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Mazzillo\Religioni\ xStudenti-2017 1 Giovanni Mazzillo L’uomo sulle tracce di Dio Dispense ad uso esclusivo degli Studenti dell’Istituto teologico Calabro (Catanzaro) Precedenti alla pubblicazione del libro omonimo presso le Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2004

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Mazzillo\Religioni\ xStudenti-2017

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Giovanni Mazzillo

L’uomo sulle tracce di Dio

Dispense ad uso esclusivo degli Studenti dell’Istituto teologico Calabro

(Catanzaro)

Precedenti alla pubblicazione del libro omonimo

presso le Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2004

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0.1. Introduzione generale

0.1.1. L’umano della religione costitutivamente protesa oltre l’umano

La religione è senza dubbio un fenomeno universale e complesso. La sua apparizione sembra coincidere con la comparsa dell‟uomo sulla terra1. Sebbene la sua presenza in epoca preistorica non possa essere inequivocabilmente confermata dalle fonti scritte, attribuite per convenzione alla storia propriamente detta, esistono tracce vistose di ciò che le scienze delle religioni hanno identificato con il fenomeno che ci accingiamo a studiare. Allo stato delle conoscenze attuali, la sua universalità non sembra possa essere messa seriamente in discussione, tuttavia proprio tale fenomeno è uno dei più discussi quanto alla sua origine, alla sua natura e, sebbene non sempre dichiaratamente, alla “consistenza reale” che esprime.

Prima di addentraci nel terreno delle interpretazioni e della stessa definibilità della religione, ci sembra utile cogliere una sua prima doppia connotazione: religione come insieme di espressioni cultuali e dottrinali, esprimenti un legame dell‟uomo con entità superiori2 e religione come rapporto tra la realtà umana e il suo ulteriore senso, reclamato come risposta ai suoi interrogativi esistenziali più ampi.

Nel primo caso si ravvisa nelle religioni innanzi tutto un aspetto teologico. Grazie ad esso le religioni si fanno risalire a un fondatore o riformatore, cui si ascrive l‟origine di testi sacri ritenuti forme di rivelazione di Dio e di conseguente norma etica per l‟uomo3. Si individuano inoltre, come vedremo, aspetti filosofici, storici, sociali e, non ultimi, psicologici. Vi ritorneremo, parlandone nei termini di «scienze delle religioni».

Nel secondo caso, invece, l‟interrogativo sulla religione è di natura più esistenziale che fenomenologica. In riferimento al nostro tempo, si può riassumere sotto la domanda se proprio la religione possa essere ancora una porta aperta sul senso complessivo della storia o se piuttosto non sia definitivamente apparsa come una porta chiusa, innanzi alla quale l‟uomo non possa fare altro che restare con cuore trepidante e talvolta invocante; sempre comunque sollevando i suoi interrogativi su che senso abbia parlare ancora di Dio in un mondo che è sembrato a molti irrimediabilmente senza di lui. Il rapporto è allora non di semplice legame o di dipendenza, è molto di più. È un interrogarsi, ancora in maniera religiosa, a partire da ciò che avverte il cuore umano, ma andando al di là di ciò che la ragione e lo stesso cuore umano possano sapere ed esperire4. Con ciò l’uomo religioso del nostro tempo non di rado avverte il

1 Cf. G. MAGNAMI, Storia comparata delle religioni. Principi fenomenologici, Citadella, Assisi 1999, in particolare l'introduzione,

sull'universalità del fenomeno religioso. 2 Riferiremo successivamente su quanto contengono gli studi specifici in materia. Per iniziare, rimandiamo qui ad alcuni più

recenti approcci enciclopedici su cd-rom, come, ad esempio quello dell'Enciclopedia multimediale Omnia, dove troviamo che la

religione è «l‟insieme delle manifestazioni di culto e delle credenze che esprimono il rapporto dell‟uomo con il sovrannaturale e

la divinità. Nella sua accezione più ampia, applicabile a ogni tipo di religione, primitiva o superiore, naturale o rivelata, il

termine designa un legame di dipendenza che collega l‟uomo a una o più potenze superiori dalle quali egli sente e sa di

dipendere e alle quali tributa atti di culto, sia individuali che collettivi» (cf. ivi, voce «religione»). L'Enciclopedia multimediale

Rizzoli - Larousse riporta un concetto non dissimile da questo, pur sostituendo la dipendenza con il legame, quando scrive che la

religione è l'«insieme delle credenze e degli atti di culto che legano la vita di un individuo o di una comunità con ciò che ritiene

un ordine superiore e divino [...] Sentimento che collega l'uomo a una divinità superiore ritenuta origine e fine supremo

dell'universo. La religione è un sentimento innato in tutti gli uomini». 3 Così la già citata voce dell'enciclopedia Omnia che porta come esempi giudaismo, cristianesimo, islamismo e zoroastrismo.

4 Così G. GAETA, Religione del nostro tempo, Edizione e/o Roma 1999. Nella presentazione del suo libro l‟autore parla dell'esperienza religiosa come un ritrovarsi davanti a una «porta chiusa». L'esperienza sembra attestare che al di là di quella soglia non c'è alcunché, almeno - ci sembra ci capire - non c'è quanto con faciloneria finora era stato visto come salvezza che cala

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peso del dolore del mondo e fa spazio alla domanda messianica che sale dalla storia: la medesima domanda di chi si trova davanti a quel carico di dolore come universo umanamente impenetrabile.

A noi sembra che tale ritrovata unità tra il proprio interrogarsi e quello della storia degli uomini costituisca una parte non irrilevante della religione. Crediamo, anzi, che ne sia il suo motore segreto. Lo affermiamo perché la domanda religiosa, ponendosi davanti all‟«altro» dell‟umanità di ciascuno5 si pone davanti al «totalmente Altro» che da noi è chiamato Dio. È colui che in diverse forme la religione avverte come Ulteriorità, oltre che come Alterità: punto iniziale e terminale, riferimento complessivo grazie al quale il religioso sta in piedi oppure cade6. Paradossalmente anche chi si relaziona a tale Ulteriorità considerandola solo un‟Alterità negativa, testimonia ancora il bisogno religioso, sebbene ne abbia cambiato il segno. Al contrario, chi non la considera come estraneità che distrugge ogni diverso e spegne ogni pietà, attesta che l‟atto religioso è e resta un atto di pietà: pietas nel suo duplice significato italiano, di venerazione filiale verso la divinità e di compassione verso gli altri7.

L‟atto religioso è, in questo contesto, simile a quello dei testimoni della nostra più recente storia europea, proprio in un mondo che è sembrato a molti essere uno dei più areligiosi. Ci riferiamo a testimoni che hanno continuato a credere e a parlare con l‟Ulteriore, avvertendolo ancora come palpito o almeno come domanda suprema di pietà in un mondo senza alcuna pietà. Una testimonianza ci sembra particolarmente emblematica, quella della ragazza olandese di origini ebraiche, Etty Hillesum. Dinanzi al male estremo e al rischio di veder soffocata ogni ulteriore esperienza di Dio con la sistematica distruzione del bene, poco prima del suo assassinio perpetrato ad Auschwitz, riusciva ancora a pregare. Diceva di voler aiutare Dio a non essere distrutto, affinché restasse ancora presente, come riferimento vivente almeno nel cuore di chi non si rassegnava alla sua distruzione compiuta dagli altri o dal proprio odio verso i suoi distruttori8.

Se l‟uomo è per sua natura un homo religiosus, come si dice, riteniamo che la sua religiosità solo allora viene garantita dalle sue patologie (leggi fondamentalismo e fanatismo in tutte le sue forme), quando è accompagnata dalla compassione per gli altri. Un‟acuta sensibilità può collegare fin a tal punto l‟adorazione della Trascendenza con la pietà verso i simili, da ritenere

dall'alto. Facendo riferimento alle testimonianze di autori quali Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil, Walter Benjamin, Etty Hillesum, Gaeta coglie la peculiarità della religione del nostro tempo in un senso complessivo di compassione di fronte al dolore che gronda dalla vicenda umana.

5 Cf. G. VAN OORD, L'esperienza dell'altro. Studi su Etty Hillesum, Apeiron, Sant'Oreste (Roma), 1990. 6 Un‟altra categoria impiegata per esprimere la realtà trascendente attinta dalla religione è la Realtà Ultima. Talora a questa si

ricorre ancora in termini riduttivi rispetto alla «relazione di salvezza a una Realtà posta come Ultima», dilatando l‟astrazione

fino a perdere il riferimento con le religioni storiche effettivamente conosciute. Cf. su questo G. MAGNANI, Storia comparata delle

religioni, cit. 169ss. L‟impiego della categoria di Ulteriorità non è per noi di questo genere. Vuole solo rimandare all‟elemento che

trascendente il soggetto umano e di cui tuttavia proprio il soggetto umano avverte l‟esistenza e l‟impellenza di un suo rapporto

con lui. 7 L‟etimo latino, come vedremo meglio in seguito, fa per lo più riferimento all‟accuratezza rituale e alla purezza, schiettezza.

Cf. PIANIGIANI, Vocabolario etimologico, Polaris, Varese 1991. 8 «Di minuto in minuto desideri, necessità e legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel

quale Dio mi manderà, sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato,

e che non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così come sono, ora» (ETTY HILLESUM, Diario. 1941-1943, a cura di J. G.

Gaarlandt, Adelphi, Milano 1985, pag. 160). «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio. Su tutta la superficie

terrestre si sta estendendo piano piano un unico, grande campo di prigionia e non ci sarà quasi più nessuno che potrà

rimanerne fuori. È una fase che dobbiamo attraversare» (Ivi , 163).

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che un mondo senza compassione è un mondo senza Dio. Allora la terra stessa appare un desolato deserto che esprime il nulla e va verso il nulla9.

Anche in questo caso, tuttavia, la religione sopravvive. Mai più di allora è ricerca di un senso ed è elevare le mani, come preghiera e come protesta, verso quel Qualcos‟altro che né l‟umanità né la sola storia nella sua immanenza possono dare. Al giorno d‟oggi, prima ancora della domanda sul perché l‟uomo abbia bisogno di riti per esprimere la sua natura e abbia bisogno di miti per raccontare Dio, affiora il quesito sul perché del dolore del mondo. È la domanda del perché l‟animo umano si senta colpito più che sfidato da ciò che vede soffrire, decadere e morire intorno a sé. Certamente l‟interrogativo è reso ancora più acuto dai tanti progressi scientifici che almeno in una parte della terra hanno consentito l‟allungamento della vita e un relativo benessere, ma non hanno potuto scardinare l‟ultimo perno intorno al quale le nostre domande continuano a ruotare. Noi intendiamo accostarlo in modo nuovo, sebbene ciò possa apparire insolito. Proveremo a ipotizzare che tale ricerca dell‟uomo al di là del perimetro che sembra immediatamente delimitarne l‟orizzonte (quello fisico e tangibile, detto di solito immanente ) non sia che una parte di un‟unità più complessa: quella che ha due agenti come protagonisti: l‟uomo alla ricerca della sua Ulteriorità e l‟Ulteriorità stessa alla ricerca dell‟uomo.

Partiamo allora da questa intuizione, che rispetto al metodo d‟indagine classico, può avere almeno il beneficio di essere considerata pura e semplice ipotesi di lavoro. Dedicheremo pertanto allo studio della religione e delle religioni questo I° volume, dal titolo L’uomo sulle tracce di Dio. Qui considereremo pertanto in maniera specifica la religione nel suo significato per l‟uomo, per il suo mondo e per il suo futuro, con riferimenti alle grandi religioni storiche. Non tralasciamo di indicare in tale approccio il contrappunto, offerto per noi cristiani dalla rivelazione giudaico-cristiana, della possibilità, della storicità e delle modalità della corrispondente ricerca dell‟uomo da parte di quell‟Ulteriorità, colta come Alterità benefica verso di lui.

Rimandiamo questa seconda indagine allo studio di ciò che, secondo la terminologia teologica classica, può essere identificato nella rivelazione e che costituirà l‟oggetto del II°

volume, dal tema Dio sulle tracce dell’uomo. Se nel primo volume vogliamo occuparci di ciò che ne è specularmente e reciprocamente il presupposto, data l‟unitarietà delle due ricerche, prima di indicare la via sulla quale vogliamo procedere nello studio specifico della religione, ci sembra indispensabile fare un riferimento complessivo all‟intuizione dalla quale siamo partiti. L‟individuazione della sua genesi e dei suoi momenti costitutivi, permetterà una presentazione più sistematica dell‟insieme, anche per giustificare gli ulteriori sviluppi di questo itinerario.

0.1.2. La solarità come concezione religiosa fondamentale

L‟idea guida di non poche religioni e della maggior parte delle teologie nate nell‟area mediterranea è quella della luce, in tutte le sue variabili: manifestazione, visione, bellezza, essenza solare, gloria10. La filosofia dell‟essere e la teologia enucleata intorno al Logos, verità che

9 «Siamo stati costretti a percepire noi stessi e il mondo per ciò che esattamente siamo, un niente che vuole disperatamente

essere. Non è rimasto allora altro che amare il mondo, la pena del mondo, l'impotenza del mondo, la sua crocifissione ai quattro

punti cardinali» (G. Gaeta, Religione..., cit., 6). 10 Riteniamo utile qualche riferimento etimologico al termine maggiormente in questione, gloria. Viene fatto derivare dalla

radice indoeuropea klu e sanscrita çru con il senso fondamentale di udire, farsi udire, da cui risuonare e di conseguenza esser

famoso. In greco kluvw, udire, avere un nome e kleivw, esaltare, celebrare, in tedesco Ehre, onore. Gli antichi rappresentavano la dea

fama con le ali, la tromba, la palma o la corona nella mano. Il termine greco dovxa traduce l‟ebraico kabhôdh, e proviene da

dokevw che significa tanto «l'opinione che io ho» (da cui il latino opinio) che «l'opinione degli altri su di me» (gloria). Deriva una

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da sola si irradia, sono originate e tenute in movimento da questo motore, che tutto muove e da nulla è mosso: l‟Essere sussistente, luminoso e caldo come il sole mediterraneo, che tutto rischiara e tutto illumina. Per la teologia cristiana è senz‟altro Dio. Il suo splendore robusto è anche la ragione suprema della sua evidenza. La parola stessa che lo indica, Dio (deus), è strettamente imparentata con l‟idea del giorno (dies)11. La solarità di colui che è e non può non essere è schermata dalla creaturalità umana peccaminosa e pertanto caduta lontano, alla sua estrema periferia. Come l‟ultimo e il più freddo pianeta del nostro sistema solare, l‟uomo creaturale pur sempre ruota, ancora attratto da un moto che, sebbene sembra più non lo riscaldi, lo trascina ancora intorno a sé. Ma anche quel moto è un moto fisso, non può che ripetere sempre lo stesso percorso, ricominciando ogni volta da capo. Di quel sole che invece è Dio l‟uomo avverte il richiamo, ma non può raggiungerlo, condannato a girargli intorno, senza mai riuscire a spezzare la legge ferrea che contemporaneamente lo trascina e lo tiene a incolmabile distanza.

La creatura umana volteggia come gabbiano sul vasto mare dell‟esistenza, sempre cerca e mai trova ciò che ha sempre desiderato. La vita stessa è quell‟immenso mare ed il cielo ne è lo spazio inarrivabile. Non esistono ali adatte al lunghissimo volo che raggiunga l‟ultima isola agognata. Dio resta sempre rimpianto e mai viene raggiunto, eppure il suo desiderio è quello stesso moto ed è nostalgia di tutto lo spazio percorribile, brulicante di vita. Le teologie solari conoscono l‟epifania di Dio, che si manifesta12 nella zona più oscura mai pensata ove la creatura ruota, vola e languisce, proprio lì dove l‟aveva confinato il suo peccato, la sua ribellione a Dio. La Parola che tutto trasse dal caos e che impedisce ad ogni cosa di ripiombarvi, il Verbo13 sussistente, parla in mezzo agli uomini e attraverso di essi. La nostalgia di Dio diventa parola umana che intercetta la Parola di Dio. L‟incredibile accade ogni qualvolta la creatura è chiamata ad essere veicolo, che pur sovraccarico della potenza del Creatore, non implode in se stessa. Come raggi luminosi che rimandano a un irraggiungibile splendore, alcune parole umane diventano messaggi dell‟eterno. Innanzi all‟uomo e in nome di Dio, parlano i profeti, uomini e donne nei quali la solarità perduta squilla più forte che in altri. Anche le religioni nascono, muoiono e perdurano per essere luoghi di quest‟incontro, pur diventando talvolta bazar dell‟Assoluto. Sapendo che l‟Assoluto è tale, i sacerdoti sovente alzano il prezzo, illudendosi e illudendo gli altri di poterlo conquistare con leggi e sacrifici che rasentano l‟inumano e invece di accostare a Dio, irrimediabilmente ne allontanano. Profezia e sacerdozio entrano in collisione in ogni religione ed in fondo ad ogni cuore umano.

doppia filiazione di significati. La prima ha a che fare con concetti quali: speranza, modo di vedere, apparenza, massima,

supposizione, dogma, assioma; la seconda è collegata a buona fama, celebrità. I significati fondamentali del masoretico kabhodh

sono onore e rispettabilità e sembrano derivati dal termine significante importante (la radice kdb indica essere pesante), spesso

connotano ricchezza e prestigio, posizione d'onore. Troviamo anche il senso di ciò che appare attraente, bellezza, come, ad

esempio, in Isaia (Is 10,18 « la magnificenza della sua selva e del suo giardino»; Is 60,13: «La gloria del Libano verrà a te,

cipressi, olmi e abeti insieme, per abbellire il luogo del mio santuario, per glorificare il luogo dove poggio i miei piedi»).

Kabhodh può allora qualificare un bosco, un monte. Nella versione dei Settanta e nel N.T. il senso di base non è mai opinio, ma

celebrità, onore, splendore. Dio stesso appare luminosità celeste, eccellenza e maestà. In sintesi Dio è il Dio della gloria, ma è anche

valida l‟espressione reciproca che parla della gloria di Dio. Il termine tedesco adoperato da von Balthasar per indicare la sua

opera sistematica è Herrlichkeit, termine corrente che traduce gloria come splendore, a differenze di Ehre, che invece indica

l‟onore, la ragguardevolezza. In realtà anche se herrlich, è adoperato nel senso di splendente, la sua radice è da ricondurre più che

alla solarità alla signoria, derivando da Herr, che significa appunto padrone, signore. 11 Della parentela tra i termini ci informa in M. MESLIN, Per una scienza delle religioni, Cittadella, Assisi 1975, 157ss, che

rimanda a studi di linguistica comparata. 12 Epifania vuol dire innanzi tutto manifestazione. 13 Il termine italiano Parola traduce il latino Verbum, in greco Logos.

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Ma viene il giorno felice in cui il Logos stesso ci fa visita. Ogni profezia riprende vigore e ogni frammento d‟infinito si ricompone. L‟intero sacerdozio traballa ed ogni tempio comincia a scricchiolare. Quel sole è il Verbo che assume carne umana, viene tra gli uomini a ricondurli verso la patria perduta. Viene a spezzare l‟insuperabile barriera che offuscava la luce. «Luce da luce», «Dio da Dio», sole ed astro che illumina l‟universo ed ogni uomo, egli viene sulla terra come uomo. Combattuto dai suoi stessi adoratori, viene nella sua casa e i suoi non l‟accolgono, risplende nelle tenebre e le tenebre non l‟intercettano14. Quel potente fiotto di luce attraversa una piccola regione del mondo, ma raccoglie la nostalgia di ogni vivente, assomma ogni brandello di dolore, riassume in sé ogni palpito di speranza. Il regno di Dio non è più vetta da scalare, ma seme e lievito che cresce dall‟interno della storia. Dio non vuole il sacrificio, ma la felicità dell‟uomo.

Gli esperti di Dio ed i sacerdoti dapprima impallidiscono, poi progettano di oscurare quella luce vivente sulla terra, forse perché chi ha vissuto sempre nelle tenebre non può sopportare la luce, o forse perché chi commerciava con Dio e con il cuore dell‟uomo vede svanire i suoi lauti guadagni. Il sole stesso, Logos d‟ogni ragione, viene allora eliminato e muore, o meglio è ucciso senza ragione alcuna. E così il sole si oscura. Prima per tre lunghe ore e poi per tre giorni la storia sembra smarrire ogni senso e l‟uomo sembra perdere ogni ulteriore ragione di vivere e di morire. Ogni ragione di esistere. In quelle ore c‟è l‟agonia di ogni senso ed ogni sentiero si smarrisce15. Dio stesso trema al freddo di un mondo senza amore. Tre ore come tre giorni interminabili, prima che lo stesso Amore, come fa il sole ogni mattina, torni a manifestarsi in ogni cosa, rivestendola nuovamente di gloria. La gloria dell‟amore riappare al terzo giorno, perché mai muore. È la stessa che chiama ogni essere ancora a vivere del suo fecondo riverbero e a lasciarsi guarire dal veleno della morte.

Quella solarità risplenderà infine e per sempre nel giardino riaperto, di cui parla l‟Apocalisse, rivelazione delle ultime cose, quando non ci sarà più bisogno né di luce, né di lampada, essendo Dio stesso la lampada che brilla, perché è giusto che sempre risplenda e illumini ogni cosa l‟Amore di Dio, l‟Amore che è Dio stesso.

0.1.3. L’amore si manifesta come luce che risplende

Questa suggestiva ricostruzione teologica, che possiamo ritrovare a vari livelli e con diverse tonalità direttamente nella Bibbia combacia anche con la stessa nostalgia della luce presente in ogni cuore creaturale, quadra con l‟intuizione più grandiosa e, in fondo, più immediata che accompagna ogni riflessione su Dio, ogni nostra immagine su di lui e probabilmente ogni religione. Come immaginare ai nostri occhi umani l‟Inimmaginabile se non come luce accecante che mentre fa vedere ogni altra cosa, non può essere fissata a motivo del suo stesso insopportabile splendore? Nella teologia cristiana si potrà ancora dire, con von Balthasar, che Dio può essere «amore assoluto» solo in quanto è Dio trino, perché se così non fosse sarebbe

14 Vale sempre la pena riprendere in mano, meditandolo, il prologo giovanneo, cui facciamo riferimento. Cf. soprattutto Gv

1,1-5: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per

mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce

splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta». 15 Come per il tema della gloria, viene in mente anche qui H. U. von Balthasar e la sua opera del 1969 Teologia dei tre giorni (tr.

it. presso la Queriniana, Brescia 1971, 1990), ciò rimanda, ovviamente alla sua opera più sistematica sull‟agire di Dio e sulla sua

venuta, Teodrammatica.

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obbligato ad avere un mondo esterno a sé, per poter amare16. Dio è per sua natura l‟amore sussistente, tale era fin da principio, tale resterà per sempre. Tutto questo però noi cristiani possiamo asserirlo con certezza perché ci è stato rivelato. Diversamente, fino a quando quest‟annuncio non fosse oggetto di un‟autocomunicazione esplicita di Dio17, potremmo trovare ancora l‟identificazione ancestrale di Dio con la luce, ma non per questo troveremmo sempre la seconda identificazione, quella che asserisce che Dio è amore e quindi che è anche, per sua natura, relazione.

Certamente, anche se lo ignorano, gli uomini e le cose conservano pur sempre le tracce di un Dio-amore e qualcuno, anche al di fuori del contesto giudaico-cristiano, le ha saputo cogliere ed interpretare. Nella sua forma più completa e più sistematica, tuttavia, l‟intera impalcatura teologica alla quale qui ci riferiamo è retta non solo dall‟identificazione tra Deus e dies ma anche dall‟utilizzo dell‟autodefinizione che nel cristianesimo Dio dà di se stesso come Amore18. Dio è luce e la luce è l‟Amore. Luce dunque come solarità benefica, luce come amicizia di Dio verso l‟uomo e verso ogni creatura. Deus e dies sono realtà che portano gioia all‟uomo. L‟amore è in questo caso splendente ed evidente come la luce, anzi è la luce stessa. Il suo splendore, sebbene

16 La riflessione sull‟amore che si trova interamente nel Logos, e quindi in Cristo, come il tutto nel frammento fu sviluppata

dall‟autore nell‟opera omonima nel 1963 (tr. it. H. U. VON BALTHASAR, Il tutto nel frammento, Jaka Book, Milano 1970). Sul

progetto della cristologia del logos in von Balthasar cf. W. LOSER, «”Universale concretum” come legge fondamentale

dell‟”oeconomia revelationis”», in W. KERN, H.J. POTTMEYER e M. SECKLER (edd.), Corso di teologia fondamentale 2. Trattato sulla

rivelazione, Queriniana, Brescia 1990,134-136. 17 Cf. il nostro secondo volume, sulla rivelazione, rivisitata nei termini dell'autocomunicazione di Dio come amore. 18 La ricostruzione teologica di Hans Urs von Balthasar sembra compiere questa doppia identificazione attraverso il

concetto di gloria, ripreso nella serie dei sette volumi che la sviluppano. Del teologo cattolico svizzero sarà utile sapere che è

nato il 1905 ed è morto il 1988. Ha impostato la sua teologia secondo la dimensione estetica (imperniata sull‟identificazione di Dio

con il pulcrum), della quale ha lamentato la carenza nella teologia occidentale. Questa avrebbe invece sviluppato solo le altre due

delle connotazioni classiche di Dio, il verum (dimensione conoscitiva) e il bonum (dimensione etica). Per l‟autore non si tratta di

elaborare una “teologia estetica” (della quale sono menzionati, tra gli altri come rappresentanti, Herder e Chateaubriand), ma

un‟”estetica teologica” che assume in sé la bellezza stessa risplendente nella rivelazione. L‟opera maggiormente interessata è la

prima della trilogia comprendente Gloria, Teodrammatica e Teologica (1961-1987). Gloria (nell‟originale Herrlichkeit, in 7 volumi

editi in Italia dalla Jaca Book, Milano, dal 1971 in poi) sviluppa l‟intuizione di fondo già accennata, facendo anche molteplici

riferimenti a poeti e scrittori, dall‟antichità classica ai contemporanei. Il rapporto tra amore e gloria, che si può dire attraversa

tutta l‟opera di Balthasar, è tematizzato in maniera più diretta e alternativa nel I° volume di Gloria. In quanto criterio di

autocredibilità, tale rapporto è reperibile in maniera esplicita nell‟intensa e breve pubblicazione Glaubhaft ist nur die Liebe (1963),

tr. it., Solo l'amore è credibile, Borla, Roma 1965. Certamente il concerto balthasariano di gloria include la luce, luce che passa

attraverso le tenebre, per risplendere nuovamente e definitivamente: «La fede è la luce di Dio che brilla nell'uomo; Dio infatti,

nella sua intimità trinitaria, può essere conosciuto solo mediante Dio. In questo senso i Padri e la grande Scolastica hanno

parlato del lumen fidei ed occorre che noi trattiamo in primo luogo di questa luce, nella quale noi crediamo a Dio e la quale

costituisce il fondamento intimo (causa, motivum, fundamentum) della nostra fede [...] La luce di Dio che “brilla nei nostri cuori”

(2 Cor 4,6), splende ai fini della conoscenza del Figlio, ma anche mediante lui che, morendo nel mondo, della morte d'amore di

Dio, e vincendo nella sua espiazione le tenebre del cuore, rende possibile l'irradiarsi di questa luce. Essa è luce di Dio come

“vita”, “grazia” “verità”. Queste hanno infatti la loro casa nel Figlio che, come “parola” di Dio, è “presso Dio” ed è “Dio”, e

vengono “nel mondo” attraverso il Figlio. “Accogliere” lui, significa ad un tempo: accogliere la “parola” di Dio (fede) e

diventare “figli di Dio”, “nati da Dio”, proprio perché introdotti nella “vita, grazia, verità” di Dio. E sia l'una che l'altra cosa

sono il “vedere la gloria dell'Unigenito dal Padre”» (H. U. VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, I La percezione della

forma, Jaka Book, Milano 1975, 143). Ma scorgere la gloria di Dio non è possibile se non si risponde all‟amore, perché l‟Amore

stesso brilla in quella luce: «L'essere stesso svela il suo volto più nascosto, che per noi riceve il nome dell'amore trinitario, e solo

con questo mistero ultimo rischiara l'altro mistero: perché l'essere in quanto tale è e perché si rivela a noi come luce, verità,

bontà e bellezza. L'atto filosofico (che ogni uomo pone, per quanto implicitamente) incontra adesso nella profondità dell'essere

la profondità ancora più profonda della luce divina. Nel momento in cui questa profondità ultima si svela realmente, si

manifesta la sua libertà (come potrebbe, se l'ente può essere libero, essere privo di libertà il fondamento dell'essere che dona?);

nel momento in cui si rivela la sua luce libera, è al tempo stesso detto che questa luce deve, in colui nel quale splende, liberare

verso la libertà divina: essa dona cioè la libertà della risposta e quindi anche la possibilità del rifiuto» (ivi, 145).

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sia all‟origine della storia e sostenga la storia, si può dire che, al pari del sole, non ha necessariamente una storia alla stessa stregua dell‟uomo. Ciò che splende per illuminare la storia non può avere una storia simile a quella di colui che deve illuminare. La sua è però una storia di un rapporto: il rapporto stesso che la luce instaura con l‟uomo che giace nelle tenebre. L‟accoglienza dell‟uomo è un fatto non dato in antecedenza, può anche non esserci e ciò costituisce una variabile, capace di generare la storia. Infatti la gloria che splende nelle tenebre non è recepita come tale. Inizia allora il suo “dramma”.

Venendo tra gli uomini, la luce si espone alla legge della storia. Il Senso di ogni senso si consegna alla storicità che contraddistingue i destinatari del suo messaggio. La necessità scende nella contingenza, l‟assoluto si espone al rigetto del relativo, la solarità si ritrova eclissata il venerdì santo. È tuttavia la stessa natura di quel Deus, che è anche perenne dies, ad esigere che riappaia al più presto, come nuovo mattino, perché sempre il sole ritorna ad illuminare ciò che senza di esso ricadrebbe inevitabilmente nel caos. La domenica di Pasqua è un nuovo inizio, ma è anche l‟inevitabile rivincita di ciò che mai può morire per sempre. La morte è solo una cesura, non è una sconfitta definitiva. Il dramma divino conserva le tracce profonde del ripudio dell‟uomo. Cristo porta i segni dei chiodi, le ferite di quel rifiuto, ma non è definitivamente eliminato dal rifiuto. A differenza dell‟uomo, che vediamo morire e non rialzarsi dal sepolcro, Cristo invece si rialza dalla tomba. I lacci della morte non potevano trattenere colui che è la vita stessa. L‟amore, forte come la morte19, ha la meglio sulla morte. La morte non è più immortale, non è l‟unica immortale: a sconfiggerla basta che ci sia qualcosa avente il suo stesso valore. Questo valore esiste: è quello che determina ogni altro, è la luce appunto che tutto illumina e che non ha bisogno di essere illuminata. Le basta essere luce. Anche quando è scesa nelle tenebre e per amore degli uomini è stata “oscurata” dalle tenebre, ha continuato a permanere come luce, che presto sarebbe riesplosa. La “teodrammatica” non è una “tragedia” nel senso classico del termine. Il suo è un lieto fine, la sua solarità trionfa e coincide con quanto Dio da sempre si prefissava: irradiare nel mondo per illuminare ogni cosa.

Non vogliamo affermare che il dramma di Cristo non sia stato tale. Le sue lacrime sono state autentiche lacrime umane e la sua morte è stata amara come ogni altra morte. Essendo la morte del giusto e dell‟innocente che predicava la nonviolenza e l‟amore, è stata persino più amara delle altre. Cristo è veramente morto come altrettanto realmente è risorto. Egli sulla croce moriva “desolato”. La sua desolazione non era inferiore a quella di ogni essere cui viene strappata violentemente la luce, perché la luce fuggiva irrimediabilmente dalle sue pupille, anche se erano le pupille di quella «luce vera che illumina ogni uomo». Il Cristo che moriva sulla croce non fingeva di morire, moriva realmente. Quando noi affermiamo che la “teodrammatica” non è da considerarsi alla stregua della tragedia umana, non ci riferiamo alla tragedia di Cristo, ma solo alla costruzione teologica che ruota intorno all‟idea di una gloria che attraversa la tragedia. In realtà ci sembra che la sua immagine di partenza, mediata dalla luce e dalla solarità, finisca con il mediare anche il momento negativo come momento di inevitabile attraversamento, cioè momento in cui il negativo è superato, per ritornare non già allo stato di prima, ma per una nuova affermazione del positivo, che ha inglobato, superandolo, il momento negativo.

19 Ct 8, 6b-7: «forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una

fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo. Se uno desse tutte le ricchezze della

sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio».

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In ogni caso, le ricostruzioni teologiche che presentano il contatto tra Dio e l‟uomo sotto la categoria di ciò che risplende e si mostra (in tutte le sue forme: apparizione, irradiazione, manifestazione ecc.) vivono all‟insegna di ciò che abbiamo indicato come solarità. Si tratta di uno schema complessivo, più che di un‟immagine, che, come dicevamo, non troviamo solo nella Bibbia, ma anche presso molte altre religioni. Ciò si spiega con il fatto che l‟esperienza della luce è una delle esperienze fondamentali che l‟essere umano fa sulla terra. Il sole è stato associato quasi sempre alla divinità, fino ad essere adorato come Dio, sicché le manifestazioni religiose che conosciamo sono anche esse impregnate dell‟idea della luce e, in negativo, delle tenebre. La Gnosi parte dall‟opposizione fondamentale tra queste due forze, per arrivare a comprendere l‟atto “religioso” come atto di vittoria della luce della conoscenza sulle tenebre dell'ignoranza20. Negli scritti di Qûmran si parla, come nel Vangelo, dei «figli della luce» e dei «figli delle tenebre». Certamente la luce costituisce un elemento fondamentale dell‟universo religioso. È più di un mito, perché rappresenta la forma più diretta ed immediata che l‟uomo trova per esprimere l‟esperienza della vita e della libertà, della salvezza e della conoscenza.

Noi non asseriamo che tale schema fondamentale che media la religione sia da rigettare, come se avessimo in animo di trovarne uno più originale. Essendo qualcosa di più che uno schema, rimane sempre valido, se non altro per la sua utilità a “visualizzare” un rapporto che diversamente resterebbe inespresso, seppure avvertito e presente com‟è sempre il rapporto con Dio. Anche noi vi faremo riferimento, quando sarà necessario. Avvertiamo tuttavia che tale modo di intendere il rapporto in questione non resta l‟unico, perché è pur sempre una rappresentazione, anche se forse la più importante, di quella realtà complessiva che per noi è costituita dall‟incontro tra il divino e l‟umano.

0.1.4. L’amore non solo trabocca, ma emigra

A questo punto ci è sembrato di poter rivedere in nostro abituale modo di intendere il rapporto tra Dio e l‟uomo, parlandone nei termini più immediati dell‟incontro, con l‟assunzione di un‟idea che si può rinvenire non solo nel mondo giudaico-cristiano, ma anche nelle altre religioni, sia nell‟area mediterranea, sia all‟esterno di essa. È l‟idea di un incontro sempre cercato, nel movimento dei due soggetti in causa: la migrazione di Dio verso l‟uomo e il cammino dell‟uomo verso Dio. Sì, perché entrambi si muovono, compiendo una migrazione mirata l‟uno verso l‟altro. Non si pongono solo in stato di moto, come sembra attestare l‟antica radice slava alla quale il termine migrare è accostato21, o il verbo latino ad essa collegata22. Non è un passare per fuggire lontano, ma è un moto che indica ricerca reciproca, un andare l‟uno verso l‟altro, un cercarsi (come circum adire) quasi a tracciare cerchi sempre più piccoli l‟uno intorno all‟altro23, fino ad incontrarsi.

L‟atto religioso, ogni atto religioso, riproduce questo duplice movimento. Così è almeno nella percezione che l‟uomo ha del suo contatto con l‟Ulteriorità colta come Alterità, che per noi assume la connotazione di Dio. Ci sembra di poterlo capire di molte altre religioni, a partire da quella giudaico-cristiana, con la quale abbiamo più direttamente a che fare. Tutto ciò è solo un‟ipotesi? Da un‟osservazione più attenta, che deve certamente sempre guardarsi dal rischio di

20 Per gli epigoni della gnosi oggi cf. T. SIMON & T. THÉOPHANE, Gli insegnamenti segreti della gnosi, PiZeta, Milano 1999. 21 Il termine di base è colto da alcuni nell‟antico slavo mig-livu, che significa mobile. 22 Si suppone come verbo meare, da cui meato, con il significa di «passare (in una via tracciata)» (cf. il lemma migrare, in O.

PIANIGIANI, Vocabolario etimologico, Polaris, Varese 1991 e SABATINI - COLLETTI, Disc-Compact. Dizionario Italiano, Giunti

Multimedia, Firenze 1997). 23 L‟etimo fondamentale latino circum da cui cercare deriva indica un movimento circolare.

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voler applicare un‟idea preconcetta ai dati analizzati, ci sembra si possa arrivare alla conclusione che l‟idea del moto reciproco e dell‟incontro tra il divino e l‟umano, come struttura religiosa fondamentale, sia altrettanto presente quanto quella della luce e del suo apparire24. Abbiamo motivi per ritenere che sia antecedente a questa, per la sola ragione logica che anche la luce per arrivare all‟uomo ha bisogno di mettersi in moto. Essa pure, tuttavia, data la variabile della libertà dell‟uomo, capace di accettarla o rifiutarla, può mancare l‟obiettivo. La luce può risplendere nelle tenebre e, strano a dirsi, le tenebre possono disdegnarla.

Rispetto allo schema-base della luce, quello della reciproca ricerca appare immediatamente più legata al mondo umano che a quello cosmico. Il modello della luce che brilla, che risplende ed è accolta o rifiutata, deve ricorrere all‟idea dell‟accettazione, che non è di per sé dell‟ordine cosmologico, ma antropologico. Le cose non si accettano tra loro o si rifiutano, perché non hanno la possibilità di farlo. La stessa idea giovannea della luce respinta dalle tenebre25 fa riferimento all‟accoglienza, che è pur sempre un atteggiamento umano, applicato alle tenebre26. Certamente, come abbiamo già accennato, la Bibbia presenta in non pochi passi il contatto tra Dio e ciò che gli è esterno (incluso l‟uomo) nelle immagini che si riferiscono alla luce e ai suoi derivati. Tuttavia, la simbolica della creazione sembra ubbidire contemporaneamente a due immagini principali: quella della parola, che risuona nel primordiale silenzio, e quella della luce, che risplende nelle tenebre27. Dietro tali immagini si nascondono però due “attività” che non possono essere prese che dal mondo umano e che come tali sono tipiche della persona in relazione: udire e vedere. Il movimento di Colui che risuona come voce e risplende come luce tende già dal primo istante ad incontrare qualcuno: l‟essere umano, che una volta creato, ne riceve la visita, ne ode concretamente la parola e ne vede l‟aspetto, tanto da parlare con lui28.

Tutta la Bibbia contiene la storia di questo cercarsi reciproco, con la sottolineatura che la ricerca parte da Dio, il quale mai si stanca dell‟uomo. Il movimento verso l‟esterno di Dio equivale ad una sua interna commozione per l‟uomo. Egli si mette sulle sue tracce, perché ha compassione di lui. Qui - come si noterà - non è in gioco la pura e semplice effusione della luce, né si tratta di una sorta di tracimazione all‟esterno di ciò che è un‟insondabile ricchezza all‟interno. Si tratta invece dell‟Amore che, essendo tale, “non riesce” a restare lontano dall‟amato. L‟amore divino è amore vero, reale, personale.

Dio in quanto “persona”, ama ogni altra persona, che per il suo stesso esistere, è sempre in relazione profonda, intima, intensa, con lui29. La Bibbia conosce tanto il fondamento dell‟amore,

24 Il rapporto tra Dio è l'uomo è espresso anche nei termini dell'avvento e dell'esodo. Cf., a riguardo, G. ANCONA (a cura di),

Avvento di Dio esodo dell'uomo. Il pellegrinaggio della fede, Vivere in, Roma 2000. 25 Altre traduzioni del già citato verso di Giovanni «la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta» (Gv

1,5) sono: «non l'hanno compresa»; «non hanno potuto raggiungerla» o «coglierla», perché la luce (qui il bene, e lo stesso Verbo)

- si aggiunge - sfugge alle prese delle tenebre (che rappresentano il male, le potenze del male, cf. Gv 7,33s; Gv 8,12; Gv 8,21; Gv

12,31; Gv 12,32; Gv 14,30; 1Gv 2,8; 1Gv 2,14; 1Gv 4,4; 1Gv 5,18 ). Così nel testo italiano La Sacra Bibbia della CEI, che riprende le

note de La Bible de Jerusalem. 26 Il verbo greco katalambavnw indica accogliere nel senso di prendere e comprendere. 27 Gen 1, 3-5: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e

chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno”». 28 La creazione dell‟uomo e della donna ha qualcosa di straordinario non solo per la natura dell‟essere umano, che eccelle

rispetto alle altre creature, ma perché Dio tende sempre a incontrarli, per parlare con loro. Ciò si verifica anche nella scena del

giudizio, dopo la colpa (Gen 3,8-21) e persino dopo l‟estromissione dal giardino di Eden (Gen 3,22-24). Nonostante il peccato di

Adamo ed Eva e il loro allontanamento dal giardino, Dio ha a cuore la sorte degli essere umani, dà loro delle tuniche di pelli

(Gen 3,21), protegge Caino dopo il suo delitto (Gen 4,13-15), si interessa di Noè e della sua famiglia (6,13-16ss). 29 Cf. la prima parte del II° volume, Dio sulle tracce dell'uomo.

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che la sua inquietudine. Dobbiamo saper vedere tali segni reali dell‟amore anche in Dio. Altrimenti come si potrà capire qualcosa dell‟amore, se quando appena questo riguarda Dio, lo confiniamo in una sfera asettica e irraggiungibile?

Le pagine del Pentateuco e quelle dei profeti, in primo luogo, ma anche molte altre, traboccano spesso di un pensiero, che si può formulare in questi termini: colui che interiormente si è commosso per noi, da sempre si è mosso esternamente verso di noi. Egli è certamente luce e vita, è calore e senso dell‟esistenza, ma tutto ciò è l‟effetto e non la causa di ciò che appare a noi come bellezza e verità. Di tale continuo movimento l‟uomo avverte come un presagio; come ogni essere amato, egli può sentire che qualcuno lo cerca, qualcuno lo ama. L‟inquietudine di colui che infinitamente ama non può cadere nel vuoto. Diventa appello, implicito quanto si vuole, ma tuttavia reale, di un amore che, proprio perché cerca, richiede di essere cercato. L‟essere umano porta in sé le tracce dell‟amore, perché sempre porta le tracce di Dio. Giunge fino a lui quel richiamo, perché nessuno, quando è veramente amato, riesce a non avvertire l‟amore che da qualche angolo del mondo, da qualche fibra intima della sua esistenza o da quella rete di rapporti che ciascuno si trova a vivere, e persino dai suoi errori, sempre lo chiama come un‟insuperabile, anche se talora indefinita, nostalgia d‟amore. Amore, dunque, come progetto e come richiesta d‟amore, amore come caratteristica principale di quel Referente che l‟uomo trova davanti a sé in ogni suo atto religioso. Ma ciò non è l‟essenza del cristianesimo? Vogliamo cercare di ripartire da questo fondamentale principio, per cogliere i diversi aspetti attraverso i quali l‟amore si manifesta, per tentare di ricostruire i moti del passaggio che l‟amore stesso sempre compie. Se tutto ciò è realtà, allora non ci dovrebbe essere impervio arrivare a cogliere tali passaggi anche al di fuori dell‟area giudaico-cristiana, perché anche nelle altre religioni devono potersi trovare le tracce di questo duplice passaggio, il passaggio di Dio e il passaggio dell‟uomo.

