere ignorati del tutto; in virtù di tale rinfor-
zo, la loro condotta turbolenta finisce per diventare parte integrante del loro repertorio di comportamenti. Non è detto,
comunque, che esista consapevolezza di questo processo. I comportamenti di questo tipo vengono definiti comporta-
menti di ricerca dell’attenzione, e sono riconosciuti come una delle cause principali dei problemi della classe. Alle
volte può capitare che l’alunno ricerchi costantemente, in svariati modi per niente turbolenti, la vicinanza
dell’insegnante; anche in questi casi si tratta di spie di un bisogno di aiuto, il cui appagamento, però, non fa che peg-
giorare la situazione. Altre volte l’attenzione che questi alunni ricercano è quella dei compagni più che dell’insegnante,
e magari si sono accorti di poter riscuotere un certo successo in classe facendo ridere un po’ tutti, o mostrando com-
portamenti da “duri” disobbedendo all’insegnante.
Prendere coscienza di entrambi i lati del problema
Il primo passo è sempre quello di stilare un elenco dei singoli comportamenti di un alunno che nell’insieme costitui-
scono il problema, e di annotare a fianco le risposte abituali date a ciascuno. Il passo successivo consiste nel redigere
un secondo elenco, contenente questa volta tutti quei comportamenti dell’alunno che vanno invece incoraggiati, i com-
portamenti-meta, annotando di nuovo, a fianco, la risposta data abitualmente dall’insegnante nei casi in cui questi
comportamenti si siano verificati; si potrà così notare come la risposta data dall’insegnante consista nel non prestare
alcuna attenzione all’alunno: il comportamento buono, cioè, anziché ricevere un rinforzo (attenzione dell’insegnante),
riceve la punizione di venire ignorato. Il comportamento problematico non esiste come fatto isolato, bensì è il punto
centrale di una matrice di forze che agiscono in modo tale da crearlo e alimentarlo. Se desideriamo modificarlo, pertan-
to, la prima cosa che dobbiamo fare è produrre dei cambiamenti in queste forze (invertire il tipo di risposte date finora,
prima di tutto).
Obiezioni alle tecniche di comportamento
1ª obiezione = Può capitare che un alunno non esibisca nessuno di quei comportamenti opposti che gradiremmo. Si
può allora ricorrere alla tecnica chiamata modellamento o modellaggio (shaping) o delle approssimazioni successive,
che consiste nel rafforzare il comportamento che più si avvicina a quello che in realtà desideriamo: gradualmente, i
comportamenti si avvicinano sempre più agli specifici comportamenti desiderati [v. p.52]. 2ª obiezione = Vi sono al-
cuni comportamenti inaccettabili che non possiamo limitarci a ignorare. L’insegnante, d’altronde, ha dei doveri anche
nei confronti del resto della classe; e neppure desidera che l’alunno difficile divenga modello per i compagni più in-
fluenzabili. Ma: l’alunno difficile diventerà modello soltanto se agli occhi dei compagni il suo comportamento otterrà
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dei risultati; qualora l’insegnante mostri chiari segni di frustrazione e di nervosismo o finisca per arrabbiarsi, i rischi
sono molto maggiori rispetto al caso in cui egli porti avanti serenamente il lavoro in classe senza dare l’impressione di
irritarsi. Nei casi limite, invece, è possibile ricorrere alla tecnica nota come sospensione (o sottrazione) del rinforzo
positivo: una volta che un alunno sia stato allontanato dall’aula, svaniscono tutte le sue possibilità di ricevere rinforzi
positivi sotto forma di attenzione da parte dell’insegnante o dei compagni. In linea generale, tale tecnica è orami da
tempo dalle scuole disapprovata , sulla base dei seguenti motivi: a) L’alunno obbligato a restar fuori perde la lezione;
b) nel caso l’aula abbia una porta a vetri l’alunno che è fuori si divertirà a distrarre i compagni; c) l’alunno potrebbe
semplicemente decidere di tornarsene a casa. Le ricerche dicono che questi problemi sono superabili se la scuola è do-
tata di un’aula apposita (aula di sospensione del rinforzo), dove essi devono stare seduti in silenzio sotto la sorveglian-
za di un membro del personale scolastico. Risulta sia sufficiente – in genere – far rimanere gli alunni nell’aula per un
massimo di dieci minuti prima di farli rientrare in classe, consentendo loro, in questo modo, di non perdere che una
piccola parte della lezione; nel caso si comportino nuovamente male, li si farà tornare nell’aula di sospensione del rin-
forzo. Naturalmente tale decisione deve rientrare nel quadro di una politica scolastica appoggiata da tutti i membri del
corpo insegnante. In casi in cui risulti discutibile tale soluzione, non resta che ricorrere ancora alla compilazione
dell’elenco dei comportamenti inaccettabili, decidendo quali fra questi possano essere ignorati, impegnandosi pure a
«sorprendere l’alunno a fare il bravo», cioè a premiare tutti i comportamenti positivi. Una volta ottenuti i primi succes-
si, l’insegnante potrà mostrare indifferenza anche ad altri comportamenti indesiderati… Ai comportamenti indesiderati
degli alunni che solitamente sono invece collaborativi l’insegnante potrà rispondere semplicemente nel modo più op-
portuno: talvolta astenendosi dal proferire giudizi, altre volte prendendo da parte l’alunno al termine della lezione e fa-
cendogli rimprovero o rivolgendogli parole pacate… 3ª obiezione = C’è chi accusa le tecniche di modificazione di es-
sere in qualche modo disumanizzanti (manipolazione del comportamento degli alunni da parte di persone investite di
autorità). La maggior parte degli insegnanti, infatti, preferisce trovare il modo di far ragionare gli alunni in questione e
di convincerli a cambiamenti anche per il proprio bene. Ma i fautori più oltranzisti delle tecniche di modificazione del
comportamento ci dicono invece che sprechiamo il nostro tempo ogni volta che decidiamo di fare appello agli alunni
stessi che danno problemi: che piaccia o no, se vogliamo riuscire a modificare comportamenti che per tutta la vita sono
stati costantemente sottoposti a programmi di rinforzo sbagliati, dobbiamo sostituire questi programmi con altri che
prevedono modalità di rinforzo più adeguate.
Naturalmente, per fortuna, , nella maggior parte dei casi i metodi del ragionamento e della persuasione funzionano (e il
motivo di ciò starebbe, secondo i fautori delle tecniche di modificazione del comportamento, nel fatto che questi alunni
provengono per lo più da famiglie che con i figli hanno sempre applicato programmi di rinforzo corretti, con la conse-
guenza che questi si sentono indotti a ricercare a scuola non l’attenzione dell’insegnante ma la sua approvazione).
L’economia simbolica
La cosiddetta economia simbolica, o economia dei buoni (token economy) è un metodo che viene impiegato positiva-
mente in alcune scuole speciali, all’interno di comunità chiuse. Gli alunni ricevono dei «buoni» (tokens) – che possono
consistere in veri e propri gettoni, o in voti segnati sul registro, o in qualsiasi altra cosa concordata – ogni volta danno
prova di comportarsi nei modi desiderati, mentre perdono dei buoni ogni volta che manifestano i comportamenti inde-
siderati. Al termine di un periodo di tempo convenuto gli alunni cedono i propri buoni in cambio di una qualche con-
cessione speciale (l’autorizzazione a guardare di più la TV…). In questo modo gli alunni vengono ad avere una prova
tangibile delle ricompense che procura loro il fatto di aver migliorato il comportamento; grazie al comportamento ope-
rante, inoltre, questo comportamento dovrebbe entrare a far parte del repertorio di comportamenti di ciascuno di loro
in modo integrante. L’economia simbolica è essenzialmente una forma di contratto sulle prestazioni. È stato dimostra-
to che tali forme funzionano bene anche nelle scuole normali. Un esempio è la scheda di registrazione dei comporta-
menti: l’alunno concorda di comportarsi bene durante ciascuna lezione; alla fine della lezione l’insegnante annota i
comportamenti che ha osservato sulla scheda personale dell’alunno e al termine della settimana l’alunno può scambiare
la propria scheda con una sorta di certificato di buona condotta. Difetti principali: la ricompensa a fine settimana non
ha un sufficiente impatto positivo sugli alunni che presentano gravi problemi di comportamento; la scheda non mette
sufficientemente a fuoco i singoli comportamenti specifici. Ciò nonostante dalle ricerche emerge che nelle scuole nor-
mali il contratto sulle prestazioni può essere d’aiuto agli alunni difficili, soprattutto se riusciamo a convincere genitori
e comunità locale nel suo complesso a erogare ricompense. Può essere utile, per evitare che il contratto si protragga
all’infinito, fare in modo che gli alunni ricevano non solo la ricompensa pattuita, ma anche ogni altro genere di rinforzi
accidentali. A un certo punto gli alunni si accorgeranno che da quando hanno iniziato a comportarsi meglio
l’insegnante reagisce in modo più favorevole nei loro confronti, che cominciano ha ottenere voti più alti, che i genitori
sono più contenti, che i compagni hanno con loro un atteggiamento più amichevole, che le lezioni sono più interessanti,
che la propria autostima si accresce… A mano a mano che il loro orizzonte si amplia, sono questi rinforzi accidentali
che vanno a consolidare, dopo la conclusione del contratto, il loro nuovo modo di comportarsi.
Considerazioni generali sulla modificazione del comportamento
Queste tecniche non hanno un impiego esclusivo con gli alunni che rendono la vita difficile agli altri (del resto, il Rap-
porto Underwood – 1955 – definisce «disadattato» il bambino che «si sviluppa secondo modalità che hanno un effetto
negativo su se stesso o sui compagni»). Nel caso del bambino che si isola, i sostenitori della modificazione del com-
portamento affermano che spesso siamo noi, sia pure senza rendercene conto, a rinforzare questo suo isolamento nei
primi anni di scuola: non appena otteniamo una sua partecipazione alla varie attività, tendiamo a dirottare l’attenzione
sugli altri alunni che hanno bisogno di noi, rinforzando così positivamente – senza volerlo – la condotta di autoisola-
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mento dell’alunno (con il rivolgerci a lui) e punire il suo comportamento di segno sociale (con il togliergli l’attenzione
non appena abbiamo ottenuto che lavori insieme agli altri) [F,325-336].
Altri aspetti della conduzione della classe
Anche la classe più diligente può essere in certe occasioni turbolenta. Il miglior modo di esaminare questi problemi è
quello di delineare un certo numero di regole fondamentali di natura generale che siano valide per la maggior parte
delle situazioni che vengono a crearsi in classe. Eccone alcune:
1. Sollecitare l’interesse della classe.
2. Evitare i modi affettati.
3. Siate giusti (interessante sapere che gli alunni, a qualsiasi età, considerano il comportamento “giusto” una delle ca-
ratteristiche più apprezzabili di un insegnante).
4. Abbiate il senso dell’umorismo (ridendo anche di voi stessi, qualche volta; spesso per gli alunni il senso
dell’umorismo è secondo soltanto alla capacità di essere giusti nelle graduatorie delle qualità dell’insegnante).
5. Evitate le minacce inutili (nelle occasioni in cui si reputino inevitabili, occorre fare in modo che tali minacce siano
proporzionate al fatto commesso e insieme realistiche; una volta lanciate, poi, bisogna anche metterle in atto).
6. Siate puntuali (anche per quanto riguarda il termine delle lezioni).
7. Evitate di arrabbiarvi.
8. Evitate di dare eccessiva confidenza (all’inizio è meglio l’atteggiamento formale, aumentando poi gradualmente la
familiarità: un po’ come quando si fanno nuove amicizie; insegnanti con carattere debole si comportano, di solito, in
modo opposto).
9. Offrite agli alunni occasioni di assumersi delle responsabilità.
10. Focalizzate l’attenzione della classe (più che invitare al silenzio o all’ordine, è molto più utile chiamare per nome
gli alunni più direttamente coinvolti; imparare, dunque, al più presto i nomi di tutti gli alunni).
11. Evitare di umiliare gli alunni (a prescindere dai danni psicologici, le umiliazioni danneggiano l’immagine
dell’alunno agli occhi della classe; il sarcasmo è spesso avvertito dagli alunni come un’umiliazione, spingendo inoltre a
replicare con altrettanta irriverenza).
12. Siate vigili (mantenere la disciplina con vista acuta e mobilità fisica).
13. Usate un linguaggio costruttivo (porre sempre l’accento su ciò che si desidera gli alunni facciano piuttosto che su
quello che devono astenersi dal fare; meglio dire «Entra in silenzio» che «Non fare tutto quel chiasso», dato che il lin-
guaggio negativo porta gli alunni a pensare ad attività che prima non erano nemmeno passate loro per la testa).
14. Mostratevi sicuri di voi stessi.
15. Siate ben organizzati (date chiarimenti prima di iniziare un’attività, mentre gli alunni sono attenti; gli alunni sap-
piano dove vengono custoditi gli oggetti d’uso della classe, ognuno di loro abbia precisi doveri e responsabilità).
16. Fate capire agli alunni che li sostenete [F,336-341; v. files relativi a comunicazione e gestione della classe].
Il ricorso alle punizioni
a) In linea di massima qualsiasi forma di punizione comporta i seguenti rischi:
a) L’utilizzo di qualunque tipo di punizioni può compromettere i rapporti tra alunno e insegnante, forse anche in modo
permanente (specialmente se la punizione è sentita come ingiusta o è vista come mezzo per umiliare).
b) L’alunno potrebbe adottare delle strategie, come l’abitudine a mentire, per evitare le punizioni.
c) La punizione insegna all’alunno una cattiva lezione: che ai più forti è consentito punire i più deboli di loro.