0.1.5. Un incontro mai interamente compiuto.

Il nostro intento è allora di riconsiderare la riflessione fondamentale antecedente la teologia, sebbene influenzata da questa, come una ricerca continua di simili tracce. Pensiamo di poter meglio esprimere il movimento di Dio e il movimento dell‟uomo attraverso la dinamica dell‟incontro. Un incontro che, oltre ad avere una sua preparazione, ha, nella sua fase esecutiva, almeno questi momenti:

1) tendere verso l‟altro e verso l‟ALTRO; 2) partire; 3) incontrarsi e separarsi; 4) cercarsi ancora; 5) ritrovarsi per sempre.

Ma ciò significa che il fatto religioso ha a che fare con un incontro che non si compie mai interamente. È più un cercarsi che un effettivo restare dell‟uno con l‟altro. I due si intercettano soltanto, sfiorandosi, appena in tempo per essere di nuovo lontani.

L‟incontro religioso non è mai un atto di possesso. È piuttosto un momento di autocoscienza in cui si avverte la vicinanza e il distacco tra l‟uomo e Dio. L‟incontro con Dio è sempre un risveglio da parte dell‟uomo, nel momento in cui egli nota la sua abissale distanza da lui. Proprio per questa ragione il momento culminante del reciproco cercarsi è anche il momento in cui maggiormente affiora l‟abisso che separa l‟uno dall‟altro. Ma, a ben pensarci, non è proprio questo che distingue l‟incontro non solo con Dio, ma anche con ogni essere umano? È come se ogni incontro umano recasse la traccia di questo incontro con Dio, una traccia che attesta la fragilità di ogni ritrovarsi e l‟insufficienza di ogni incontrarsi. Quando gli esseri umani si ritrovano, quando pensano di realizzare ciò che hanno sempre desiderato, allora avvertono

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anche come una parte del loro desiderio resti incompiuta e che tale resterà sempre. La precarietà di ogni incontro attesta che siamo fatti per cercarci ed incontrarci, ma attesta anche che il nostro ultimo, definitivo incontro, quello con Dio, sarà l‟incontro che darà senso a tutti gli altri. L‟atto con il quale l‟essere umano si realizza, quello dell‟essere con l‟altro, è anche l‟atto con cui egli avverte che la sua piena realizzazione si avrà solo nell‟incontro di tutti gli incontri, quello definitivo. Anche per questa ragione l‟umano è veicolo del divino. L‟esperienza umana del convenire e del separarsi è anche esperienza che rimanda ad un altro convenire, che è il supremo ed ultimo convegno. In effetti è quel convegno che realizza il venire di ogni uomo, perché non è che il ritorno di ogni venuta. L‟uomo che viene da Dio ritorna a lui nel suo ultimo convenire con lui. Fino a quando ciò non si verifica, non si realizza nemmeno l‟incontro pieno. Per questo motivo ogni incontro religioso sulla terra è sempre parziale e rimanda sempre a quello. Così succede anche nell‟incontro tra gli esseri umani.

Due sono le conseguenze principali: la prima riguarda il rapporto religioso, la seconda riguarda la natura stessa dell‟incontro. Il rapporto religioso mantiene in qualsiasi religione questo fondamentale carattere di richiamo all‟Ulteriorità in quanto attesta all‟uomo che Dio non si può afferrare. La natura di ogni incontro umano rimanda a questo incontro con Dio. L‟uno e l‟altro sono particolarmente interessanti per ogni ricostruzione teologica che può ritrovare in essi questi dati costitutivi: la natura relazionale dell‟essere umano, il carattere relazionale della rivelazione di Dio, l‟irriducibilità di Dio alla semplice ricerca dell‟uomo, l‟accondiscendenza di Dio nel venire incontro all‟uomo. La nostra impostazione teologica recupera tali aspetti, del resto essenziali, collocandoli in una sequenza che prende anche sul serio la natura stessa dell‟incontro interumano, facendone il suo carattere peculiare e rileggendolo in una prospettiva teologica.

Diamo per pacifico il fatto che ogni religione persegua l‟obiettivo di incontrare Dio, o di cercare almeno quella dimensione oltre l‟umano che noi riconduciamo a lui. È altrettanto scontato che il cristianesimo vede tale incontro nel momento culminante della rivelazione di Dio attraverso Gesù Cristo. In questa cima, che segna nella sua persona il contatto reale, storico, tra l‟umano e il divino, c‟è ancora una vetta: è la celebrazione dell‟incontro nel momento della morte di Cristo. Ma proprio questo è anche il momento della separazione. Cristo ricongiunge l‟umano con il divino nel momento stesso in cui avverte il maggior distacco tanto dall‟umano (perdendo la sua vita) che dal divino (giacché muore sulla croce invocando Dio)30. Il perno della nostra proposta teologica, come del resto di ogni altra, non può essere che Gesù Cristo. Vogliamo però cogliere nella sua vicenda il momento storicamente decisivo di quell‟incontro verso il quale ogni vicenda umana cammina, e soprattutto verso cui cammina ogni ricerca religiosa. Ma, come dicevamo, anche in questo caso non vedremo solo l‟uomo alla ricerca di Dio, ma anche Dio alla ricerca dell‟uomo. Due ricerche, due migrazioni, che si compiono nel mentre si separano. Insieme compimento e allontanamento. In Cristo infatti la sconfitta e la vittoria coincidono. Il paradosso della sua croce non è un artificio letterario, né un espediente teologico, ma è davvero la consumazione di una vicenda che indica al contempo cercarsi e separarsi, congiungersi e distaccarsi.

Nel nostro schema generale questo momento centrale rappresenta il terzo (incontrarsi e separarsi). Si può configurare nei tradizionali trattati della Rivelazione e della Cristologia e - conseguentemente della Trinità. È preceduto da tutto ciò che si riferisce alla partenza: tendere

30 Mt 27,45: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce:

"Elì, Elì, lemà sabactàni?", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"».

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verso l’altro e mettersi in movimento verso di lui. È seguito da ciò che ha a che fare con il cercarsi ancora, in quanto nuova ricerca in compagnia con gli altri e nell‟utilizzo dei mezzi idonei alla modalità comunicativa. Ciò che tradizionalmente riguarda l‟ecclesiologia e i sacramenti.

Riguardo al primo momento, diremo che esso contiene già il motivo di fondo, l‟inquietudine che mette in cammino e la qualità della migrazione dell‟io, alla volta dell‟altro. La presenza di questa fondamentale e “tendenziale” nostalgia di incontro è ravvisabile nell‟esperienza umana in genere e nell‟esperienza religiosa in particolare. È un campo che abbraccia aspetti notevoli di investigazione, che vanno dalla antropologia alla scienza delle religioni, dalla riflessione sulla relazionalità umana alla considerazione della natura relazionale dell‟atto religioso. Come vedremo nel II° volume, riguarda anche la realtà unitrinitaria di Dio, in cui il reciproco tendere delle Persone divine l‟una verso l‟altra costituisce le relazioni, tanto da aver fatto dire già a Tommaso d‟Aquino che le Persone divine sono relazioni sussistenti.

Per ciò che riguarda le religioni, avvertiamo che se l‟uomo cammina verso l‟altro, così come cammina verso Dio, non realizza mai compiutamente il suo scopo, ma nell‟incontro avverte un ulteriore rimando. Tutto ciò è singolare. Sembra frutto della cultura contemporanea, ed invece è un dato attestato dalle antiche civiltà che hanno espresso la precarietà umana e l‟esigenza di Ulteriorità proprio nel celebrare l‟incontro per eccellenza, il congiungimento tra esseri umani nella forma più completa, quello riguardante l‟amore tra lo sposo e la sposa.

Faremo un riferimento ad altri testi che si riferiscono esplicitamente a questa tipologia dell‟incontro, per allargare il discorso ad altre testimonianze simili, al fine di avviare la riflessione sul tema che ci interessa. Nel libro del Cantico dei cantici abbiamo non solo uno dei documenti più espressivi dal punto rivista letterario, ma anche una delle testimonianze più significative di quel movimento reciproco che a noi è sembrato essere il movimento di Dio alla ricerca dell‟uomo e dell‟uomo alla ricerca di Dio. Un movimento che nel ricongiungere i soggetti in questione, li allontana ancora, per suscitare in loro una più forte nostalgia per un altro e un loro definitivo convenire. Partiamo perciò da questo testo, nel quale abbiamo ritrovato i cinque momenti fondamentali della nostra ricostruzione teologica. L’incontrarsi per separarsi è certamente il momento culminante, ma in riferimento ad esso si possono cogliere anche gli altri. D‟altra parte il tema della ricerca e della separazione è tipica della letteratura dell‟amore, dov‟è probabilmente altrettanto presente quanto quello dell‟amore come presenza e possesso31. Ne abbiamo un esempio in un cantico d‟amore, parallelo al Cantico dei cantici, che proviene dall‟antico Egitto.

0.1.6. Incontrarsi per separarsi nel papiro Chester Beatty I

Ci sono pervenuti canti d‟amore dalla cultura egiziana, che ha conosciuto un‟intensa fioritura di composizioni sull‟argomento soprattutto all‟epoca della 18^ dinastia, sotto la Regina Hatschepsut e al tempo di Amarna32. Qualcuno ha enumerato le somiglianze tra il Cantico biblico e uno di questi canti egiziani in particolare, il papiro Chester Beatty I33. Qui, però, poco importa se le descrizioni (in particolare quella corrispondente a Ct 5,10-16), siano descrizioni di opere d‟arte, che rimandano all‟arte figurativa egiziana34. A noi interessa cogliere il palpito che

31 Nel Cantico si ritrova in Ct 3,1-4; Ct 4,8; Ct 5,2-8; Ct 6,1 . Il quadro qui è quello di un idillio pastorale (cf. Giacobbe e

Rachele, Gen 29,1-12 ). In Ct 5,2-8 il quadro sarà differente; non si tratta di situazioni reali. 32Cf. G. GERLEMAN, Ruth - Das Hohelied, Neukirchener Verlag, Neulirchen-Vluyn 1965, 68ss. 33 Cf. E. SUYS, «Les Chants d'Amour du Papyrus Chester Beatty I», in Biblica 13 (1932) 209-227. 34 Ivi, 69ss.

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spinge verso l‟incontro e la realtà di questo incontro, che appena effettuato, sembra invertire il movimento, diventando separazione, perché i due che si amano continuino a cercarsi ancora. È questo movimento che ritroviamo in questo canto d‟amore che in sette strofe (stanze) ripercorre le tappe già accennate.

Il canto inizia con la presentazione che l‟amato fa dell‟amata, descritta come la più bella tra le belle, come stella che si eleva radiosa, la cui grazia risplende negli occhi, in tutto il suo corpo, come nel suo portamento:

«UNA amante senza paragone / bella più di ogni donna / vedi! È come la stella che si innalza / all‟inizio di un anno felice, / di un fulgore splendente, di un colore radioso, / graziosa con i suoi due occhi che guardano / dolce con le sue due labbra che parlano, / senza una parola di troppo»35.

Nella seconda stanza parla invece l‟amata che descrive le forti emozioni provate per l‟amato:

« MIO FRATELLO turba il mio cuore con la sua voce, / fa sì che il dolore mi colga. / È tra i vicini della casa di mia madre / e non so andare da lui.

[...] perché il mio cuore si ribella quando mi ricordo di lui: / il suo amore mi rapisce, / ma lui, non ha cuore. / Ebbene! Sarò come lui... / - egli non sa quanto desidero il suo abbraccio...»36.

Alla descrizione solare subentra ben presto il desiderio ardente dell‟incontro, un sentimento che non è solo della donna, ma anche dell‟innamorato. Nella III^ strofa si esprime indifferenza verso ciò che prima era attraente, perché ormai l‟amore assorbe ogni pensiero. L‟amata, nella stanza successiva, confessa di aver «perso il cuore», espressione che nell‟egiziano doveva equivalere al nostro «perdere la testa». Confessa che il suo cuore batte, fuggendo, con quella fuga che indica desiderio e intenso bisogno di raggiungere l‟altro:

«Ah! Il mio cuore FUGGE velocemente / quando mi ricordo del tuo amore. / Mi impedisce di vivere come gli altri essere umani37, / mi ha fatto lasciare le abituali consuetudini38, / mi impedisce di rivestire una tunica / e di adornarmi con il mio ventaglio; / mi impedisce di truccarmi l‟occhio / e non posso più ungermi in alcun modo / - “Non fermarti, torna” / dice, ogni qualvolta penso a lui - “Non essere troppo pazzo con me, cuore mio, / perché fai il folle? / Tieniti tranquillo e calmati, la sorella viene a te, / e che il mio occhio sia valente (?) allo stesso modo, / per timore che la gente non dica a mio riguardo: “Ecco una donna / che l‟amore fuorvia. / Resta saldo, ogni qualvolta ti ricordi di lui, / ah! mio cuore, NON FUGGIRE!”»39.

Al cuore è comandato invano di rallentare il battito. Anche se ciò succedesse, di certo non si fermerebbero i piedi dell‟amata, che finalmente è arrivata dall‟amato. Per questa ragione, nella stanza V^, l‟amato ringrazia Hathor, la dea raffigurata talora come donna recante il sole sulla fronte, dea della vita e del vigore dell‟amore40. Il giovane esprime la sua gratitudine per l‟incontro avvenuto ed è al colmo della gioia:

«RENDO GRAZIE, a Nubt, glorifico la sua maestà; / esalto la Dama del cielo, / offro i miei omaggi ad Hathor / e le mie acclamazioni alla (mia) Dama (la dea). / Quando ricorro a lei, ascolta la mia richiesta / e lei mi ha destinato (la mia) Dama (l‟amata). / Ah! è venuta da sé per vedermi. / Quale immensa (felicità) mi è capitata! /

35 Traduzione dal testo francese di E. SUYS, «Les Chants d'Amour...», cit., 213. I termini in maiuscoletto sono enfatizzate

nell‟originale e fanno gioco di parole con il numero della stanza. 36 Ivi, 214. 37 Nella traduzione che riportiamo il termine è «uomini». 38 Traduciamo così il francese il a quitté sa place normale, ritenendo che tale sia il senso complessivo. 39 E. SUYS, «Les Chants d'Amour...», cit., 216. 40 Cf. D. PFISTER, «Hathor» in Grande Dizionario delle Religioni, diretto da P. Poupard, Piemme - Cittadella, Casale Monferrato

(AL) - Assisi 19902, 908.

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Sono felice, esulto, tripudio (di gioia), / da quando fu detto: “Eccola!”. / Vedi, quando viene, coloro che la desiderano / si prosternano: / tale è l‟amore che ispira. / Farò offerte alla mia dea / perché mi dia mia sorella come dono. / Sono tre giorni ieri, da quando l‟ho chiesto e fui esaudito, / nel suo nome. Mi ha lasciato per

CINQUE giorni (?)»41.

Qualcosa intanto è accaduto e i due innamorati cominciano a contare i giorni della loro separazione. La stanza VI^ contiene ancora un moto di desiderio e un effettivo muoversi dell‟amata alla ricerca dell‟altro. Anche questa stanza si apre e si chiude con la parola che significa passaggio. Ci offre di nuovo un indizio del continuo migrare alla volta dell‟amore:

«Quando PASSAI vicino alla sua casa / trovai la sua porta aperta; / mio fratello stava vicino a sua madre, / tutti i suoi fratelli e sorelle, tutti i vicini a lui»42.

L‟essere nei suoi paraggi accende di nuovo l‟entusiasmo, sicché Nubt, l‟amata, esclama:

«Guarda verso di me, mentre passo. / Ah! Che sia sola per gridare la mia felicità, / che scoppi la gioia del mio cuore, / fratello mio, per quello che ho visto!»43,

fino ad esprimere a voce alta ciò che desidera più di ogni altra cosa:

«Certo andrei da mio fratello; / lo bacerei davanti a tutti i suoi, / non avrei vergogna per nessuno, / mi rallegrerei che lo sapessero, / dicendo: “Tu mi conosci”. / - farò una festa alla mia dea. / Il mio cuore balza per uscire, / per far sì che io guardi mio fratello in questa notte così dolce, / NEL

PASSARE».

Nel passare, significa non restare insieme, ma andare ancora lontano, l‟uno dall‟altra. L‟incontro è fugace e provoca una separazione lacerante. Anche in questo papiro, che è sorprendentemente vicino al Cantico dei cantici, sembra che il camminare l‟uno alla volta dell‟altra sia tematicamente più importante di ogni altra cosa. Nel ritrovarsi i due in realtà si allontanano. Altri giorni passano, senza potersi vedere. Nell‟ultima stanza l‟amato ne menziona sette, con un numero che indica nelle lingue antiche la somma dei numeri, alludendo forse al fatto che la ricerca non avrà fine. Ma lui, malato d‟amore com‟è, continuerà ad amare e a cercare, così come sembra continuerà a fare anche l‟altra. L‟amore è in questa continua e reciproca ricerca:

«SETTE (giorni) da ieri, che non ho visto mia sorella! / Il male si è insinuato in me, le mie membra si sono fatte pesanti, / io stesso non sento il mio corpo. / Se anche viene a me il grande medico, / le sue medicine non calmeranno il mio cuore; / né i preti lettori (di formule), non vi è soccorso da parte loro. / Il mio male non si diagnostica. / Quello di cui ho detto: “Ecco ciò che mi fa vivere”, / è il suo nome, il quale mi rialzerà; / l‟andirivieni del suo messaggero, / ecco ciò che restituisce vita al mio cuore, / mia sorella vale più di ogni medicina, / è più efficace per me di tutta la Somma (medica). / La mia salute è che lei entri dall‟esterno: / che io la veda, e certamente sono guarito! / Che scopra il suo sguardo, e le mie membra saranno ringiovanite; / che mi rivolga la parola e ritroverò il mio vigore; / che mi abbracci, e da me si allontanerà ogni male. / - Mi ha lasciato da SETTE giorni»44.

0.1.7. L’amore “che fugge” del Cantico dei cantici

Una sequenza simile si trova nel Cantico dei cantici. Al di là delle notevoli differenziazioni, soprattutto a livello teologico, si può cogliere, al fondo, lo stesso movimento secondo lo schema:

41 E. SUYS, «Les Chants d'Amour...», cit., 216-217. 42 Ivi, 217. 43 Ivi. 44 Ivi, 218.

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ricerca - incontro / separazione - nuova ricerca. Ciò contraddistingue non solo la poesia, ma anche la teologia del Cantico dei cantici. Vogliamo ribadirlo, perché gli attribuiamo un valore paradigmatico che ci è sembrato proprio tanto dell‟amore umano che di quello divino. Questa lettura non è di per sé alternativa alle altre proposte, ma addita ciò che le accomuna in un dato teologico che ne costituisce lo sfondo spesso inespresso. È persino alla radice dei tre livelli possibili di lettura del poema biblico e che si possono indicare in questi: a) un canto di gloria all‟amore puro; b) un canto che celebra l‟unione dell‟anima con l‟assoluto dell‟amore che è Dio; c) un‟allegoria del compimento escatologico dell‟intera storia d‟Israele45. L‟interpretazione che proponiamo non esclude nessuno di questi livelli, esige però che ciascuno tenga conto dell‟altro, secondo il suo genere e la sua effettiva consistenza teologica. Il continuo cercarsi per l‟incontro è infatti in eguale maniera un fatto mistico e un fatto realistico. Esprime il movimento che ogni amore, anche quello più umano, esperimenta. Esprime, parimenti, l‟esperienza che ogni incontro non può essere mai un possesso e che qualcosa sempre sfugge a qualsiasi abbraccio, semplicemente perché ogni abbraccio non può mai afferrare tutto l‟altro, sì da impossessarsene. Sarebbe la fine dell‟amore, verrebbe a mancare la specificità di uno dei due e l‟amore senza partner non è mai amore.

La struttura del Cantico dei cantici è diversamente indicata dagli autori. Alcuni ne hanno proposto una che coglie un movimento di approccio da parte dei due innamorati, con un‟intensità poetica crescente (cc. 1-4) fino alla loro unione (cap. 5,1) e vede nel resto del componimento una ripresa in forma parallela dei temi e dei motivi della prima parte, ampliati e intensificati. Ma c‟è chi ha visto una sorta di intreccio di rimandi tra il primo canto (2,7-3,5), ripreso dal terzo (5,2-6,3) e un secondo canto (3,6-5,1), ripreso dal quarto (6,4-8,3). Il tutto tra un canto di cornice iniziale (1,1-2,6) e un canto di cornice finale (8,4-14)46. Dall‟intera struttura sembrerebbe che le singole parti ruotino intorno all‟incontro dei giovani: incontro annunciato, descritto e poi nuovamente cercato. Allo stesso risultato si perviene anche adottando uno schema di lettura più lineare, sia che si identifichino sette canti, sia che si colgano dodici movimenti poetico-narrativi47. Nel primo caso il pathos poetico sembra ruotare intorno a quello che viene denominato il canto dell‟«incontro mancato», nel secondo, invece, si ritrova lo stesso perno nell‟ottavo movimento «nella notte un‟assenza».

Come per il canto egiziano, anche qui le strofe alternano le parole dell‟amato a quelle dell‟amata. A differenza dell‟altro, c‟è sovente l‟intervento del coro, che sottolinea, commenta e drammatizza i diversi momenti.

All‟inizio l‟amata esprime comunque l‟intenso desiderio di raggiungere l‟amato, per restare insieme con lui:

45 Cf. A. CHOURAQUI, (commento al Ct, Presses Universitaires de France, Parigi 1970) citato in G. RAVASI, Cantico, cit., 28. 46La struttura sarebbe allora questa:

A. Canto di cornice (1,1-2,6)

B. Primo canto (2,7-3,5) C. Secondo canto (3,6-5,1)

B'. Terzo canto (5,2-6,3) C'. Quarto canto (6,4-8,3)

A'. Canto di cornice (8,4-14). Cf. G. RAVASI, Cantico, cit., 40. 47 La struttura piana in sette stanze è di D. Lys. 1 Canto: lei e lui (1,2-2,7) - 2 Canto: «la mattinata interrotta» (2,8-17) - 3

Canto: cantico d'amore (3,1-5,1) - 4 Canto: «l'incontro mancato» (5,2-6,3) - 5 Canto: lodi di lei come l'unica (6,4-7,10) - 6 Canto:

«viaggio nuziale» (7,11-8,4) - 7 Canto: «non si scherza con l'amore» (8,5-14)]. G. Ravasi l'ha modificata in dodici momenti. Sono:

1) I baci della sua bocca (1,1-4); 2) Ricerca nel pomeriggio assolato (1,5-8); 3) Il duetto dell'incontro (1,9-2,7); 4) La sorpresa della

primavera (2,8-2,17); 5) Nella notte in città (3,1-5); 6) La lettiga di Salomone (3,6-11); 7) Il canto del corpo (4,1-5,1); 8) Nella notte

un'assenza (5,2-6,3); 9) Il nuovo canto del corpo (6,4-7,10); 10) Nelle vigne (7,11-8,4); 11) Ponimi come sigillo (8,5-7); 12) Muraglia

e vigna (8,8-14).

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«Attirami dietro a te, corriamo! / M‟introduca il re nelle sue stanze: / gioiremo e ci rallegreremo per te, / ricorderemo le tue tenerezze più del vino. / A ragione ti amano altre ragazze!» (Ct 1,4).

Dopo gli elogi indirizzati all‟amata (Ct 1,9-11), segue una sorta di duetto, in cui l‟uno e l‟altra esprimono il loro reciproco innamoramento, fino al punto che la ragazza racconta un convegno d‟amore, non si sa bene se avvenuto nella realtà o solo nella sua fantasia:

«Come un melo tra gli alberi del bosco, / il mio diletto fra i giovani. / Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo / e dolce è il suo frutto al mio palato. / Mi ha introdotto nella cella del vino / e il suo vessillo su di me è amore. / Sostenetemi con focacce d‟uva passa, / rinfrancatemi con pomi, / perché io sono malata d‟amore. / La sua sinistra è sotto il mio capo / e la sua destra mi abbraccia» (Ct 2,3-6).

L‟amato è descritto subito dopo nel suo incedere tra i monti, alla ricerca dell‟amata. Gli sembra di intravedere il suo volto persino tra le fessure delle rocce. Finalmente può raggiungerla mentre è in casa. Ciò fa trasalire lei di gioia:

«Una voce! Il mio diletto! / Eccolo, viene / saltando per i monti, / balzando per le colline. / Somiglia il mio diletto a un capriolo / o ad un cerbiatto. / Eccolo, egli sta / dietro il nostro muro; / guarda dalla finestra, / spia attraverso le inferriate» (Ct 2,8-9).

Sente l‟amato parlare ed esprimere una grande gioia alla quale partecipa l‟intera natura:

« Ora parla il mio diletto e mi dice: / “Alzati, amica mia, / mia bella, e vieni! / Perché, ecco, l‟inverno è passato, / è cessata la pioggia, se n‟è andata; / i fiori sono apparsi nei campi, / il tempo del canto è tornato / e la voce della tortora ancora si fa sentire / nella nostra campagna. / Il fico ha messo fuori i primi frutti / e le viti fiorite spandono fragranza. / Alzati, amica mia, / mia bella, e vieni!”» (Ct 2,10-13).

Ma qualcosa accade anche qui, perché ben presto il Cantico presenta l‟amata alla ricerca dell‟amato. Questa volta lo trova, lo abbraccia, si ripromette di non lasciarlo andare mai più:

«Mi alzerò e farò il giro della città; / per le strade e per le piazze; / voglio cercare l‟amato del mio cuore». / L‟ho cercato, ma non l‟ho trovato. / Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: / “Avete visto l‟amato del mio cuore?”. / Da poco le avevo oltrepassate, / quando trovai l‟amato del mio cuore. / Lo strinsi fortemente e non lo lascerò / finché non l‟abbia condotto in casa di mia madre, / nella stanza della mia genitrice» (Ct 3,2-4).

Il componimento prosegue con una parentesi che descrive un corteo regale. È menzionato Salomone, interpretato di solito come magnificazione dell‟amato, il quale avrebbe mandato una scorta a prendere la sua diletta. L‟innamorato decanta ancora in maniera dettagliata l‟avvenenza di lei ed è da lei invocato. La scena però cambia rapidamente. L‟amata resta ad attenderlo, vegliando nella notte. Questa volta egli sembra essere definitivamente arrivato, mentre lei è pervasa da un brivido:

«Io dormo, ma il mio cuore veglia. / Un rumore! È il mio diletto che bussa: / “Aprimi, sorella mia, / mia amica, mia colomba, perfetta mia; / perché il mio capo è bagnato di rugiada, / i miei riccioli di gocce notturne”. / “Mi sono tolta la veste; / come indossarla ancora? / Mi sono lavata i piedi; / come ancora sporcarli?”. / Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio / e un fremito mi ha sconvolta» (Ct 5,2-4).

La ragazza corre alla porta per aprire il chiavistello, ma il suo amico è scomparso:

«Ho aperto allora al mio diletto,/ ma il mio diletto già se n‟era andato, era/ scomparso./ Io venni meno, per la sua scomparsa./ L‟ho cercato, ma non l‟ho trovato,/ l‟ho chiamato, ma non m‟ha risposto./ Mi hanno trovata le guardie che perlustrano la città;/ mi hanno percosso, mi hanno ferito,/

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mi hanno tolto il mantello/ le guardie delle mura./ Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,/ se trovate il mio diletto,/ che cosa gli racconterete?/ Che sono malata d‟amore!» (Ct 5, 6-8).

Il Cantico contiene ancora passaggi riflessivi e risonanze, riprese del coro, forse anche dei ricordi. In ogni caso si conclude con un‟immagine in movimento: è l‟amato questa volta invitato o descritto a fuggire sui monti:

«Tu che abiti nei giardini / - i compagni stanno in ascolto - / fammi sentire la tua voce. / “Fuggi, mio diletto, / simile a gazzella / o ad un cerbiatto, / sopra i monti degli aromi!”» (Ct 8, 13-14).

Resta, senza dubbio, una constatazione sulla forza indistruttibile dell‟amore:

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, / come sigillo sul tuo braccio; / perché forte come la morte è l‟amore, / tenace come gli inferi è la passione: / le sue vampe sono vampe di fuoco, / una fiamma del Signore! / Le grandi acque non possono spegnere l‟amore / né i fiumi travolgerlo. / Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa / in cambio dell‟amore, non ne avrebbe che dispregio» (8, 6-7).

Il Cantico dei cantici, al di là delle pur legittime congetture ed ermeneutiche, attesta indiscutibilmente che l‟amore non è realtà statica, ma dinamica. È da inseguire continuamente. La sua vera natura consiste in una continua ricerca. Ma ciò converge sia con il canto egiziano già menzionato, che con altro materiale proveniente dal mondo delle religioni, e, si potrebbe dire, dall‟esperienza religiosa in genere.

Che cosa concludere? Innanzi tutto che ci sembra di aver afferrato un indizio importante, che vogliamo mettere alla prova dei fatti, per verificare fino a che punto il movimento religioso sia della natura asserita anche nelle altre forme religiose che conosciamo. In secondo luogo che l‟amore di Dio e l‟amore umano pur essendo, come è ovvio, di natura diversa, conoscono momenti e passaggi, tappe e persino espressioni che sono molto simili tra loro. Al punto in cui siamo dobbiamo però accertare ancora quanto ciò sia vero a livello fenomenologico e a livello teologico. Nel primo caso dovremo fare riferimento all‟esperienza religiosa come possibile esperienza di quella che abbiamo chiamato reciproca migrazione dell‟amore, nel secondo dovremo verificare fino a che punto tale duplice moto è reperibile nella rivelazione giudaico-cristiana e soprattutto nella vicenda di Gesù.

Intanto, senza anticipare alcun esito, scaturiscono qui già due ambiti di investigazione in questo senso, quello sulle religioni e quello sulla rivelazione. Non sono che due momenti di quella riflessione condotta oggi dalla cosiddetta “teologia fondamentale”, ma ad essi si può ben affiancare anche la ricerca ecclesiologica, quella cioè che, riflettendo sulla chiesa, ritrovi all‟interno delle sue origini, del suo dinamismo, della sua stessa finalità, il passaggio di Dio e il passaggio degli uomini, riconsiderati non più singolarmente, ma nella loro socialità e nella loro storicità.

0.1.8. Forme e luoghi dell’incontro tra Dio e l’uomo

In una fenomenologia complessiva, atta a cogliere la profondità della religione, l‟atto religioso ci è apparso come il continuo cercarsi dei suoi due soggetti costitutivi: l‟uomo e la “sua” Trascendenza, l‟umano e il “divino”48. Una reciproca ricerca che tende all‟incontro, un incontro vissuto in diverse maniere e a più dimensioni. Secondo questa concezione generale, la religione celebra un “passaggio”, ma in un duplice movimento: il moto di ciò che “trascende” l‟essere umano, e l‟essere umano che, avvertendo il richiamo di quella Trascendenza, si muove

48 Cf. G. MAZZILLO, «L‟esperienza religiosa e le religioni nel loro cammino verso Cristo», in Vivarium n.s. (1997/2) 159-179.

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anche lui per raggiungerla in qualche modo. La religione attualizza e ritualizza questo tendenziale abbraccio: il chinarsi del divino sull‟umano e il protendersi dell‟umano verso il divino. È convinta, anzi, di realizzare ciò che ha sempre inseguito e continua ad inseguire.

Quelle religioni che contengono un esplicito concetto di rivelazione colgono il venire di Dio verso l‟uomo in quell‟accondiscendenza, che rappresenta la forma storica assunta dal chinarsi di Dio verso di noi. Nell‟ebraismo-cristianesimo è presente una simile accondiscendenza, ma anche una storia reale di accoglienza e di rifiuto. Nel cristianesimo la venuta di Dio nella persona del Figlio rappresenta la forma più alta mai pensata del ricongiungimento tra Dio e gli uomini, con una particolarità tutta propria, che riconosce nella croce il compimento di quel duplice cammino. Infatti, come già accennato, la croce rappresenta il momento supremo che ricongiunge Dio e l‟uomo, il cielo e la terra, ma rappresenta anche la separazione più grande che possa mai darsi, perché sulla croce muore Gesù, il Figlio di Dio. Evento inaudito di unione e di separazione nello stesso tempo. Di infinito smarrimento e di totale riconciliazione.

La chiesa della definitiva alleanza nasce in quest‟attimo in cui la vita fisica fugge dalle membra del Figlio di Dio, mentre Dio stesso sembra fuggire dalla storia. Dio sembra fuggire dall‟uomo e l‟uomo inerte e nudo, resta desolatamente appeso alla croce. Quest‟atto supremo di totale sconfitta è tuttavia l‟atto in cui l‟unico a vincere è l‟amore, per la sua fedeltà, la sua coerenza, la sua determinazione, che nemmeno la morte riesce a soggiogare.

Con la consegna di se stesso al Padre e la resa della propria vita al nulla, il Figlio di Dio consuma la sua missione e compie la piena riconciliazione. La chiesa, prima di nascere ufficialmente dalla Pentecoste, ha origine da quel corpo appeso, dal cui cuore squarciato fuoriescono sangue ed acqua, segni dei suoi due sacramenti fondamentali, il battesimo e l‟eucaristia. Nasce dal soffio dello Spirito, quello di Gesù morente che lo dona, così come dona, affidandoli ad altri, la sua testimonianza d‟amore, il suo messaggio, la sua ansia di costituire una comunità che continui la sua opera49. La comunità generata in quel pomeriggio in cui il cielo si oscura, apparirà ben presto come la riconvocazione del popolo nel quale Gesù era vissuto, per il quale egli dava la sua vita e in nome del quale, pochi momenti prima, aveva pregato. La sua lancinante invocazione «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» (Mc 15,33-37) coincideva con la professione di fede di chi nell‟ora suprema ripeteva la confessione di tempi passati: «In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati; a te gridarono e furono salvati, sperando in te non rimasero delusi» (Sal 22,5-6). Prima di quell‟ultima invocazione era avvenuta l‟ultima riconvocazione, in continuità con quella della sera precedente intorno al pane spezzato e al calice del vino condiviso.

Ora l‟ultimo atto convocativo si rivolge, tra i pochi presenti, a due soggetti principali, i più affranti, quelli umanamente più distrutti, che perdendo Gesù sembrano perdere ogni cosa: Maria, la madre, e Giovanni, il discepolo. Gesù li affida l‟uno all‟altro, sicché d‟ora in poi l‟uno

49 Gv 19,30.32-34: «E dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò il suo spirito. [...]

Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all'altro che era stato crocifisso insieme con lui. Venuti però da

Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne

uscì sangue e acqua». La consegna dello spirito è riferito da non pochi commentatori allo Spirito Santo, come anticipazione di

ciò che verrà esplicitamente donato dal Risorto. Cf. G. SEGALLA, «Vangelo secondo Giovanni», in La Bibbia. Nuovissima versione

dai testi originali III, Nuovo Testamento, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991, 714. L‟edizione tedesca Eineitsübersetzung precisa

nella nota: «egli übergab [che significa consegnare e donare] lo spirito (lo pneuma). - Geist (pneuma) è qui, come in Gv 11,33;

13,21, il principio della vita, la forza vitale. Il verbo “übergeben” mostra che il morire di Gesù è inteso come un atto di offerta di

Gesù alla volontà del Padre» (Eineitsübersetzung der Heiligen Schrift. Das neue Testament, Stuttgart 4 1979, nostra traduzione).

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avrà cura dell‟altro50. I due che vivranno insieme ci ricordano la volontà di Gesù di aver voluto mandare i suoi discepoli a due a due51, e rievocano le sue parole «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Ora, nel momento della sua morte, la presenza fisica del Figlio di Dio si dissolve, ma, nello stesso istante, due esseri umani si incontrano, e intorno al loro incontro, a poco a poco, s‟incontreranno anche gli altri. Da tanta desolazione e dall‟abbraccio di quelle due sconfinate solitudini rinasce dunque l‟assemblea dei credenti, è riconvocato il popolo di Dio.

Il popolo di Dio della Nuova Alleanza nasce così, ma così dovrà anche ogni volta rivivere. È rifondato su un evento di immane dolore, che brucerà ogni volta nella memoria, nel racconto, nella sua attualizzazione che prenderà forma nel pane e nel vino condiviso.

A questa convocazione nel dolore segue, a tempo debito, da parte di Gesù, una formale convocazione nella gioia. Avviene la sera di pasqua ed è celebrazione della pace ed invito a celebrare la riconciliazione: «venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch‟io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”» (Gv 20, 19b-23).

Quest‟ultima serie di considerazioni è propriamente materia del tradizionale trattato sull‟ecclesiologia. Quest‟ultima presuppone, a sua volta, un approfondimento su Cristo, e quindi una cristologia che rifletta sulla vicenda storica di Gesù e sulle conseguenze teologiche del suo vivere, agire, morire e risorgere.

In questa prospettiva Cristo non può essere considerato solo una sorta di vettore metafisico, per quanto fondamentale, dell‟incontro tra l‟uomo e Dio, ma molto di più come incontro reale e compiuto tra loro. La migrazione di Dio e quella dell‟uomo raggiungono in lui il comune traguardo e arrivano finalmente all‟appuntamento segreto della storia, sicché Dio e l‟uomo possono consegnarsi l‟uno all‟altro. Parlando in termini economici (cioè relativi all‟opera di Dio nella storia umana), si può asserire che Dio e l‟uomo consegnano reciprocamente la propria storia l‟uno nelle mani dell‟altro. In tale consegna le domande iniziali sul senso della religione per l‟uomo di oggi si acutizzano fino ad infrangersi. La morte perde il suo pungiglione, perché è attraversata dal Figlio di Dio. Con essa anche il dolore che sale dalla storia umana giunge finalmente al giorno tanto atteso: quello in cui è assunto e fatto proprio da Dio. Si celebra così l‟approdo di quella «forza messianica», che qualcuno anche da un versante non direttamente cristiano aveva avvertito dimorare nelle dinamiche segrete della storia, al punto di dire: «Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto»52.

50 Gv 19,25-27: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala.

Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi

disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa». 51 Lc 10,1-2: «Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e

luogo dove stava per recarsi» (cf. anche Mc 6,7, che però parla dei dodici). 52 W. BENJAMIN, Angelus novus. Saggi e frammenti, (a cura di R. Solmi), Einaudi, Torino 1995, 76 (gli Schriften originali

apparsero presso l‟editore Suhrkamp il 1955). Il contesto complessivo in cui tale affermazione si trova parla di redenzione e di

senso del futuro che recupera il passato. Proprio ciò mette a dura prova il materialista storico: «Nell'idea di felicità, in altre

parole, vibra indissolubilmente l'idea di redenzione. Lo stesso vale per la rappresentazione del passato, che è il compito della

storia. Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C'è un'intesa segreta fra le generazioni passate e

la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata data in dote una debole

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L‟emblema teologico che a noi sembra meglio esprimere tale attesa e il suo compimento è l‟icona del Risorto che reca ancora le piaghe della passione: passione subita da lui e passione subita da ogni innocente della storia, da ogni sofferente della terra. Tutto ciò sarà oggetto del nostro III° volume, dal titolo, pensato originariamente come Cristo, culmine dell’incontro tra Dio e l’uomo, e successivamente corretto come Gesù e le beatitudini come progetto di Chiesa, in fase di elaborazione. In esso l‟effettivo incontro tra gli uomini tra loro e con Dio sarà presentato nel passaggio obbligato di una scelta rivoluzionaria: quella di Gesù e della predilezione per i poveri. Nella sua vicenda d‟amore e di dolore solleveremo anche il problema sul senso della nostra partecipazione a una storia di uomini che è storia di domande e sovente di dolore. Sarà come andare alla ricerca di un «quinto evangelio», quello della sofferenza e della speranza del mondo intero, per tentare di cogliere anche nel dolore degli uomini una rivelazione di Dio53, ma tutto ciò nell‟individuazione di un “progetto” salvico che riguarderà la Chiesa, la sua assemblea.

Proprio sulla chiesa e in continuità con la cristologia abbozzata, il IV° volume, già edito, porta titolo Popolo delle beatitudini54. Nata dall‟incontro di Cristo con l‟uomo nel suo morire e risorgere, la chiesa è considerata come riconvocazione del popolo di Dio della prima alleanza. È rivisitata come comunità convocata dall‟Unitrinità divina, per camminare alla sequela di Gesù verso la sua destinazione definitiva, quella escatologica, relativa cioè alle ultime cose. Nella sequela del Cristo, il popolo di Dio è presentato nell‟ottica del discorso della montagna, e soprattutto secondo il progetto della nuova umanità che traspare dalle beatitudini. La comunità dei credenti è vista soprattutto come segno e strumento dell‟unione con Dio e dell‟unità del genere umano, come insegna fin dall‟inizio la costituzione del Vaticano II sulla chiesa Lumen Gentium. Il suo scopo missionario è anche per noi anche il suo obiettivo pastorale, di una pastoralità che asseconda quella del suo Signore, suo Maestro e Pastore.

Mentre nei fatti il popolo di Dio celebra ed effettua l‟incontro con lui e tra i suoi membri “professi”, è tuttavia un continuo e dinamico fermento che spinge ogni uomo all‟incontro con Dio e costruisce, seppure faticosamente, l‟incontro tra gli uomini e tra i popoli. In questo senso la nostra proposta di ecclesiologia vuole contenere i fondamenti teologici del popolo di Dio e le linee evangeliche di una prassi pastorale credibile, nel senso che accetta interamente la scommessa della pura e semplice credibilità dell‟amore. Il suo agire appare così già segnato: deve restare fedele alla prassi di Cristo e realizzare il più possibile la riconciliazione nel mondo degli uomini.

Dall‟intero itinerario teologico sarà meglio comprensibile ciò che vogliamo esprimere nel V°

volume, intitolato fare teologia operando la pace. Ritornando a un tema che ha accompagnato e

forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa»

(ivi). 53 Ci sembra interessante segnalare, a questo proposito, la testimonianza dello scrittore "cattolico" Mario Pomilio, dal quale

riprendiamo l'espressione «quinto evangelio» - un vangelo che riporti la narrazione degli ultimi quaranta giorni di Gesù sulla

terra - alla ricerca del senso del dolore che gronda dalla storia. «Un uomo andava pellegrino cercando il quinto evangelio. Lo

venne a sapere un santo vescovo e, per l‟affetto di averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole "Procura

d‟incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio"» (M. POMILIO, Il quinto evengelio, Bompiani, Milano 2000).

54 G. MAZZILLO, Popolo delle beatitudini. Saggio di ecclesiologia, Dehoniane, Bologna 2016. Cf. https://www.dehoniane.it/9788810412169-popolo-delle-beatitudini, per gli altri testi di Mazzillo cf. http://www.puntopace.net/Mazzillo/LibriMazzillo/FotoAcquistiLibriDaSolo.htm .

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fecondato la nostra riflessione teologica fin dagli inizi, la prassi di pace sarà presentata come compito di ogni cristiano e come elemento qualificante una riflessione teologica che prende sul serio Dio e il cammino verso di noi e il cammino dell‟umanità nell‟andare incontro a lui, assecondando la sua stessa prassi di pace e avvicinando pertanto i popoli l‟uno all‟altro e questi all‟intera creazione.

0.2. Introduzione al I° volume L’uomo sulle tracce di Dio.

È stato scritto che ogni definizione della religione indica in realtà la concezione del mondo di colui che la formula55; non manca chi addita nella religione un complessivo atto con il quale il singolo affida la sua esistenza a una Trascendenza sebbene variamente intesa56; mentre per altri ancora l‟esperienza religiosa nasce dall‟esperienza di Dio come passione per la relazione e più specificamente per la giustizia57. Non si può negare che in ogni caso l‟esperienza religiosa sembra collegata al bisogno di raccontare o almeno di situare se stessi in una “totalità”, quindi oltre se stessi, pur rimanendo strettamente aderenti a ciò che maggiormente interessa la propria realtà e la propria identità. Per le cosiddette religioni arcaiche si parte da ciò che concerne il proprio sé in rapporto alla propria tribù, ma ciò sconfina al di là del capostipite. In questa scia, nelle corrispondente ritualità, il naturale bisogno di mangiare, ad esempio, si allarga fino all‟idea di avere un pasto con Dio, così come il bisogno di parlare con altri, diventa bisogno di pregare qualcuno che è di più e al di là di tutti gli altri.

Osservando l‟esperienza di popoli tribali o di uomini religiosi di qualsiasi epoca, non sfugge il fatto che l‟atto religioso ruota intorno a ciò che noi chiamiamo Ulteriorità, con terminologia non generica, ma - come chiariremo meglio in seguito - capace di inglobare anche le concezioni religiose che non colgono in essa una personalità vera e propria (almeno non alla nostra maniera culturale). Si può e si deve certamente accostare a tale Ulteriorità il binomio esperienza e mistero58, precisando che l‟esperienza dell‟Ulteriorità è proprio esperienza del mistero. Possiamo indicare e apprezzare fin da ora la fecondità di questa esperienza religiosa, che tuttavia si è mostrata e si mostra molteplice relativamente alle forme assunte. A partire dalle forme religiose preistoriche, proprio tale Ulteriorità è stata intuita, pensata e pregata talvolta come paternità e maternità, come realtà primordiale che tutto origina e come sostegno e grembo che tutto fa vivere e tutto alimenta. Basti pensare che la stessa idea di Dio come padre, e per giunta come «padre nostro», la troviamo presente in alcune religioni storicamente e geograficamente lontane dall‟ebraismo-cristianesimo59, così come l‟idea di Dio-Madre si collega all‟idea che è madre che

55 M. G. LOMBARDO, «religione», in Enciclopedia di filosofia, Garzanti, Milano 1999, 964-969, qui 965. 56 Cf., ad esempio, E. BIANCHI, «Introduzione», in AA. VV, Poesie di Dio, a cura di E. Bianchi, Einaudi, Torino 1999, X. 57 In quest'ottica Dio è «il potere che porta alla giustizia e la fa. Fa risplendere il sole, rumoreggiare i fiumi, ardere il fuoco. E

la rivoluzione viene vinta di nuovo». Così in C. HEYWARD, The Redemption of God. A Theology of Mutuality, SPCK, London 1982,

citata in M. GRAY, «Una passione per la vita e la giustizia. Genere ed esperienza di Dio», in Concilium 37 (2001/1) 25-38, qui 31. 58 Cf. il citato fascicolo di Concilium dal titolo Dio: esperienza e mistero. 59La verità biblica del Dio padre e madre è sorprendentemente presente anche nell'intuizione di alcuni popoli primitivi.

Così, ad esempio, nell'Australia Sud-orientale Daramul, l'Essere supremo, autore della vita e di ogni cosa esistente, era chiamato

dagli Yuin, una tribù ormai estinta di cacciatori-raccoglitori, «Nunga-Ngaua» cioè «Padre nostro». Cf. V. MACONI, «Le religioni

dei popoli privi di scrittura», in P. TACCHI VENTURI (fondata da), Storia delle religioni, Utet, Torino 1970, 265-266, che rimanda a R.

M. e C. H. BERNDT, The World of the first Australians, Sidnay 1964, 202.

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fa vivere e dà la gioia di cantare, sì da essere invocato come «Madre delle canzoni»60. D‟altro canto la rappresentazione del disco solare con la faccia della divinità che è presente in ogni area geografica dell‟Europa verso la fine del IV millennio a.C.61 sembra avere una notevole corrispondenza nel culto della Dea Madre, da quella venerata in Anatolia come signora della vita e della morte a quella presente nella Sardegna in età neolitica62.

Sono solo alcune rappresentazioni dell‟Ulteriorità, dalle quali per il momento dobbiamo prescindere, per domandarci che cosa ci sia prima di esse, cioè al fondo di esse, e se possiamo individuare nell‟uomo la sorgente dell‟esperienza religiosa. Riteniamo che una simile esperienza esista e che, pur assecondando molteplici rappresentazioni, come quelle summenzionate, non necessariamente si identifichi con esse. Al contrario, può farne anche a meno ed esprimersi in altre forme, che vanno dalla semplice percezione di una Realtà trascendente o Onnicomprensiva alla critica verso le rappresentazioni e la denuncia delle mistificazioni attraverso le quali essa è talvolta presente nella storia dell‟uomo e dei popoli.

A questo punto sono inevitabili alcune domande di fondo che riguardano proprio la materia in oggetto relativa all‟esperienza religiosa. Presupponendo che la religione nasca e viva con essa ci chiediamo: Che cosa è la religione? Ha ancora senso parlarne? Che cosa accomuna espressioni religiose così lontane nel tempo e nelle più svariate latitudini e longitudini della terra?

Cominciamo con il dire che la nostra è certamente un‟epoca in cui è difficile recepire a pieno il significato della religione. Non perché sia del tutto scomparsa dall‟orizzonte dell‟uomo di oggi. È ancora presente, ma spesso lo è nelle forme più disparate, nelle forme più strane. Né sembra troppo agevole trovare un‟esperienza comune che possa fare da sfondo alle tante “esperienze” spesso chiamate “religiose”, ma con significati certamente molto diversi tra loro. L‟uomo del nostro tempo cerca, a suo modo, di vivere particolari situazioni esistenzialmente significative che a molti sembrano doversi collegare all‟esperienza religiosa. Dalle tante nuove forme di “magia”, particolarmente diffuse nelle società più industrializzate, a quelle con le quali l‟uomo contemporaneo cerca di pervenire a un qualche rapporto con una realtà che avverte in sé e intorno a sé come “più interna” e “più profonda”, la religione è ben lungi dal suo declino. Ma in questi casi, è proprio vero che di religione si tratta? Per rispondere alla domanda occorre considerare la molteplicità delle diverse esperienze in oggetto e cercare di arrivare a una definizione, seppure provvisoria e rivedibile, della religione, in modo da poter avere uno strumento adeguato per compiere questo discernimento.

Qui nasce il primo problema della religione. Che cos‟è la religione e come la si può definire, senza tradirla? Non è che il primo aspetto o il primo di quel grande grappolo di problemi che si sollevano già al suo punto di partenza. Si tratta, infatti di ciò che l‟uomo avverte in sé come fonte del religioso e che ormai si esprime in forme molteplici e da millenni. Che cosa? Esattamente la percezione di qualcosa che è al di fuori di sé, eppure parte dal di dentro di sé. L‟avvertenza di

60 Con tale espressione, nell'originale «Sibala Neuma» viene indicato il corrispettivo del Dio supremo nella religione dei

Kagaba della Colombia, come informa V. MACONI, «Le religioni dei popoli...» cit., 279. 61 Cf. G. MAGNANI, Storia..., cit., 122, che rimanda ad E. ANATI, I Comuni. Alle radici della civiltà europea, Jaka Book, Milano

1979. 62 Ci sembrano utili alcuni riferimenti bibliografici su quest'argomento, dallo studio di E. O. JAMES, Nascita della religione, Il

Saggiatore, Milano 1961(originale in inglese del 1957, che riprende temi già contenuti in ID. The cult of the Mother Goddes, London

1959), a quello di M. Eliade, che lo tratta nella sua Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni, 3 voll., Firenze 1981-1983, qui

vol. I, pp. 52-57, fino al saggio di E. ATZENI, La Dea Madre nelle culture prenuragiche, Gallizzi, Sassari 1978.

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una Presenza, cioè di qualcosa che pur non sperimentabile come le altre, è tuttavia una presenza non meno reale delle altre.

Dai primi segni lasciati dall‟uomo “primitivo” ad oggi è passato molto tempo. Si riportano numerosi esempi preistorici che sembrano attestare segni cultuali almeno relativamente alla sepoltura. Sono stati ritrovati crani umani seppelliti isolatamente già nel paleolitico antico (tra il 600.000 e il 150.000 a.C.) e ciò ha fatto pensare a qualche forma di culto. Nell‟epoca successiva sono stati rinvenuti scheletri adagiati come a dormire su un fianco, con un corredo di ossa di animali (talora anche orsi), di armi primitive, che sembravano dovessero proteggerlo, e residui di fuoco accanto alle sepolture, che hanno fatto pensare a sacrifici rituali o al fuoco che avrebbe dovuto riscaldare o illuminare il defunto63. Risale a circa settantamila anni fa la testimonianza di alcuni segni interpretati come religiosi, perché presenti in una sorta di “santuario” che si trova nelle Alpi svizzere, a Drachenloch. Come attestano sette crani di orso rinvenuti, accuratamente disposti a guardare l‟ingresso, e le tante altre ossa degli stessi animali, qui deve esserci stato uno dei primi luoghi in cui si andava a sacrificare degli animali64. A chi? A qualche divinità, della quale non ci potrà mai pervenire il nome, data l‟assenza di qualsiasi scrittura? Non lo si potrà mai sapere, anche se una simile congettura non è del tutto fuori luogo, a motivo del collegamento, attestato in altre epoche e in diverse e lontane aree geografiche, tra le divinità e le spelonche naturali65. La probabilità che qui ci siano stati dei sacrifici sembra comunque confermata dalla presenza nella stessa grotta di molte pietre scheggiate a forma di coltello.

In epoca più recente, ma pur sempre in epoca preistorica, sono di grande importanza alcuni graffiti trovati in Val Camonica e altrove. Sono presenti, tra gli altri animali e oggetti, figure umane in piedi e con le braccia alzate verso il cielo, o verso divinità che compaiono in forme diverse e con statura spesso superiore a quella umana66. Più recentemente si è saputo di importanti ritrovamenti di graffiti nel Sahara, risalenti al neolitico, dove compaiono uomini ed animali e raffigurazioni del divino. Sono visibili infatti figure femminili, rappresentanti la maternità e la fecondità, e figure maschili. Accanto a loro ci sono donne adoranti con le braccia alzate67. In ogni caso non è fuori luogo annotare l‟impressione di essere di fronte a testimonianze di persone che avvertono una presenza con la quale dialogare e interagire. Indubbiamente siamo qui di fronte a qualche traccia di quel rapporto tra l‟essere umano e quella particolare percezione che faceva compiere i primi sacrifici oppure faceva sentire lo spazio al di fuori di sé come popolato da una impalpabile presenza.

Secondo la nostra visione teologica l‟uomo da quando è diventato autocosciente, e quindi veramente uomo, si è posto in cammino verso il “suo” mistero, seppure in forme per noi poco comprensibili e tuttora da decifrare completamente. Sia che l‟abbia cercata al di là della morte dei suoi congiunti o compagni, sia che l‟abbia preavvertita e raffigurata in grotte innevate o semplicemente riparate dal sole, egli ha percorso i primi passi verso quell‟Ulteriorità che lo

63 Cf. J. MARINGER, «La religione nella preistoria», in P. TACCHI VENTURI (fondata da), Storia delle religioni, cit., 175-244. 64In questa sorta di “santuario” preistorico sembrano esserci i segni di un particolare culto, dimostrato dalla presenza di

sette crani di orso rivolti verso l‟ingresso e di altre ossa degli stessi animali [Cf. F. FEDELE, «Religioni della preistoria», in G.

FILORAMO (a cura), Storia delle religioni 1. Le religioni antiche, Laterza 1994, 47ss]. Per l‟interpretazione "cultuale" del

ritrovamento cf. G. MAGNANI, Storia comparata...., cit., 97-101. 65 L'importanza delle grotte per la storia delle religioni preistoriche nasce dalla credenza che alcune divinità, come quelle

dell'acqua risiedano sottoterra. È una credenza diffusa in non poche culture. Cf. F. FEDELE, “Religioni della preistoria”, cit. 66 Cf. G. RIES, “Val Camonica”, in P. POUPARD (diretto da), Grande dizionario delle religioni, Cittadella - Piemme, Assisi - Casale

Monferrato 1990, 2206-2208. 67 Cf. F. MORI, Le grandi civiltà del Sahara antico, Bollati - Boringhieri 2000.

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affascinava e lo spingeva anche fisicamente a mettersi in movimento. Lo stesso richiamo è avvertito in quelle religioni tribali, dette arcaiche o primitive, in minima parte ancora sopravvissute in qualche lontana regione del mondo non ancora interamente raggiunto dalla cosiddetta “civilizzazione”. In esse non di rado traspare il senso di un “Tu” di fronte al quale l‟uomo avverte di stare o persino di camminare continuamente, sapendo che né lo spazio, né alcuna distanza possono mai essere colmati. L’Ulteriore appare come la fonte stessa della ricerca, del vuoto come dello spazio: non è mai colmato e resta pertanto spazio di preghiera. C‟è un canto che esprime questo rapporto con l‟invisibile, un canto dei Navayos68. Eccone alcuni brani:

«Con un vuoto di fame in me io cammino, / Cibo non potrà riempirlo; [...] Con un vuoto di spazio in me io cammino, / Nulla potrà riempirlo; [...] Con uno spazio di tristezza in me io cammino, / Tempo non lo terminerà; [...] Con uno spazio di solitudine in me io cammino, / Nessuno lo colmerà; [...] Per sempre solo, per sempre triste io cammino, Per sempre vuoto, per sempre affamato io cammino, Col dolore di grande bellezza io cammino; Col vuoto di grande bellezza io cammino».

La conclusione non è però di sconfitta. Diventa preghiera, quasi contemplazione, di chi vuol continuare a restare in cammino, mentre parla con Dio:

«Ora con un Dio io cammino, / Ora i passi muovo tra le vette, Ora con un Dio io cammino, / A passi di gigante, oltre le colline. Io sono una preghiera in cammino. / Mai solo, mai piangente, mai vuoto, Sul cammino delle età antiche, /Sul sentiero della bellezza. Io cammino»69.

Sono versi che esprimono certamente un‟esperienza religiosa. Vi compare una solitudine senza scampo e la consapevolezza che proprio dal profondo di essa una realtà ci parla e ci muove verso l‟incontro al di fuori di se stessi.

La “religione” è dunque all‟origine di questa esperienza, la stessa che ritroviamo nel nostro mondo moderno e occidentale sotto l‟espressione “esperienza della trascendenza”. Di che cosa si tratta? Dell‟avvertenza di un di più che anche noi moderni scopriamo in noi stessi e che va oltre noi stessi. La si chiami esperienza religiosa o “esperienza spirituale”, come altri preferisce, è ciò che talora si incontra nelle cose di ogni giorno e non solo negli eventi straordinari. Ma in che modo? Risponde uno dei più grandi teologi del secolo scorso, K. Rahner70:

«Abbiamo mai obbedito, non perché costretti a farlo o per evitare fastidi, ma unicamente per amore di quella realtà misteriosa, silente e incomprensibile, che chiamiamo Dio e la sua volontà? Ci siamo mai sacrificati senza ricevere un grazie, un riconoscimento, anzi senza neppure provare in noi un senso di soddisfazione? Ci siamo mai trovati in una solitudine senza scampo?»

Qui, come si noterà, l‟Ulteriorità appare come motivo di gratuità e di solitudine: un essere faccia a faccia con se stessi e scoprire di non essere soli con se stessi. Appare anche con la

68 Si tratta di un popolo indigeno del Nuovo Messico la cui trascrizione è talora anche "Navajo" oppure "Navaho". Oggi i

navajos, indigeni amerindi, di lingua athabaska, vivono in una riserva nella valle del San Juan. Si opposero strenuamente

all'avanzata dei "bianchi", alleandosi con gli Apache di Geronimo (nella seconda metà del 1800). Il senso religioso di questo

popolo verso ciò che chiameremo l'"Ulteriorità", avente valore di assoluto, non si può cogliere agevolmente attraverso le nostre

categorie religiose, se ancora nel 1961 si scriveva che è un popolo che crede in molti poteri "soprannaturali", ma non in una

"divinità superiore a tutte le altre" (D.CINTI, Storia delle religioni 2, Società editrice libraria, Milano 1961, 631). 69 Citato in A. BOCCIA, (a cura di) “Le religioni arcaiche”, in AA. VV., Le grandi religioni del mondo, Editrice Missionaria

Italiana, Bologna s.a., 7. 70 K. RAHNER, Cose d'ogni giorno, Queriniana, Brescia 19862. I testi citati sono stralciati dalle pagine 52- 58.

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motivazione ultima di impegni notevoli che attendono al varco molti, sia quanti si dicono credenti, che altri che non si considerano tali. Per cui il teologo continua domandando:

«Abbiamo mai preso delle decisioni unicamente in base alla voce intima della nostra coscienza, quando nessuno poteva dirci una parola o darci una spiegazione, quando sapevamo bene che la loro responsabilità ricadeva unicamente su di noi e ci impegnava per il tempo della nostra vita e per l‟eternità? Abbiamo mai cercato di amare Dio, anche quando non giungeva l‟onda di entusiasmo, quando non era più possibile scambiare noi stessi e il nostro slancio vitale con Dio...?».

Non sembra azzardato affermare che a queste domande tutti potrebbero rispondere di sì. Anche chi non rispondesse positivamente a questa voce, che sale dal di dentro di se stesso e che tuttavia è ben oltre se stesso, certamente avrà pur avvertito quest‟appello. Proprio tutti? Anche quelli che escludono per principio non solo la presenza, ma la stessa esistenza di Qualcuno o di Qualcosa riconducibile all‟idea di Dio? Qui si apre una delle grandi questioni collegate al nostro argomento. È il problema dei cosiddetti credenti e non credenti. Oggi non è raro trovare persone che si riferiscono sempre più esplicitamente all‟esperienza della propria coscienza, o avvertono una sorta di impulso innato verso scelte di giustizia, di nonviolenza, di pace, persino di rinuncia a se stessi. Avvertono questo impellente bisogno come ultimo e inappellabile “giudizio” anche quando escludono esplicitamente la fede in Dio. Alcuni però giungono almeno ad ammettere di credere in qualcosa, di credere in alcuni valori, di credere all‟amore71. Altri attribuiscono un senso religioso alla loro vita a motivo di una consapevolezza che essa resta comunque un impenetrabile mistero72.

A quanti si trovano in una simile situazione spirituale si potrebbe ancora far notare che se il mondo non si divide semplicemente in “credenti” e “non credenti”, ma in “quanti cercano” e quanti “hanno smesso o non vogliono cercare”, tutto ciò resta comunque ancora in tema, al punto che la ricerca è non solo la molla che ci muove verso il Mistero, che noi chiamiamo Dio, ma è indice che quel Mistero, per quanto sia impenetrabile, non ci dà tregua.

71Così ad esempio, E. Scalfari, pur professandosi "non credent" asseriva di "credere all‟amore". A lui indirizzai una lettera

nella quale indicavo la contraddizione di questa affermazione. Ad essa il giornalista rispose privatamente dicendosi d‟accordo

con molte delle mie affermazioni, solo si rammaricava di non avere il tempo necessario per approfondire l‟argomento. Riporto

parte della mia lettera, datata 24/1/1996, per comodità del lettore: «Caro Direttore, Lei riassume la Sua risposta a Mons.

Maggiolini (La Repubblica 24/1/1996, p. 31) come la posizione del "mondo dei non credenti", argomentando che non c‟è

bisogno di Dio né per fondare la morale, né per colmare la solitudine esistenziale dei momenti più drammatici della vicenda

dell‟uomo sulla terra. Ritiene che la morale si fondi da se stessa (perciò è mutevole, secondo le diverse circostanze storiche e

culturali) e che l‟istinto di sé, mirato alla sopravvivenza della specie, sia la radice dell‟amore, quell‟amore in cui Lei confessa

decisamente di credere. Conclude chiedendo se ciò non rappresenti già qualcosa anche dal punto di vista della fede. Mi

permetto di intervenire nel dibattito, affermando, a mia volta, che credere all‟amore è già molto, anzi è tutto. Ma proprio per

questo anche Lei dovrebbe, coerentemente, essere più espressione dei credenti che del "mondo dei non credenti". Devo

aggiungere qualche chiarificazione. Personalmente, ho rinunciato da anni - ed insegno a fare altrettanto ai miei studenti di

teologia - a dividere il mondo tra credenti e non credenti. Soprattutto a identificare i primi in coloro che abbiano una sorta di

bagaglio accessoriale, colmo di idee e conoscenze extra, che gli altri non avrebbero, e a stigmatizzare questi ultimi come

miscredenti e negatori non solo di un Dio, ma anche della fede. Non è così, e anche per il mondo dei "credenti" le cose sono

decisamente più complesse. Forse seguendo il Suo filo di Arianna della fede nell‟amore come elemento decisivo, non Le sarà

tanto impervio ammettere con me che anche i "non credenti" tali non sono, perché credono pur sempre in qualcosa e

condividerà che, dall‟altro versante, non serve proprio a nulla avere una fede come complesso di nozioni non attingibili

razionalmente se poi non si crede - e cosa ancora più decisiva - non si pratica l‟amore». 72 «Ho continuato a riflettere sui grandi temi dell‟esistenza e nessuna delle risposte della religione mi ha mai convinto. Però,

nello stesso tempo, nemmeno io sono riuscito a dare delle risposte, E dunque, di nuovo, dico che ho un senso religioso della vita

proprio per questa consapevolezza di un mistero che è impenetrabile. Impenetrabile» (N. BOBBIO, «Religione e religiosità», in

Micromega - Almanacco di filosofia 2/2000, 10).

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Ma ritorniamo al testo di Rahner, che ci invita a guardare più a fondo nelle nostre esperienze, fino a cogliere quel qualcosa in più che egli chiama “esperienza dello spirito” e che per noi è l‟esperienza religiosa:

«Cerchiamo nella nostra vita delle esperienze in cui ci è capitato qualcosa di simile. Se riusciamo a trovarne alcune, possiamo affermare di aver fatto allora l‟esperienza di quello spirito di cui parlavamo. Tali sono l‟esperienza dell‟eternità, il sentire che lo spirito è più di un frammento di questo mondo soggetto al tempo e che il fine dell‟uomo non si esaurisce nella felicità terrena, l‟esperienza del rischio e della fiducia piena di slancio, che non trova la sua giustificazione plausibile nel successo su questa terra».

Ecco un esempio di come si può presentare all‟uomo l‟esperienza religiosa, a prescindere dalla religione ufficialmente professata. Investe l‟uomo nella sua globalità umana, senza soluzioni di continuità tra la sua dimensione materiale (legata allo spazio e al tempo) e quella spirituale (che va al di là dello spazio e del tempo). Si può affermare che l‟esperienza religiosa abbraccia sia la terra che il cielo ed entrambi nello stesso atto di resa davanti a ciò che trascende (nel senso che va oltre) l‟immediato e il contingente, sia che lo si chiami Dio, sia che non si abbia la forza, o forse il coraggio, di considerarlo tale e sempre lo si continui a chiamare solo «impenetrabile mistero».

In questo contesto sarà bene precisare che anche per il credente nel senso tradizionale del temine, il Mistero non viene abolito, nemmeno dalla rivelazione di Dio, che è ritenuta prerogativa di alcune religioni. Anche quando secondo alcune religioni Dio manifesta la via della salvezza per l‟uomo e mostra qualcosa della sua ineffabile realtà, occorre dire che Egli resta pur sempre da cercare. Mentre si rivela, si sottrae contemporaneamente alla conoscenza, perché rende nota la sua distanza sia dall‟uomo che dai modi umani di rappresentarlo. Quanto più si avvicina tanto più ci apparirà lontano. Il suo raggiungerci sarà anche il suo perdersi. Nelle religioni talora è avvertito nelle stesse indicazioni che si danno sul nome di Dio. Tra i novantanove nomi divini attribuitigli nel Corano, due sono particolarmente significativi ad indicare la vicinanza e la distanza di Allah. Se egli è chiamato al-Dhāhiru, cioè come l‟Evidente, è tuttavia chiamato anche al-Bhātinu, cioè il Nascosto73, tenendo ben presente che la doppia denominazione non è contraddittoria, dal momento che

«ciò che è più straordinario, è che Egli non Si manifesta in nessuna delle Sue forme epifaniche senza essere velato da queste stesse, e non è velato da alcuna senza precisamente manifestarSi in esse»74.

Anche nella riflessione teologica cristiana Dio resta mistero, perché è vicino e lontano nello stesso tempo, al punto che si raccomanda di

«[...] non confondere il Dio “ineffabile, incomprensibile, invisibile, inafferrabile” (Liturgia di san Giovanni Crisostomo, Anafora) con le nostre rappresentazioni umane. Le parole umane restano sempre al di qua del Mistero di Dio»75.

A proposito sarà forse di qualche utilità ricordare che secondo il modello teologico che abbiamo chiamato “della solarità” il Mistero dell‟Ulteriorità viene dalle religioni posto spesso in

73 Corano LVII,3. 74 Così afferma Sayyed Haydar Amolì nel Testo dei testi, come riportato in G. MANDEL, I Novantanove Nomi di Dio nel Corano,

S. Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, 192.

75 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 42-43. A questo riguardo si riprende quanto espresso dal Concilio Lateranense IV «non si può rilevare una qualche somiglianza tra Creatore e creatura senza che si debba notare tra di loro una dissomiglianza ancora maggiore» [Concilio Lateranense IV: Denz. -Schönm., 806]». Cf. ASSOCIAZIONE TEOLOGIA ITALIANA, Parlare di Dio. Possibilità, percorsi, fraintendimenti, (a cura di G. Mazzillo), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002.

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relazione al cielo, spazio ultraterreno riservato a Dio, agli dei e alle altre creature spirituali benefiche. Una simile idea è apparsa evidentemente mitologica alla luce della critica religiosa, anche perché il cielo è stato spesso interpretato come “piano di sopra”, una sorta di mansarda inaccessibile, perché l‟ultima rampa di scale è crollata e non ci resta nessun mezzo a disposizione per poterla raggiungere. Non di rado si è pensato e si pensa ancora al cielo come “al-di-là”, da cui ci separa un abisso incolmabile e che per le sue stesse inimmaginabili distanze, rende di fatto irrilevante la microscopica vicenda umana. Se non ha significato per tutti il Mistero, il cielo ha fatto sovente trasalire i poeti come Immensità vicina e lontana.

È ovvio che nell‟ordine della commensurabilità, seppure misurandolo in anni luce, il cielo ci appare incommensurabile e, come realtà cosmologica, appartiene all‟astrofisica, mentre quello a noi più vicino, costituito dall‟atmosfera che ci avvolge, è meglio lasciarlo “agli angeli e ai passeri” come diceva Freud, perché in questo cielo non abita alcun Dio. Tuttavia se esso è vuoto di ogni fantasma, resta una rappresentazione ancestrale che esprime non solo la distanza, ma anche l‟interiorità. È la proiezione verso l‟alto di ciò che avvertiamo come nostra abissale profondità, sede dalla quale salgono i nostri aneliti di totalità e felicità. È una sorta di spiaggia remota dalla quale il mistero (il mistero che noi siamo e il Mistero dal quale veniamo) ci chiama. È un richiamo che gli anni che passano rafforzano e talvolta avvertono come provenire da regioni irraggiungibili. Tal altra invece colgono giungere tanto vicino a noi fino a lambire la nostra quotidianità.

Di tale richiamo tuttavia si può dire tutto. Si può affermare, come alcuni hanno affermato, che altro non è che nevrosi o costitutiva tensione vitale, oppure proiezione dell‟inesprimibile o semplice contenitore vuoto ed inesauribile, come una specie di funzione che serve solo a produrre e sorreggere una mai satura capacità del vivere. Si potrà dire, come è stato detto, che esso non dimostra niente, perché se è come la sete, altro è l‟esistenza della sete altro l‟esistenza dell‟acqua. E tuttavia vorremmo sommessamente aggiungere che se la sete esiste, non è solo perché l‟organismo ha bisogno di acqua, ma che questo ne ha bisogno perché l‟acqua impregna le sue cellule. Parimenti, se la nostalgia dell‟Ulteriorità è innegabile nell‟animo umano, forse sarà bene ipotizzare che l‟animo umano ne ha sete perché ne è in qualche maniera impregnato.

Questa incatturabile realtà che ci trascende è anche ciò di cui avvertiamo costitutivamente la mancanza. Costituisce il mistero e il fascino di quell‟Ulteriorità che noi chiamiamo Dio. Alcuni lo indicano come l‟Assoluto, ma in ogni caso l‟uomo ne va continuamente alla ricerca quand‟anche la chiamasse solo «mistero impenetrabile». Il dinamismo potrebbe paragonarsi a quello per cui qualcuno continua a inseguire la sua terra perduta, ma della quale rimane innamorato, come ultimo lido e sua patria segreta. In riferimento a ciò che avvertiamo sull‟Ulteriorità, tuttavia, dovremo alla fine convenire sul fatto che quest‟ultimo lido ci è rimasto dentro e che pertanto non è solo nell‟al di là del tempo e dello spazio, ma in qualche maniera anche nell‟al di qua del vivere quotidiano76.

76 È un pensiero bene presente nella Bibbia e spesso ripreso da alcuni scrittori cristiani. Così, ad esempio: «Dio é

dappertutto; egli é immenso e dovunque presente, secondo quanto egli ha detto di se stesso: "Io sono un Dio vicino e non un

Dio lontano" (Cf. Ger 23, 23). Non cerchiamo dunque Dio come se stesse lontano da noi, perché lo possiamo avere dentro di noi.

Egli dimora in noi come l'anima nel corpo, purché siamo suoi membri sani, siamo morti al peccato e immuni dalla corruzione di

una volontà perversa. Allora abita veramente in noi, perché lo ha detto egli stesso: "abiterò in essi e camminerò fra loro" (Cf. Lv

26, 12), e se noi siamo degni che egli abiti in noi, allora siamo vivificati da lui nella verità, come sue membra vive. "In lui, - come

dice I'Apostolo - viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17, 28)» (Colombano, abate, Istr. 1. sulla fede, 3-5.).

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Certamente ciò non mette in discussione l‟attività libera e gratuita con cui Dio, secondo la visione cristiana, ha deciso di parlare agli uomini; non inficia la sua rivelazione storica. Del resto nessuno argomentare umano, per quanto elevato, potrebbe mai produrre “dal basso” l‟atto gratuito e sovrano con cui Dio ha voluto parlarci ed agire effettivamente in una storia concreta e soprattutto nella vicenda e nella persona di Gesù. Ciò che qui si vuol dire è che noi umani avvertiamo la capacità a superarci non tanto andando al di sopra e oltre, come se scavalcassimo noi stessi, ma anche scendendo in noi stessi per tra-scenderci.

Anche nell‟ordinario talvolta si recepisce la voce di ciò che è straordinario. È l‟esito e il metodo di una di-scendenza che diventa tra-scendenza di sé e che fa sfiorare le sponde del mistero. E che tutto ciò non sia solo una deduzione teorica, ma un‟esperienza reale, lo dimostra il fatto che in qualsiasi religione non pochi uomini (quelli che noi chiamiamo “saggi”) hanno vissuto facendo della quotidianità il luogo nel quale vivere la festa del cuore, perché l‟ordinario è diventato veicolo ed espressione dello straordinario77.

L’Ulteriorità allora è anche qui sulla terra, nel senso che ci avvolge e ci sorregge. Attraversa come in filigrana la nostra quotidianità. Ma allora ci chiediamo: possiamo avvertirla così, come forza amica e dinamismo che sorregge il nostro esistere ed il nostro morire e non più come enigma che ci atterrisce con i suoi trucchi e i suoi atti di magia miracolosa? Come possiamo scoprire quel “cielo” nel quale contemporaneamente abitiamo e che abita in noi?

Sono domande basilari che non tutti accolgono alla stessa maniera. Anzi, in un clima generale di diffusa incertezza, come è quello di oggi, queste stesse domande suscitano in alcuni paura e producono fughe verso forme religiose più comode, ripetitive e fideistiche, tanto che la fede sconfina nella “creduloneria”. In quanto tale, non è più nemmeno fede, ma ricerca del sensazionale e del miracolismo a buon mercato. Anziché affrontare la fatica della ricerca e dell‟impegno intellettuale personale, non pochi si accontentano di ripetere tesi ed idee già confezionate, ruminando bocconi già masticati e propagandando esperienze di altri. Per noi, invece, sono domande alle quali dobbiamo e vogliamo cercare di rispondere proprio con uno studio attento sul religioso e sulle religioni.

Partiamo dal presupposto che la riflessione critica sulle religioni è ricerca e che ogni ricerca è innanzitutto confessione della propria povertà. Per noi è, contemporaneamente, intuizione di una ricchezza che abita non nell‟uomo astratto, ma nell‟uomo considerato nella sua storia e nel suo mondo. Qui il Mistero cerca di aprirsi un varco al di là delle tante cadute, delle sconfitte e delle angosce umane. Lancia dei segnali positivi e liberanti, nonostante i segnali di morte e di divisione presenti nel mondo.

Intraprendere questo studio significa allora presagire che ciò che noi chiamiamo “Dio”, in modi diversi e sempre originali, bisbiglia dal di dentro delle cose, anche se è sempre oltre ogni cosa. Si può ritenere che tutto ciò sia illusione alienante, ma si può ugualmente essere convinti che ciò sia intuizione teologica, che rivela e illustra la grandezza della vita umana78.

77 «Nella mia vita quotidiana non ho altri lavori di quelli che mi capitano in mano. Nulla io scelgo, nulla respingo. Qual è il

mio magico potere e il mio esercizio spirituale? Trasportare acqua e raccogliere legna da ardere» (Riportato in: A. GENTILI - A.

SCHNÖLLER, Dio nel silenzio. La meditazione nella vita, Ancora, Milano 19862, 83). 78 A chi dice che ciò è solo poesia, rispondiamo che dovrebbero essere passati i tempi in cui si considerava la poesia

semplice e seducente invenzione, ma senza contenuti. Non sono infatti pochi quelli che, partendo dall'importanza del

linguaggio simbolico per decifrare la realtà, danno alla poesia il valore di una delle forme espressive più alte della vicenda

umana. Gli studi che vanno in questa direzione sono molti. Riguardano, ad esempio, l'ermeneutica come pure l'antropologia del

linguaggio. Tra i primi ricordiamo soprattutto: P. RICOEUR, La symbolique du mal, Paris, 1960; IDEM, La métaphore vive; tra i

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Si può partire da una ricerca sofferta, che dichiara, come in alcuni casi, l‟incapacità di parlare di Dio, pensando ad una sua improbabile rivelazione come a una bottiglia con un messaggio dell‟aldilà che arrivi da oltreoceano. Qualcuno arriva a dire che tale bottiglia non è mai pervenuta alla nostra sponda, anche se possiamo di sfuggita annotare che se il presentimento di ciò che chiamiamo Dio non ha riscontro nella bottiglia, è in quel trasalimento che sorprende colui che vede il mare infrangersi sugli scogli, lì dove finisce l‟ultima terra della nostra ricerca. Così è in E. Montale che, parlando con un “tu” misterioso, si chiede:

«Per un formicolìo d‟albe, per pochi / fili su cui s‟impigli / il fiocco della vita e s‟incollani / in ore e in anni, oggi i delfini a coppie /capriolano coi figli?».

Per poi quasi implorare:

«Oh ch‟io non oda / nulla di te, ch‟io fugga dal bagliore / dei tuoi cigli. Ben altro è sulla terra»79.

E confessare alla fine:

«Sparir non so né riaffacciarmi; tarda / la fucina vermiglia / della notte, la sera si fa lunga, / la preghiera è supplizio e non ancora / tra le rocce che sorgono t‟è giunta / la bottiglia dal mare. L‟onda, vuota, /si rompe sulla punta, a Finisterre»80.

Ma se la lettera non è ancora giunta, non è perché non sia stata mai scritta, ma piuttosto perché spesso la si attende come un messaggio inequivocabile e palese che si impone con la forza della sua trascendenza. Per chi esclude per principio la rivelazione storica di Dio che cosa resta se non un linguaggio cifrato da cogliere nel divilupparsi degli avvenimenti e nella vita palpitante delle persone? Cercando di cogliere il messaggio di Dio nella trascendenza di ciò che ci circonda, si può pervenire a quell‟attenzione religiosa che non separa, ma unifica i diversi aspetti del reale, perché sa congiungere il cielo e la terra. E con ciò si ripropone, sul versante non ancora esplicitamente cristiano, ciò che è il fulcro della fede cristiana, che deve tenere insieme la realtà umana e quella divina, non considerando mai la realtà trascendente come estrinsecamente sopra-naturale, ma come insita nella realtà umana, anche se infinitamente trascendente a questa. In ciò ritroviamo, da cristiani, il senso più profondo della fede nel Cristo, perfettamente Dio e compiutamente uomo: perché

«Chi guarda Gesù Cristo vede realmente Dio e il mondo con un solo sguardo, e d‟ora innanzi non può più vedere Dio senza il mondo, né il mondo senza Dio»81.

A noi sembra che ciò che scriveva Bonhoeffer può correttamente esprimere l‟approdo non solo di una riflessione teologica, ma soprattutto di un itinerario spirituale e biografico che sintetizza prassi e riflessione teorica. Il problema è se sia un traguardo riservato solo al cristiano professo o non costituisca piuttosto un punto di riferimento ultimo e ideale di ogni vero trasalire al cospetto di quella realtà che chiamiamo Dio: ciò che per altri è solo motivazione di una strada da percorrere con rettitudine cosciente solo della sua eticità, cioè per colui che si pone davanti al mistero della propria vita in lealtà e carità.

A chi vive questa situazione spirituale, che di per sé è già oltre il vestibolo della religione, allorquando la propria esistenza si affida ad un “tu”, in un‟apertura di fondo verso L‟Ulteriorità

secondi Cf. G. CALAME - GRIAULE, Il mondo della parola, Boringhieri, Torino 1982; P. ZUMTHOR, Introduction à la poésie orale, Paris

1983. 79 E. MONTALE, Su una lettera non scritta, in: IDEM, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1977, 236. 80 E. MONTALE, Tutte le poesie, o. c., 236. 81 D. BONHOEFFER, Etica, Milano 1969, 61.

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già diventata Alterità, dobbiamo testimoniare un cristianesimo che è più fede che religione. In nome di quale principio? Per il fatto che Dio ha benedetto e valorizza questo mondo, e non un altro, mentre chiama i “credenti” in lui a prendere sul serio gli sforzi di quegli uomini che Egli ama in nome del suo indiscusso amore, con tutta la sua “buona volontà” (Lc 2,14). In definitiva, quanti sono nell‟ottica e del dinamismo del “vivere-per-gli-altri” e si sono incamminati sul sentiero dell‟amore, vivono, anche quando non lo ammettono, l‟esperienza religiosa. Essi sono già in cammino, al pari di tutti gli altri che appartengono alle più differenti forme religiose. Si sono messi sulle tracce di Colui che nel frattempo si muove verso di loro e suscita il bisogno di cercare e di cercare ancora.

Il nostro corso muove da queste linee direttrici, per affermare che il primo passo da fare è di accettare gli altri ed entrare in dialogo con tutti gli uomini, partendo da questo comune terreno sul quale tutti camminiamo. Con quanti si riferiscono a una religione e tramite essa affidano la loro vita all‟Ulteriorità che noi chiamiamo Dio, vogliamo condividere la fatica di una ricerca su ciò che ci muove e sulla direzione verso cui camminiamo. Intendiamo anche non evitare le eventuali obiezioni, ma confrontarci costruttivamente con quanti hanno affrontato il tema della religione, hanno cercato di darne una definizione e l‟hanno interpretata in maniere diverse e spesso contrapposte.

Dedicheremo pertanto la prima parte di questo studio a questi argomenti preliminari, ma anche fondamentali: il fenomeno religioso, la sua origine, il suo esprimersi in molteplici forme. Questa prima parte, dal titolo Dalle tracce dell’Ulteriorità al «Dio ignoto» vuole riprendere il tema già introdotto, in fascino e complessità della religione (cap. 1°), per trattare la religione tra filosofia e teologia (cap. 2°), e affrontare l‟argomento della riflessione critica sulla religione, presentando la critica religiosa e le sue legittime pretese (cap. 3°).

Evidenziati così alcuni percorsi dell‟uomo nel suo approccio al Mistero, ammesso, discusso, purificato o contestato dalla critica religiosa fin qui considerata, la seconda parte avrà per argomento Alla ricerca di Dio anche oltre la religione, riportando la critica religiosa nel mondo greco-romano e la sua evoluzione fino all’illuminismo (cap. 4°); la religione al vaglio della psicologia (cap. 5°); religione tra fenomenologia e strutturalismo (cap. 6°) e la religione prodotto o strumento di aggregazione sociale? (cap. 7).

Non ci sottrarremo pertanto al confronto anche con quanti si sono posti non solo criticamente, ma in maniera pregiudizialmente negativa, verso la religione stessa, interpretata come “fenomeno secondario” o puramente indotto nell‟uomo (dalla cultura o dai suoi stessi meccanismi emotivi), o, al contrario, fondamento e strumento dell'aggregazione sociale. Accettando la critica religiosa più serena e meno prevenuta, come cammino purificatore, e quindi come esodo, potremo offrire un‟introduzione ai tentativi recenti di un‟analisi delle molteplici forme religiose, nella ricerca dei suoi dati e delle sue strutture fondamentali. Il nostro confronto con le varie scienze entrate nel merito della religione presenterà, sinteticamente, il pensiero dei loro maggiori rappresentanti e proporrà alcuni rilievi critici, che mettano in luce gli aspetti positivi e negativi emergenti da una riflessione, per quanto possibile, non apologeticamente preconcetta.

La terza parte infine sarà dedicata all‟argomento I diversi nomi di Dio e le differenti tipologie religiose. Ci occuperemo del rapporto tra la chiesa cattolica e le religioni secondo la sua evoluzione teologica e nelle differenti epoche storiche, per soffermarci particolarmente sulla situazione odierna. Forniremo infine una breve introduzione ad alcune religioni mondiali, che ci sono apparse particolarmente interessanti in un tentativo si sistemazione di esse secondo

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alcune tipologie. Cardine del discorso sarà l‟Ulteriorità qui considerata il riferimento centrale in rapporto al binomio uomo-altro, senza del quale non esisterebbe alcuna religione. Pertanto la esamineremo più che come riferimento come Referente della religione, mostrando come tale Referente s stato chiamato di volta in volta assoluto, senso di ogni cosa, trascendenza. Dopo una presentazione, a grandi linee, di ciò che afferma il Vaticano II sulla “religiosità” umana e sulle religioni non cristiane, abbozzeremo quello che a noi sembra il modo più corretto di rapportare la nostra fede cristiana alle altre religioni. Ciò ci darà occasione di parlare di quella bipolarità primordiale della religione, già sintetizzata in quell‟unico abbraccio che comprende Dio e il mondo, per schematizzarla nei suoi diversi aspetti, ma soprattutto tenendo conto della nostra capacità di accoglierla nella nostra epoca. Gli esempi estrapolati dalle religioni saranno suddivisi in grandi tipologie complessive, elaborate secondo la bipolarità Dio-cosmo (tipologia cosmologica), Dio-uomo (tipologia antropologica), Dio-storia (tipologia storica).