Le sanzioni efficaci
a) L’utilizzo oculato del rinforzo positivo insieme ad alcune sanzioni è spesso sufficiente a determinare le trasforma-
zioni desiderate nel comportamento della maggior parte degli alunni [v. le tecniche di modificazione del comportamen-
to a p.119].
b) Il genere di punizione maggiormente usato, e spesso anche il più efficace con gli alunni collaborativi, è il rimpro-
vero verbale. La ragione per cui questo metodo è così efficace è che gli alunni sembrano avere bisogno (C. Rogers lo
considera un bisogno innato) dell’approvazione degli adulti. Probabilmente si tratta di un’esigenza riconducibile al bi-
sogno di essere accettati socialmente e al bisogno di autostima.
c) Molto efficace è il sistema di informare i genitori del fatto che la scuola disapprova il comportamento dei figli (ti-
more da parte degli alunni di disapprovazione anche in famiglia). Una buona strategia è anche quella che prevede che
il Preside prepari una lettera indirizzata ai genitori, che convochi gli alunni e gliela legga (eventualmente archiviando-
la, dopo aver ottenuto modifiche di comportamento da parte degli alunni interessati). Importante, comunque, che la let-
tere descriva dettagliatamente il tipo di comportamento che la scuola disapprova. Una variante è il momento di conse-
gnare alle famiglie le schede di valutazione degli alunni, posto che tali schede siano accompagnate da dettagli precisi,
nonché da indicazioni chiare sul modo di rimediare ai vari problemi.
d) Molto utile coinvolgere i genitori in qualità di collaboratori nell’istruzione formale dei figli. Importanti gli incontri
periodici tra genitori e insegnanti (nonostante le comprensibili critiche: spesso proprio i genitori meno interessati sono
quelli più difficili da coinvolgere).
e) Rousseau la definiva la legge delle conseguenze naturali: le conseguenze scaturiscono dall’ambiente nel suo com-
plesso (anziché dall’insegnante, come nel condizionamento operante). S. Isaacs negli anni ’30 ne dimostrò l’efficacia,
specialmente sui bambini più piccoli. Ad es.: quando si chiamavano i bambini per il pranzo poteva succedere che alcu-
ni di loro continuassero a giocare; si permetteva loro di rimanere dov’erano se lo desideravano, solo che quando infine
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decidevano di andare a mangiare scoprivano o che il cibo era freddo o che i secondi piatti erano finiti… Ovvio che in
diverse occasioni (specie quando è in gioco la sicurezza fisica) il bambino deve essere salvaguardato dalle conseguen-
ze naturali delle sue azioni, ma in linea di massima tale strategia si dimostra molto utile, poiché consente agli alunni di
verificare il nesso causale tra le azioni compiute e i risultati indesiderati che a volte ne conseguono. I bambini più pic-
coli hanno però bisogno di considerare azioni e risultati molto vicini nel tempo. Altra cautela: fare in modo che i bam-
bini non sperimentino troppo a lungo le conseguenze naturali (abitudine alla privazione prima, valutazione del gesto
degli insegnanti come atto vendicativo poi).
f) Non sono invece efficaci il sottrarre agli alunni l’intervallo per la ricreazione o la possibilità di fare determinati
giochi o il farli restare in classe oltre il normale orario scolastico: spesso passa un intervallo di tempo troppo lungo tra
l’emissione di tali comportamenti e la somministrazione delle punizioni (più efficacia se fossero gli alunni stessi a pro-
curarsi punizioni, come conseguenze naturali) [341-345].
I problemi di comportamento nei gruppi di alunni
A volte le difficoltà nel mantenere la disciplina della classe derivano dal comportamento di determinati gruppi. Primo
compito dell’insegnante, ancora una volta, è il compilare un elenco dei comportamenti scolastici osservati; anche qui è
possibile che siano le risposte degli insegnanti ad alimentare tali comportamenti, o almeno a creare le precondizioni
della loro comparsa (ad es.: carenze organizzative, eccessiva confidenza, atteggiamenti troppo contegnosi). Oltre al
modificare il comportamento proprio dell’insegnante, esistono altre utili strategie generali:
Innanzitutto individuate il membro o i membri del gruppo che esercitano maggiore influenza sugli altri [a proposi-
to dei leader e degli idoli, v. p.111]. Una volta individuati (Lewin li chiama i guardiani), l’insegnante potrà concentra-
re i propri sforzi su di essi, ben sapendo che se riuscirà ad aver ragione di loro il resto del gruppo probabilmente segui-
rà l’esempio dei leader.
Quando è possibile, dividete il gruppo che si comporta male (posti separati, attività lavorative diverse in classe e
per i compiti a casa…). L’insegnante deve contribuire a spezzare la coesione interna del gruppo e incoraggiare i singoli
componenti a crearsi nuove amicizie al di fuori del gruppo (l’ideale sarebbe, ovviamente, che tutto ciò rimanesse al di
fuori della consapevolezza degli alunni in questione).
Interagite il più possibile con gli alunni individualmente: così si aiuta ogni singolo alunno a instaurare un rapporto
personale con l’insegnante (e si contribuisce a spezzare la coesione interna).
Trascorrete la maggior quantità di tempo possibile con gli alunni, sempre individualmente, al di fuori della classe:
ciò indebolisce la loro tendenza ad associare l’immagine dell’insegnante esclusivamente alla vita della classe.
Quando è possibile evitate il conflitto diretto con i singoli membri di un gruppo di fronte a tutti gli altri: l’esigenza
del singolo di salvaguardare il proprio prestigio e la propria posizione agli occhi degli altri membri del gruppo rende
molto più difficile trattare con i singoli alunni quando sono insieme che non quando sono da soli; perciò occorre anche
fare il possibile per sdrammatizzare la situazione e affrontarla in un momento più propizio.
Non volendo applicare le tecniche di modificazione del comportamento in maniera sistematica, l’insegnante può – per
es. – gentilmente dire all’alunno che si comporta in modo insolente che ha si rende conto che c’è qualcosa che lo indi-
spone, aggiungendo che si rende disponibile alla fine della lezione ad ascoltare con calma tutte le sue ragioni.
Gli scontri fisici
In questi casi occorre che l’insegnante agisca rapidamente e con determinazione, mostrando una sicurezza che potreb-
be in realtà non avere: attraversando l’aula con passo deciso e dividendo fisicamente gli alunni, tenendo saldamente
fermo l’aggressore. Dopodiché si rivolge con calma ad entrambi gli alunni e, servendosi della formula che abbiamo già
visto, fa sapere loro di rendersi conto che per un qualche motivo sono agitati (o arrabbiati), aggiungendo che ascolterà
volentieri, quando si saranno calmati, le ragioni di entrambi in proposito (non è affatto opportuno che l’insegnante rea-
gisca arrabbiandosi: la calma e un pizzico di umorismo portano decisamente a risultati migliori) [F,345-3347].
Rifiuto della scuola e mancata frequenza scolastica
Gli alunni che fanno continue assenze da scuola senza giustificati motivi ci segnalano in modo chiaro che dal loro pun-
to di vista i vantaggi ricavati non andando a scuola sono maggiori di quelli che otterrebbero frequentando le lezioni. La
prima domanda da porsi, al solito, è: perché le cose vanno in questo modo? Le risposte possono essere le seguenti:
L’alunno può essere vittima della prepotenza di altri alunni.
L’alunno può aver timore di un certo insegnante o di un qualche genere di punizione.
L’alunno potrebbe associare la scuola a tal punto con l’insuccesso personale, che il non andare a scuola risulta un
modo per salvaguardare la propria autostima.
Potrebbero esistere problemi in famiglia che impediscono all’alunno di frequentare la scuola.
È possibile che i genitori, impedendo al figlio di frequentare la scuola, sentano di poter così dare espressione a una
sorta di oscuro rancore nei confronti della società.
Può darsi che il ragazzo assuma alcool o droghe, e che il suo stato di salute sia tale da non consentirgli di frequen-
tare la scuola.
L’alunno potrebbe essere coinvolto in qualche genere di attività delinquenziale.
È anche possibile semplicemente che l’alunno abbia del tutto a noia la scuola e che sia alla ricerca di qualcosa di
più stimolante da fare.
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Anche il rifiuto della scuola non è un problema esclusivo dell’alunno. Possono svolgere un ruolo importante i compa-
gni, i genitori, gli insegnanti, l’organizzazione scolastica o gruppi di coetanei devianti. Naturalmente, più diventano
numerose le assenze, più gli alunni rimangono indietro nello studio; questa situazione finisce per indurli a crearsi una
rete sempre più fitta di bugie e di inganni a scopi autoprotettivi, il che, a sua volta, rende loro sempre più difficile avere
fiducia negli altri e chiedere aiuto. In questi casi, comunque, punire gli alunni è un provvedimento immotivato, addirit-
tura controproducente. Bisogna invece cercare di far capire a questi ragazzi che la scuola ha proprio lo scopo di com-
prendere le paure e le ansie generate in loro dai problemi che magari si trovano ad affrontare nella loro vita, che la
scuola è più che disponibile ad aiutarli. E: tentare di capire insieme a questi ragazzi perché la scuola li annoi tanto e
perché la sentano così lontana dai loro interessi. Le scuole che organizzano corsi speciali per i meno capaci, solitamen-
te riescono nell’intento di ridurre il fenomeno. Comunque, la mancata frequenza scolastica non è sicuramente un pro-
blema affrontabile con le più comuni tecniche di modificazione del comportamento [F,347-349].
La comunicazione educativa
Atmosfere educative e qualità della comunicazione
La comunicazione educativa è una specifica forma di comunicazione. Il rapporto comunicativo che si instaura in classe
rispecchia il tipo di atmosfera che vi regna [Pe,219-220; v. anche «La lezione come interazione sociale»: p.107].
Che cosa si comunica?
Possiamo così raggruppare i contenuti della comunicazione educativa:
a) Dati di conoscenza (strutture cognitive più o meno complesse, modi particolari di operare su certi dati…; ma an-
che ciò che di rilevante sta accadendo nell’ambiente extrascolastico, le esperienze dei singoli allievi, certi temi toccati
dai giornali o dalla tv, certi problemi generali che riguardano sia la vita presente degli allievi sia la loro vita futura…);
l’insegnante può «far sapere» agli allievi ciò che pensa intorno a un certo fatto, oppure può riuscire anche a persuade-
re.
b) Sentimenti ed emozioni (certezza e dubbio circa le cose che si stanno dicendo, gioia, dolore, curiosità…); comuni-
cazione che può aver luogo «rendendo noto» agli altri ciò che si sta provando, o trasmettendo, suscitando la comparte-
cipazione di chi ascolta.
c) Atteggiamenti e valori (atteggiamenti di curiosità, di entusiasmo, di ascolto, di obiettività, di collaborazione invece
che di competizione…); possiamo far conoscere agli altri che si sono assunti certi atteggiamenti e ci si ispira a certi va-
lori, oppure possiamo giungere a far assumere agli altri tali atteggiamenti e valori.
Si educa attraverso ciò che si dice, ma anche – soprattutto – attraverso ciò che si fa [Pe,220-223].
Con quali mezzi si comunica?
Il linguaggio verbale orale è il più consueto (la lezione, la conversazione, la discussione, la lettura ad alta voce…), il
cui limite può consistere nella diversità di codici fra chi lo usa e i suoi ascoltatori. Un insegnante dovrebbe collocarsi a
un livello di scelta di vocaboli per lo meno intermedio, e utilizzare certi accorgimenti [v. appunti di Gatta F. sulla le-
zione]. Il linguaggio verbale scritto (dobbiamo tener conto di una molteplicità di codici, e persino dell’assenza di codi-
ci). Le immagini permettono di superare molte difficoltà che si incontrano con le due forme di comunicazione sopra ci-
tate. Il gesto, essenziale nelle situazioni in cui non è possibile usare i tre precedenti. È opportuno, nel comportamento
comunicativo, combinare insieme ciascuno di questi mezzi. Ed è importante che questi mezzi si integrino bene fra loro,
e che il dosaggio sia ogni volta anche in rapporto con il contenuto della comunicazione [v. anche il principio di trasfe-
ribilità linguistica]. Anche il silenzio può essere un mezzo per comunicare… Infine, il comportamento concreto è pure
uno strumento per comunicare: soprattutto quando si comunicano emozioni, atteggiamenti, valori [Pe,223-225].
In quali modi si comunica?
a) Si può comunicare in modo esplicito, oppure implicito.
b) In forma suggestiva, ovvero facendo sorgere negli altri opinioni e convinzioni senza che si rendano conto che sono
state suggerite da noi.
c) In forma diretta, o tramite terza persona.
d) La comunicazione può essere univoca, oppure può trasmettere due messaggi, magari contraddittori.
e) Si può comunicare sotto forma di indottrinamento (presentare certi atteggiamenti o valori come i soli esistenti, o
gli unici validi) o di analisi critica (invito al confronto, ad una scelta consapevole).
f) Si può motivare all’ascolto (preoccupazione da parte di chi dà avvio ad un atto comunicativo: verificando la pre-
senza negli interlocutori di un interesse per ciò che si sta per dire; suscitando un problema a partire dalla concreta espe-
rienza degli ascoltatori, o da conoscenze da essi già possedute [v. anche la dissonanza cognitiva].
g) Nella comunicazione vi può essere unidirezionalità (quando all’interlocutore non viene dato molto spazio per in-
tervenire) o circolarità (garantita da un feedback frequente, spontaneo o sollecitato). Una comunicazione è pienamente
circolare quando vi è un continuo passaggio di informazioni dall’insegnante agli allievi e anche dagli allievi
all’insegnante, generalmente con un «messaggio principale» e un feedback spontaneo, e con situazioni in cui in certi
casi è l’insegnante che produce il messaggio principale, in altre sono invece gli allievi a produrlo, con un continuo pas-
saggio dall’uno agli altri. Si tratta di una situazione più complessa di una comunicazione fondamentalmente unidire-
zionale [Pe,225-229].