Punto di approdo di tutto l‟itinerario vuole essere il persistente rimando alla riscoperta del valore religioso della vita in tutte le sue manifestazioni. Se ogni religione ha potuto cogliere un aspetto di tale complessità e non già il divino in sé, ha saputo additare una trascendenza oltre le manifestazioni più immediate della vita umana. Nel continuo e, a quanto sembra, inevitabile conflitto che quest‟esperienza religiosa elementare ha dovuto e deve affrontare con l‟organizzazione religiosa istituzionale (clericalismo, sistema socio-sacrale, caduta nell‟intimismo alienante), si potranno, non di meno, raccogliere i segnali indicatori di una religiosità che non esclude, ma anzi anticipa un‟esplicita fede, come risposta e come impegno per la vita e per gli altri. Si tratta di segnali indicatori che non contraddicono, ma ricevono pienezza di senso nella fede in una rivelazione esplicita. Ma ciò sarà argomento del secondo volume: Dio sulle tracce dell’uomo.

Prima parte Dalle tracce dell’Ulteriorità al «Dio ignoto»

Capitolo 1°

Fascino e complessità della religione

1.1. Necessità e problematicità del concetto di religione

Nell‟introduzione abbiamo già potuto notare la complessità della religione. Definirla è un‟operazione difficile per molte ragioni. La prima difficoltà nasce da esigenze di carattere metodologico. Dichiarare cosa sia la religione all‟inizio di una ricerca su di essa sembrerebbe pregiudicare lo sviluppo dell‟indagine. Cosa effettivamente questa sia dovrà apparire dai risultati, che non possono essere ipotecati in maniera preliminare. Ma non è solo per questo che risulta poco agevole una definizione previa della religione. È soprattutto perché siamo in presenza di un fenomeno complesso e multiforme, che tocca molteplici attività dell‟uomo. Ciò che rende impervio determinarne il concetto è la sua particolarissima natura, che sembra unica nel suo genere: l‟espressione di quel primordiale rapporto che l‟essere umano avverte e instaura tra sé e ciò che afferra (o meglio da cui si sente afferrato) e che viene indicato come Trascendenza e Assoluto della sua vita, ma è al di là della sua vita stessa.

Nonostante le difficoltà accennate, è, paradossalmente, necessario, ancora per esigenze di metodo, avere un concetto, sebbene generico ed approssimativo della religione, almeno come ipotesi di lavoro. Ciò vale per qualsiasi indagine si intenda condurre, innanzi tutto per

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delimitare la ricerca, sì da dare a questa una cornice oltre la quale non dovrebbe sconfinare. Inoltre ciò è richiesto dal fatto che senza questo concetto previo, non potrebbe esistere nemmeno un interesse per l‟oggetto da studiare, sicché una ricerca completamente indefinita non potrebbe aver luogo.

Un‟idea preliminare è dunque necessaria, anche se dovrà conservare un carattere quanto più possibile aperto e suscettibile di ulteriori modificazioni. D‟altro canto, come si sarà notato, fin dalle prime righe dell‟introduzione abbiamo dovuto utilizzare un concetto, seppure grezzo, della religione nei termini di un rapporto con ciò che trascende l’uomo e costituisce la sua Ulteriorità. Il rigore scientifico richiederebbe in realtà che si parlasse in termini alquanto diversi di tale rapporto dell‟uomo con ciò che lo trascende. Ci dovremmo in realtà limitare ad asserire che la religione è il rapporto dell’uomo con ciò che egli avverte come ciò che lo trascende, perché l‟espressione adoperata potrebbe sollevare l‟obiezione che si dà già per esistente la trascendenza che l‟uomo avverte, quando invece si dovrebbe lasciare sospeso un tale giudizio. Si può rispondere che la nostra espressione, proprio perché è ancora grezza, va presa in senso descrittivo e secondo l‟uso linguistico più corrente. Non è pertanto un‟affermazione che impegna sul piano meta-fisico, cioè quello che afferma o nega l‟esistenza di ciò che è oltre il dato fisico e quindi tocca la realtà che permane oltre le sue mutevoli, e talora illusorie, manifestazioni storiche. Al contrario, dicendo «rapporto dell‟uomo con ciò che lo trascende» o «rapporto dell‟uomo con la sua Ulteriorità», vogliamo intendere che è il rapporto secondo l‟avvertenza che ne ha l‟uomo nella sua globalità: un avvertenza di ciò che entra in questo suo rapporto e che non proviene da se stesso. È vero che asserire tale globalità è affermare qualcosa di più, ma ciò non costituisce un gran male, nel senso che anche ciò è da prendere come ipotesi di lavoro. È un dato che non si deve dare per scontato in maniera preliminare, ma non si deve nemmeno escludere in maniera pregiudiziale. A questo riguardo può essere esemplare la considerazione di un autore critico verso la religione, come verso la società, T. A. Adorno, che pur dalle sponde del marxismo non dogmatico della Scuola di Francoforte, alla quale apparteneva, affermava:

«Il corso della storia impone al materialismo ciò che tradizionalmente era il suo immediato contrario, la metafisica»82.

Non vogliamo per ora attribuire alla frase un senso eccessivo, ma solo la non esclusione di principio della realtà effettiva di ciò che l‟uomo avverte come Ulteriorità (ciò che è oltre) e non solo come Alterità (ciò che non è se stesso).

Anche M. Meslin, che pure dichiara di voler evitare una «definizione generale della religione» come una sorta di «premessa metafisica», non può non abbozzare il suo concetto e tratteggiare fin dalla prima pagina del suo pregevole studio Per una scienza delle religioni una distinzione fondamentale, di indubbio valore, alla quale anche noi ci ancoriamo. Della religione egli individua, preliminarmente, due accezioni distinte e diverse, «due momenti di ogni atto religioso: la percezione del sacro da parte dell‟uomo ... e l’espressione che egli dà di questa realtà, rendendola immanente»83. Sono due livelli presenti all‟interno della religione e possono essere rinvenuti anche in quella definizione preliminare, a prima vista molto riduttiva di Durkheim:

82 T. A. ADORNO, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1966; ed. it., Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, 330, cit.

in R. CIPRIANI, «Il fenomeno religioso secondo la scuola di Francoforte», in AA. VV., La teoria critica della religione, Borla, Roma

1986, 11. 83 M. MESLIN, Per una scienza delle religioni, Cittadella, Assisi 1975, 7.

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«una religione è un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre»84. Anch‟essa resta ineccepibile fino a quando non voglia asserire, per principio, che ciò a cui le «credenze» si riferiscono sia qualcosa di superstizioso. In tal modo la credenza equivarrebbe alla creduloneria e sarebbe già un giudizio di merito. Non riteniamo che sia così, perché sotto la dicitura delle credenze sembra si debba semplicemente leggere la natura specifica di ciò che viene creduto e che il culto rituale, a sua volta, tende ad esprimere in forme socialmente condivise. Anche in questo caso siamo di fronte all‟espressione, che però assume natura sociale, di ciò è socialmente avvertito (e pertanto creduto e vissuto) come rapporto che va oltre il dato sociale.

Ma che tipo di rapporto interessa la religione? Intanto si tratta di un rapporto che gli autori più attenti riconoscono che l‟uomo realizza quando è impegnato con le domande più radicali circa la «totalità della vita». È l‟avvertenza di quel “qualcos‟altro” che convive con la ragione e con la scienza, senza contraddirle e che tuttavia va oltre di esse. Nella religione agisce così una realtà vissuta, oltre che percepita, che la scienza stessa non può cancellare con un semplice diniego.

Oltre alla stessa scienza, è presente, per usare le parole di M. Horkheimer, altro rappresentante della Scuola di Francoforte, «anche qualcos‟altro che non ci è semplicemente lecito negare»85. Si tratta di una realtà “altra”, diversa dal semplice mondo delle cose abituali e razionalmente raggiungibili, perché è il moto di nostalgia come «nostalgia del totalmente Altro»86. È l‟Altro del quale si avverte un sorta di sfuggente “presenza”, che va al di là di ciò che “il mondo” può offrire, perché proprio il mondo, pur sempre da interpretare e da trasformare, «non è l‟unico, non è la meta, in cui possano trovare riposo i nostri pensieri»87.

1.2. L’accoglienza dell’Altro come Trascendenza

Di fronte a quest‟Ulteriorità, che chiama dalle sue inarrivabili sponde, la linea di demarcazione è dunque tra il nostro experire88 e il suo apparire. È tra il nostro cercare e il suo affacciarsi, due linee che dovrebbero incontrarsi, e che di fatto si incontrano ma non nel senso abituale che tale termine ha per noi uomini. Tra i due soggetti in questione non c‟è infatti una corrispondenza ad incastro, nel senso che il tentativo umano di accostare tale Ulteriorità non solo non la produce (come è ovvio), ma nemmeno la cattura; non la riproduce, né la trattiene. Non può farle da schermo e nemmeno da spazio, nel quale quella luce possa diffondersi e disperdersi. Dinanzi ad una simile Ulteriorità il nostro stesso pensare è costitutivamente limitato. Potrà, al più, presagire di essere nelle sue vicinanze, potrà solo avvertire nostalgia o il richiamo del suo «grande silenzio». La ricerca intellettuale non potrà fare di più che arrestarsi con stupore a questa stessa soglia.

La religione nasce in questa sospensione del pensiero, non come rinuncia a pensare, ma come accettazione dei suoi limiti. Nasce come tentativo non più razionale, ma non per questo irrazionale, di intercettare quel silenzio, e, a proprio rischio e pericolo, di cercare di decifrare un messaggio

84 Citato in: Grande dizionario delle religioni, cit., 1739, voce «Religione». A prima vista, sembra si insinui che si tratta di

«credenze» che sono distinte dalle «cose sacre», mentre si suppone che ci sia al fondo dell'uomo una tendenza a vivere in «un

sistema solidale» tanto le credenze che le pratiche (diremmo: gli atti di culto) ad esse collegate. 85 Cit., in R. CIPRIANI, «Il fenomeno religioso...», cit., 17. 86 L‟espressione era stata utilizzata da T. Adorno ed è successivamente ripresa da Horkheimer. Cf. M. HORKHEIMER,

Nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Brescia 1972. 87 M. HORKHEIMER, «Himmel, Ewigkeit und Schönheit» (Cielo, eternità e bellezza), in Der Spiegel 33 (1969) 108-109. Cf. anche

L. BALZAN, Max Horkheimer. Il trascendere della "verità"?, Angeli Milano 1985. 88 Il verbo proviene da perior e significa tentare, sforzarsi, e viene fatto risalire al greco péira, che significa ricerca, prova.

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che va oltre le umane parole. È questo il pericolo insito nell‟esperire (termine dal quale il pericolo prende il suo significato) una presenza dell‟Ulteriorità, la quale va al di là dell‟umano eppure deve essere colta in forme che non possono che essere umane. Come si potrà dunque accostare, come si potrà esprimere l‟Ulteriorità? La risposta non è univoca. Infatti da questa strutturale inadeguatezza dell‟uomo finito di fronte a ciò che lo supera deriva la grande varietà e, per alcuni aspetti, la contraddittorietà delle religioni.

Le religioni sono molte e sempre nuove perché le modalità di esprimere l‟Illimitato sono anch‟esse illimitate. Non possono nemmeno essere paragonate ai frammenti di uno specchio rotto, che pur sempre riproducono lo stesso cielo. Non è così, perché tra una scheggia di specchio, per quanto piccola possa essere, e la luce che cielo riverbera c‟è ancora una corrispondenza (materiale); tra l‟umano esperire, invece, e ciò che è al di là dell‟umano non c‟è alcun tipo di corrispondenza, se non quella forse paragonabile alla nostalgia indistinta e reale della madre mai vista, che permane nell‟adulto, che l‟ha persa nei primi momenti della sua esistenza.

È dunque l‟Ulteriorità una sorta di nativo e strutturale abbandono, che ci lascia con il nostro incolmabile rimpianto di una casa smarrita, una dimora che non possiamo assolutamente raggiungere? Cosa resta allora? Siamo inesorabilmente condannati a cercare ciò che non possiamo incontrare? Siamo forse come un cieco nato che non potrà mai vedere la luce perché i suoi occhi non sono adeguati ad essa? Siamo condannati ad un‟ultima delusione, la peggiore di tutte, proprio quando ne va del senso del nostro vivere e del nostro morire, del valore dell‟amore e di ciò che di esso rimane al di là delle porte del tempo?

Eppure, sollevando queste domande, il cuore si riempie più di stupore che di sofferenza. Le immagini precedenti si dimostrano inadatte nel momento stesso in cui sapendo di essere nei pressi di ciò che chiamiamo “Ulteriorità”, noi l‟avvertiamo non come esilio, né come lontananza, ma solo come presenza inesprimibile e non adeguatamente afferrabile con gli abituali strumenti con i quali interagiamo: le idee, il ragionamento, le percezioni, le immagini. Ma ciò non succede solo in questo caso. Si potrebbe dire che accade in tutte quelle esperienze che impegnano veramente la nostra esistenza. Sono quelle relative ai rapporti con le persone, quelle che riguardano l‟amore, tutte le altre che vanno al di là del semplice approccio concettuale. Sono già queste le esperienze del limite. E con ciò s‟intende che si tratta del limite non tanto dell‟umano, ma degli strumenti umani. In presenza di esperienze siffatte dobbiamo ricorrere ad altri strumenti, perché persino l‟utensile più prezioso che abbiamo, la nostra ragione (che dà valore a tutti gli altri), di fronte alla complessità umana si dimostra inadeguato. Ma così dicendo, il problema si sposta sugli altri eventuali strumenti. Ne abbiamo qualcuno a disposizione? E, cosa ancora più importante, sono veramente affidabili?

1.3. “La filosofia della religione”

1.3.1. Compiti e limiti della ragione rispetto alla religione

Alla domanda sugli strumenti atti a cogliere ciò che trascende l‟uomo e i suoi strumenti razionali si è soliti rispondere che in presenza della religione nasce la fede. In effetti l‟esperienza personale diretta e la storia delle religioni ci insegnano che sotto questo nome possono nascondersi molte cose. La parola fede può camuffare molti atteggiamenti, alcuni dei quali inadeguati, esagerati, persino pericolosi. La fede può costituire la radice inappellabile del cosiddetto fondamentalismo, l‟atteggiamento fanatico di chi vuole imporre, anche con la violenza, ciò che ritiene sia indubitabile volontà di Dio. La fede può essere ancora il coperchio di una

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sorta di invincibile creduloneria. È l‟atteggiamento di chi non ha solo visto i limiti della ragione, ma ha rinunciato a pensare, perché ritiene peccaminoso farlo. Di chi fugge il dubbio come l‟incarnazione del male, perché scambia il credere con la rinuncia alla ricerca. Costui pensa di credere, forse ha l‟ossessione del dubbio e lo rimuove continuamente. Ritiene che il dubbio stesso sia la minaccia costante della propria fede. Egli non tiene conto di un principio elementare e cioè che la fede, quando è veramente tale, non potrà mai essere confutata, perché non nasce da semplici argomentazioni, ma da qualcos‟altro. La fede vera non ha paura del dubbio, perché il dubbio non la potrà scalfire. La fede può solo estinguersi, ma non essere contraddetta. È oltre le sponde della dimostrazione e della confutazione. Per questa stessa ragione non teme né il dubbio, né la ricerca. Al contrario provoca sempre ulteriore ricerca, per vivere più intensamente l‟amore di cui si alimenta89.

Per tutti questi motivi è possibile, anzi doveroso, riflettere criticamente sulla religione, non nel senso che si pretende di sottoporre a critica il suo oggetto, che per definizione dovrebbe essere il rapporto particolare che l‟esistenza umana avverte come suo limite e come frontiera d‟incontro con la trascendenza, ma piuttosto nel senso che la stessa ragione deve vigilare a che questo rapporto rimanga nella sua inafferrabilità e non sia né contraffatto, né strumentalizzato. In questi termini e con questi limiti, si può condividere l‟idea che ci sia una “filosofia della religione”, non solo perché una riflessione sulla religione da parte dei filosofi c‟è già stata, ma anche perché, con questi presupposti, la si ritiene legittima. “Filosofia della religione” significa pertanto non una riflessione che disponga della religione, ma piuttosto una capacità recettiva critica ed autocritica sul nostro porci di fronte alla religione medesima. Autocritica, perché dovrà sempre guardarsi dal travalicare i propri limiti, rinunciando per principio a sindacare sul soggetto-oggetto della religione (il rapporto con l’Ulteriore), critica, perché dovrà vigilare che quello stesso rapporto non sia né usurpato né deturpato.

1.3.2. Filosofia o scienza della religione?

Tutto ciò comporta un‟idea della filosofia della religione abbastanza complessa. Sembra una scienza che si avvicina, per metodo e per difficoltà d‟impianto, alla stessa scienza sulla scienza (epistemologia), vale a dire a quella parte della scienza che riflette sui principi e sui metodi più appropriati perché una scienza possa dirsi tale. Nonostante il suo apparente circolo vizioso (come fa una scienza, che è già tale, a ricercare la natura della scienza?), anche questa disciplina si viene caratterizzando come riflessione che controlla, limitatamente ai propri ambiti, a che la religione rimanga tale. A nostro modo di vedere, potrebbe più adeguatamente chiamarsi “scienza della religione”, anche se ciò comporta una comparazione con denominazioni simili che sono state già proposte e con le quali dovremo confrontarci.

In ogni caso, così come avviene per l‟epistemologia, anche per una scienza della religione come quella ipotizzata, il circolo vizioso non è propriamente tale. Per quale ragione? Nel caso della scienza, questa non si autodefinisce a priori, ma, sulla base di un‟ipotesi di lavoro, riflette autocriticamente sulle condizioni che la rendono tale. Anche una scienza della religione, che è ancora diversa da una scienza delle religioni, ricerca le condizioni per cui si possa dire di essere in presenza della religione e indica i fenomeni attraverso i quali una cosiddetta religione possa degenerare e di fatto talora degeneri. Qualcuno potrebbe affermare che allora ciò andrebbe a

89 Su questo argomento cf. R. GUARDINI, Fede - Religione - Esperienza, Morcelliana, Brescia 1984 (scritti originali in Gesammelte

Studien [ 1923-1963], Grünewald, Mainz 1963, 279-410), soprattutto pp.11-24.

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confondersi con quella filosofia della religione come coscienza critica della teologia, di cui altri hanno parlato, mediandola storicamente dal metodo iniziato da Kant ed ereditato da Rousseau90.

Ma è davvero senza problemi la posizione di Kant, quella di esaminare, come egli dichiarava la religione nei limiti della semplice ragione? Può il filosofo e in nome di cosa «decidere sulla ragionevolezza e “amabilità” del cristianesimo»? Qualunque sia stato l‟esito di quest‟indagine kantiana91, la sua posizione è da alcuni apprezzata, anche in considerazione del fatto che il filosofo non parla della “ragione” teorica (della quale appare maestro), ma della “ragione” semplice, comune, patrimonio di tutti gli uomini. Ad altri appare proprio in questo caso ciò che viene chiamata l’aporia della filosofia della religione. I. Mancini, pur ammettendo la legittimità di una “filosofia della religione”, annotava tra gli esempi, che dimostrano la sua inadeguatezza a coprire l‟oggetto di cui si occupa, il fatto che:

«il metafisico nel più alto portento della ragione, che è il poter parlare di Dio, non é capace di mediare e di assorbire lo scandaloso e stupefacente comportamento del Dio biblico, che, come ha chiarito Bonhoeffer nelle Lettere dal carcere, ha voluto per sé l‟impotenza, il regnare dalla croce, l‟esinanirsi nella forma umana. Se il massimo di filosofia è dato dal parlare di Dio, il minimo della religione è parlare con Dio»92.

La conclusione è la possibilità di una filosofia della religione, che «rincorre la religione senza mai totalmente afferrarla e risolverla in sé». È una rincorsa utopica93, nel senso che il concetto non può mai adeguatamente corrispondere all‟aconcettuale tipico della religione, come ad esempio, la parola, l‟evento, la comunità, l‟appello religioso, per non parlare della fede.

Si può concludere che in genere è riconosciuta la legittimità di quella riflessione chiamata “filosofia della religione”, perché si ritiene indispensabile enucleare un concetto per delimitare, confrontare, e valutare criticamente ciò che è conosciuto come religione94. Del resto, ciò interessa anche la teologia fondamentale, che nella fondazione del suo oggetto talora ancora ricorre esplicitamente al concetto di religione su tre ordini di impegno teoretico: dimostrare la validità della religione naturale, della religione cristiana e della religione cattolica95. Oggi questa stessa tematica viene ripresa in altre formulazioni. Da quella del Trattato sulla religione, già citato in nota, fino alle argomentazioni più sottili, che fanno leva sul concetto di affidabilità del Dio di Gesù Cristo96 (in definitiva del cristianesimo), si avverte pur sempre la necessità di un‟autopresentazione credibile della fede cristiana. Giunti a questo punto, il problema però si sposta e riguarda soprattutto la natura del cristianesimo. Se esso sia una religione oppure no. Dopo la risposta decisamente negativa della teologia dialettica, con K. Barth in prima fila, la domanda «Il cristianesimo è una religione?» è ancora posta e non sembra che abbia finora ricevuto una risposta ultimativa. Merita comunque di essere approfondita a parte.

Restando nel campo più specifico della “filosofia della religione”, anche ad essa si richiede che, oltre a determinare un oggetto specifico di religione, dichiari anche i suoi compiti e i suoi

90 Cf. I. MANCINI, «Filosofia della religione», in Concilium 16 (1980/6) 127-135 [1061-1069] . 91 Cf. di I, Kant soprattutto La disputa delle facoltà. 92 I. MANCINI, «Filosofia della religione»..., cit., 131-132. 93 In tal caso l'«utopia della conoscenza» è secondo la Dialettica negativa di Adorno di «aprire con concetti l'aconcettuale,

senza renderglielo simile» (T. ADORNO , Dialettica negativa, cit., 9). 94 Cf. R. SCHAEFFLER, «Verso un concetto filosofico di religione» in: W. KERN, H. POTTMEYER, M. SECKLER (edd), Corso di

teologia fondamentale 1, trattato sulla religione, Queriniana, Brescia, 1990, 61-79. 95 Questa triplice difesa apologetica, tipica del mondo tedesco, si fa risalire all'opera di Beda Mayr: Vertheidigung der

natürlichen, christichen und katholischen Religion (1787-1789). 96 Cf. P. SEQUERI, Il Dio affidabile, Queriniana, Brescia 1996.

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limiti. Ma in ciò viene a convergere con quella “scienza della religione” della quale parlavamo precedentemente. Con un‟aggiunta importante: il carattere salvifico della religione stessa, cioè l‟esplicitazione di una salvezza, concretamente intesa come salvezza per me e per gli altri. Per questo motivo la filosofia della religione deve evidenziare anche cosa significhi salvezza e deve collegarla e confrontarla con «altre grandi ipotesi di liberazione della terra», tra le quali Mancini menzionava la cibernetica, la semeiotica, la psicanalisi, e il marxismo97.

La scienza della religione emerge pertanto come un sapere particolarissimo, che appare collocato a metà strada tra la filosofia della scienza e la teologia negativa, quella cioè che si limita ad indicare cosa non possiamo e non dobbiamo pretendere di dire di Dio, del quale, per natura, non siamo in grado di parlare adeguatamente È possibile che una scienza resti in questi limiti? E soprattutto cos‟altro può e deve trattare? A questa domanda sembra abbiano dato una risposta abbastanza convincente, anche se non ultimativa, quei ricercatori della religione che, come van der Leeuw e Mircea Eliade, hanno sempre tenuta aperta la dialettica tra i tradizionali due poli mai interamente conciliabili: la descrizione e l‟Indescrivibile, senza per questo rinunciare ad accostarsi a entrambi. Come vedremo, attraverso la categoria del sacro, e le altre a questo correlato, hanno potuto superare, almeno in linea di principio, la separazione tra sacro e profano e con ciò hanno accostato la religione come reale e profondo modo di essere.

1.4. Ulteriori approcci al tema della “religione”

Facendo un primo rapido bilancio di tutto ciò che è emerso da una serie di approcci alla religione, si può affermare che almeno in epoca più recente le scienze che se ne sono occupate hanno compiuto più lo sforzo di comprenderla, che di definirla. Anche a giudicarlo dai suoi frutti, questo metodo sembra di gran lunga più proficuo di quello che vuol definire la religione a priori. In questo contesto il metodo deduttivo, spesso collegato all‟etimologia del termine non sembra conduca molto lontano. Già nell‟antichità le definizioni degli autori che partivano dall‟etimologia per spiegare la religione risultarono interamente divergenti, sulla base di una pregiudiziale teologica, e in qualche caso ideologica, funzionale cioè all‟area culturale alla quale appartenevano.

Così, ad esempio, per Cicerone la religio significa attenzione, cura da mettere nell‟adempimento delle prescrizioni del culto. Caratterizza tale diligenza cultuale un servizio disinteressato verso gli dei. L‟uomo che lo pratica si differenzia da colui che invece finalizza la religione a un utile, come per esempio per ottenere una discendenza (superstites), facendo degenerare la religio in superstitio98. Ben diversa è invece la posizione dello scrittore cristiano Lattanzio, che collega la superstitio alla credenza degli idoli al posto di Dio, ritiene pertanto la vera religio un ricollegarsi al Dio unico, causa ultima del mondo. Sono due esempi di differenti etimologie, pur sempre ancora latine, che sono state ricondotte sostanzialmente a tre ceppi diversi: 1) re (prefisso indicante ripetizione) - légere (scegliere, cercare attentamente), con il significato derivato di aver riguardo; 2) re-ligàre o religari (legare o essere legati); 3) re-elìgere (scegliere sempre nuovamente).

Ad un esame più attento, la definizione secondo il metodo etimologico manifesta non solo la lacuna dell‟arbitrarietà della scelta della radice, ma un ulteriore limite. Quello che si potrebbe chiamare eurocentrico se non addirittura latinocentrico. Ammesso pure, fanno notare alcuni, che dal latino si possa arrivare a una definizione etimologica precisa di religione, questa verrebbe

97 I. MANCINI, «Filosofia della religione»..., cit., 135. 98 Cf. R. SCHAEFFLER, Verso un concetto...., cit., 63-64.

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illegittimamente applicata a un fenomeno universale. Se il metodo etimologico non è sufficiente per un concetto universale della religione, resta tuttavia interessante, perché attraverso l‟identificazione di etimi diversi può indicarci gli orientamenti spirituali di fondo che il mondo latino (pagano e cristiano) ha potuto cogliere dell‟animo religioso. Essi sembrerebbero essere a) la particolare cura verso una realtà trascendente (relegere), b) il sentirsi collegati a questa (religari) attraverso c) un conseguente atteggiamento esistenziale che comporta una scelta continua (re-eligere), un adeguamento dunque della vita alla stessa credenza di natura religiosa99.

Circa gli altri metodi adoperati per lo studio della religione, occorre segnalare che ne sono stati inventariati non pochi. Sicché si è parlato del metodo dell’astrazione, adottato da alcuni storici delle religioni nel cercare di cogliere degli elementi di natura astratta partendo dallo studio delle religioni stesse. Con il metodo dell’addizione altri hanno cercato di enumerare tutti gli elementi positivi raccolte dalle religioni, per arrivare a ciò che è ritenuto l‟essenza stessa della religione. È questo sostanzialmente il metodo degli storici, che studiano l‟evoluzione, le derivazioni e le influenze reciproche tra differenti religioni. All‟opposto c‟è quello chiamato metodo della sottrazione, un metodo che vede le religioni storiche come decadimento o come variazioni superstiziose di una religione “vera”, quella della “ragione”. È in effetti il metodo adottato dai razionalisti. Il metodo dell’identità è indicato, inoltre, in quell‟ortodossia tradizionalista che afferma che la religione è una e non può essere che la medesima. Non si danno variazioni, perché anche l‟espressione religiosa è una sola.

Di contro, il metodo cosiddetto dell‟isolamento è quello che cerca di pervenire, isolandolo, al senso del sacro o dell‟esperienza religiosa, facendone il motivo fondamentale della religione. Si ricongiunge al metodo fenomenologico, che perviene più facilmente a un concetto di religiosità, più che di religione. Ha un suo notevole valore, ma ha lo svantaggio di trascurare elementi non facilmente riconducibili a ciò che e stato identificato con l‟essenza della religione stessa. Il metodo evolutivo, detto anche genetico, è invece quello che ha voluto vedere la religione come un prodotto di alcuni stati di bisogno presenti nell‟uomo o nel mondo sociale al quale l‟essere umano appartiene. Oltre a questo metodo, che è quello di Feurbach, Marx, Freud, si parla anche di un metodo dell’interpretazione, cioè quello che ritiene la religione come un prodotto del pensiero, un mero procedimento che prelude alla filosofia. È il metodo dell‟idealismo. Infine sono menzionati anche il metodo funzionale, che vede la funzione della religione nella diversità delle epoche storiche e il metodo comparativo (della comparazione), che confronta le religioni tra loro.

Pur propendendo per il metodo fenomenologico, vedremo i limiti di ciascuno degli approcci qui anticipati, cercando di cogliere anche in essi la parte di verità che contengono. In ogni caso, a noi sembra che in ogni approccio non si possa mai negare, almeno come dato minimale, la compresenza di quei due elementi di base che sono: il rapporto dell‟uomo con l‟oggetto-soggetto della religione stessa (si chiami Ulteriorità, Trascendenza, Assoluto, Spirito supremo o altro) e la sua molteplice e differente espressione storica e culturale profusa nelle diverse tipologie religiose100.

99 A questo riguardo cf. N. SCHIFFERS, «Religion», in Herders Theologisches Taschenlexikon 6, 203-212.

100 Per un maggiore sviluppo di questi aspetti, rimando G. MAZZILLO, «Sulla definibilità delle religione», in Rassegna di Teologia 38 (1997) 347-362 e alla proposta per una lettura dell‟esperienza religiosa come incontro con Dio: ID., «L‟esperienza religiosa e le religioni nel loro cammino verso Cristo», cit.; ID., «Alcune prospettive», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Cristianesimo, religione, e religioni. Unità e pluralismo dell‟esperienza di Dio alle soglie del terzo millennio, (a cura di M. Aliotta), San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, 259-265. Cf. inoltre ID., «Nuove prospettive nel dialogo tra cristianesimo e religioni?», in Rivista di Scienze Religiose 13 (2000) 191-225.

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1.5. Perché “scienza delle religioni” ?

I due livelli qui individuati coesistono nelle varie definizioni alle quali pervengono, da prospettive diverse, tanto gli storici, che gli antropologi, i sociologi101 e gli studiosi di discipline attigue alla religione stessa. In questi casi si parla, ad esempio, di “psicologia della religione”, “sociologia della religione” e simili. Sono anch‟esse “Scienze della religione”, nella misura in cui approfondiscono le diverse sfaccettature dell‟impatto della religione sull‟uomo. Di fatto si trova ancora l‟espressione “Scienze delle religioni”102, che si affianca all‟altra, da noi preferita di “Scienza delle religioni”103. In questi due casi, però, si tratta di veri e propri approcci specifici alla materia qui in oggetto e che in un modo o in un altro rientrano nei metodi d‟indagine già ricordati.

Ciò le distingue da quella “Scienza della religione” che si era andata affermando nel 1800, in un humus chiaramente illuminista, e che riteneva di poter pervenire a uno sviluppo progressivo della religione, partendo dalle differenti religioni allora sempre più conosciute, grazie agli studi degli antropologi, degli storici, e non ultimi dei missionari. Di questa disciplina, che adottava il metodo del confronto tra le religioni e dell‟analisi della loro evoluzione (metodo comparato) è ritenuto fondatore F. Max Müller, che progettò una ricostruzione della religione nella storia dell‟umanità, sotto la denominazione di una Science of Religion104. Da allora il dibattito sul nome da dare alla disciplina in questione si è sviluppato soprattutto in relazione all‟oggetto della materia e al suo metodo d‟indagine. In genere lo si riassume attraverso due scuole interpretative, quella della chiarificazione o spiegazione (da Erklären) e quella della comprensione (Verstehen).

La prima parte dal presupposto che la religione sia un oggetto di studio alla pari degli altri. Deve essere accostata con tutti gli strumenti di indagine critica e trattata con i metodi di imparzialità e di distacco, che evitano il più possibile l‟eventuale coinvolgimento dello studioso con la materia studiata. La seconda invece parte dal presupposto che la religione è una realtà particolarissima, che la rende non assimilabile alle altre scienze e ai loro rispettivi “oggetti”. Si potrebbe completare il celebre assunto dell‟iniziatore del metodo fenomenologico applicato alla religione, di Rudolf Otto, dicendo che «la religione comincia da se stessa e finisce con se stessa». Per quest‟autore, e per altri che a lui si rifanno, ciò significava non solo la possibilità scientifica che nello studio della religione sia coinvolto il soggetto che l‟affronta, ma che questo è l‟unico approccio scientifico possibile, data la natura dell‟oggetto, consistente nell‟esperienza religiosa, che non può essere che concretamente e personalmente vissuta.

Oggi i modelli scientifici sono stati rimessi tutti in questione e, per ciò che riguarda la nostra materia, in genere si tiene conto di entrambe le esigenze emergenti dal metodo della spiegazione e della comprensione, vale a dire tanto il valore della obiettività che quello della contestualità nella quale ciò può essere perseguito: il soggetto, la cultura, l‟epoca e gli stessi strumenti che caratterizzano la singola indagine scientifica.

101 Per un'introduzione, certamente ancora limitata ma inizialmente utile ai vari approcci, cf. D. DAVIES, Lo studio della

religione, in: AA. VV. Le religioni del mondo, Paoline, Roma 1984, 14-25. 102 Così, ad esempio, G. FILORAMO - C. PRANDI, Le scienze delle religioni, Morcelliana, Brescia 1987. 103 Così, ad esempio, M. MESLIN, Per una scienza delle religioni, cit. 104 L'opera specifica in cui il termine compare sistematicamente è Introduction to the Science of Religion, del 1873 (traduzione

it. Quattro letture d'introduzione alla scienza delle religione, Firenze 1874). L'espressione Religionswissenschaft si fa risalire allo stesso

Müller, che l'avrebbe adoperata per la prima volta nel 1867, mentre quasi contemporaneamente era adottata in francese da E.

Bounouf, per indicare una “scienza dagli elementi ancora dispersi e che, forse per la prima volta, noi chiamiamo Scienza delle

religioni” (Cf. M. MESLIN, Per una scienza..., cit., 9).

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Riteniamo questo metodo globale il più valido, pur ammettendo che esso possa essere adottato solo sulla base di un pluralismo metodologico, da rispettare e da valutare volta per volta, in considerazione dei suoi presupposti e dei suoi risultati. Preferiamo tuttavia l‟espressione scienza, e non scienze delle religioni, perché, a differenza di altri, riteniamo che la stessa trattazione dei diversi metodi e l‟indicazione del pluralismo ormai in atto nello studio della nostra materia, riconduca il tutto a una trattazione unica, a un saper che accetta e tenta una valutazione critica dei differenti metodi, e che per questo si possa legittimamente chiamare “scienza delle religioni”. Religioni resta invece al plurale, perché, come già detto precedentemente, anche il nostro metodo parte dalle religioni così come esse appaiono e cerca di coglierne le strutture di fondo, e su questa scia anche la definibilità della religione stessa, attraverso i suoi movimenti più intimi, cercando di pervenire a ciò che vi è di comune e che passa sotto il nome di esperienza religiosa.

Questa nostra posizione vuole essere anche rispettosa del pluralismo delle più diverse e molteplici esperienze religiose, con l‟avvertenza che il concetto di religione in quanto tale è pur sempre un concetto che si è sviluppato e definito nell‟ambito storico-geografico di lingua latina. Al di fuori di quest‟area, le lingue di altra derivazione, di ceppo, ad esempio, anglosassone, quando hanno dovuto tradurlo, non hanno potuto fare altro che recepirlo anche foneticamente come tale. Essendo, in quanto concetto specifico, funzionale al nostro sistema culturale occidentale, nelle altre aree culturali non dovrebbe essere indiscriminatamente applicato come nella nostra area geografica. Ma ciò vale anche per ciò che riguarda l‟esperienza da noi pur sempre denominata religiosa e cioè il rapporto con l‟Assoluto (o categorie similari) indicanti la Trascendenza, o almeno il Sacro e simili? Riteniamo di no, nel senso che se tale esperienza non deve essere preliminarmente e acriticamente applicata, non dovrebbe essere nemmeno preliminarmente esclusa, sempre con l‟avvertenza che ciò che nella nostra lingua chiamiamo esperienza religiosa può essere meglio compresa nelle altre culture come esperienza di ciò che è Altro da noi e che è fondamentale per la nostra vita. È ciò che abbiamo chiamato esperienza dell’Ulteriorità.

1.6. Una definizione a partire dall’esperienza religiosa

G. Filoramo ha introdotto la monumentale Storia delle religioni della casa editrice Laterza asserendo che la definizione della religione «è compito tanto improbo, quanto inevitabile». Tendendo conto delle obiezioni nel frattempo sollevate sul carattere latino del concetto di religione, ha scritto che essa è

«una categoria interpretativa dotata di una sua storia peculiare interna alla storia della cultura occidentale e della tradizione religiosa giudaico-cristiana che la caratterizza»105.

La definizione, pur interessante, suscita l‟impressione di un certo tautologismo, perché ribadisce che la religione non è altro che se stessa. Per andare oltre ciò che essa formalmente riesca ad esprimere, riportiamo qui, come se fosse una sorta di “mezzo di contrasto”, l‟opinione sulla religione di un altro autore contemporaneo, il sociologo P. L. Berger, che la collega alla categoria del “sacro”, non fermandosi però a questo, ma vedendo nel sacro il modo di autotrascendersi dell‟essere umano. Ne segue che la religione è una sorta di costruzione di un

105 G. FILORAMO ,«Introduzione. Religione e religioni», in G. FILORAMO (a cura), Storia delle religioni 1.cit., 5. Per i problemi di

metodo relativi allo studio delle religioni cf. anche ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Religione e religioni. Metodologia e

prospettive ermeneutiche, Messaggero, Padova, 1998.

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cosmo sacro, che l‟uomo intraprende nel suo dinamismo di autotrascendimento106. Ciò presuppone ovviamente un‟altra nozione ad essa previa, quella dell‟autotrascendersi, che per noi non è altro che l‟esperienza religiosa. Ciò che è soggiace a questo concetto è l‟ammissione, almeno implicita, di una realtà per così dire autoeccedente, presente nell‟uomo quando questi è alle prese con ciò che il mondo latino ha chiamato religio. Questo dato diventa più evidente appena si consideri il fatto che altri restano invece ancorati a una nozione puramente funzionale della religione. Così, ad esempio, accade con Th. Luckmann, che rinuncia del tutto a presentare la religione come «grandezza determinabile sul piano del contenuto», e la ritiene solo ciò che consente all‟uomo di realizzarsi come uomo107.

Su questa linea, che considera la religione come una sorta di funzione antropologica, è da citare la posizione di chi ritiene che in astratto le religioni siano un orientamento generico, in concreto, invece, siano «sistemi di orientamento» dell‟uomo (J. Waardenburg)108, fino ad arrivare alla dichiarazione di chi ritiene ormai completamente vuoto il concetto stesso di religione. È la posizione radicale di W. C. Smith, che considerandolo un concetto fuorviante ed inutile, propone la sua sostituzione con una coppia di concetti come «tradizione cumulativa» (cumulative tradition) e “fede” (faith)109.

Contro questa dichiarazione di sfiducia verso ciò che la religione esprime, è da menzionare la posizione di chi invece, continuando ad accoglierla come fondamentale rapporto dell‟essere umano con la sua Ulteriorità, ne ha analizzato alcuni aspetti interessanti, che non si discostano radicalmente da quanto qui viene proposto. Il comune denominatore è costituito dall‟ammissione di una sorta di doppia polarità, che, anche se non sempre esplicitamente menzionata o adeguatamente analizzata, è però parte costitutiva degli approcci ai quali ci riferiamo, anche di quelli a noi più vicini nel tempo. A noi sembra che proprio a partire da questa doppia polarità si possa pervenire alla comprensione dell‟esperienza religiosa.

Parliamo di bipolarità, perché siamo in presenza di una specie di ellisse che ha due fuochi, intorno ai quali l‟esperienza religiosa ruota: il soggetto umano e un Referente ulteriore, chiamato in modi diversi. È il Referente che talora compare anche nei termini di assoluto, o persino di «essere extraumano». Quest‟ultima denominazione si trova nel Dizionario delle religioni, che alla voce religione riporta: «insieme di credenze e di riti che collegano uno o più individui con uno o più esseri extraumani»110. La menzione di uno o più individui abbraccia, come si nota, la religiosità personale e la religione come sistema di credenze, e tuttavia sottintende che il soggetto umano è collegato con uno o più esseri che umani non sono e che tuttavia sono “vissuti” come referenti esistenzialmente decisivi. La locuzione uno o più esseri extraumani sembra alludere al fatto che il Referente del singolo uomo o della comunità umana possa essere recepito come unico oppure come pluralità. La definizione consente in questa maniera di inglobare sia le cosiddette religioni monoteiste, che quelle politeiste, con una ripresa interessante della problematica monoteismo-politeismo, senza adoperare una simile

106 Cf. U. BERNER, «Religione», in H. WALDENFELS (a cura di), Nuovo dizionario delle religioni, San Paolo, Cinisello Balsamo

1993, 756-758. 107 Ivi, 757. 108 Cf. ivi, 758. 109 È una tesi che mira più che a dissacrare, ad evidenziare gli aspetti soggettivi dell'atto religioso e ciò porterebbe alla fine

dell'idea della religione come sistema di tipo oggettivo. Cf. W. C. SMITH, The Meaning and End of Religion, New York 1962. 110 La voce è ancora in G. FILORAMO, Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino 1993. Lo stesso autore ha più recentemente

discusso il rapporto tra la religione e l'«esperienza di Dio» in. G. FILORAMO, «Unità e pluralismo delle forme dell'esperienza di

Dio nella prospettiva della storia delle religioni», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Cristianesimo, religione.., cit., 43-60.

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espressione, che ha lo svantaggio di evocare modalità concettuali spiccatamente occidentali. Ci chiediamo se consenta ugualmente di inglobare anche le espressioni religiose nelle quali non compaiono referenti personali o personalizzabili come soggetti (divinità, spiriti o simili), come, ad esempio succede con il buddhismo o con un certo animismo, dove il Referente è di natura sfuggente e difficilmente rappresentabile. Forse proprio in considerazione di ciò, la definizione parla genericamente di «uno o più esseri extraumani» con i quali l‟uomo religioso è collegato. Non sembra però possa bastare, perché la locuzione «uno o più esseri» implica ancora non solo un linguaggio, ma una mente filosofica di tipo occidentale. In alternativa, proponiamo di modificare la presentazione della religione come rapporto con un‟Ulteriorità esistenzialmente rilevante, nel senso già abbozzato e ancora da approfondire.

Pur con tutti i limiti di una precomprensione, che nel nostro caso è anche un‟ipotesi di lavoro, la definizione che al momento ci appare più sostenibile è la seguente: la religione è la tematizzazione personale, e solitamente anche comunitaria, di un collegamento esistenzialmente rilevante con un’Ulteriorità, vale a dire con ciò che eccede il dato puramente umano.