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Difficoltà nella comunicazione
Perdita di informazione e ruolo della ridondanza
Una prima causa di perdita dell’informazione può essere individuata nel canale. Bisogna: - evitare la cancellazione di
una parte del messaggio, assicurandosi che il canale non sia interrotto in qualche suo punto; - fare un uso sapiente della
ridondanza (esemplificativa, semplificativa, complicativa, introduttiva, riassuntiva; con illustrazioni, didascalie, do-
mande).
Carenza di feedback
Il feedback è efficace, ai fini di un orientamento e aggiustamento del comportamento comunicativo, quando: giunge in
tempo utile, è completo o vario [Pe,229-235; v. files relativi a comunicazione e gestione della classe].
Le attività di orientamento e di consulenza nella scuola
L’attività di consulenza
Ogni insegnante, oltre a essere una persona che insegna abilità sociali, è un consigliere [sul counseling, v. l’edizione
più recente di F «Manuale di psicologia per gli insegnanti», Erickson, 1996, pp.359-380; F,304-308].
Conflitti e forze di natura sociale
Secondo Lewin (1936) lo spazio sociale in cui l’individuo si muove può essere suddiviso in un certo numero di “regio-
ni”, ovvero valenze (per un alunno, per es., l’ambiente familiare, la scuola, un gruppo giovanile…). L’ideale sarebbe
che ognuno di noi, nella propria vita, fosse in grado di spostarsi da una valenza all’altra senza dover apportare cam-
biamenti eccessivi al proprio comportamento sociale e a modelli e valori che lo informano: le barriere che dividono
una valenza dall’altra dovrebbero essere basse. L’individuo sarebbe così in grado di condurre una vita sociale relati-
vamente armonica; in caso contrario possono nascere conflitti e sensi di colpa [F,308-315].
L’orientamento professionale
Un altro tipo di consulenza è quella relativa all’orientamento professionale.
Prima di giungere a compiere una scelta professionale definitiva ogni studente passa attraverso diversi stadi.
Gli stadi del percorso che conduce a una scelta professionale matura
Super (1957), sulla base di una precedente ricerca di Ginzberg, ha proposto il seguente modello di definizione di tali
stadi (si tenga però presente che alcuni soggetti attraversano ciascuno stadio molto più tardi rispetto ad altri):
Stadio 1. Stadio della fantasia (primi anni dell’infanzia, di solito sino ai primi anni delle elementari): i bambini fanta-
sticano di essere qualsiasi cosa attragga la loro immaginazione; scarsa attenzione alla concreta realtà delle attività lavo-
rative per le quali provano interesse.
Stadio 2. Stadio dell’interesse (ultimi anni delle elementari): la fantasia inizia a lasciare il posto all’interesse; attrazio-
ne per quelle attività lavorative che paiono rispecchiare le cose che si trovano interessanti.
Stadio 3. Stadio della capacità (anni centrali dell’adolescenza): comincia ad assumere importanza un altro fattore: la
capacità; si sviluppa la tendenza a scartare le attività lavorative considerate al di sopra o al di sotto dei propri livelli di
capacità.
Stadio 4. Stadio delle prime scelte (ultimi anni dell’adolescenza): si compiono le prime scelte di prova riguardanti la
futura attività lavorativa; si cominciano a presentare domande di lavoro e a conoscere la realtà del mondo del lavoro.
Stadio 5. Stadio della sperimentazione (poco dopo i 20 anni): l’individuo prova diverse esperienze e può anche cam-
biare speso lavoro.
Stadio 6. Stadio della specializzazione (mezza età): di solito l’individuo è impegnato stabilmente in una determinata
professione.
Stadio 7. Stadio della decelerazione (dai 60 anni in poi): in genere, la persona non è più interessata a ottenere promo-
zioni e ulteriori avanzamenti di carriera.
Stadio 8. Stadio del pensionamento.
Si tenga presente che Super aveva concepito questo schema quando le donne per lo più non ambivano a intraprendere
una professione; fra l’altro, negli anni ’50 le persone di mezza età non cambiavano spesso lavoro [F,315-319].
L’organicità delle conoscenze e il curricolo
L’organicità delle conoscenze
I caratteri di un sapere organico
[V. anche «L’apprendimento», in part. “La natura del materiale da apprendere”: p.78] Un gruppo di conoscenze ha un
carattere organico quando esse sono collegate fra loro in modo da completarsi a vicenda dando origine a una struttura
unitaria ove ogni parte ha un chiaro rapporto con le altre e con la totalità che esse formano. L’organicità di una struttu-
ra si fonda essenzialmente su rapporti di evidente complementarità fra le sue parti, una complementarità che rende pos-
sibile la formazione di una totalità a carattere fortemente unitario. I vantaggi che presentano i gruppi di conoscenze a
carattere fortemente organico sono: - esse soddisfano quel bisogno di “capire” che è bisogno di cogliere dei rapporti
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che rendano «significativo» un insieme di dati, e suscitano quel “piacere di capire” e quella “abitudine a cercar di capi-
re” molto importanti sul piano motivazionale e su quello della formazione della personalità; - restano a lungo nella
memoria perché le loro parti si sostengono a vicenda; - se una parte di una struttura cognitiva di questo tipo viene di-
menticata le parti residue ne facilitano la ricostruzione [v. anche il principio metodologico di integrazione; Pe,249-
251].
Come nasce l’organicità
a) Nella mente dei ragazzi certe conoscenze assumono un carattere organico, anzitutto, perché (come ha sottolineato
Ausubel) all’atto della loro prima presentazione esse già avevano tale carattere (importante dunque allenarsi alla chia-
rezza espositiva, trovando per ogni tema la forma espositiva ottimale). b) L’organicità può essere raggiunta in occasio-
ne di una spiegazione, o di una discussione di gruppo, quando certi dati di esperienza o di conoscenza già presenti, ma
ancora in ordine sparso, vengono collegati fra loro, disposti secondo un certo ordine. c) La «strategia dei problemi» è
una terza via molto importante [Pe,251-253].
Organicità ed interdisciplinarità
Abbiamo situazioni «intradisciplinari» (i dati di conoscenza che vengono organizzati in una struttura nuova apparten-
gono tutti alla stessa area disciplinare). Ma abbiamo anche situazioni in cui l’organicità ha un respiro più ampio, inve-
stendo più campi disciplinari («interdisciplinarità»). Ecco varie posizioni assunte nel tempo da studiosi e scuole diver-
se: a) I centri d’interesse [v. Decroly]: consistono nello scegliere un certo tema che si suppone desti negli allievi un in-
teresse spontaneo e piuttosto vivo, per assumerlo come punto di riferimento per conversazioni, analisi, ricerche, o altre
forme di attività le quali permettano di affrontarlo o riaffrontarlo secondo prospettive diverse (limiti più evidenti: la
cosiddetta «piramide rovesciata», in cui il soffermarsi troppo a lungo su un certo tema – la punta – può ridurre gra-
dualmente l’interesse, e determinare alla fine saturazione; inoltre, il passaggio da una prospettiva all’altra assume spes-
so carattere un po’ meccanico, artificioso). b) La strategia dei progetti: rimette la piramide sulla sua base, ponendo al
suo vertice un certo obiettivo particolarmente stimolante, per conseguire il quale è tuttavia necessario affrontare attività
che riguardano diversi campi disciplinari, e risultano tra loro collegate dal comune denominatore costituito appunto
dall’essere tutte orientate ad un medesimo fine (il limite può essere che ciò si può applicare solo in un limitato numero
di casi, quelli appunto rappresentati da progetti concretamente realizzabili attraverso un lavoro comune che è comples-
so, richiede un certa quantità di tempo e un’accurata programmazione). c) L’«interdisciplinarità dinamica»: strettamen-
te legata alla strategia dei problemi, consiste nel cogliere tutte le occasioni favorevoli per sollevare, nell’ambito di una
certa area disciplinare, dei problemi che possano trovare la loro soluzione solo attraverso dati di conoscenza e attività
di strutturazione che riguardano un’area diversa (o anche più aree diverse). d) … [Pe,253-257].
Tre forme di interdisciplinarità «dinamica»
Vediamo ora in che modo possono essere affrontati i problemi interdisciplinari che si ha occasione di sollevare.
1) Dare loro soluzione immediata richiamando semplicemente delle conoscenze relative ad altri campi di esperienza
che gli allievi già hanno. 2) Qualora non basti il semplice richiamo di cose già note, si può decidere di aprire una pa-
rentesi nel discorso che si sta svolgendo nell’ambito di una certa disciplina, per affrontare brevemente (ma in maniera
ben articolata), ponendoci nella prospettiva dell’altra disciplina, il problema sollevato, e dargli una soluzione. 3) Si può
sollevare i problema e lasciarlo aperto, facendo notare la sua esistenza, e rinviandolo ad altri momenti o ad altro inse-
gnante. Si crea così un’aspettativa, una tensione, che resta viva fino al momento in cui si verificherà un’occasione adat-
ta, quando il ripresentarsi del problema in un contesto diverso richiamerà alla mente conoscenze ormai familiari, o
quando certe conoscenze nuove potranno venire riconosciute come la risposta a un problema rimasto aperto [Pe,257-
259].
Organicità aperta
Questa organicità, frutto della strategia dei problemi, può a sua volta produrre nuovi problemi… [Pe,259-260].
La programmazione
[V. materiali di Gatta F. su programmazioni; Pe,261-279; v. anche il curriculum script: AAppppeennddiiccee 11].
Gli insegnanti e le tecnologie multimediali
L’avvento dei personal computer e la loro prima introduzione nelle scuole negli anni ’70 ha segnato l’inizio di un mo-
do nuovo di pensare e fare didattica; ed ora si parla, dalle materne alle superiori, di multimedialità. Il programma mini-
steriale di sviluppo delle tecnologie didattiche nel sistema scolastico (1995) si propone di modificare e integrare la di-
dattica, tradizionalmente imperniata sulla parola orale e sul libro di testo (integrazione tra libro di testo, oralità
dell’insegnante, attività con le tecnologie, learning by doing…); tecnologie didattiche che possono favorire nuove
forme di dialogo fra scuola e realtà giovanile, rompendo l’isolamento della classe e della scuola con il mondo esterno.
Breve excursus storico
Comportamentismo = I primi ad entrare nelle scuole sono stati i programmi di tipo CAI (Computer Aided Instruction)
che si rifanno alle tecniche dell’istruzione programmata: scopo dell’educazione è la trasmissione di conoscenze da un
esperto a un novizio, e per trasmetterle è necessario operare in modo scientifico definendo obiettivi e mezzi per il loro
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raggiungimento; così questi programmi propongono sequenze didattiche basate sul meccanismo del rinforzo, e non vi è
spazio per l’iniziativa dell’allievo. Dal Cognitivismo al Costruttivismo sociointerazionista = Sono programmi di tipo
ICAI (Intelligent Computer Assisted Instruction) o ITS (Intelligent Tutoring System), più flessibili dei loro predecesso-
ri e in grado di imparare, modificando il loro comportamento in base all’esperienza. Verso gli anni ’70 si afferma an-
che un nuovo modo di utilizzare il computer: accanto alla funzione di tutor, appaiono anche gli usi del computer come
strumento e come discente (è il caso, ad es., del Logo, ma anche di sperimentazioni sull’uso dell’elaboratore come
strumento di educazione alla riflessione metalinguistica).
Le attese della multimedialità
Si può parlare di multimedialità: ad un I livello = ambiente informatico capace di gestire audio e video oltre che testi
ed immagini statiche; ad un II livello = ciò che va più propriamente sotto il nome di ipertesto, cioè di organizzazione
reticolare di informazioni multimediali. Non è certo una cosa nuova l’introduzione nella scuola di mezzi di comunica-
zione audio e video, la novità sta nel fatto che, almeno nelle indicazioni ministeriali, non ci si trova oggi davanti
all’introduzione di nuovi sussidi, ma si intende far penetrare nella scuola un nuovo modo di intendere la didattica: la
didattica multimediale si esprime dentro gli spazi dei nuovi media, così come la didattica tradizionale si esprime dentro
gli spazi del libro, della lavagna e del quaderno. Radio, cinema e televisione fino agli anni ’60 sono stati forme comu-
nicative, tecnologiche e sociali che avevano una loro specificità, ben differenziabili fra loro, inoltre il sistema della
comunicazione di massa era fortemente caratterizzata dalla centralizzazione della trasmissione e quindi dalla unidire-
zionalità della comunicazione; a partire dagli anni ’80 assistiamo ad una ibridazione tecnologica dei media; i sistemi
audio e video possono essere sottoposti a processi di digitalizzazione ed essere così letti da un computer: un elaborato-
re riesce così a gestire suoni e immagini, consentendo anche una maggiore interattività rispetto alle forme di comunica-
zione tradizionali. Ogni mezzo di comunicazione dà un contributo specifico allo sviluppo umano, ed è fondamentale in
educazione poter utilizzare tutti i media nella loro specificità e complementarietà (Olson, 1979); una didattica multi-
mediale può dunque aiutare a sviluppare aspetti diversi della mente ed insegnare ai ragazzi ad aprirsi a prospettive di-
verse. L’interattività è data principalmente da ciò che unisce e gestisce i diversi linguaggi, il mezzo computer, la cui
caratteristica principale è proprio quella di consentire all’utente di intervenire e condizionare il processo in corso (il
controllo può passare dal computer all’utente e viceversa, come nei videogiochi, appartenenti al I livello di multime-
dialità).
Ipertesti e ambienti ipermediali
Appartengono al II livello di multimedialità. Nel 1945 Vannevar Bush è il primo ad immaginare un sistema ipertestua-
le, e nel 1965 Theodor Nelson conia il termine “ipertesto” per riferirsi a «forme non sequenziali di scrittura congiunta
tramite collegamenti». Ipertesto = ambiente in cui un autore o utente può creare un percorso ramificato definendo le-
gami fra vari tipi di informazioni, e viene ad offrirsi come mezzo per pensare e per comunicare. Impermedia = sistema
che applica metodi e tecniche ipertestuali alla gestione di informazioni di natura multimediale: le associazioni avven-
gono non solo con elementi linguistici, ma anche con altri sistemi simbolici; è dunque una forma di organizzazione non
lineare di informazioni provenienti da diversi media. Comunemente è costituito da nodi (unità informative aventi auto-
sufficienza comunicativa: una videata, ma anche un’immagine, una parola, una frase, un filmato, uno schema grafico)
collegati fra loro attraverso legami o collegamenti che definiscono le relazioni logiche che esistono fra queste unità in-
formative (links, comandi riconoscibili e facilmente utilizzabili, che forniscono anche informazioni circa le relazioni
esistenti fra i nodi; possono essere referenziali, se pongono in relazione due punti qualsiasi dell’ipertesto che presenti-
no fra loro una associazione di qualsiasi tipo, e organizzativi, se hanno natura gerarchica ed esprimono relazione di su-
bordinazione o sovraordinazione fra concetti e informazioni). Si parla di ipertesti = non strutturati: una fittissima rete
di legami collega ogni nodo a un altro ed ogni nodo può rappresentare l’accesso alla base dati; strutturati: è presente
un’esplicita organizzazione dei nodi e dei legami, e in essi solitamente l’informazione è strutturata in insiemi di nodi
fra loro legati, che possono dare accesso ad altri insiemi; gerarchica: le pagine ipermediali sono collegate fra loro at-
traverso una struttura ad albero, in cui un nodo principale si discende via via verso nodi subordinati. L’esplorazione di
un documento ipertestuale viene chiamata “navigazione”, e il perdersi all’interno del mare di conoscenze viene consi-
derato un “naufragare”.
Problemi
Da parte dello studente-lettore sono possibili: disorientamento, sovraccarico cognitivo, distrazione. È importante che
la navigazione sia sostenuta da un compito dotato di significato, che sostenga la motivazione degli studenti, ne inco-
raggi il coinvolgimento e dia senso al loro esplorare; l’applicazione deve inoltre fornire un supporto alla collaborazio-
ne, proponendo attività che possano essere condivise con l’intera classe, favorendo il confronto e la costruzione comu-
ne di significati, e che non si esauriscano nel lavoro al computer ma si aprano verso altre fonti di informazione e nuove
ricerche.
Potenzialità educative per attività di studio
Dinamicità e plasticità: le applicazioni ipermediali, organizzando una rete complessa di informazioni articolata in nodi
e connessioni non lineari, usando diversi linguaggi e media, possono operare come amplificatori culturali e favorire un
modo di pensare associativo, complesso, personale. Tecnologie ipertestuali ed ipermediali si prestano ad assecondare
il modo in cui l’uomo “naturalmente” pensa: ciò avviene soprattutto grazie all’associare le informazioni e al far inte-
ragire insieme diversi codici linguistici; le ricerche dimostrano che la memorizzazione ed il richiamo delle informazio-
ni avviene in modo più efficiente quando le proposizioni che rappresentano l’informazione vengono proposte in una
forma ed una successione tali da consentire sempre al destinatario di costruire reti di proposizioni piuttosto che propo-
127
sizioni isolate, e che le immagini mentali facilitano la memorizzazione delle conoscenze, che risultano dunque mag-
giormente efficienti in occasione dell’impiego del doppio registro, verbale e iconico. Realizzano una maggiore traspa-
renza delle forme di comunicazione: gli ipermedia dovrebbero offrire un isomorfismo fra struttura della conoscenza e
struttura della comunicazione, tale da consentire ad un lettore inesperto di ricostruire la struttura della conoscenza (il
modo in cui è strutturato un certo campo di conoscenza nella mente di un esperto del dominio); sicché l’apprendimento
si realizzerebbe attraverso una modalità implicita, non dichiarativa, contestualizzata, più vicina, dunque,
all’apprendimento di abilità anche per quei contenuti che sono stati sempre oggetto di apprendimento esplicito (dichia-
rativo, non contestualizzato). Possibilità di raccogliere in poco spazio grande e varia quantità di informazioni e di ac-
cedervi con facilità e rapidità. L’ipertesto è un ambiente non direttivo: mette in gradi chi apprende di prendere deci-
sioni rispetto al proprio percorso, mantenendo sempre il controllo del proprio apprendimento. Un ipertesto offre non
soltanto nuovi modi di apprendere contenuti, ma anche nuovi modi di imparare ad imparare: la possibilità di scegliere
la propria rotta favorisce la personalizzazione dei percorsi di apprendimento. A scuola possiamo non soltanto fruire
delle applicazioni ipermediali presenti in commercio, ma anche progettare e costruire applicazioni multimediali: ot-
tima occasione per l’allestimento di ambienti di apprendimento costruttivo e cooperativo, oltre che di sollecitazioni di
abilità di organizzazione e di capacità di creare collegamenti di concetti; inoltre chi progetta e costruisce ipertesti deve
creare a priori una precisa struttura di riferimento.
La rete internet
È un enorme ipertesto, e viene considerata una potente risorsa per l’accesso all’informazione, oltre che un magnifico
strumento per la comunicazione interpersonale. La quantità di documenti presenti sulla rete è enorme, e la facilità di
accesso rende stimolante e divertente l’attività di raccolta di informazioni; è però necessario avere una forte motiva-
zione, pazienza e capacità di selezionare. È un’attività riservata agli studenti dalla scuola media in poi, guidati da inse-
gnanti che utilizzino quel tipo di attività anche per stimolare capacità critiche; l’uso dei motori di ricerca, poi, può rap-
presentare una palestra per lo sviluppo di abilità logiche. Ma una direzione forse più interessante per la didattica è uti-
lizzare la rete per mettere in atto attività di comunicazione e collaborazione a distanza fra scuole (scambio interperso-
nale attraverso la posta elettronica, ma anche esperienze di apprendimento cooperativo, costituendo comunità di ap-
prendimento a distanza).
Gli insegnanti e il computer
È necessario che gli insegnanti abbiano l’occasione di riflettere sui cambiamenti che l’uso educativo della multimedia-
lità può e deve arrecare alla didattica; ma: sarà la multimedialità a trasformare la scuola o sarà la scuola ad integrare la
multimedialità nella vecchia impostazione didattica? Deve cambiare prima di tutto il ruolo dell’insegnante: egli non è
più l’unico esperto di riferimento, ma esiste una comunità, e l’insegnante diviene colui che sollecita, sostiene ed orche-
stra le attività degli studenti. Cambia l’organizzazione degli spazi e dei tempi e svanisce la netta differenziazione fra
discipline; un’attività di progettazione e costruzione di oggetti multimediali per sua natura va oltre i rigidi confini delle
discipline, e gli studenti si muovono trasversalmente ad esse, passando attraverso connessioni, nessi, legami da un
blocco di sapere ad un altro [Po,339-359].
L’insegnante
Professionalità degli insegnanti e psicologia
Le componenti della professionalità dell’insegnante
La componente culturale
a) Conoscere bene le cose significa conoscerle «in modo problemico»: in un modo cioè che permetta di far scaturire
certe conoscenze da problemi proposti agli allievi con riferimento alle loro esperienze o alle conoscenze che essi già
possiedono e che vengano messe in crisi con domande opportune, che stimolano a riflettere, discutere, cercare.
b) Importante avere interessi transdisciplinari ed essere aperte a collaborazioni con i colleghi.
c) Importante conoscere in modo organico e problemico almeno alcune cose che nella struttura di un certo sapere oc-
cupano una posizione strategica, essere disponibili ad impararne altre cammin facendo, dichiarando quando è il caso la
propria limitata conoscenza di certi temi (sottolineando però la propria intenzione di colmare la lacuna, e indicando i
metodi adatti per farlo).
d) Conoscere le cose in profondità, nelle loro radici sia epistemologiche sia storiche.
La componente pedagogico-didattica
1. Quali obiettivi porre all’intervento educativo? Che tipo di uomo ci si propone di formare? E che tipo di allievo si
vuole avere durante tutti gli anni in cui un ragazzo sta con noi?
2. Come fare per raggiungere gli obiettivi pedagogici di fondo? Come programmare a lungo termine l’intervento edu-
cativo, e come aggiornare periodicamente la programmazione in rapporto ai risultati parziali? Come coordinare il pro-
prio intervento con quello dei colleghi, o di altri «agenti educativi»? Come valutare i progressi compiuti dagli allievi
nei vari campi? Che spazio dare ai vari tipi di attività? Come ottenere l’interesse degli allievi e il loro coinvolgimento
nelle attività proposte? Che tipo di struttura dare alla classe?
3. Come insegnare quella particolare cosa-regola-principio…? [Pe,1-8].
128
Le “qualità umane”
L’insegnante dovrebbe possedere:
a) un carattere allegro, umore costante, ottimismo (pur con visione realistica), entusiasmo, coerenza, disponibilità;
b) un reale interesse per gli allievi, capacità di compartecipare ai loro problemi, calore umano, atteggiamento di
ascolto, capacità di decentrarsi sugli allievi e di indurli ad esprimersi;
c) accessibilità (atteggiamento che incoraggia gli allievi a confidare i loro dubbi, le loro difficoltà, a comunicare
esperienze, a chiedere consiglio, a formulare proposte senza timori;
d) un atteggiamento di fiducia nelle capacità degli allievi, pazienza, rispetto per le loro individualità e per il loro bi-
sogno di indipendenza, capacità di valorizzare le loro prestazioni – anche se modeste – e, nel caso di errori o mancan-
ze, tendenza ad analizzare con loro la natura dell’errore o della mancanza più che a rimproverarli o a punirli; imparzia-
lità [v. anche «La personalità»: “Le reazioni dell’insegnante” e “L’umore” p.88; Pe,8-11].
Personalità e caratteristiche dell’insegnante
Saper fare l’insegnante
Dalle ricerche emerge un dato deludente: è piuttosto scarsa la correlazione tra buoni risultati ottenuti da allievi inse-
gnanti nel corso del periodo di tirocinio e livelli di soddisfazione e riuscita professionale osservati a distanza di cinque
anni.
Insegnanti esperti e insegnanti novizi
Nell’ambito degli studi sulle pratiche di acquisizione delle competenze un settore particolarmente ricco è quello che
studia le differenze tra esperti e novizi in diversi contesti professionali e lavorativi; tale settore si può articolare in due
linee di ricerca principali: I- la prima – centrata sulla nozione di expertise – comprende gli studi condotti per lo più in
contesti non naturali (laboratorio) e centrati sulla descrizione della competenza esperta di un singolo individuo (unità e
oggetto di analisi sono rispettivamente l’individuo e le sue attività e competenze cognitive); II- la seconda – che ha
come nucleo la conoscenza situata – comprende gli studi che hanno analizzato la competenza esperta “in azione” nei
contesti lavorativi reali, considerando anche il peso dei fattori sociali e discorsivi nella costruzione e uso di tale compe-
tenza (unità e oggetto di analisi sono rispettivamente il sistema di attività situata e le pratiche sociali e discorsive di
uso delle competenze). I- ha evidenziato che: -la differenza fra esperti e novizi non risiede tanto nel numero o nella
qualità delle conoscenze possedute, ma piuttosto nella loro organizzazione (gli esperti hanno rappresentazioni più
complesse della situazione educativa, con interconnessioni e organizzazione degli aspetti rilevanti); -le competenze
degli esperti sono più contestualizzate (ad esempio intermini di alternative di istruzione); -le competenze e le pratiche
degli esperti sono più flessibili. II- ha confermato tali risultati, aggiungendo ad essi una caratterizzazione dell’uso delle
pratiche cognitive esperte. Scribner (1986) fornisce una sistematizzazione di quelle che sono le specificità cognitive
delle pratiche di pensiero esperto: a) impostazione di problemi: non sanno solo contribuire alla soluzione di problemi,
ma sono in grado soprattutto di permettere di “vederne” di nuovi; b) soluzioni flessibili: sono caratterizzate da un alto
grado di flessibilità cognitiva (lo “stesso” problema viene risolto ora in un modo ora in un altro, tenendo conto delle
specificità – temporali, spaziali, di importanza… – del contesto di soluzione); c) integrazione del contesto nel sistema
di soluzione di problemi: incorporano e utilizzano gli elementi caratteristici del contesto (le altre persone, i vincoli, gli
strumenti…) in cui il compito si svolge all’interno del processo di definizione/soluzione di problemi (i novizi fanno in-
vece più riferimento alle competenze “nella loro testa”); d) ottimizzazione dell’energia: privilegiano modalità econo-
miche di soluzione dei problemi, che permettono di risparmiare energia cognitiva e/o fisica (metastrategia); e) dipen-
denza da conoscenze specifiche e particolari: usano conoscenze altamente specifiche, particolarmente importanti, da
un punto di vista funzionale, allo svolgimento delle attività (abilità di discriminare tra informazioni rilevanti e “rumore
di sfondo” all’interno di un campo di attività) [v. anche le comunità di pratiche: AAppppeennddiiccee 11].