La tematizzazione coglie l‟esperienza nel suo esplicitarsi come tale. Indica il momento in cui si prende coscienza e si formalizza l‟avvertenza di ciò che chiamiamo Ulteriorità in pensieri, parole, gesti personali (e solitamente anche comunitari) e corrispondenti impegni etici. L‟esperienza diventa per così dire tema, cioè formalizzazione della mente umana di ciò che eccede il puro e semplice dato umano. Ciò che si può anche chiamare autoeccedenza dell’umano coinvolge gli umani in qualcosa di più che in un semplice riferimento duale, del tipo uno + uno (l‟io umano e ciò che è avvertito come di fronte a lui). Possiamo ritrovare questo “di più” dell‟Ulteriorità nell‟interessante definizione che dà della religione J. Wach, il quale indica anche i criteri per distinguere l‟esperienza religiosa dalle altre esperienze. L‟esperienza religiosa si qualifica in riferimento ad una «realtà ultima», nel senso che questa è avvertita come realtà che «tutto condiziona e tutto abbraccia», al punto che dalla parte dell‟Ulteriorità essa si caratterizza come appello che esige una risposta. Dalla parte dell‟uomo, invece, il rapporto con la realtà ultima investe tutta la personalità umana, dalla sfera intellettuale a quella affettiva, tanto che l‟esperienza religiosa presenta una sua intensità tipica111.

1.7. Ulteriorità come senso e come salvezza

Il binomio implicito nell‟indicazione dell‟esperienza religiosa come autoeccedenza dell‟uomo è presente in altri autori, da noi consultati, nei termini non di umano-extraumano, ma di uomo-senso, oppure uomo-salvezza. Ciò implica una particolare concezione antropologica, che ritiene l‟uomo bisognoso di senso e di salvezza. In effetti il binomio dovrebbe più correttamente essere: uomo che cerca senso (salvezza) - realtà che conferisce interamente senso (salvezza)112, anche per fugare il pericolo di pensare al senso in maniera intellettuale. L‟aggiunta del termine salvezza rappresenta comunque un valido correttivo, ma ciò solleva il problema dell‟eventuale e possibile valutazione da dare all‟esperienza religiosa e al suo Referente ultimo. D‟altro canto la dimensione salvifica della religione non può essere trascurata. Al contrario, potremmo aggiungere che proprio la salvezza, cercata nell‟Ulteriorità e creduta data da questa, ci sembra uno dei vettori fondamentali di quel duplice movimento che l‟uomo coglie nel suo andare verso la Trascendenza e nel presagire il moto che da questa avanza verso di lui.

111 Cf. J. WACH, Vergleichende Religionsforschung, Kohlhammer, Stuttgart 1962, 53-78. Citato da A, RIZZI Il Sacro e il senso.

Lineamenti di Filosofia della Religione, LDC, Torino 1995, 17. 112 Cf. A., RIZZI Il Sacro..., cit., 19-23,

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È vero, il secondo movimento, chiamato con terminologia teologica l’avvento di Dio, può essere solo presagito e intuito nelle religioni, come di fatto è accaduto, per esempio, nelle tante forme della mitologia greco-romana che hanno narrato la venuta sulla terra di divinità comparse in forme umane113. Se ci sono delle corrispondenze in figure mitologiche dell‟induismo114, nel buddhismo invece la realtà che noi chiamiamo Trascendenza si approssima all‟uomo nel momento in cui questi cerca di conseguirla attraverso il cammino interiore che lo porta alla Verità assoluta o alla Realtà originaria. In alcuni sūtra115 si parla di purificazione attraverso particolari viaggi. In uno di essi si narra del viaggio di un ragazzo, Sudhana, che dopo molteplici incontri con maestri o guru116, perviene finalmente alla illuminazione suprema, nel senso che finalmente può vedere le cose così come esse sono realmente117.

Anche in alcune religioni tribali si trova l‟idea del passaggio di Dio tra gli uomini, come nel caso della religione Sarna-Munda. Qui si racconta che Singbonga, figura divina corrispondente al Dio dei monoteisti, si presentò come un ragazzo ricoperto di ferite presso gli Asur, ma questi non lo accolsero, anzi tentarono di ucciderlo, bruciandolo in un forno. Egli però ne uscì vivo «come alba, come sole che sorge». In un altro racconto, trasmesso ancora oralmente e raccolto dal vivo, si narra di una coppia di antenati, che invece hanno accolto Singbonga nella figura del giovane ammalato e per questo sono stati ampiamente ricompensati, ricevendo il necessario per vivere118.

Concludendo questo capitolo, si può dire che l‟incontro con l’Ulteriorità è collegato alla salvezza per la rilevanza che questa ha, a livello esistenziale (per la sopravvivenza e per la conoscenza) per l‟uomo, per la sua comunità, per la sua vita e per il suo futuro. Pertanto l‟incontro arreca una salvezza come processo e cammino119. Tutto ciò merita ancora un approfondimento e, sebbene in altri contesti, ritorneremo sull‟argomento. Qui si è intanto aperto un altro campo d‟indagine. Ci domandiamo pertanto: Quali spazi ulteriori si danno per la comprensione “critica” della religione e quali criteri? A che punto la scienza delle religioni

113 Cf., ad esempio, le tante volte in cui gli dei, da Zeus a Venere, da Giunone a Mercurio e gli altri vengono sulla terra, in A.

M. CARASSITI, Dizionario di mitologia greca e romana, Newton & Compton, Roma 1996. 114 Basti pensare alla mitologia sottostante al rito del kumbh mela (o festa del vaso) che ogni dodici anni vede immergere

milioni di pellegrini alla confluenza tra Gange, Yamuna e Sarasvati. Se il bagno rituale in quelle acque libera dall'eterno ciclo

delle reincarnazioni, ciò è dovuto al mito, raccontato nei testi sacri, sul viaggio di Dhanvantri, che in una fuga di dodici giorni

riuscì a sottrarre ai demoni il vaso (kumbh) contente il nettare della vita (amrit). I suoi luoghi di sosta sono diventati sacri (sono

Prayag, corrispondente a Allahabad, Hardwar, Nasik ed Ujjain). In essi si compie ogni 12 anni un bagno purificatore, il cui

valore è particolare perché alcune gocce del nettare sarebbero cadute proprio in quei luoghi. L'ultimo kumph mela si è celebrato a

Allahabad tra gennaio e febbraio del 2001 e si ritiene che abbia avuto una presenza di pellegrini tra i 70 e i 100 milioni. 115 Il sūtra è nel sanscrito il «filo (che conduce)» ed indica in genere testi di aforismi mnemonici di carattere spirituali e

riguardanti determinate discipline. 116 Anche l'etimologia di gūru è interessante. Si fa risalire a Gu, luce, e Ru, buio. Il guru è colui che conduce a dal buio

dell'ignoranza alla luce della conoscenza.

117 Per questa sūtra e sul pellegrinaggio in genere nel buddhismo cf. JAE - SUK LEE, «Il pellegrinaggio del Buddhismo verso

una Realtà Maggiore (Avatamsaka Sūtra del Buddhismo Mahāyāna)», in G. ANCONA, Avvento di Dio..., cit., 49-103. 118 Il materiale mitologico è stato raccolto e commentato da Bisu Benjamin Aind, che ha presentato la sua tesi di

baccalaureato presso L'Istituto Teologico Calabro di Catanzaro sulla sua religione di provenienza nell'anno accademico 1998-

1999. Lo stesso fa riferimento, per il secondo mito, ai racconti da lui personalmente raccolti dagli anziani del suo villaggio, per il

primo invece rimanda a A. VAN EXEM, The Religious System of the Munda Tribe, Haus Völker und Kulturen, St. Augustin-Ranchi

1982, 56-58. 119 Cf. gli atti dei convegni tenuti dall'Istituto Teologico Calabro su argomenti collegati a questo tema, reperibili in Vivarium

5 ns (1997/2) e in Vivarium 8 ns (2000/2). In quest'ultimo cf. G. MAZZILLO, «Redenzione nella società multireligiosa e

multirazziale» pp. 243-266.

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sfocia in ciò che è stata chiamata la filosofia della religione e da quale momento in poi la riflessione è già una teologia delle religioni e quindi teologia della religione? Ce ne occuperemo nei capitoli seguenti.

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Capitolo 2° La religione tra filosofia e teologia

2.1. L’infinito e il suo insuperabile richiamo

Il primo capitolo ci ha consentito di compiere un primo passaggio che va dalle religioni alla religione. Nella ricerca di ciò che unisce quei fenomeni rituali ed esperienziali di natura personale e collettiva, che con terminologia latina chiamiamo religioni, siamo pervenuti a qualcosa che le accomuna nell‟esperienza religiosa, che si potrebbe anche chiamare esperienza dell’autotrascendenza. Siamo giunti a quell‟esperienza particolarmente significativa per l‟uomo di qualcosa che egli ritrova in se stesso e lo spinge ad andare oltre stesso. L‟essere umano ci è apparso di fronte a un suo Referente (ultimo) senza del quale l‟esperienza religiosa non sarebbe possibile. Si tratta di un Referente che appare lontano e vicino nello stesso tempo, che in ogni caso costituisce un richiamo insuperabile, tanto da metterlo spiritualmente in cammino.

Abbiamo parlato di doppia polarità, ma annotiamo che si tratta di una bipolarità dinamica: quella tipicamente umana (personale e comunitaria) e quella dell‟Ulteriorità (il dato trascendente). La prima sembra ineluttabilmente protesa alla seconda, così come si può presupporre che la seconda sia protesa verso la prima. Abbiamo visto che sono in gioco l‟essere umano e ciò che questi avverte come altro da sé, come realtà impegnativa per la sua vita e per la vita della comunità. Tutto ciò costituisce per noi un dato al quale si perviene attraverso l‟esperienza oltre che attraverso la fenomenologia del religioso. Per il cristiano la rivelazione ne costituisce la conferma più autorevole e offre risultati pienamente convergenti con ciò che l‟animo religioso non di rado avverte come rapporto tra sé e l‟Assoluto, in quanto Altro da sé. È la struttura fondamentale sottostante ad ogni atto religioso, tanto di natura cultuale, che come atto di approfondimento o trascendimento della propria vita. Nel primo caso il rapporto con l‟Ulteriorità è espressa maggiormente, ad esempio, negli atti cultuali dell‟induismo o delle religioni tribali a varia tipologia; nel secondo caso la ritroviamo prevalentemente come meta di un processo di conoscenza e di purificazione, come accade, ad esempio, nel buddhismo. L‟Ulteriorità stessa è presente nelle religioni antiche del mondo mediterraneo come compresenza di più divinità, mentre in quelle arcaiche o primitive è avvertenza di una forza immanente alle cose, ma ad essa superiore (il mana o le varie forme nelle quali si esprime l‟animismo). Sovente, come abbiamo visto, si esprime anche attraverso forme che noi possiamo ricondurre al nostro monoteismo.

La bipolarità addita un collegamento diretto, e nello stesso mediato, tra l‟uomo e il suo “Mistero”. Ciò sembra un fatto universale, anche se è espresso con terminologia e mentalità occidentali. Nella nostra area culturale il fondamento della religione viene spesso a coincidere con ciò che alcuni autori hanno individuato come fondamento dell‟esistenza e della creaturalità umana. Infatti, se ci chiediamo dove possiamo trovare concetti simili a quelli da noi adoperati, dobbiamo fare un doveroso riferimento a Erich Przywara, che è stato il primo a parlare di “polarità” di Dio nel contesto della religione. Per questo filosofo-teologo Dio è il «fondamento della polarità in noi e sopra di noi»120. Il punto di partenza della sua riflessione sulla religione è in un passaggio del Concilio lateranense IV, che afferma che tra creatore e creatura non si può

120 L‟idea è già in Gott Geheimnis der Welt, 1923, cui segue lo scritto Religionsbegründung. Cf. H. U. VON BALTHASAR, “Erich

Przywara”, in P. VANZAN - J. SCHULTZ (a cura di), Mysterium Salutis 12. Lessico dei teologi del secolo XX, Queriniana, Brescia

1978, 347-354.

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esprimere alcuna somiglianza senza includere con ciò una più grande dissomiglianza tra i due termini. Ciò costituisce la base di una determinazione della trascendenza e della distanza di Dio, come qualcosa che è sempre “in” e “al di sopra”. È il tema di una contemporanea vicinanza e lontananza di Dio. Egli è sempre più grande di qualunque analogia possiamo intentare, sicché i nostri tentativi attraverso un pensiero finito dimostrano soltanto che siamo davanti a ciò che è sempre incomprensibilmente infinito.

L‟Ulteriorità, alla quale non poche religioni danno il nome di Dio, è presenza insieme affascinante e misteriosa, di fronte alla quale l’uomo scopre la sua piccolezza. Tuttavia è una presenza che non lo annienta, ma che lo innalza. Di fronte ad essa l‟uomo esprime devozione e rispetto, timore e attrazione, trepidazione e amore. Talvolta avverte di trovarsi nei pressi delle sue radici, della sua stessa sorgente. Sente la trepidazione di chi è a contatto con ciò che lo costituisce, lo chiama e l‟interpella, gli affida persino dei compiti. Nell‟ebraismo-cristianesimo Dio resta sempre «colui che è» (Es 3,13-15), di fronte al quale occorre coprirsi il volto come Mosè, per non restarne annientati, ma nello stesso tempo è colui che non bisogna temere, perché «davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri» (1Gv 3,19). Egli è lontano come un abisso e vicino all‟uomo più del suo stesso cuore, cioè più prossimo della sua parte più intima e personale, più profonda e più autentica.

2.2. La religione come stupore che sorprende la ragione

Come si è già affermato, non sempre l‟Ulteriorità è rappresentata come persona, come Dio, nel senso che noi diamo a questa parola. Inizialmente sembra però che la sua esperienza sia comunque associata allo stupore, simile a quello con cui inizia la filosofia. Non solo la filosofia, ma anche l‟esperienza religiosa si affaccia con lo stupore121 e solo con esso può proseguire. Anche non adoperando il nostro concetto di Dio o di Divinità, l‟esperienza tipicamente religiosa è comunque «un‟esperienza vissuta, collegata al diverso che stupisce», come afferma G. van der Leeuw122, che prosegue:

«Lungi dal prospettare la minima teoria e neppure la più elementare generalizzazione, ci contentiamo della constatazione empirica: quest‟oggetto esce dall‟ordinario. E ciò risulta dalla potenza che l‟oggetto sprigiona»123.

Il Referente dell‟esperienza religiosa appare pertanto come diverso e come distante. Nel popolo melanesiano ciò era espresso dal termine mana, e così venne ripreso dal missionario R. H. Codrington, mentre in alcuni indigeni della Nuova Guinea il concetto corrispondente fu trovato in quello di dema. Tra gli Irochesi124 Sioux era il wakanda o wakan, simile a ciò che altri indigeni dell‟America nord-occidentale chiamavano manitu (o manido)125. In ogni caso si tratta non di una potenza settoriale, ma di ciò che esprime la forza misteriosa che regge la vita umana e anche lo stesso universo.

121 Il pensiero è in G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1975, 7. 122 Ivi. 123 Ivi, 7-8. 124 Gli Irochesi costituiscono un ragruppamento etnico di tribù indigene dell‟America Settentrionale, sono suddivisi in

ulteriori sottogruppi, come i Cherokee e gli Huroni, attualmente sono una minoranza protetta nel Canada; mentre negli Stati

Uniti vivono in riserve indiane. 125 Ciò è stato documentato per gli Algonchini, che comprendele popolazioni amerindie (Chippewa, Mohicani, Cheyenne,

Arapaho) dell‟America Settentrionale. Oggi restano alcuni discendenti che vivono nelle riserve indiane del Canada e egli Stati

Uniti.

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G. van der Leeuw ha espresso la straordinarietà di questa esperienza attraverso il concetto di potenza, che però, come egli annotava, comprende anche la nozione di verità e di quanto è eticamente valido126. In ogni caso, sia che si esprima nelle sue manifestazioni più arcaiche, sia che appaia personificata in una o molteplici divinità, l‟Ulteriorità è pur sempre esperimentata dall‟uomo come ciò che lo interpella impegnandolo e come ciò di cui egli non può fare a meno: come richiamo e come sfida.

Pur presentandosi con questa natura di interpellanza diretta, l‟Ulteriorità non sempre è stata oggetto adeguato della riflessione umana, sebbene verso quest‟ultima frontiera si sia sempre spinta la poesia, l‟intuizione e l‟arte in genere. Le remore scientifiche non sono dovute al fatto che il Referente di cui parliamo non sia alla portata di ogni essere umano. Al contrario, come dimostra la storia delle religioni, si può dire che ogni uomo, per il solo motivo di essere tale, è già in grado di poterlo presentire, interpellare e talora adorare. Tuttavia, nel nostro mondo culturale europeo dall‟Illuminismo in poi non pochi pensatori sono stati come ossessionati da una sorta di preoccupazione critico-scientifica. Hanno ritenuto di non potersi né doversi pronunciare sull‟esperienza di questo continuo incontro tra le due realtà incatturabili in questione: la nostra vita e l‟infinito che ci affascina e ci sfugge.

Talvolta, come vedremo meglio in seguito, ci troviamo dinanzi a vere e proprie chiusure ideologiche, che escludono per principio una consistenza reale del Mistero e riducono tutto il religioso a pura e semplice invenzione o a funzione secondaria e quindi a vera finzione127. Le forme di riduzionismo sia del passato che del presente sono tante e non potremo non confrontarci con le più importanti.

Quanti hanno ritenuto e ritengono che la religione sia solo l‟effetto di bisogni impellenti per l‟uomo, a partire da quelli più immediati di procurarsi il cibo, la salute, la salvaguardia della propria vita (contro le disgrazie e contro l‟assalto dei nemici) ed infine una posterità, dovrebbe coerentemente concludere che soddisfatti i bisogni umani fondamentali, la religione dovrebbe autoeliminarsi. È un ragionamento simile a quello ad esso simmetrico, che ritiene che la religione abbia origine dalla paura. Seppure non sempre oggi si ritrovi in questa forma, tale innegabile riduzionismo ricompare in teorie sociologiche, associate a dinamismi evoluzionisti e psichici sulla religione. La religione è stata considerata da alcuni come processo che consente all‟uomo la costruzione di parametri etici orientati ai valori, similmente alla magia, che è invece protesa a una sorta di governo «tecnico» del mondo attraverso una forma particolare di conoscenza legata alla mitologia128. Il fenomeno religioso diventa pertanto l‟esito di dinamismi etno-antropologici ed assume al massimo una serie di rappresentazioni simboliche della società di appartenenza129. Sebbene altri rigettino questa opinione dall‟interno dello studio positivo delle diverse forme religiose analizzate130, altri non smettono di riproporla, anche se in diverse varianti131.

126 G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia..., cit., 10ss. 127 Sul riduzionismo cf. la pregevole sintesi, che riprende suoi precedenti lavori, di G. MAGNAMI, Storia comparata..., cit., 195-

216 e passim. 128 Costituisce un classico di questo nuovo genere di interpretazione della religione il saggio di B. Malinowski, Magia, scienza

e religione del 1925. 129 Per una panoramica sulle diverse interpretazioni della religione in sede filosofica e negli ambiti ad essa attigui cf. M. G.

LOMBARDO, «religione», cit., 965-969. 130 Cf. quanto scrive a riguardo il già citato Evans-Pritchard: «Questo postulato di metafisica sociologica mi sembra essere

un'affermazione del tutto priva di fondamento. È stato Durkheim, non il selvaggio, che ha fatto un dio della società. Tutte

queste teorie sulle religioni primitive, le evoluzioniste, le psicologiche e le sociologiche, peccavano di una comune debolezza: si

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Nel campo più prettamente filosofico, invece, i meno prevenuti sembrano muovere da un‟implicita intesa a lasciare fuori della riflessione critica, l‟esperienza di ciò che Rahner ha chiamato “misteriosità dell’essere”. Nonostante ciò, le “tracce” del mistero affiorano anche nei pensatori contemporanei più “critici”, come vedremo da alcuni esempi. Come mai? Perché quell‟esperienza anche per loro è rimasta ugualmente valida e, sebbene come voce fuori campo, ha continuato a sollevare le sue domande sul senso del vivere e del morire, sul senso dell‟esistere.

Perché tutto questo? Perché riteniamo che l‟essere umano lasci tracimare sempre e comunque il suo mistero. La poesia, la pittura, il teatro, il cinema e tutta l‟arte ne sgocciolano continuamente. È il mistero dell‟infinito a noi vicino e lontano. È la nostra Ulteriorità che ci trascende eppure ci è accanto. Il mistero dell‟uomo non è enigma, ma spiraglio dell‟infinito. È percezione di ciò che è sempre sfuggente e che ogni giorno intercettiamo. È ciò che sfioriamo senza poter mai afferrare, che ci viene accanto nei momenti più impensati e si allontana al nostro primo sguardo, lasciandoci una sua incancellabile nostalgia.

2.3. La trascendenza e le categorie per esprimerla

Questo modo di pensare al Referente principale della religione, all‟Ulteriorità come al vicinissimo e lontanissimo Dio, è ben presente nella riflessione della cosiddetta «teologia trascendentale», corrente di pensiero legata, almeno come terminologia e per qualche tema generale, alla «filosofia trascendentale». Sotto questo nome si intende la riflessione che cerca di pervenire alle condizioni previe del conoscere, in questo senso «trascendentali». Come è noto, tali condizioni, che vanno al di là degli oggetti conosciuti e sono antecedenti alla conoscenza, sono state indicate soprattutto da I. Kant, in modo particolare nella sua Critica della ragion pura. Lo sviluppo delle implicanze teologiche di quest‟analisi è stato portato avanti da J. Maréchal132. La base della sua riflessione è però da lui indicata già in Tommaso d‟Aquino, a partire dall‟infinità verso la quale tende il conoscere umano. Si tratta di un infinito che si potrebbe chiamare «infinità virtuale» e della quale è capace l‟intelligenza umana133. Partendo da queste

basavano su una documentazione inadeguata e non vagliata criticamente. Le vaste generalizzazioni su cui si basavano potevano

essere state formulate soltanto in un epoca in cui gli studi sistematici delle religioni dei popoli primitivi erano lacunosi, e da

persone prive di qualsiasi pur superficiale conoscenza diretta di esse. Che fossero in realtà soltanto assunzioni aprioristiche

applicate ai fatti, anziché conclusioni scientifiche derivate dai fatti, divenne sempre più evidente di man in mano che andava

aumentando la conoscenza di queste religioni e che ne venivano meglio valutate la varietà e la complessità» (E. E. EVANS-

PRITCHARD, «La religione dei Nuer», in C. LESLIE [a cura di], Uomo e mito nelle società primitive. Saggi di antropologia religiosa,

Sansoni, Bologna 1978, 71-118, qui117-118). 131 Tra questi cf., ad esempio, chi scrive:«Certo il timore non fu l'unica causa originaria del sentimento religioso.

L‟imponente spettacolo della natura; lo splendore abbagliante del sole; le miriadi d'altri astri che brillano e si muovono

nell'immensità dello spazio; la luna e le sue influenze; la vicenda delle stagioni; le proprietà degli elementi; i misteri dei sensi,

del pensiero, della memoria, dei sogni, delle passioni; il meraviglioso fenomeno della riproduzione delle specie, dovettero

imporsi gradatamente, progressivamente, all'intelligenza dell'uomo in continua evoluzione, contribuendo a generare in lui

credenze e adorazioni. Un'altra fonte del sentimento religioso fu senza dubbio l'idea della morte, che dà tanta forza al

sentimento di dipendenza, origine prima di tutte le religioni. Si è potuto affermare che se l'uomo fosse immortale le religioni non

esisterebbero. La nozione della morte, dell'inevitabile fine dell'esistenza sulla terra, generò infatti nell'uomo la coscienza della

sua imperfezione e il conseguente bisogno di credere e di sperare in una o più potenze sovrumane che potessero aiutarlo a

vivere, prolungargli la vita, dargliene un'altra dopo la morte» (D. CINTI, Storia delle Religioni. Dottrine, riti usanze, SEI, Milano

19613,voll. 2 [prima edizione 1934], vol. 1 pag. 4). 132 Cf. J. MARECHAL, Le point de départ de la métaphysique, V, Desclée De Brouwer, Bruxelles-Paris 19493, 373-380; citato da . F.

SCIACCA (direttore), Grande Antologia Filosofica XXVII, 497-508. 133 Il filosofo, noto come uno dei maggiori rappresentanti della Neoscolastica, riprende commentandolo, il testo di S.

Tommaso, che parla della doppia infinità alla quale è collegata la nostra attività spirituale: “Secunda autem actio (id est, actio

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premesse, Maréchal, già nel 1917, si spingeva fino a ritenere la metafisica come consegnata all’assoluto:

«La metafisica è la scienza umana dell‟assoluto. Essa traduce immediatamente il sequestro della nostra intelligenza da parte dell‟assoluto; sequestro che non è affatto un giogo subìto dall‟esterno, ma un principio interno di vita»134.

La «teologia trascendentale» parte da questi presupposti, per affermare che solo con un metodo «trascendentale» si può garantire che Dio non divenga un pezzo del mondo. Dio infatti non è una sorta di appendice illimitata del mondo, ma piuttosto il fondamento stesso di quanto esiste, il senso delle cose e, con ciò, almeno la possibilità della salvezza del tutto.

K. Rahner si è dedicato ad applicare il metodo trascendentale alla filosofia della religione. È partito dal presupposto che la struttura del giudizio umano (l‟atto con cui emettiamo un giudizio razionalmente valido) rimanda, nell‟attribuzione di qualcosa a qualche altra cosa (del tipo la casa è per l‟uomo), a quell‟Essere assoluto e infinito, senza del quale non si possono comprendere gli essere finiti e contingenti. La religione è per Rahner quella particolare «apertura verso la trascendenza» che è iscritta nella natura umana e quindi è all‟origine delle varie forme religiose, che la esprimono, ciascuna per il suo verso, pur nelle differenti forme che noi conosciamo. Al fondo, però, ciò è possibile, solo perché ogni essere umano è per sua natura capace di accogliere il messaggio di Dio, è «uditore della Parola», non in maniera potenziale, ma reale135. È stato creato da Dio in maniera ricettiva ed aperta al Suo libero e gratuito intervento. Il suo essere ha una fondamentale misteriosità, perché viene dal mistero e tende allo stesso mistero.

L‟Assoluto, qui chiamato «Mistero», è per così dire vicino all‟uomo nel senso che questi è strutturalmente aperto nei suoi confronti. Per Rahner l‟uomo è in cammino verso Dio, perché è sempre orientato a lui. È un essere spirituale proprio perché vive in questa tensione incondizionata verso il Mistero, con il quale è costitutivamente imparentato. L‟uomo è pertanto sempre proteso verso l‟ascolto di ciò che egli è nel suo intimo, e pertanto è in ascolto di Dio. L‟esperienza religiosa è in definitiva la recettività e la reale recezione di quest‟appello. Per questa ragione l‟appello, pur avvertito nell‟immanenza della propria vicenda umana, è e deve restare trascendente. Se cessasse di essere tale, non avrebbe senso la rivelazione e con ciò anche qualsiasi teologia non solo cristiana, ma anche religiosa.

2.4. Tracce del passaggio di Dio?

L‟analisi di K. Rahner vuole essere un‟analisi dell‟esistenza umana. È stata da alcuni criticata perché sembra non distinguere adeguatamente il piano filosofico da quello teologico. Ad alcuni

immanens, sicut sentire, intelligere, velle) de sui ratione habet infinitatem, vel simpliciter vel secundum quid. Simpliciter

quidem, sicut intelligere, cuius obiectum est verum, et velle, cuius objectum est bonum, quorum utrumque convertitur cum

ente... Secundum quid autem infinitum est sentire...” (cioè rispetto alla quantità, come estensione dell'attività intellettiva e

volitiva) (ivi, 499). 134 Citato da M. F. SCIACCA, La filosofia oggi II, Marzorati, Milano 1963, 320. L'affermazione esprime efficacemente il punto

archimedico del suo pensiero e compare già nella prima redazione della sua opera già citata, rimasta incompiuta, per motivi di

salute. Il pensiero che collega l'infinità virtuale del pensiero all'esistenza dell'Infinito, che è Dio, compare anche altrove, come ad

esempio quando l'autore afferma: «La capacità oggettiva totale della nostra intelligenza che respinge ogni limite tranne il non-

essere, si estende tanto lontano quanto l'essere puro e semplice. A una tale capacità formale non può corrispondere se non un

solo fine assolutamente ultimo e saturante: l'Essere infinito» (J. MARÉCHAL, Le point ..., cit., 509). 135 L'opera in cui K. Rahner compie una simile analisi, che è insieme filosofica e teologica è infatti: K. RAHNER, Uditori della

Parola, Borla 1997.

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è persino sembrata mettere in pericolo la trascendenza di Dio. Un‟accusa assurda, che si confuta da sola appena si pensi alla definizione di trascendenza e alla caratteristica, tipicamente teologica, della sua paradossalità di vicinanza e di lontananza nello stesso tempo. Abbiamo dimostrato altrove e con diverse argomentazioni l‟infondatezza di questa accusa136. Sull‟obiezione di non aver separato la dimensione teologica da quella filosofica, K. Rahner ha ripetutamente affermato che è proprio questo che egli ha voluto evitare, perché l‟uomo storico non può essere diviso in compartimenti stagno. La sua situazione è quella di un‟esistenza che, per ragioni di effettivo svolgimento dei fatti storici, è sotto l‟influsso della Grazia. La sua esistenza è già abbracciata dalla tenerezza di Dio. Si può parlare in lui di un‟esistenziale soprannaturale, ma non per separare due livelli di realtà (la natura e la sopra-natura che le starebbe come sovrapposta), ma per ribadire che la realtà creata e quella redenta sono storicamente un‟unica realtà.

La riflessione sull‟unità inscindibile di esistenza e di esperienza di Dio è teologicamente giustificata, almeno dal punto di vista della sua impostazione generale. Presta tuttavia il fianco alla critica, che potrebbe venire dalla fenomenologia o dalla storia delle religioni, di rendere praticamente non distinguibili gli atti religiosi da quelli non religiosi137. Ma di fronte ad una difficoltà così formulata, potrebbe paradossalmente venire in aiuto la stessa fenomenologia delle religioni, nel momento in cui ritiene di dover ridurre, se non abolire del tutto, le separazioni tra sacro e profano, tra ordine materiale e ordine spirituale, tra livello intrinseco e livello estrinseco dell‟esperienza umana138.

La posizione di K. Rahner è espressiva di un approccio unitario all‟esperienza religiosa, un‟esperienza che si radica e si esprime nella stessa esistenza umana. Coglie il nesso tra l‟umano e ciò che lo costituisce come tale nella sua più intima “natura”. Afferra almeno la contestualità della vita dell‟uomo sulla terra nella sua misteriosità o nel suo più vasto orizzonte sul quale questa si staglia. Ne coglie il carattere reale e tuttavia non disponibile. Ne percepisce la sua realtà sfuggente. Da un versante teologico, la posizione sembra piuttosto definita, anche se dovrà sempre guardarsi dal ricadere in facili esemplificazione apologetiche. Ci chiediamo ora se quest‟approccio abbia un qualche riscontro anche in sede più specificamente filosofica. Ci domandiamo cioè se anche la filosofia, almeno la più recente, abbia intravisto e indicate le “tracce” di questa Ulteriorità, o mistero, che sta dietro l‟esperienza religiosa. In questa maniera cerchiamo di sapere che cosa la filosofia pensi oggi della “religione” e in che termini ne parli. Si impongono chiaramente dei limiti e quindi dovremo per forza di cose riferirci ad alcuni autori espressivi di particolari paradigmi di pensiero, considerati come modelli interpretativi, sotto i quali raccogliere anche gli altri. Dedichiamo per adesso la nostra attenzione a un filosofo che è stato ed è punto di riferimento di molta riflessione contemporanea, Martin Heidegger.

2.5. Il passaggio dell’uomo e il passaggio di Dio

Martin Heidegger paradossalmente affermava che la filosofia non può che essere a-tea, nel senso che essendo “fenomenologia” dell‟essere concreto e reale, cioè dell‟esistenza umana, non può andare al di là di questa, non dovendo e non riuscendo a indagare su un essere che non sia questo essere umano che vive qui e adesso (ciò che egli chiamava Dasein). Scriveva, tuttavia, a Löwith che nel voler cogliere la sua propria identità spirituale e storica si sentiva di affermare

136 Cf. G. MAZZILLO, «L‟incarnazione di Cristo e il valore della storia umana», in Rassegna di Teologia 34 (1993) 363-377. 137 R. SCHAEFFLER, “Verso un concetto filosofico di religione”, cit., 72. 138 G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia, cit., § 67, p. 357.

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«io sono un teologo cristiano». Nella prima parte della sua opera restava comunque, coerentemente con le sue premesse, al di fuori da ogni approccio di natura “religiosa”. Solo successivamente riprese tematiche religiose legate soprattutto alla poesia neoclassica e quindi al mondo greco. Nel suo aprirsi alla poesia, alla quale riconobbe il valore di cogliere la realtà da un‟altra prospettiva, diversa da quella della filosofia e tuttavia complementare a questa, gli sembrò di rinvenire le tracce di Dio e del suo passaggio.

La svolta (die Kehre) tematicamente significativa, sul piano della riflessione religiosa, avviene in Heidegger negli anni „30. La sua riflessione sul «divino» non interrompe quella sull‟ontologia che egli porta ancora avanti, ma piuttosto riprende e radicalizza alcuni suoi presupporti, attinti dalla filosofia greca (antecedente e successiva a Socrate). È la ripresa di quelle domande fondamentali già presenti in Essere e tempo, riguardanti l‟io e il suo essere con gli altri, «Chi sono io? Chi siamo noi?”139. Rispetto ad Essere e tempo, la novità degli scritti successivamente raccolti come «Contributi per la filosofia» (Beiträge zur Philosophie)140 è rappresentata dalla riflessione sul passaggio, sul transito (Übergang). Proprio questo momento è quello che fa avvertire un altro inizio, un nuovo cominciamento. Ma il passaggio è anche transito del divino. In questo caso il transito dell‟uomo sulla terra (dell‟essere qui e ora) incontra il passaggio del divino, anch‟esso in transito, o addirittura in fuga. L’essere-qui di Heidegger (il Dasein), l‟uomo concretamente esistente, è caratterizzato dalla sua storicità e pertanto dalla sua caducità. È mortale e quindi è in continua emigrazione. Verso dove? Verso la morte. Ma questa fuga nel tempo (cioè dal tempo, che giorno per giorno si assottiglia, come la sabbia di una clessidra) intercetta la fuga di Dio. Come mai? E, soprattutto perché anche Dio è in fuga?

Sono domande fondamentali, alle quali oggi si cerca di dare una risposta, partendo da una rilettura delle opere di Heidegger successive a Essere e tempo. Si può rispondere dicendo che la riflessione di Heidegger non si è mai posta, dal versante filosofico, come una ricerca che prende posizione a favore e contro l‟esistenza di Dio. A scanso di ogni ulteriore equivoco l‟autore confessava infatti nel 1946:

«Con la determinazione esistenziale dell‟essenza dell‟uomo, quindi, neppure vien deciso nulla su l‟”esistenza di Dio” o sul suo “non-essere”, e tanto meno sulla possibilità o impossibilità di Dei»141.

139 Cf. §§ 25 e 64. In questa sua opera fondamentale l'analisi arriva a sollevare la domanda sul chi sono, a motivo del suo

approdo, cioè del fatto che l'essere concreto si scopre e si deve accettare solo e propriamente come «essere-per-la morte».

«L'analitica precedentemente condotta si scontrava, già per ciò che riguardava la caratterizzazione preparatoria della

quotidianità, con la domanda sul senso del chi è l'Essere-qui. Si mostrò che primariamente e per lo più che l'Essere-qui non è

esso stesso, bensì è perduto nel Si (Man) stesso. Ciò costituisce una modificazione esistenziale del proprio Se stesso. La domanda

sulla costituzione ontologica della stessità (Selbstheit) restò inevasa. Invero fu fondamentalmente fissato il filo conduttore del

problema» (M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, M. Niemayer Verlag, Tübingen 1979 [or. 1926], § 64, p. 317. La traduzione di questo

come di altri testi stranieri è nostra). Sul primo pensiero di Heidegger sulla teologia cf. A. ARDOVINO, «Fenomenologia e teologia

nel primo Heidegger» in Rassegna di Teologia 41 (2000) 367-394. 140 Vengono presi in considerazioni i Beiträge zur Philosophie, secondo la sistemazione operata da F. W. von Herrmann, nella

Gesammtausgabe. L'articolo dal quale è partito il nostro approfondimento sulla religione in Heidegger è: J-F. COURTINE, «Les

traces et le passage de Dieu dans les "Beiträge zur Philosophie" de Martin Heidegger», in Archivio di Filosofia 1-3 (1994), 519-538. 141 M. HEIDEGGER, Che cos'è la metafisica? (Con estratti della «Lettera su l'Umanismo») (a cura di A. Carlini), La Nuova Italia,

Scandicci, Firenze 1953, 119-120. La stessa posizione neutrale della filosofia veniva dichiarata già nel 1929, come lo stesso autore

ricorda, aggiungendo che sarebbe precipitoso e arbitrario considerare atea la sua posizione, perché già allora in Vom Wesen des

Grundes scriveva: «Con l'interpretazione ontologica dell'essere esistenziale come essere-nel-mondo non si decide né

positivamente né negativamente su la possibilità dell'essere riguardo a Dio. Con la chiarificazione, tuttavia, della trascendenza

noi guadagniamo per la prima volta un concetto sufficiente dell'essere esistenziale, in considerazione del quale può essere ora

sollevata la questione come ontologicamente si pone il problema del rapporto dell'essere esistenziale con Dio» (ivi, 120).

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Ma questo comportava una sorta di indifferenza rispetto alla religione? Heidegger lo escludeva espressamente, affermando che

«il pensiero pensante, che si pone il problema della verità dell‟Essere, se lo pone in un modo più originale di quel che è possibile alla Metafisica»142.

Vale a dire:

«solo partendo dalla Verità dell‟Essere, è possibile pensare l‟essenza del sacro, e solo partendo dall‟essenza del sacro, è possibile pensare l‟essenza della divinità, così come soltanto alla luce dell‟essenza della divinità è possibile che sia pensato ed espresso ciò che la parola “Dio” deve significare»143.

Ma cosa deve significare la parola “Dio”? Il suo significato deve essere scoperto attraverso l‟analisi fenomenologica dello stesso termine. Tale termine richiama il “sacro”, in quanto divino (heilig) e in quanto “salvezza” (Heil). Eppure, ammette Heidegger, oggi manca proprio l‟apertura al sacro, perché ci si chiude alla salvezza:

«Forse il carattere distintivo di questa epoca è, proprio, in ciò: che a essa è chiusa la dimensione della salvezza, ed è forse questo l‟unico suo vero male (Unheil)»144.

Il fatto che la riflessione filosofica debba rimanere, dal suo canto, rigorosamente al di fuori di una scelta tra teismo e ateismo, non nasce da indifferenza o da deprezzamento del valore del religioso, ma

«dalla considerazione dei limiti che sono posti al pensiero, ossia per ciò stesso che al pensiero vien dato come ciò che deve essere pensato, che è la verità dell‟Essere. [...] esprimendo il pensiero in tal modo la Verità dell‟Essere, esso si è affidato a ciò che è più essenziale di tutti i valori e di ogni essente»145.

Che spazio resta al “trascendente” in questo pensiero, circoscritto nei suoi limiti, che il pensiero stesso non può o non vuole oltrepassare, perché se li è imposti da sé più che trovati o imposti da altri? C‟è la possibilità di un trascendersi in questa discesa dell‟esistenza umana, dell‟uomo «smarrito nella sfera della soggettività»? C‟è, nella misura in cui il restare il più vicino possibile all‟Essere nella sua verità ci consenta di cogliere il fatto che «l‟Essere è il trascendente per eccellenza»146. Vale a dire: è nel profondo della nostra esistenza (è il senso dell‟Esistere) e nonostante ciò è trascendente (è il senso dell‟Essere).

Qui si affaccia, insistente e tormentato, il motivo del passaggio, o della fuga del divino, ciò che noi chiameremmo l’inafferrabile transito dell’Ulteriorità. Intanto possiamo dire che ciò che ci colpisce è la comune sorte alla quale l‟esistenza e la Trascendenza sono sottoposte: il passaggio. Sembrerebbe che il divino, o, “gli dei” siano sempre in fuga (secondo la terminologia di

142 Ivi. 143 Ivi. 144 Ivi, 121. 145 Ivi, 122. 146 È ciò che si trova già in Sein und Zeit: “Sein ist das transcendens schlechtin” (§7). L'edizione tedesca da noi citata riporta

un'annotazione del manoscritto dell'autore: “Transcendens freilich nicht - trotz alles meta-physischen Anklangs - scholastisch

und griechisch-platonisch koivnovn (koinòn), sondern Transzendenz als das Ekstatische - Zeitlichkeit - Temporalität; aber

'Horizont'! Seyn hat Seyendes 'überdacht'. Transzendenz aber von Wahrheit des Seyns her: das Ereignis (M. HEIDEGGER, Sein

und Zeit, cit., 440). Traduzione: «Trascendente certamente non come scolastico e greco-platonico koivnovn (koinòn) – nonostante

ogni sua assonanza metafisica – bensì trascendenza come l’estatico – Temporalità; ma ‘orizzonte’. L’Essere ha ‘ripensato’ [oppure ricoperto]

l’ente. Trascendenza, ma a partire dalla verità dell’Essere: l’evento».

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Heidegger, che riprende temi e lessico classico). Sono in fuga come gli umani. Perché mai? Attingendo alla poesia di Hölderlin147, Heidegger, si dedica a considerare il passaggio di Dio, dopo aver precedentemente analizzato quello dell‟uomo in Sein und Zeit. Se l‟esistenza risulta inevitabilmente come un Essere-ora, cioè come un essere in questo momento che cammina verso il momento successivo, ciò non annulla, ma solleva il problema del valore della ripresa (in tedesco la Wiederholung). La ripresa non è ripetizione del passato, che non può darsi, ma piuttosto attestazione di un passaggio, nel senso che non si restituisce, ma si sottrae nuovamente qualcosa, un nuovo sottrarre (wieder-holen) e un nuovo sottrarsi.

Nel suo inarrestabile avanzamento verso la sua fine (che realizza la potenzialità del morire, la possibilità che fa da sfondo a tutte le altre possibilità) l’essere che esiste qui e ora si sottrae e risulta di passaggio, il suo avanzamento diventa fuga. Ma proprio in questo suo fuggire intercetta un altro fuggire, quello del divino. Anche Dio passa e noi esistenti lo incontriamo di sfuggita. Appena lo intravediamo, egli è già passato davanti e ci volta le spalle148. Qui però avviene una sorta di inattesa comunicazione tra l‟umano e il divino, perché da Hölderlin Heidegger recepisce un altro pensiero inquietante e suggestivo: il bisogno che Dio ha degli uomini per conoscere l‟abisso, perché proprio gli uomini raggiungono più rapidamente e più profondamente l‟abisso149.

In questo nuovo rapporto tra i mortali e gli dei, l‟ultimo divino è colto nella sua essenza, non più come permanente eternità, bensì come passaggio. Attraverso lo stato del passaggio, della transitorietà, sembra di capire che al divino appartenga anche la morte, il prendere congedo, come il venire e l‟andare.