Le caratteristiche del buon insegnante
Ryans (1960) rilevò che l’insegnante che ha successo nella professione è in genere affettuoso, comprensivo, amichevo-
le, responsabile, sistematico, ricco di immaginazione e di entusiasmo; ma nel contempo osservò che gli alunni delle
scuole secondarie si rivelano più capaci degli alunni delle scuole elementari di adattarsi a insegnanti poveri di tali qua-
lità (di solito l’alunno, crescendo, diviene più capace di assumersi in prima persona la responsabilità del proprio lavoro
e di comportarsi con maggior flessibilità nei rapporti con gli adulti). Le ricerche di Ryans hanno per lo più trovato con-
ferma in studi più recenti; bisogna però osservare che egli non prese in esame l’importanza della competenza nelle spe-
cifiche materie d’insegnamento, che potrebbe avere un peso maggiore proprio con gli alunni delle scuole secondarie.
Ma dalla ricerca emerse pure che anche insegnanti di scuola elementare che non risultavano ricchi delle qualità sum-
menzionate ottenevano comunque risultati soddisfacenti (è anche possibile che gli insegnanti esaminati possedessero
altre qualità, non prese in considerazione). Ricerche condotte da Rosenshine (1970) e da altri sui rapporti tra genitori e
figli e tra insegnanti e alunni inducono a ritenere che una di queste qualità potrebbe consistere in un atteggiamento
alieno da critiche eccessive nei confronti del lavoro svolto dagli alunni. Altri studi mettono inoltre in evidenza che in
genere gli insegnanti più capaci, rispetto ai colleghi meno capaci, preparano meglio le lezioni, dedicano più tempo alle
attività che svolgono fuori dalle mura scolastiche e manifestano maggiore interesse per i loro alunni in quanto persone.
La sicurezza emotiva nell’insegnante
Altra buona qualità del buon insegnante è la maturità emotiva. La sicurezza emotiva è strettamente legata a quella che
in psicologia viene chiamata forza dell’Io. La forza dell’Io è un insieme di autostima e sicurezza di sé in grado realisti-
129
camente elevato, unitamente a una serenità emotiva di fondo che permette di affrontare con pazienza e obiettività i
problemi più diversi; questi problemi, nel caso dell’insegnante, non sono solo quelli che si presentano quotidianamente
in classe, ma anche le tante altre situazioni impegnative che accompagnano la sua vita professionale. La forza dell’Io
permette inoltre all’insegnante di non lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi e dalle delusioni che, insieme a realizzazio-
ni e successi, fanno inevitabilmente parte della vita scolastica. La forza dell’Io lo mette anche in grado di analizzare gli
insuccessi e le delusioni, e di imparare da queste esperienze senza tormentarsi con sentimenti di colpa e di inadegua-
tezza, di provare soddisfazione per i successi ottenuti pur senza perdere di vista il senso delle proporzioni. Dalle ricer-
che non emergono prove sistematiche dell’esistenza di una correlazione tra riuscita nell’insegnamento e grado elevato
di estroversione o viceversa di introversione (il buon senso induce a ritenere che insegnanti troppo introversi non se la
caverebbero bene in classe).
Gli atteggiamenti dell’insegnante
Dai dati disponibili si può trarre la conclusione che i buoni insegnanti possiedono, oltre a quanto già detto, quello che
viene spesso definito un «auspicabile atteggiamento professionale». L’insegnante che lo possiede ha un atteggiamento
convinto nei confronti delle proprie responsabilità e dell’impegno professionale che lo attende ogni giorno, sa che il
proprio ruolo richiede una disponibilità che va oltre il semplice compito di insegnare agli alunni una o più materie spe-
cifiche e che va oltre l’orario scolastico canonico, e possiede un atteggiamento sicuro in merito alla materia che inse-
gna e nei confronti del proprio ruolo sociale. Dalle ricerche condotte con l’utilizzo di varie scale che misurano gli
aspetti più evidenti degli atteggiamenti dell’insegnante (valutandolo in rapporto a: realismo, radicalismo e idealismo),
emerge che gli allievi insegnanti tendono a ottenere punteggi sempre più elevati in tutte e tre le dimensioni durante gli
anni della loro formazione e a ottenere invece punteggi più bassi non appena iniziano a esercitare. La capacità di me-
diare tra le varie esigenze (condizioni ambientali, punti di vista diversi dei colleghi) può rivelarsi una qualità importan-
te in un buon insegnante. Cortis (1973, 1985) ha rilevato che si mostrano maggiormente soddisfatti della carriera e ca-
paci di realizzare i migliori progressi professionali quegli insegnanti che non drammatizzano i contrasti di poco conto
con i colleghi e sanno anteporre la scuola alle loro esigenze personali allo scopo di far sì che nella scuola prevalgano
politiche e linee di condotta coerenti e solide, tali da permettere agli alunni di provare sicurezza e fiducia. I cattivi in-
segnanti, invece, tendono a occuparsi maggiormente dei propri problemi, a essere più autoritari, diffidenti e aggressivi.
Gli stili di insegnamento
Si tratta delle tecniche di insegnamento preferite dai diversi insegnanti. I metodi formali privilegiano l’importanza del-
la materia da insegnare (qualità relativamente elevata di interventi verbali e di lavoro individuale degli alunni), mentre
quelli informali privilegiano l’importanza degli alunni (maggiore ricorso a ricerche e ad attività di gruppo, offrendo
agli allievi molte opportunità di scelta e di assunzione di responsabilità personali). Distinzione che semplifica fin trop-
po la realtà concreta (probabile ricorso alla combinazione dei due metodi). Flanders ha elaborato i termini «non diret-
tivo» (accetta i sentimenti degli alunni, fa leva sulla lode e sull’incoraggiamento, utilizza le idee degli alunni) e «diret-
tivo» (fa lezione, impartisce ordini e direttive, biasima e critica gli alunni). Diverse ricerche dimostrano che il compor-
tamento non direttivo favorisce negli alunni risultati scolastici migliori e assunzione di atteggiamenti costruttivi, so-
prattutto nel caso di alunni più capaci. Alcuni studi, comunque, inducono a ritenere che una più elevata frequenza di in-
terventi verbali da parte dell’insegnante favorisca negli alunni un maggior sviluppo di creatività non verbale [v. “Le
atmosfere educative”: p.117].
Il valore degli interventi verbali dell’insegnante
Negli ultimi anni si è manifestata la tendenza, specie alle elementari, a scoraggiare interventi verbali dell’insegnante in
quanto tali e a privilegiare l’importanza degli interventi verbali degli alunni. Meglio porre l’accento su ciò che effetti-
vamente dice l’insegnante (contenuti, forma, flessibilità del parlare dell’insegnante). Ecco dunque un’altra qualità
dell’insegnante capace: essere un buon oratore (possedere un pensiero disciplinato, una mente capace di concentrarsi
creativamente su un insieme di idee pertinenti; capire quando è il momento di dare una risposta esauriente e quando
invece è il momento di lasciarla incompleta, usare la voce in modo chiaro ed espressivo, dare ai propri pensieri la for-
mulazione verbale più adeguata al livello della classe con cui si sta lavorando; e soprattutto capire quando è necessario
fermarsi, così da dirigere l’attenzione degli alunni sulle attività pratiche in un momento in cui essi desidererebbero sta-
re ancora ad ascoltare). Ma anche se un insegnante non giungesse mai ad apprendere l’arte oratoria, non c’è però moti-
vo perché non possa imparare l’arte dell’ascolto…
Introdurre la varietà nei metodi di insegnamento
Bennett (1976) presenta dati che dimostrano in modo più che evidente come nel complesso, per lo meno nella scuola
elementare, i progressi nella lettura, in matematica e nella lingua materna risultano più rapidi quando si usano metodi
formali, mentre Haddon e Lytton (1971) mostrano che la creatività generale, per come viene misurata dai test di pen-
siero divergente (strumenti non infallibili), tende ad essere più spiccata negli alunni delle scuole elementari che utiliz-
zano metodi informali che non negli alunni delle scuole dove sono in uso metodi formali e che le differenze permango-
no anche dopo il passaggio alle scuole secondarie. Sappiamo però anche che gli alunni finiscono per stancarsi delle si-
tuazioni in cui non hanno la certezza di che cosa ci si aspetta da loro e di quelle situazioni in cui il loro lavoro viene
continuamente interrotto dalle attività degli altri (circostanze più tipiche del contesto informale).
La flessibilità
Altra qualità del buon insegnante: la capacità di adattare i propri metodi alla materia che si insegna e agli alunni ai qua-
li tale materia viene insegnata [F,352-360; Po,325-329].
130
Lo stress dell’insegnante
L’insegnamento è per sua natura un’attività stressante. In sostanza è una risposta fisiologica a un eccesso di pressioni
provenienti dall’esterno; il corpo cerca di adattarsi, e se lo stress si prolunga si produce un crollo. In generale il proces-
so di adattamento e di crollo ha luogo in tre fasi: 1. una reazione di allarme seguita da uno stato di shock e dalla dimi-
nuzione della capacità di resistenza, cui seguono la mobilitazione di meccanismi di difesa e una rinnovata capacità di
resistenza; 2. una fase di resistenza caratterizzata da oscillazioni del grado di adattamento; 3. una fase di esaurimento
delle forze, causato da collasso della risposta adattiva e dal crollo fisico o psicologico. Attacchi di panico che determi-
nano stati di insonnia, bruschi cambiamenti nello stile di vita, un aumento del consumo di alcool, agitazione, irrequie-
tezza, depressione, irritabilità sono tutti segni di un crescente stato di stress. Ci sono persone che riescono a tener testa
allo stress per lunghi periodi. Lo stress ha comunque un suo prezzo. Accade spesso di apprendere con stupore che
l’insegnante apprensivo o che crede poco in se stesso è meno soggetto a stress dell’insegnante dal carattere estrema-
mente ambizioso che dedica troppo tempo e impegno al lavoro e prende le cose troppo seriamente. Superimpegno e se-
rietà sono spesso sintomo di un modo di essere esigentissimo e inflessibile, che espone a grandi frustrazioni di fronte
agli ostacoli o ai ritardi (la letteratura medica le definisce personalità di Tipo A, talvolta messa in relazione con forme
di collasso fisico quali ad esempio le malattie coronariche).
Come far fronte allo stress
1. Cercare di capire se facciamo parte della categoria dei superambiziosi: non si tratta in questo di caso di ridurre
l’atteggiamento di dedizione e il carico di lavoro, ma di ridimensionare le proprie aspettative e il proprio giudizio su
cosa realisticamente è possibile o impossibile fare in ogni data situazione; ugualmente importante è imparare a ridere,
soprattutto di se stessi, quando le cose vanno storte (favorisce l’accettazione di sé).
2. Esaminare le proprie reazioni: cercare di capire perché certe cose ci rendano tesi, contrariati o irritati (mi sento feri-
to nel mio orgoglio professionale? Mi sento diminuito ai miei stessi occhi? Sento messe in pericolo la mia immagine
del mondo e le mie valutazioni sulle possibilità degli allievi?).
3. Provare a esaminare gli altri con un po’ più di attenzione, e di frenarsi prima di attribuire loro la responsabilità dei
nostri problemi.
Corre sicuramente problemi anche chi ha una personalità caratterizzata da continui stati di tensione e nervosismo; al-
trettanto si può dire di chi ha scarsa autostima e fiducia in sé, come pure della persona pacifica che detesta la minima
situazione di conflitto con gli altri. In tutti i casi, comunque, un atteggiamento realistico di fronte alla vita e una buona
conoscenza di sé e degli altri sono tra i fattori fondamentali che servono a ridurre lo stress. Altrettanto preziose, a que-
sto fine, sono anche le semplici tecniche di rilassamento, che aiutano a diventare consapevoli delle tensioni del proprio
corpo e ad apprendere i modi per scioglierle. Molto utili si rivelano anche le tecniche di meditazione, che mirano a di-
stendere sia il corpo sia la mente [v. materiali in proposito: dispense, appunti…; F,360-364].
131
Indice generale
LA PERCEZIONE ......................................................................................................................................................... 1
LA PERCEZIONE: RICOSTRUZIONE INTERNA, VIA D’ACCESSO ALLA CONOSCENZA. .............................................................. 1 Sviluppo percettivo ..................................................................................................................................................................... 1 Condizioni per una ricostruzione interna completa e fedele ....................................................................................................... 1 Principi della percezione e fattori di organizzazione ad azione automatica ............................................................................... 1 Impostazione soggettiva e esperienza passata come fattori di strutturazione ............................................................................. 2 ALTRI ASPETTI DELL’ATTIVITÀ PERCETTIVA DIDATTICAMENTE RILEVANTI ........................................................................ 2 Gli isomorfismi........................................................................................................................................................................... 2 Le qualità espressive e fisiognomiche ........................................................................................................................................ 2 Le proprietà materiali e funzionali ............................................................................................................................................. 2 PERCEZIONE E DIDATTICA .................................................................................................................................................. 2 PRINCIPALI TEORIE SULLA PERCEZIONE VISIVA .................................................................................................................. 2 LA FENOMENOLOGIA ......................................................................................................................................................... 3
SIMBOLIZZAZIONE E LINGUAGGIO ..................................................................................................................... 3
LA SIMBOLIZZAZIONE ........................................................................................................................................................ 3 Simbolizzazione e linguaggio ..................................................................................................................................................... 3 LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE .................................................................................................................................... 4 LIVELLI .............................................................................................................................................................................. 4 UNITÀ E PROCESSI ............................................................................................................................................................. 4 Fonetica e fonologia ................................................................................................................................................................... 4 Semantica ................................................................................................................................................................................... 4 Grammatica ................................................................................................................................................................................ 4 Pragmatica .................................................................................................................................................................................. 5 EFFETTI DEL CONTESTO SU COMPRENSIONE E PRODUZIONE ............................................................................................... 5 COMUNICAZIONE VERBALE E NON VERBALE ...................................................................................................................... 5 UDITIVO-VOCALE ..................................................................................................................................................................................... 5 VISIVO-CINESICO ..................................................................................................................................................................................... 5 FUNZIONI DEL LINGUAGGIO E ATTI LINGUISTICI .................................................................................................................. 5 LA CONVERSAZIONE .......................................................................................................................................................... 6 SVILUPPO DEL LINGUAGGIO ............................................................................................................................................ 6 Fattori innati ............................................................................................................................................................................... 6 GLI INIZI DEL LINGUAGGIO VERBALE .................................................................................................................................. 7 Prospetto dello sviluppo medio del lessico attivo ............................................................................................................. 7 STIMOLARE PER TEMPO L’APPRENDIMENTO DELLA LINGUA ............................................................................................... 8 LA LINGUA E LA SCUOLA ................................................................................................................................................. 8 PROMUOVERE LE CAPACITÀ LINGUISTICHE ........................................................................................................................ 8 LA LETTURA E LA SCRITTURA ............................................................................................................................................ 8 L’EDUCAZIONE MULTICULTURALE ..................................................................................................................................... 8 TEORIE ............................................................................................................................................................................. 9 LA PSICOLINGUISTICA ........................................................................................................................................................ 9 IL DIBATTITO TEORICO ....................................................................................................................................................... 9 TEORIA GENERATIVO-TRASFORMAZIONALE ....................................................................................................................... 9 TEORIA DI VIGOTSKIJ ....................................................................................................................................................... 10 AREE CEREBRALI E AFASIE .............................................................................................................................................. 10 PENSIERO E LINGUAGGIO .............................................................................................................................................. 10 CONCETTI E CATEGORIZZAZIONI ...................................................................................................................................... 10 Acquisizione di concetti ........................................................................................................................................................... 11 RAGIONAMENTO .............................................................................................................................................................. 11 Ragionamento deduttivo ........................................................................................................................................................... 11 Ragionamento induttivo ed euristica ........................................................................................................................................ 11
IL PENSIERO COME ATTIVITÀ STRUTTURANTE ........................................................................................... 12
IL PENSIERO PRODUCE STRUTTURE DI VARIO TIPO ...................................................................................................... 12 PENSIERO IN AZIONE ..................................................................................................................................................... 12 IL PROBLEM SOLVING ....................................................................................................................................................... 12 Strategie e rappresentazioni ...................................................................................................................................................... 12 Il pensiero produttivo ............................................................................................................................................................... 13
132
Esperti e principianti ................................................................................................................................................................ 13 Condizioni che ostacolano la soluzione o la comprensione ..................................................................................................... 13 Condizioni che facilitano la scoperta o la comprensione ......................................................................................................... 13 SCOPRIRE E CAPIRE .......................................................................................................................................................... 14 RAZIONALITÀ E FANTASIA................................................................................................................................................ 14 L’INDIVIDUAZIONE DI FORMULAZIONI CHIARE ED EFFICACI.............................................................................................. 14
L’INTELLIGENZA ...................................................................................................................................................... 14
LA MISURAZIONE DELL’INTELLIGENZA ........................................................................................................................ 14 I TEST DI INTELLIGENZA ................................................................................................................................................... 14 Le origini .................................................................................................................................................................................. 14 Test individuali e collettivi ....................................................................................................................................................... 15 Caratteristiche di un buon test .................................................................................................................................................. 15 MODELLI E TEORIE DELL'INTELLIGENZA .................................................................................................................... 15 È POSSIBILE MIGLIORARE IL QI? ...................................................................................................................................... 16 MIGLIORARE L’INTELLIGENZA ......................................................................................................................................... 16 Contenuti ............................................................................................................................................................................................ 16 De Bono ................................................................................................................................................................................... 17 Hebb (1966).............................................................................................................................................................................. 17 Cattel ........................................................................................................................................................................................ 17 TEORIE ............................................................................................................................................................................ 17 La teoria Pass di Das (1994) .................................................................................................................................................... 17 Le teorie di Sternberg (1980-1997) .......................................................................................................................................... 17 Le intelligenze multiple di Gardner (1983-1993) ..................................................................................................................... 18 L’INTELLIGENZA SI EREDITA? ...................................................................................................................................... 19 LE RICERCHE SUI GEMELLI ............................................................................................................................................... 19 ALTRE RICERCHE ............................................................................................................................................................. 19 L’INTELLIGENZA E I GRUPPI ETNICI .................................................................................................................................. 19 L’INTELLIGENZA E I FATTORI SOCIOECONOMICI ............................................................................................................... 20 DIFFERENZE DI INTELLIGENZA TRA ABITANTI DI CITTÀ E DI CAMPAGNA ........................................................................... 20 DIFFERENZE DI INTELLIGENZA TRA I SESSI ....................................................................................................................... 20 MALINTESI CIRCA L'EREDITABILITÀ ................................................................................................................................. 20 EFFETTI CULTURALI DEI MEDIA ........................................................................................................................................ 21 ORIGINI SOCIALI DELL'INTELLIGENZA ......................................................................................................................... 21 LA PSICOLOGIA CULTURALE............................................................................................................................................. 21 Costruzione di strumenti e trasmissione delle conoscenze ....................................................................................................... 21
LA CREATIVITÀ ........................................................................................................................................................ 22
CHE COS’È LA CREATIVITÀ? ......................................................................................................................................... 22 CREATIVITÀ E INGEGNO ................................................................................................................................................ 23 I PLUS-DOTATI ................................................................................................................................................................. 23 CARATTERI, PROCESSI E MODELLI DELLA CREATIVITÀ ..................................................................................................... 24 Bartlett ...................................................................................................................................................................................... 24 Cognitivisti ............................................................................................................................................................................... 24 Psicoanalisi e psichiatria........................................................................................................................................................... 24 Psicologie umanistiche ............................................................................................................................................................. 25 Aspetti sociali ........................................................................................................................................................................... 25 Pensiero creativo e personalità ................................................................................................................................................. 25 Creatività, conoscenza e motivazione ....................................................................................................................................... 26 L’ATTO CREATIVO ........................................................................................................................................................... 26 LA CREATIVITÀ E LA SCUOLA ........................................................................................................................................ 27 IDENTIFICARE LA CREATIVITÀ E L'INGEGNO ..................................................................................................................... 27 CREATIVITÀ IN CLASSE .................................................................................................................................................... 27
IL GIOCO ..................................................................................................................................................................... 28
LE FINALITÀ DEL GIOCO ................................................................................................................................................... 28 LA NATURA DEL GIOCO .................................................................................................................................................... 28 Bühler e Piaget ......................................................................................................................................................................... 29 PROBLEMI, DEFINIZIONI E TEORIE .................................................................................................................................... 29 Caratteristiche descrittive ......................................................................................................................................................... 29 Alcune teorie ............................................................................................................................................................................ 30
133
IL GIOCO E L’APPRENDIMENTO ......................................................................................................................................... 30 Lo sport .................................................................................................................................................................................... 31
LO SVILUPPO COGNITIVO, AFFETTIVO, SOCIALE E MORALE ................................................................. 32
ACCRESCIMENTO SOMATICO E SVILUPPO MOTORIO ................................................................................................... 32 LO SVILUPPO COGNITIVO .............................................................................................................................................. 32 LA DINAMICA DELLO SVILUPPO ........................................................................................................................................ 32 UNA LINEA ASCENDENTE CON TRE MOMENTI DI CRISI ...................................................................................................... 32 L’OPERA DI PIAGET ......................................................................................................................................................... 32 Metodologia delle ricerche ....................................................................................................................................................... 32 Caratteristiche del neonato ....................................................................................................................................................... 32 Invarianti-funzionali ................................................................................................................................................................. 33 Schema ........................................................................................................................................................................................................... 33 Assimilazione ................................................................................................................................................................................................ 33 Accomodamento ............................................................................................................................................................................................ 33 Equilibrio dinamico ....................................................................................................................................................................................... 33 Gli elementi che consentono di formare e manipolare i concetti si modificano ....................................................................... 33 Il concetto di stadio .................................................................................................................................................................. 33 STADIO 1. INTELLIGENZA SENSOMOTORIA (APPROSSIMATIVAMENTE DALLA NASCITA AI 2 ANNI) ..................................... 34 STADIO 2. IL PENSIERO PRE-OPERATORIO (APPROSSIMATIVAMENTE DAI 2 AI 7 ANNI) ...................................................... 34 STADIO 3. LE OPERAZIONI CONCRETE (APPROSSIMATIVAMENTE DAI 7 AGLI 11 ANNI) ...................................................... 35 STADIO 4. LE OPERAZIONI FORMALI (APPROSSIMATIVAMENTE DAI 12 ANNI IN AVANTI) ................................................... 35 E DOPO L’ADOLESCENZA? ............................................................................................................................................... 36 SITUAZIONI ANOMALE ..................................................................................................................................................... 36 Iniziale povertà di schemi ......................................................................................................................................................... 36 Primato dell’assimilazione ....................................................................................................................................................... 36 Primato dell’accomodamento ................................................................................................................................................... 36 RIFLESSI SUL PIANO EDUCATIVO ...................................................................................................................................... 36 FATTORI DELL’ACCOMODAMENTO .................................................................................................................................. 37 IL RAPPORTO FRA SVILUPPO E APPRENDIMENTO. LA «ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE» ................................................... 37 LA RELATIVA MATURITÀ DEI TRE ANNI ............................................................................................................................ 38 SCUOLA PER L’INFANZIA .................................................................................................................................................. 38 DAL PENSIERO INTUITIVO AL PENSIERO OPERATORIO E REVERSIBILE ............................................................................... 38 SCUOLA PRIMARIA ........................................................................................................................................................... 39 LA TERZA “CRISI DI CRESCITA” E IL PENSIERO IPOTETICO-DEDUTTIVO ............................................................................. 39 SCUOLA MEDIA ................................................................................................................................................................ 39 MUTAMENTI NEI RAPPORTI CON GLI INSEGNANTI ............................................................................................................. 39 ANCHE PER LA FANTASIA VI È SVILUPPO .......................................................................................................................... 39 CRITICHE MOSSE A PIAGET .............................................................................................................................................. 39 ALTRI APPROCCI ALLO SVILUPPO COGNITIVO ................................................................................................................... 40 Vygotskij .................................................................................................................................................................................. 40 Bruner (n. 1915) ....................................................................................................................................................................... 41 LO SVILUPPO AFFETTIVO .............................................................................................................................................. 42 LA NATURA DEI RAPPORTI AFFETTIVI ............................................................................................................................... 42 COME SI STABILISCE UN RAPPORTO AFFETTIVO ................................................................................................................ 42 STIMA E AFFETTO PER L’INSEGNANTE .............................................................................................................................. 42 L’AMBIVALENZA AFFETTIVA ............................................................................................................................................ 43 LO SVILUPPO SOCIALE E MORALE ................................................................................................................................. 43 IL RAPPORTO AFFETTIVO È GIÀ UNA FORMA DI SOCIALITÀ ................................................................................................ 43 SOCIALIZZAZIONE COME ACCULTURAZIONE .................................................................................................................... 43 SOCIALIZZAZIONE COME CAPACITÀ DI CAPIRE GLI ALTRI .................................................................................................. 44 SOCIALIZZAZIONE COME CAPACITÀ DI COLLABORARE CON GLI ALTRI .............................................................................. 44 LO SVILUPPO MORALE E I SUOI DUE PIANI ........................................................................................................................ 44 LE PRIME FASI DELLO SVILUPPO SOCIALE .................................................................................................................... 44 IL BAMBINO IN FAMIGLIA ................................................................................................................................................. 44 LA NATURA DELL’APPRENDIMENTO SOCIALE NEI PRIMI ANNI ........................................................................................... 45 Ruoli sessuali............................................................................................................................................................................ 45 Gruppi etnici ............................................................................................................................................................................. 45 Classi sociali ............................................................................................................................................................................. 46 LA FAMIGLIA ................................................................................................................................................................... 46 QUESTIONI CHE RIGUARDANO SPECIFICAMENTE LA CLASSE SCOLASTICA ......................................................................... 47 I VALORI E LO SVILUPPO MORALE ................................................................................................................................ 47 LE ORIGINI DEI SISTEMI DI VALORI ................................................................................................................................... 47
134
Secondo Freud .......................................................................................................................................................................... 47 Secondo Piaget ......................................................................................................................................................................... 47 Modello di Kohlberg ................................................................................................................................................................ 48 Critiche mosse a Kohlberg ............................................................................................................................................................................. 48 IL RUOLO DELL’INSEGNANTE ........................................................................................................................................... 48 L’INSEGNAMENTO DELLA CONDOTTA MORALE ................................................................................................................ 49
L’APPRENDIMENTO................................................................................................................................................. 49