Ci chiediamo quale sia, nella concezione generale di Heidegger, l‟approdo di questo incontro seppure fugace tra l‟essere umano e il Divino che passa. Se la religione, pur senza usare questo termine si va connotando come incontro di soggetti che passano, il divino appare ancora nel suo doppio carattere di colui che si dà e colui che si sottrae. È però solo un‟intuizione che non sarà sviluppata150. Così come non sarà ulteriormente approfondita l‟intuizione, mediata ancora una volta dalla filosofia greca, che anche l‟etica non è altro che il soggiorno della divinità nell‟uomo

147 Friedrich Hölderlin poeta tedesco (1770-1843) il cui referente principale è costituito dalla Grecia classica, ripresa nei

termini del mito estetico ed etico. In lui affiora l'intento di una sintesi tra natura e spirito, pur nella recezione di ciò che l'anima

greca aveva di più tipico: il senso tragico del fato. Tra le sue opere sono ricordati scritti in poesia, come Lamento di Menone per

Diotima (1798), L’unico (1801), Patmos (1801-1802), Il Reno (1802) e scritti in prosa come il romanzo epistolare Iperione (1787-1799)

e il dramma incompiuto La morte di Empedocle (1797-1799). 148 Si possono qui cogliere, di sfuggita, allusioni teologiche, che partono dalla impossibilità di vedere il volto di Dio dopo il

peccato delle origini (secondo l'interpretazione di Martin Lutero di Gen 3), come pure il fatto che nei racconti biblici l'uomo

incontra Dio sempre di sfuggita e senza mai poterlo trattenere. Di Dio si può cogliere il passaggio, udirne la voce, ma non si può

scorgene l'aspetto . Così, ad esempio, in 1Re 19,11.12-13: «Ecco il Signore passò... Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore

non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si

fermò all'ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: "Che fai qui, Elia?"». Dio non si può contenere (Cf. 1Re 8,27

«Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io

ho costruita!»; cf. anche Is 66,1; Ger 23,24; At 7,49; At 17,24). Dio non si può trattenere (cf. Lc 4,42-43: «Sul far del giorno uscì e si

recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e volevano trattenerlo perché non se ne andasse via da loro.

Egli però disse: “Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città”»; Gv 20,17: «Gesù le disse: "Non mi trattenere,

perché non sono ancora salito al Padre; ma và dai miei fratelli"»). 149 Cf. J-F. COURTINE, «Les traces...,».cit., 522-523, che spiega questo pensiero appoggiandosi alla considerazione che se i

mortali accettano la propria mortalità con serenità e consapevolezza superano anche gli immortali a motivo della conoscenza

che essi hanno della morte e della fine, insomma dell'abisso(Abgründlichkeit). 150 Così ritengono alcuni commentatori che fanno riferimento alla Lettera sull'umanesimo di Heidegger. Cf. J. MÖLLER, “Il

problema di Dio nella storia del pensiero europeo”, in W. KERN, H. POTTMEYER, M. SECKLER (edd.) Corso di teologia fondamentale 1,

trattato sulla religione, cit., 104-105.

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e nelle cose e pertanto nell‟essere. Heidegger vi arriva ripescando l‟etimologia dell‟ethos come soggiorno151. A questo riguardo riferisce un aneddoto su Eraclito152, raccontato da Aristotele. Una folla di visitatori venuti da lontano vuole incontrare Eraclito, ritenuto grande maestro di sapienza. Gli ammiratori non possono nascondere il disorientamento allorquando, finalmente riescono a trovarlo, non però, come si aspettavano, tra i libri o assorto in meditazione, ma davanti a un forno, dove si cuoce il pane. Il filosofo è lì e si riscalda «e tradisce, con ciò, a quel posto abbastanza banale, tutta l‟indigenza della sua vita», annota Heidegger, pensando forse alla povertà del Dasein153. Cosa succede allora? Eraclito legge lo smarrimento sui loro volti e li invita ad entrare, aggiungendo questo motivo, che è anche una testimonianza religiosa: «venite perché anche qui ci sono gli dei».

L‟espressione sembra accorciare ancora di più la distanza che passa tra l‟essere finito e il divino. Tuttavia, anche questa volta, è solo un‟intuizione di passaggio. Simili tematizzazioni religiose controbilanciano in Heidegger la sua riluttanza a trattarla in maniera filosofica154. In ciò egli è più che deciso e prende lo spunto dall‟affermazione di Paolo di Tarso: «Dove [è] mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» (1Cor 1,20)155. Che cosa resta dunque al pensatore per cogliere il passaggio del divino? Resta la via dell‟intuizione poetica, la stessa attraverso la quale si coglie il sacro e attraverso di esso una via di salvezza per l‟uomo della tecnica156.

2.6. La religione e le sue due “fonti”

In epoca più recente il filosofo J. Derrida157, con una particolare lettura del secondo Heidegger, ha presentato un interessante visione della religione. È accaduto nel contesto di un seminario filosofico tenuto a Capri158, al quale ha partecipato anche Hans Georg Gadamer159.

J. Derrida muove da alcuni studi linguistici, per annotare che nella lingua indeuropea non si trova un termine comune per la “religione” e che la stessa natura della nozione in gioco non ne consente una denominazione unica e costante160. Non accetta il suggerimento di ricorrere allo studio dei due termini latino e greco (religio = scrupolo, ritegno e thēskeia = culto, pietà) come

151 hjvqo" ajnqrwv?pw/ daijmon, cioè «il soggiorno (familiare) dell'uomo è l'apertura in cui si fa presente l'essenza divina (il

prodigioso)» - traduce Heidegger [«Lettera su l'Umanesimo», in M. HEIDEGGER, Che cos'è la metafisica? (con estratti della «Lettera

su l'Umanesimo»), cit., 124-125]. 152 Eraclito di Efeso filosofo greco (ca. 520-ca. 460 a. C.), che nel suo scritto Sulla natura indica nel fuoco il principio del tutto

e contro gli Eleati sostenitori dell'essere immutabile, afferma la realtà di ogni cosa nel divenire. 153 Il racconto è nella Lettera sull'umanesimo, cf. M. HEIDEGGER, Che cos'è la metafisica? (con estratti della "Lettera su

l'Umanesimo"), cit., 124-125. 154 Su questo punto cf. anche l'opinione, che non ci sentiamo di condividere in pieno, di chi ritiene che Heidegger rifiuti

esplicitamente Dio e non abbia compiuto nessun passo significativo verso di lui: E. CORETH,«Fuga o avvento degli Dei? Sulla

questione di Dio in Martin Heidegger», in Rassegna di teologia (1996) 581-595. 155 È questa una delle affermazioni cardini del breve scritto di M. HEIDEGGER, Fenomenologia e teologia, La Nuova Italia,

Firenze 1974 (originale del 1969). 156 Cf. U. REGINA, Heidegger. Esistenza e Sacro, Morcelliana, Brescia 1974. 157 Jacques Derrida filosofo francese (nato il 1930, vivente). Opera principale: La scrittura e la differenza (1967). Partendo

dall‟analisi di M. Heidegger, ha sostenuto l‟impraticabilità del linguaggio come via per conoscere l‟essere perché questo è

‟differenza‟ rispetto a qualunque forma individuale. 158 Il seminario si è svolto a Capri il 28/2 e 1/3/1994, con la presenza di alcuni cultori di filosofia, i cui contributi sono stati

raccolti nel volume: J. DERRIDA - G. VATTIMO (a cura di), La religione, Laterza, Bari 1995. 159 Hans Georg Gadamer, filosofo tedesco (nato il 1900). Allievo, oltre che di Nathorp, anche di Heidegger. È famoso per

aver approfondito a livello sistematico l‟ermeneutica storica. L'opera più importante è Verità e metodo (1960). 160 Cf. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Minuit, Paris 1996.

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base per riferimenti concettuali simili nelle altre lingue. Indica, al contrario, come pericolosa la «mondialatinizzazione della religione», cioè l‟applicazione a livello mondiale di una modalità di intendere la religione culturalmente limitata a una precisa area regionale. Propone una descrizione della religione come un‟ellisse con due fuochi distinti. Il primo riguarda la “credenza”, con le sue filiazioni etimologiche: fiducia, fondatezza, confidenza, credito, fede, “buona fede del tutt’altro” nell‟esperienza della testimonianza. Il secondo è l‟esperienza del sacro, come sacralità, santità, ciò che è indenne cioè sano e salvo (da cui il termine tedesco heilig e quello inglese holy).

In ogni caso, Derrida raccomanda di non applicare indiscriminatamente il termine religione, anche perché nello stesso mondo indoeuropeo ciò che noi indichiamo con “religione” non era un‟istituzione separata. Ammettendo che qualcosa si possa ancora affermare della locuzione “religione”, l‟autore sembra propendere, verso ciò che Heidegger avrebbe indicato come ritegno, un arrestarsi (Verhaltenheit), per designare «il rispetto, la responsabilità della ripetizione nel pegno della decisione o dell‟affermazione (re-legere) che si lega a se stessa per legarsi all‟altro»161. Intorno a questo concetto ammette che si potrebbe ritrovare una sorta di «universalità esistenziale”, perché esso indica un atteggiamento di natura più universale, sulla cui base è potuta avvenire la «mondialatinizzazione» della religione162. Dalle sue due ultime “fonti”, che sono la fiducia, in quanto credito all‟altro e la sacralità come indennità, la religione fa affiorare così il valore della testimonianza, un valore che la filosofia non può ignorare, né tralasciare. Non solo perché è un referente continuo anche in quei filosofi che, come Heidegger, hanno dichiarato che non ci può essere “filosofia della religione”, ma anche perché ogni riflessione sul conoscere e sul sapere non può di fatto scavalcare la testimonianza stessa163.

La compresenza delle “due fonti” della religione è, infine per Derrida, la garanzia e la minaccia della religione stessa. Se la religione fosse fiducia e basta rischierebbe sempre di diventare fanatismo, fondamentalismo, violenza perpetrata in nome di Dio. Violenza che si autogiustifica e che porta la morte. Ciò purtroppo è avvenuto e avviene quando la religione non è controbilanciata dall‟altra sua fonte che è la sacralità della vita, la difesa di ciò che è indenne, l‟arrestarsi dell‟uomo alle soglie di ciò che lo supera e lo trascende, di cui egli non dispone, né potrà mai disporre. Se fosse solo sacralità, la religione rischierebbe ugualmente deformazioni strutturali che finirebbero con lo svuotarla di ogni valore e di ogni impegno reale.

2.7. Valore e limiti del «ritorno del religioso»

G. Vattimo, che ha curato lo stesso convegno e gli atti ai quali stiamo facendo riferimento, considera il «ritorno del religioso», che aveva motivato il simposio, sotto la caratteristica non dell‟esodo, ma del ritorno. Attribuisce un certo ritorno della religione alle crisi suscitate dal dominio della tecnica, dalla paura per il futuro del pianeta e dalla perdita del senso della vita. Il ritorno sarebbe oggi facilitato a livello teorico dalla «caduta degli interdetti filosofici contro la religione», ma in ogni caso sarebbe il frutto di un totale disincanto sulle promesse di una

161 J. DERRIDA - G. VATTIMO, La religione, cit., 18. 162 Ivi 55s. 163«Nella testimonianza, la verità è promessa di là da ogni prova, da ogni percezione, da ogni dimostrazione intuitiva.

Anche se mento spergiuro [...] prometto la verità e domando all'altro di credere all'altro che sono, là dove sono il solo a poter

testimoniare [...] Sarebbe come dire: credi a ciò che ti dico come si crede a un miracolo. [...] L'attestazione pura, se c'è, appartiene

all'esperienza della fede e del miracolo. Implicata in ogni "legame sociale", nel più ordinario, si rende indispensabile tanto alla

Scienza quanto alla Filosofia e alla Religione» (J. DERRIDA, «Fede e sapere. Le due fonti della "religione" ai limiti della semplice

ragione», in J. DERRIDA - G. VATTIMO, La religione, cit., 70-71).

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modernità, che invece aumenta la noia del vivere e non il senso di appagamento dell‟uomo. In questo modo si farebbe strada un nuovo «fondazionismo», come egli lo chiama: cioè una ripresa della tendenza a dare un fondamento a tutte le cose, sì da accettare l‟ipotesi «troppo estrema» di Dio, come la riteneva Nietzsche. Ma ciò costituisce un reale avanzamento dell‟essere umano nel dispiegamento della sua storicità? E soprattutto può costituire la religione? Un‟impostazione del genere, si chiede Vattimo, sarebbe solo un ripiego. Con esso l‟umanità rischierebbe di condannarsi a ciò che lo stesso Nietzsche riteneva la schiavitù nella quale l‟uomo ricade allorquando non accetta la sfida dell‟oltreumanità, quella del super-uomo come uomo capace di superarsi continuamente?

Vattimo prende posizione contro una simile lettura. Egli ritiene che se il ritorno della religione fosse solo una reazione alla situazione attuale caotica, alla quale il dispiegamento della tecnica sembra condannare l‟uomo moderno, ciò sarebbe negativo anche per la religione stessa. Innanzi tutto perché la religione ha una suo valore propositivo e non solo reattivo, e in, secondo luogo, perché, secondo la lezione di Heidegger, bisogna partire dall‟Essere così come questi è oggi. Il suo essere-qui è ad una fase dello sviluppo della tecnica che non può essere vissuto in maniera catastrofica. È la condizione dell‟uomo contemporaneo e non deve essere né scavalcata, né ignorata. Heidegger scorgeva nella tecnica la condizione reale dell‟essere oggi e pensava, come abbiamo visto, che attraverso l‟intuizione poetica, si potesse percorrere una qualche via di salvezza. Vattimo annoda il suo pensiero a quello di Heidegger, aggiungendo:

«Guardare alla tecnica sapendo che l‟essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico - come Heidegger ammonisce sempre di nuovo - e cioè vederla come l‟estremo punto di arrivo della metafisica e dell‟oblio dell‟essere nel pensiero del fondamento, significa appunto disporsi a oltrepassare la metafisica attraverso un ascolto non reattivo del destino tecnico dell‟essere stesso»164.

Di sfuggita, annotiamo, però, che pur accettando l‟intento a non precludere la possibilità di salvezza dell‟essere che vive in un mondo tecnicizzato, l‟analisi dell‟uomo moderno dalla quale si parte non ci convince del tutto. Si parla intanto dell‟uomo moderno come se la tecnica fosse a disposizione di tutti gli uomini della terra. Ciò non corrisponde alla realtà, come anche il fatto che l‟uomo sia ormai arrivato a un punto di sviluppo tecnico dal quale non è più possibile recedere. Ci domandiamo, a nostra volta: L‟essere che si esprime nella tecnica è davvero tutto l‟essere umano? E più esattamente: Si tratta di tutti gli esseri umani? Una lettura come quella di Heidegger presuppone evidentemente: 1) che il dispiegamento della storicità dell‟essere umano sulla terra sia un fatto comunque positivo e foriero di salvezza oltre che di caos; 2) che l‟impiego sempre più generalizzato della tecnica costituisca l‟evoluzione dell‟umanità in quanto tale; 3) che l‟esperienza religiosa di popoli non coinvolti in questo processo storico (che non sono pochi, né i più marginali) sia da assimilare a quella ricerca di fondazione (fondazionismo) giocata dalla metafisica nel mondo occidentale. Ma tutto ciò evidentemente non ha un riscontro univoco. Né possiamo continuare a pensare, alquanto mitologicamente, al «progresso tecnico» del nostro mondo europeo come progresso di tutta l‟umanità. Tutto ciò ha per conseguenza che alcune analisi dell‟«eclissi del sacro» prima e del «ritorno del sacro» adesso non valgono evidentemente per tutti i popoli e per tutti gli uomini che sono sulla terra. Ciò che sembra piuttosto vero, anche se inquietante, è che il dominio economico e tecnico di una parte dell‟umanità (quella occidentale) abbia causato e continui a causare disastri notevoli anche sui popoli che vivono lontano dall‟Europa. Ciò ha una ben grave conseguenza, nota Gadamer, che aggiunge:

164 G. VATTIMO, «La traccia della traccia«, in J. DERRIDA - G. VATTIMO, La religione, cit. 79.

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«il potere distruttivo che è stato posto nelle mani degli uomini dalla tecnica, dalla tecnica bellica in generale e da quella atomica in particolare, ha per la prima volta reso attuale il problema dell‟umanità, cioè la questione della sopravvivenza dell‟umanità su questo pianeta»165.

Che cosa concludere? Gadamer aggiunge al problema della paventata morte dell‟umanità quello della morte personale di ogni uomo. Gli sembra che entrambi costituiscano una sfida che rimandi verso un ulteriore senso e tutto ciò riapre la possibilità della religione sia come apertura al tema della redenzione, sia al tema del dialogo interreligioso su scala planetaria.

2.8. L’«eventualità della incarnazione di Dio»

Il contributo di Gadamer, che chiude gli interventi dei filosofi della religione al convegno di Capri, fa spesso riferimento anche al contributo di G. Vattimo. Gadamer concorda con lui sul fatto che proprio oggi, grazie alla dissoluzione delle «metanarrazioni metafisiche» del passato, si sono aperte possibilità inedite di interpretazione per la religione stessa, che non cade più sotto la critica del razionalismo illuminista. Sono possibilità nuove che fanno cogliere nella religione una positività in termini non di pura e semplice fuga dal mondo moderno, ma in quelli di una nuova interpretazione della stessa religione. Proprio la religione deve essere colta nonostante, anzi attraverso il riferimento religioso a una «fattualità originaria, eventualmente leggibile come creaturalità e dipendenza»166.

Se delle precauzioni metodologiche sono ancora indispensabili, esse riguardano, secondo Vattimo, due rischi simmetrici: ritenere la storia umana solo una parentesi, oppure interpretarla come un momento di prova, predella di lancio per il salto nella trascendenza. Secondo Vattimo correrebbero questo rischio il pensiero di Lévinas e Derrida. L‟altro pericolo paventato è valutare la storia umana come unica realtà che si autogiustifichi da sola. Una tale idea sarebbe una ripresa dell‟idealismo e potrebbe essere riassunta nella formula: «la storia del mondo è il tribunale del mondo». Contro tali pericoli di involuzione della religione, l‟autore avanza una proposta alla quale dovremo certamente ritornare: quella di recepire i reali bisogni “religiosi” dell‟uomo moderno, tra i quali il bisogno del perdono (più che del senso di colpa), un bisogno legato all‟avvertenza della propria limitatezza creaturale, ma anche un bisogno di un approfondimento di una “metafisica” non più oggettivistica, ma della soggettività umana, da cui discende, tra i segni di questo nostro tempo, il mutato atteggiamento verso la rivelazione cristiana, fino a parlare di una «plausibilità dell‟incarnazione di Dio», e quindi del Dio trinitario. Il filosofo constata:

«Se il Dio che la filosofia ritrova è solo il Dio padre, si fa poca strada oltre il pensiero metafisico del fondamento - e anzi, forse si fa qualche passo indietro».

Per aggiungere, spiegando:

«Quella eventualità radicale dell‟essere che il pensiero post-metafisico incontra nel suo sforzo di liberarsi dalla cogenza del semplicemente presente non si lascia comprendere solo alla luce della creaturalità, che resta nell‟orizzonte di una religiosità “naturale”, strutturale, pensata in termini essenzialistici. Solo alla luce della dottrina cristiana dell‟incarnazione del figlio di Dio sembra possibile, per la filosofia, concepirsi come lettura dei segni dei tempi senza che ciò si riduca a una pura registrazione passiva del corso dei tempi»167.

165 H. G. GADAMER, «La religione e le religioni», in J. DERRIDA - G. VATTIMO, La religione, cit. 201. 166 G. VATTIMO, «La traccia della traccia»,. in J. DERRIDA - G. VATTIMO, La religione, cit., 88. 167 Ivi.

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La conclusione? L‟ammissione che l‟epoca che chiamiamo post-metafisica non esclude Dio, ma anzi sembra quasi lo richieda, oggi più di prima:

«L‟oltrepassamento della metafisica, in altre parole, non può accadere che come nichilismo. Il senso del nichilismo, però, se non deve a sua volta risolversi in una metafisica del nulla come sarebbe se si immaginasse un processo in cui alla fine l‟essere non è e il non-essere, il nulla, è non può che pensarsi come un indefinito processo di riduzione, assottigliamento, indebolimento»168.

Vattimo si spinge oltre, affacciando la domanda se oggi la filosofia, diventata interpretazione, non debba prendere coscienza del valore che abbia anche per essa l‟idea religiosa dell'«incarnazione di Dio» nella storia:

«Sarebbe pensabile un tale pensiero fuori dall‟orizzonte dell‟incarnazione? È forse questa la domanda decisiva a cui l‟ermeneutica di oggi, se vuole davvero procedere a via aperta dall‟appello di Heidegger a rammemorare l‟essere (e cioè l‟Ereignis), deve cercare di rispondere»169.

È di certo una prospettiva nuova, che raccoglie la sfida che nasce dalla religione come domanda che resiste a tutte le riduzioni teoriche tentate dagli autori che l‟hanno considerata illusione o autoinvenzione della psiche umana. La religione infatti non può essere spiegata da prospettive che le sono esterne, in nome di una razionalità che si arroga il diritto di sindacarne non tanto la natura, ma l‟origine, come se si trattasse di una devianza da una pretesa razionalità che la ragione fissa da sola, immotivatamente e preventivamente170.

Ma ciò può significare all‟opposto che il «ritorno del religioso» divenga premessa o pretesto per rifondare metafisicamente ciò di cui parlano la religione e la teologia? In altre parole: tutto ciò che stiamo dicendo mira a dimostrare l‟esistenza di ciò che la religione afferma, cioè gli oggetti ai quali fa riferimento? Certamente no. Anche perché tali “oggetti” non sono né univoci, né i medesimi. Quando infatti parliamo di ciò che la religione formalizza come contenuti della sua credenza, dobbiamo per forza di cose riferirci non alla religione, e nemmeno più all‟esperienza religiosa come esperienza dell‟Ulteriorità, ma alle religioni con le loro diversità consistenti appunto nella differente oggettivazione o formalizzazione di quest‟unica esperienza che è al fondo di tutte.

In esse si tratta di un solo Dio o di più divinità, di un principio unico e totalizzante, immanente nel mondo o di più spiriti che interagiscono con la vita umana sulla terra, della singolarità di un‟unica anima limitatamente allo stesso ed unico corpo o della reincarnazione della stessa anima in più corpi, della remunerazione dopo la morte o del ritorno al “tutto”, che è il “nulla” di tutto ciò che scintilla sotto i nostri occhi mortali, di formulazioni di dottrine, alle quali sono da aggiungere un‟infinità di riti e di visioni culturali del mondo. Sono tutte queste differenziazioni notevoli, da tenere nel debito conto. Ma sono anche sintomo di una sostanziale polivalenza non già dell‟esperienza religiosa in sé, ma delle forme oggettive e formali che le diverse religioni assumono.

Se è vero che la religione è ciò che sempre precede questo processo di diversificazioni del rapporto con l‟Ulteriorità, è ugualmente importante considerare sempre la fragilità, e quindi

168 Ivi, 89. 169 Ivi. 170 Questa risposta alla filosofia del sospetto è avallata dall'interessante osservazione di chi non solo la formula in termini

simili, ma cerca anche di individuare piste nuove per un rinnovato spirito religioso, che porti unità e pace al mondo intero. Cf.

E.TRIAS, La edad del espírito, Destino, Barcellona 19953. L'accenno è alla «religione dello spirito» profetizzata dall'abate

Gioacchino da Fiore nel XII secolo. Cf., anche E.TRIAS, «Pensare la religione (il simbolo e il sacro)», in J. DERRIDA - G. VATTIMO, La

religione, cit., 91-107.

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anche la pericolosità di accentuazioni particolari di alcuni aspetti culturali attraverso i quali la religione passa.

Arrivati a questo punto, la riflessione filosofica mostra i suoi limiti. Forse non può nemmeno essere altrimenti ed è anche giusto che sia così. Come vedremo, la ragione non può che indicare l‟ultimo sentiero razionalmente percorribile. Essa addita il punto oltre il quale, il sentiero s‟interrompe, come del resto anche gli altri sentieri, che in un modo o un altro partivano da essa. La filosofia potrà, non di meno, come sembra abbia cominciato a fare, sollevare questioni più generali che la ragione lascia irrisolte, ma che reclamano una qualche soluzione. Ma qui inizia un altro modo di procedere. Quello più direttamente teologico. Di una teologia, è vero, che è ancora quella dei fondamenti e che proprio per questo raccoglie quelle sfide e addita le convergenze con ciò che la religione offre. Per ora a noi interessa aver fatto notare come oggi una certa riflessione filosofica, aprendosi verso una sorta di plausibilità della religione, additi qualche convergenza proprio la dove il suo cammino s‟interrompe e quello della teologia inizia.

Ciò riguarda il riferimento alla questione del senso tanto dell‟esistenza umana che dell‟umanità nel suo insieme, ma riguarda anche e soprattutto il valore del rapporto che l‟uomo avverte di fronte all‟Ulteriorità, che reclama accoglienza avente valore di assoluto. In questo passaggio dalla via filosofica a quella teologica occorre sempre ripartire dalla convinzione che proprio la religione offre una sintesi tale di conoscenza e un quadro globale di riferimenti, da poter diventare luogo e strumento di dialogo. Ciò richiede una particolare forma di vigilanza intellettuale, al fine di individuare e superare la sempre incombente minaccia del fondamentalismo, dovuto al sempre latente assolutismo che si annida nello stesso concetto di Assoluto171.

Tuttavia l‟Assoluto richiama, come vedremo, a una particolare forma di vigilanza, perché esso sia salvaguardato come tale, cioè come realtà che abbraccia ogni altra realtà, che giudica e non si lascia giudicare, che guida e non si lascia guidare. Paradossalmente l‟Assoluto, ritenuto giudizio di ogni religione e di ogni sua interpretazione, costituisce il migliore antidoto al fondamentalismo (che è invece la sua strumentalizzazione a scopi umani e contingenti). Se la religione è il rapporto con l‟Alterità e l‟Ulteriorità avente valore assoluto, il sacro può essere ancora considerato il modo umano di recepire tale rapporto, così come è emerso dalla fenomenologia delle religioni. È però garante di quell‟Ulteriorità alla quale fa riferimento e che resiste ad ogni logorio storico e concettuale. L‟essere umano che interagisce con tale Ulteriorità avente carattere di Assoluto vive la sua esperienza come coinvolgimento e come resa; come adesione, oltre che come devozione. In qualche maniera la vive come amore (come re-eligere). L‟amore caratterizza una realtà che non è semplicemente scrupolo e osservanza cultuale (relegere), ma è anche sentirsi legati alla stessa Ulteriorità, così come ci si sente legati a tutti e al tutto (religari). Con queste caratteristiche la religione non è soltanto religione. Ciò forse spiega anche perché delle sue tre radici etimologiche, solo la prima (l‟osservanza cultuale) è ritenuta più attendibile. Le altre due si ritrovano però più sottintese che espresse. Sono tuttavia presenti, almeno allo stato latente. Sono comunque appannaggio sicuro di ciò che non è solo pura e semplice religione, ma di ciò che, teologicamente parlando, indichiamo anche come fede.

171 «La religione è oggi un luogo essenziale per gli incontri e per le pratiche degli uomini, in riferimento al sacro e al divino

[...] Luogo d‟incontro e luogo di pratica diretta verso il meglio, la religione resta una realtà incessantemente mutevole, sempre

ripresa, sempre modificata. Il discorso religioso cerca di affermare meglio le basi della fede che gli uomini tendono a conservarsi

gli uni per gli altri. Ma ci saranno sempre degli individui che parleranno per respingere la fede degli altri e rivendicare il diritto

alla differenza. Il discorso religioso deve dunque costantemente riprendere il suo lavoro tra gli uomini ammettendo il

pluralismo delle scelte accolte e vissute» (M. DESPLAND, voce Religione in: Grande dizionario ..., cit., 1744).

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2.9. Teologia delle religioni e teologia della religione

2.9.1. Il cristianesimo è una religione?

La domanda finora sempre rimandata, ma che risulta ineludibile è se il cristianesimo sia una religione. In caso affermativo, fino a che punto può essere ritenuta tale e da che punto in poi cessa di essere una pura e semplice religione alla stregua delle altre. Alcuni decenni fa lo statunitense J. Cobb annotava che per la gente comune, almeno nei paesi di lingua inglese, la domanda era inutile, dal momento che tutti ritenevano il cristianesimo una religione. In realtà gli americani vanno ancora oltre e lo ritengono la religione172. Il teologo informava anche che negli ambienti di studio, invece, la parola religione aveva cominciato a differenziarsi dal cristianesimo, perché indicava religioni molteplici e diverse. In qualche caso si era all‟opposto: c‟era un totale abbandono del cristianesimo dallo studio delle religioni, al punto che in alcuni piani di studio universitari questo era assorbito dalla denominazione di “teologia” e di “teologico”, mentre veniva estromesso da tutto ciò che concerneva le religioni e il religioso.

Se le cose restano così, si verifica tuttavia un inconveniente: il fatto che, rigorosamente parlando, non si potrebbe dare altra teologia al di fuori del cristianesimo. Ora invece se per teologia si intende una riflessione sulla propria fede, anche altre religioni riflettono sulla propria esperienza religiosa, sulle modalità per aderirvi e sulle caratteristiche che la contraddistinguono da altre esperienze simili. In questi casi si dovrebbe poter applicare anche per loro il termine “teologia”, sì da parlare di una teologia islamica, buddhista ecc. Non è sempre così, o, almeno, non tutti sono d‟accordo su questo punto. Anche per questo motivo, alcuni ordinamenti di studi superiori, preferiscono parlare, ad esempio, di “studi islamici”, di “religioni dell‟estremo oriente” e simili, applicando la locuzione “teologia” solo all‟esposizione della teologia cristiana.

Che cosa concludere? Quale posizione risulta più convincente? La risposta dipende dall‟esito della prima questione: se cioè e fino a che punto il cristianesimo sia una religione. Ed inoltre dall‟altro quesito conseguente al primo: Che cosa i cristiani hanno risposto a questa domanda? Nel mondo antico sembra che il problema non sia stato nemmeno sollevato, perché sembrava ovvio che il cristianesimo fosse una religione, anzi la vera religione. Nella migliore delle ipotesi si giudicavano le altre religioni erronee. Di solito si ritenevano del tutto false, sicché le religioni “pagane” le sole allora conosciute, erano “superstizioni”, e quindi di per sé non meritevoli di essere chiamate religioni. Ciò scaturiva, come accennato, anche dalle diverse etimologie, dalle quali si cercava di cogliere dati validi che si pensava di poter rinvenire solo nel cristianesimo.

Non è solo la posizione di padri come Lattanzio e Agostino, ma anche quella di teologi più recenti, fino ad arrivare a un teologo della statura di J. H. Newman. Il teologo inglese, tuttavia, rivisitò e corresse il tradizionale giudizio negativo sulle “altre religioni”, partendo da un afflato ecumenico, prima ancora che l‟ecumenismo si affermasse come specifico movimento di attenzione verso le religioni (dialogo interreligioso) e di riavvicinamento tra le diverse chiese cristiane (le cosiddette confessioni cristiane). Egli seppe scorgere un anelito di fondo nelle altre religioni, che ritenne fossero tutte riconducibili all‟adorazione dell‟unicità di Dio. Intravide questo movimento di orientamento verso l‟unico Dio anche nelle religioni pagane, evidenziando in esse un‟offerta della salvezza da parte di Dio. Anche tali religioni sono per Newman «vera religione, [sebbene] in uno stato danneggiato». E il cristianesimo? Non ci sono dubbi che sia una religione, anzi «la vera religione, vivente e compiuta». E l‟ebraismo? È a maggior ragione «vera

172 J. COBB, «Il cristianesimo è una religione?» in Concilium 16 (1980/6) 21-37 [955-971].

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religione [che però si è] estinta»173. Si è estinta nel senso che la sua preparazione al cristianesimo è già compiuta, non nel senso che Dio abbia ripudiato il suo popolo eletto. Al contrario, nell‟ebraismo occorre riconoscere una vera e propria “chiesa”, che, senza fratture di continuità, arriva a realizzarsi pienamente nella chiesa di Cristo.

Gli autori più rappresentativi della teologia (come del resto anche della filosofia) tedesca contemporanei di Newman non solo accettavano che il cristianesimo fosse una religione, ma cercavano di dimostrarne l‟eccellenza e la realizzazione di ciò che di meglio si poteva cogliere come anelito e indirizzo di fondo in tutte le altre. Corrispondono a nomi che ricompariranno nel nostro studio, come Hegel, Schleiermacher, Troeltsch e Otto e che sono anche quelli più noti nel campo della riflessione sui rapporti tra religione e fede cristiana.

In epoca a noi più vicina, si assiste a un fenomeno, ancora una volta apparentemente paradossale: da un lato, si promuove il dialogo interreligioso e si riconosce il valore di molti suoi elementi; dall‟altro, si accentua la linea di demarcazione tra religione e fede, al punto che alcuni, soprattutto in campo protestante, rifiutano in blocco l‟applicazione della religione all‟evento cristiano, la cui caratteristica principale, se non esclusiva è considerata la fede. Ciò distinguerebbe nettamente il cristianesimo non solo dalle altre religioni, ma dalla religione in quanto tale. Sono gli autori che si rifanno alla cosiddetta «Teologia dialettica» come Barth, Bultmann e altri, ma anche autori con una spiccata e particolarissima fisionomia teologica, come Bonhoeffer. Non sono nemmeno da dimenticare altri che antecedentemente a loro avevano già delimitato gli spazi tra l‟una e l‟altra, come, ad esempio M. Scheler174. In ogni caso la loro posizione si potrebbe sintetizzare dicendo che il cristianesimo non è una religione, anzi segna la fine della stessa religione.

Suonano particolarmente drastiche alcune frasi di Barth, come questa:

«Alla luce della rivelazione appare chiaramente che la religione è il tentativo umano di prevenire quel che Dio vuol fare e fa nella sua rivelazione, è il tentativo di mettere al posto dell‟opera di Dio una costruzione umana, sostituendo alla realtà divina che si dà e si manifesta per noi nella rivelazione, un‟immagine di Dio prodotta dall‟arbitrio e dalla fantasia degli uomini»175.

Il fondatore della Teologia dialettica arriva ad ipotizzare che la religione sia confinante con la stessa incredulità o con l‟ateismo:

«La religione è incredulità; la religione è un interesse, anzi si deve addirittura dire che è l‟interesse per eccellenza dell‟uomo ateo»176.

A scanso di equivoci, l‟autore precisa che ciò che egli ripudia è il concetto di religione in quanto sforzo umano che fa leva sulle sue forze per arrivare a Dio, aggiungendo che la sua tesi

«non contiene una valutazione scientifica o filosofica derivante da qualche pregiudizio negativo circa l‟essenza della religione. Essa non è diretta soltanto contro gli altri, con la loro religione, ma anche e soprattutto contro noi stessi che siamo seguaci della religione cristiana. Essa formula il giudizio della rivelazione divina su tutte le religioni»177.

173 Cf. la raccolta di testi a noi nota in tedesco come: J. H. NEWMAN, Die Kirche II, Einsiedeln 1945, 184. 174 Sulla questione cf. L. BORDIGNON, «Il cristianesimo è una religione» in: CredereOggi 1 (1981/1) 75-84. 175 K. BARTH, Dogmatica ecclesiale. Antologia a cura di Helmut Gollwitzer, Dehoniane, Bologna, 1980, 47 [I/2,329]). 176 Ivi, 47-48 [I/2,327]). 177 Ivi.

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L‟intento del teologo evangelico è chiaro e nelle sue linee generali è condivisibile: occorre salvaguardare il carattere gratuito e trascendente dell‟intervento di Dio nella storia. Barth non vuole perciò denigrare i valori umani e tutto ciò che di vero, di buono e di valido si può scoprire nelle religioni. Ciò che egli contesta è una sorta di «tentativo impotente eppure ostinato, arrogante eppur vano» che l‟uomo, a suo dire, intraprenderebbe con la religione, per procurarsi «la conoscenza della verità e di Dio che egli può avere solo a patto che Dio stesso gliela dia»178.

D‟accordo: «a patto che Dio gliela dia». Ora si dà il caso che Dio voglia darla, seppure in maniera da noi non controllabile, a tutti, anche servendosi delle religioni. È forse impossibile dal punto di vista logico o dal punto di vista teologico? Non sembra. Certamente sarebbe grave errore credere che ogni qualvolta l‟uomo avverta una sorta di appello da oltre la sua esistenza, quell‟appello sia dovuto alle sue forze. Nulla impedisce di credere che Dio chiami ogni uomo da quella regione esistenziale che è in se stessi ma che proviene da oltre se stessi (dimensione personale della religione). È presente inoltre nel vivere in relazione a una comunità, ma viene da ben oltre la propria dimensione collettiva e culturale (dimensione sociale della religione). È teologicamente sostenibile che Dio chiami gratuitamente e liberamente a un‟apertura di senso della propria esperienza di vita. Egli di fatto chiama attraverso la religione, a partire da essa, ma certamente al di là di essa. Rivolge il suo appello anche al di fuori della stessa religione (cioè senza bisogno di una religione che sia riconosciuta o che si riconosca espressamente come tale).

Qualcuno potrebbe domandare: L‟appello della trascendenza non è esso stesso la religione? O meglio: La struttura portante dell‟esperienza religiosa, dalla quale nasce la religione, non consiste tutta in quest‟appello vicino e lontano del cuore dell‟uomo, cioè dentro di sé, ma che trascina lontano da sé? Dalla nostra riflessione dovrebbe ormai essere emersa questa interpretazione. La nostra stessa nozione di religione, già formulata alla fine del capitolo precedente, parte da tale esperienza fondamentale. Solo che una tale affermazione sull‟esperienza religiosa, come appello e credito che trascendono l‟ordinarietà umana, sembra prestare il fianco a un‟obiezione di non poco conto: renderebbe irriconoscibile gli atti “religiosi” dagli altri atti umani. A questa difficoltà, che è stata più volte formulata anche alla posizione di K. Rahner179, cercheremo di rispondere con l‟indicazione di qualcosa di specifico nella struttura fondamentale dell‟atto religioso. È ciò che contraddistingue il momento religioso, che allora diventa occasione ed evento di Trascendenza, ma proprio perché tale, sebbene sia alla base della religione, non si identifica del tutto con essa.

Per quale ragione? Rifacciamo un pezzo di cammino a ritroso. Siamo partiti dalla domanda se il cristianesimo sia una religione. La risposta non può essere espressa con un semplice sì o con un semplice no. Così come non si può rispondere con una semplice affermazione alla domanda se la religione sia non solo distinta, ma completamente separata dalla fede. Una cosa sembra però essere diventata più chiara: che comunque la si affronti, la risposta alla questione se il cristianesimo sia una religione dipende dall‟altra che chiede se e fino a che punto la religione sia anche fede.

2.9.2. Fede e religione

Occorre dire che dopo le radicalizzazioni della teologia dialettica, il giudizio della teologia sulla religione è diventato più equilibrato anche nel mondo evangelico. Si ammette che occorre

178 [I/2,330] (Ivi 49). 179 Così, ad esempio, si ritrova in R. SCHAEFFLER, «Verso un concetto filosofico della religione», in W. KERN, H. POTTMEYER,

M. SECKLER (edd.) Corso di teologia fondamentale 1, trattato sulla religione, cit., 71-72.

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sempre essere vigilanti contro il costante pericolo di confondere la religione con una sorta di dispositivo magico con cui l‟uomo possa pervenire al “soprannaturale” e disporne per i suoi interessi. Tale pericolo, al quale si arriva spesso più inconsciamente che volontariamente, è insito in ogni religione, inclusa quella cristiana. Tuttavia, evitando un tale scadimento, non sembra negativo, ma anzi fondamentale nella religione il moto interiore (“religioso”) che porta l‟uomo ad uscire da se stesso e ad andare incontro a Dio. Si dirà che ciò sfocia nella fede e quindi c‟è già un superamento della religione in quanto tale. Ma, chi può escludere che tale moto di autotrascendimento non sia costitutivo proprio della religione, e quindi sia anche fede, sempre che sia accettato in libertà come risposta a un “Tu” che ci chiama? Una simile ipotesi, che noi condividiamo, avvicina un teologo cattolico come K. Rahner a un teologo evangelico quale W. Pannenberg. La posizione di Rahner è stata già illustrata. Pannenberg, in posizione completamente opposta alla teologia dialettica, ammette:

«La religione, che eleva gli esseri umani oltre la finitudine degli scopi verso cui essi tendono, può costituire il punto di partenza per la santificazione della vita in tutti i suoi aspetti»180.

Ma ciò significa che fede e religione, sebbene siano teologicamente due dati completamente diversi (la fede è dono di Dio, che viene dall’alto, la religione è il modo umano di corrispondere a Dio che chiama), nella vita reale dell‟uomo storico sono realtà distinte, ma non separate. La religione e la fede sono collegate entrambe al moto discendente di Dio che interpella, ma sono anche egualmente coinvolte come dinamismo non meramente ascensionale dell‟uomo che arriva arbitrariamente a Dio, ma come risposta a lui che spinge a forzare i limiti della propria finitudine. Solo partendo da questo contesto complesso e vitale, non scomponibile in compartimenti stagno, si comprendono anche le parole di un altro teologo cattolico, H. Fries, che afferma:

«La religione (...) deve il suo alto significato teologico al fatto che l‟uomo religioso è il destinatario della rivelazione e che a questo titolo egli partecipa al suo compimento e svolgimento; di fatto nessuna rivelazione può „essere accolta‟ senza religione. Da questo punto di vista è impossibile affermare che la religione deve essere chiamata religione falsa, una volta che la rivelazione si sia attuata e sia quindi riconosciuta come la vera religione»181.

Ciò viene a confermare l‟unità esistente tra l‟ordine della rivelazione (secondo il progetto e l‟agire storico di Dio) e l‟ordine storico della realtà creaturale umana (l‟apertura dell‟uomo al Dio che si rivela). L‟essere umano, secondo quest‟interpretazione teologica che anche noi condividiamo, con i suoi tentativi, talora maldestri, ma non per nulla irrilevanti, di “dare forma” alla sua apertura verso Dio, cerca di assecondare l‟appello alla fede, che Dio non fa mancare né ai singoli, né ai popoli.

Che cosa sono allora le religioni? Sono delle vie verso Dio. Ma sono vie tracciate dall‟uomo? Sono tracciate dall‟uomo per ciò che riguarda i percorsi, gli attraversamenti e i diversi stazionamenti per i quali l‟uomo, di solito in compagnia del suo popolo, cammina. Sono però tutte un tentativo di risposta all‟impulso a mettersi in cammino, che lo stesso creatore, attraverso il suo Spirito, che riempie l‟universo, suscita in ogni esistenza umana. Se le vie sono “realizzazioni” umane, l‟impulso a camminare e la direzione da intraprendere sono segnate da

,180 W. PANNENBERG, Antropologia in prospettiva teologica, Queriniana, Brescia 1983, 553. 181 H. FRIES, «Religione», in: Dizionario teologico, Queriniana 1977 (3.a), 104.

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Dio. Il cammino dell‟uomo, di tutti gli uomini, attraverso le religioni, risponde comunque a un bisogno di incontrare Colui che si è messo per primo in cammino verso gli uomini182.