IN CHE COSA CONSISTE L’APPRENDIMENTO? .................................................................................................................... 49 Concetto di apprendimento ............................................................................................................................................................................ 49 Dimensioni dell’apprendimento ..................................................................................................................................................................... 49 TEORIE DELL’APPRENDIMENTO .................................................................................................................................... 49 Teoria comportamentista .......................................................................................................................................................... 49 Teoria cognitiva ........................................................................................................................................................................ 49 Teoria umanistica ..................................................................................................................................................................... 49 Teoria socio-culturale ............................................................................................................................................................... 50 Teoria ................................................................................................................................................................................................. 50 IL CONDIZIONAMENTO ..................................................................................................................................................... 50 Pavlov e Watson ....................................................................................................................................................................... 50 Condizionamento classico di Pavlov .............................................................................................................................................................. 50 Ambientalismo di Watson .............................................................................................................................................................................. 50 Contiguità / Rinforzo ................................................................................................................................................................ 50 Thorndike (1898) ...................................................................................................................................................................... 50 Connessionismo ............................................................................................................................................................................................. 50 Leggi dell’apprendimento .............................................................................................................................................................................. 51 Skinner e il condizionamento operante .................................................................................................................................... 51 Principi del condizionamento operante .......................................................................................................................................................... 51 Programmi di rinforzo.................................................................................................................................................................................... 52 Implicazioni educative dei principi operanti ............................................................................................................................................................... 52 Un altro punto di vista ................................................................................................................................................................................... 53 Un’argomentazione filosofica ........................................................................................................................................................................ 53 LA TEORIA SOCIALE COGNITIVA DI BANDURA .................................................................................................................. 53 L’apprendimento sociale .......................................................................................................................................................... 53 Panoramica della teoria sociale cognitiva ................................................................................................................................. 53 Nell’apprendimento frutto di osservazioni sono coinvolti quattro processi distinti ..................................................................................................... 54 Prevalenza dell’imitazione ............................................................................................................................................................................. 54 Modelli ........................................................................................................................................................................................................................ 54 Fattori di rinforzo dell’imitazione ............................................................................................................................................................................... 54 Effetti dell’imitazione.................................................................................................................................................................................................. 54 Implicazioni educative .............................................................................................................................................................. 55 IL COGNITIVISMO ............................................................................................................................................................. 55 Un modello base di elaborazione dati ............................................................................................................................. 55 Memoria sensoriale .................................................................................................................................................................. 55 Memoria a breve termine (MBT) .............................................................................................................................................. 55 Memoria a lungo termine (MLT) .............................................................................................................................................. 56 Tipi di MLT ................................................................................................................................................................................................... 56 Processi della MLT ........................................................................................................................................................................................ 56 Fattori che interferiscono con la MLT ........................................................................................................................................................... 56 Implicazioni educative ................................................................................................................................................................................... 57 Strategie per favorire il consolidamento ed aumentare l’efficienza della MLT in generale ......................................................................................... 57 Le buone abitudini di studio ........................................................................................................................................................................... 58 La metacognizione .......................................................................................................................................................... 58 Lo sviluppo della metacognizione .................................................................................................................................................................. 58 Le strategie della cognizione .......................................................................................................................................................................... 58 Strategie educative di apprendimento/pensiero ........................................................................................................................................................... 58 Applicazioni educative .................................................................................................................................................................................. 58 Le condizioni dell’apprendimento e dell’insegnamento: la teoria di Gagné ................................................................... 59 Cognitivismo: credenze comuni ............................................................................................................................................... 60 Il primo e il secondo Bruner ........................................................................................................................................... 60 Il concettualismo strumentale ................................................................................................................................................... 60 L’apprendimento-scoperta ........................................................................................................................................................ 61 L’apprendimento-scoperta nelle scuole ......................................................................................................................................................... 61 Specifiche raccomandazioni educative ........................................................................................................................................................................ 62 L’apprendimento ricettivo: Ausubel ............................................................................................................................... 62 La teoria cognitiva di Ausubel .................................................................................................................................................. 62 Scoperta o ricezione? ...................................................................................................................................................... 63 Altri modelli didattici cognitivi ...................................................................................................................................... 64 L’apprendistato cognitivo ......................................................................................................................................................... 64
135
Metodi dell’apprendistato cognitivo .............................................................................................................................................................. 64 Sequenza nell’apprendistato cognitivo ........................................................................................................................................................... 64 Risultati di alcune ricerche. L’insegnamento efficace .............................................................................................................. 65 APPROCCI UMANISTICI ALL’INSEGNAMENTO .................................................................................................................... 65 La teoria fenomenologica di Rogers ............................................................................................................................... 65 Principi della teoria rogersiana ................................................................................................................................................. 66 L’umanesimo in classe .................................................................................................................................................... 67 Principi dell’educazione umanistica ......................................................................................................................................... 67 Tre approcci umanistici in classe .............................................................................................................................................. 67 La classe aperta (o educazione aperta) ........................................................................................................................................................... 67 L’approccio orientato agli stili d’apprendimento ........................................................................................................................................... 67 Apprendimento cooperativo (o collaborativo) ............................................................................................................................................... 68 L’apprendere insieme .................................................................................................................................................................................................. 68 STAD (Student Teams-Achievement Divisions) ......................................................................................................................................................... 68 TGT (Teams-Games-Tournaments) ............................................................................................................................................................................. 69 Il Puzzle (e il Puzzle II) ................................................................................................................................................................................................ 69 L’indagine di gruppo ................................................................................................................................................................................................... 69 Alcune considerazioni e valutazioni ............................................................................................................................................................................ 69 L’INTERAZIONISMO SOCIO-CULTURALE ........................................................................................................................... 70 Apprendimento e collaborazione ................................................................................................................................................................... 70 Apprendimento e contesto.............................................................................................................................................................................. 70 Apprendimento come partecipazione ............................................................................................................................................................. 70 La competenze trasversali .............................................................................................................................................................................. 70 Sistemi di attività e conoscenza situata .......................................................................................................................................................... 71 Significato e prospettiva dialogica ................................................................................................................................................................. 71 Identità ed eticità ............................................................................................................................................................................................ 71 LA NATURA DEL SOGGETTO CHE APPRENDE ................................................................................................................ 71 I FATTORI AFFETTIVI ........................................................................................................................................................ 71 L’ansia ...................................................................................................................................................................................... 72 Ansia da test................................................................................................................................................................................................... 72 L’autostima ............................................................................................................................................................................... 72 Estroversione e introversione ................................................................................................................................................... 72 LA MOTIVAZIONE ............................................................................................................................................................. 72 Teoria dell’arousal ................................................................................................................................................................... 72 Concezioni della motivazione ......................................................................................................................................... 73 Concezione comportamentistica ............................................................................................................................................... 73 Concezione umanistica ............................................................................................................................................................. 73 Concezioni cognitive ................................................................................................................................................................ 74 L’auto-efficacia ............................................................................................................................................................................................. 74 Teorie dell’attribuzione .................................................................................................................................................................................. 75 Concezioni socio-culturali ........................................................................................................................................................ 75 Strutturazione degli obiettivi e apprendimento cooperativo ........................................................................................................................... 75 Il problema della «disponibilità» dell’energia .......................................................................................................................... 76 Le motivazioni intrinseche ed estrinseche ...................................................................................................................... 76 Motivazioni dirette, fondate sulla qualità dell’attività (intrinseche) ......................................................................................... 76 Motivazioni dirette, fondate sul prestigio (intrinseche) ............................................................................................................ 76 Motivazioni indirette, legate a «progetti» e a «problemi» (intrinseche) ................................................................................... 76 Talvolta l’energia «se ne va altrove» .............................................................................................................................. 77 ETÀ, SESSO E FATTORI SOCIALI ........................................................................................................................................ 77 Concetto di disponibilità .......................................................................................................................................................... 77 Rapporti fra pari ....................................................................................................................................................................... 77 Femmine e maschi in età scolare .............................................................................................................................................. 77 Motivazione e identità .............................................................................................................................................................. 78 Bambini di condizione sociale svantaggiata ............................................................................................................................. 78 LA NATURA DEL MATERIALE DA APPRENDERE ............................................................................................................. 78 LA VALUTAZIONE ............................................................................................................................................................ 78 VARIE FORME DI APPRENDIMENTO .................................................................................................................................. 78 Gli apprendimenti precettivo-motori ........................................................................................................................................ 78 L’apprendimento di dati di conoscenza .................................................................................................................................... 78 L’apprendimento di procedure tecniche ................................................................................................................................... 79 L’apprendimento di procedure euristiche ................................................................................................................................. 79 L’apprendimento di modalità di simbolizzazione .................................................................................................................... 79 L’apprendimento di tecniche comunicative .............................................................................................................................. 79 Altri possibili apprendimenti .................................................................................................................................................... 79 LA NATURA DEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO .......................................................................................................... 79 Il pensiero riflessivo ................................................................................................................................................................. 79 LA GESTIONE DEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO ............................................................................................................ 80 L’alunno “lento” ....................................................................................................................................................................... 80
136
L’insegnamento e gli alunni con QI basso ............................................................................................................................... 80 Bambini che presentano un ritardo nel profitto ........................................................................................................................ 80
LA PERSONALITÀ ..................................................................................................................................................... 80
LE ORIGINI DELLA PERSONALITÀ ...................................................................................................................................... 80 LE TEORIE DELLA PERSONALITÀ ...................................................................................................................................... 81 I TRATTI DELLA PERSONALITÀ ...................................................................................................................................... 81 H.J. Eysenck ............................................................................................................................................................................. 81 R.B. Cattel ................................................................................................................................................................................ 81 I pro e i contro delle teorie dei tratti ......................................................................................................................................... 81 I tratti della personalità e l’apprendimento ..................................................................................................................... 82 La dimensione estroversione/introversione .............................................................................................................................. 82 La dimensione nevroticismo/stabilità ....................................................................................................................................... 82 Le differenze tra gli individui ................................................................................................................................................... 82 La modificazione dei tratti della personalità............................................................................................................................. 82 LO STILE COGNITIVO ........................................................................................................................................................ 83 Le teorie degli stili cognitivi ..................................................................................................................................................... 83 GLI STATI DELLA PERSONALITÀ ................................................................................................................................... 84 Argomento contro l’idea di tratti della personalità «permanenti» ............................................................................................ 84 Comportamenti finalizzati (telic) e comportamenti non finalizzati (paratelic) ........................................................................ 84 La teoria degli stati e i problemi di comportamento ................................................................................................................. 84 LA TEORIA PSICODINAMICA .......................................................................................................................................... 85 SIGMUND FREUD (1856-1939) ........................................................................................................................................ 85 L’Es .......................................................................................................................................................................................... 85 L’Io ........................................................................................................................................................................................... 85 Il Super-io ................................................................................................................................................................................. 85 I meccanismi di difesa dell’Io .................................................................................................................................................. 85 Tre tipi di angoscia ................................................................................................................................................................... 86 PERSONALITÀ E MOTIVAZIONE ......................................................................................................................................... 86 Maslow ..................................................................................................................................................................................... 86 Teorie dell’attribuzione ............................................................................................................................................................ 87 Rotter ............................................................................................................................................................................................................. 87 Weiner ........................................................................................................................................................................................................... 87 Sviluppo delle tendenze attributive ................................................................................................................................................................ 87 Obiettivi di performance / obiettivi di padronanza......................................................................................................................................... 87 Attribuzioni e motivazioni al successo .......................................................................................................................................................... 87 LE REAZIONI DEGLI INSEGNANTI ...................................................................................................................................... 88 L’UMORE ......................................................................................................................................................................... 88 GLI INTERESSI .................................................................................................................................................................. 88 GLI ATTEGGIAMENTI ........................................................................................................................................................ 88 Atteggiamenti e difese dell’io................................................................................................................................................... 88 La dissonanza cognitiva ........................................................................................................................................................... 88 La modificazione degli atteggiamenti ....................................................................................................................................... 89
LE EMOZIONI ............................................................................................................................................................. 89
CONCETTO E COMPONENTI DELL'EMOZIONE ............................................................................................................... 89 IL CONCETTO DI EMOZIONE .............................................................................................................................................. 89 COMPONENTI DELLE EMOZIONI ........................................................................................................................................ 90 RAZIONALITÀ O IRRAZIONALITÀ DELLE EMOZIONI ........................................................................................................... 90 TIPOLOGIA DELLE EMOZIONI E DEI FENOMENI AFFETTIVI .................................................................................................. 90 Distinzione fra emozioni primarie e secondarie ....................................................................................................................... 90 ATTIVAZIONE ED EMOZIONE ............................................................................................................................................ 91 Intensità delle emozioni ............................................................................................................................................................ 91 STRUTTURA DELLE EMOZIONI ...................................................................................................................................... 91 ASPETTI ANATOMO-FISIOLOGICI ....................................................................................................................................... 91 DIMENSIONI CHE CONCORRONO A FORMARE LA RISPOSTA EMOTIVA TOTALE................................................................... 91 FUNZIONI DELLE EMOZIONI .......................................................................................................................................... 92 VALORE FUNZIONALE DELLE EMOZIONI ........................................................................................................................... 92 Livello evolutivo individuale .................................................................................................................................................... 92 Livello intrapersonale ............................................................................................................................................................... 92 Livello interpersonale ............................................................................................................................................................... 93 LE TEORIE DELLE EMOZIONI ........................................................................................................................................ 93 TEORIE CLASSICHE .......................................................................................................................................................... 93
137
ATTIVITÀ COGNITIVA ED EMOZIONI.................................................................................................................................. 93 Alcune implicazioni cliniche .................................................................................................................................................... 94 IL DIBATTITO ................................................................................................................................................................... 94 LA DIMENSIONE SOCIALE DELLE EMOZIONI ................................................................................................................. 95 ESPRESSIONE ED EMOZIONE .......................................................................................................................................... 96 REAZIONI AL TROVARSI IN UNO STATO EMOTIVO ............................................................................................................. 96 COMPETENZA EMOTIVA ................................................................................................................................................ 96 INTELLIGENZA EMOTIVA .................................................................................................................................................. 97 EMOZIONI E SVILUPPO ................................................................................................................................................... 98
IL SÉ .............................................................................................................................................................................. 98
MODI DI DEFINIRE IL SÉ ................................................................................................................................................... 98 Da che cosa è determinato il Sé? .............................................................................................................................................. 99 L’importanza dell’apprendimento nella formazione del concetto di Sé ................................................................................... 99 È possibile conoscere il proprio vero Sé? ................................................................................................................................. 99 CARL ROGERS ................................................................................................................................................................. 99 BRUNER .......................................................................................................................................................................... 99 MISURARE IL SÉ ............................................................................................................................................................. 100 La tecnica del Q-sorting ......................................................................................................................................................... 100 Il differenziale semantico ....................................................................................................................................................... 100 GEORGE KELLY ............................................................................................................................................................. 100 La griglia del repertorio .......................................................................................................................................................... 101 I costrutti si possono modificare ............................................................................................................................................. 101 L’AUTOSTIMA .............................................................................................................................................................. 101 COME SI FORMA ............................................................................................................................................................. 101 Le ricerche di Stanley Coopersmith ........................................................................................................................................ 101 Il valore degli alunni agli occhi dell’insegnante ..................................................................................................................... 102 Altri fattori che influiscono sull’autostima ............................................................................................................................. 102 COME INCORAGGIARLA ................................................................................................................................................. 102 LA VALUTAZIONE DELL’AUTOSTIMA .............................................................................................................................. 102 LA MATURITÀ PERSONALE .......................................................................................................................................... 102 GLI OTTO STADI DI ERIKSON .......................................................................................................................................... 103 LA MATURITÀ PERSONALE E LA SCUOLA ........................................................................................................................ 103 Una definizione della personalità matura ............................................................................................................................... 103 L’IDENTITÀ PERSONALE .............................................................................................................................................. 104 Imparare ad essere adulti ........................................................................................................................................................ 104 SAPERE ED ESSERE ........................................................................................................................................................ 104 LE PROBLEMATICHE ADOLESCENZIALI ...................................................................................................................... 104 IL PERIODO DELLA PREADOLESCENZA ............................................................................................................................. 105 IL PERIODO SUCCESSIVO, DELL’ADOLESCENZA VERA E PROPRIA ..................................................................................... 105 LA CRESCITA FISICA ....................................................................................................................................................... 105 LA MATURAZIONE PUBERALE ........................................................................................................................................ 105 IL RITORNO DELLA PULSIONE SESSUALE ......................................................................................................................... 105 I RAPPORTI CON I GENITORI ............................................................................................................................................ 105 I RAPPORTI CON GLI INSEGNANTI.................................................................................................................................... 105 IL GRUPPO DEI COETANEI ............................................................................................................................................... 106 I gruppi omogenei della preadolescenza ................................................................................................................................. 106 I gruppi misti dell’adolescenza ............................................................................................................................................... 106
GRUPPI, COMPORTAMENTO SOCIALE E ABILITÀ SOCIALI .................................................................... 106
IL COMPORTAMENTO SOCIALE E LE ABILITÀ SOCIALI ............................................................................................... 106 LE INTERAZIONI DIADICHE ............................................................................................................................................. 106 L’interazione sociale nel rapporto tra insegnante e alunno .................................................................................................... 106 LA POSIZIONE SOCIALE .................................................................................................................................................. 106 La posizione sociale e la scuola .............................................................................................................................................. 107 Quando l’insegnante fa pesare la propria autorità in modo ingiustificato .............................................................................. 107 IL CONFORMISMO SOCIALE ............................................................................................................................................ 107 Il non conformismo ................................................................................................................................................................ 107 Il gruppo dei coetanei ............................................................................................................................................................. 107 La scuola e il conformismo .................................................................................................................................................... 107 LA LEZIONE COME INTERAZIONE SOCIALE ...................................................................................................................... 107 La consapevolezza delle interazioni sociali nell’insegnante................................................................................................... 108
138
La natura della comunicazione ............................................................................................................................................... 108 L’analisi delle interazioni ....................................................................................................................................................... 108 I RUOLI SOCIALI ............................................................................................................................................................. 109 Il conflitto tra i ruoli ............................................................................................................................................................... 109 L’apprendimento sociale e le figure modello ......................................................................................................................... 109 L’imitazione delle figure modello .......................................................................................................................................... 110 TIPI DI AMICIZIA NELLA CLASSE ..................................................................................................................................... 110 I sottogruppi nella classe ........................................................................................................................................................ 110 Le amicizie inopportune e gli alunni senza amici ................................................................................................................... 110 Gli alunni apprezzati dai compagni ........................................................................................................................................ 110 La sociometria ........................................................................................................................................................................ 111 LE ABILITÀ SOCIALI ....................................................................................................................................................... 111 L’affermazione di sé ............................................................................................................................................................... 111 L’importanza del calore umano nei rapporti sociali ............................................................................................................... 112 Aprirsi agli altri ...................................................................................................................................................................... 112 LA DISCUSSIONE DI GRUPPO ........................................................................................................................................ 112 UNO STRUMENTO DAI MOLTI USI.................................................................................................................................... 112 LA TECNICA DELLA DISCUSSIONE DI GRUPPO ................................................................................................................. 112 IL BRAINSTORMING ....................................................................................................................................................... 112 INSEGNARE A DISCUTERE .............................................................................................................................................. 112 I GRUPPI E LA LORO STRUTTURA ................................................................................................................................. 113 VARI TIPI DI GRUPPO, NELLA SCUOLA E FUORI ................................................................................................................ 113 LE PROPRIETÀ GENERALI DI UN GRUPPO ........................................................................................................................ 113 Formazione non volontaria o volontaria ................................................................................................................................. 113 Gruppo primario e secondario ................................................................................................................................................ 113 La struttura del gruppo ........................................................................................................................................................... 113 La circolazione delle notizie ................................................................................................................................................... 114 LA COESIONE DI GRUPPO ............................................................................................................................................. 114 FORZE COSTRITTIVE E PROPULSIVE NELLA FORMAZIONE DI UN GRUPPO ......................................................................... 114 IL PROBLEMA DELLA COESIONE ..................................................................................................................................... 114 GLI INDICI DI COESIONE ................................................................................................................................................. 114 L’ORIGINE DELLE FORZE DI COESIONE ........................................................................................................................... 115 LA DINAMICA DI GRUPPO ............................................................................................................................................. 115 LA PRESSIONE DI GRUPPO .............................................................................................................................................. 115 IL PROBLEMA DELLA LEADERSHIP .................................................................................................................................. 115 INTERAZIONE FRA QUALITÀ PERSONALI E QUALITÀ DEL GRUPPO .................................................................................... 116 TRE FUNZIONI FONDAMENTALI DEL LEADER .................................................................................................................. 116 LA NATURA DEL PRESTIGIO ............................................................................................................................................ 117
LA VITA SCOLASTICA E LA CONDUZIONE DELLA CLASSE ...................................................................... 117
LE ATMOSFERE EDUCATIVE ........................................................................................................................................ 117 TRE POSSIBILI STILI DI GUIDA E LE RELATIVE ATMOSFERE .............................................................................................. 117 LE CARATTERISTICHE DI UN RAPPORTO EDUCATIVO DEMOCRATICO .............................................................................. 117 L’atteggiamento di ascolto ..................................................................................................................................................... 117 L’atteggiamento propositivo, di guida .................................................................................................................................... 118 UNA FORMA SPECIFICA DI PRESTIGIO ............................................................................................................................. 118 TUTTI UGUALI E TUTTI DIVERSI ...................................................................................................................................... 118 Le diseguaglianze ................................................................................................................................................................... 118 La diversità ............................................................................................................................................................................. 118 Le differenze personalizzanti.................................................................................................................................................. 118 Divergenza e devianza ............................................................................................................................................................ 118 LA CONDUZIONE DELLA CLASSE E LA DISCIPLINA ...................................................................................................... 118 COMPORTAMENTI PROBLEMATICI NEGLI ALUNNI ........................................................................................................... 118 Una definizione dei comportamenti problematici .................................................................................................................. 118 MODELLI DI GESTIONE DELLA CLASSE ........................................................................................................................... 119 LE TECNICHE DI MODIFICAZIONE DEL COMPORTAMENTO ............................................................................................... 119 Le cause dei comportamenti-bersaglio indesiderati ................................................................................................................ 119 Prendere coscienza di entrambi i lati del problema ................................................................................................................ 119 Obiezioni alle tecniche di comportamento ............................................................................................................................. 119 L’economia simbolica ............................................................................................................................................................ 120 Considerazioni generali sulla modificazione del comportamento .......................................................................................... 120 ALTRI ASPETTI DELLA CONDUZIONE DELLA CLASSE ....................................................................................................... 121 IL RICORSO ALLE PUNIZIONI ........................................................................................................................................... 121
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Le sanzioni efficaci ................................................................................................................................................................ 121 I PROBLEMI DI COMPORTAMENTO NEI GRUPPI DI ALUNNI ............................................................................................... 122 Gli scontri fisici ...................................................................................................................................................................... 122 RIFIUTO DELLA SCUOLA E MANCATA FREQUENZA SCOLASTICA ...................................................................................... 122 LA COMUNICAZIONE EDUCATIVA ................................................................................................................................ 123 ATMOSFERE EDUCATIVE E QUALITÀ DELLA COMUNICAZIONE ........................................................................................ 123 CHE COSA SI COMUNICA? .............................................................................................................................................. 123 CON QUALI MEZZI SI COMUNICA? ................................................................................................................................... 123 IN QUALI MODI SI COMUNICA? ....................................................................................................................................... 123 DIFFICOLTÀ NELLA COMUNICAZIONE ............................................................................................................................. 124 Perdita di informazione e ruolo della ridondanza ................................................................................................................... 124 Carenza di feedback ............................................................................................................................................................... 124 LE ATTIVITÀ DI ORIENTAMENTO E DI CONSULENZA NELLA SCUOLA......................................................................... 124 L’ATTIVITÀ DI CONSULENZA .......................................................................................................................................... 124 Conflitti e forze di natura sociale ........................................................................................................................................... 124 L’ORIENTAMENTO PROFESSIONALE ............................................................................................................................... 124 Gli stadi del percorso che conduce a una scelta professionale matura ................................................................................... 124
L’ORGANICITÀ DELLE CONOSCENZE E IL CURRICOLO ........................................................................... 124
L’ORGANICITÀ DELLE CONOSCENZE .......................................................................................................................... 124 I CARATTERI DI UN SAPERE ORGANICO ........................................................................................................................... 124 COME NASCE L’ORGANICITÀ .......................................................................................................................................... 125 ORGANICITÀ ED INTERDISCIPLINARITÀ .......................................................................................................................... 125 Tre forme di interdisciplinarità «dinamica» ........................................................................................................................... 125 Organicità aperta .................................................................................................................................................................... 125 LA PROGRAMMAZIONE ................................................................................................................................................ 125 GLI INSEGNANTI E LE TECNOLOGIE MULTIMEDIALI .................................................................................................. 125 Breve excursus storico ............................................................................................................................................................ 125 Le attese della multimedialità ................................................................................................................................................. 126 Ipertesti e ambienti ipermediali .............................................................................................................................................. 126 Problemi....................................................................................................................................................................................................... 126 Potenzialità educative per attività di studio.................................................................................................................................................. 126 La rete internet ............................................................................................................................................................................................. 127 Gli insegnanti e il computer ................................................................................................................................................... 127
L’INSEGNANTE ........................................................................................................................................................ 127
PROFESSIONALITÀ DEGLI INSEGNANTI E PSICOLOGIA ............................................................................................... 127 LE COMPONENTI DELLA PROFESSIONALITÀ DELL’INSEGNANTE ...................................................................................... 127 La componente culturale ........................................................................................................................................................ 127 La componente pedagogico-didattica ..................................................................................................................................... 127 Le “qualità umane” ................................................................................................................................................................. 128 PERSONALITÀ E CARATTERISTICHE DELL’INSEGNANTE ............................................................................................ 128 SAPER FARE L’INSEGNANTE ........................................................................................................................................... 128 Insegnanti esperti e insegnanti novizi ..................................................................................................................................... 128 Le caratteristiche del buon insegnante .................................................................................................................................... 128 La sicurezza emotiva nell’insegnante ..................................................................................................................................... 128 Gli atteggiamenti dell’insegnante ........................................................................................................................................... 129 Gli stili di insegnamento ......................................................................................................................................................... 129 Il valore degli interventi verbali dell’insegnante .................................................................................................................... 129 Introdurre la varietà nei metodi di insegnamento ................................................................................................................... 129 La flessibilità .......................................................................................................................................................................... 129 LO STRESS DELL’INSEGNANTE ....................................................................................................................................... 130 Come far fronte allo stress ...................................................................................................................................................... 130
INDICE GENERALE ................................................................................................................................................. 131
a cura di Francesco Gatta