Una simile posizione ci permette di rispondere anche alla domanda se e fino a che punto la religione inglobi la fede. Da quanto è stato detto dovrebbe risultare evidente che sarebbe un errore separare completamente la religione dalla fede. Il rapporto tra religione e fede può essere infatti paragonato a quello che intercorre tra le religioni e la religione. La religione è ciò che accomuna gli approcci al sacro, come risposta all‟approccio fondamentale del “sacro”, ma non si può separare questo nocciolo dalle religioni. Si può solo arrivare ad astrazioni e ad ipotesi. In maniera analoga, sebbene la fede sia diversa dalla religione e dalle religioni, essa è di norma in un involucro religioso. Ciò vuol dire che se la religione tocca l‟uomo ed esprime gli aspetti multiformi della sua vita e delle sue origini, anche la fede che passa attraverso di essa è impregnata di “umanità”, non dell‟umanità in astratto, ma dell‟uomo che prega e si interroga, progetta e si arrende, lavora e fa festa, cerca l‟amore e soffre la solitudine, nasce e muore. Lo spessore antropologico della fede non può essere mai messo da parte, anzi costituisce la risposta che l‟uomo dà con dedizione e amore al richiamo delle sue origini e della sua meta. La fede, pur provenendo, secondo la visione cristiana, sempre da Dio, prende forma e viene vissuta come dimensione dell‟uomo.

È una prospettiva dialogica e antropologica nello stesso tempo. Apre al rapporto con le altre religioni, cogliendo in esse tutto il loro valore e soprattutto, come vedremo che farà il Concilio Vaticano II, sa indicare la risposta a una duplice serie di appelli: quelli che salgono dal cuore umano e quelli che nascono dall‟avvertenza di una «forza arcana che è presente nel corso delle cose e degli avvenimenti della vita umana»183. Assecondare una tale avvertenza, dedicando risorse, tempo e, in definitiva, la propria vita, a questo “Tu” oscuro ed impellente che chiama non è più solo religione, ma è fede. Senza quest‟atto fondamentale di dedizione (che assume le forme religiose che conosciamo, come la venerazione, l‟adorazione, il sacrificio, il superamento del proprio io, ecc.) non ci sarebbe né la religione, in quanto rapporto con l‟Ulteriorità, né le religioni storiche, che, anche per il Concilio, sono connesse con le differenti forme culturali, espressive e congeniali ai vari popoli184.

2.9.3. Punti di contatto tra teologia, religione e fede

Al punto in cui siamo si sollevano almeno due questioni, alle quali dobbiamo dare ancora una risposta. La prima riguarda la distinzione da tracciare tra l‟atto religioso specifico e gli altri atti umani che, secondo Rahner, per lo stesso fatto di essere espressioni della nostra costituzione creaturale, sono sempre un‟apertura alla trascendenza e quindi a Dio. La seconda si può così formulare: La nostra valutazione sul valore della religione e sul suo rapporto con la fede appartiene ancora alla scienza delle religioni, oppure è oggetto di qualche altra disciplina? In altre parole: dove sono i limiti della scienza delle religioni e che cosa può giustificare il loro oltrepassamento? Cominciando dalla seconda domanda, diremo che l‟analisi condotta in questi ultimi punti, e in genere in questo capitolo, appartiene solo parzialmente ad una scienza delle

182 Nella conclusione del già citato articolo di J. Cobb si propone di utilizzare la parola "vie" anziché religioni, vedendo in

tutte le religioni delle strade, tra le quali, come approfondiremo in seguito, brilla e dà valore a tutte le altre la via di Cristo, anzi

la Via che è Cristo (cf. Gv. 14,6: «Gli disse Gesù: "Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di

me"»). 183 NA 2 EV/1 856. 184 NA, ivi.

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religioni nel senso tradizionale della parola, cioè a quella scienza che rincorra il puro e semplice metodo fenomenologico e si limiti ad esso.

Per una scienza siffatta, presentando le forme e le strutture delle diverse religioni, si può al più arrivare alla struttura fondamentale della religione, come quella del rapporto dell‟uomo con “uno o più esseri extraterreni”, ma ci si dovrà fermare qui. Noi abbiamo ritenuto di andare oltre. Abbiamo aperto la nostra “scienza delle religioni” al problema di una valutazione “teologica” del religioso in quanto tale. Abbiamo fatto menzione della rivelazione e del valore salvifico delle stesse religioni ed infine, siamo ricorsi alla dottrina affermata da un avvenimento tipicamente ecclesiale e cattolico, come il Concilio Vaticano II. Per tutte queste ragioni la nostra potrebbe essere chiamata una scienza delle religioni di stampo cattolico. Potrebbe essere e ciò non dovrebbe costituire un particolare problema, perché anche se dovesse apparire confessionale e di parte, ci sembra che essa non tenda ad escludere, ma piuttosto ad includere valore e struttura delle altre religioni e qualsiasi tentativo umano di corrispondere al venire di Dio verso di noi.

Certamente in ciò che andiamo dicendo ci sono sconfinamenti in temi che più che alla scienza fenomenologica delle religioni appartengono alla teologia delle religioni. Diciamo allora che nel nostro caso noi vi facciamo un doveroso riferimento per almeno due motivi, che giustificano questa nostra scelta.

Il primo è di natura ancora prettamente scientifico-descrittiva: informa come la teologia cattolica valuta le religioni e cosa ritiene della religione. Il secondo riguarda la nostra concezione della scienza. Questa non deve necessariamente essere positivistica, né restare ferma a ciò che ha pensato di essere già in antecedenza. Proprio lo sviluppo del nostro tema, così come è venuto dipanandosi, sembra confermare che anche un‟altra accezione della scienza è possibile: quella di un sapere che non si chiude ad alcuna forma di sapere, nemmeno al sapere teologico, che è certamente un sapere credente, ma è pur sempre un sapere. Per ciò che ci riguarda, la nostra indagine cerca di restare ancora al di qua di questo sapere, perché si colloca nel contesto dell‟elaborazione dei fondamenti che preludano a quel sapere, senza essere ancora quello stesso sapere.

Ma ciò significa non ricorrere ad argomenti presi dal mondo della fede, anche se non si escludono per principio, né si potrebbero, da parte di un indagatore “credente”. Qualcosa di simile accade per la critica storica su Gesù. Credere in lui non significa inficiare le prove storiche relative alla sua esistenza né abbassare il livello della discussione critica sulla sua storicità. Nella nostra scienza delle religioni, vogliamo pertanto informare su ciò che altre discipline affermano sulle religioni stesse. Ciò riguarda anche la teologia, che per molteplici motivi presenta una particolare attiguità con le scienze che studiano le religioni, anche se presenta una sua tipicità e, come si dice, un suo statuto epistemologico.

Il problema che qui affiora è ora di quale teologia parliamo, vale a dire se ci sia una sola teologia o se ogni religione ne abbia una propria. Il problema è se e fino a che punto la teologia in genere sia “onnicomprensiva” nel senso che abbracci qualsiasi “teologia” o se le distinzioni tra le diverse “teologie” siano tali e tante da non lasciarsi inglobare in una simile definizione. Si potrebbe immediatamente rispondere che se ogni scienza ha il diritto-dovere di definire se stessa, la teologia non fa eccezione e pertanto non si lascia definire da altri, ma si dà una sua caratterizzazione e un suo ambito di ricerca. Ne deriva che se la teologia cristiana si autodefinisce in relazione alla fede cristiana, ciò non esclude per principio che altre religioni

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possano produrre una loro autonoma “teologia”. Nonostante ciò, ogni teologia tende per sua natura a dare un giudizio teologico sulle altre.

Un‟altra questione, collegata alla precedente, riguarda il rapporto tra scienze non teologiche e teologia. Può qualsiasi scienza non teologica che si riferisca alle religioni dare un giudizio sulla teologia o sulle diverse teologie? Detto in altre parole, quale legittimità le scienze non teologiche riconoscono alla teologia e alle teologie? La risposta dipende dalla prospettiva di fondo assunta da una qualsiasi scienza che si riferisca alla religione. Se essa pur restando, come è giusto, nell‟ambito delle manifestazioni religiose, cioè del sacro, lascia aperta la possibilità del discorso sull‟Assoluto, accetterà che la teologia si auto-determini e si dia il suo statuto epistemologico. Se, al contrario, nega tale possibilità, riterrà la teologia pura e semplice mitologia, anche se più raffinata.

Qui si dimostra, ancora una volta, come la scienza non possa dirimere scientificamente il problema delle sue opzioni di fondo, giacché queste le sono previe. L‟opzione dell‟apertura di credito all‟Assoluto determina pertanto il campo delle scienze della religione. Compiuta l‟opzione di non invadere un terreno che non è di propria pertinenza, queste scienze accetteranno che la teologia si dia un suo statuto e che, dal suo versante, dica cos‟è la religione in relazione alla percezione del sacro e alla sussistenza dell‟Assoluto.

Il problema si sposta sul valore della religione per la teologia. La domanda riceve risposte diverse, a seconda di cosa si intenda qui per “teologia”. Si sente infatti oggi sempre più frequentemente parlare di “teologia musulmana”, “teologia induista”, “teologia buddista”, ecc. In conclusione, se per teologia si intende il livello di riflessione cui può e deve aspirare ogni religione sui propri dati di base, il concetto di religione per ogni singola “teologia” varia al variare delle religioni trattate. Ciò non elimina, ma rende più urgente la ricerca su che cosa accomuni le religioni, dal loro versante teologico e se ci sia tra loro un minimo denominatore.

La nostra teologia cristiana (cattolica ed evangelica) ha comunque in parte sviluppato e per buona parte va sviluppando il proprio punto di vista sulle diverse religioni e sul proprio modo di confrontarsi con esse. Più recentemente ha iniziato anche un dialogo con le scienze che studiano la religione e/o le religioni185. Per ciò che ci tocca più da vicino, occorre intanto una maggiore chiarezza sui punti comuni e sui punti di divergenza riguardanti la teologia e la scienza delle religioni, nel cui contesto vanno riconsiderate anche le altre scienze che se ne interessano. Per chiarezza possiamo raccogliere sotto alcuni titoli ciò che le riguarda rispetto ai soggetti, al rapporto con l‟Ulteriorità, alle manifestazioni delle religioni e agli elementi essenziali per entrambe.

I soggetti studiati dalla scienza delle religioni sono i medesimi della teologia: l‟essere umano e ciò che lo trascende, l‟Ulteriorità e l‟uomo. Sono entrambi essenziali per la teologia cristiana che considera la rivelazione storica di Dio all‟uomo e le modalità con le quali si instaura il rapporto tra i due. Sono ugualmente essenziali per ogni religione e per le discipline che le studiano, perché senza l‟Ulteriorità e senza uomo che ad essa si riferisce, non sarebbero nemmeno pensabili. Il rapporto tra Dio e l’uomo è pertanto ugualmente fondamentale per entrambe. Nelle religioni e nella scienza che se ne occupa si tratta del rapporto tra ciò che è avvertito come

185 Cf. la riflessione che ha impegnato L'Associazione Teologica Italiana, in preparazione del congresso tenuto a Troina (EN)

tra l'8 e il 12 settembre 1997 e che sia in quell'occasione, che nei convegni preparatori, ha visto impegnati in un fruttuoso dialogo

teologici e studiosi della religione. Cf. la ricostruzione e la valutazione di questo itinerario in P. CODA , «Significato e obiettivo di

un percorso di ricerca», IN ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Cristianesimo, religione, e religioni, cit., 17-42.

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“sacro” e il soggetto uomo che ne resta condizionato in varie maniere. Per la teologia tale rapporto assume la connotazione della comunicazione di un mistero che svela il mistero umano, mentre svela il mistero di Dio. Le manifestazioni, che tale rapporto assume non sono irrilevanti per la teologia. Specificamente quella cattolica, riflettendo sulla rivelazione del mistero di Dio, considera le forme storiche del rapporto con il sacro come «un avviamento pedagogicamente valido verso il vero Dio o una preparazione al Vangelo»186. Gli elementi essenziali della religione (colti a partire dalle diverse religioni) tornano, infine, sia in generale, che in trattazioni specifiche particolari, anche nella teologia. Sono, ad esempio, il peccato e la salvezza, la comunione, il sacrificio e l‟espiazione, la contemplazione e le norme morali, la remunerazione e il valore dell‟uomo e del mondo. Essi, ed altri temi simili, sono non solo comuni, ma fondamentali, sia per le religioni che per la teologia.

L‟affermazione di tutti questi punti di contatto non deve indurre in errore. Per il positivista, che ritiene inesistente ed impossibile che esista ciò che va oltre l‟oggetto della sperimentazione, tali convergenze sarebbero la prova che la teologia non è altro che lo stadio più evoluto della religione. Sarebbe soltanto l‟accezione più dotta delle credenze popolari e superstiziose. La teologia sarebbe solo il rivestimento di tale sistema mitico primordiale con una patina di scientificità e di dottrina più elevata. Sicché ogni religione ha la sua teologia in quanto organizzazione più sistematica delle sue credenze di base e come giustificazione ultima delle sue pratiche rituali.

Del resto, anche per lo studioso delle religioni che non è positivista, la teologia può essere e sovente è così intesa: come organizzazione, a un livello dottrinale superiore, di tutto ciò che costituisce la materia della religione popolare, alla quale ci si riferisce. Se ciò potrebbe al più valere per la teologia in genere, noi però qui ci occupiamo di quella riflessione teologica che si occupa specificamente della religione e delle religioni. Ciò la distingue dalla scienza delle religioni e ne fa una “teologia delle religioni”, oppure una “teologia della religione”, ma con due significati e con due intenti diversi.

La scienza delle religioni, quale quella che stiamo tentando di costruire, ci informa anche su questa diversità. La teologia delle religioni infatti sembrerebbe avere per oggetto le religioni, per ciò che concerne il loro valore e il loro significato teologico. Per intenderci, ciò succede in quella parte della teologia che si interroga sul rapporto che la fede cristiana ha con le altre religioni, sul modo con cui esse possano riferirsi allo stesso Dio creduto dai cristiani e su che cosa la rivelazione cristiana ritenga delle religioni diverse dalla propria. Infine, la teologia delle religioni può e deve sollevare l‟interrogativo accennato se la fede cristiana sia una religione oppure ne segni la fine. Tutto ciò si può opportunamente chiamare “teologia delle religioni”, ma è ancora diverso da quella che potrebbe essere una “teologia della religione”.

La prima dizione, nota anche nella variante di “teologia della storia delle religioni”187 sembra ormai abbastanza affermata, la seconda invece è quella che è a noi più vicina, è collegata alla scienza delle religioni, ma si distingue da essa perché va ovviamente oltre la scienza fenomenologica delle religioni, pur configurandosi come una sorta di cerniera tra la riflessione filosofica e la teologia. Cerca infatti di cogliere, da un lato, il valore della religione come realtà antropologica e di recepire in questo valore una sorta di apertura di credito verso la teologia vera e propria. Può indagare sulla contiguità che la religione, in quanto esperienza religiosa,

186 AG 3 EV/1 1092. 187 Cf. M. SECKLER, «Il concetto teologico di religione», in W. KERN, H. POTTMEYER, M. SECKLER (edd.), Corso di teologia

fondamentale 1, trattato sulla religione, cit., 203-228, particolarmente p. 204ss: «Teologia delle religioni?».

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abbia con la fede e persino ravvisare il valore salvifico di un‟apertura verso Dio realizzata con slancio e con disinteresse. È ciò che ritroviamo in autori che si sono occupati dell‟agire autotrascendente dell‟uomo come agire religioso. La loro può essere, a ragione avveduta, considerarsi una teologia della religione.

2.9.4. Dimensione esistenziale della religione

Con ciò siamo arrivati anche alla seconda questione. Ci chiediamo: Se una concezione della religione come quella suddetta è valida, come possiamo distinguere gli atti religiosi dalle altre esperienze umane, in cui l‟uomo coglie la sua Trascendenza? C‟è qualcosa di religioso, riconosciuto esplicitamente come tale o non è tutto il vivere umano una religione? È una domanda impegnativa alla quale si deve dare una risposta accurata, se non si vuole correre il rischio di svilire la religione al puro e semplice vivere o esaltare ogni atto del vivere ad atto religioso. Intanto sembra che si postuli una doverosa distinzione tra la vita e la religione e tuttavia appare subito evidente che si deve trattare anche qui di una distinzione e non di una separazione, pena ridurre la religione a un‟attività esterna all‟uomo, abbandonandola a una sorta di ritualità che prelude a ciò che da tante parti, e soprattutto dalla profezia, è rinfacciato come cultualismo e persino ipocrisia.

Come impostare correttamente il problema, salvaguardando la sincerità dell‟atto religioso (attraverso il suo costante riferimento alla vita) e riconoscendo la tipicità della religione (in qualcosa che, pur riferito alla vita, è distinto da essa)? Intanto si può asserire che se la vita non è religione in quanto vita, non c‟è religione autentica che non sia espressione della vita. Ciò rimanda ad un altro problema, che è previo a quello di cui ci stiamo occupando: se possa darsi una religiosità senza religione o, al contrario, una religione senza religiosità. Intendendo per religiosità il coinvolgimento esistenziale dell‟uomo fuori della ritualità e il sistema di credenze che esprime la religione, sembra ormai sotto gli occhi di tutti che, storicamente e concretamente parlando, si diano nel mondo di oggi non pochi casi di persone aventi una loro religiosità. Esse sono però refrattarie a una religione (come ad esempio quella tradizionale, dalla quale la loro religiosità muove, si difende e alla quali resta, sebbene debolmente, legata). Ci sono casi sempre più diffusi di religiosità senza chiesa e persino senza “religione”. Ciò appartiene al fenomeno tutto moderno della privatizzazione della fede, che fa dire oggi qualcosa di ancora più paradossale di ciò che si sentiva all‟inizio del secolo. Allora qualcuno affermava: «Sì a Cristo, no alla chiesa». Oggi l‟affermazione sembra essere «Sì alla religione, no a Dio». Ma sulla stessa linea non pochi sottoscriverebbero anche il motto: «Sì alla mia religiosità, no alla religione»188.

Che cosa costituisce allora la religione e il religioso, se questi sembrano addirittura potersi sdoppiare? Rispondiamo dicendo che la religiosità può essere considerata in due diverse accezioni: una negativa, l‟altra positiva. Quella negativa identifica la religiosità solo in un vago misticismo che fa ricorso a questa o quell‟altra sensazione “sopra-naturale”, come evasione dalla quotidianità o come soluzione straordinaria a problemi non risolvibili per via ordinaria. Su questo illusorio misticismo si innestano vere e proprie mistificazioni (maghi, fattucchieri, guaritori, veggenti) ed automistificazioni (falsificazione della coscienza di sé, in quanto ci si ritiene ispirati da Dio e depositari di messaggi “religiosi” o salvifici per gli altri). La religiosità in senso positivo è invece la capacità di aprire il proprio cuore con sincerità al di là di se stessi, ma non per ripiegarsi su forme autoreferenziali, ma piuttosto per scoprire il valore dell‟alterità

188 Su questo cf. H. VALDENFELSEN, Il fenomeno del cristianesimo. Una religione mondiale nel mondo delle religioni,

Queriniana, Brescia 1995, soprattutto pp. 55ss.

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(gli altri) e dell‟Ulteriorità (il Tutt’Altro che è Dio, incatturabile ed inimmaginabile). In che maniera tale religiosità diventa anche religione? Nel momento in cui si incontra con la religiosità degli altri. Ne accoglie e ne vive il valore comunitario, il confronto, la diversità e la precarietà. Non assolutizza la propria “religiosità”, ma rimette continuamente in questione la propria “centreità” per lasciare il centro al Dio della fede, che chiama continuamente ad uscire da se stessi e dai propri schemi, compresi quelli religiosi.

Sulla base di questa differenziazione, possiamo dire che non tutti gli atti umani sono religiosi, ma solo quelli che andando incontro all‟altro, che è il fratello, e al tutt‟Altro, che è Dio, ci dispongono a seguire le strade indicate da Dio. In questa maniera l‟uomo va incontro a Dio, cercandolo e assecondando i suoi impulsi che lo spingono ad uscire da sé.

2.10. La teologia e il controllo critico sulla religione

Se schematicamente abbiamo potuto raccogliere i punti di convergenza che interessano la religione e la teologia, non mancano punti di conflitto o almeno di discussione per ciò che riguarda la concezione generale dei soggetti in questione e dei metodi che sono in gioco nello stesso rapporto religioso.

La teologia può entrare in conflitto non con la religione in sé ma con le sue espressioni. In alcuni casi deve farlo. Il suo compito è non solo di riflessione sulla religione e su ciò che la caratterizza, ma è anche di vigilanza sulle manifestazioni che essa assume di volta in volta. Non sono pochi i casi di esperienza religiosa deteriorata da forme di superstizione e di magismo. La teologia dispone di qualcosa alla quale la religione facilmente si sottrae: il controllo critico ed autocritico. Se la religione continua ad alimentarsi esclusivamente da se stessa, corre il pericolo di scambiare le proprie rappresentazioni con quella stessa Ulteriorità, che di per sé non è né immaginabile né esprimibile. Può farsi un “dio” a suo uso e consumo. Può ritenerlo persino il suo difensore personale o il giustiziere del proprio gruppo. Il culto può essere vissuto in forme estreme, contrarie alle norme morali più elementari e persino ai sentimenti più naturali. In un culto che ritenga di dover offrire alla divinità il meglio di sé, sacrificando se stessi e persino ciò che umanamente sarebbe impossibile offrire (come ad esempio la vita umana di persone care) è diventato possibile offrire vittime umane e darsi la morte da soli. Come è potuto accadere? Non erano forse umanamente sensibili gli uomini che ritenevano che quella fosse la volontà divina? La verità è che non difettava la sensibilità, ma la capacità autocritica di giudicare alcune forme religiose come contrarie alla religione stessa.

La religione ha dunque bisogno della teologia, per avere quel controllo critico di cui non può disporre da sola. Certamente la teologia non è un tribunale supremo, nel senso che anch‟essa dipende da ciò che ritiene rivelazione di Dio. Ritiene però, sulla base della stessa rivelazione, che è lo stesso Dio che ha creato l‟uomo, la sua intelligenza e la capacità di interpretarne correttamente il messaggio. La teologia cristiana ha una rivelazione storica come sua ultima istanza e in essa anche la profezia come parte costitutiva di essa e suo discernimento. Ciò avviene anche nel caso della religione ebraica e islamica. Anche per queste religioni si adopera spesso la parola “teologia”. Per le altre religioni, invece, le cose sono più complesse. Non sempre è possibile rinvenire qualcosa di simile a ciò che si trova in queste religioni “storiche”. Ciò non significa che manchi del tutto un controllo autocritico, perché, come avremo modo di vedere successivamente, in ogni esperienza religiosa può affiorare - come talora è successo - ciò che a noi sembra un afflato “profetico”, ma che non sarebbe azzardato considerare una sorta di rivelazione particolare, con la quale l‟Ulteriorità difende la propria trascendenza.

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Anche religioni prive del concetto di una rivelazione storica hanno manifestato una capacità non solo di ripresa, ma anche di riforma. Di fronte ad alcune esasperazioni del cultualismo o anche contestando abusi commessi da coloro che si sono impossessati della religione per un uso strumentale, come è accaduto e accadde con il clericalismo, ci sono stati uomini che hanno protestato e persino riformato costumi e tradizioni, indicando la deviazione di quella religione dalle sue origini e dallo spirito genuino che la aveva generata. Che cosa significa tutto ciò? Per noi significa molto. È la riprova che al fondo di ogni esperienza religiosa c‟è un rapporto con quell‟Ulteriorità, che riesce ad emergere nella coscienza di singoli individui, anche se ciò significa mettersi contro le forme istituzionali che la religione di volta in volta ha assunto. Dovremo tornare su questo punto, ma intanto è necessario approfondire il valore e i limiti della critica della religione.

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Capitolo 3° La critica religiosa e le sue legittime pretese

3.1. La critica religiosa come momento indispensabile della religione

3.1.1. Non esiste religione senza vita

Possiamo prendere l‟avvio da un testo poetico e sapienziale nello stesso tempo, in cui appare la natura pervasiva della religione, vale a dire, la sua caratteristica di fenomeno che impregna l‟uomo e il suo ambito vitale. È la parte dedicata alla religione dal poeta K. Gibran, nel suo celebre testo Il Profeta. Nel lungo discorso di congedo dal popolo, presso il quale è vissuto, il profeta risponde ad un vecchio sacerdote, che gli aveva chiesto di indicare a tutti cosa fosse la religione. All‟inizio egli esprime una certa sorpresa per la domanda, perché ha già toccato temi come quelli dell‟amore, del lavoro, della preghiera, del dolore, dell‟abitazione, della famiglia (ed altri argomenti riguardanti tutti i diversi aspetti della vita). Gli sembra perciò di aver già indirettamente risposto a quella domanda. Interrogato ad esprimersi più direttamente sulla religione, egli comunque esclama:

«Oggi ho forse parlato d‟altro? Religione non è ogni azione e ogni riflessione, e ciò che non è azione e riflessione è una sorpresa e uno stupore che eternamente sgorgano nell‟anima, anche se le mani spaccano la pietra o tendono il telaio? Chi può mai separare la fede dai suoi atti e il suo credo dal suo lavoro?»189.

Il profeta afferma così il principio che la religione non si può, né si deve separare dalla vita. Ciò non è nuovo né per le religioni, né per la riflessione teologica sulla religione. Da tutto ciò che abbiamo finora asserito sulla struttura fondamentale della religione e sul suo rapporto con la teologia, dovrebbe essere un‟affermazione indiscutibile. La religione nasce dalla vita ed è per la vita. Il suo rapporto con l’Altro da sé e l’Ulteriore da sé è il rapporto con la sorgente della vita stessa. Ciò non significa però che nella concretezza storica assunta dalle differenti forme religiose questo principio sia sempre ottemperato. Di fatto le espressioni religiose che conosciamo hanno corso e corrono il rischio di perdere il legame con la vita, scadendo in forme quali il cultualismo, il fondamentalismo, lo spiritualismo e simili. Come già accennato, la teologia deve sempre vigilare a che ciò non accada, non in nome di una sua superiorità sulla religione (che in effetti non ha), ma per salvaguardare il valore della religione stessa, che può essere inquinata da fattori estrinseci alla sua natura.

Alla stessa stregua, e per una forza endogena insita nella stessa religione, la profezia costituisce la sentinella della purezza della religione. Non è un caso che a tracciare, seppure poeticamente, i rapporti tra religione e vita sia qui un “profeta”, uno dei tanti, che in un modo o in un altro, la religione riesce ad esprimere, come generandolo dal suo stesso grembo. Il profeta di Gibran completa così l‟enunciazione del suo principio:

«La vita quotidiana è il vostro tempio e la vostra religione. Ogni volta che vi entrate, portate voi stessi. Prendete l‟aratro e la fucina e il martello e il liuto,

189 K. GIBRAN, Il profeta, Guanda, Milano 1980, 125; le citazioni seguenti sono nelle pagine successive alla 125.

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le cose forgiate nel bisogno o nel diletto, poi che se meditate, non potrete elevarvi sopra la vostra gloria, né cadere più in basso delle vostre sconfitte».

La gloria e le sconfitte umane sono l‟orizzonte entro il quale riflessione e preghiera, vita e culto si possono estendere. Sono un atto non intimistico, non individualistico, ma un reale atto di comunione con gli altri, un aprirsi sempre ad una coralità di rapporti. Perciò il profeta prosegue:

«E prendete con voi tutti gli uomini, poi che se adorate non potrete volare più in alto delle loro speranze, né umiliarvi sotto la loro disperazione».

L‟adorazione, vero atto qualificante la religione, non vola davvero più in alto delle speranze, né può scendere più in basso della umana disperazione? Il senso di questi due ultimi versi non rinnega la trascendenza, ma sembra affermare la partecipazione sinfonica a quell‟unica vita che unisce l‟uomo alla sua trascendenza. Che sia così, lo dimostrano i versi seguenti, che sono un invito a cercare Dio nella natura e negli occhi degli uomini, soprattutto dei bambini, perché Dio non è un enigma, ma piuttosto “ciò” che si coglie in un palpito, in quanto fluisce, scorre nella vita, passa dentro l‟esistenza umana. La natura è il luogo dove egli manifesta la sua gloria, che si può avvertire nella straordinarietà di un arcobaleno, nella forza di un lampo, oppure nella delicatezza delle tenere foglie che tremolano sulle cime più alte degli alberi. Gibran esprime questo stesso pensiero:

«E se volete conoscere Dio, non siate solvitori d‟enigmi, piuttosto guardatevi intorno, e lo vedrete giocare con i vostri bambini. E guardate lo spazio; lo vedrete camminare sulla nube, tendere le braccia nel bagliore del lampo e scendere con la pioggia. Lo vedrete sorridere nei fiori, e sulle cime degli alberi sciogliere carezze».

La religione è la capacità di captare Dio attraverso la natura e in ogni manifestazione della vita. Ma Dio si identifica con la natura? È coestensivamente uguale alla vita? Certamente no. Altrimenti non sarebbe Dio. Non sarebbe più l‟Ulteriore che la natura e la vita possono solo indicare, ma non contenere. La poesia di K. Gibran rispetta ancora quest‟eccedenza del divino al di là della natura? Coglie ancora una trascendenza oltre l‟immanenza, pur suggestiva, attraverso la quale egli allude a Dio? Queste domande sono state sollevate e sono, a livello filosofico e teologico, più che legittime. Non ce ne occupiamo direttamente, almeno per adesso. Avremo modo di riparlarne, quando accenneremo a ciò che nel nostro strumentario concettuale (sempre di stampo filosofico occidentale) è stato chiamato “panteismo” e che significa “tutto è Dio”, perché ritiene divina la natura in quanto tale.

3.1.2. Stupore e capacità autocritica della religione

A noi interessa invece annotare il moto di stupore con il quale sempre la poesia accosta il divino, o, forse meglio, si sente accostata da esso. Ciò costituisce una sorta di autoimmunizzazione della poesia contro un panteismo nudo e crudo. Anche se le immagini alludono a identificazioni, è sempre da tener presente il ruolo della metafora nella poesia, la quale non si può, né si deve esprimere con l‟esattezza concettuale della riflessione teorica. Tale trasalimento dell‟animo, con il quale la poesia avverte il rapporto con il divino, fosse anche un incontro fugace tra sue realtà sfuggenti eppure legate l‟una all‟altra (l‟esistenza e ciò che la

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trascende), fa parte di quello stupore che, come abbiamo visto, è però l‟inizio della religione, non meno che della filosofia190. È proprio questo stupore l‟indice di una strutturale irriducibilità del Trascendente all‟immanente, del Divino all‟umano. Ma ciò ha anche come conseguenza che tale stupore è anche il segnale di una sempre insorgente protesta dell‟Ulteriorità contro le sue mistificazioni, attraverso le quali l‟uomo cerca di nasconderlo o di ammansirlo. La religione genera da se stessa una carica sovversiva contro tutte le riduzioni immanentistiche nella quali non solo una corrente filosofica (il panteismo), ma le stesse forme degenerative del rapporto con il sacro rischiano di farla cadere.

In questo contesto generale, ancora strettamente religioso, la profezia appare come forma di un permanente stupore dell‟uomo di fronte a ciò che lo trascende, ma anche - conseguentemente - come protesta verso tutti gli imbrigliamenti cultuali e talora clericali ai quali il trascendente va incontro. Profezia e teologia si incontrano qui su un comune terreno, che, a buon diritto, possiamo chiamare critica religiosa, non tanto perché è una critica che ha a che fare con la religione, ma perché è una forma autocritica che la religione, nel suo stato sempre nascente, esprime, per difendersi dalle sue contraffazioni e da tutte le eventuali strumentalizzazioni umane. La critica religiosa è, in definitiva, critica della religione in senso oggettivo (ha per oggetto le forme storiche della religione), ed è critica della religione in senso soggettivo (nel senso che è la religione stessa soggetto che critica le forme culturali delle quali è rivestita). Ma come esprime la religione questa sua peculiarità? In che forma esprime tale critica-autocritica? Attraverso la profezia e attraverso l‟analisi teologica.

3.1.3. Profezia e autocritica religiosa

Scorrendo le pagine degli studi di fenomenologia e di storia delle religioni, ci troviamo di fronte a una congerie di termini riconducibili a ciò che noi chiameremo dimensione profetica della religione. Il primo dei termini che la esprime è proprio la poesia191. Non può sfuggire a nessuno il fatto che, storicamente parlando, nelle religioni a noi note la profezia sconfini spesso con la poesia e viceversa. Inizialmente poeta e profeta si identificavano del tutto192, mentre nello sviluppo delle religioni, è molto frequente che i poeti siano anche profeti e che i vati di una religione siano anche aruspici, persone capaci di scrutare il presente, per cogliere al suo interno il futuro. Un altro termine che indica la carica profetica che si rinviene nelle religione è la funzione di “rappresentanza” assunta da coloro che parlano in nome di Dio e sotto l‟influsso della potenza divina. Ma ciò indica qualcosa di più di una semplice funzione, perché ogni altra manifestazione profetica ci sembra che possa sempre risalire a quest‟unica radice. La tipologia del profetismo è tuttavia molto complessa. Può interessare singole persone e per momenti limitati nel tempo (casi di profetismo sporadico), oppure può riguardare personalità dotate di un particolare carisma, che ne conservano una prerogativa duratura193.

Per il primo caso si può citare ciò che accade nel culto africano degli zâr (spiriti di saggi o di santi in genere già morti) in alcuni etiopi, dove ogni adepto può essere posseduto da uno spirito e parlare in suo nome. Per il secondo caso si tratta di un profetismo personale, la cui esperienza

190 Cf. L. BOTTANI, “Thaumázein e philosophein”, in Religioni e Società 7 (1992) 67-76. 191 Per un'introduzione ai complessi e affascinanti rapporti tra religione e poesia, cf. H. KÜNG - W. JENS, Poesia e religione,

Marietti, Genova 1989. 192 Valga per tutti l'asserzione perentoria di un maestro della fenomenologia della religione: «In origine poeta e profeta

erano una cosa sola; Platone chiama i poeti pieni del dio e li assimila ai recitatori di oracoli» (G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia

della religione, cit., § 27, p. 179). 193 A. DI NOLA, “profeti e profetismo”, in Enciclopedia delle Religioni 4, Vallecchi, Firenze 1972, 1853-1903.

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passa in genere almeno attraverso questi momenti: la chiamata, l‟intermediazione tra la divinità e la comunità, l‟utilizzo di strumenti di comunicazione (come la predicazione o l‟annuncio attraverso gesti particolari), il richiamo fatto a nome della divinità. Quest‟ultimo elemento può sembrare assente in alcuni casi di profetismo anonimo, ma non lo è mai del tutto, perché anche negli spiriti o nella forza divina che muove il profeta si può scorgere un‟attività che riporta l‟uomo singolo o la comunità ad un suo ordine precedente. Nel caso degli sciamani194, ad esempio, l‟agire profetico tende a dare indicazioni utili per la vita o per determinate situazioni o al fine di interpretare alcuni fatti come benevolenza o collera degli spiriti.

Si riconosce in genere al profeta una sorta di funzione innovativa, se non rivoluzionaria, nella religione e nella società nella quale egli opera, tanto che

«a differenza del fondatore di una nuova religione (che può anche essere un profeta), egli tende ad abolire la normale e tradizionale funzione intermediatrice del re o del sacerdote o degli istituti sociali, e sostituire ad essa la sua funzione, e per di più in nome di un‟investitura ricevuta dallo stesso mondo divino su cui gli intermediatori ufficiali fondano il loro potere»195.

L‟osservazione sembra riferirsi prevalentemente ai profeti operanti nell‟ambito giudaico. Non è però da escludere anche in altri bacini culturali e religiosi. Il termine profeta, che trascrive il termine greco profētēs, significa “parlare innanzi”, nel senso principale di parlare per gli dei. Ma assume spesso le concrete caratteristiche di un parlare davanti agli altri, davanti al popolo o davanti agli uomini che contano, per contestare comportamenti o errori, ed anche parlare prima (nel senso di leggere nel futuro a partire da segni colti nel presente). Gli oracoli che così frequentemente troviamo nel mondo greco-romano attestano questi diversi sensi del parlare innanzi. Ciò giustifica anche il riconoscimento, in profeti dotati di un personale carisma, di una loro funzione essenziale nel fondare o riformare la tradizione religiosa di determinati popoli. In sintesi, sebbene il profetismo sia un fenomeno particolarmente complesso, basterà qui ricordare che alcuni riconoscono una fondamentale distinzione tra i profeti fondatori o riformatori delle religioni, come i profeti biblici, ed altri maestri iniziatori di tradizioni religiose, come succede con il buddhismo, il giainismo, il confucianesimo e il taoismo. Questi ultimi non sembrerebbero avere coscienza di una particolare missione divina, ma solo di una funzione pedagogica e filosofica: diffondere tra gli uomini una dottrina e una particolare disciplina che li aiuti «per affrontare i problemi religiosi»196.

Quest‟ultima è un‟idea che non ci sentiamo di condividere in pieno, per almeno due motivi di fondo: sembra insistere eccessivamente sulla concezione della religione come distinta dalla dottrina e pertanto rischia di escludere dal mondo religioso le religioni orientali summenzionate. La nostra concezione occidentale ci porta facilmente a distinguere, fino a separare la dottrina dalla religione e la fede dalla disciplina ascetica. Al punto che, come vedremo, il buddhismo stesso, è stato da non pochi considerato una filosofia e non una religione. Se però cerchiamo di immedesimarci nel contesto culturale in cui Buddha e gli altri maestri di pensiero hanno agito, ci risulterà non praticabile questa separazione. Tanto più che i

194 Lo sciamano (dal termine russo-tunguso šaman) è una figura che prevale nelle religioni della Siberia e dell'Asia centrale. È

una persona (può essere anche una donna) che vive fenomeni estatitici, grazie ai quali comunica con il divino (o gli spiriti), di

cui diventa intermediario. In forza di questa sua prerogativa può indicare agli altri ciò che gli altri ignorano tanto sulla divinità

che sugli avvenimenti della vita ordinaria o straordinaria. Può anche guarire o provocare sventure. Su questo fenomeno, i suoi

molteplici aspetti, le sue interessanti ritualità iniaziatiche e particolarità derivate dalle differenti aree geografiche, cf. M. ELIADE,

«Sciamanesimo» in Enciclopedia delle religioni (diretta da M. Eliade) 2, Jaka Book - Marzorati, Milano 1994, 541-564. . 195 A. DI NOLA, «profeti e profetismo», cit., 1855. 196 G. T. SCHEPPARD - W. E. HERBRECHTSMEIER, «Profezia», in Enciclopedia delle religioni (diretta da M. Eliade) 2, cit., 435-442.

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maestri ai quali si fa riferimento non hanno semplicemente insegnato come affrontare i problemi religiosi, ma piuttosto come pervenire a un senso della vita, liberandosi dai legacci che incatenano l‟uomo e gli impediscono di essere ciò che egli può divenire: un illuminato, appunto, un uomo che vive con consapevolezza e con disincanto la sua parte nel tutto e in questo tutto trovi il suo ruolo e la sua pace.

Per queste ragioni e in considerazione di tutto ciò che il profetismo ha significato e ancora significa nelle religioni, si può dare per confermata la nostra affermazione sulla natura della profezia come funzione immanente alla religione stessa, vale a dire come capacità di autocontrollo da parte della religione, e persino come capacità del divino di difendere le sue prerogative. In termini fenomenologici, si può concludere che la profezia sembra apparire, al pari della poesia, come una sorta di sentinella della genuinità della religione. Vigila affinché quella che abbiamo chiamata l‟Ulteriorità rimanga tale, anche a costo di mettersi contro re e governanti, contraddicendo, se necessario, pure sacerdoti e altre figure religiose ed istituzionali. Insomma sembra che la profezia disponga di un‟ultima autorevolezza, alla quale nessun potere terreno possa essere anteposto. Ciò non a beneficio del profeta, che di solito è inviso, perseguitato e talora ucciso, a motivo di questa sua prerogativa, ma solo a vantaggio della comunità alla quale il profeta si sente pienamente di appartenere e soprattutto a tutela dell‟Ulteriorità che è la forza irresistibile che genera la profezia e la tiene in vita. In quei casi in cui un profeta viene eliminato, la divinità ne susciterà un altro al suo posto e punirà severamente gli artefici di questo misfatto. Ciò che è fatto contro il profeta è compiuto contro la divinità stessa, in nome della quale egli sempre agisce e parla.

3.1.4. Profezia come contestazione delle forme religiose devianti

Il profetismo fiorisce in maniera del tutto particolare nell‟ebraismo, nel quale assume diverse forme. Di queste sono frequentemente ricordate la profezia e l‟apocalittica197. La prima è quella che già abbiamo abbozzato nei suoi momenti fondamentali. Tende ad una comunicazione immediata, con persone concrete e in un contesto storico preciso. Il termine tradotto con profeta è nàbhî’’, il cui significato sembra essere stato araldo, oratore di Dio. Ciò non esclude, ma piuttosto include altri significati, per così dire, integrativi, dai quali la parola sembra derivare. Una corrispondenza viene infatti segnalata nell‟accadico nabu (chiamare) e nell‟arabo naba’a, che significa proclamare, e nell‟etiopico nabàba, corrispondente a parlare198. La lingua biblica vetero-testamentaria conosce anche altri nomi, sebbene rari, per indicare il profeta. Due sembrano ricongiungere la profezia agli altri aspetti osservati presso gli altri popoli: rò’e, che significa veggente e hoze, che corrisponde a spettatore. Il profeta, secondo questa rapida ricostruzione lessicale, è colui che parla di ciò che vede e contempla. Per questa stessa ragione ha una funzione di richiamo.

A differenza dell‟apocalittica, che è un genere letterario riguardante la fine di un particolare mondo, il quale cede il posto al mondo che irrompe improvvisamente secondo il disegno di Dio, la profezia è invece lo strumento che la religione si dà per una sua rigenerazione dall‟interno. Come ciò sia possibile non spetta alla scienza delle religioni poterlo stabilire. Questa può solo rilevare che accade nella religione ciò che succede anche in fenomeni

197 Cf. a proposito, M. BUBER, «Profezia ed apocalitica», in ID., Profezia e politica. Sette saggi, Città Nuova, Roma 1996, 111-

128. 198 Cf. J. SCHILDENBERGER, «Profeta», in L. BALLARINI (a cura di), Dizionario di teologia biblica (diretto da J. Bauer), Morcelliana,

Brescia 1969; cf. anche G. SAVOCA, «Profezia», in P. ROSSANO - G. RAVASI - A. GHIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di teologia

biblica, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, 1232-1247.

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comprensivi di un ampio spettro dell‟esperienza umana. Capita, ad esempio, anche con l‟amore. Anch‟esso, al pari della religione, può attenuarsi e persino degenerare. Quando ciò succede, si mette in moto una sorta di protesta interna all‟amore stesso, che rende i soggetti consapevoli del suo deterioramento. Avviene una sorta di auto-richiamo, tanto che la gelosia, le forme possessive dell‟amore, come pure il cadere nella mediocrità e nell‟indifferenza reciproca provocano la consapevolezza che l‟amore non è proprio quello che si sta vivendo, ma che l‟amore vero si sta affievolendo o non c‟è più. Succede così anche con l‟arte, che ritrova da sé le risorse per protestare contro l‟abbrutimento dell‟uomo e contro la sua caduta in forme di vita superficiali e prosaiche. Ma in questo, come anche negli altri casi, si può cogliere la comune radice nella coscienza umana, che in forza di una risorsa autonoma approva o contesta l‟agire dell‟uomo. Quando l‟uomo compie determinati atti, la coscienza lo contesta come dalle sue “fondamenta”, senza doverne dare precise e argomentate ragioni.

La profezia, come la critica religiosa, è necessaria, perché la religione rischia non di rado di cadere in forme patologiche che travisano i suoi dati strutturali. Il suo riferimento all‟Assoluto può degenerare nel fanatismo e nella tirannia. Il fanatico, che trae la sua origine lessicale dal termine fanum, tempio, oppure da fari, parlare [si intende con parole sacre] è l‟invasato, perché ripieno di zelo. Lo è in maniera negativa, perché il suo eccesso non è giustificabile con il divino che asserisce di rappresentare. Il fanatismo appare infatti come intolleranza, dovuta a un fondamentale atteggiamento di non accettazione del diverso. Più che radicalità della religione, indica una sua patologia, perché tende ad utilizzarla e strumentalizzarla per un proprio progetto egemonico sugli altri.

Abbiamo già considerato i pericoli insiti in un‟esagerata importanza del culto. L‟abbiamo chiamato cultualismo. I profeti d‟Israele sono capofila di una critica religiosa spietata contro le degenerazioni cultuali di chi si è allontanato da Dio con il cuore e tenta di colmare tale lacuna attraverso la ripetizione di celebrazioni senza anima e senza autenticità.

Una pratica cultuale senza giustizia e senza misericordia è rigettata sia dall‟Antico che dal Nuovo Testamento. Di una rara efficacia sono le invettive di Amos, come questa:

«Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo» (Am 5,21-22).

Contro tali atti cultuali, prescritti in altri libri della Bibbia199, sta il fatto che essi talora diventano un alibi per trascurare la prassi della giustizia e della misericordia, che invece è la cosa più importante davanti a Dio. Egli stesso ingiunge al suo popolo il vero atto religioso, senza del quale tutto è esteriorità vuota: «piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come torrente perenne» (Am 5,24).

I richiami profetici non tendono all‟abolizione di qualsiasi culto e della religione. Vogliono, al contrario, riportare il culto alle sue vere origini: la pratica della giustizia e della misericordia, il servizio a Dio nella vita, oltre che nel tempio. Questo senza quello è inutile e persino dannoso, anzi provoca la reazione di Dio. Anche Gesù è sintonizzato con il cuore della legge, della torah, quando, ad esempio, afferma:

«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell‟anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose

199 Cfr., ad esempio, ciò che scrive a riguardo il Levitico, che prescrive norme minuziose per la celebrazione delle feste (Lv

23; 25) e per l'offerta dei sacrifici (Lv 1-7).

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bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!» (Mt 23,23-24)200.

Gesù raccoglie e radicalizza tutta la tradizione profetica, mostrando l‟irrilevanza e persino la falsità di tutto ciò che nella religione è pratica esteriore e senza cuore. Si potrebbe dire che ogni pagina del Vangelo dimostra la verità di questo assunto. La purificazione del tempio di Gerusalemme dalle strumentalizzazioni commerciali di cui è diventato oggetto201 è preceduta da affermazioni vigorose che tendono a riportare la religione delle strutture alla religiosità primaria della vita. Vale per tutte lo scardinamento del principio religioso per eccellenza, quello del sabato, uno dei poli intorno ai quali ruota la religione d‟Israele. Gesù addita la sua finalità nel bene dell‟uomo e non nel sacrificio dell‟uomo, in fanatica sottomissione ad esso: «il sabato è stato fatto per l‟uomo e non l‟uomo per il sabato!» (Mc 2,27). Alla stessa maniera, Gesù relativizza il cultualismo, le cerimonie esteriori dei farisei, le onorificenze di ogni genere ed anche i gravami di una tradizione religiosa imposta arbitrariamente sulle spalle degli uomini202. Gesù relativizza anche il tempio, ne annuncia la distruzione, ne mette in risalto l‟insufficienza203. Anche per questi motivi è perseguitato, processato ed ucciso.

La predicazione e l‟agire profetico di Gesù sono la radicalizzazione di un comportamento che non è insolito né in Israele, né in altre religioni. Gesù congiunge felicemente la profezia con la critica religiosa, per riportare la religione alla sua sorgente e al suo fondamento più solido. Per quel che riguarda la nostra ricostruzione del valore della profezia come sentinella critica della religione, la testimonianza di Gesù riassume e dà una svolta decisiva al fenomeno che stiamo considerando anche nelle altre religioni. Dobbiamo riconoscere che in esse non sempre ciò che passa per profetismo perviene alla stessa radicalità e alla stessa carica rivoluzionaria dei profeti d‟Israele e di Gesù. Possiamo tuttavia ugualmente ravvisarvi quella tendenza, da noi già individuata, non tanto come “rappresentanza del divino” come direbbe van der Leeuw204, ma come autenticazione della stessa “Ulteriorità del divino” che prende le distanze dalle sue contraffazioni. Almeno vigila criticamente a che il divino resti tale e non sia strumentalmente adoperato come semplice utensile per un potere di natura civile o religiosa.

3.1.5. Profezia e riforma religiosa

In coerenza con quanto affermato, riteniamo che le stesse grandi innovazioni già verificatesi e che si verificano nella storia delle religioni, al fine di una purificazione o di una riforma religiosa, debbano essere considerate nella stessa ottica. Possiamo così rivisitare le grandi riforme

200 Ciò è del resto in piena consonanza profetica con testi come Am 4,4-5; Sal 50,9-13; Sal 51,18; Os 8,13; Is 1,11. 201 Cf. Mc 11,15-19. 202 Il brano che sintetizza magistralmente la critica religiosa di Gesù potrebbe essere quello in cui egli mette in guardia

contro le autorità religiose del suo popolo «perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle

della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini:

allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle

piazze, come anche sentirsi chiamare "rabbì'' dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare "rabbì'', perché uno solo è il vostro maestro

e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non

fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo» (Mt 23,3-11). 203 Cf. Mt 26,61, che riporta l'accusa contro Gesù di essersi pronunciato per la distruzione del tempio: «Finalmente se ne

presentarono due, che affermarono: "Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni"» (cf.

anche Gv 2,19; At 6,14). Gesù ha in effetti annunziato la relatività del tempio e del culto giudaico da esso rappresentato, per

affermare che esso sarebbe stato sostituto: Con che cosa? Con il suo corpo, resuscitato al terzo giorno (Mt 16,21; Mt 17,23; Mt

20,19; Gv 2,19-22 ), e con una comunità che prende il posto della precedente (Mt 16,18 ). 204 Cf. G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia della religione, cit., § 27-29.

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religiose che si sono innescate intorno alla metà del primo millennio avanti Cristo, per scoprirvi degli esempi storici, macroscopici e sorprendenti, di quella funzione profetica autopropulsiva insita nella religione. Ci autorizza a pervenire a queste conseguenze la ricostruzione che viene fatta di quei secoli da alcuni cultori delle scienze delle religioni. Tra questi, R. Brow ha ricostruito l‟evoluzione del movimento religioso dell‟area mediterranea ed orientale, partendo dall‟ipotesi che inizialmente le religioni abbiano avuto una fase di monoteismo non istituzionalizzato. In questa prima fase il rapporto con l‟assoluto sarebbe stato spontaneo e vissuto dalle singole persone o dai gruppi umani, senza particolari intermediazioni. Anche i sacrifici, oltre alle preghiere solenni, erano alla portata di tutti. Tutti potevano, al pari di Abramo e di altri patriarchi biblici, offrire sacrifici a Dio, elevare steli e consacrare siti e benedire persone205. Non avevano bisogno della mediazione sacerdotale. Né c‟era ancora l‟istituzione del tempio.

In seguito, però, si sarebbe passati all‟istituzione del sacerdozio, al quale furono sempre più delegate le funzioni “religiose”. A questa fase avrebbe fatto seguito un‟appropriazione in esclusiva di tutte le funzioni religiose da parte della classe sacerdotale, diventata vera e propria casta, fino ad arrivare a un suo dominio incontrastato. La classe sacerdotale, sempre più esigente ed economicamente interessata, avrebbe finito per sviluppare gli aspetti magici più oscuri e più accattivanti della religione: quelli con i quali pretendeva di imporre alla divinità di intervenire nei casi concreti e immediati per i quali il devoto chiedeva e pagava. Da ciò anche il dilagare di un certo strapotere del sacerdozio nel bacino storico-geografico di cui ci stiamo interessando.

La ricostruzione qui disegnata si dimostra senza dubbio interessante. Non potendo entrare nel merito della sua documentabilità storica vera e propria, a noi sembra abbastanza verosimile che la classe sacerdotale possa essersi impadronita della religione per una sorta di interessata gestione del sacro. Del resto ciò è accaduto più volte nella storia di singole religioni. In alcuni casi ancora avviene. In verità, la proliferazione e lo strapotere del sacerdozio si possono documentare anche con quanto ritroviamo in Egitto, dal 2400 a.C., in Grecia, in Persia e persino in Cina intorno al 500 a.C. Casi simili sono stati presenti anche altrove, tra i Maya, gli Aztechi e gli Incas (i cui sacerdoti offrivano, tra altri, anche sacrifici umani)206, i popoli germanici, i romani e tra gli stessi Ebrei.

Ritornando al VI secolo a.C., R. Brow fa notare che nelle religioni dell‟area mediterranea ed orientale c‟è una chiara inversione di tendenza rispetto alla loro concezione sacrificale. Al punto che in meno di cinquant‟anni alcune antiche religioni furono rifondate e il sacerdozio fu drasticamente ridimensionato, se non addirittura bandito. Egli enumera ben sette casi di religioni mondiali ancora esistenti, “riformate” o nate in vera e propria alternativa ad alcune

205 Già i primi uomini, di cui parla la Bibbia, a cominciare da Abele e Caino (Gen 3,3-5) come faceva anche Noè (Gen 8,20),

offrivano sacrifici a Dio. Ma esemplare è il comportamento di Abramo, che erige altari, offre sacrifici, pratica la circoncisione di

sua mano e si rivolge direttamente a Dio, per supplicarlo per sé e per gli altri (cf. Gen 12,7-9; 15,9-11; 17,23ss; 18,23ss; 22,19).

Anche altri patriarchi, dopo di lui, svolgono funzioni e mediazioni, (tra cui anche le solenni benedizioni), che successivamente

saranno attribuite ai sacerdoti (cf. Gen 26,25; 27,27-29; 28,18-22; 32,2.31; 35,7.13-15; 48,13-22; 49,1ss). 206 Accenniamo qui alle tre grandi civiltà, dei Maya nello Yucatán (IV-XV sec.), degli Aztechi nelle alte terre del Messico (XII-

XVI sec.), e degli Incas nelle Ande peruviane e boliviane (XIII-XIV sec.) che ebbero un notevole sviluppo prima della conquista

europea (da Colombo in poi). Infatti tra il 1519-1522 gli Aztechi furono conquistati da Hernán Cortés; mentre i Maya e gli Incas

finirono come bottino di altri conquistadores (tra i quali si ricordano Pedro de Alvarado per il Guatemala, Álvares Cabral per il

Brasile, Francisco Pizarro per il Perú. Dopo non molto tempo, la situazione di quel mezzo continente costituito dal Centro e Sud

America, ribattezzato «America Latina» appare la seguente: quattro vicereami agli Spagnoli (Nuova Spagna, Nuova Castiglia,

Nuova Granada e Río de la Plata), un unico governatorato generale per i Portoghesi.

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religioni. Sono: per l’area indiana lo zoroastrismo207, il buddhismo208 e il giainismo209, e il monismo vedànta210; per l’area cinese il confucianesimo211 e il taoismo212; per l’area medio-orientale il giudaismo, che si presenta sotto l‟aspetto dell‟autenticità profetica anticultuale ed etica tipica dei profeti d‟Israele di questa stessa epoca213.

La teoria di Brow qui riportata forse è contestata da qualcuno per alcuni suoi aspetti, ma non sembra si possa seriamente respingere in blocco. Converge con quanto anche noi sosteniamo sulla carica profetica della religione. Soprattutto coglie e visualizza, con esempi storici concreti, quella forma di protesta che sale dallo stesso animo religioso, quando questo è tutto proteso all‟ascolto di ciò che adora e verso cui si protende. L‟animo religioso si esprime con particolare forza nella coscienza profetica, la quale certo non può restare indifferente dinanzi al fatto che luoghi, tempi e atti ritenuti “sacri”, anziché essere a servizio del divino, siano tanto stravolti da diventare mezzi per conquistare a sé il divino, adoperandolo ad uso e consumo degli uomini. La conclusione alle quali l‟analisi perviene collimano con ciò che anche dal versante teologico sembra non si possa ignorare: cioè l‟indispensabilità della critica religiosa per la salvaguardia della stessa religione. Avendo portato alcune esemplificazioni storiche, resta da compiere un breve approfondimento teorico sull‟autodifesa della religione, anche a partire dalla pura e semplice critica razionale, per mostrarne l‟urgenza. Ciò ci consentirà di far fronte a forme ricorrenti di fanatismo, che inibiscono o almeno tentano di bloccare questo stesso processo. Parleremo pertanto della religione come realtà di frontiera, al di qua e al di là della critica razionale,

207 Viene detto così il movimento religioso, chiamato anche mazdeismo, religione diffusa nella Persia, prima dell'invasione

musulmana, dal dio supremo Ahura Mazda e a questa religione sarebbero appartenuti anche i Magi, figure particolari dedite

all'interpretazione dei segni e soprattutto dei sogni. La riforma di Zoroastro (conosciuto in Europa, grazie a Nietzsche, con il

nome di Zarathustra) sembra, in una materia molto controversa quale il mazdeismo, debba collocarsi nella prima metà del VI

secolo a. C. (altri arrivano a collocare Zoroastro nel 1500 a. C.). I 17 inni, le Gāthā, contenenti la rivelazione da lui ricevuta,

presentano l'immagine di un dio buono e amante dell'uomo, creatore del mondo e di alcuni esseri celesti, i cui nomi sono

«Benevolenza», «Verità», «Devozione», «Dominio», «Integrità» e «Immortalità». Se il mondo è deturpato dal male, ciò si deve

all'opera di uno spirito distruttore. L'uomo dovrà lottare contro il male per far prevalere il bene, perché tutti hanno la

responsabilità e possibilità di sceglierlo. Corona questa dottrina la credenza nella remunerazione futura e nella risurrezione dei

morti. 208 Il grande riformatore è Buddha (in sanscrito l‟Illuminato), Siddharta Gautama (ca. 560-480 a. C.) del nobile casato degli

Shakya di Kapilavastu, nell‟India settentrionale. Ne riparleremo a tempo debito. 209 Religione, nata nell'ambito dell'induismo, che ha influenzato anche Gandhi, con la dottrina della ahim-sā. Con essa si

ritiene che l'universo sia animato da un numero infinito di anime, da cui la necessità della non violenza. E' nata ed è presente

nell'India settentrionale, ad opera dell'insegnamento di Jin-a, (il Conquistatore), cioè Vaddhamāna, che l'ha incentrata sulla

pratica della liberazione dalle passioni e dalla materia, al fine di raggiungere la salvezza già in questa vita. 210 Religione che si afferma soprattutto ad opera del filosofo indù Sāmkara, che, esponendo il vedānta, stadio terminale

della letteratura sacra induista, sostiene che la molteplicità è solo apparente (māyā), essendo la realtà una cosa sola, Brāhman-

ātman, nella quale è compreso sia il mio io che quello altrui. 211 Religione che risale a Confucio (551-479 a. C.) e che spesso viene messo in rapporto diretto anche con Mencio (371-289? a.

C.) e Hsün-tzu (298-238 a. C. ca.) e che si basa su un insegnamento essenzialmente etico per pervenire al dominio delle passioni

e alla pienezza della gioia. Partendo dall'idea-guida della bontà del cuore (jen), Confucio propone una via praticabile da tutti,

superando le differenze sociali, perché in una sorta di autotrasformazione si arrivi al benessere sociale attraverso il rispetto e la

riverenza reciproca (li). 212 Corrente filosofico-religiosa, risalente a Lao-tzu (Laoze) e a Chung-tzu (Zhuangzi) che inculca, al contrario del confu-

cianesimo, il completo disincanto e distacco da tutto ciò che agita l'uomo o lo attira, attraverso l'inazione e il controllo di sé

ottenuti anche con l'aiuto di tecniche respiratorie ed atti ascetici e liturgici, per poter cogliere il tao (dao), realtà assoluta e

trascendente. 213 R. Brow non esclude che già la predicazione di Isaia, dell'VIII secolo, abbia influito, insieme con quella successiva di

Geremia ed Ezechiele, sui riformatori religiosi dell'epoca per la purificazione ed eticizzazione delle altre religioni,

compromettendo il cultualismo e il potere clericale. Cr. R. BROW, «Le origini della religione», in: AA. VV. Le religioni del mondo,

cit., 46.

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e delle forme refrattarie alla critica religiosa assunte dai nuovi movimenti religiosi. Questo confronto ci aprirà la strada ai prossimi capitoli, nei quali presenteremo le espressioni che la stessa critica ha assunto nel mondo greco-romano, nel cristianesimo, e nelle altre epoche storiche.

3.2. Singolarità della religione: al di là e al di qua della critica razionale

3.2.1. Risorse e limiti della ragione

Dalla nostra riflessione stanno emergendo alcune particolarità della religione, che, a motivo della sua stessa “natura”, è certamente poco assimilabile ad altri fenomeni umani. Qualche analogia si può ancora trovare, ma solo in quelle esperienze che sono direttamente collegate ad essa o ne sono un‟ulteriore manifestazione. Tale riteniamo l‟esperienza dell‟amore e le esperienze spirituali in genere, ma a ben considerare le cose, proprio l‟esperienza dell‟amore, come quella della libertà, della poesia, sorella gemella della profezia, e della gratuità appaiono forme integrative, se non costitutive della stessa esperienza religiosa. Dovremo tornare sull‟argomento, senza mai dimenticare che almeno l‟amore è stato ricondotto da più parti alla religione come esperienza ad essa coessenziale, vale a dire come appartenente alla sua stessa essenza. Non a caso una sua etimologia, per quanto tacciata di inesattezza filologica, resta l‟intuizione forse più alta di ciò che la religione è veramente: re-eligere, riamare, capacità di amare, di amare sempre. Ciò che accomuna amore e religione costituisce anche la loro singolarità: ciò che non contraddice la ragione eppure va oltre la ragione.

Riprendendo Agostino sull‟amore, si può affermare dell‟amore ciò che Pascal ha dichiarato del cuore: il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Analogamente si potrebbe concludere che la religione ha anch‟essa le sue ragioni che la ragione non conosce. E tuttavia, come abbiamo visto, proprio il riconoscimento da parte della ragione dei suoi limiti, apre all‟esperienza religiosa ed è ad essa confinante. Si può qui riprendere un‟espressione che ci è apparsa efficace e che afferma: «La forza della ragione è nei suoi limiti»214. Si sollevano subito due problemi: di che natura siano le ragioni della religione e se esse possano essere in effettiva contraddizione con la ragione o non siano piuttosto in accordo con l‟insieme delle altre ragioni di natura individuale e sociale215. Alle due domande non si può rispondere con la stessa determinazione. Solo alla seconda si può senz‟ombra di dubbio replicare che le ragioni della religione, come quelle del cuore, non sono né possono essere in reale contraddizione con la ragione, ma solo al di là di essa. Di fronte alla prima invece si dovrà umilmente ammettere che non siamo in grado di determinarne la “natura”, e a rigore nemmeno di sapere se si possa parlare di “natura” delle ragioni della religione. Non per una sorta di rifiuto apriorico di ogni ricaduta nella metafisica, ma solo perché anche la metafisica, per chi abbia ancora le risorse sufficienti per intraprenderla, non può valicare la soglia dell‟argomentare razionalmente sull‟essere. Ma argomentare razionalmente costituisce contemporaneamente la grandezza e il limite della conoscenza umana. Mai l‟analisi razionale, esclusivamente razionale e limitatamente alle risorse di cui dispone la ragione, potrà realmente spingersi oltre le sue frontiere.

214 A. M. PETRONI, «La forza della ragione è nei suoi limiti», in Domenica-Il Sole 24 ore (9/07/00) 34. 215 Sebbene a un diverso livello, si ripropone qui la discussione sulle ragioni che sono alla base di un comportamento

sociale, incluso quello religioso (spesso ancora confuso da alcuni scienziati con quello magico). Se per molti tali ragioni sono

nell'ottica di un'utilità attesa, per altri si tratta solo di "buone ragioni", quelle cioè che, a prescindere dalla loro obbiettività, siano

individualisticamente ritenute tali e pertanto sufficienti. Sull'argomento cf. il nr. 1 della rivista Mind and Society 1 (2000),

Rosenberg e Sellier, Torino. Per la posizione tradizionale cf. anche H. SIMON, Scienza economica e comportamento umano, Edizioni

di Comunità, Torino 2000.

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Giunta fino a Dio, quando le riesce di pervenirvi, la metafisica non può fare altro che asserire che Dio è l‟Essere immobile che tutto muove, l‟Uno e l‟Unico, il tutto Sussistente e la radice di tutto, L‟Essere Assoluto e il capofila di ogni altro essere. Ma potrà, in nome delle sue ragioni asserire che Egli è comunità d‟amore, che è l‟Amore stesso, che come amore sempre fluisce e tutto sorregge? Di più: potrà affermare che essendo l‟Amore, Dio è disposto a svuotarsi di sé, a cercarsi anche lui una via tra le vie dell‟uomo, a calcarla per incontrare le nostre strade, congiungendo la sua via ai nostri sentieri interrotti? Non sembra che la metafisica possa dire tutto questo. Almeno non lo può la metafisica tradizionale, quella le cui ragioni sono - e non può essere diversamente - sempre quelle della ragione. Diversamente, cosa resterebbe di una ragione che non considerasse le sue argomentazioni e i propri processi logici come irrinunciabili? Rese malferme quelle ragioni, cosa resterebbe della ragione? Resta è vero il riconoscimento dei propri limiti. Qui però la ragione mostra la sua grandezza e apre una pista alla religione.

Detto questo, non si è affermato che le uniche risorse che abbiamo per pervenire al mistero grandioso dell‟amore, come della religione o sono quelle razionali o non ve ne sono delle altre. A partire dal riconoscimento dei propri limiti razionali (che è la prima risorsa esistenziale dell‟uomo), sono da menzionare le risorse del “cuore”, dell‟intuizione, della vita, della stessa esperienza. Del resto è questa la via alternativa alla deduzione e all‟induzione ravvisata nell‟intuizione da Husserl, maestro di Heidegger. Una delle sue allieve più informate e sensibili, Edith Stein, riflettendo su questa via come sentiero verso la Verità ha potuto individuare in Heidegger la sporgenza del nostro stesso essere come «qualcosa contro cui urtiamo». Se ciò fa arrestare il filosofo alle soglie dell‟infinito, «senza il quale non si comprende alcunché di finito e il finito in quanto tale»216, proprio attraverso la conoscenza dei nostri limiti si affaccia la domanda se non siamo spinti proprio da questi ad andare oltre quegli stessi confini. Crediamo di poter rispondere affermativamente, perché la ragione - e qui è un‟altra sorprendente peculiarità che emerge dal suo “funzionamento” in atto - può spingersi oltre se stessa, almeno fino al punto di poter dire: ciò che mi supera non è contro di me, non è assurdo e non è irrazionale. E solo ciò che si sporge dall‟altra parte di me senza annientarmi, ma chiedendo spazio per affermarsi.

La ragione ha pertanto la chiave per discernere tra il razionale e l‟irrazionale (ciò che non è possibile perché assurdo) e tra il razionale e il metarazionale (ciò che non è assurdo, ma che essa non può adeguatamente afferrare). In forza di ciò proprio la ragione appare come naturale alleata del mistero. Alleata non dell‟enigma, ma di ciò che per essa traluce dal mistero come densità e pienezza, come ricchezza di vita. Paragonata ad un viandante che passa sotto le finestre chiuse di una sala dove si festeggia, la ragione può, al pari di quell‟uomo, comprendere che ciò che egli non vede è pur sempre una dato reale, anzi una festa, e come per una festa già in atto, anch‟essa può avvertire un moto di ragionevole gioia.

Per tutti questi motivi la ragione è una alleata anche della religione, perché aiuta l‟uomo ad individuare le patologie, le “malformazioni” e le devianze presenti non nella religione in sé, ma negli uomini, che possono incappare nel fraintendimento del sentimento religioso. Agisce in questo caso come anticorpo. Apre al metarazionale a partire da sé stessa, prendendo coscienza di sé stessa e di ciò che la trascende.

216 Cf. E. STEIN, «La filosofia esistenziale di Martin Heidegger», in ID., La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia

cristiana, Città Nuova, Roma 1997, 215-217.

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3.2.2. Afferrare il senso di ogni cosa, restandone afferrati

Intanto abbiamo precisato che, nonostante tutti i suoi limiti, anche la ragione sembra possa allearsi con le ragioni dell‟intuizione, per pervenire a quella soglia dalla quale ogni altra cosa riceve senso. Possiamo in qualsiasi momento e in qualsiasi contesto condurre un‟analisi apparentemente semplice, ma che può condurci molto lontano. Possiamo muoverci con la ragione, ma per spingerci oltre di essa: partire dalla ricerca di un senso parziale, per scoprire sensi sempre più grandi, fino ad arrivare almeno alla richiesta pressante di un senso totale. Prendendo in prestito da K. Rahner la sua domanda se ci sia un senso totale delle cose, anche noi ci interroghiamo sul senso di tutto ciò che esiste, cioè sul senso globale217. Perché non dovremmo farlo? È proprio contro la ragione chiedere una senso totale e non solo parziale? Non sembra, anche perché sarebbe davvero strano che possa aver senso un granello di sabbia (comprensibile sensatamente in un cumulo, su una spiaggia o altrove), e non ci sia possibilità di dare senso alla vita umana!

Ma procediamo con un paragone più immediato. Il foglio che sta sul mio tavolo ha un senso parziale, circoscritto in ciò che possiamo chiamare orizzonte di senso parziale, che va oltre il foglio stesso: la scrivania sulla quale poggia, l‟essere qui per degli appunti, per una lettera ecc. Ma anche la scrivania, orizzonte di senso per il foglio, richiede, a sua volta un orizzonte di senso più vasto. Più vasto non solo per motivi spaziali, ma perché si capisca il perché essa ci sia. In questo caso una casa, un‟aula scolastica, uno studio, costituisce il suo orizzonte di senso che la rende comprensibile. Così sarà della stessa aula. Sarà comprensibile sensatamente solo all‟interno di un orizzonte che è quello della scuola, di un‟università e così via. Ogni senso appare pertanto sempre incastonato in un orizzonte più vasto. Ma spingendosi verso orizzonti concentrici, che si aprono in orizzonti sempre ulteriori, si perviene a un ulteriore ed ultimo orizzonte, oltre il quale non è possibile andare. Tale orizzonte che contiene tutti gli altri è il senso totale, che dà senso a tutti i sensi parziali.

La domanda «c‟è questo senso globale di tutti i sensi settoriali?» sembra di primo acchito, sottopormi ad una tensione che è al di là della mia portata. Tuttavia non posso eluderla, altrimenti dovrei rassegnarmi a dire che nessuna cosa ha più senso, giacché ogni orizzonte di senso più piccolo si sorregge in uno più grande. Posso rispondere con la ragione che tale senso globale esiste, e le mie cose di ogni giorno, il mio stesso io, come il mio interrogare, fanno parte di esso e in esso hanno una loro ragione. Esiste ed io ne faccio parte, ma io non lo potrò mai abbracciare interamente. Che cos‟altro mi resta da fare? Abbandonarmi ad esso, sapendo che ciò non è contro la ragione, anzi riconoscendo che la ragione mi ha condotto fino alle sue porte. Quest‟atto di credito non è dunque irrazionale, al contrario è plausibilmente razionale. Ma lo è interamente? Vale a dire: la ragione mi costringe ad affermare che quell‟ultimo orizzonte è Dio, così come in un procedimento logico-matematico si arriva da alcune premesse ad una conseguenza diretta e indiscutibile? A Dio, insomma, la ragione può pervenire come al risultato di un teorema? Non sembra proprio così. E tuttavia con la ragione si può arrivare fin nei suoi

217 K. RAHNER, Scienza e fede cristiana, Paoline, Roma 1984, 281-282: «Il senso su cui ci interroghiamo (da non confondere

con quello delle singole realtà dotate di senso) deve essere e rimanere sempre il mistero inabbracciabile, mai perscrutabile, mai

manipolabile [...] Solo dove l‟uomo accetta questa ineffabilità del senso che lo abbraccia e che non è da lui abbracciato e quindi

anche della propria esistenza, solo dove l‟ammette e le si affida con amore, ha ritrovato ed accettato il suo vero essere. Egli non

accetta il senso totale come un senso da lui dominato, ma se ne lascia dominare [...] Noi prendiamo seriamente la nostra

questione di un senso totale, riteniamo valida la risposta che vi diamo, riteniamo perciò l‟esistenza di un tale senso universale,

verso cui andiamo senza fabbricarcelo da noi, una realtà assoluta e chiamiamo tale realtà Dio. La questione del senso e la

questione di Dio sono perciò per noi identiche».

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paraggi. Se così non fosse, la religione non sarebbe universalmente esistita. Ma allora si arriva alla religione per via della ragione? Nemmeno questo è completamente esatto, ma è altrettanto vero che l‟esperienza religiosa non è contro la ragione, essendo un‟esperienza di globalità dell‟uomo (non solo della sua razionalità, ma anche della sua sfera affettiva, esistenziale ecc.).

Questa riflessione ci porta anche a concludere che la religione non può porsi contro la ragione, ma solo al di là di essa. Qualora ciò succeda, allora la religione si mette contro l’uomo, e in definitiva, contro Dio. È vero: la ragione si ferma dove inizia la religione; appena la ragione andasse oltre di essa, questa cesserebbe di esistere. Tuttavia la ragione è anch‟essa la sentinella della religione e in questo convergono, almeno per quest‟operazione di salvaguardia della purezza di quella, la profezia e il controllo critico. Essi si incontrano nella stessa finalità, ma provengono da prospettive diverse: mentre la ragione e il controllo critico vengono dall‟uomo, la profezia viene dal divino. In ogni caso si verifica un‟effettiva vigilanza sull‟autenticità dell‟atto religioso e tuttavia, siccome anche l‟uomo proviene da Dio e così la stessa sua ragione, si deve alla fine ammettere che anche ciò che vigila sulla religione proviene al pari di questa ugualmente da Dio.

3.3. La “critica religiosa” rende plausibile l’Ulteriorità come assoluto

La critica religiosa è stata spesso considerata la più fiera avversaria della religione. In effetti non è così, almeno non sempre e in molti casi, come andiamo dicendo, può prestare un servizio indispensabile alla religione stessa. Ci sono ovviamente delle condizioni, senza delle quali ciò non avviene, anzi finisce con il dare ragione a quanti la ritengono la negazione di essa. La prima è che tale critica sia rispettosa dei limiti strutturali della ragione, dalla quale muove: deve sempre essere cosciente di non poter andare oltre se stessa, sicché deve fermarsi prima di pronunciare un qualsiasi giudizio sull‟esistenza o meno di ciò che costituisce l‟”oggetto” della religione. Non può sindacare né sul valore del “Divino” in sé, né sul valore del “Divino” così come viene avvertito dall‟uomo. Non può asserire nulla dell‟Ulteriorità avvertita dall‟essere umano nella globalità della sua esperienza. Parimenti non può affermare nulla di ciò che è dietro l‟Ulteriorità, vale a dire che cosa corrisponda a tale realtà con la quale abbiamo indicato la percezione del senso totale, di ciò che chiamiamo “Assoluto”, “Infinito” o “Divino”.

La seconda condizione perché la critica religiosa resti alleata e non nemica della religione è che la religione stessa ammetta che se essa è al di là della ragione, non può essere sostanzialmente contro di essa. Nel senso che la religione non può violare alcuni limiti che la ragione ha in comune con essa, limiti che provengono dalla creaturalità dell‟uomo e quindi formano una sorta di sistema pre-religioso inviolabile, senza del quale la religione non avrebbe senso. Riducendo al minimo denominatore comune alcune forme nelle quali tale inviolabilità si presenta, si può asserire che la religione non può profanare ciò che la coscienza avverte come sacralità della vita umana, come onestà intellettuale e interpersonale, come solidarietà complessiva verso gli altri, come rispetto della libertà, in quanto assenza di costrizioni tanto di natura fisica, che psichica e morale. Vogliamo con ciò limitare la religione? Non ci sembra. Al contrario cerchiamo di cogliere quella sacralità pre-religiosa della vita e delle sue manifestazioni fondamentali, proprio per salvaguardare la genuinità della religione. In nome di che cosa si può compiere una simile operazione? In nome della religione stessa e delle sue esigenze primarie: la difesa dell‟integrità a tutti i livelli di quei due fuochi che formano l‟ellisse dell‟esperienza religiosa, il rispetto dell‟uomo come uomo e il rispetto dell‟Ulteriore, il Divino, come Divino. Una posizione intermedia non è pensabile. Sarebbe assurda e per ciò stesso va lasciata cadere.

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Sono questi i motivi che ci fanno concludere che proprio la critica religiosa rende plausibile l‟Ulteriorità come assoluto. L‟Ulteriorità non è infatti ipotizzabile come realtà che stritoli l‟uomo e contraddica le esigenze etiche fondamentali che ne impastano la sua ultima struttura. L‟Altro attinto dall‟Ulteriorità non potrebbe chiamarsi “Assoluto”, non potrebbe manifestarsi come il “Divino”, potrebbe solo essere una forma di assolutismo di ciò che è intrinsecamente immorale. Ma ciò che è intrinsecamente immorale non ci sembra abbia possibilità di assurgere al livello di Assoluto. È un‟affermazione che meriterebbe di essere meglio documentata. Non possiamo farlo, almeno per ora. A noi sembra però frutto di un‟intuizione che non può essere smentita. Intanto si può razionalmente sostenere che la critica religiosa, adempiute le condizioni previe summenzionate, garantisce non solo l‟autenticità della religione, ma costituisce persino un segno non indifferente della plausibilità dell‟Ulteriorità come Assoluto.

Cosa significa ciò? Significa che la critica religiosa, proprio perché non deflette da quel sistema etico pre-religioso accennato, ma compie una continua opera di salvaguardia nei confronti della religione come rapporto con l‟Ulteriorità, rende plausibile il fatto che con essa si esprima l‟Assoluto in quanto tale. L‟Assoluto infatti non può per definizione essere contraddittorio con se stesso, né con il suo intermediario costituito dall‟essere umano.

A livello storico, si possono indicare alcuni correttivi, idonei alla salvaguardia della religione, che di fatto vengono attivati dalla critica religiosa (come del resto anche dalla profezia e dalla teologia), sempre supposto che le espressioni religiose storiche della religione accettino il valore terapeutico della critica religiosa. A livello personale la critica religiosa può e deve smascherare come l‟essere umano possa essere in ogni momento non solo influenzato, ma plagiato, plasmato da un‟autorità vissuta come “esterna” e contraria alle esigenze interiori della propria coscienza etica, fino a credere che la sua vita debba essere consegnata non tanto a Dio, ma ad un‟altra persona, ad una associazione o a un‟esperienza. Quando un simile plagio ha luogo, l‟effetto è che si mette a tacere non solo la coscienza dell‟individuo, ma anche la stessa profezia. Nella stessa maniera anche la ragione risulta imbavagliata, perché consegnata nelle mani di capi che pensano e decidono per le singole persone.

La religione viene invece restituita alla sua purezza, quando la critica religiosa, come anche la profezia, intervengono per additare gli abusi commessi in nome della religione a livello sociale. Qui l‟esperienza religiosa può essere gestita con strumenti di potere gerarchizzati in modo istituzionale, con una dinamica interna, che crea da sé le sue leggi e riduce gli adepti a sudditi. Il dato più sconvolgente è che quando ciò accade, la legge interna al gruppo è scambiata per legge divina. L‟assolutismo è l‟unico sbocco e si può nascondere sotto diverse forme: assolutismo come controllo psicologico, morale e sociale delle persone. A questo punto sembrerebbe non si possa fare nient‟altro, perché la critica religiosa viene liquidata sul nascere come contraria a Dio e alla fede. Anzi viene tacciata di essere un‟insufflazione demoniaca. Siamo ad un punto di non ritorno? L‟unica possibilità di riscatto è la protesta della profezia.

3.4. Motivi, ambiti e forme della critica religiosa

Abbiamo già visto come la ragione si affidi alla religione, non per annientarsi, ma solo perché si rende conto che con essa termina la sua competenza. Non si ritira del tutto, perché in un secondo momento, quello più propriamente critico-riflessivo, l‟uomo può e deve confrontare l‟esperienza religiosa in atto con le forme religiose che di volta in volta il suo rapporto religioso fondamentale assume in lui (religiosità personale). Proprio l‟uomo deve inoltre confrontarla con le forme storiche e socialmente condizionate di questo stesso rapporto, considerandolo nella sua generalizzazione, rispetto agli altri uomini come lui (religione storica assunta dall‟individuo). In

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questa sua opera di raffronto l‟uomo ricorre nuovamente alla critica religiosa. Essa però rimane ancora al di qua dell‟esperienza di fondo indicata come primo momento. Non la mette in discussione, solo ne costituisce una sorta di verifica, ai fini di una sua autenticazione

Può darsi ancora un caso, alternativo a questi. È quello di chi si spinge oltre il limite del razionale e non ammette che esista ciò che lo supera. Rimane per così dire prigioniero della sua stessa razionalità, fino sporgersi a voler catturare l‟Assoluto. Per principio ritiene che ci sia una spiegazione razionale esaustiva non solo per ogni forma religiosa, ma per la religione come tale, ritenendola fenomeno non primario, ma secondario, produzione indotta, frutto di fattori diversi, quali la società, la psicologia, la paura, i diversi problemi storici che l‟uomo si è trovato a dover affrontare. In queste condizioni la critica religiosa si esaurisce in se stessa e anziché diventare veicolo verso la religione, ne segna la fine.

Escludendo tale estremo, che dà luogo all‟ateismo, fenomeno, a come sembra, anch‟esso religioso (o subreligioso) che occorre considerare a parte, non si può misconoscere che la capacità del discernimento critico affiora nella stessa storia delle religioni e della critica religiosa. Tale capacità si innesta nella stessa razionalità umana e nei processi di crescita dell‟animo umano e della sua cultura. Costituisce il punto d‟arrivo di un processo di affrancamento dai dati della tradizione, quando caduto l‟argomento ex autoritate (che si avvaleva del giudizio indiscusso di maestri precedenti), la ragione ha dato valore scientifico alla sola sperimentazione e a ciò che era dimostrabile con strumenti sempre comunque verificabili.

Per la religione ovviamente le cose non stanno proprio come con le scienze sperimentali e tuttavia la critica religiosa non è del tutto disgiunta da quel processo di affrancamento storico che abbiamo accennato, anche se, come abbiamo già visto e come documenteremo in seguito, essa è nata prima ancora di quel processo. Si può dire che ha contribuito a innescarlo, nel momento in cui, mettendo in discussione le forme patologiche, assolutistiche, magiche e superstiziose della religione, ha dimostrato che non tutto ciò che comunemente “si dice” e “si crede” ha lo stesso valore. Non occorre infine dimenticare che un‟ulteriore causa che spesso l‟ha scatenato e ancora lo alimenta può risiedere nella scoperta del male e dei problemi fondamentali dell‟uomo, a partire dalla propria esperienza storica concreta. In quest‟ultimo caso la critica religiosa non di rado è una forma di protesta per vicende particolari che sembrano senza sufficiente risposta (la sofferenza degli innocenti, alcune disgrazie capitate ecc.).

Tutti questi motivi, unitamente al processo di emancipazione sfociato nell‟illuminismo218, hanno provocato nel nostro mondo occidentale una serrata critica religiosa. Questa però non deve necessariamente rigettare la rivelazione o l‟esperienza religiosa ritenendole impossibili e frutto di ignoranza, come ha fatto parte dell‟illuminismo (per altro senza alcuna motivazione “razionale”).

218 Il termine illuminismo allude alla capacità illuminatrice della ragione ed indica il vasto movimento culturale, che nato tra

la rivoluzione inglese e quella francese, vuole recare i lumi della ragione in ogni campo dell‟attività umana. Con ciò ritiene di

rinnovare il metodo scientifico, la vita sociale, la cultura e le istituzioni. Mira pertanto a combattere i pregiudizi e, in aperta

polemica contro la tradizione, cerca un nucleo di verità morali originario e comune a tutti. Esclude ogni altra forma di

conoscenza o di esperienza che non sia quella razionale. Esclude quindi la rivelazione ed ogni possibile rivelazione, ritiene in

genere le varie forme religiose come superstizioni destinate a scomparire con l'avanzare della religione della ragione (senza

intervento di Dio, senza Cristo e senza chiesa). I maggiori rappresentanti dell‟Illuminismo furono: in Francia, Voltaire e gli

enciclopedisti, in particolare Diderot e d‟Alembert; in Germania, Lessing; in Italia, Genovesi, Beccaria e altri.

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Certamente non è accettabile, anche perché smentita dai fatti, quella critica religiosa che aveva previsto la scomparsa della religione dalla faccia della terra. Nonostante l‟avanzare del progresso tecnico-scientifico, proprio la religione sembra oggi più viva che mai, anche se non sempre nelle forme più felici. Tra le tante contraddizioni della nostra epoca, è sotto gli occhi di tutti anche questo paradosso del sacro: la sua persistenza, nonostante tutte le altre affermazioni in senso contrario. Per chi ancora si ostina a credere (anche questa è credenza) nella sua futura scomparsa, il suo contesto più generale è l‟interpretazione della storia come un unico grande processo di “secolarizzazione”, cioè una visione del mondo (secolo) secondo i suoi stessi principi “secolari”, senza alcun riferimento a Dio e alla religione. Il paradosso del sacro consiste in questa persistenza che sfida ogni affermazione contraria. Per quale ragione? Dal versante della sociologia qualcuno suggerisce che la religione è

«il metaumano che più occorre alla convivenza umana, pena l‟appiattimento del vivere, l‟offuscarsi del parametro o punto di riferimento contro cui misurarsi, la “perdita di senso del problema”, ossia pena la perdita di ciò che vi è di propriamente (unicamente) umano nell‟uomo»219.

Il metaumano (oltre l‟uomo), come viene denominato, è ciò che abbiamo anche indicato come meta-razionale, coincide con l‟Ulteriorità, che è il polo minimale e irrinunciabile della religione. Non può essere però invocato come un fatto meramente funzionale alla sopravvivenza della società, ma è qualcosa di connaturale all‟uomo stesso. Una giustificazione della religione in questi termini, criticata da altri come giustificazione sociologica poco pertinente, a noi sembra che abbia il suo valore nell‟aver additato la positività utopica insita in ciò che è chiamata la ragionevolezza dell‟uomo. Questa sembra affermare che l‟uomo trova e troverà sempre forza per non rassegnarsi alla mera razionalità formale, quella del calcolo, della macchina e della burocrazia, che ne schiaccerebbe tutte le speranze. Al contrario, proprio la ragionevolezza sostanziale smaschera la razionalità formale e richiama continuamente l‟essere umano ad un senso più globale della sua esistenza. Ciò viene a convergere con il discorso dell‟orizzonte globale di senso che abbiamo già fatto, perché è la richiesta pressante che sale dall‟uomo verso una sensatezza del vivere (la ragionevolezza), verso ciò che non può assolutamente essere soddisfatto dalla razionalità di tutto ciò che la scienza e la tecnica hanno già escogitato o potranno offrire nel futuro.

219 F. FERRAROTTI, Il paradosso del sacro, Laterza, Roma-Bari 1983, 118.